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22. Surrealismo e dissociazione creativa:
il “caso” Dalí e gli effetti delle droghe sulla
creatività artistica contemporanea
di Giuseppe Galetta
L’enorme influenza esercitata dalla psicanalisi freudiana
all’indomani della pubblicazione dell’opera L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud nel 1899, ed il grande impulso dato successivamente agli studi sull’inconscio, spinsero André Breton ad interrogarsi sui limiti espressivi del Simbolismo e del Cubismo, portando a
compimento le istanze del Dadaismo ed aprendo nuove strade alla
creatività artistica dei primi del Novecento. Nel Primo Manifesto Surrealista pubblicato nel 1924 egli delineò i punti chiave del nuovo movimento avanguardista, fornendo una chiara definizione della nuova
poetica artistica come «Automatismo psichico puro mediante il quale
ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto o in altre
maniere, il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi
controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione
estetica o morale» (Breton, 1924): con il Surrealismo si assiste dunque
al tentativo programmatico di fondare una vera e propria cultura della
dissociazione creativa. Il Surrealismo nacque infatti come movimento
di contestazione rispetto alle convenzioni artistiche del tempo, frutto
della razionalità cosciente e di scelte espressive condizionate dal determinismo positivistico imposti dai dogmi culturali imperanti: il grido
di libertà lanciato dal nuovo gruppo di artisti avanguardisti faceva appello a tutte le possibilità immaginative dell’inconscio, con l’intento
programmatico di giungere ad uno stato mentale in grado di superare i
limiti della creatività cosciente e razionale, determinando l’accesso ad
una nuova dimensione conoscitiva ed espressiva finora repressa. In
questa “zona grigia”, dominio di nevrosi ed isteria, psicosi ed ossessioni, manie e disordini mentali, si inserisce la figura di Salvador Dalí,
che attraverso la sua personalità trasgressiva e stravagante, le manife-
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stazioni dissacranti ed anticonformiste, il temperamento scapigliato e
bohémien, divenne ben presto l’icona del Surrealismo, ma anche un
“caso” degno di analisi psicologica, come ebbe a dire lo stesso Freud
dopo averlo conosciuto personalmente tramite l’amico comune Stefan
Zweig (Rose, 1983).
Infatti, la personalità psicotica e decisamente narcisistica di Dalí si
esprimeva attraverso l’esibizione di un individualismo sfrenato, un delirio di onnipotenza ed mania di grandezza, che si condensavano nel
desiderio ossessivo-compulsivo di ostentare un “personaggio” che con
gli anni sarebbe diventato la caricatura di se stesso: freddo calcolatore
e sapiente stratega della propria immagine, fu impresario di se stesso,
secondo i meccanismi perversi dell’industria culturale e dello show
business internazionale, tanto da diventare un testimonial pubblicitario. Personalità geniale e creativa, ma anche nevrotica, sin da bambino
aveva dimostrato un talento naturale per il disegno e la pittura, oltre ad
un carattere irascibile che nel 1926 gli provocò l'espulsione dall'Accademia di Belle Arti poco prima di sostenere gli esami finali, ritenendo
che nessuno in quell'istituto fosse abbastanza competente da sottoporlo ad un esame.
La vita mondana, il culto della personalità, le stravaganze dandy ed
il comportamento eccentrico, deviante e irrequieto, espressione di una
personalità narcisistica e borghese, incline al lusso ed accondiscendente ai riti mediatici della stampa scandalistica, condussero alla fine Dalí
a scontrarsi con lo stesso Breton (che nel frattempo aveva dato una
svolta politica al movimento aderendo all'ideologia marxista), il quale
lo espulse dal gruppo surrealista e, anagrammando il suo nome, lo definì Avida Dollars con chiaro intento denigratorio. Ma Dalí, con il suo
sguardo allucinato ed i vistosi baffi all’insù, era ormai diventato il
simbolo vivente ed incarnato dell’immaginario surrealista: «Il Surrealismo sono io», rispose ad un giornalista che gli chiedeva cosa fosse
appunto il Surrealismo.
Lo sforzo di accedere ad un “grado di realtà superiore”, dove la
dimensione onirica potesse prendere il sopravvento sulla razionalità
cosciente, spinse Dalí a ricercare nuove forme di esaltazione espressiva, portando all'estremo le possibilità di rappresentazione pittorica attraverso l’utilizzo di metodi sempre più estremi di ispirazione, in grado di attingere alla dimensione più profonda dell’inconscio, che
all’artista appariva come un mondo iperbolico e surreale, popolato da
creature deformi, immagini distorte e simboli archetipali. La spasmodica ed ossessiva ricerca delle chiavi di accesso al mondo oscuro e misterioso della psiche, depositario delle psicosi dell’artista, doveva necessariamente passare attraverso la perdita della propria identità co-
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sciente ed il distacco dalle certezze razionali del mondo fisico. In questo mondo fantasmatico ed immaginifico le dimensioni del tempo e
dello spazio non avevano più alcun senso, come testimoniato dalla ben
nota rappresentazione degli “orologi molli” nel famoso dipinto La
persistenza della memoria (1931).
