Fabrizio Di Maio
OTTIERO OTTIERI
L’INDUSTRIA, LA CLINICA, LA POLITICA
AVVERTENZA
Per evitare un numero consistente di note a piè di pagina, le opere di Ottieri si citeranno all’interno del testo
tra parentesi, con delle sigle e i corrispondenti numeri di pagina, che rimandano alle seguenti edizioni
utilizzate (dopo il titolo viene indicato l’anno della prima pubblicazione):
OTTIERI Ottiero,
Memorie dell’incoscienza (1954), Bompiani, Milano 1967. (MI)
OTTIERI Ottiero,
Tempi stretti, Einaudi, Torino 1957. (TS)
OTTIERI Ottiero,
Donnarumma all’assalto (1959), Garzanti, Milano 2004. (DON)
OTTIERI Ottiero,
I venditori di Milano, Einaudi, Torino 1960. (VM)
OTTIERI Ottiero,
La linea gotica (1963), Guanda, Parma 2004. (LG)
OTTIERI Ottiero,
L’impagliatore di sedie, Bompiani, Milano 1964. (IMP)
OTTIERI Ottiero,
L’irrealtà quotidiana (1966), Guanda, Parma 2004. (IQ)
OTTIERI Ottiero,
I divini mondani (1968), Guanda, Parma 2006. (DM)
OTTIERI Ottiero,
Il pensiero perverso (1971), in Tutte le poesie, Marsilio, Milano 1986. (PP)
OTTIERI Ottiero,
Il campo di concentrazione, Bompiani, Milano 1972. (CC)
OTTIERI Ottiero,
Contessa, Bompiani, Milano 1976. (CON)
OTTIERI Ottiero,
La corda corta (1978), in Tutte le poesie, Marsilio, Milano 1986. (COR)
OTTIERI Ottiero,
Di chi è la colpa, Bompiani, Milano 1979. (COL)
OTTIERI Ottiero,
Il divertimento, Bompiani, Milano 1984. (DIV)
OTTIERI Ottiero,
Vi amo, Einaudi, Torino 1988. (AMO)
OTTIERI Ottiero,
L’infermiera di Pisa, Garzanti, Milano 1991. (IP)
OTTIERI Ottiero,
La questione meridionale, Edizioni della battaglia, Palermo 1992. (QM)
OTTIERI Ottiero,
Il palazzo e il pazzo, Garzanti, Milano 1993. (PAL)
OTTIERI Ottiero,
Storia del PSI nel centenario della nascita – Il padre, Guanda, Parma 1993. (PSI – PAD)
OTTIERI Ottiero,
La psicoterapeuta bellissima – Le guardie del corpo, Guanda, Parma 1994. (LPB – GC)
OTTIERI Ottiero,
Il diario del seduttore passivo, Giunti, Firenze 1995. (DSP)
OTTIERI Ottiero,
Il poema osceno, Longanesi, Milano 1996. (PO)
OTTIERI Ottiero,
De morte, Guanda, Parma 1997. (MOR)
OTTIERI Ottiero,
Una tragedia milanese, Guanda, Parma 1998. (TM)
2
OTTIERI Ottiero,
Cery, Guanda, Parma 1999. (CERY)
OTTIERI Ottiero,
Una irata sensazione di peggioramento, Guanda, Parma 2002. (ISP)
Ottiero, Le irrealtà quotidiane, a cura di Maria Ida Gaeta, Emanuela Minnai, Maria Pace Ottieri,
Guanda, Parma 2004.
[Gli atti del convegno svoltosi a Roma presso la Casa delle letterature il 2 e 3 marzo 2003 sono disponibili
sul sito http://www.ottieroottieri.it/convegno.pdf. Nel testo, le citazioni degli atti saranno indicate tra
parentesi e riferite al suddetto Convegno]
OTTIERI
OTTIERI
Ottiero, Cronache dell’al di qua, a cura di Maria Pace Ottieri, Avagliano, Cava de’ Tirreni 2005.
(CRO)
Per le citazioni di quei testi che compaiono con frequenza ci si limiterà a menzionarle all’interno del testo in
parentesi tonda con il titolo dell’opera e la pagina di rimando, facendo sempre riferimento all’edizione citata
nella prima nota.
Per gli studi, analisi, approfondimenti e statistiche nell’ambito tecnico-scientifico, psicoanalitico e
psicologico, in rapporto alle malattie mentali, i testi principali di riferimento sono i seguenti:
GALIMBERTI Umberto, Il dizionario di psicologia (1992), UTET, Torino 2006.
DARLEY John, GLUCKSBERG Sam, KINCHLA Ronald (a cura di), Psicologia (1991), 2 voll., Il Mulino,
Bologna 1993.
DSM-III-R, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano 1988.
ZOLI Serena, CASSANO Giovanni Battista, E liberaci dal male oscuro. Che cos’è la depressione e come se
ne esce (1993), Longanesi, Milano 2006.
L’epistolario, quasi completamente inedito di Ottieri, cui si fa riferimento nel testo, è raccolto, grazie
all’accurato lavoro di reperimento eseguito dalla moglie Silvana Mauri e della figlia Maria Pace, presso il
Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia in ventisei cartelle, per due faldoni complessivi, dove sono
suddivise in ordine alfabetico le lettere scritte e ricevute dallo scrittore dagli anni Quaranta fino al 2002.
3
INTRODUZIONE
Ottiero Ottieri è stato un romanziere, saggista, poeta, sceneggiatore, drammaturgo, sociologo
che attraverso un ampio corpus di opere pubblicate tra il 1954 e il 2002 ha espresso il suo eclettico
pensiero e molteplici interessi culturali in tre aree tematiche, l’industria, la clinica e la politica,
scandagliando in profondità uno stato di malessere privato e pubblico inscindibile tra l’uomo e la
società, con un impegno intellettuale peculiare nel panorama della letteratura italiana del secondo
Novecento.
Ritenuto il pioniere della letteratura industriale con la tetralogia formata da Tempi stretti
(1957), Donnarumma all’assalto (1959), I venditori di Milano (1960) e La linea gotica (1963),
Ottieri fu il primo ad affrontare, dal punto di vista letterario, le problematiche concernenti la
condizione degli operai italiani durante il miracolo economico sviluppatosi nel dopoguerra. Ottieri
si era trasferito a Milano nel ’48 volendo farsi assumere in una fabbrica per partecipare attivamente,
dopo aver studiato la condizione operaia sui libri di Marx e Simone Weil, a un processo storico
determinante per l’Italia, quello dell’industrializzazione. Dalle esperienze dapprima come
giornalista per l’Anonima Periodici Internazionali, che lo portano nel ’51 a dirigere la rivista
mensile di divulgazione scientifica «La Scienza Illustrata», fino all’assunzione con l’incarico di
selezionatore del personale nelle fabbriche Olivetti di Ivrea nel ’53 e di Pozzuoli due anni dopo,
Ottieri ricava materia sufficiente per redigere romanzi ambientati nel mondo industriale. Ottieri ha
aperto in questo modo la breccia sul rapporto tra letteratura e industria che si svilupperà negli anni
Sessanta attraverso i lavori di Volponi, Parise, Bianciardi e Mastronardi, rimanendo per molto
tempo imprigionato, suo malgrado, nell’etichetta di scrittore industriale per eccellenza, quando il
seguito della sua produzione dimostrerà invece un percorso differente.
E infatti a metà degli anni Sessanta, Ottieri, avvertendo la conclusione dell’esperienza
industriale, cercò una nuova materia letteraria che potesse esplorare «gli spazi cosmici soggettivi
che stanno nell’uomo e nella donna fra la disperazione e la ragione» (IS, p. 15), per indagare sia la
malattia dell’anima che la ricorrenza di inquietudini comuni tra gli individui. Questa “speleologia”
nei meandri del Male fu resa possibile grazie ai vari disturbi psichici che caratterizzarono la sua vita
e considerati come l’essenza preminente della sua letteratura. È vero che dall’Irrealtà quotidiana
(1966) all’ultimo romanzo Una irata sensazione di peggioramento (2002) le malattie mentali si
presentano nelle sue opere in molteplici aspetti e con sintomi differenti quali la depressione,
4
sentimento d’irrealtà, depersonalizzazione, schizofrenia, alcolismo, angoscia, nausea, pazzia,
allucinazioni, alienazione, diventando spesso le co-protagoniste accanto al personaggio
autobiografico rinchiuso in un manicomio. Eppure erroneamente si è dato maggior risalto al caso
clinico di un uomo che esprime la propria sofferenza mentale attraverso la scrittura, rispetto al caso
letterario di un autore che per la sua originalità, complessità e unicità, rappresenta un’inusuale
testimonianza letteraria nel secondo Novecento: «Scusi, posso essere un caso letterario, / invece di
un caso clinico?» (PAL, p. 27).
Nelle opere di Ottieri la malattia mentale parla, vive, soffre, agisce mentre lo scrittore prova
a distenderla in prosa per spiegarla e farne risaltare la sofferenza dando voce al personale malessere
psichico che si trasforma in gioco, invenzione, manipolazione infinita, contatto con persone e cose
attraverso libri-pastiche, romanzi, poemi, poemetti, poesie, pseudo-sceneggiature, commedie
teatrali. Ottieri riesce, per mezzo di numerosi alter ego, a somatizzare i vari disturbi mentali
ponendosi come personaggio che si osserva e si racconta attraverso un’auto-vivisezione analitica di
se stesso: «Scrivo unicamente per sopravvivere, scrivo per scrivere, per gettare un ponticello sopra
l’abisso, per essere nella realtà e nello stesso tempo per estrarmi dalla realtà» (CC, p. 21). Per
Ottieri la scrittura è una ragione di vita, o meglio l’unica vita possibile, un’autoanalisi riflessiva che
scava nelle profondità della malattia, esponendolo di continuo alla stessa, per perlustrarla,
scandagliarla fino a scioglierla in parole attraverso una debordante volontà espressiva che lo rese
già nell’adolescenza un grafomane. Ottieri ha bisogno di scrivere per restare in vita e
contemporaneamente necessita della malattia per capire il proprio io.
L’«infezione psichica» (IQ, p. 178) è per lui l’unica essenza vitale senza la quale non
sarebbe vissuto tanto a lungo; mentre le cure, i medicinali, gli sciroppi, le terapie, le lotte analitiche,
l’alcool, si dimostrano nel tempo strumenti validi per condurre quest’introspezione nelle profondità
della sua mente lucida e macerata. La depressione, il “cancro dell’anima”, non debilita l’ispirazione,
anzi riesce a generare una scrittura che zampilla dalle zone inesplorate dell’animo umano e che solo
una speleologia costante e senza remore può far risalire in superficie, sulla pagina, poiché lo
scrivere non è un atto successivo allo studio del Male, bensì un procedimento simultaneo: «Il
problema del vivere e dello scrivere ha pesato su tutta la mia vita. Non l’ho mai risolto, o scrivendo
troppo o vivendo troppo (senza vivere)» (CC, p. 14). La letteratura di Ottieri, che sembra
all’apparenza ripetitiva quando affronta il tema della malattia mentale, riesce a configurare in forme
diverse la materia narrata grazie a un’analisi incessante sul Male di vivere che gli consente di
proiettare tutto se stesso, uomo e scrittore, anima e corpo, verso nuovi orizzonti da esplorare:
«Quanto più il suo Io si disgregava, tanto più egli esaltava la vita. Nel massimo della
autodistruzione, egli esaltava e sospingeva, spingeva alla vita, pedagogicamente» (ISP, p. 56). In
5
questo progetto, scrivere del Male che è la sua vita, Ottieri è favorito dalla conformazione fisica del
Male stesso, o meglio dal luogo del corpo in cui esso alberga, prospera, e si rigenera: il cervello.
«Gli uomini hanno un cervello, organo fisico come tutti gli altri organi, che tuttavia può pensare
anche alla metafisica» (ISP, p. 20).
A questo si aggiunga che alcuni aditivi come il vino, la birra e gli alcolici a 360 gradi o
anche le varie pasticche o sciroppi miracolosi, possono influenzare materialmente la scrittura,
dilatando il cerchio maligno della creazione letteraria: chi è costui che scrive? Un malato, un
depresso, un alcolizzato, un poeta, un tossicodipendente, un autore “minore”? La situazione, già
ingarbugliata, si complica ulteriormente se quest’uomo è uno scrittore che, oltre ad analizzare il
proprio Male, si fa portavoce nelle sue opere di un malessere pubblico, sociale e storico, tentando di
afferrare con spasmodica voracità il Male del mondo: «Sono un’antenna scorticata / che riceve da
tutto il mondo» (DSP, p. 87). Di clinica in clinica si svolgono le avventure dei personaggi malati,
rinchiusi in una «prigione» (CC, p. 106), condannati all’«inferno» (CC, p. 15) o anche annullati in
un “campo di concentrazione”. La clinica si presenta come un microcosmo con i suoi tempi spesso
morti, le sue regole e le sue illusioni; dunque un locus poco amoenus in cui Ottieri fa riflettere
poeticamente le proprie vicende autobiografiche come nel Campo di concentrazione, Contessa, La
corda corta, I due amori, L’infermiera di Pisa, Cery, Una irata sensazione di peggioramento.
Nell’analizzare il proprio Male, Ottieri rivolge una particolare attenzione alla psicoanalisi che
accompagna il suo percorso letterario dall’incoscienza iniziale delle Memorie fino all’Irata
sensazione, in cui si narra della vita quotidiana nelle cliniche tra depressi, alcolizzati e schizofrenici
che s’interrogano intorno alla malattia, conoscenza, amore, morte, realtà, irrealtà.
Così si descrive l’irrealtà univocamente, come una difesa contro il dovere maturo di rassegnarsi al
finito; e poi come una rinuncia all’infinito, all’infinità possibilità, da parte di un uomo che si fa adulto e
impara faticosamente l’esame di realtà. Senza ancora volerlo siamo scivolati in una interpretazione di tipo
psicanalitico della irrealtà. (IQ, p. 28)
La psicoanalisi, «il lavoro di analisi è un buco che si fa nel profondo, buco che viene
continuamente ricoperto da detriti, che sono i sintomi» (CC, p. 18), è una componente essenziale
della poetica di Ottieri il quale, fin dalla giovinezza, s’interessa proprio di psicanalisi intesa come
strumento per analizzare gli spazi interni, soggettivi e ancora inesplorati dell’animo umano: «Il
freudismo intende spiegare anche la scelta di se stesso. Analizzerà il mio arrivo alla psicoanalisi nel
lontano 1940, tramite un amico. Quale amico? Perché le sue parole mi impressionarono? La
psicoanalisi rincorre il suo a priori» (IQ, p. 183). «Ho cominciato presto a leggere Freud e ho avuto
i primi contatti con un analista nel ’46, appena finita la guerra. Sono stato fra i primi in Italia» (CC,
p. 91). Musatti, Zapparoli e Cassano sono alcuni psicoanalisti che lo hanno avuto in cura per molti
6
anni e con i quali egli ha lottato per contendere il primato dello scavo profondo nel suo animo. Gli
studi di psicoanalisi e l’autodiagnosi hanno infatti condotto Ottieri a trasformarsi nel medico di se
stesso, combattendo strenuamente con l’analista curante per contendergli il primato della terapia.
Mediante l’esperienza del malessere psichico, partendo dalle proprie idiosincrasie mentre
parla di sé, Ottieri scruta in modo viscerale il mondo esterno per comprendere il volto sfuggente
della realtà; e per questo l’indagine minuziosa della sua sofferenza non gli ha mai fatto trascurare le
situazioni storiche e culturali contemporanee. La malattia, intesa come uno strumento di conoscenza
della realtà esterna e di se stessi, è dunque per Ottieri anche un passaggio obbligato per
comprendere l’esistente insieme al Male che corrode la società. Dunque, oltre all’industria e alla
clinica, Ottieri rivolge grande attenzione al tema politico; in ogni sua opera la cronaca è sempre
attuale con una dettagliata trattazione della storia italiana dal fascismo delle Memorie
dell’incoscienza (1954) alle elezioni politiche del 2001 dell’Irata sensazione di peggioramento
(2002). Si potrebbe, infatti, ricostruire la storia italiana del Ventesimo secolo attraverso i suoi testi
poiché essi si presentano come un documento letterario degli eventi accaduti in Italia dagli anni
Quaranta al Duemila passando per il fascismo adolescenziale, la seconda guerra mondiale, la
Resistenza, la ricostruzione, il boom economico, la rivolta contro i Padri, l’esaltazione sociomarxista, la delusione storica, l’illusione del socialismo, il Sessantotto, la corruzione della politica
italiana, Tangentopoli, il crollo del sistema sovietico, l’ascesa di Berlusconi, la nascita della
Seconda Repubblica. Con uno sguardo fortemente critico, lo scrittore osserva nel tempo i
cambiamenti della società italiana, ne avverte le storture e non lesina attacchi, a volte anche feroci
attraverso una scrittura dura, limpida, eccessiva e sorprendente, contro chi si è reso partecipe,
riuscendovi nel corso dei decenni, del tracollo della politica italiana.
Dopo l’incoscienza giovanile legata al fascismo, Ottieri diventa un «picchiatore di sinistra»
(PO, p. 53), s’iscrive al PSI ma senza rinnovare la tessera per un bisogno di piena autonomia,
mentre per alcuni anni collabora all’«Avanti!». E proprio al PSI Ottieri dedicherà la sua
autobiografia politica con il poemetto Storia del PSI nel centenario della sua nascita, «aveva
sempre ritenuto il politico tema di poesia» (ISP, p. 21), in cui ripercorre «la marcia d’avvicinamento
alla condizione operaia di quell’operaista fanatico che era un piccolo agrario» (PSI, p. 12). Ottieri si
lega idealmente al PSI dagli anni Quaranta fino al collasso del partito dopo Tangentopoli che
equivalse a una crisi d’identità personale. Ottieri si ribella alla corruzione congenita del PSI e in
primo piano pone il «Satrapo» Craxi, fautore in primis di una politica ottimista dedita alla
pantagruelica abbuffata della derelitta amministrazione pubblica e in seguito sostenitore della
scalata all’empireo politico dell’homo novus Berlusconi. Alla Storia del PSI segue un breve
poemetto Il Padre sul complesso rapporto avuto col genitore, agrario e fascista con cui instaura una
7
battaglia incessante fin dall’adolescenza. La politica s’intreccia per Ottieri con l’inconscio, il sociale
con l’individuale, il plus-dolore con il plus-valore, Freud con Marx: «Il filo che lega la psicoanalisi
e il marxismo si ritrova sempre: la presa di coscienza, l’idea limite di libertà come superamento
concreto (cioè economico nel marxismo ed emozionale nella psicologia analitica) della necessità»
(LG, p. 34).
La letteratura proposta da Ottieri, con i suoi personaggi allucinati in condizioni di vita
dolorose ai margini della società, suscita riflessioni profonde che rilevano la straordinaria attualità
delle stesse, anche quelle più lontane nel tempo. Tutto in Ottieri è immerso nel periodo storico
affrontato anche quando in apparenza un suo romanzo sembra una trasposizione autobiografica del
vissuto di chi non scrive con il mestiere ma con la vita: «La contemporaneità schiaccia come un
blocco di piombo la narrazione o fiction, la cronaca si impone su qualsiasi storia. Il romanzo –
posto che vi sia – viene frantumato e scavalcato dagli Annali. L’io narrante diviene un diarista di
ciò che accade» (ISP, p. 53). La forma diaristica esprime la pulsione primaria degli eventi nel
momento in cui accadono nella stretta quotidianità, catturando con le date e sviscerando giorno
dopo giorno le situazioni a volte insostenibili della sua vita. Donnarumma all’assalto, La linea
gotica, Il campo di concentrazione, Il diario del seduttore passivo sono in diverse forme dei veri e
propri diari. L’autobiografia, non solo attraverso i diari, è evidente quando si constata che dai
ricordi giovanili derivano Le memorie dell’incoscienza, dall’esperienza di Pozzuoli Donnarumma
all’assalto, dal soggiorno a San Rossore L’infermiera di Pisa, dal ricovero nella Klinik am
Zürichberg Il campo di concentrazione, dalla stagione mondana I Divini mondani, dai mesi trascorsi
alle Betulle La corda corta, dalla “carcerazione domiciliare” Le guardie del corpo, dalla clausura di
Via San Primo Il Poema osceno, dal ricovero all’ospedale di Losanna Cery, dalla terapia seguita a
Padova con Gallimberti Una irata sensazione di peggioramento.
La mia letteratura nasce sempre da scelte di vita, mai di letteratura. Forse per questo è così
autobiografica e a tendenza figurativa. […] Troppa ironia. Ma siamo al tramonto dell’ironia. La poetica io
non ce l’ho; è forse quella poetica desertica e clinica, calcificata, che mi ha sempre tenuto lontano dalle belle
lettere? Le mie lettere non sono belle. (PO, pp. 61, 69)
C’è autobiografia, senza dubbio, ma forse sarebbe meglio definirla antropologia, poiché
Ottieri parla di sé attraverso la costruzione di numerosi alter ego, come Vittorio Lucioli
nell’Irrealtà quotidiana, che vengono riconosciuti puntualmente dal lettore come dei simboli di
cinquant’anni di storia d’Italia. L’istinto autobiografico, il valore salvifico della scrittura e le
riflessioni sulla vita sono i motivi che puntellano la sua bio-letteratura:
8
L’attività che faccio adesso coinvolge talmente la vocazione di scrittore, quasi da sostituirla. Penso a
volte di scrivere usando come carta e penna questo imparare, osservare, fare. Sono molto vicino a quelli che
hanno smesso di scrivere per un agire rivoluzionario, per una modificazione diretta della realtà. E molto
lontano. Basta un attimo di pausa, di allontanamento, perché subito l’esperienza si raccolga idealmente in un
libro. (LG, p. 216)
Partendo da tre tematiche eterogenee come l’industria, la clinica e la politica, collegate tra
loro da un filo rosso di lucida coerenza individuabile nell’alienazione, fenomeno che Ottieri fa
convergere in ambito letterario, lo scrittore riesce per osmosi a unire le differenti direttrici offrendo
uno stimolo continuo durante la lettura. Ottieri, infatti, intreccia fittamente numerosi motivi che,
nella continuità tra un libro e l’altro, formano il carattere essenziale della sua poetica, ovvero la
ripresa, lo sviluppo e la rielaborazione di soggetti sempre aperti che non sembrano concludersi mai.