Dalí attinse infatti ad un repertorio tecnico d'ispirazione costituito
da appunti o disegni tratti dai propri sogni, nonchè dall'induzione artificiale del sonno e di stati alterati di coscienza tramite l'assunzione di
sonniferi e allucinogeni vari, facendo della sperimentazione uno dei
capisaldi della sua attività artistica (Dalí, 1965). L'intento dichiarato
era quello di fissare nelle sue opere le immagini irreali attinte durante
le fasi del sonno, abbandonandosi agli effetti dissocianti ed anestetizzanti provocati da sostanze psicoattive capaci di liberare l’artista dai
freni inibitori del Super-Io e della razionalità cosciente, ma anche dalle norme morali e dai condizionamenti culturali, inducendo in tal modo un’impetuosa irruzione della creatività attraverso l’automatismo
psichico prodotto dall’esperienza psichedelico-dissociativa. Lo stato
infravigilico era quindi perfettamente funzionale alla ricerca e
all’esaltazione di immagini suggestionanti ed ipnagogiche, misteriche
e visionarie, esoteriche e paradossali, tanto da voler deliberatamente
sperimentare in prima persona stati di ipnosi e di trance come mezzi di
dissociazione dalla realtà e di scissione dalla propria coscienza. Ciò
che l’artista avrebbe rappresentato sarebbero state le tracce mnestiche
del suo viaggio psichedelico compiuto sotto l’effetto di sostanze psicotrope, volontariamente assunte allo scopo di accedere alla dimensione più profonda del suo inconscio. Dunque, non sarebbe del tutto
azzardato affermare che la genialità creativa di Salvador Dalí sia stata
in qualche modo legata anche all’uso di sostanze psicoattive come
mezzo per accedere a nuove capacità espressive mai sperimentate
prima dagli artisti, amplificando le già notevoli capacità creative di
uno degli artisti più geniali del nostro tempo. Lo stesso Dalí, in uno
stato di esaltazione delirante e creativa, affermò: «Io non mi drogo, io
sono la droga!».
Nel corso della sua incessante ricerca di nuove fonti d'ispirazione e
nello sforzo di esplorare i meandri dell'inconscio alla ricerca di immagini suggestionanti, Salvador Dalí introdusse una nuova tecnica di
stimolazione creativa, definita “metodo paranoico-critico” dallo stesso
artista nel suo saggio La conquista dell'irrazionale, pubblicato nel
1935. Tale tecnica si affiancò alla pratica del gioco surrealista noto
come cadavre exquis, una procedura collettiva di creazione artistica
basata sulla casualità e coralità della ricerca artistica, antesignana del
più moderno brainstorming: si trattava di riunioni in cui gli artisti do-
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vevano lasciar fluire liberamente e spontaneamente parole o immagini
senza censura o filtri di natura razionale per giungere alla creazione di
un testo collettivo basato sull’automatismo e sulla la libera associazione di idee e di pensieri. Come affermato dallo stesso artista, il “metodo paranoico-critico” doveva essere «un metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basato sull'associazione critico-interpretativa dei
fenomeni deliranti» (Dalí. 1980).
Il metodo daliniano attingeva anche agli studi sulle illusioni ottiche, allo scopo di provocare nell’artista i sintomi del delirio paranoico,
tentando di creare immagini che stravolgessero le regole della percezione visiva e la dimensione spazio-temporale, restituendo attraverso
le opere una realtà onirica e delirante, capace di scatenare sensazioni
di vertigine e di straniamento nell'osservatore. Nell'elaborazione del
suo metodo, Dalí, consapevole della propria personalità psicotica ed
ipomaniacale, ma anche ben istruito sui fondamenti della psichiatria e
della nascente psicanalisi, analizzò a fondo i sintomi del delirio e
dell'isteria allo scopo di trasporli nelle sue tele. Il delirio psicotico
provocato dall’induzione di uno stato di narcosi e di semi-incoscienza,
che Dalí sperimentò deliberatamente attraverso l’assunzione di sostanze psicotrope ed allucinanti, doveva fornire all'artista il materiale
immaginifico al quale ispirarsi nella realizzazione delle sue opere: un
mondo distorto ed allucinato, in grado di esprimere le derive dell'inconscio di un uomo geniale, ma dalla personalità tormentata e inquieta. Dato che solo attraverso la follia era possibile accedere a tali immagini, Dalí provò su se stesso l’effetto di diverse sostanze stupefacenti, in grado di indurre stati alterati di coscienza, o meglio, di dissociazione creativa: infatti, solo dopo aver vissuto in prima persona i
sintomi della paranoia e del delirio psicotico, l'artista sarebbe stato in
grado di raccontare quel mondo oscuro e misterioso, lasciando emergere spontaneamente le sue “visioni” per poi fissarle nelle sue opere
attraverso la successiva “fase critica” o analitico-razionale,.
La funzione primaria del “metodo paranoico-critico” di Dalí era
dunque quella di provocare un’irruzione impetuosa e inaspettata della
creatività, rendendo l’artista in grado di produrre immagini di natura
sorprendente e irreale, una volta che la mente, sciolta dai freni inibitori (sia di natura razionale che morale) del Super-Io, fosse stata libera
di vagare attraverso le più assurde associazioni, apparentemente illogiche e paradossali come quelle del sogno: la mente “paranoica” infatti percepisce significati alterati rispetto a quelli convenzionalmente
attribuiti alla realtà, mettendo in atto un processo di delirio interpretativo durante il quale può fluttuare da un senso all'altro, senza alcuna
connessione razionale o associazione semiotica univoca. Infatti, se-
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condo i dettami della poetica surrealista, sia il sonno che la paranoia
rivestivano lo stesso statuto di piena legittimità, al pari della veglia e
della coscienza razionale, in quanto capaci di esprimere senza filtri o
interferenze i contenuti del subconscio, restituendo una forma di Realtà Assoluta o Surrealtà.
In base al metodo propugnato da Dalí, la fase di interpretazione critica o di razionalizzazione dei fenomeni deliranti, caratteristici della
paranoia e degli stati psicotici, avrebbe permesso di rappresentare la
realtà profonda ed “irrazionale” dell'inconscio tramite allusioni simboliche ed associazioni casuali: «l’attività paranoico-critica è una forza
organizzatrice e produttrice di casualità oggettiva» (Dalí, 1980, p.