Ottieri organizza in questo modo una “sinfonia” che si modifica nel corso degli anni e sempre
pronta ad assimilare nuovi impulsi dalla letteratura e dalla società. La “sinfonia” orchestrata da
Ottieri, infatti, si apre di continuo a nuove sollecitazioni trovando sulla pagina terreno fertile nel
riadattamento di motivi affrontati nelle opere precedenti che si estendono in quelle successive. Una
“sinfonia” aperta che non conosce conclusioni definitive e in cui gli elementi passano al libro
successivo «come una sorta di vaso comunicante» (Paolo Mauri, in Convegno, p. 63) o come «un
fiume ad andamento carsico» (Raffaele Manica, ivi , p. 54).
Ma se è vero che questa “sinfonia” si sviluppa e si modifica nel tempo grazie alla
sovrapposizione cronologica delle opere, è necessario riflettere sulla progettualità alla base del
pensiero di Ottieri che trapela dall’epistolario giovanile, soprattutto nelle lettere dal carattere già
romanzesco scritte a vent’anni e inviate, tra il ’43 e il ’50, a Vanni, Tullia, Dora, Francesca,
Fabrizia, dove emergono la vocazione, la volontà, il desiderio, la necessità di essere uno scrittore
che, a quel tempo, non aveva ancora pubblicato nulla. Eppure proprio in quelle lettere confessionali
Ottieri dimostra sorprendenti qualità narrative, mentre dichiara in modo esplicito quali sarebbero
state le tematiche delle sue opere future, l’industria, la malattia, la società e la politica, dimostrando
dall’inizio una lucida coerenza che nel corso dei cinquant’anni di produzione, dal 1954 al 2002, si
rivelerà implacabile nel condurre a termine quel progetto letterario scaturito nella prima giovinezza.
La vocazione letteraria nel giovane Ottieri si congiunge con l’arte, lo studio, l’applicazione a
volte anche ossessiva sui libri che lo conducono ad aggredire la letteratura con amore, ferocia,
passione, devozione. La stessa scrittura di Ottieri, di conseguenza, fin dalle prime prove tende a
essere aperta agli influssi di alcuni autori che guidano la sua formazione intellettuale e che lo stesso
Ottieri, attraverso riprese, parodie e rifacimenti, richiamerà nei suoi scritti. Questo procedimento
viene attuato anche nella sua maturità artistica nei confronti di numerosi scrittori, poeti, intellettuali,
filosofi contemporanei e non, italiani, stranieri e classici, con i quali egli instaura un costruttivo e
9
costante dialogo culturale. Dal punto di vista letterario, intorno a Ottieri si avverte una certa densità
di autori che accompagnano il suo viaggio come Foscolo, Leopardi, Gadda, Moravia, Alvaro,
Piovene, Parise, Volponi, Bianciardi, Fortini, Gramsci, Vittorini, Calvino, Pavese, Manzoni, Sartre,
Kafka, Catullo, Virgilio, Terenzio, Butor, Byron. Un’attenzione particolare Ottieri la rivolge a due
poeti che egli considera suoi maestri e che influenzano la sua scrittura: Dante e Pasolini, soprattutto
per lo sdegno morale e l’autonomia intellettuale con cui affrontarono le questioni sociali e politiche
relative all’Italia. Altri scrittori non specificamente letterari, tuttavia determinanti per alcune scelte
culturali, dalla sociologia alla psicoanalisi alla sociologia, sono Cartesio, Freud, Jung, Marx, Weil,
Rupp, Perrotti, Bouvet. Ottieri tenta, dentro le sue opere, d’instaurare con loro un dialogo
costruttivo, ci parla, si confronta, si sente stimolato dalle riprese che lui stesso propone procedendo
poi in una via autonoma, così che la sua scrittura si delinea assai complessa per i numerosi
riferimenti culturali che non possono essere trascurati.
L’opera di Ottieri, complessa e sofferta, rappresenta un caso particolare nella letteratura del
secondo Novecento perché la sua presenza si fa sentire in modo originale, sorprendente, a volte
provocatorio e soprattutto mai banale, dove «scrivere è blobbare, acchiappare tutto con ironia,
l’altra faccia della malinconia» (CRO, p. 188). Ottieri coglie nel profondo i sentimenti di malessere,
le mode, i tic, le manie, gli slogans dell’attualità riversandoli sulla pagina con abilità, grazie a un
intelligente dosaggio di sarcasmo e passione. Racconta storie non semplici come l’alienazione nella
fabbrica e in clinica, la mercificazione dei rapporti umani, la sofferenza nella malattia, dando voce a
ciò che spesso s’ignora o si evita semplicemente di dire. Riesce nel progetto spaziando in ambiti
diversi tra loro anche con un’impensabile leggerezza che gli permette di sdrammatizzare le
situazioni più penose, fino a sorridere a volte delle idiosincrasie dei malati, degli operai, dei padroni
perché Ottieri va oltre la descrizione del dramma lasciando aperti spiragli a un’ironia che infrange
la distanza tra l’opera e il lettore. Ottieri, di fatto, non si è mai atteggiato a “Primo Ministro” della
sofferenza, affrontando la malattia con un autoironico spirito beffardo fino a liquidarne ogni
patetismo per ricavare dal Male avvolgente, infinito, irreale, la propria vitalità letteraria: «Forse egli
era uno degli inventori della ironia, ma era anche così autoriflesso che se ne rideva della ironia
stessa. Faceva, coattamente, ironia della ironia» (ISP, p. 100). Si sta dentro un romanzo di Ottieri
come davanti a uno specchio: ci si auto-osserva e auto-analizza senza inutili ipocrisie o la necessità
di essere un depresso, un operaio o uno psicoterapeuta per capire e apprezzare il profondo senso
delle opere.
Nato nel ’24, Ottieri appartiene a quella generazione di scrittori come Pasolini, Volponi,
Parise che, attraverso diverse espressioni artistiche, hanno tentato di descrivere la società italiana
del dopoguerra, dal miracolo economico che stava trasformando le abitudini di vita di un paese
10
dalla cultura e mentalità contadina. Nell’analizzare se stesso, la società, i costumi e in particolare il
male congenito nell’uomo moderno, Ottieri ha utilizzato la scrittura partendo da differenti direttrici,
come gli studi letterari, psicologici e sociali tra cui marxismo e psicoanalisi; tuttavia più che una
mescolanza di generi, Ottieri andò alla ricerca di uno spazio nuovo e sconosciuto, di un terreno
d’analisi che nessun altro scrittore stava calcando per penetrare quelle zone della società e della
psiche mai raggiunte prima. Ottieri, vittima del pensiero ambivalente che pensa tutto e il suo
contrario, atteggiamento tipico del «bipolare rapido» (GC, p. 69), spinse le sperimentazioni
letterarie al confine della tradizione ricorrendo anche a forme ibride quali la sceneggiatura da
romanzo L’impagliatore di sedie, il saggio romanzato L’irrealtà quotidiana, il racconto in cadenza
Le guardie del corpo, il prosimetron Il poema osceno, una pseudo-tragedia Una tragedia milanese.
Ottieri è un autore “totale” che ha usato la scrittura in tutti i modi, dalla poesia alla prosa, dalla
sceneggiatura cinematografica alla drammaturgia, dalla traduzione all’articolo di giornale, trattando
argomenti complessi anche con sorprendente leggerezza fino all’estremo delle risorse possibili.
Ottieri utilizza un tipo di scrittura trasparente che riesce a filtrare la drammaticità delle vicende
attraverso uno schermo linguistico limpido e razionale che sembra tenere tutto sotto controllo grazie
a un intelligente dosaggio d’ironia. Ottieri avverte una propria introversione linguistica mentre tenta
di fermare sulla pagina il flusso di sensazioni che non stanno mai ferme, come il sentimento
d’irrealtà semplicemente indescrivibile. La sua lingua, dinanzi a questa (ir)realtà sfuggevole, sceglie
di non farsi afferrare, ma senza fratture, utilizzando in alternanza il gergo della fabbrica, della
clinica, dei salotti nel periodo mondano, della politica in modo del tutto integrato al resto della
narrazione. La lingua di Ottieri è media, senza dialetti, rinunciataria, in qualche modo rassegnata a
non avere spazio o colori particolari, lingua che attraversa lo scrittore stesso vittima sacrificale della
propria scrittura.
Ho usato una lingua neutra, / una pagina che somiglia / alle pianure della luna senza storia. / Come
per descrivere / l’industria, non usai un linguaggio / a livello industriale, / ma solo industriale, / per la
disperazione non usai / linguaggio a livello di despair, / ma un linguaggio nudo / dei pensieri di despair. /
S’aggiunse disperazione / a disperazione: non avevo / né dialetti né balzi / linguistici e verzure. / Pare che
dovevo averli. / Il mio realismo era grigio. (PO, p. 143)
A causa della disponibilità tragica a essere trafitto dalla realtà che viene tradotta in
letteratura, l’inintegrabile Ottieri è una delle più intense testimonianze letterarie italiane del XX
secolo. Inclassificabile e originale, affrancato da qualsiasi categoria o etichetta letteraria, Ottieri
dimostra un coinvolgimento profondo e sofferto sulla materia da narrare, mostrando una particolare
intransigenza soprattutto nei riguardi di se stesso. Quest’atteggiamento, ampiamente incompreso, ha
condotto poi a osservare la sua presenza come inquietante e pericolosa all’interno dei meccanismi
11
feroci di una società consumistica che divora idee e sentimenti nuovi e che accetta malvolentieri le
voci fuori dal coro: «Conosco le difese della società civile. / Quando io dico una delle mie gaffe, /
che presuntuosamente considero / prefazioni della verità, / che è sempre rivoluzionaria, / do fastidio
/ più che se mentissi» (PAD, p. 75). I difficili rapporti vissuti dallo scrittore nei confronti
dell’ambiente culturale italiano sono un motivo ricorrente nelle sue opere, poiché egli sentiva di
aver dato più di quanto avesse ricevuto. Non è stato uno scrittore popolare, né di best-seller, e non
avrebbe potuto esserlo a causa della materia letteraria da lui scelta, dal modo in cui l’ha proposta e
dall’aver anticipato i tempi su argomenti scomodi: «Io sono sempre all’altezza dei tempi / ma non
del mio tempo» (PAL, p. 24). Da qui il carattere engagé di una letteratura agonistica, feroce,
vernacolare, sprezzante del Male e dei potenti del Palazzo, realistica e allucinatoria, ironica e
depressa, non seducente come l’autore stesso la definiva eppure, o forse proprio per questo,
indispensabile.
12
CAPITOLO PRIMO. L’INDUSTRIA
I.1 La linea gotica
Ottieri è considerato il precursore in Italia della letteratura industriale grazie alla tetralogia
formata dai due romanzi Tempi stretti (1957) e Donnarumma all’assalto (1959), la commedia I
venditori di Milano (1960) e il diario La linea gotica (1962). Il tema dell’industria nella letteratura
italiana venne affrontato per la prima volta nei numeri 31 e 32 di «Nuovi argomenti» del 19581, e in
modo più organico da Vittorini e Calvino che dedicarono il quarto numero del «Menabò», uscito nel
’61, al complesso rapporto tra letteratura e industria2. In quel numero, che ospitava una serie di
racconti, poesie e saggi inediti di Vittorio Sereni, Luigi Davì, Giovanni Giudici, il direttore Vittorini
auspicava per la letteratura italiana la capacità di produrre nuove opere traendo ispirazione dalla
nascente realtà industriale. Alla letteratura sarebbe spettato dunque il compito di descrivere e
analizzare il processo di trasformazione in atto nella società italiana con riferimento specifico alla
cultura industriale. Da quel proposito teorico, tuttavia, non si stava sviluppando in Italia una
letteratura propriamente industriale, per l’eccessiva penuria della materia trattata, l’evidente scarsità
di titoli pubblicati e per la confusione con cui impropriamente si consideravano industriali quei
romanzi che avevano sullo sfondo una fabbrica ma con atmosfere patetiche, popolari, ottocentesche,
poco proletarie e senza lo scontro sociale con la realtà industriale.
Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. Non si entra – e non si esce – facilmente. Chi può
descriverlo? Quelli che ci stanno dentro possono darci dei documenti, ma non la loro elaborazione: a meno
che non nascano degli operai o impiegati artisti, il che sembra piuttosto raro. Gli artisti che vivono fuori,
come possono penetrare in un’industria? […] L’arte non nasce dall’inchiesta, ma dall’assimilazione. Anche
per questo l’industria è inespressiva; è la sua caratteristica. (LG, p. 183)
Opera basilare nel panorama della letteratura industriale italiana è La linea gotica, un diario
pensato dapprima come Taccuino industriale che riassume dieci anni di vita di Ottieri, dal ’48 al
’58, e importante per comprendere il suo stato d’animo, le speranze, illusioni, amarezze nel
1
Usciranno sui numeri 31 e 32 dei due bimestri marzo-aprile e maggio-giugno di «Nuovi Argomenti» sia
l’articolo di Giovanni Carocci, Inchiesta alla Fiat. Indagine su taluni aspetti della lotta di classe nel complesso Fiat, sia
alcuni passi del futuro Taccuino industriale di Ottieri.
2
«Il Menabò» (1959-1967), a cura di Donatella Fiaccarini Marchi; presentazione di Italo Calvino, Edizioni
dell’Ateneo, Roma 1973.
13
decennio della ricostruzione e del miracolo italiano. Durante la stesura degli appunti per il suo
diario, Ottieri stava elaborando i due romanzi industriali, Tempi stretti scritto tra il ’53 e il ’55 e
Donnarumma tra il ’55 e il ’57, così che La linea gotica gli servì da serbatoio cui attingere per
ricostruire le situazioni vissute e le persone incontrate, riscrivere i luoghi di lavoro, i dialoghi, fino
ai pensieri più intimi dei personaggi. La simultaneità delle esperienze, di lavoro e di scrittura, lo
conduce a copiare numerosi passi del diario trasformandoli in materia da romanzo con alcuni artifici
come il cambiamento dei nomi, ma lasciando di fatto inalterata la sostanza. In una lettera inviata a
Calvino nel gennaio del ’54, Ottieri spiega in modo esplicito l’importanza di quel diario che iniziò a
scrivere a vent’anni e che sarà pubblicato nel ’62 col titolo La linea gotica:
Caro Calvino, dal ’43 tengo una specie di Diario (una quindicina di quaderni). Dovrebbe esserci tutta
l’evoluzione mia e di certa mia generazione dall’astratto estetismo e problematicismo dei vent’anni e dal
velleitario fascismo, alla coscienza sociale di oggi, al socialismo. Contini ha trovato assai interessante
l’ultimo quaderno dove ci sono osservazioni sulla vita industriale e di Milano. Si tratta di una parabola di
dieci anni, la cui crisi centrale è soprattutto psicologica e poi politica. Il materiale è allo stato assolutamente
grezzo, andrebbe interamente riscritto. Che cosa ne pensi (in via del tutto generale)? Non è un lavoro a
carattere postumo. E poi, dopo Pavese? Per dartene un’idea, c’è una prima parte che è, appunto, mestiere di
vivere, una seconda problemi di psicologia industriale (una specie di Condizione operaia della Weil, ma
senza misticismo, senza angoscia etc., e fatte le debite proporzioni).
L’interesse per il mondo industriale nacque in Ottieri alla fine degli anni Quaranta grazie
alle opere di Marx e Simone Weil che lo stimolarono a osservare con i propri occhi la condizione
proletaria letta soltanto sui libri. Per questo motivo, nell’aprile del ’47, Ottieri abbandona Roma e la
prigionia della casa paterna per trasferirsi a Milano, città che dopo la fine della guerra, nell’avvio
della ricostruzione, poteva offrire migliori possibilità di lavoro in una fabbrica anche per un giovane
laureato. Il trasferimento fu tuttavia traumatico: da solo e senza conoscenze, Ottieri è costretto a
vagare per la città alla ricerca di una camera da affittare a prezzi contenuti: l’affannosa tribolazione
si concluderà in una disadorna pensione, una «cella del quartiere / caro agli artisti» (PSI, p. 62) al
numero 2 di Via Pontaccio, nei pressi del Castello, in una zona negli anni Cinquanta frequentata
soprattutto da prostitute, artisti e studenti squattrinati. «Peregrinazioni per Milano, dura, grigia, fatta
solamente di strade, in cerca di lavoro e di una camera mobiliata. […] Finisco a vivere in una
pensione per bohémiens, portato da una ragazza che nella stessa pensione ha tentato di suicidarsi»
(LG, p. 24).
All’inizio dell’avventura milanese Ottieri s’imbatte in attività poco remunerative che lo
costringono a lavorare anche di notte scrivendo articoli per diverse riviste quali «Pesci Rossi», «Il
pensiero critico» e «Omnibus»; ma in realtà egli vorrebbe uscire dal mondo chiuso degli interessi
umanistici per un lavoro non letterario che gli permetta di addentrarsi in modo più concreto negli
studi sociali e psicologici: «Non voglio lavorare in un giornale (neppure di partito), in una casa
14
editrice, nei regni della carta» (LG, p. 31). Ma con la laurea in Lettere le occupazioni che gli si
offrono sono quelle umanistiche che vorrebbe evitare, come l’impiego da apprendista in cronaca al
quotidiano socialdemocratico «L’Umanità».
In questo periodo tribolato e senza certezze, mentre è assalito da molti dubbi se restare a
Milano, Ottieri intraprende un intenso processo di maturazione politico-culturale corroborato da
studi crociani, freudiani e marxisti che sfocerà nell’adesione al Partito Socialista, nella
partecipazione politica all’interno delle sezioni di partito e nella conoscenza diretta del proletariato
in fabbrica: «Frequento subito, in fretta, il Partito Socialista. Per ora di Milano non vedo altro che
queste sedi politiche squallide, e immagini ideologiche» (LG, p. 22). Nello stesso periodo Ottieri
inizia una terapia psicoanalitica con il Dottor Cesare Musatti3 ed entra a far parte del comitato di
redazione della neonata rivista «Psiche» diretta dal Professor Nicola Perrotti, così che psicoanalisi e
politica diventano gli strumenti principali che lo avviano verso una particolare Vita nova: «Facevo
psicoanalisi con Musatti / che ritrovavo in sezione la sera. […] Questo accoppiamento Freud-Marx /
l’ho vissuto come bisogno primario» (PAD, p. 62). Inoltre, sempre in quei mesi, Ottieri comincia a
scrivere il suo romanzo d’esordio Memorie dell’incoscienza riesaminando la propria adesione al
fascismo, dettata da infatuazioni adolescenziali per Mussolini il Padre della Patria attraverso
l’imitazione di atteggiamenti paterni più che da solide convinzioni personali.
Fondamentali per comprendere le sofferenze del primo soggiorno milanese sono le lettere
inviate da marzo ad agosto del ’47 da Ottieri all’amica e confidente Fabrizia Baduel4 alla quale
confida i propri disagi esistenziali. Dopo pochi mesi dal suo arrivo a Milano, Ottieri, che vi giunse
per conoscere tangibilmente la condizione operaia, decide di cercare lavoro in una fabbrica spinto
dalla necessità di partecipare, dall’interno, a un processo storico decisivo per l’Italia, quello
dell’industrializzazione di un paese dall’animo atavicamente agrario, contadino.
Carissima Fabrizia, sono a Milano da circa una settimana e la situazione è questa: assunto a
«L’Umanità» come apprendista, in cronaca, gratis, almeno per i primi tempi. Poi si starà a vedere. Lavoro di
notte etc. Difficoltà grosse a trovare una camera che non costi l’ira di Dio. Dubbi se restare a «L’Umanità»,
che però, essendo un quotidiano socialdemocratico, mi piace. Dubbi sull’avvenire in quantità
impressionante. […] Sono stanco di questa confusione perpetua. […] Purtroppo la mia vita è poco lieta, gli
3
Della psicoanalisi freudiana Cesare Musatti (1897-1989) fu il leader indiscusso negli anni del dopoguerra,
con il suo Trattato di psicoanalisi, pubblicato da Einaudi in due volumi nel ’49, che uscì quando non erano ancora
disponibili le opere di Freud in italiano.
4
Si tratta di un amore giovanile di Ottieri. Fabrizia Baduel era una ragazza sua coetanea, studentessa di
Scienze Politiche che viveva a Perugia in Via degli innamorati 2, dunque non molto distante da Chiusi dove il giovane
scrittore soggiornava ogni estate. L’epistolario attesta una fitta corrispondenza (97 sono le lettere conservate) dal 23
giugno ’46 fino al 23 maggio ’50, ovvero poco dopo il matrimonio di Ottieri con Silvana Mauri avvenuto in aprile. Con
Fabrizia, Ottieri instaura un rapporto basato su profondi sentimenti riuscendo a descriverle, in modo esplicito, i travagli
interiori in un periodo importante della sua vita, dall’abbandono di Roma e della famiglia alla vita solitaria di Milano,
dai primi lavori nell’editoria ai dubbi se proseguire una vita «d’esilio»; ma soprattutto Fabrizia è la prima confidente
delle proprie sofferenze psichiche, alla quale Ottieri racconta le sedute dallo psicoanalista Musatti, i sintomi della
depressione, le speranze di una pronta guarigione.
15
ultimi due o tre anni mi hanno scosso e logorato. […] Mi attirerebbe un lavoro extra-letterario, per conoscere
gente nuova, piuttosto che i soliti dei giornali e delle riviste. […] La mia vita è una condizione estrema,
d’esilio. Ho lucidissima davanti agli occhi la strada della rovina, tutti i giorni la tocco con mano e la conosco,
l’ho sperimentata. […] La nausea che provo, tu sapessi, verso le cose vecchie della mia vita. […] Tu non
appartieni al mio inferno. […] Per me la quiete (anche relativa) dell’anima è una meraviglia, una situazione
quasi assurda. Sono disabituato alla quiete. […] I congegni del mondo ai miei occhi si sono un poco storti.
La realtà da troppo tempo io la vedo con occhiali deformatori. […] Debbo di nuovo riprendere in mano me
stesso e non considerarmi più in balia del demone. […] Mi sento stordito e leggermente depresso. Ho letto
tutto il giorno. […] Sono convinto che solo attraverso di essi possiamo raggiungere l’altra classe, il
proletariato e vivere finalmente questa esperienza che è nel cuore del nostro secolo e della nostra situazione
interiore. Perciò il mio ideale adesso sarebbe entrare in una fabbrica, in una Società, in un’industria, dove
avvicinare padroni e servi nella loro lotta quotidiana; un giornale, una casa editrice stanno all’estrema
periferia della lotta: commentano, non agiscono.
L’esperienza di quei mesi, della scoperta di Milano come una ricognizione in avanscoperta,
fu fondamentale per le future scelte di Ottieri e non solo di vita: infatti il 2 febbraio del ’48 decide
di trasferirsi definitivamente nel capoluogo lombardo per trovare lavoro in fabbrica, volendo
concretizzare in prima persona le letture socio-industriali che lo avevano fino ad allora interessato.
Una linea gotica, mentale, per me taglia a mezzo l’Italia. Ci vivo a cavallo. I dilemmi spirituali,
dell’anima, si proiettano nella geografia. Una scelta interiore si camuffa da scelta di una città e non è
nemmeno del tutto un camuffamento. Roma è il mio essere, Milano il mio dover essere. […] Ho lasciato il 2
febbraio, a 23 anni, Roma per Milano. Ho lasciato la letteratura, la casa agiata dei miei, la nevrosi di figlio
unico. […] Il viaggio. Lo strappo, come tira al di là di Firenze. Solo, appoggiato con la testa sul tavolino
dello scompartimento, dalla stazione scendo su una Milano nera dentro una malinconia nera. (LG, pp. 21-22)
Ottieri riesce a ottenere un colloquio con Gino Martinoli, dirigente della Necchi, fratello di
Paola moglie di Ariano Olivetti; ma l’assunzione non si concretizza. Dopo altri tentativi infruttuosi
d’impiego nell’industria, Ottieri è costretto ad accettare, il 1 dicembre del ’48, l’assunzione presso
l’Ufficio Stampa della Casa Editrice Mondadori, ufficio di cui è direttore Guido Lopez, evento che
lo scrittore ricorda con amara rassegnazione in un paragrafo della Linea gotica: «Vengo assunto da
una casa editrice con gli inizi dell’anno [’49]. Di nuovo carta, libri, società letteraria, cultura
indiretta, quello che non volevo. Ma è l’unico lavoro che ho trovato, l’unico ritenuto adatto a un
passato letterario. Altrove diffidano» (LG, p. 43). All’amica Fabrizia confida la singolare situazione
nell’aver accettato un lavoro fino a quel momento evitato con accortezza, dovendo allontanarsi
ancora una volta dal mondo operaio percepito ormai come una religione: «Carissima Fabrizia, il
guaio grosso è che sono finito proprio nel mezzo del mondo letterario, e lo aborro. Non mi
lamenterò mai abbastanza di questo scherzo del destino. Tiriamo avanti; a furia di prove ed
esperimenti sto consumando la vita mia» (21 gennaio ’49).
Dopo il divorzio dalla Mondadori, «una mattina non trovai la scrivania. / Seppi che è un
modo usato di licenziare» (PAD, p. 67), Ottieri all’inizio del ’51 entra a far parte dell’Anonima
Periodici Internazionali svolgendovi attività giornalistica, fino a dirigere la rivista mensile di
16
divulgazione scientifica «La Scienza Illustrata». Questo lavoro lo aiuterà a scoprire da vicino il
mondo industriale, osservando con i propri occhi il problema del rapporto fra l’operaio e la
macchina così come l’aveva studiato nelle opere di Marx e soprattutto nella Condizione operaia di
Simone Weil: «Leggo La condizione operaia della Weil. La Weil, sì, è masochista; ma è onesta»
(LG, p. 110). La condition ouvrière5 di Simone Weil gli servirà da modello sia biografico per farsi
assumere in un’azienda, sia letterario per opere ambientate in fabbrica: «Dovevo capire, vedere con
i miei occhi il problema del rapporto tra l’operaio e la macchina così come l’avevo letto in Marx.
Sono stato una specie di piccola Simone Weil»6. Simone Weil era, all’inizio degli anni Trenta,
un’insegnante di filosofia che si avvicinò agli ambienti sindacali e politici anarco-trotzkisti, e
volendo sperimentare su se stessa la condizione operaia si fece assumere, come manovale, alle
officine Renault dal 4 dicembre ’34 all’8 agosto ’35. Per ricordare questi otto mesi la Weil registrò
su un diario le esperienze sofferte in fabbrica, insieme a lettere e a saggi che apparvero nel ’51 con
il titolo La condition ouvrière presso Gallimard nella collana «Espoir» diretta da Albert Camus, con
una prefazione di Albertine Thévenon (un’amica della Weil); già l’anno seguente l’opera fu tradotta
in italiano da Franco Fortini per le Edizioni di Comunità del gruppo Olivetti.
Eppure resisto. E non rimpiango mai di essermi lanciata in questa esperienza. Anzi, ogni volta che ci
penso, me ne rallegro infinitamente. Ma, cosa curiosa, ci penso di rado. Ho una capacità di adattamento quasi
illimitata che mi permette di dimenticare di essere una professoressa girovaga fra la classe operaia. (La
condizione operaia, p. 123)
La Weil racconta in modo dettagliato il lavoro quotidiano che si svolge all’interno della
fabbrica, l’oppressione subita dagli operai, il loro supersfruttamento, la frantumazione del lavoro, il
senso di schiavitù imperante, il penoso desiderio di libertà, l’abitudine alla sofferenza, l’alienazione,
il malessere fisico e spirituale. Non avendo bisogno di lavorare in fabbrica, giacché la scrittrice era
una professoressa proveniente da un’agiata famiglia di origine ebraica, la scelta di calarsi in una
realtà così estrema ha reso la sua ricerca oggettiva e indipendente da qualsiasi coinvolgimento
politico. Il 4 dicembre del ’34, Simone Weil fu assunta come operaia presso le officine della società
elettrica Alsthom di Parigi fondata nel ’28 dall’unione dell’Alsasienne e della Thomson-Houston,
grazie all’interessamento dell’amico Souvarine presso l’amministratore della società, l’ingegner
Auguste Detœuf: «Ci sono arrivata solo per via di favori; uno dei miei migliori amici conosce
l’amministratore delegato della Compagnia e gli ha spiegato il mio desiderio; l’altro ha capito» (La
condizione operaia, p. 129). Dal lavoro manuale la Weil si aspettava un profondo contatto con la
realtà proletaria e forse anche una comprensione più effettiva della questione sociale che la spinse a
5
6
WEIL Simone, La condizione operaia (1951), traduzione in italiano di Franco Fortini, SE, Milano 1994.
Dall’intervista rilasciata a Lea Vergine in Gli ultimi eccentrici, Rizzoli, Milano 1990, pp. 231-237.
17
entrare in fabbrica, sforzandosi di superare la debilitazione del proprio fisico (era malata di
tubercolosi) per non accettare un eventuale fallimento. Soltanto nel lavoro manuale, infatti,
l’intellettuale scorgeva la sintesi di pensiero e azione che le avrebbe consentito di passare dal sogno
alla realtà, costituendo dunque l’espressione più alta della condizione umana. In quei pochi mesi di
impiego nella fabbrica, lo sguardo della Weil si proietta direttamente all’oggetto rappresentato,
ossia la condizione operaia osservata senza alcun filtro, e ciò che emerge in primo piano è il senso
di schiavitù causato dalla difficile presa di coscienza degli operai sulla propria condizione e
dall’impossibile rivoluzione da attuare. Poiché il progresso è strettamente legato alla separazione
pressoché totale tra lavoro e coscienza, essendo quest’ultima riservata ai gruppi dominanti, la
distanza tra condizione proletaria e borghese appare, per la Weil, estrema; così che la classe operaia
non si può manifestare come il soggetto rivoluzionario predicato dalle avanguardie intellettuali,
bensì come un universo di oppressi in balia di una società malata dove alla borghesia è assegnato il
compito dell’oppressore e all’operaio dell’oppresso. «Il problema, in questo momento, è quello di
sapere se, nelle condizioni attuali, si può arrivare a far sì che nell’ambiente della fabbrica gli operai
contino qualcosa e abbiano coscienza di contare qualcosa. […] La sola risorsa per non soffrire è
quella di sprofondare nell’incoscienza» (La condizione operaia, pp. 153, 193).
La logica nefasta di tale condizione si traduce in un’inevitabile ignoranza degli operai che
viene riconosciuta, per comune accordo, come uno degli ostacoli a un’organizzazione più
funzionale; d’altra parte averne consapevolezza comporterebbe un rischio per tutti, dai dirigenti agli
operai stessi. Il non pensare si mostra dunque condizione necessaria per lavorare in modo efficace,
estraniandosi dal proprio lavoro e divenendo l’operaio un automa che per conservare il posto agisce
senza considerare i propri vincoli. Il problema quindi non consiste nella proprietà dei mezzi di
produzione ma dal fatto che i lavoratori siano ridotti a pura funzione dell’apparato industriale. Il
lavoro che si svolge dentro una fabbrica è inumano, alienante e soprattutto incomprensibile, giacché
si evidenzia un vero mistero della fabbricazione quando l’operaio ignora l’uso di ogni singolo
pezzo, il modo in cui si combina con gli altri, la successione delle operazioni compiute su di esso e
l’uso conclusivo dell’insieme: «Sento d’esser preda di una grande macchina ignota. Non si sa a cosa
serva il lavoro che si sta facendo, non si sa che cosa si farà domani, né se il salario sarà diminuito.
Né se ci saranno licenziamenti» (La condizione operaia, p. 114).
Alienante è la condizione dell’operaio che lotta per la sopravvivenza racimolando uno
stipendio non adeguato, senza prospettive di miglioramento future, con il terrore della perdita del
lavoro e l’incessante asservimento ai padroni. Weil osserva una produzione industriale di vite
spezzate, dal risveglio all’alba, al lavoro in fabbrica, alla fatica, agli incidenti, alla nausea fino alla
campanella delle sei che concede il ritorno a casa con le residue forze per dormire senza neanche la
18
cena, poiché per alcuni lo stipendio è troppo basso e non permette più di un pasto al giorno.
Tuttavia la mattina successiva ci si ritrova di nuovo nel metrò in direzione della fabbrica, ripetendo
senza senso i meccanismi di una vita-non vita, inumana, desolante. Ottieri ricorda spesso la
scrittrice operaia Simone Weil quando analizza la condizione di schiavitù cui è soggiogato
l’operaio-macchina osservato al lavoro negli ingranaggi spietati di qualsiasi fabbrica: «In tutte le
altre forme di schiavitù, la schiavitù è nelle circostanze. Solo qui è trasferita nel lavoro stesso» (La
condizione operaia, p. 108). «C’è ovunque uno stesso silenzio di persone che corrono dietro al
tempo, e questa corsa costringe certamente alla schiavitù, ma mai come nel nostro stabilimento
compare l’altra faccia di questa schiavitù necessaria: la dura dignità, la costruzione giornaliera di
una via di libertà» (DON, p. 176).
Finalmente nel ’53, dopo numerosi tentativi infruttuosi, Ottieri ottiene un impiego in una
delle più importanti aziende italiane, la Olivetti, dopo un colloquio con l’ingegnere capo Adriano
Olivetti il quale, presidente dal ’38 dell’azienda lasciatagli dal Padre Camillo, divenne in pochi anni
un imprenditore di punta nel panorama industriale italiano del dopoguerra, proponendo delle novità
che solo negli anni successivi sarebbero state comprese, come l’organizzazione decentrata del
personale, la direzione per funzioni, lo sviluppo della rete commerciale, l’ambientalismo, il lavoro
“a misura d’uomo”. La sua poliedrica personalità lo condusse in seguito a impegnarsi non solo nel
campo strettamente industriale ma anche nei settori dell’urbanistica, dell’architettura, della cultura,
divenendo un editore che, grazie a un vasto programma editoriale, pubblicò importanti opere in vari
campi dal pensiero politico alla sociologia, dalla filosofia all’organizzazione del lavoro. Avendo
maturato l’idea che nell’industria la cultura tecnico-ingegneristica doveva integrarsi con quella
umanistica, l’ingegner Olivetti «colto e illuminato, di cultura raffinato e geniale» (IQ, p. 221), oltre
a Ottieri fece confluire una colonia di intellettuali (Giudici, Fortini, Volponi, Sinisgalli, Pampaloni,
Soavi, Bigiaretti) quali manager della sua azienda. Per Adriano Olivetti, intellettuali e letterati erano
assolutamente necessari anche in un’industria a elevato contenuto tecnologico, poiché il loro
contributo poteva favorire un progresso equilibrato dell’impresa evitando gli eccessi del tecnicismo.
Gli intellettuali che lavorarono alla Olivetti non sono mai stati valutati come un lusso o un
ornamento dell’alta direzione, bensì come fattori del tutto organici allo sviluppo aziendale in
particolare in settori critici come la pubblicità e comunicazione, le relazioni con il personale, i
servizi sociali. Mentre in altre società il letterato interveniva soprattutto nei rapporti aziendali verso
l’esterno, lo stile Olivetti si denotava per l’attenzione verso l’interno, per cui il letterato doveva
contribuire alla qualità delle relazioni con i dipendenti come anche della proposta culturale rivolta al
mondo del lavoro. Questa sarà l’attività svolta da Ottieri, laureato in lettere e studioso di psicologia
e sociologia, assunto alla Olivetti in qualità di addetto alla selezione del personale.
19
Olivetti avrà un grande rilievo nella vita di Ottieri che, considerandolo quasi un secondo
padre, gli offre un ritratto commosso in alcuni versi del Padre, mentre in una pagina della Linea
gotica ricorda il colloquio avuto con Olivetti, le frasi pronunciate, i suoi sguardi, l’affinità
intellettuale: «L’altro mio Padre che mi ha salvato la vita / e l’arte, / è stato l’ingegner / Adriano
Olivetti. […] Egli non era un mecenate, / ma un intellettuale, come quelli che amava e molto
pagava» (PAD, p. 68).
Colloquio con l’ingegner A. O. Quando gli ho detto come e perché voglio lavorare in una fabbrica,
non ha sorriso vago; per la prima volta uno ha capito. Gli ho chiesto anche se non ritenesse un lusso, queste
mansioni da Ufficio Personale; questi compiti non direttamente produttivi, ma tecnico-umani. No. Egli è
sicuro, sicuro dal di dentro – l’ho visto – che non sono un lusso. Per la prima volta, ha calmato il mio senso
di colpa, la mia oscura vergogna per il mio industrialismo. […] Mi lascerà fare tre mesi un periodo di
tirocinio nella fabbrica. Mi guardava con occhi chiari, senza dubitare delle mie intenzioni, senza fare il
processo della loro origine. Le accettava come una forza cui dare credito, usabile. Come una verità. (LG, p.
130-131)
Il contratto di assunzione alla Olivetti venne firmato da Ottieri il 12 marzo del ’53 e come
aveva compreso sia dal colloquio con l’ingegnere Olivetti, sia con il Capo del Personale Bruno
Zecca ricordato nella Linea Gotica come il Dottor M., le sue mansioni all’interno dell’Ufficio del
Personale e dell’Organizzazione riguardavano lo studio del fattore psicologico e umano nel settore
commerciale: «Egregio Dottor Ottieri, facciamo riferimento alla lettera di assunzione a Lei
indirizzata in data odierna per precisarLe che per la durata dello stage che Ella dovrà effettuare a
Ivrea, Le corrisponderemo un concorso forfettario per spese di albergo di lire 50000 nette mensili»
(12 marzo ’53). La soddisfazione per l’impiego si rivelerà purtroppo fugace poiché esattamente tre
mesi dopo la firma del contratto, il 13 giugno, venne riscontrata a Ottieri una diagnosi di meningite
tubercolare con conseguente ricovero d’urgenza presso la clinica fiorentina del Dottor Cocchi dove
lo scrittore resterà per quattro mesi potendo uscire solo in ottobre inoltrato7. «Giugno. Malattia,
all’improvviso. Quattro mesi in clinica a Firenze. Silenzio. […] Ottobre. Lo sapevo che il punto
debole è stata sempre la testa» (LG, p. 133). Ottieri ricorderà quest’esperienza, fondamentale per la
sua vita trattandosi del primo di numerosi ricoveri tra cliniche, ospedali, case di cura e manicomi, in
alcuni paragrafi della Linea gotica relativi al ’53 e anche in una prosa narrativa nata dalla
collaborazione con «Il Mondo» nella metà degli anni Cinquanta8 dal titolo suggestivo Sua maestà
7
In una lettera inviata all’ispettore dell’INPS alla fine del ricovero si traccia una cronistoria della malattia: «Il
13 giugno ’53 si riscontra una diagnosi di meningite tubercolare diagnosticata dal Prof. Pontano e dai Dottor Fatinelli e
Perrotti. Il paziente fu trasportato d’urgenza dai propri familiari in autolettiga a Firenze, per ivi essere ricoverato presso
la Clinica Casa di cura per bambini, Viale Mazzini 43, dal Prof. Cesare Cocchi, ove restò degente fino al 28 settembre
’53».
8
In OTTIERI Ottiero, Cronache dell’al di qua, a cura di Maria Pace Ottieri, Avagliano, Cava de’ Tirreni 2005.
Si tratta di una raccolta di articoli scritti da Ottieri e apparsi sul quotidiano «Il Giorno» tra il ’64 e il ’73, con in più
prose narrative uscite su «Il Mondo» nella metà degli anni Cinquanta, come Sua maestà l’encefalo, Le ragazze di
20
l’encefalo dove Ottieri descrive minuziosamente le terapie dolorose cui si sottoponeva ogni giorno
tra «una puntura sottoccipitale (nella nuca) la mattina; tre, quattro iniezioni endomuscolari; una
fleboclisi, specie di iniezione endovenosa a gocce della durata di 6-8 ore; una puntura lombare la
sera; una diecina di pillole per bocca» (CRO, p. 119). Un ricordo dettagliato di quest’esperienza
Ottieri lo riporterà anche in un passo di De morte scritto a distanza di quarant’anni dai fatti,
dimostrando ancora il vivo ricordo della malattia:
La meningite colpisce la testa e i centri nervosi, blocca la colonna vertebrale, quindi la persona
intera, rendendola rigida, cieca e sorda. Ha l’aspetto di un male morale, perché attacca l’encefalo; la culla,
più o meno, dei pensieri. Eppure non tocca specialmente gli intellettuali, quelli che hanno pensato troppo (o
male). Preferisce i bambini, dagli organi più raffinati ancora deboli e innocenti. (LG, p. 134)
A trent’anni ebbi una meningite. Rischiai la morte ma non me ne accorsi. […] La cura consisteva in
quaranta iniezioni lombari, tutti i giorni, e venti sottoccipitali. La sottoccipitale si pratica così: l’operatore
infilava un grosso e lungo ago nella nuca dell’utente, il quale stava in collo a una suora che lo abbrancava.
L’ago cominciava a forare un tessuto fibroso e l’operatore cercava di non bucare il cervelletto adiacente.
L’ago crocchiava; aspettavo che da un momento all’altro facesse capolino dal pomo di Adamo e mormoravo:
«Ecce Homo, ecce Agnus Dei». (MOR, p. 80)
Per tutto il periodo della malattia, comunque, l’ingegnere Olivetti gli spedisce ogni mese lo
stipendio mostrando fiducia in una pronta guarigione e anche speranza di vederlo al lavoro come
selezionatore del personale, avendo scorto nel giovane una predisposizione particolarmente
favorevole per quel tipo di impiego che Ottieri riuscirà a svolgere a pieno regime solo all’inizio del
’54.
I.2 Tempi stretti
Ottieri compone in due anni, tra il ’53 e il ’55, Tempi stretti scaturito dalle letture delle opere
di Marx e di Weil sul tema industriale, dal lavoro in fabbrica, dall’attività giornalistica presso la
rivista scientifica «La Scienza Illustrata» che gli fa scoprire da vicino il mondo industriale, e
soprattutto dall’esperienza di lavoro alla Olivetti presso la fabbrica di Ivrea:
Caro Momigliano, l’esperienza di Ivrea per me è stata eccezionale. Erano anni, da quando nel ’48
lasciai Roma per Milano, che desideravo vivere in una fabbrica. Non sono stato minimamente deluso, forse
data l’alta concentrazione di quella esperienza, di non aver avuto il tempo di entrare nella routine.
Saintrop, La seduzione, I divini mondani. Per quanto riguarda Le ragazze di Saintrop, il titolo originare era Santropia
ma «per ragioni di impaginazione» Mario Pannunzio, che dirigeva «Il Mondo», decise di cambiarlo spiegando a Ottieri
che «l’articolo è molto bello, anzi uno dei più belli che abbiamo pubblicato negli ultimi anni» (1 dicembre ’58).
21
Comunque, rimane il fatto che non mi ero sbagliato quando avevo deciso si far confluire tutte le mie
esperienze culturali nei problemi di un’industria settentrionale; e questo mi fa piacere. (Senza data,
probabilmente del ’53)
Avevo scoperto Marx. La conseguenza fu che non vivevo affatto i problemi della forma e del
linguaggio, se non in modo inconsapevole. Tempi Stretti è un libro sommamente industriale di tipo
naturalistico… Un libro faticosissimo, lavoratissimo, e scritto con i piedi, poi rivisto e corretto in una
seconda edizione. 9
L’idea di scrivere un romanzo ambientato in una fabbrica aveva assorbito da molti anni,
almeno dall’arrivo a Milano nel ’47, i pensieri di Ottieri il quale iniziò a registrare su un diario, che
confluirà nella Linea gotica, le esperienze personali su quella realtà industriale che poteva osservare
ogni giorno. La novità del tema, non soltanto letteraria ma anche di vita, spinse Ottieri a
convogliare in esso ogni futura ispirazione e alcuni appunti del diario saranno pubblicati, su
suggerimento di Calvino, in «Nuovi Argomenti» e in seguito nel quarto numero de «Il Menabò»,
nel ’61, come Taccuino industriale10. «Il Menabò», che doveva avere secondo il suo ideatore
Vittorini i caratteri di una rivista e di una collana letteraria, uscì dal ’59 al ’67 in dieci numerivolumi monografici che presentavano testi letterari e saggi critici su un determinato argomento,
realizzando una fusione ideale tra «Il Politecnico» e «I Gettoni» con la ripresa delle stesse esigenze
letterarie, sociologiche e culturali che avevano ispirato quelle precedenti iniziative editoriali. In
particolare «Il Menabò» registrò costantemente le tematiche più aggiornate della discussione critica
e teorica, contribuendo a un processo di sprovincializzazione della cultura italiana anche grazie alla
presenza di numerosi contributi di scrittori stranieri.