266). La ricerca di immagini quanto più possibili vicine alla dimensione fluttuante del sogno ed agli oscuri meandri dell'inconscio, condusse anche altri surrealisti a sperimentare metodi capaci di indurre
artificialmente stati alterati di coscienza, che permettessero di accedere ad una realtà profonda, delirante e “surreale”, determinando artificiosamente un'alterazione psichica delle proprie facoltà mentali al
punto tale da creare uno stato mentale di dissociazione creativa in
grado di guidare la mano dell'artista nella realizzazione delle sue opere. Le immagini delle opere di Dalí, così fluide ed inconsistenti, illogiche e deformi, immerse in una realtà immateriale ed alterata, inquietante e tenebrosa, al di fuori di qualsiasi regola di prospettiva spaziale,
esprimono il disordine caotico ed allucinato dei suoi pensieri e la sottomissione volontaria dell'artista al dominio delirante della psiche,
concretizzandosi nella relatività semantica con la quale è possibile interpretare i suoi dipinti: il caos interpretativo del mondo reale, caratteristico della psicosi paranoica, e la “sacra follia” che pervade le sue
opere, sfuggono infatti a qualsiasi categorizzazione razionale anche da
parte dello stesso artista, il quale a un certo punto affermò: «Il fatto
che io stesso, al momento di dipingere, non capisca il significato dei
miei quadri, non vuol dire che questi quadri non abbiano significato:
al contrario, il loro significato è talmente profondo, complesso, coerente, involontario, che sfugge alla semplice analisi dell'intuizione logica» (Dalí, 1980, p. 263).
La realtà distorta e allucinata rappresentata nelle opere di Dalí ci
restituisce una dimensione onirica ed immaginativa che destabilizza il
rapporto tra percezione e rappresentazione, dando voce ad una poetica
dell’irrazionale capace di esprimere le derive dell’inconscio
dell’artista, nel suo deliberato tentativo di sottrarsi a qualsiasi forma di
controllo razionale, nell’ossessionante ed estenuante ricerca di suggestioni e stati di allucinazione in grado di destabilizzare il rapporto cosciente con la realtà. La droga infatti è in grado di amplificare le facol-
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tà visionarie dell’artista (ma non di migliorare le sue capacità creative), proiettandolo in uno stato alterato di coscienza in cui si palesano
sintomi di delirio psicotico quali: fuga dissociativa, sospensione
dell’Io cosciente, perdita dell’identità, straniamento, dissoluzione percettiva del rapporto con la realtà, distorsione e trasfigurazione degli
oggetti, allucinazioni visive ed auditive.
Secondo la visione surrealista, lo stato di veglia costituiva infatti un
fenomeno di “interferenza” rispetto al libero fluire dei processi creativi, che scorrevano come un fiume impetuoso al di sotto del limite di
coscienza, pronti a riaffiorare non appena si fosse verificato un punto
di rottura sulla superficie della coscienza. La dissoluzione del ritmo
circadiano sonno-veglia si era ormai inesorabilmente consumata a
causa dei ritmi produttivi imposti dalla società borghese e industriale,
che avevano imposto all’individuo lo schema fordista-taylorista della
catena di montaggio e dei turni di lavoro. L’intento programmatico del
Surrealismo, animato da un fervente sperimentalismo avanguardista,
fu dunque quello di ricongiungere la frattura tra i due stati coscienza,
facendo del sogno la principale chiave di accesso al mondo subliminale ed attuando la liberazione dell’individuo dalle costrizioni imposte
dai ritmi industriali, che stavano anestetizzando le coscienze imponendo il dominio della macchina sull’uomo in nome dell’ideologia
capitalistico-industriale.
L'automatismo espressivo, la ricerca di “stati ispirati”, il piacere
procurato dalla fuga vertiginosa ed allucinante dalla realtà, chimicamente indotti tramite l’assunzione di sostanze psicotrope, alcool, o per
mezzo di pratiche erotiche estreme, spiritismo ed esoterismo, estasi e
meditazione, permettevano all’artista di attingere alle immagini deliranti, ipnagogiche ed irrazionali dell'inconscio, che costituivano la
massima espressione del principio romantico d'ispirazione: il motto
imperante fra i surrealisti era infatti “L'immaginazione al potere”, che
sarebbe poi diventato lo slogan di protesta degli studenti francesi, nel
corso dei moti di contestazione giovanile nel maggio del 1968. Scopo
del Surrealismo, secondo la visione e la strategia intellettualistica di
Breton, doveva essere quello di destabilizzare in maniera “rivoluzionaria” il rapporto di dipendenza univoca tra percezione e rappresentazione, che aveva portato all'estrema “divinizzazione dell'oggetto esteriore” arrivando alla perfezione espressiva del Realismo, che a sua
volta aveva toccato l'apice con la riproduzione industriale, seriale e
meccanizzata della realtà attraverso la fotografia. La missione dell'artista doveva quindi essere quella di riuscire a dissociarsi dalla realtà,
ricercando la “rappresentazione mentale pura” dell'oggetto, al di là del
dominio razionale della coscienza, della ragione e dei meccanismi
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percettivi di natura psicobiologica, e ciò sarebbe stato possibile solo
esplorando le profondità dell'inconscio: «Tutto lo sforzo tecnico del
Surrealismo, dalle sue origini a oggi, è consistito nel moltiplicare le
vie di penetrazione degli stati più profondi della mente» (Breton,
1966, p. 206).
La psicanalisi freudiana e la lotta di classe marxista vennero considerate dai surrealisti come la carica dirompente di una nuova rivoluzione intellettuale, in grado di trasformare la società sottraendo
l’artista al suo rapporto di sudditanza rispetto alle regole di un’arte
standardizzata, normatizzata ed accademica: un processo di accelerazione culturale innescato dalla pittura Metafisica e culminato negli eccessi creativi del Futurismo, che enfatizzavano l’accelerazione ed il
dinamismo della moderna civiltà industriale e capitalistica, il cui
obiettivo recondito era il controllo sociale e la realizzazione delle
aspettative della borghesia, ma che difatti esprimevano il rapporto di
sudditanza dell’arte all’industrializzazione di massa. Ma mentre il Dadaismo era stato animato da un’intento distruttivo nei confronti delle
convenzioni artistiche del tempo, il Surrealismo inneggiava alla funzione palingenetica e rigeneratrice della psiche, in quanto dimensione
inconscia pura, scevra da qualsiasi condizionamento razionale e culturale. Il progetto surrealista, apertamente in contrasto con il paradigma
positivista, privilegiò dunque la follia, l’isteria, il sogno, gli stati alterati di coscienza e l’automatismo psichico, assumendo la teoria
dell’inconscio di Freud, l’analisi marxista della società e le scoperte
scientifiche di Einstein come strumenti operativi in grado di rivelare
l’intima essenza della realtà.