Il problema più urgente da risolvere apparve a Ottieri la mancanza di un’origine della
letteratura industriale in Italia, sebbene i confronti e i dibattiti sull’argomento si sviluppassero con
energia, e tra questi la testimonianza del quarto numero del «Menabò» era la più significativa: «La
narrativa di oggi non può ignorare lo stato civile, il mestiere, la geografia, la classe. È realistica,
perché esiste in noi un desiderio necessario, cioè artistico, di scoperta […] degli altri» (LG, p. 37).
Tuttavia nessuno scrittore prima di Ottieri aveva tentato di “tradurre” il tema industriale in un’opera
letteraria giacché mancava un collegamento diretto tra chi scriveva, l’autore, e un mondo fino a
allora sconosciuto. Ottieri comprendendo questo limite, grazie alla personale esperienza di lavoro in
9
Dalla Biografia di mio padre di Maria Pace Ottieri, in Cronache dell’al di qua, cit. p. 175. La prima edizione
di Tempi stretti è del ’57 (nella collana I Gettoni), la seconda del ’64 (ne I Coralli), entrambe presso Einaudi.
10
Per comprendere la novità apportata dal quarto numero del «Menabò» su un tema così particolare, non solo
nella letteratura italiana, Dionys Mascolo, reattore delle Edizioni Gallimard di Parigi, con il quale Ottieri entrerà in
contatto per la traduzione in francese dell’Impagliatore di sedie, ammette sulla questione industriale un’ignoranza
letteraria clamorosa all’interno della cultura francese degli anni Sessanta: «Je pense que toutes le discussions par le
«Menabò» sur Littérature et industrie dont le public italien est averti, sont, au contraire, complètement ignorées en
France. […] Il s’agit en effet d’un problème qui n’est nullement posé aux écrivains français». (21 dicembre ’64)
22
una fabbrica, tentò di ridurre tale frattura riportando sulla carta e in forma romanzata i motivi
essenziali della condizione operaia.
Se la narrativa e il cinema ci hanno dato poco sulla vita interna di una fabbrica, c’è anche una
ragione pratica, che poi diventa una ragione teorica. Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. […] Dal
dopoguerra ho cominciato a maturare la convinzione che la nostra cultura debba unirsi al movimento
operaio; e non soltanto alla sua teorica, ma ai suoi fatti, cioè alla vita di fabbrica. Fin qui nulla di nuovo; se
non, forse, la mia particolare attenzione agli aspetti narrativi. (LG, pp. 183-184)
Ottieri decise dunque di varcare una soglia sconosciuta raccontando quello che ancora non
esisteva nella letteratura italiana, ossia il tema industriale, ma prima di affrontarlo de visu, come uno
«speleologo» (Stefano Mauri, in Convegno, p. 7) andò alla ricerca della poesia celata nelle
fabbriche per estrapolarne le essenze primarie: «Cercavo con laboriosità tenace / il Metello
milanese. / Non avrei potuto inventarmelo. / Cercavo la poesia nascosta / nei luoghi impoetici, / in
certe stradine in mezzo alla Falck. / Volevo filmarle / con cinema attento / alle meraviglie squallide
delle marane industriali» (PSI, p. 31). Nel cuore degli anni Cinquanta tra la ricostruzione del
dopoguerra, il miracolo economico e un benessere collettivo offerto come liberale e democratico
sulle schiene di milioni di operai per lo più meridionali che andarono a ingrossare la mano d’opera
nelle industrie settentrionali, si decisero le sorti future del Paese con il nord industriale, il centro
baronale, e il sud lasciato alle organizzazioni criminali molto più efficienti dello Stato centralizzato.
Ottieri coglie quasi profeticamente i tratti di un nuovo Paese che stava allora nascendo in una
tensione nevrotica e alienata: «Il feto del nostro oggi con tutti i segni di storia, di cronaca, di eredità
chiaramente riconoscibili. I segni che allora pochi avrebbero colto a occhio nudo» (Furio Colombo
nella prefazione a La linea gotica).
Volevo scrivere un romanzo / che fosse come il Capitale. / Una storia / materialistica-storica. La
scrissi. / Raccontare una storia / non serve a niente. / Una storia deve servire / a infiammare le meningi
politiche. / Quel testo venne prosastico. Non v’era / poesia né tendenza nuova. / Pasolini lo vilipese. / La
sinistra letteraria / lo trovò brutto. La / sinistra letteraria / voleva non testi industriali, / ma a livello
industriale. / Era grave raccontare / la vita nelle fabbriche attuali / con una prosa da Zola. / Per massimo / di
avanguardia nel contenuto / tenevo massima retroguardia di forma. (PSI, p. 21)
Quando Calvino ebbe sotto gli occhi il manoscritto de Le schiene di vetro11, comprese dopo
poche pagine che si trattava del romanzo industriale tanto atteso da lui e in particolare da Vittorini.
Ottieri fu il primo a penetrare nel mondo automatizzato e nei meandri reconditi della fabbrica,
svelando aspetti fino ad allora sconosciuti come i celebri tempi di lavorazione che si riducono
11
Titolo pensato in un primo tempo da Ottieri poiché con tale l’espressione s’indicava, nel gergo dell’industria,
quei lavoratori lavativi «fragili e fiacchi» oppure i «compagni più vigili e riottosi» (TS, p. 135). «Spesso le schiene di
vetro sono i buoni per il partito, i cattivi per il padrone» (LG, p. 213).
23
gradualmente rendendo l’operaio simile a una macchina. Ciò che emerge dal romanzo è l’analisi
dettagliata dei meccanismi perversi di una moderna realtà tecnologica che trasforma i rapporti
umani anche al di fuori dell’industria.
Caro Ottieri, confermo quanto ebbi a dirti per telefono. Le schiene di vetro è un libro molto
importante e atteso e utile, per la sua seria impostazione documentaria, e dove ti tieni fedele a essa anche
molto felice letterariamente. Sei soprattutto riuscito, rappresentando tre stabilimenti diversi per livello
economico e tecnico e per atteggiamento delle maestranze e dei dirigenti, a dare un quadro della situazione
industriale italiana nella sua complessità e interrelazione. Le riunioni politiche e sindacali sono sempre un
grosso scoglio a raccontarsi, e tu, mettendo in primo piano i socialisti anziché i comunisti, hai cercato di dare
qualche pennellata inedita. […] Quel che pesa sul libro è la tristezza; che gli operai siano anche gente allegra
e le fabbriche anche una via di libertà non si vede. […] Il titolo non mi piace granché. […] Lo mando a
Vittorini e caldamente lo sollecito. (15 maggio ’56)
E infatti Calvino non perderà tempo a inviare l’opera a Vittorini, il quale allora non nutriva
per Ottieri una stima particolare dopo le vicissitudini strutturali delle Memorie. Calvino prende
ancora una volta le difese di Ottieri tentando di smussare le parti più romanzate del testo per far
emergere l’evidenza di un fatto incontestabile: per la prima volta nella letteratura italiana si entra
dentro le fabbriche. Tale novità val più di un romanzo, sembrerebbe sentenziare Calvino.
Caro Elio, ti mando il romanzo di Ottieri. So che l’autore non ti garba, ma questa è una cosa
completamente diversa dalle Memorie dell’incoscienza. È un documentario di vita industriale, con tre
aziende, di un diverso stadio di sviluppo tecnico, vista in tutti i loro aspetti più importanti e inediti, e sulla
Milano squallida e periferica. Mi pare il primo che parla di queste cose con serietà e modestia documentaria
e con vasta conoscenza diretta. Quel po’ d’intreccio di romanzo che c’è vale poco, ma serve a far muovere la
macchina da presa e a rappresentare la complessità della situazione industriale o operaia italiana. Le parti
psicologiche, erotiche e in genere tutte le parti più scritte sono dell’Ottieri che già conosciamo e disturbano
un po’: ma il libro interessa per il resto, che è la sua più grande parte. Anche sulle riunioni politiche e
sindacali riesce a rappresentare, evitando abbastanza gli scogli, e con l’espediente di mettere in primo piano i
socialisti anziché i comunisti, cerca di dare qualche pennellata inedita. Mi pare che tra I Gettoni questa
testimonianza sia molto utile e attesa, ancorché Ottieri sia scrittore di carne triste. (15 maggio ’56)
Ma nonostante il favorevole appoggio di Calvino, Ottieri non è soddisfatto del proprio
manoscritto. Il problema essenziale sembra essere non tanto il tema, che viene accolto con favore
dai critici ai quali presenta il lavoro ancora in fieri, quanto la scrittura, le parti borghesi,
l’approssimazione linguistica, gli errori tecnici evidenziati soprattutto da Pasolini, che disorientano
il giovane scrittore il quale ha nello scarno curriculum un solo romanzo pubblicato, tra l’altro di
poco successo12, mentre si sta addentrando in un sentiero irto di problematiche spinose come
l’industria, il sindacato, la condizione operaia.
12
Ottieri si auto-definirà in Cery scrittore «bad-sellerista» (p. 121) perché, con l’eccezione di Donnarumma
all’assalto, ogni sua opera, pur riscontrando consensi da parte della critica, venderà poco o nulla e le Memorie attestano
in modo inequivocabile questa condanna. In una lettera inviata a Calvino il 21 aprile del ’56, Ottieri si lamenta
dell’esiguo numero di copie vendute dalle sue Memorie: «Ricevo in questo momento il rendiconto – che non avevo
24
Caro Calvino, sono disorientato circa le eventuali correzioni da fare al libro. Vittorini mi disse che
dovevo tagliare nette le parti borghesi, che però voleva prima un confronto. Ho chiesto il confronto a
Pampaloni, il quale mi suggerisce di lasciarle perché fanno da luce-ombra al resto. Ho poi avuto una
martellante lettera di Pasolini – è mio amico e gli ho mandato il manoscritto – piena di accuse sul piano
tecnico, di errori segnati col lapis blu. Evidentemente mi ha voluto dare una lezione di mestiere, ci è riuscito
e mi ha un poco avvilito… Pasolini sostiene che tutte le entrate dei personaggi nella prima parte erano
sbagliate, enunciate e non rappresentate. […] Che vi è una certa approssimazione linguistica per cui il
romanzo dovrebbe essere qua e là limato. (31 luglio ’56 da Champoluc)
Il riferimento a Geno Pampaloni riguarda un carteggio avviato da Ottieri con il critico
letterario che si dimostrava molto attento a quegli originali scritti ambientati nelle fabbriche. Il 14
settembre del ’56 Pampaloni gli scrive di non avere obiezioni per la pubblicazione del romanzo:
«Molti auguri e con la speranza di vedere presto stampate Le schiene di vetro». Di quel momento di
confusione e incertezza, Ottieri, dal ritiro di Champoluc dove è in vacanza con la moglie e la figlia,
ne fa partecipe anche l’amica Rella (Clotilde Marghieri), evidenziando in primo piano il giudizio
negativo di Pasolini, che lo influenzò notevolmente, e anche i dubbi se firmare il contratto con
Einaudi.
Cara Rella, non l’ho firmato ancora [il contratto]. Non mi piace. L’ingegner Olivetti sta leggendo il
manoscritto. La risposta, alla riapertura dello stabilimento, la fine del mese. Ho avuto anche una mezza
stroncatura da Pasolini, con consigli di rimetterci le mani. Sono quindi confuso, e voglio tornare a Milano
per stringere le fila, se no quando esce? (18 agosto ’56)
Le riflessioni di Pasolini suggestionarono molto la percezione di Ottieri sul romanzo da
terminare, aumentando le sue insicurezze e influenzando anche le future correzioni. Ma ciò che
risalta in modo sorprendente è la memoria storica di Ottieri per questa spiacevole esperienza che si
ritrova, secondo l’idea della “sinfonia” e dell’opera aperta della sua letteratura, in un passo della
Storia del PSI ben trentasei anni dopo la stroncatura pasoliniana, dove non sembra attenuarsi il
profondo dolore da lui percepito dinanzi ai giudizi non certo lusinghieri su Tempi stretti: «Ei, il
massimo / trait-d’-union fra cultura e lotta, / non voleva pubblicarlo. / Lo trovava / peggio del
Gattopardo… / Era anche sgrammaticato / tanto io militavo pel contenuto, / sbeffeggiando la forma.
/ Mio suocero, padrone buono, / lo fece pubblicare / presso il gelido editore torinese» (PSI, p. 21). E
anche per il titolo i dubbi non mancano: dalle iniziali Schiene di vetro, si passa alle Sirene fino alla
scelta conclusiva di Tempi stretti a poche settimane dall’uscita del romanzo nelle librerie, fine estate
’57, dopo numerosi tentennamenti e incertezze, nella collana «I Gettoni» della Einaudi.
avuto prima – che vergogna! Copie vendute: 775. Debbo alla Einaudi lire 12.800! Ci sarebbe proprio da scoraggiarsi!».
«Quello che ho venduto di più è stato Donnarumma all’assalto, che parlando della fabbrica di Pozzuoli non parla dei
miei mali» dall’intervista rilasciata ad Angelo Gaccione e presente nella rubrica Incontri in «Milano metropoli», maggio
2000, anno IV, numero 3, pag. 21.
25
Caro Calvino, sono incerto per il titolo: Le schiene di vetro mi piacerebbe e lo troverei esatto, anche
originale, ma vedo che nessuno lontanamente lo capisce e che molti lo interpretano metaforicamente. Ho
pensato ad altri titoli, […] come Le sirene, di una facile ambiguità, ma abbastanza gradevole. Temo però di
mettere il carro davanti ai buoi. Cioè non vorrei preoccuparmi del titolo. (28 maggio ’57)
Caro Calvino, mi prendete in contropiede. Ormai credevo che Le schiene di vetro andasse bene.
Allora ho pensato – visto che Le Sirene è un ripiego – a Tempi stretti. (Inizio giugno ’57)
Sul titolo si decise dunque per Tempi stretti poiché esso riusciva a condensare il problema
essenziale del lavoro in fabbrica strutturato secondo periodi di esecuzione che si riducevano
parallelamente al progresso tecnologico. L’operaio, oltre a non partecipare più al processo completo
di fabbricazione del prodotto dovendo occuparsi solo di una parte di esso, si ritrova imprigionato
nei tempi calcolati da un cronometrista che, come una spada di Damocle, imperversa sulla nuca o
dietro le spalle dei lavoratori. In rapporto all’esecuzione da svolgere e alla macchina utilizzata, ogni
operaio, nella frantumazione del lavoro ormai sminuzzato e parcellare, fa gesti sempre più piccoli e
brevi, condannato a rispettare il tempo che implacabile si contrae in alcuni secondi di azione13. Per
quanto concerne le descrizioni del disagio provato dagli operai per i tempi stretti, Ottieri risente
fortemente della lezione di Simone Weil.
Il cronometrista è spietato. […] Il tempo perduto fra un lavoro e l’altro dev’essere segnato sugli
ordinativi (ma allora si corre il rischio di non eseguirli in tempo, soprattutto con i lavori minori) o è dedotto
dalla paga. […] Non ce n’è molti che osino rimanere fuori tempo. (La condizione operaia, p. 20)
Un giovane ingegnere mi parla della produzione dal punto di vista economico e dei tempi; qui è il
senso ultimo della vita d’officina, lo Spirito Santo di fabbrica è nell’interdipendenza fra costo e tempo. […]
Stabilito uno standard di qualità, tutto si riduce a tempo, velocità. Tempo puro, al polo contrario della
invenzione, della riflessione. […] Scendo con un cronometrista al reparto, e appena l’operaio si accorge che
ce l’ha dietro le spalle, rallenta il ritmo: 5’’6, 5’’6, 8’’; poi si riprende ma continua sui 7’’. Crisi di
disinteresse e monotonia. […] Si parla anche dei tempi, e dell’allenatore. Chi è costui? Cosa fanno in
Russia? […] La rivoluzione è compiuta quando gli operai desiderano loro i tempi stretti e l’operaio con il
cronometrista alle spalle, accetta. […] I tempi sono serrati. Secondo il medico di fabbrica, ammalati gli
arrivano in continuazione. (LG, pp. 112, 126, 221, 232)
I capisquadra giravano per le macchine, le preparavano. Un cronometrista rilevava il tempo. […] A
non sbagliare sono sei tempi. […] Sei tempi, sei tempi, sei tempi e il sesto e il primo si rincorrevano. […] Il
tempo va vinto, non farsi vincere dal tempo. […] La macchina riduce il lavoro a tempo puro, sebbene anche
le macchine siano più veloci. Il progresso è questo. […] Con il progresso, i tempi tendono a zero. […] Per
questo, per celebrare l’inizio del nuovo anno, del 1950, del giubileo, un cronometrista, permeato a fondo
dello spirito della direzione, tagliò i tempi alle presse. […] Vi fu uno sciopero alle presse. […] Su ognuno il
13
Per le nozioni di Capitale e interesse della scuola austriaca di Eugen von Böhm-Bawerk a inizio Novecento,
e di Capitale e tempo secondo gli studi di John Hicks del ’73, la riduzione del tempo nei processi produttivi realizzati
dall’impresa comporta un aumento delle merci collocabili sul mercato senza alcun aumento di stipendio per i lavoratori.
Per la determinazione dei tempi riguardo ai movimenti elementari dell’uomo sul lavoro nel ’48 fu elaborato il sistema
MTM (Methods-Time Measurement), che Ottieri probabilmente conosceva, attraverso il quale si stabilivano i tempi,
dopo osservazioni dirette, delle prestazioni medie degli operai.
26
taglio dei tempi cade come una mala sorte non meritata, come una molla che si è faticato a caricare e di
colpo torna lenta. (TS, pp. 51, 52, 64, 155, 232)
Per condurre la narrazione sulla realtà industriale, inedita per la tradizione letteraria italiana,
Ottieri sceglie una prospettiva imparziale, distaccata, senza schierarsi a favore di nessuna parte in
causa tra gli operai, i sindacati, i padroni e i partiti politici; egli sceglie di raccontare i fatti in modo
romanzato partendo dal proprio retaggio culturale ed esistenziale che ignorava il mondo operaio. Da
questa visuale indipendente, aperta e non sottomessa ad alcuna logica di partito o di fazione, Ottieri
può penetrare a fondo nel cuore della materia, ossia la crisi della classe operaia sconfitta dal boom
economico e obbligata a omologarsi al modello culturale della borghesia capitalistica, facendo così
naufragare non solo il sogno di un riscatto sociale ed etico-politico ma anche la prospettiva, sulla
scorta del pensiero di Gramsci, dell’egemonia culturale del proletariato.
«C’è una tristezza operaia dalla quale non si guarisce che con la partecipazione politica»
(George Navel) è l’epigrafe del romanzo; tale illusione s’infrange dinanzi all’incombente crisi
dell’ideologia comunista e del socialismo che non permise alla classe operaia di realizzare quella
liberazione collettiva auspicata da decenni. Ottieri scalfisce e ridimensiona il mito del proletariato
sempre cosciente del proprio ruolo di motore della Storia e pronto a rivendicare inviolabili diritti: la
delusione che emerge dalle pagine del romanzo è di tipo post-resistenziale e si plasma nella dura
lotta per la sopravvivenza quotidiana all’insegna del compromesso più che dello scontro sociale
aperto o della rivoluzione. E dagli accordi sociali, economici, politici messi in atto con la classe
borghese padronale e tecnocratica, il proletariato ne esce inevitabilmente sfiduciato, diviso,
confuso, fino a rinnegare con il trascorrere del tempo, non più stretto ma mortificante, gli ideali
passati.
Il proletariato settentrionale imborghesisce. Ma l’imborghesimento è una prova, cui nessuno deve
scappare. I partiti di sinistra aumentano di adesioni nel Sud, nel Nord si fermano o arretrano un poco. Dicono
che dopo la Lambretta il colpo grosso al comunismo lo darà la 600. Col passar del tempo e il rafforzarsi
dell’economia borghese, la sinistra rivoluzionaria corre il rischio della stagnazione e dell’usura. Ma il rischio
va corso, per non compiacersi in eterno della miseria. Quando il proletariato tende a migliorare all’interno
del sistema capitalistico, essendosi preparato per una rivoluzione che non viene, quando rinuncia al salto
qualitativo e cerca l’aumento di salario: allora può venire una crisi profonda, rompersi la solidarietà, nascere
la rivolta contro gli scioperi politici, etc. Allora, dobbiamo affrontare questa crisi, non fuggire a ritrovare gli
stimoli rivoluzionari nelle aree depresse, a indignarci facilmente. […] Si sostiene che dal punto di vista
padronale, non c’è nulla di strano o di nuovo nei ricatti: ma, qualche anno fa, i ricattati sarebbero usciti
sbattendo la porta, sentendo la vendetta vicina. La crisi profonda del socialismo, è l’allontanamento
indefinito dalla sua realizzazione, che molti, per anni, aspettavano di semestre in semestre. […] La via
aziendale alla classe operaia è una via lunga; ma, alla fine, chiusa. O ci trovi, in fondo, il padrone; o, nel
migliore dei casi, la tua stessa coscienza e la storia, che la sbarrano. (LG, pp. 217, 270, 291)
27
L’intreccio di Tempi stretti è scheletrico con una trama assai esile: il protagonista Giovanni
Marini14 è un giovane trentenne che lavora nei quadri della direzione tecnica della Alessandri,
un’azienda tipografica di Milano a carattere familiare senza Commissione Interna e sempre sull’orlo
della liquidazione o della vendita. Conosce Emma «di corpo graziosa, la testa un po’ pesante, gli
occhi marrone chiaro» (TS, p. 35), un’operaia venuta da Roma che vive nello stesso appartamento
di Giovanni; tra loro la simpatia iniziale si trasforma in affetto e poi in amore senza tuttavia
concludersi nel matrimonio sperato dalla ragazza. Giovanni è infatti attratto da un’altra donna,
Teresa «bionda, giovane, morale» (TS, p. 33), alto-borghese amica di famiglia che si erge a sua
protettrice ma con la quale egli riuscirà soltanto a portare avanti un mellifluo corteggiamento.
L’interesse, o meglio la maturazione di Giovanni nel corso del romanzo convoglia sulla
condizione operaia che può osservare da un punto di vista privilegiato: egli lavora nei piani alti
della fabbrica essendo impiegato nella direzione tecnica. L’essenza della narrazione s’incentra sul
mondo operaio dove si sviluppa, in un clima sempre più vigoroso e concitato, la vita nella fabbrica,
o meglio nelle fabbriche giacché la scena del romanzo si sposta dalla Alessandri alla Zanini alla
Smai, in una fase stagnante di sviluppo mentre si prospettano centinaia di licenziamenti. I problemi
quotidiani vissuti all’interno dei tre stabilimenti, distinti per produzione, sono gli stessi: lavoro
alienante, esaurimenti nervosi, incidenti, salari bassi, timore di licenziamenti, cottimo mal
retribuito, tempi sempre più stretti, rivendicazioni sindacali, interessi politici, miopia dei padroni,
scioperi, degradazioni d’impiego. Inoltre in ogni fabbrica, classico microcosmo dove si sa tutto di
tutti, si constata una fauna di personaggi alquanto dubbi come spie, adulatori, ipocriti, delatori, e
dove la solidarietà umana appare, nel migliore dei casi, estemporanea e isolata.
Ottieri filtra nel protagonista del romanzo, Giovanni Marini, numerosi elementi
autobiografici da correlare con alcune pagine della Linea gotica scritte durante la stesura di Tempi
stretti. In primo luogo Giovanni lavora in un’azienda tipografica come Ottieri che è impiegato nella
rivista «La scienza illustrata», ha gli stessi anni (trenta) dello scrittore, è impiegato in un reparto
dirigenziale, non ha maturato alcuna esperienza di fabbrica prima di allora, ha origini toscane, non
ha partecipato né alla Resistenza né alla guerra, si è trasferito a Milano alla fine degli anni
Quaranta, ha lavorato per un giornale di sinistra, e nella sostanza è un borghese proprio come
Ottieri.
Nella direzione tecnica […] Giovanni era ancora un ragazzo. […] Ogni volta Giovanni ricordava il
mangiare della Toscana, da cui era partito molti anni fa. […] Per circostanze del suo paese e della sua
14
Nel chiamare Giovanni il protagonista, in parte autobiografico, del romanzo, Ottieri rende omaggio a un
giovane operaio conosciuto nel primo periodo dell’esperienza milanese: «Fui invitato da Giovanni, / il giovane /
industriale massimo / della Lombardia. / Voleva scriver poesia. / Voleva entrare / in mondo letterario. / Io volevo in
industriale. / Lo scambio riuscì male». (PSI, p. 31)
28
famiglia, e anche per l’età, Giovanni non aveva fatto né la Resistenza né la guerra; per questa ragione, per
conoscere il nuovo mondo nato dalla guerra, era voluto uscire di casa appena finite le scuole, mentre una
rivoluzione rallentata e rientrata scuoteva nel dopoguerra lui e il suo paese. Arrivato a Milano negli ultimi
mesi del 1946, trovò da correggere le bozze in un giornale rosso, che in quegli anni aumentava la tiratura
approfittando della moda socialista. Ma dopo aver imparato quel mestiere ed essersi messo in buona luce,
non divenne, come tanti suoi colleghi, un giornalista. (TS, pp. 16, 26, 32)
L’episodio dell’impiego di Giovanni presso un quotidiano di sinistra rinvia alla breve
esperienza di Ottieri all’«Avanti!» dove, nel ’48, scrisse alcuni articoli; questo espediente, come
molti altri nello sviluppo della narrazione, serve a Ottieri per costruire un intreccio di rimandi tra il
romanzo e il diario autobiografico La linea gotica con cui le interrelazioni sono molteplici. In una
pagina del ’49 si legge infatti dell’incontro con un dirigente di un’industria petrolifera per un
impiego presso l’Ufficio Stampa; il colloquio sembra andar bene fin quando Ottieri non rivela il suo
passato scabroso di articolista per l’«Avanti!» e da quel momento un gelo tombale cala sugli
interlocutori mentre le poltrone sembrano distanziare fisicamente i due “avversari”.
Dieci giorni dopo l’assunzione mi capita un’altra offerta concreta di lavoro. In un’industria
petrolifera. Ufficio stampa. In un grande albergo a colloquio con il futuro capo, che mi riceve nella hall.
(Avevo fatto domanda due anni fa, a Roma, e non me ne ricordavo nemmeno). Conversazione gentile fra le
due poltrone, sento la buona disposizione nei miei confronti. Lui è nobile – o quasi – e lo sono anch’io. Ci
intenderemo per forza. […] Attratto e respinto dalla laurea in lettere, e dall’odore di giornalismo, domanda
dove ho scritto. Dico varie riviste letterarie, qualche racconto, un saggio… Due o tre articoli sull’Avanti! Si è
rabbuiato, si stacca. Le poltrone si fanno lontanissime, il tavolino in mezzo diventa un macigno. «Noi»,
esclama, «ci troveremo fra non molto dalle parti opposte della barricata. È possibile, le domando, che nel
frattempo lei venga a lavorare con me?». Così sovietico non mi ci ero mai sentito, così vicino all’urto. Tento
di minimizzare i miei trascorsi. […] Rimprovera la mia vigliaccheria. No, non se l’aspettava. […] L’incontro
si è trasformato in presentazione del cartello di sfida. […] «Non conosce forse, proprio lei, le intenzioni della
Russia? Non sa quello che deve accadere fra pochi mesi, un anno? Ho comunque il piacere di averla
conosciuta». (LG, pp. 44-45)
La stessa scena Ottieri la ripresenterà in un passo di Tempi Stretti delegando a Giovanni il
ruolo del giovane rampante laureato e ben qualificato, pronto a entrare in una grande azienda ma
troppo ingenuo fino a svelare il proprio passato “sovversivo”. Giovanni è invitato da Teresa a una
serata mondana per introdurre, da brava protettrice, il suo adepto nell’alta società. Tra gli invitati
compare il marchese Prasca, uomo industriale molto influente che potrebbe assumere il giovane
nella propria azienda. Ottieri non aveva rimosso l’esperienza così singolare vissuta pochi anni prima
con il capo dell’industria petrolifera e ripropone al suo alter ego romanzato l’esito di colpo
sfavorevole del colloquio, seguendo pedissequamente le varie tappe dell’incontro dalla conoscenza,
all’apprezzamento, l’assunzione ormai raggiunta, lo scivolone nella rievocazione di un evento
passato (un Congresso socialista) non proprio edificante agli occhi dell’interlocutore, l’inimicizia
incipiente, l’imminente ostilità, le opposte barricate, la minimizzazione dei trascorsi, il cartello di
sfida, il rimprovero della vigliaccheria, fino al «piacere di averla conosciuta».
29
Solo nell’angolo, chissà che faceva, sotto una lampada dal largo paralume e l’altissimo fusto, un
signore di mezza età fumava appartato, ma disinvolto. […] Era il marchese Prasca, direttore della
Micromotori. […] «Noi abbiamo bisogno di giovani. Attraversiamo una crisi… per fortuna… di crescenza. I
giovani ci interessano molto». […] «Quando potrebbe ritenersi libero dagli attuali impegni?» chiese il
direttore. Dunque lo considerava un suo impiegato, usando già quel particolare tono di comando e di
possesso. […] Giovanni decise di parlargli di sé: «Ho partecipato – raccontò – a un congresso di storia
dell’industria. Ho letto dei libri; sono appassionato della materia». «Ah, si?», si risvegliò il direttore
interessato. «Quali libri?». Giovanni ne citò alcuni, che parvero incontrare l’approvazione di Prasca. «Il
congresso mi ha insegnato molte cose», proseguì Giovanni. «Si è tenuto due anni fa a Milano». Il direttore fu
toccato da un impercettibile sospetto. «Quale congresso?». «Il cosiddetto congresso di aprile…». «Ma lei sa
chi ha organizzato quel congresso?». «Lo so». […] «Allora siamo due nemici. […] Con le sue idee vorrebbe
occuparsi di quel giornale di cui le parlavo? […] Adesso stiamo qui insieme. Fra non molto staremo uno da
una parte, uno dall’altra della barricata. Con una guerra alle porte, vuole che la prenda con me, con una
guerra interna o esterna, in cui ci combatteremo? La Russia…». […] «Per fortuna, marchese, questa guerra è
lontana». […] «Mi meraviglio di come lei creda poco nella forza delle sue idee e che debba ricordargliela io.
Sono lieto di averla conosciuta, prima che ci separi una linea che del resto non separerà noi soli, ma il
mondo». […] «Io lavorerei molto volentieri nella sua azienda. […] La mia è una politica per modo di dire,
marchese, io sono un tecnico…». Il direttore lo scrutò duro, meravigliato. Non questo si aspettava, bensì una
replica degna del suo cartello di sfida. […] Si levò dalla poltrona e gli strinse la mano prima di raggiungere il
salotto, come per l’ultima volta. (TS, pp. 90-95)
Gli altri indizi autobiografici che Ottieri fa confluire nel protagonista di Tempi stretti
riguardano anche eventi particolari della propria vita, e a volte le situazioni quotidiane si
dimostrano più romanzate della stessa fantasia. Ad esempio, Ottieri ricorda in un paragrafo della
Linea gotica un fatto accadutogli nel gennaio del ’51, ovvero di una passeggiata tra le foglie morte
in un bosco alla periferia di Milano con la moglie: simile situazione la rivive Giovanni con Emma
con la passeggiata, la ricerca di un luogo appartato, la difficoltà dell’amore forastico. Ottieri cambia
tuttavia i ruoli: ad attendere nel romanzo è la ragazza Emma, e l’espediente della trasfigurazione in
personaggi femminili di episodi della sua vita verrà utilizzato dallo scrittore in altre circostanze,
emblematico sarà il caso di Elena Miuti la protagonista alter ego in Contessa.
Appena la corriera fu in vista del bivio, non vidi nessuno all’appuntamento. Subito cominciai ad
agitarmi, a sospettare di aver sbagliato giorno. […] Finalmente ci incontrammo, facemmo una passeggiata
per il bosco, d’autunno, sulle foglie morte. […] Fu difficile. (LG, p. 60)
Ella aspettava, la borsetta in mano, ritta vicino al muraglione di una grande chiesa moderna e tonda;
tremava, dentro di sé: se per caso non aveva sbagliato appuntamento? […] Finalmente Giovanni traversò la
spianata davanti alla chiesa. […] Camminarono verso destra, gli unici che sfidassero il freddo da quelle parti,
che avessero l’idea di fare una passeggiata sotto il cielo settentrionale. […] Egli la trascinò giù sul prato. […]
L’amore era stata una vampa di calore. (TS, pp. 105-109)
Quando Giovanni entra in una sezione della Zanini, fabbrica che non contemplava
discussioni politiche, Ottieri ricorda i suoi trascorsi «alla sezione socialista / della Pirelli Bicocca
30
nel ’48» (GC, p. 82) appena giunto a Milano, cui segue tuttavia un repentino distacco fino al non
rinnovamento della tessera del PSI all’inizio del ’51.
Non ho rinnovato la tessera del partito. Non per tradimento. Ma l’impegno di una iscrizione non
regge quando non si fa, in qualche modo, vita di partito. La tessera è troppo comoda – o troppo pericolosa –
standosene a casa: la tessera di un partito rivoluzionario. (LG, p. 59)
Marini vi andò. Di rado aveva frequentato una sezione di fabbrica. Arrivando a Milano dopo la
guerra, aveva frequentato le riunioni alla sezione socialista del suo quartiere. Poi si era stancato. […] La
sezione socialista della Zanini era bizzarra. (TS, p. 135)
Ottieri nel biennio ’57-’58 partecipa a molte riunioni sindacali, di partito e di sezione,
tentando di comprendere, come uno speleologo che discende nelle profondità degli argomenti da
trattare, la concreta situazione del proletariato di cui tanto, e spesso a sproposito, si parlava. In
numerosi passi di Tempi stretti e nella parte conclusiva della Linea gotica Ottieri si propone come
microfono delle discussioni riportandole con oggettività sulla pagina, con i propri pensieri a
margine. Il quadro complessivo che risalta dalla lettura è impietoso nel migliore dei casi: beghe di
partito, discussioni futili, problemi rimandati a tempo indeterminato, promesse non mantenute, liti
interne, brusii che accompagnano come un tappeto musicale le assemblee, vittime (come Aldo
Comolli nel romanzo) abbandonate al proprio destino per interessi di partito e di potere: «L’amore
per il potere è più forte di quanto abbia mai creduto. Ricordarselo sempre, in ufficio e fuori» (LG, p.
275).
In un altro passo del romanzo l’autobiografia emerge quando Giovanni viene inviato
dall’ingegnere Alessandri a Torino dove resterà per una settimana a gestire gli interessi
dell’azienda. Ottieri ricorda i viaggi effettuati da Milano a Torino nel febbraio del ’55 per la
Olivetti, l’autostrada, i cartelli pubblicitari, il confronto tra le due città più industrializzate d’Italia.
Giovanni fu inviato quel giorno in missione dall’ingegnere a Torino, da un’ora all’altra. Questa
esplosione di fiducia lo inebriò, ed egli la scambiava per un’affermazione di libertà. Viaggiava senza pensieri
per l’autostrada fra la siepe dei cartelloni pubblicitari, dicendosi: calze, liquori, lubrificanti, macchine
utensili, pneumatici, sgranano il rosario delle merci. Ai lati scorrevano i prati verdi e piatti, macchiati da
qualche spianata gialla, dagli acquitrini geometrici di risaia. (TS, p. 210)
Alla vicina Torino guarda come alla guida. Città industriale pura, con la massima concentrazione
industriale, non troppo inquinata da quel groviglio commercialistico che è il vero cuore di Milano. […]
Quante volte si corre su e giù per l’autostrada Torino-Milano, come per un corridoio, tra due muri di
pubblicità. Sembra alta sulla campagna, lunghissimo ponte. Niente sappiamo delle terre, dei paesi intorno. Ai
suoi lati, invece che case, uomini e bestie, sfilano i ritratti delle merci. Calze, liquori, macchine utensili,
bruciatori a nafta; dico fra me ogni volta il rosario della produzione, sacrificando come un automa al feticcio
merceologico. (LG, pp. 198, 208)
31
Ottieri coglie l’occasione di questi viaggi per esporre le proprie riflessioni su un argomento
che negli anni otterrà un ruolo predominante nella società e nella politica italiana: la pubblicità.
Lavorando nel «mondo delle carte» e in seguito in un’azienda, Ottieri ha potuto verificare in prima
persona il meccanismo complesso e allucinatorio che conduce allo sviluppo incessante del
marketing. La pubblicità ai suoi occhi si configura alienante, subdola, feticista, divenendo nelle sue
opere un leit-motiv negativo, il paradigma di una società perversa soprattutto quando è la parola a
vendersi come una merce, a prostituirsi per il profitto e per gli interessi tecnocratici perdendo in
questo modo il suo valore poetico e letterario.
Più di tutto aliena la pubblicità. Importantissima, viene in coda al ciclo produttivo, e sembra che alla
fabbricazione non abbia partecipato in nulla. […] Si dà fiato a una tromba che manda puro suono, rumore,
che gonfia la maschera delle merci e del loro feticismo, coprendo di fumo una fiamma, appunto per questo
fumo, invisibile. L’intelligenza applicata alla costruzione di prodotti altrui è meno alienata di quella che si
applica alla lode, alla confezione di tali prodotti. La pubblicità sembra stimolante, perché fatta di trovate, di
gusto. […] Le parole – per uno avvezzo alle parole – si contorcono di dolore a essere vendute, più dei gesti.
(LG, pp. 47, 48)
Affinché la narrazione «con una prosa da Zola» (PSI, p. 21) assumesse una sostanza
credibile, Ottieri si sofferma spesso sulla descrizione delle ambientazioni e degli esterni, in
particolare la periferia nord di Milano che conosce bene dove si respira «la grande necessità
industriale» (TS, p. 25) con le sue profonde fratture, gli itinerari immutabili, l’alienazione urbana
con abitazioni-lager diroccate in mezzo a stradoni senza orizzonte sotto un cielo eternamente grigio
tra una fonderia, un’acciaieria, una tipografia. Ottieri dipinge dei quadretti di realtà industriale
attraverso un’esposizione lucida, oggettiva, impietosa del deturpamento del paesaggio laddove le
fabbriche annientavano progressivamente la campagna circostante. I moderni fabbricati e i quartieri
dormitorio nella periferia milanese si sovrappongono agli antichi borghi con risultati nefasti, mentre
l’atmosfera che sovrasta il nuovo ambiente urbano si colora di tinte fosche.
Fra mezzogiorno e le due quel tratto di viale, alla periferia nord di Milano, lunghissimo e stretto, che
si parte dalla strada esterna di circonvallazione e punta diritto fuori della città, era pieno degli operai di
stabilimenti allineati su di esso. […] Tutto il viale è fiancheggiato da muri, da case altissime, da spazi vuoti,
mentre gli si aprono intorno prospettive irregolari, o squarci di pianura o edifici incombenti. Si accavallano
costruzioni nuove, vecchie e decrepite, come una catena di montagne scoscese, ammassate dall’uomo. […]
Qui sta il confine fra la città e la campagna che frastagliato gira attorno a Milano, rientrando, allargandosi, in
un’immensa necessità industriale, che sembra disordine, fino a che si placa nei campi padani a perdita
d’occhio. (TS, pp. 24-25)
Attraverso le accurate descrizioni della periferia milanese, Ottieri riflette sui progetti dei
piani regolatori e sul processo di decentramento industriale che, dagli anni Cinquanta, proseguiva a
ritmo sostenuto con la chiusura delle fabbriche e il loro trasferimento fuori dell’agglomerato
urbano, creando così dei vuoti nel tessuto edilizio. Le cosiddette aree dismesse della grande
32
industria ammonteranno, nei decenni, a diversi milioni quadrati cui si devono aggiungere i buchi
lasciati nei vecchi quartieri industriali dalle piccole officine che hanno cessato l’attività o si sono
trasferite lungo le autostrade. Ottieri, intuendo l’importanza storico-sociale-urbanistica di queste
trasformazioni, ricorda la fase iniziale, quella più confusa, miope, distruttrice del paesaggio. E tra i
diversi agglomerati che sorsero nell’hinterland milanese, i quali formavano una cintura a intensa
specializzazione industriale, Ottieri si sofferma spesso a descrivere Sesto San Giovanni, la
Stalingrado d’Italia, paradigma di una condizione estrema.
Anche Sesto San Giovanni, Stalingrado, cittadella rossa, è Italia. È Lombardia e le tracce dello
spirito ottocentesco, manzoniano, continuano negli angoli di verde, nascosti nel piccolo ventre sconosciuto e
pittoresco del paese. […] La Sesto vecchia è ancora un luogo lombardo con l’acciottolato di sassi, le guide di
pietra liscia per le ruote, cortili, palazzi gialli e grigi, vecchie vestite di nero e preti, chiese. Guardando il
nord a sinistra, le è cresciuta accanto una Sesto nuova, agglomerato informe dell’ottocento a oggi,
prolungamento violento della città, disarmonico, nato intorno a una ferrovia. (LG, p. 74)
Non è terminata Milano, che comincia Sesto. La strada, di un lucido acciaio, sale, fa un’ampia curva,
scavalca un ponte, si raddrizza e cala su Sesto: un paese, una città, un villaggio massiccio, non si capisce.
[…] Era una piazza scialba, senza volto. Bisogna inoltrarsi a destra, superando il taglio della ferrovia, per
riscoprire la città vecchia, l’antico borgo lombardo. Dentro, esso aveva strade strette, tortuose, con
l’acciottolato puntuto di sassi e le guide di pietra liscia per le ruote; vi si affacciano artigiani e botteghe da
case ocra a due piani, rurali o una nobiltà paesana finita lontano. Ricompare una chiesa; passano vecchie
vestite di nero e preti. […] Camminarono così, per la Sesto nuova: un caos, un prolungamento violento di
Milano, nato a cavallo di una ferrovia.(TS, pp. 129-130)
L’industrializzazione di Sesto San Giovanni avvenne, all’inizio del Novecento, per opera di
imprenditori milanesi, tra i quali Breda, Camona, Marelli, Spadaccini, che portarono fuori dal
capoluogo lombardo i propri stabilimenti per vari motivi: necessità di maggiori spazi per imprese
più grandi e moderne rispetto a quelle di Milano, costi dei terreni più bassi, maggiore salubrità
dell’aria per la lontananza da marcite e risaie che si trovano a sud della città, comodi e frequenti
collegamenti con Milano grazie alla tramvia, un agevole collegamento con le regioni del centro
Europa per mezzo dei treni soprattutto dopo l’apertura, nel 1882, del traforo del San Gottardo,
buone fonti di energia dopo l’inaugurazione della centrale elettrica di Cassano D’Ada, disponibilità
di uno scalo merci. Le società che iniziarono la loro attività a Sesto ebbero bisogno di molta
manodopera e anche da questo punto di vista la vicinanza a Milano, oltre al fatto di essere
attraversata da una ferrovia e da una tramvia, costituì un notevole vantaggio.
Per l’attenzione rivolta ai dettagli nel riportare sulla pagina l’atmosfera industriale, Ottieri
scrive una lettera a Michelangelo Antonioni accompagnandola con l’invio del romanzo affinché il
regista potesse trovarvi degli spunti interessanti da tradurre eventualmente in un film.
Caro Antonioni, l’argomento potrebbe interessarla. […] È un tema di fabbrica ancora tabù ma
qualcuno mi ha detto che vi si ritrovano degli spunti cinematografici. […] Ho pensato a Lei. […] La sua
33
opera mi ha sempre colpito particolarmente; inoltre in una recensione, un critico ha scritto che vedeva
un’affinità tra parti del mio libro e un suo film. (29 maggio ’58)
Non meno importanti sono le correlazioni tra La linea gotica e Tempi stretti per le
descrizioni proposte da Ottieri all’interno delle fabbriche, tra la denuncia di un dramma e il
documento di un’esperienza vissuta personalmente, che confluiscono nel romanzo dove a emergere
sono gli operai esclusi dal benessere seppur protagonisti del miracolo. Tra questi, Aldo Comolli
interpreta nel romanzo la parabola malinconica dell’operaio specializzato che con l’esperienza
raggiunge un posto di riguardo all’interno dell’azienda Zanini in cui lavora, per poi essere
retrocesso a manovale per intemperanze sindacali, e licenziato dopo uno sciopero per dare
l’esempio a tutti gli altri suoi colleghi, fino all’assunzione in un’altra fabbrica come fattorino.