Con la fondazione della rivista La Révolution surréaliste nel 1924
da parte di André Breton e Louis Aragon, gli autori erano arrivati a
formulare una propria definizione di “isteria”, quale condizione mentale caratterizzata dallo stravolgimento del rapporto tra il soggetto e la
sfera morale, che dovevano guidare l’individuo sulla base di condizionamenti culturali e di principi etici o religiosi. L’isteria dunque, secondo la visione surrealista, non era un sintomo patologico di malattia
mentale, ma una forma suprema di espressione. Ma, mentre nel caso
di reale malattia mentale il soggetto era posseduto e governato da una
visione alternativa della realtà, del tutto estranea a considerazioni di
tipo razionale o morale, la “follia” surrealista imponeva il crollo delle
barriere tra razionalità ed irrazionalità, esprimendosi liberamente nel
processo creativo messo in atto dagli artisti. L'interesse del Surrealismo verso gli stati mentali di follia non implicava però il desiderio di
vivere in modo permanente secondo le regole dell’irrazionalità, come
nel caso di un comune malato mentale: il suo obiettivo programmatico
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non era quello di diagnosticare la follia nella società, ma piuttosto
quello di sperimentare la libertà di esplorare stati mentali “alternativi”,
aprendo la mente ad una differente visione del mondo (Rattray, 2008).
Ma il naufragio nelle misteriose ed oscure profondità dell'inconscio
attraverso un viaggio pericoloso, deliberatamente ricercato e intrapreso tramite l'assunzione di sostanze stupefacenti di varia natura (come
oppio, laudano, hashish, cannabis, morfina, mescalina, polvere di Dover, infuso di papavero, funghi allucinogeni o assenzio), oppure con
l’abuso di alcool, capaci di indurre uno stato di trance estetica (o estasi creativa), non era nuovo per l'epoca. Infatti era già stato sperimentato dal cenacolo francese dei poètes maudits (Verlaine, Corbière, Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé), i quali, animati dal rifiuto della società
borghese ed affascinati dall'idea di morte e di autoannientamento, misero in atto pratiche distruttive e nichilistiche, tipiche del Decadentismo europeo: il tentativo ideologico di profanazione dei valori e delle
convenzioni della società borghese, attraverso la ricerca compiaciuta e
narcisistica di gesti estremi ed eclatanti, animati da impulsi autodistruttivi e nichilistici, era funzionale alla conquista titanica di una dimensione mitica e assoluta da parte dell'artista, ubicata al di là del
tempo e dello spazio. Un delirio di onnipotenza che avrebbe trovato il
suo naturale compimento nel narcisismo della propria morte quale ultimo atto eroico, compiuto al fine di essere ricordato dai posteri ad
imperitura memoria. Questa dimensione venne quindi ricercata dai
“poeti maledetti” nella pratica di ogni sorta di vizio o sregolatezza,
come l'abuso di assenzio, oppio o hashish (all’epoca, in città come
Londra e Parigi, erano molto diffuse le fumerie d’oppio), consumo
smodato di alcool e pratiche erotiche, in grado di dissociare l'artista
dagli affanni della vita quotidiana che offuscavano la libera espressione della propria creatività: come affermato da Breton, lo stato di veglia non era altro che un “fenomeno d'interferenza”, essendo una condizione limitativa per la creatività dell'artista rispetto a quella del sogno e dell'oblìo. La visione allucinata e distorta della realtà era infatti
uno dei sintomi più ricercati di delirio psicotico e paranoico da parte
degli artisti, interessati a stabilire una relazione diretta tra destabilizzazione fisico-psichica ed ispirazione artistica: essa rappresentava la
sublimazione di frustrazioni ed ambizioni insoddisfatte, del materiale
rimosso dalla coscienza che riemergeva sotto forma di delirio psicotico, fissandosi nelle opere.
Sulla base delle sperimentazioni condotte dallo psichiatra JacquesJoseph Moreau de Tours, che aveva studiato gli effetti delle droghe sul
sistema nervoso, evidenziando gli effetti benefici del dawamesc algerino sulla cura di alcune malattie mentali (ed inaugurando in tal modo
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la psicofarmacologia moderna), lo stesso Baudelaire – membro del
Club des Hachichins, fondato dallo scrittore Théophile Gautier e dal
pittore Fernand Boissard e frequentato da artisti e scrittori come Delacroix, Dumas, Balzac e Flaubert – condusse uno studio sugli effetti
della droga e dell’alcool sulla creatività artistica attraverso la sua opera I paradisi artificiali (pubblicata nel 1860), contenente i saggi Del
vino e dell'hashish raffrontati come modi di moltiplicazione dell'individualità, Il poema dell'hashish e Un mangiatore d'oppio, traduzione
parziale in francese dell’opera dello scrittore inglese Thomas De
Quincey, pubblicata nel 1821. Mentre Moreau de Tours analizzò
scientificamente gli effetti del fumo di hashish, cercando di comprendere il rapporto tra sogni e follia, considerate manifestazioni mentali
analoghe al delirio psicotico, Baudelaire, così come più tardi Dalí,
sperimentò su se stesso gli effetti di tali sostanze, fornendone una lucida descrizione al fine di evidenziarne i rischi e i benefici per un artista (Carcano, 1997). Alla fine Baudelaire concluse che solo il vino poteva avere effetti positivi sulle capacità artistiche, mentre la droga,
sebbene riuscisse a produrre uno stato mentale apparentemente “poetico”, finiva per annullare la volontà dell’artista: secondo lo scrittore
francese, l’ebbrezza dell’essere ubriachi, in quanto stato indispensabile alla creazione artistica, era preferibile allo stordimento provocato
dai rumori e dalla vita frenetica della metropoli industriale, in gran
parte simile a quello di una droga. Lo stesso Dalí, in uno dei suoi classici momenti di esaltazione autocelebrativa, ebbe a dire: «Quando bevevo credevo di essere un genio, ora che non bevo più, so di essere un
genio» (Dalí, 1965).
Come affermato da De Quincey ne Le Confessioni di un mangiatore d’oppio, il potere della droga di trasfigurare la realtà, amplificando
e distorcendo il continuum spazio-temporale, era assimilabile ai processi onirici, mentre Baudelaire preferiva parlare di sogno geroglifico,
ossia di un processo archetipico di creazione artistica. La creazione artistica sotto l’effetto della droga comporta quindi la trascrizione in
chiave simbolica della dimensione inconscia ed archetipale dell’uomo:
l’artista è il prescelto, il medium, l’antico sacerdote, il vate capace di
scrutare ed interpretare il volere degli dei, creando le sue opere in uno
stato di trance creativa o di rêverie.
L’annullamento della volontà dovuto all’effetto inibitore delle capacità volitive indotto dalle droghe, del tutto antitetiche rispetto
all’impetus creativo dell’artista, era il prezzo da pagare per accedere a
quella «beatitudine calma e immota» di cui parlava Baudelaire. Infatti
l’artista, sperimentando la singolare coincidenza tra soggetto e realtà
esterna (altro sintomo tipico della sindrome dissociativa), perdeva la
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consapevolezza del distacco tra sé e la realtà necessario alla rappresentazione artistica, di per sè inconcepibile senza la percezione di una
frattura con il mondo, ovvero senza la consapevolezza critica e razionale di una distanza che separa l’artista dalla realtà rappresentata:
Baudelaire concludeva quindi che la droga era sostanzialmente inefficace, anzi deleteria, per la creatività artistica: questa richiede un processo di formalizzazione, che implica un certo grado di lucidità
dell’Io, che la droga non fa altro che annullare (Bedoni, 1997).
Anche lo scrittore britannico Aldous Huxley, sperimentando su se
stesso gli effetti di allucinogeni e sostanze psichedeliche (come la mescalina e l’LSD, sintetizzato nel 1938) sotto la guida attenta dello psichiatra Humphry Osmond, pur ammettendo il potere ampliare le capacità percettive e di amplificare le sensazioni, confermava l’effetto disgregante sulla volontà, concludendo che l’impatto delle droghe sulla
creatività e sull’immaginazione era del tutto deleterio. Huxley, infatti,
descrisse lucidamente il suo viaggio psichedelico (psychedelic trip)
nel libro The Doors of Perception del 1954 (da cui Jim Morrison trasse il nome della sua celebre band), nel quale evidenziava la natura mistica e trascendente dell’esperienza di unione col tutto, ossia il grado
più elevato di consapevolezza che era possibile sperimentare attraverso l’utilizzo sostanze psichedeliche, ma confermava al tempo stesso
che la componente innata della creatività artistica era poco sensibile
alla droga: la creazione artistica è fatta di ritmo, armonia, equilibrio,
tecnica e controllo, cioè di elementi del tutto opposti alla frammentazione, distorsione, dissoluzione dell’Io, coinvolgimento paranoico negli oggetti e apatica distanza dalla realtà, ossia i tipici effetti dissociativi di chi sperimenta la droga. L’arte, pur essendo svincolata dalle
esigenze del reale, è comunque frutto di un processo cosciente e razionale che richiede impegno, lucidità, metodo e dedizione, ed ha bisogno di specifiche tecniche. Diversa quindi dall’arte prodotta dai malati psichici, la cosiddetta Art Brut (o Outsider Art) di cui parlò Jean
Dubuffet, affermando che essa, pur non essendo arte nel senso tradizionale del termine, «scaturisce da un impulso primario e profondo
dell’individuo»: una regressione quindi, o meglio, un ritorno ad
un’arte più pura ed originaria, lontana da una “asfissiante cultura”
(Dubuffet, 1969).
L’assunzione di sostanze psicotrope, alterando chimicamente gli
impulsi dei neurotrasmettitori, determinano infatti una distorsione
nella percezione della realtà ed una modificazione della biochimica
del cervello, nonché dei processi creativi e di rappresentazione
artistica. Tale modificazione ha un decorso diverso a seconda del tipo
di sostanza assunta e delle reazioni soggettive di ciascun individuo,
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ma sembra seguire in qualche modo uno schema comune che induce
specifiche modificazioni ed alterazioni del tratto pittorico, come
dimostra la comparazione delle opere di Dalí (in particolare la serie di
illustrazioni realizzate per l’edizione del 1969 del racconto Alice nel
paese delle meraviglie di Lewis Carroll, pubblicata a New York dalla
casa editrice Press-Random House), presumibilmente realizzate sotto
l’effetto di sostanze allucinogene, con gli autoritratti realizzati
dall’artista anonimo sottopostosi ad un esperimento condotto dal
governo degli Stati Uniti nella seconda metà degli anni ’50, allo scopo
di testare gli effetti dell’LSD sulla mente: la somiglianza
nell’alterazione delle linee e dei contorni dei disegni, e le similitudini
nella distorsione delle figure, suggeriscono l’ipotesi che Dalí abbia
lavorato sotto l’effetto di una sostanza psicotomimetica o psicotogena.