Ottieri riprende pedissequamente una vicenda osservata di persona, quella dell’operaio Molteni suo
amico e ricordato in alcuni passi della Linea gotica, che per l’ideale di solidarietà nei confronti dei
lavoratori licenziati in una fabbrica sorella, la Smai nel romanzo, getta nella lotta sindacale e
politica la propria persona grazie all’autorità riconosciutagli nel campo delle rivendicazioni
sindacali oltre che all’appoggio del partito che non lo avrebbe mai abbandonato. Molteni-Comolli
invece salirà sull’altare dei martiri dimenticato da tutti, partito e sindacati, disilluso e afflitto dalla
realtà incontrovertibile che si poggia su intrallazzi politici, compromessi, volgarità. Ottieri sceglie
Molteni come exemplum di una condizione operaia disastrosa non tanto per il lavoro alienante da
svolgere ogni giorno, quanto per l’ambiente che circonda i lavoratori posizionati tra l’incudine del
padrone e il martello del partito che non lesina sacrifici di uomini, nel senso di lavoratori licenziati,
quando necessario.
Farà la sua vera carriera politica, itinerario spirituale, il giovane operaio Molteni, meccanico, con gli
occhiali, serio, pensante, che dirige il gruppo giovanile della sezione. (LG, p. 59)
Aldo era stato promosso, per la sua bravura; da un angolo oscuro dell’officina e dalle lavorazioni in
serie Aldo era salito al reparto nobile dello stabilimento, all’attrezzaggio, studiando la sera, il sabato
pomeriggio, la domenica. […] Aldo conosceva bene la differenza fra prima e adesso e ne sentiva una oscura
gratitudine. E la rivoluzione, alla quale insieme a molti aveva creduto durante la Resistenza e il dopoguerra,
in attesa della quale avevano vissuto, non era venuta. Fu rimandata. (TS, pp. 133-134)
Comolli era il mio Metello. / Andavo ora a casa sua a cena. / A Comolli piaceva, anche a sua moglie,
/ più che argomentare la battaglia in Bicocca, / il rapporto coi cugini. (PSI, p. 32)
Mentre «la Zanini stava ottenendo il premio di produzione, e la Smai era in sciopero» (TS, p.
213), Aldo, secondo i corretti principi di un’unitaria rivendicazione sindacale, propone di seguire i
compagni in lotta per la difesa del posto di lavoro, alla Smai si prevedevano infatti cinquecento
licenziamenti, indicendo, con il consenso della base e del partito, uno sciopero alla Zanini. La
34
risposta della direzione dell’azienda non si fece attendere e Aldo, «essendosi questa volta collocato
sotto il tiro a zero dei cannoni della Zanini» (TS, p. 220), fu trasferito «per un periodo di tempo
indeterminato» (TS, p. 219) in reparti di serie dove, a causa del rumore incessante delle macchine, si
è impossibilitati a parlare. Quando c’è malumore tra gli impiegati o gli operai, la direzione agisce
spesso seguendo un’efficace regola non scritta: cambia posto ai dipendenti sovversivi con la
retrocessione di grado e l’emarginazione. «La direzione deliberò di non spostare il cronometrista,
bensì di spostare gli operai, di avvicendare i posti per spegnere la miccia. I ribelli delle presse
andavano sparpagliati e rieducati; il reparto rinnovato: vi avevano fatto il covo troppe schiene di
vetro» (TS, p. 156). In seguito, l’inevitabile conseguenza sarà il licenziamento per Aldo e a nulla
valsero le promesse del partito:
«Tu, Comolli, capisci, c’è una ragione politica, tu la capisci, di principio…». «È tutta una questione
politica», ripeté Aldo orgoglioso. «C’è una questione di principio che se si trascura… veniamo meno…
all’azione sindacale, alla solidarietà… a tutto, insomma, a tutto». […] «Aldo, – disse il segretario – tu non ti
troverai mai solo per tutta la vita. Te lo prometto io». «Te lo promette il partito», affermò burocratico il
compagno della federazione, suggellando così gerarchicamente la decisione. Aldo era lucido d’occhi,
rovinato e fiero. (TS, pp. 251-252)
Ma solo l’intervento di Giovanni che rifiuta la propria promozione pur di far assumere
l’amico Aldo, raro barlume di umanità in un contesto a dir poco sconfortante, gli offre l’occasione
di trovare un impiego in un’altra azienda, la Alessandri, seppur retrocedendo da tecnico
specializzato a fattorino.
Il fattorino del secondo piano è un operaio meccanico licenziato per motivi politici. I fattorini dietro
gli squallidi tavoli – uguali in tutte le aziende della città – con le parole incrociate e un giornale sportivo, al
massimo la posta, davanti – consumano il tempo in attesa del campanello. Quanti ne ho visti. (LG, p. 63)
Comolli […] essendo un fattorino […] non indossava la tuta, ma la divisa col berretto: questa fu una
pena. […] Come meccanico aveva sperato di occuparsi dell’automobile dell’ingegnere, oppure della
manutenzione del macchinario. […] Ma cosa pensava leggendo il giornale sportivo, riempiendo le parole
incrociate? (TS, p. 294)
Nel rendere manifesto l’occultato industriale, Ottieri fa emergere nel romanzo quelle storie
proibite che, pur avvenendo con frequenza nelle fabbriche, sarebbero rimaste sepolte nella
segretezza tra le macchine e gli uffici se non ci fosse stato l’occhio indagatore di uno speleologo
che le avesse riportate alla luce. L’evento più drammatico Ottieri lo ricorda nel ’51 quando lavorava
ancora per «La scienza illustrata», e si tratta del suicidio di Arnaldo F. trasformato in Tempi stretti
nell’operaio Ambrosini. Ottieri indugia molto sui particolari curiosi, grotteschi, addirittura ironici
della morte individuando, nella rassegnata accettazione dell’evento da parte dei colleghi, l’aspetto
più malinconico; più delle motivazioni, si cercano ipotesi oscillanti tra il pettegolezzo e l’ipocrisia
35
del ricordo, mentre le immagini che restano impresse si riferiscono a un treno in ritardo. Il tono
utilizzato dallo scrittore è oggettivo e senza partecipazione emotiva, così che la descrizione
dell’episodio si struttura come un rendiconto giornalistico di cronaca nera. Tale modus operandi,
con la semplice descrizione del luogo, dell’ora e dei protagonisti, si ritroverà altresì in
Donnarumma all’assalto e nel Campo di concentrazione nelle pagine in cui Ottieri racconta i tentati
suicidi avvenuti nella fabbrica di Pozzuoli o nella clinica di Zurigo. Fin dalle Memorie
adolescenziali il suicidio è un motivo ricorrente nelle sue opere e nell’Irrealtà quotidiana viene
analizzato in modo così minuzioso da divenire un fatto normale, un evento quasi inevitabile per chi
lo compie, ma anche per chi lo osserva, come l’unica vera alternativa possibile a una «vita che non
è degna di essere vissuta» (CC, p. 226).
Entrando nello stabilimento tipografico dove impagino, il posto della prima monotype a destra è
vuoto. Ci lavorava battendo freneticamente con le dita e liberando gli scatti della monotype – come una
macchina da scrivere a mitraglia – Arnaldo F. che si è suicidato l’altro ieri venerdì. Atteso l’intervallo, a
mezzogiorno e cinque minuti, è uscito dallo stabilimento in bicicletta con tutti gli altri. Era un giovane di
trentaquattro anni, ammogliato, con una bambina di sei anni. Invece di pedalare verso casa per la colazione, è
andato sulla linea ferroviaria, la Milano-Torino. Ha aspettato il direttissimo dell’una e venti in arrivo da
Milano. […] Ha dovuto attendere, perché il treno viaggiava in ritardo. […] Viene fuori che aveva un’amante,
la quale lo succhiava vivo, che non sapeva liberarsene. […] La mattina del venerdì fu visto spesso trattenersi
al gabinetto per fumare. […] Era un operaio molto bravo. Di rado faceva sbagli. (LG, pp. 66-67)
«Hai visto il posto vuoto?». «E dove?». «Il primo dei torni. Non hai visto che manca uno? Non ci
vorrà andare nessuno». «Lo hanno licenziato? Che ha fatto?». «È morto». «Quanto era vecchio?». «Ma no,
era Ambrosini. Si è ammazzato. […] Ieri, proprio a quest’ora. All’una e un quarto». «E come ha fatto?». «Ha
aspettato il treno. – disse Anna naturale – E il treno era in ritardo». Chissà quanto ha dovuto aspettare, rifletté
Emma. «Ora il caposquadra – fece Anna ironica – dice che era il più bravo di tutti, che proprio non si capisce
com’è successo. […] Ma lo sanno tutti che aveva due donne. […] Ieri mattina è andato cinque volte al
gabinetto. Credevano che fosse malato di stomaco. Poi è uscito in bicicletta a mezzogiorno». (TS, pp. 48-49)
Nel romanzo, oltre a Emma, emerge un altro personaggio femminile che si distingue per
alcune vicissitudini occorse durante l’orario di lavoro: si tratta dell’operaia Dell’Orto sulla quale
Ottieri proietta caratteristiche di alcune lavoratrici osservate e ricordate sia durante l’impiego alla
«Scienza illustrata» che alla Olivetti. Nel primo episodio, la Dell’Orto riceve dei fiori direttamente
nello stabilimento, fatto davvero inusuale per un’operaia al lavoro, facendo scatenare le congetture
più irriverenti, tra cui un amante segreto che la donna provvede a stemperare con la rivelazione del
proprio compleanno: i fiori le furono portati dalla nipotina come regalo. Tuttavia nessuno sembra
crederci.
L’altro giorno era la sua festa; ebbe un quarto d’ora di permesso per ricevere in portineria la nipote.
Ecco perché, appena tornata, appoggiò sul banco un mazzo di fiori chiusi dentro una scatola di cellophane.
Saranno state le 18 e un quarto. Si aspettava la sirena. Ecco perché era così pettinata, come se la testa e il
lavoro del parrucchiere si salvassero, alti, nell’officina. Pareva una signora che facendo il bagno tiene il capo
36
dritto fuori dalle onde. Solo le unghie la tradivano: avevano rimasugli di smalto rosso, affioranti dallo sporco
dell’olio, luccicanti nel mare grigio dei pezzi. (LG, p. 217)
Quella sera la Dell’Orto ebbe un permesso di dieci minuti per recarsi in portineria: ciò è sempre una
novità. […] Tornò con un mazzo di fiori incartato nel cellophane e lo depose di fianco alla sua macchina.
Solo lei poteva portare fiori in officina. Avvertì in giro: «Me l’ha portato la mia nipotina». Si agitava. Tutti
sbirciavano verso di lei impaziente di uscire, ben pettinata, ondulata, lo smalto delle unghie affiorante sotto
le macchie d’olio nelle piccole dita, davanti ai fiori. Aveva un appuntamento? Altro che nipotina! (TS, p. 80)
La Dall’Orto è la protagonista inoltre dell’evento più piccante del romanzo, quando durante
la pausa mensa viene sorpresa in un ufficio a scambiare effusioni sospette con l’operaio Sestetti
(una scena simile Ottieri la ricorderà anche nei Venditori di Milano). A seguito della delazione di
una guardia che li aveva colti sul fatto, l’uomo viene licenziato mentre la donna subisce, come
castigo, la retrocessione alle presse. Una domanda tuttavia sorge lecita oltre la condanna, e Ottieri
forse un po’ ironicamente se ne fa portavoce: se la fabbrica assorbe quasi tutta la giornata di operai
e operaie, tra il lavoro in media di dieci o più ore e il viaggio andata e ritorno per arrivarci, dove
come e quando si potrebbe fare sesso?
Trovo un amico che racconta che fra l’una e le due, durante l’intervallo, gli operai e le operaie vanno
a fare l’amore negli uffici vuoti. Per spregio. (LG, p. 195)
Un giorno di febbraio, nell’intervallo della mensa una guardia pescò la Dell’Orto nel razionale
ufficio dell’ingegner Bonacina – da questi lasciato in perfetto ordine, il tavolo sgombro, le sedie allineate –
scompigliata e riversa in una poltrona sotto il bacio profondo di un uomo. […] La voce che certi operai per
incoscienza o peggio per spregio dopo mensa usassero gli uffici vuoti per farci l’amore, già circolava. (TS, p.
158)
In ultimo, Ottieri concede una malinconica standing ovation alla povera Dell’Orto che, in un
momento di distrazione, si taglia un dito alle presse. L’evento sarà ricordato anche in alcuni versi
del Padre evidenziando nuovamente la stretta correlazione tra un episodio osservato nella realtà e il
ricordo scaturito che diventa materia da romanzo o poesia.
Verso le undici e mezzo dal posto della Dell’Orto fu cacciato un urlo umano e più forte, più acuto
dei colpi impastati delle presse e che sovrastò il rumore di tutto il salone. La Dell’Orto svenne ed Emma la
vide giù per terra. Dopo qualche battito di esitazione le macchine del reparto si arrestarono una per una; e in
quell’oasi di silenzio la Ratti si precipitò sopra la ragazza cauta che si era mozzata un dito e spargeva un
ruscello di sangue. […] Il vicesegretario della sezione socialista proferì a mezza bocca, astioso ma solenne
quasi soddisfatto: «Un altro infortunio. Troppo spesso il sangue su queste scale». Quindi proseguì sdegnato.
(TS, pp. 166-167)
L’ufficio pubblicità / di un’azienda metalmeccanica, / S. Pietro del proletariato, / è il luogo dove, a
colori, / si svergogna il bianco e il nero / della fabbrica, non allegra, triste, / del rapporto non bello,
misterioso, / uomo-macchina, / fra l’operazione e la pressa che, / se l’operaia si distrae, / le mozza un dito.
(PAD, p. 67)
37
Il ricordo serve a Ottieri per illuminare quegli episodi eclissati nei meandri della fabbrica, i
quali una volta sulla pagina rendono la narrazione più romanzata; espediente che Calvino, Vittorini
e Pasolini gli rimproverarono unanimemente. Essendo un romanzo industriale, tuttavia, e Ottieri vi
aveva a lungo riflettuto, quelle parti borghesi considerate inutili o anche dannose al contenuto
dell’opera avrebbero potuto al contrario avvicinare meglio il lettore a un confronto più aperto e
meno rarefatto con il testo. Inoltre Ottieri procedeva seguendo un percorso ben preciso:
osservazione dal vivo, partecipazione, resoconto sul diario, estrapolazione degli episodi più
interessanti, stesura dell’opera. Da questo procedimento si comprende in modo chiaro la quasi
perfetta corrispondenza tra alcune pagine della Linea gotica con i passi simili del romanzo per
quanto riguarda gli eventi curiosi, anomali, drammatici, sui quali egli indugia nei dettagli offrendo
pertanto una narrazione realista del dato complessivo.
Per riassumere gli aspetti eterogenei che formano, nel loro insieme, la struttura portante di
qualsiasi fabbrica, Ottieri ritiene necessario caratterizzarne l’essenza con un’immagine
rappresentativa ed efficace: il manicomio. In primo luogo per la forma architettonica siccome molto
spesso una fabbrica sembra assumere i connotati di una clinica per le suddivisioni interne in varie
zone, dai piani alti dirigenziali a quelli impiegatizi fino alle fucine infernali. E come in un
manicomio gli operai vagano senza alcuno scopo apparente, alienati dal lavoro e dal prodotto cui
partecipano in modo settoriale che scaturisce; le conseguenze più dirette sono sintomatologie
classiche: follia, pazzia, esaurimenti nervosi, nevrosi, alienazione: «Pei manicomi grigi / erra il
proletariato» (PSI, p. 34).
A giudicare la fabbrica dall’ufficio delle assistenti sociali e dall’infermeria, la fabbrica sembra un
manicomio. La follia industriale impazzisce. Si spendono cifre enormi per l’assistenza. […] Il medico
racconta che ogni primavera si ha una crisi generale: esaurimenti nervosi di impiegati, operai, dirigenti; la
casa di cura e il sanatorio senza più un posto libero. (LG, pp. 232-233)
Vi furono parecchi crolli di uomini e donne. I medici prescrivevano montagne di scatole di iniezioni
ricostituenti; dilagava l’èra degli esaurimenti nervosi, iniziata con la primavera. […] Nelle ore vuote anche
qualche direttore scendeva in infermeria, inebriato ma reso perplesso dalla fatica industriale: per costruire
prodotti, tutta questa ira di Dio? (TS, p. 296)
Non appena uscito nelle librerie sul finir dell’estate del ’57, Tempi stretti riscosse un
notevole consenso da parte della critica soprattutto tra coloro che attendevano da molti anni un
romanzo che trattasse direttamente il tema del lavoro nelle fabbriche, ma meno dai lettori, un
refrain per quasi tutte le pubblicazioni di Ottieri. Nell’epistolario di Ottieri si conservano numerosi
interventi di rilievo come quelli del poeta Giovanni Giudici che si sofferma sulla necessità di una
condivisione politica al fine di sopprimere la servile condizione degli operai.
38
Caro Ottieri, il valore documentario di cui tu stesso mi dicevi non mi sembra essere l’aspetto
essenziale: piuttosto si potrebbe pensare che sia un aspetto limitativo della verità dei personaggi che, specie
per quanto riguarda gli scorci politici, vengono necessariamente assunti in una luce, verbigrazia,
emblematica, correndo il rischio – sempre provata in una narrazione sostenuta da forti interessi morali – di
diventare prima simboli che personaggi. Assai bella in sé – per se stessa, per il loro vigore rappresentativo –
le pagine sul lavoro degli utensili, i cottimi etc. […] È vero che «c’è una tristezza operaia dalla quale non si
guarisce che non la partecipazione politica»: e in questa chiave la partecipazione politica diventa il motivo
liberatore, collettivamente, di situazioni personali sofferenti di limiti esterni e interni. […] Mi dicesti che il
romanzo si sarebbe chiamato Le schiene di vetro; sarebbe stato meno giornalistico e più aderente anche alla
sostanza morale; forse, tuttavia, meno digeribile a prima vista dal lettore comune. (22 settembre ’57)
Anna Garofano sottolinea il valore estetico del romanzo, fondamentale per aprire un capitolo
di storia letteraria in cui la fabbrica possa essere rappresentata dall’interno, scendendo finalmente
dalla «torre d’avorio» in cui si sollazza una parte della cultura italiana efficientemente cortigiana.
Caro Ottieri, è un libro moderno, utile, interessante, consultivo e insieme un bel romanzo. Lei ci ha
dato lo specchio della vita di fabbrica senza demagogia, ma con la necessaria durezza e severità. In molti
punti ho ritrovato l’emozione de La condition ouvrière di Simone Weil. Il discorso ci potrebbe portare,
adesso, alle relazioni che passano tra letteratura e industria e ai motivi che un vero scrittore può trarre da un
ambiente di lavoro tanto diverso dagli ideali convenzionali, dagli esuli nella torre d’avorio. (21 ottobre ’57)
Cui segue una risposta di Ottieri:
Cara Garofano, per me è importantissimo quanto lei dice sui rapporti tra letteratura e industria, anzi,
è la cosa più importante. Quasi mi basterebbe – indifferentemente dal valore letterario, che è discutibile, lo
so – che il mio libro servisse ad avviare quel discorso di cui lei accenna nella Sua lettera; tanto tale discorso
ci sta a cuore. (26 ottobre ’57)
Anche Michele Prisco riconosce la novità apportata da Ottieri nel panorama letterario
italiano coinvolgendo gli operai in modo realistico, anche se il romanzo non ha avuto molto
successo come avrebbe meritato.
Caro Ottieri, la lettura del tuo romanzo Tempi stretti mi ha appassionato molto […] soprattutto
quando si trattava della scena delle fabbriche, dei dialoghi fra gli operai etc. Mi pare che dopo questo tuo
libro io guardi diversamente gli operai intorno a me, che vedo per strada o nei treni. […] Il tuo libro mi
sembra una cosa importante. […] Ma ho tuttavia il dubbio che il libro non abbia sfondato come veramente
meritava. (27 novembre ’57)
Infine Ottieri invia a Giulio Davico le bozze corrette di Tempi stretti per la seconda edizione
che uscirà nel ’64 ancora per Einaudi, rimproverandosi di una scrittura insoddisfacente nella prima
stesura che sembra aver corretto; anche se il valore essenziale del libro resta la denuncia sociale
della condizione operaia che dal romanzo riesce a proiettarsi nella realtà.
39
Caro Davico, pur non avendo fatto nessun mutamento essenziale, vedrai che le correzioni sono
parecchie: cioè ho fatto un indispensabile lavoro di ripulitura. Così com’era, il testo mi faceva venire la pelle
d’oca. Mi dispiace non averci pensato prima: si poteva risparmiare qualche giro di bozze, ma purtroppo
l’ispirazione alle varianti segue le bizzarre leggi dell’ispirazione. […] Sono abbastanza soddisfatto, in questo
momento, dei Tempi stretti. Il romanzo è rimasto quello che è, di natura moralistica, populistica,
sentimentalistica, ma la sua efficacia sociologica è sempre molto attuale (per esempio, alla Olivetti sono
accadute ultimamente cose somigliantissime a vicende aziendali del libro). (11 settembre ’64)
La coraggiosa scelta di Ottieri di ambientare il romanzo in una fabbrica riscuote notevole
attenzione anche all’estero, soprattutto nelle Democrazie popolari satelliti dell’Unione Sovietica.
Già pochi mesi dopo l’uscita del libro in Italia, a Mosca si richiedevano pubblicazioni proletarie e
realiste per eventuali traduzioni: Tempi stretti entrerà nel novero tuttavia senza andare oltre il primo
interessamento.
Caro Strada, ieri a Torino, da Einaudi, Foa e Calvino mi hanno detto che il mio libro Tempi stretti è
stato richiesto, e con una certa insistenza, dall’Unione Sovietica; e mi hanno fatto il Suo nome. Della cosa si
occupano loro come casa editrice, ma siccome mi interessa molto e mi sta molto a cuore, mi permetto di
scrivere a lei per quanto potesse fare. Non so se la richiesta russa è a titolo puramente informativo o se
riguardi una eventuale traduzione; comunque in ambedue i casi (e soprattutto nel secondo!) io avrei piacere
che l’iniziativa avesse un suo svolgimento. (3 febbraio ’58)
Da Mosca, Strada parla della possibilità di una traduzione in lingua russa di Tempi stretti,
anche se le direttive dei soviet per pubblicare un’opera straniera sono molto particolari.