Le sostanze sperimentate da Dalí erano infatti capaci di indurre
nell’artista uno stato dissociativo e delirante caratterizzato dai sintomi
tipici del disturbo da depersonalizzazione, una forma di sindrome
dissociativa (o scissione) caratterizzata da sensazione di straniamento
e distacco da sé, disaggregazione psicotica, percezione distorta della
realtà circostante, allucinazioni, sinestesia, perdita di sensibilità,
sensazione di scissione tra una parte osservante ed una partecipante,
percezione distorta del corpo e distacco dalle proprie emozioni,
dialoghi con una persona immaginaria, sensazione di essere invisibili
o proiettati al di fuori del corpo, immedesimazione negli oggetti
esterni (Steinberg & Schnall, 2006).
Lo sdoppiamento della personalità, altro tipico sintomo di
dissociazione, fu ad esempio il tema portante del romanzo sulla
duplicità della natura umana dal titolo Strange Case of Dr. Jekyll and
Mr. Hyde di Robert Louis Stevenson (scritto nel 1886), che sarebbe
stato scritto sotto l'effetto dell’ergotina, un fungo della segale e del
frumento, noto per il suo potere allucinogeno ed usato per la cura della
tubercolosi, di cui soffriva l’autore. L'esperienza dissociativa può
quindi essere sperimentata attraverso l'assunzione di sostanze
psicotrope, ma anche raggiunta spontaneamente attraverso il ricorso a
specifiche tecniche di meditazione profonda, come lo yoga, il training
autogeno, la scrittura automatica, la meditazione trascendentale, le
pratiche ascetiche come il buddhismo zen, o le danze parossistiche
come quelle dei dervishi roteanti (Di Fiorino & Del Debbio, 2009). E'
possibile quindi definire dissociazione creativa lo stato mentale
(indotto o autoindotto) attraverso il quale l’artista sperimenta
un’esperienza di distacco dalla realtà, entrando in uno stato di trance
estetica nel quale l'Io cosciente abbandona i freni inibitori della
propria razionalità e si lascia guidare dalle proprie sensazioni nel
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processo di realizzazione di un’opera d’arte. La metafora del viaggio
(trip) è dunque funzionale al processo di ricerca artistica: l’assunzione
di droga diventa di fatto un’operazione estetica, nel corso della quale
l’Io dell’artista è proiettato al di fuori della realtà, mentre i suoi
processi creativi sono guidati da uno stato di coscienza “ispirato”
dall’estasi chimica.
Il rapporto tra droghe e creatività artistica ha origini ancestrali e si
perde nella notte dei tempi: lo sciamanesimo e le pratiche magiche,
che avevano lo scopo di accedere alla dimensione divina, si servivano
di sostanze psicotrope ed allucinogene per indurre stati alterati di
coscienza e di trance mistica, in grado di spalancare le porte di
accesso ad una realtà sovradimensionale. L’uso di droghe da parte
degli artisti ha caratterizzato infatti ogni epoca storica. Scrittori come
Arthur Conan Doyle, Charles Dickens ed Oscar Wilde ci
restituiscono, attraverso i loro scritti, le immagini e le suggestioni
delle fumerie d’oppio della Londra vittoriana, luoghi fascinosi e di
perdizione per la nuova generazione di intellettuali europei. Durante il
periodo romantico e decadentista molti artisti si diedero al consumo di
assenzio, la droga più diffusa ed economica del tempo, divenuta un
vero e proprio status symbol finchè non venne proibita nel 1915:
maestri formatisi nel periodo Impressionista come Van Gogh, Manet,
Gauguin, Degas (che tra il 1875 e il 1876 dipinse il celebre quadro
intitolato L’assenzio) ne fecero uso, così come più tardi fecero
Amedeo Modigliani e Pablo Picasso (che nel 1901 dipinse La
bevitrice di assenzio e nel 1914 realizzò la scultura Il bicchiere di
assenzio). Anche l’esistenzialismo francese, nel tentativo di sfuggire
agli orrori della Prima Guerra mondiale, trovò rifugio nei “paradisi
artificiali” della droga, proprio mentre la marijuana contribuiva alla
nascita della musica jazz nella Louisiana degli anni Venti. Negli anni
Cinquanta la droga assunse una particolare valenza mistica per gli
artisti della Beat Generation (come lo scrittore Jack Kerouac), segnati
dalla tragica esperienza della Seconda Guerra mondiale, diventando
poi negli anni Sessanta un vero e proprio simbolo di libertà per la
generazione ribelle ed anticonformista dei Figli dei Fiori (fu il periodo
del movimento Hippy, della controcultura, della contestazione
giovanile del ’68, del Festival di Woodstock e della guerra in
Vietnam). Negli anni Settanta e Ottanta musicisti ne furono
sopraffatti, così come numerose icone della musica e della letteratura:
si pensi a Jim Morrison, Jimi Hendrix Janis Joplin, Elvis Presley,
Miles Davis, Bob Marley, i Rolling Stones, oppure agli artisti della
generazione Punk, o al poeta “maledetto” Charles Bukowsky. In anni
più recenti, l’espressionismo astratto, l’arte psichedelica e la Pop Art
279
furono caratterizzati dal consumo di droga o alcool da parte di artisti
famosi, tra cui Jackson Pollock, Andy Warhol e gli artisti della sua
Factory, come Keith Haring e Jean-Michel Basquiat, ma anche oggi
non mancano casi eclatanti, come il quotato artista Damien Hirst o la
sfortunata e giovane cantante Amy Winehouse. Il comune desiderio di
trovare, nell’estasi psichedelica e lisergica, una risposta alle crisi
sociali e ai conflitti generazionali, l’impulso irrefrenabile ad evadere
dalla realtà del presente, la contestazione delle regole e delle
convenzioni imposte dalla cultura ufficiale imperante, ma soprattutto
la convinzione di poter migliorare le proprie abilità artistiche
attraverso l’accesso ad uno stato mentale caratterizzato da un
allentamento dei freni inibitori, dal superamento del pensiero
razionale, dall’amplificazione delle proprie capacità percettive, dalla
dilatazione della coscienza, dal potenziamento dei nessi associativi,
furono le principali motivazioni che spinsero gli artisti a sperimentare
le droghe. Emblematico è, in anni più recenti, il caso dell’artista
americano Bryan Lewis Saunders (n. 1969), che ha lavorato al
progetto di dipingere una serie di autoritratti utilizzando ogni giorno
una droga diversa, allo scopo di mostrare le modificazioni del tratto
pittorico sotto l’effetto di sostanze psicotrope.
E’ interessante notare come il mito della droga quale stimolante
della creatività artistica sia particolarmente presente nell’immaginario
artistico dei movimenti avanguardisti, come fu appunto il Surrealismo:
la droga è un mezzo liberatorio per accedere ad una dimensione
onirica e irrazionale, arcana e misterica, soprannaturale e trascendente,
mistica e ascetica, magica e occulta, taumaturgica e divina, estatica e
beatificante, regressiva e archetipale, come quella evocata da uno
sciamano, da un medium o da un antico sacerdote immersi in un
profondo stato di trance ipnotica, sospesi su un ponte invisibile tra l’Io
cosciente e i misteri dell’inconscio, proiettati verso una realtà
sovradimensionale e immaginifica, ma comunque in traiettoria di fuga
rispetto allo status quo della cultura imperante. In questo senso, la
battaglia culturale condotta dai surrealisti assomiglia in parte al
progetto utopistico di radicale liberazione condotto dai beatnik negli
anni Cinquanta, dove però il ricorso alle droghe per favorire la
creazione artistica ebbe natura ideologica, antidottrinaria ed antiintellettualistica, ossia un’esplicita funzione di protesta nei confronti
della cultura istituzionale e del sistema di potere, configurandosi come
un comportamento trasgressivo e deviante, e uno schema di rottura
rispetto ai valori “tradizionalisti” della società capitalistica borghese:
l’uso della droga a fini estetico-creativi e di ispirazione artistica si
280
situava dunque all’interno di un più organico rapporto esistenziale ed
ideologico con le sostanze psicoattive.
Il legame tra creatività artistica e dipendenza patologica da sostanze psicotrope accomuna in qualche modo la figura dell'artista a quella
del tossicodipendente: entrambi «affrontano molte situazioni archetipiche simili: la morte fisica o esistenziale, la discesa nell'inferno della
psiche, il confronto con dimensioni e figure interiori particolarmente
significative e simboliche» (Ampolo & Carretta, 2005). Una volta
compiuto il rito iniziatico-sacrificale di immersione nel mondo dell'irrazionale, dopo la fuga delirante dalla realtà, l'artista, rompendo il sortilegio imposto dagli effetti della droga o dell'alcool, riemerge sciogliendo l'incantesimo che lo teneva incatenato ai freni inibitori della
razionalità cosciente e del Super-Io,: una volta riaffiorato dallo stato di
trance autoindotta e dopo essere rientrato nel suo stato ordinario di coscienza, egli dà corpo ai fantasmi del proprio inconscio attraverso il
processo di creazione artistica, riproducendo le immagini distorte di
una realtà oscura ed alterata, deforme e paradossale: quella da lui stesso sperimentata nel corso del suo viaggio allucinante (Schierse Leonard, 1991). Grazie alla sua esperienza illuminante (o di estasi chimica), determinata dall'utilizzo delle sostanze stupefacenti, l'artista è in
grado accedere ad una realtà irrazionale attraverso la rievocazione e
rielaborazione cosciente del sogno (si pensi alla “fase critica” del metodo paranoico-critico di Dalí), ampliando le sue capacità conoscitive
oltre ogni immaginazione: una specie di sortilegio, di rito magico o
alchemico, di liturgia delirante.
Da tutto ciò si può rilevare come la droga, nel campo dell'arte, sia
stata impiegata per simulare alcune forme di malattia mentale (come
dissociazione, schizofrenia o paranoia), permettendo, attraverso l'allentamento dei freni inibitori, di attuare correlazioni e legami associativi tra idee diverse, rafforzando quindi la capacità creativa ed immaginifica dell'artista, rendendo l’artista in grado di usare fluidamente il
pensiero “allusivo”, ossia la capacità di unire concetti distanti ed inconciliabili per un individuo in stato “normale”, superando per questa
via le contraddizioni rilevabili dal pensiero razionale e trasformando
l’esperienza drogata in realtà artistica.
Ritornando a Dalí, i fattori di delirio psicotico che attirarono maggiormente le ricerche sperimentali dell’artista furono: la lucidità delle
allucinazioni, i sogni vividi, la mancanza di controllo sui processi di
libera associazione mentale, l’incremento della capacità percettiva, la
fluttuazione della coscienza. Egli parlò di “irrazionalità concreta” riferendosi a quelle proiezioni del mondo interiore che sono tanto potenti
da interferire con la percezione della realtà (Dalí, 1980). Ribadendo la
281
sua particolare disposizione psichica nei confronti della ricerca artistica, Dalí affermò: «Ho la certezza che le mie qualità d’analista e di psicologo siano superiori a quelle di Marcel Proust. Non soltanto perché,
fra i numerosi metodi ch’egli ignorava, io mi servo della psicoanalisi,
ma soprattutto perché la struttura del mio spirito è di un tipo eminentemente paranoico, dunque più indicato per tal genere di esercizi,
mentre la struttura del suo era quella di un nevrotico depresso, ossia la
meno adatta a queste investigazioni» (Dalí, 1965). Il lavoro onirico
teorizzato da Freud - attraverso cui i contenuti del sogno latente si trasformano in sogno manifesto – diventa parte integrante del metodo paranoico-critico di Dalí, che attraverso l’esperienza allucinatoria vissuta
per mezzo della droga, fissò sulle sue tele le immagini fluide e distorte
che riaffioravano dai meandri dell’inconscio e riflettevano i suoi sogni
deliranti, dando forma ad un’estetica del deforme: l’artista produceva
un’arte “irregolare” rispetto alle regole canoniche della bella forma,
un’arte capace di gettare il pubblico in uno stato di confusione e di delirio interpretativo, una volta catturato nel vortice delle vertiginose visioni daliniane.