Caro Ottieri, vorrei consigliarne caldamente la traduzione ai consulenti editoriali sovietici che mi
chiedevano i titoli delle ultime e più interessanti opere letterarie italiane. […] La relazione del consulente e
dell’editore sovietico dovrebbe essere sostanzialmente positiva. Ma i canoni locali per giudicare della
vivezza e attualità di un’opera letteraria non sempre collimano con quelli correnti da noi. Ed è naturale. (20
febbraio ’58)
Tempi stretti verrà tradotto in bulgaro grazie al lavoro di Violetta Dascalova, studiosa di
lingua e letteratura italiana, che seguendo il protocollo vigente allora in Bulgaria riuscì a far
pubblicare l’opera senza molti contrattempi; anzi con una sorprendente tiratura di migliaia di copie
e un compenso per Ottieri elevato in proporzione addirittura maggiore rispetto all’Italia.
Egregio Signore, sono lieta di avvisarLa che ho tradotto in bulgaro il Suo Tempi stretti e l’ho
consegnato alla nostra casa Editrice di Letterature straniere. Probabilmente Lei è informato che da noi le case
Editrici sono nelle mani dello Stato e l’interprete non può trattare con gli autori prima di cominciare la
traduzione. Insomma, Lei deve attendere la proposta da parte della casa Editrice sulla quale io non so
scriverLe niente. (16 marzo ’62)
Egregio Signore, la Direzione per la difesa dei diritti d’autore, Piazza Slavaikov 11, ha inviato nel
giugno ’63, attraverso il Banco di Roma al Suo Editore Einaudi una somma di 318.730 lire italiane. […] Il
Suo libro ha in Bulgaria una tiratura di 25000 copie. (25 settembre ’63)
40
Infine, si ricorda un intervento di Vlaimiro Cajoli all’editore Bompiani sulla ristampa di
Tempi stretti alcuni anni dopo la prima apparizione del romanzo:
Caro Valentino, Tempi stretti mi ha fortemente impressionato: è forse il solo libro che parli di vita
operaia, riuscendo a interessare profondamente lettori borghesi (e scoglionati) come me. Quando ne avremo
di più, dico di Ottieri e di libri come questo, capiremo e ameremo meglio. (26 novembre ’67)
I.3 Donnarumma all’assalto
Donnarumma all’assalto15, il terzo “tempo” industriale di Ottieri, scaturisce dall’importante
esperienza vissuta a Pozzuoli come selezionatore del personale nella nuova fabbrica Olivetti, dopo
che l’ingegner Adriano Olivetti, preoccupato per la malattia (meningite tubercolare) che colpì lo
scrittore nel ’53, gli propose il trasferimento in un luogo più salubre rispetto a Ivrea e Milano,
ovvero Pozzuoli dove la Olivetti aveva da poco costruito una fabbrica davanti al mare: «Così, di
fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in
rispetto alla bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno»
(DON, p. 117). Un gioiello di architettura rispettoso del paesaggio e con una rivoluzionaria per quei
tempi politica del personale attenta a una proficua integrazione con la popolazione lavorativa, intesa
nell’insieme di operai e delle loro famiglie.
Lo stabilimento è sorto come un’officina, un reparto staccato dagli stabilimenti centrali. Piuttosto che
allargare questi, nel nord, con un nuovo edificio, la costruzione è stata trasportata nel Mezzogiorno. Non è un
capannone: l’architetto ha progettato una delle più belle fabbriche d’Europa, colorata, circondata da un
giardino; e intorno a essa l’infermeria, la biblioteca, la mensa. Vi nasce un mondo unitario, caduto dall’alto
nelle sue forme, ma per affondare nella terra e nello spirito di questo paese. (DON, p. 7)
Adriano Olivetti, un / ingegnere che invece di / ristrutturare, strutturava, / costruì a Pozzuoli una /
fabbrica sul mare, che / sembrava, fra le piante, un / albergo gentile. Olivetti, / l’unico vero ambientalista /
italiano, credo ignorasse la / vita ecologica. (QM, p. 7)
15
Uno dei primi titoli pensati da Ottieri fu Una fabbrica sul mare che riproporrà anni dopo in Contessa per il
romanzo scritto dal suo alter ego femminile Elena Miuti, ma Valentino Bompiani, editore dell’opera e «grande
inventore di titoli» come lo definisce Ottieri ne Gli ultimi eccentrici (p. 234), pensò che sarebbe stato meglio indicare
nel titolo il nome di un disoccupato senza qualifiche, Antonio Donnarumma, disposto a tutto pur di entrare nella
luminosa fabbrica aperta nel suo paese (Pozzuoli) senza retaggio industriale: da cui appunto Donnarumma all’assalto.
Per quanto riguarda i cambiamenti dei titoli, anche per L’impagliatore di seie Bompiani intervenne sostituendo
l’originario La settimana corta voluto dall’autore: «È andata sempre così con i miei libri: metto un titolo e l’editore è
certo, con quel titolo, di vendere una decina di copie. Padre che io abbia la tendenza a titoli non brutti, ma masochistici»
(IMP, p. 7). E infine «Valentino Bompiani mi ha suggerito il titolo di Improvvisa la vita» ne Gli ultimi eccentrici, p.
234.
41
Faceva una politica del personale, […] faceva ambientalismo / quando non sapevamo che fosse. /
Costrusse una fabbrica sul mare / davanti a cui i turisti si fermavano / credendo che fosse un grande albergo.
(PAD, pp. 68-69)
Volendo coniugare in una felice sintesi razionalismo e mediterraneità nel territorio flegreo di
elevata qualità ambientale, Olivetti promosse e rese possibile un’idea sorprendente anche grazie alla
collaborazione di Pietro Porcinai e Marcello Nizzoli che hanno creduto nel progetto e dato un
contributo essenziale alla sua realizzazione. Una storia che ha le sue profonde radici negli anni
Trenta durante i grandi dibattiti teorici per eventuali straordinarie fabbricazioni; ma soprattutto nel
dopoguerra, durante la ricostruzione del paese dalle macerie del conflitto bellico, si progettarono su
basi più avanzate le effettive esecuzioni di nuove idee. Erano anni di grandi speranze e di forte
impegno civile e morale, anche se gran parte delle occasioni andarono perdute o disperse, e il
territorio, quello napoletano in particolare, subì la violenza devastante delle “mani sulla città”.
Costruire una fabbrica moderna si rivelava un’opportunità formidabile e nel ’51 l’architetto Luigi
Cosenza accettò con convinzione ed entusiasmo, divenendo per lui una ragione di vita oltre che una
sfida contro l’incultura che continuava a manifestarsi anche dopo la costruzione della fabbrica. Il
tempo di realizzazione dell’edificio fu breve e i lavori si conclusero nel ’54, così che nell’aprile ’55
si svolse l’inaugurazione ufficiale della fabbrica con vista mare.
Ottieri, il primo marzo del ’55, «Marzo – Lunedì. Sono entrato per la prima volta,
all’improvviso, nel laboratorio psicotecnico» (DON, p. 9), con la moglie Silvana Mauri e la figlia
Maria Pace si trasferisce a Pozzuoli dove ha inizio per lui un periodo molto intenso e felice, con la
riscoperta del Sud di cui conserverà per tutta la vita una grande nostalgia. Si tratta, infatti, di una
vera e propria riscoperta poiché Ottieri aveva conosciuto il sud, inteso nelle zone di Pozzuoli, Torre
del Greco, Cava dei Tirreni e dintorni, alla fine degli anni Quaranta grazie alla conoscenza di
un’amica di famiglia, la scrittrice Clotilde Marghieri che viene chiamata in modo familiare Rella
nelle numerose lettere scambiate tra il ’44 e il ’60. Ottieri la incontra la prima volta nel ’43 nella
casa romana della Marghieri svolgendo lezioni private di Italiano e Latino alla figlia Lucia: «Cara
Rella, si ricorda del remoto autunno del ’43 quando venni in divisa a far lezione a Lucia? Beh,
quattro anni fa! Una bella amicizia la nostra di cui vado fiero. E la ricordo sempre con molto
affetto» (Marzo ’47). Lo scrittore instaura con Rella una profonda amicizia raccontandole, anche
nei dettagli, alcuni eventi importanti della propria vita come la malattia, il desiderio di lasciare
Roma e la famiglia, il trasferimento a Milano e le difficoltà di adattamento in una città poco amata, i
lavori nell’ambito letterario, la conoscenza di Silvana Mauri, gli esiti positivi delle prime
pubblicazioni, l’assunzione alla Olivetti e il periodo di stage a Ivrea, la nostalgia per il sud, i dubbi
se restare a Pozzuoli o tornare a Milano, la difficile edizione di Donnarumma, la nascita del figlio
42
Alberto. Anche la Marghieri si confida intimamente a Ottieri e nelle lettere si rivela un rapporto di
solidarietà nella solitudine esistenziale e nella depressione delle loro vite:
Cara Rella, il mio peggior nemico è il tempo. Io non so mettere pace tra passato, presente e futuro.
[…] Bisogna abituarsi a star male, visto che non si può stare meglio. (Dicembre ’44) […] Il nostro errore
(cioè, il nostro male) è l’aver scatenato il pensiero fino al punto di non saperlo trattenere più; esso si
trasforma così in ossessione, e non è più pensiero. Qualsiasi uomo deve soggiacere al logorio del pensiero
scatenato; non si tratta, come lei accenna, della sua natura femminile: anche un Ercole ne verrebbe
schiacciato. (Luglio ’47) […] Noi produciamo sempre un destino difficile. (18 agosto ’56)
Grazie alla conoscenza della Marghieri e ai frequenti soggiorni alla casa di Torre del Greco,
Ottieri può visitare il sud e innamorarsene, così che quando Olivetti gli propone il trasferimento a
Pozzuoli, Ottieri risponderà in modo positivo anche per il ricordo e l’affetto provato per quei
luoghi: «Nel maggio [’54], partenza per Torre del Greco. Di nuovo, questo dolce affacciarsi sul sud.
Per contrasto, faccio molte letture sulla psicologia operaia settentrionale» (LG, p. 171). In una
lettera dell’ottobre ’54 lo scrittore confida alla Marghieri il progetto di trasferirsi a Pozzuoli e,
nell’intento di trovare un’abitazione in affitto, per l’occasione vorrebbe farle visita con uno scalo a
Torre il 5 novembre. La casa di Torre vivrà periodi tribolati per la complicata gestione di due
abitazioni, insieme a quella di Roma, da parte della famiglia Marghieri, e dopo alcune titubanze la
villa sul mare di Torre del Greco dovrà essere venduta, a metà degli anni Sessanta, con grande
rammarico di Ottieri.
Quando arriva a Pozzuoli, dunque, Ottieri non è inesperto dei luoghi e l’immersione nel sud
gli permette di analizzare dal vivo due aspetti molto importanti: l’industrializzazione e la questione
meridionale. Durante i nove mesi di permanenza nello stabilimento, da marzo a novembre del ’55,
Ottieri registra su un diario quell’importante esperienza di vita e di lavoro evidenziando alcuni
elementi che struttureranno Donnarumma, non a caso pensato e poi sviluppato in forma diaristica,
quali lo squilibrio storico e sociale nel sud Italia durante l’industrializzazione forzata nel boom degli
anni Cinquanta, il dramma dell’analfabetismo, il mutamento antropologico di chi abbandonava le
terre per il miraggio della fabbrica, gli ingranaggi infallibili della psicotecnica16 che esamina un
popolo intero. Lo spunto autobiografico e la necessità di esporre, come un sociologo, la condizione
operaia del Mezzogiorno spingono Ottieri a scrivere un nuovo importante capitolo, dopo Tempi
stretti, della letteratura industriale italiana. Tuttavia la pubblicazione di Donnarumma si rivelerà irta
di ostacoli a causa dei troppi elementi che coincidevano tra il romanzo e la reale fabbrica Olivetti di
16
La psicotecnica, o psicologia applicata, può essere definita sinteticamente come «arte della mente»,
derivando dall’unione delle parole greche ψυχή, «anima», «mente» e τέχνη «arte». La psicologia applicata fa parte di un
settore della psicologia che, servendosi delle elaborazioni approntate a livello teorico dai vari orientamenti e da diverse
scuole psicologiche, nonché dai modelli di riferimento forniti da altre discipline, ricava tecniche e modalità operative
per intervenire su problemi concreti, individuali o collettivi, che possono riguardare tutti gli aspetti del comportamento
umano.
43
Pozzuoli, la quale, secondo le valutazioni del Direttore dello Stabilimento Rigo Innocenti, avrebbe
avuto una pubblicità negativa da un’opera così veristica.
Egregio Dottor Ottieri, desidero premetterle che il mio giudizio non è evidentemente un giudizio
estetico in quanto che non ritengo di poterlo dare. Per quanto riguarda il punto di vista aziendale, a mio
parere il lavoro non è pubblicabile poiché dà un quadro di un momento di un lavoro completamente isolato
da qualsiasi altro fatto della vita aziendale, per cui mi sembra che ne risulti solamente la Sua angoscia
nell’effettuare questo lavoro di selezione e lo smarrimento nelle persone selezionate. […] Un documento
come il Suo potrebbe essere facilmente oggetto, a mio parere, di speculazione da qualunque persona che in
malafede volesse attaccare la politica della nostra azienda. (22 aprile ’58)
Caro Innocenti, ho scritto il libro per un motivo essenziale: la mia disposizione d’animo positiva
rispetto al mondo di Pozzuoli, alla mia esperienza in esso; alla fabbrica e al paese. Una disposizione con
radici profonde, di idee autobiografiche, che Lei in parte conosce, legata poi a una particolare nostalgia e
gratitudine. Ho intrapreso il libro con quello che pensavo la garanzia di tale mio atteggiamento morale, verso
lo Stabilimento e verso il sud (o più di una garanzia: un’adesione sentimentale). […] Intendevo portare un
contributo positivo alle ragioni difficili, ma non misteriose, dello Stabilimento, giustificare perché, a
esempio, di fronte a una marea di domande, si debba assumere poco e solo razionalmente. Se mai, rigettavo
la colpa sulle deficienze dello Stato; e ponevo la vostra azienda nel punto più alto di coscienza e di
responsabilità, di sforzo per il meglio. Il male che c’era lo dimostravo storico, non aziendale. […] Così
volevo anche recare un contributo alla comprensione del Mezzogiorno in quanto credo che la Bassa Italia si
difenda meglio accettandone certi difetti che nascondendoli. […] Ho dovuto puntare il libro invece che su
una validità sociologica, su una efficacia artistica (riuscita o no). Affinché ne venisse fuori […] il dramma
obbiettivo della selezione, dolorosa, colpa di nessuno, elemento necessario di ordine. Questo è il tema, il
cuore del libro, o meglio, il suo centro unificatore, perché ce ne doveva essere uno. […] Ogni personaggio
mi appariva un esempio denunciatore di tale pubblico problema, senza segreti perché la disoccupazione non
è un segreto. […] Lo spirito con cui ho scritto il libro è stato di partecipare dal di dentro, di corresponsabilità
totale alla materia di esso. Era uno spirito aziendale, nel senso migliore della parola. (28 aprile ’58)
Dopo gli interventi di Bompiani, capo della casa editrice, e Olivetti, presidente della
fabbrica, Ottieri renderà astratta la sua narrazione e, grazie ad alcune revisioni, l’edizione di
Donnarumma potrà uscire depurata nei nomi dei luoghi, degli operai e dei dirigenti: la città di
Pozzuoli, ad esempio, nel romanzo viene nominata Santa Maria. Adriano Olivetti alla fine gli diede
il benestare, accompagnandolo con uno dei suoi gelidi sorrisi e la frase: «Lei rischia la carriera, io
rischio uno sciopero». A conclusione della vicenda, il romanzo non influenzò alcuno sciopero alla
Olivetti anzi gli fece in qualche modo pubblicità, mentre Donnarumma all’assalto diventerà col
tempo un classico della letteratura italiana del dopoguerra: «Caro Ottieri, sono contento della buona
notizia circa il Suo libro e condivido la Sua opinione sul rischio personale. […] Opportunamente
Lei ha apportato delle variazioni di nomi e di luoghi che mi dice ed eviterà ogni connessione
autobiografica nel lancio del libro» (Lettera di Rigo Innocenti, 7 aprile ’59).
In alcuni passi estrapolati dalle lettere scambiate con Innocenti, emergono delle significative
riflessioni di Ottieri riguardo alle radici profonde che lo legavano al sud e alla critica indirizzata allo
Stato per le disuguaglianze sociali sviluppatesi durante il miracolo italiano. Tuttavia Ottieri, durante
la stesura di Donnarumma, non s’imbatté soltanto in contrattempi dovuti alle condizioni idonee per
44
la pubblicazione, ma anche di narrazione tout court e il carteggio con Geno Pampaloni, il quale
critica il manoscritto della prima redazione del romanzo Ragione e disperazione, rivela questo
aspetto non certo secondario:
Caro Ottieri, la vena narrativa è insabbiata e la vena saggistica manca di orgoglio intellettuale. […]
Le sue pagine sono piene di materiale anche ottimo. Ma è un materiale, per dirlo in una parola, senza precisa
vocazione. (29 marzo ’57)
Caro Ottieri, il libro, come tale, non è certamente privo di interesse e di valore. Riesce a dare, sia
pure con qualche soluzione di continuità, il clima di un ambiente, e soprattutto il dato psicologico del
personaggio autobiografico. […] Il limite, che è interno a questo stesso valore, sta nell’incerto confine tra
letteratura e documento, nella polivalenza, che è ambiguità, dei suoi contenuti. […] Lei dovrebbe ripassare
questa materia in forma narrativa, abbandonando il filo della confessione, dichiarando un personaggio che, si
sente, è pronto a vivere. (28 giugno ’58)
Oltre tutte le difficoltà incontrate durante la stesura del romanzo per i problemi di
opportunità e di scrittura, Ottieri dovette affrontare anche il distacco dalla casa editrice Einaudi con
la quale aveva pubblicato le prime due opere Memorie dell’incoscienza e Tempi stretti.
L’abbandono non fu indolore poiché Ottieri doveva per contratto pubblicare i futuri manoscritti,
come Donnarumma, con la Einaudi mentre nel ’59 sarà Bompiani il suo nuovo e per i successivi
anni unico editore. Il primo a conoscere l’intricata situazione fu Vittorini che spesso aveva criticato
alcune scelte narrative di Ottieri sia nelle Memorie che in Tempi stretti; ma leggendo Il diario di
Pozzuoli, un titolo pensato da Ottieri per il romanzo ancora in fieri, vi scorgeva la sorprendente
abilità del giovane scrittore nell’affrontare una questione sociale determinante in quel periodo
storico; e inoltre da buon profeta gli vaticina un grande successo all’Italia e all’estero pur
esprimendo forte rammarico per la scelta di cambiare editore.
Caro Ottieri, il tuo libro è uno dei più importanti degli ultimi anni. È rimasto, in esso, un residuo
moralistico, una certa indulgenza di natura autobiografica, un bovarismo, sia pure molto aggiornato, da
psicologo industriale; di questo ti libererai quando ti sarai convinto tu, da te stesso, che ciò cela la nitidezza
della rappresentazione documentaria e artistica. Ma non è tale da nuocere sostanzialmente al libro. Invece
questo libro può avere una importanza europea per la novità dell’argomento che tratta. Va molto più a fondo
degli altri, e anzi scopre una zona di rapporti e di episodi non conosciuti nella vita del lavoro industriale e del
popolo. Perciò non è meridionalistico nel senso che mi dà fastidio: la sua materia riguarda in generale i
rapporti umani che si intersecano ed esplodono intorno alle collaborazioni e alle lotte del lavoro. […] È un
libro che dovrà avere successo in Italia e all’estero, per la verità che dice, e a me dispiace molto che tu ti sia
già impegnato con un altro editore per la sua pubblicazione, ma ti faccio i migliori auguri insieme a lui. (8
ottobre ’58)
L’epistolario di Ottieri conserva sei importanti lettere scambiate con Giulio Einaudi tra l’11
e il 20 febbraio del ’59 e i toni non sono idilliaci tra invii di raccomandate intrise di accuse, minacce
e spiegazioni. E negli stessi giorni di quel febbraio Ottieri ebbe anche una fitta corrispondenza con
Calvino, spiegando a chi lo aveva presentato a Einaudi l’assoluta buona fede che lo spingeva verso
45
Bompiani, senza per questo ritenere la fuga come un tradimento nei suoi riguardi. La cronistoria e
l’intreccio delle lettere propongono un retroscena particolare non solo della biografia di Ottieri ma
anche di un certo clima culturale che animava le case editrici alla fine degli anni Cinquanta tra
dubbi di programma, adattabilità delle opere nelle collane, scelta dei contenuti che potevano rendere
e vendere meglio. Ottieri riassume, un po’ troppo ingenerosamente, il periodo delle sue due
pubblicazioni einaudiane come un «calvario» dovuto in primo luogo alla lunga attesa per l’uscita di
Tempi stretti.
Caro Dottor Einaudi, io desideravo accertarmi che Lei fosse a conoscenza del fatto che il manoscritto
del mio ultimo libro (allora con il titolo Diario di Pozzuoli) fu da me consegnato, ai primi del ’59 alla Sua
Casa Editrice, affinché potesse esercitare il diritto di opinione su di esso entro i due mesi convenuti; e che fu
da me ritirato soltanto dopo che Calvino mi ebbe spiegato di non essere in grado, né lui né altri, di poterlo
leggere in quel periodo, per poi sottoporlo al Suo giudizio. In seguito ne parlai e lo feci leggere a Vittorini, il
quale se ne interessò molto per la prossima rivista; ma sempre lo avvisai che avrei accettato l’offerta di
Bompiani per la pubblicazione in volume. […] Sento l’opportunità di averla voluta preavvisare. Per evitare
che Lei, ricevendo la notizia della pubblicazione del mio nuovo lavoro presso un altro editore, potesse
sospettare un atto di ingratitudine in ciò che è stata soltanto la conseguenza dell’impossibilità, per la Sua
Casa, di interessarsi tempestivamente al mio terzo libro. Questo sospetto mi sarebbe dispiaciuto moltissimo.