La dissociazione creativa di Dalí permette l’esaltazione e la celebrazione dell’atto creativo, dove le regole della rappresentazione pittorica vengono sovvertite e trasgredite per permettere la rappresentazione di una realtà trasfigurata attraverso il simbolismo onirico della dimensione inconscia: grazie all’esperienza psichedelica vissuta attraverso gli effetti stranianti e dissocianti indotti dalla droga, l’artista lascia che l’atto creativo si manifesti senza filtri razionali, in maniera
spontanea e imprevedibile, abbandonandosi senza inibizioni
all’impetus creativo e lasciando liberamente affiorare in superficie le
sue visioni, fissandole sulla tela.. L’assunzione della droga rappresentava quindi un rito iniziatico di passaggio, un mantra esoterico, una liturgia di accesso ad una dimensione archetipica e divina sperimentata
dall’artista-sciamano. In tale processo mistico, la “fase critica” del
metodo daliniano rappresentava un’esperienza di “regressione inversa”, corrispondente allo stato di lucidità cosciente dopo la riemersione
dell’artista dagli effetti stranianti indotti dallo stupefacente: essa serviva all’artista per raccontare le sue visioni, razionalizzandole e materializzandole attraverso le sue opere.
Ma in che misura le droghe sono in grado di influenzare, o addirittura potenziare, la creatività artistica? Le più recenti ricerche sugli effetti delle droghe su specifiche aree cerebrali e sulla neurochimica del
cervello, ha rivitalizzato il dibattito sull’effettivo miglioramento delle
prestazioni creative dell’artista sotto l’influenza di sostanze psicotrope. L’utilizzo ritualistico di funghi allucinogeni come porta di accesso
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all’ispirazione divina da parte degli artisti-sciamani era già noto al
tempo dei Sumeri e delle prime popolazioni dell’America Centrale,
come attestato da sculture e dipinti rupestri tra il 4000 e il 1500 a.C..
Sebbene molti artisti sostengano di aver osservato un miglioramento
delle proprie capacità creative in seguito all’uso di allucinogeni di origine naturale (come mescalina, psilocibina, cannabinoidi, ayahuasca,
oppiacei e funghi allucinogeni) o di derivazione chimica (come la dietilamide dell’acido lisergico o LSD, oppure alcune anfetamine come
l’ecstasy o MDMA), i loro effetti – pur inducendo in specifici soggetti
un aumento delle capacità di focalizzazione e risoluzione creativa di
problemi complessi - non sembrano riflettersi positivamente sulla qualità della produzione artistica. Artisti professionisti, individui dotati di
capacità artistiche e soggetti di controllo sono stati sottoposti a vari
test psicometrici (come il Rorschach, l’MMPI, il test di creatività di
Purdue, il test di visualizzazione oggettiva di Miller, il test delle figure
celate di Witkin, il test di associazione verbale, test di associazione
remota, di immaginazione, di originalità e di pensiero divergente) in
condizioni sperimentali controllate, da cui è emerso che la somministrazione di droghe intensifica i tratti preesistenti di personalità amplificando la capacità di esperienza estetica soggettiva, ma tali effetti non
implicano (in maniera diretta o automatica) un reale aumento o miglioramento della produttività artistica: l’analisi di specifiche scale di
valutazione della performance creativa - prima e dopo l’assunzione di
droga - non ha riscontrato sostanziali differenze.
Le droghe, pur trasformando l’esperienza creativa dell’artista, non
avrebbero dunque un effetto performante sul livello tecnico o espressivo: «la droga non aumenta la creatività artistica in maniera aspecifica, vale a dire in tutti i soggetti e in tutte le condizioni ambientali e
psicodinamiche» (Pulvirenti, 1999). Infatti alcuni esperimenti hanno
rilevato che le componenti neurochimiche che portano all’abuso e
all’assuefazione (addiction) influiscono su aree cerebrali distinte dal
substrato anatomo-funzionale coinvolto nei processi creativi. Tuttavia
è stato appurato che, se le sostanze psicoattive vengono assunte da un
soggetto dotato di particolari capacità artistiche (come nel caso di
Dalí), lo stato di alterata percezione della realtà può generare
un’inusuale esperienza estetico-introspettiva: le esperienze sensoriali
dell’artista, combinate con il preesistente substrato cognitivo-emotivo,
possono generare immagini insolite che soltanto quell’artista, in particolari condizioni psicodinamiche e ambientali, può trasformare in un
prodotto di valore estetico.
Le ricerche, dunque, mettono in dubbio l’effettiva capacità delle
droghe di aumentare la creatività artistica, a meno che non si conside-
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rino gli effetti sulla neurochimica del cervello. Infatti, sul versante
neuropsichiatrico, è stato notato un effettivo aumento della produttività artistica in alcuni soggetti affetti da sindrome maniaco-depressive o
ipomaniacali, così come da alcune forme di schizofrenia (come la dissociazione), da cui risulterebbe chiaro un collegamento tra le basi neurochimiche di alcune malattie psichiatriche e le doti di creatività artistica. Ma poiché l’assunzione di droghe, agendo sui neurotrasmettitori, induce i sintomi di alcune malattie mentali (come la sindrome dissociativa), in grado di influenzare i processi creativi, è realistico ipotizzare che la malattia mentale (vera o simulata in forma indotta dalla
droga) possa essere la spiegazione del miglioramento della creatività,
anche se non sono ancora chiare le basi neuronali e la biochimica della
creatività artistica. Quindi, per quanto riguarda specificamente il “caso” Dalí, è impossibile (e forse anche inutile) dimostrare se il suo geniale talento fosse dovuto ad una sindrome psichiatrica o all’uso di
stupefacenti: il “caso”, dunque, resta aperto.
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