(11 febbraio ’59)
Caro Calvino, per troppe ragioni, formali e di fatto, io mi sono ritenuto sciolto dall’impegno in
Einaudi, tacitamente; e mi sono ormai impegnato con Bompiani. […] Ti prego in amicizia, di voler
comprendere e rispettare l’impegno che ho preso con Bompiani. […] Tu hai seguito tutto il calvario di Tempi
stretti. Tu sai, in coscienza, che se mi sono rivolto a un altro editore, è perché la Einaudi (non potendo e non
volendo fare altro) mi ha sempre tenuto ai margini della Sua attività, così ai margini che mi sono considerato
fuori; che mi sono trovato, obbiettivamente, fuori. Ti saluto cordialmente. (12 febbraio ’59)
Caro Ottieri, mi dispiace quello che scrivi. È molto doloroso per noi dopo aver pubblicato i tuoi
primi libri dover rinunciare alle cose tue più mature. Particolarmente doloroso per me, che mi vanto d’averti
tenuto a battesimo. Per quel tuo libro avevo un vero interesse, e non credo che l’attesa di un mese possa
essere considerata un segno di disinteresse. Einaudi spera che tu non abbia ancora firmato il contratto con
Bompiani e possiamo ancora avere il tuo libro. (13 febbraio ’59)
Caro Dottor Einaudi, mi sono trovato quindi, editorialmente, libero e ho dovuto sollecitare
l’attenzione di un altro editore, che me l’ha data. (15 febbraio ’59)
Caro Calvino, io non ho mai dimenticato, e – che mai dimentico adesso – che il mio primo libro lo
devo in un certo senso a te: che devo a te l’accettazione di slancio del secondo. […] Ma sullo sfondo di
difficoltà obiettive della Einaudi – che so felicemente superate e sono lietissimo – si è determinato un
particolare disinteresse nei miei confronti. […] Proprio in voi ho sentito man mano le maggiori riserve
crescere sui miei interessi social-letterari. (16 febbraio ’59)
Caro Ottieri, l’accordo che Lei ha sottoscritto con Bompiani contrasta con l’articolo 13 del contratto
firmato per Tempi stretti. Tale articolo prevede un’opzione di due mesi sulle Sue due prossime opere,
opzione che, nel caso di questo libro, Lei non ci ha dato la possibilità di esercitare, avendo ritirato il
manoscritto dopo poco più di un mese che esso era nelle nostre mani. Stabilito questo punto, ne discende in
ogni caso che Lei è tenuto a sottoporci in esame un altro Suo libro oltre quello in discussione. (Lettera – per
raccomandata – di Einaudi a Ottieri, 16 febbraio ’59)
Caro Dottor Einaudi, ricevo la raccomandata del 16 febbraio. Quanto all’articolo 13 del contratto per
Tempi stretti, dovetti ritirare il mio nuovo manoscritto perché dopo più di un mese esso non era stato ancora
46
preso in considerazione dalla Sua Casa e perché mi fu detto che per un periodo indeterminato non ci sarebbe
stato il tempo di leggerlo, tanto meno quindi di deciderne l’idoneità alla pubblicazione o la pubblicazione
stessa. […] Per quanto riguarda lo spirito in cui avvenne la pubblicazione di Tempi stretti, mi è penoso
ricordarle: gli infiniti rinvii della stessa, nonostante si riconoscesse che il libro aveva una sua stagione e una
necessità di uscire subito; il fatto che Calvino mi abbia dovuto, a un certo momento, avvertire di cercarmi un
altro editore, nella primavera del 1957 (il libro fu poi ripescato dalla Sua casa con vicende che comunque
non mi tranquillizzavano sull’interessamento della Sua Casa verso l’opera e verso me); il rifiuto assoluto di
considerare il passaggio di Tempi stretti dalla collana I Gettoni alla collana I Coralli, come ritenevo di poter
chiedere dato l’esaurirsi della prima, e come poi diversi recensori ritennero che sarebbe stata opportuna; la
redazione di un risvolto così insufficiente e dannoso che in un primo momento alcuni Suoi collaboratori
decisero lo si dovesse mutare, decisione da Lei contrastata, e che io fui costretto a subire; l’essere stato il
libro stampato con la data del 30 giugno per l’invio del premio Viareggio, anche senza distribuzione alle
librerie; cosa che non fu fatta, con la conseguente impossibilità di una eventuale presentazione al premio
Viareggio successivo. Per tutti questi motivi che si riferiscono esattamente alla validità del contratto e che
inoltre riguardano l’intiero atteggiamento della Casa Editrice Einaudi nei miei confronti, sono dolorosamente
stupito di vedere come si invochi proprio oggi un impegno contrattuale, dopo che mi si era ampiamente
dichiarato e dimostrato di non volerne tenere conto, e che perciò è decaduto. (Lettera – per raccomandata –
di Ottieri a Einaudi, 17 febbraio ’59)
Caro Ottieri, sul piano personale permetta che Le esprima la mia gratitudine per avermi messo a
conoscenza dei precedenti, che ignoravo, del suo secondo manoscritto. Ma pure la mia sorpresa nel non
tenere in minimo conto la mia richiesta verbale di attendere una settimana al fine di farLe delle concrete
proposte, nel Suo interesse, il che implicava una Sua attesa di pochi giorni prima di perfezionare un
contratto, oggi non valido, con Bompiani. Adesso mi toccherà rispondere alla Sua raccomandata. Compito di
cui vorrei ancora essere esonerato. Ché, tutte le buone ragioni che Lei elenca non Le consentivano di
concludere un accordo con un altro editore senza prima esplicitamente ottenere il nostro consenso, o senza
prima ottenere la scissione del contratto. (18 febbraio ’59)
Caro Dottor Einaudi, le sono grato della Sua ultima lettera del 18, poiché non avrei mai pensato, mi
creda, di dover slittare sul piano delle raccomandate o peggio. Il mio desiderio di comunicarLe
personalmente di aver collocato il mio manoscritto presso un altro editore era il desiderio di confermarLe la
mia riconoscenza per essere stato Lei il mio primo editore, anche se poi le esigenze della Sua Casa avevano
indotto i Suoi collaboratori a orientarmi altrove. La Sua raccomandata del 16 (che davvero non mi attendevo,
dopo l’incontro di definitivo chiarimento con il Dottor Foa a Milano) mi ha costretto alla replica del 17. […]
Non potendo nutrire alcuna illusione di essere un autore gradito alla Sua Casa, ho dato l’assicurazione su
esplicita richiesta e in perfetta buona fede, che il manoscritto era libero da ogni precedente impegno
editoriale. Ora che ho firmato il contratto con Bompiani – ma comunque l’impegno morale con lui data da
assai più tempo – mi trovo fra due fuochi: e non mi posso rimproverare che la discrezione avuta nel vietarmi
di formare in qualsiasi modo una Sua decisione a me favorevole. (20 febbraio ’59)
Ottieri pubblicherà Donnarumma all’assalto con Bompiani, contravvenendo all’articolo 13
del contratto firmato per Tempi stretti con Einaudi, ma una sorta di compromesso fu trovato dalle
due case editrici per non incorrere nelle vie legali: lo scrittore pubblicherà nel ’60 I venditori di
Milano, l’opera successiva a Donnarumma, con Einaudi salvando in parte l’articolo chiamato in
causa nelle lettere. Con Einaudi Ottieri pubblicherà ancora negli anni Ottanta il romanzo I due
amori (1983) e i poemetti di Vi amo (1988). Con Giulio Einaudi, anche dopo i problemi di
pubblicazione di Donnarumma, Ottieri riuscì a mantenere un buon rapporto e nel ’63, quando nella
casa editrice si pensava di ristampare Tempi stretti, Ottieri scrive: «Caro Einaudi, […] credo che
Tempi stretti andrebbe riscritto tutto… Per cui è meglio non cambiare nemmeno una riga» (29
gennaio). L’ultima lettera presente nell’epistolario porta la data del 19 ottobre ’92 nella quale
47
Ottieri spiega le ragioni dell’invio di un «malloppo» di carte sulle quali voleva conoscere il giudizio
del «Caro Giulio». E anche con Calvino la reciproca stima non risente del divorzio dalla casa
editrice; anzi Calvino, il primo a credere nelle qualità narrative di Ottieri, sicuro che la sua maturità
artistica avrebbe prodotto opere di grande valore, si rammaricava spesso per quell’abbandono:
«Caro Ottieri, ho cominciato Donnarumma all’assalto con grande interesse, te ne scriverò appena
l’avrò finito. Sento del grande successo e – pur mordendomi le pugna – ne godo» (28 luglio ’59).
«Caro Ottieri, ho visto con grande piacere che la tua commedia [I venditori di Milano] sarà
rappresentata a Roma. Contiamo di pubblicarla al più presto nella collana di teatro. Mandami subito
il testo definitivo» (21 ottobre ’59).
Appena uscito nelle librerie Donnarumma all’assalto ricevette un riscontro positivo sia dal
pubblico che dalla critica divenendo nel tempo un classico della letteratura italiana ma
imprigionando Ottieri nell’etichetta di scrittore industriale per eccellenza. Il protagonista alter ego
di Ottieri nel romanzo è un Dottore che da una fabbrica del nord si trasferisce a Pozzuoli-Santa
Maria per svolgere mansioni di Selezionatore del personale:
Sono nato nel centro d’Italia e la giovinezza l’ho tutta trascorsa in paese di sole, diventando
meridionale. Ma l’industria l’ho conosciuta nel nord e la caratteristica di essa rimane sempre quella d’essere
grigia, se è un’industria vera. Le officine le ho sempre viste nere e senza spazio, come se la loro forza fosse
proprio questa. (DON, p. 24)
Egli deve dunque selezionare, grazie agli strumenti forniti dalla moderna psicotecnica, un
centinaio di operai a fronte di quarantamila domande: «Qui giudichiamo un popolo intero. […] Non
si seleziona, si screma. […] È più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che
uno di Santa Maria attraverso l’esame psicotecnico» (DON, p. 20). La scientificità della
psicotecnica all’inizio lascia stupefatto il selezionatore stesso, il quale vorrebbe parlare almeno per
qualche minuto con tutti i candidati al fine salvaguardare l’aspetto umano che si cela dietro un
rifiuto di assunzione.
Visito il laboratorio psicotecnico fra uno stabilimento meccanico e uno tipografico. Ci trovo più
problemi medici che problemi umani. […] Mira della psicotecnica è quella di scomporre gli uomini e
misurarli. […] La psicotecnica può servire come mezzo ed è l’unica scienza dell’anima dell’uomo e, come
scienza, si rinnega in continuazione, fluttua nel mare dei particolari e delle variabili. (LG, pp. 82, 196)
Ma gli ingranaggi dell’azienda non permettono inutili perdite di tempo, e dopo un primo
smarrimento il Dottore venuto dal nord si adegua alle esigenze del mestiere.
I colloqui e gli esami psicotecnici alzano una rete protettiva, un vaglio tra noi e loro, tra la fabbrica e
il paese; sono anche la nostra difesa dalla disoccupazione. […] Il selezionatore calma il suo rimorso per il
48
giudizio dell’uomo sull’uomo con questa fiducia di poter sbagliare nella contrattazione psicologica sempre
meno; e con la coscienza che la selezione sia necessaria. Seleziona, perché assume. […] Le batterie si
rinnovano e perfezionano continuamente, secondo metodologie sempre più aggiornate. Dietro ogni test – che
sembra un giochetto – c’è un lavoro scientifico di dieci anni. (DON, pp. 37, 38, 187)
Il mestiere di selezionatore si rivela molto particolare per alcune ragioni: in primo luogo si
tratta di scegliere solo poche decine di operai che entreranno in fabbrica fra alcune migliaia di
disoccupati attraverso metodi moderni e raffinati quali, oltre alle classiche interviste e colloqui, gli
esami psicotecnici accompagnati da prove manuali che attestano la predisposizione a lavorare con i
pirolini della O’Connor, le rotelle del Moede, il pantografo, il numerico, e tanti astrusi giochetti che
imbrogliano le mani grosse e pesanti dei manovali e degli analfabeti.
A un selezionatore il problema sociale appare subito complicato dalla mediocrità di molti candidati.
[…] La realtà del lavoro, della scelta – sempre produttivistica, privatistica – spinge il selezionatore, quasi
sempre di provenienza socialistica, a divenire un aristocratico, e quindi in certo senso lo capovolge e lo
tradisce. (LG, p. 187)
Inoltre, nella fabbrica di Santa Maria, un sistema di nuove leggi tecnocratiche si stava
sovrapponendo ad ataviche consuetudini non scritte, evidenziando enormi trasformazioni dei
primitivi mondi della campagna rurale e della sottoccupazione suburbana che mal si conciliavano
con le regole industriali venute dal nord basate sull’efficienza e la produzione in serie. La
contraddizione emersa da questa collisione confermò, in modo inequivocabile, la mancanza di unità
sociale dell’Italia da troppi secoli divisa in molteplici macroregioni per retaggio culturale,
tradizioni, mentalità e industrializzazione: per il sud queste disfunzioni si riassumono nella
«Questione meridionale» che Ottieri non vorrebbe trattare, limitandosi a lavorare nella fabbrica. Ma
durante la stesura del romanzo inevitabilmente tale questione emerge con forza: «Ho fatto una
prima ricognizione laggiù. Non voglio affogare nella questione meridionale, tanto meno nel folklore
che la circonda. Altri lo possono fare meglio. La mia ancora è lo stabilimento, l’industria di origine
settentrionale» (LG, p. 185). Solo nel ’92, circa quarant’anni dopo l’esperienza di Pozzuoli, Ottieri
tratterà il tema sempre attuale in un poemetto dal titolo significativo La questione meridionale dove,
oltre a ricordare alcuni aspetti del periodo trascorso a Pozzuoli, egli osserva con amarezza che tale
questione ha perso il connotato meridionale divenendo negli anni, come lui stesso aveva anticipato,
nazionale.
Qui tutti hanno molto bisogno di lavoro, tutti. L’antico problema dei vostri bellissimi, ma disgraziati
paesi… si trascina da secoli. La fabbrica aiuta, ma non può cancellare di colpo la storia… […]
L’industrializzazione del mezzogiorno come fatto della questione meridionale, cioè della questione loro, li
lascia indifferenti; li insospettisce. […] In questa zona industriale, l’industria vive arroccata, goccia nel mare
49
o nella sabbia di una civiltà di pescatori senza barche e di contadini senza terra. Nessun tessuto lega una
fabbrica all’altra, non c’è proletariato. (DON, pp. 135, 151)
Esemplare fu per questa terra senza proletariato il fenomeno delle cosiddette Cattedrali nel
deserto, cioè insediamenti industriali favoriti da pingui incentivi statali e incapaci, per loro limiti
intrinseci, di suscitare ulteriori iniziative economiche, culturali e sociali: «Il meridionale / non è,
biologicamente, / industriale. / Sarà ottimo, industrioso, / auto-arrangiatore, ma non sa / costruire
fabbriche, anzi, / quelle portate dal Nord / le tritura» (QM, p. 8). Milioni di persone si trasferirono,
tra gli anni Cinquanta e Settanta, dalle regioni del sud nelle grandi città del nord Italia mentre si
evidenziava in modo più esplicito una trasformazione della società meridionale, vittima non solo
della secolare miseria quanto piuttosto dei cambiamenti dovuti allo scriteriato sviluppo industriale
del paese. Ottieri riflette sul valore storico della «Questione meridionale», dovuta a secoli di
latifondo e amministrazioni medievali delle terre che hanno depresso le regioni del sud con
disastrose conseguenze sociali. Come ebbe modo di rilevare in una lettera inviata a Rigo Innocenti,
Ottieri rigetta la responsabilità sulle carenze dello Stato tentando di salvaguardare l’umanità offesa
di un intero popolo mediante un’immersione totale nei luoghi del vissuto quotidiano, dal paese alla
fabbrica. La sua buona predisposizione nei riguardi del sud lo condanna a mostrarsi indulgente, a
suo modo, nella narrazione: riproducendo in modo oggettivo la realtà dei fatti, Ottieri assolve gli
analfabeti, i disoccupati, i violenti, i traffichini, i vari Donnarumma che osserva tutti i giorni poiché
in loro, sommando tutti gli elementi storico-sociali, non c’è alcuna colpa.
Torre ha sessantamila abitanti, il paesetto di Santa Maria quarantamila; in questa fascia costiera la
popolazione è densa come nelle più dense province cinesi. Una simile zona dovrebbe essere tutta industriale
per vivere, anche se gode la fama meno industriale del mondo. […] Proprio a essi, i disordinati, i liberi, gli
istintivi per eccellenza, occorre una civiltà industriale, e potenzialmente l’hanno già creata. Senza volerlo,
l’hanno creata, riproducendosi, come se la grande industrializzazione di Stato stesse per arrivare, come se
l’ardimentoso capitale privato del nord smaniasse in cerca di nuovi serbatoi umani, come se l’emigrazione si
spalancasse ormai per invadere i continenti. Ora qui si spreca una mano d’opera senza opera, una
popolazione industriale senza industria. Questo è il dramma dei dintorni e della città, ricca di regge e povera
in ogni suo buco, antica capitale depressa, nel dramma del mezzogiorno. (DON, pp. 164-165)
I vari «come se» con cui Ottieri dissemina questo passo del romanzo condannano senza
appello uno Stato inefficiente che durante il miracolo economico ha utilizzato la forza lavoro delle
popolazioni meridionali per sviluppare l’unica industrializzazione realizzabile, quella del nord,
abbandonando al proprio destino milioni di cittadini considerati scientemente di serie B, «come se»
il Regno delle due Sicilie esistesse ancora: «Il Sud e il Nord si fanno / razzialmente la forca. In /
mezzo, lo Stato è, per / definizione, un incapace» (QM, p. 8). E nel dramma della «Questione
meridionale» la disoccupazione e l’analfabetismo appaiono per Ottieri due aspetti determinanti in
cui egli evidenzia «una abitudine fissa, antica, di cercare lavoro più che di lavorare e […] una
50
abitudine alla disoccupazione così profonda che ha generato i suoi vizi e le sue difese naturali»
(DON, p. 36). Anche in questo caso il valore dei termini utilizzati assumono un’importanza
significativa: l’abitudine cui si fa riferimento è antropologica ma le origini vanno ricercate nella
storia e nella politica. Oltre la colpa, si dovrebbe comprendere quale tipo di scelta in generale è
stata concessa all’uomo del sud.
La disoccupazione non unisce, ma sempre divide, tranne quando esplode. […] La disoccupazione
cronica muta davvero la prospettiva della condizione alienata. L’alienazione vera, storica, qui a Santa Maria
è la disoccupazione, la quale precede ogni problema industriale, pur essendo contemporanea di una civiltà
industriale. (DON, pp. 151, 173)
Per quanto concerne l’analfabetismo, anche in questo caso Ottieri analizza il problema da
una prospettiva generale ponendo sullo stesso piano il paesano che non sa scrivere all’industriale
che non può insegnargli nulla. L’analisi sociale diventa, nel romanzo, spietata oltre che aperta a
ogni confronto storico-politico: «Gli analfabeti non sanno che la loro umiliazione è anche la nostra.
Con tutta la nostra scienza e organizzazione aziendale, a loro quando brandiscono il lapis non
abbiamo da insegnare o dare nulla. Il privilegio dello stabilimento va a pezzi contro di loro, contro
la lontananza dello Stato, di cui siamo correi» (DON, p. 41). L’essere coimputati a tale scempio
sociale comporta una conseguenza inevitabile e disastrosa, ovvero l’attestazione che un intero
popolo è da considerarsi disoccupato e analfabeta, senza distinzioni geografiche o di lingua. In
questo processo in cui l’imputato è lo Stato italiano, che Ottieri rappresenta dall’incoscienza del
fascismo alla «merda antropologica» (PO, p. 97) di fine secolo, non ci saranno proscioglimenti
miracolosi perché almeno in letteratura non esistono prescrizioni. I cinquant’anni di storia d’Italia
che Ottieri vuole sviscerare da molteplici punti di vista, dall’industria alla società, dalla politica
all’alienazione, non si racchiudono soltanto nella seconda metà del Novecento giacché le sue
riflessioni partono da una più ampia prospettiva storica: «Parve che la maggiore / preoccupazione,
necessaria / perché biologica, dell’Italia / fosse la Questione Meridionale. / Non vi erano primati
regionali o condanne. / Ma se non si risolveva la / Questione Meridionale, la / Questione
Meridionale / sarebbe diventata una / questione totale. / Oggi è totale» (QM, p. 5). Sulla «Questione
meridionale» trattata da Ottieri in Donnarumma, dall’epistolario emergono due interventi
significativi diametralmente opposti che evidenziano la complessa natura di un romanzo che
metteva in primo piano problemi atavici di un Paese non ancora maturo. In una lettera inviata alla
moglie di Ottieri, Silvana Mauri, il critico letterario Giancarlo Ferretti, che ha affrontato spesso nei
suoi saggi i problemi del rapporto fra scrittore e società, dell’industria culturale e del mercato
editoriale, afferma di essere deluso da Donnarumma:
51
In sostanza, francamente, mi ha un po’ deluso rispetto al primo, che continuo a ritenere uno dei più
interessanti e vivi usciti in questi anni. Deluso non tanto perché si tratta di un saggio-diario in chiave
ideologico-sentimentale, quanto piuttosto per la linea ideale su cui Ottieri si muove, esasperando quella
sfiducia, amarezza e crisi individuale che già avvertiva in Tempi stretti. Un tale atteggiamento, mi pare, lo
porta qui a darci un quadro assai parziale e limitato della Questione meridionale, accentuando d’altra parte
quello stato di struggente tristezza. […] Ottieri è scrittore assai vivo e anche assai giovane; io lo ammiro
molto, dopo Tempi stretti, per la tenacia con cui egli persegue la sua ricerca all’interno del mondo
industriale. (7 luglio ’59)
Al contrario Carlo Bernari, l’autore di Tre operai, che accompagnava la propria firma con
l’indicazione «Noto scrittore napoletano», ringrazia Ottieri per aver esposto in forma romanzata il
dramma della disoccupazione al sud, sperando che interventi del genere possano destare
l’attenzione su condizioni di vita al limite della sopportazione, e interpretate bene solo da coloro che
le vivono quotidianamente.
Caro Ottieri, volevo scriverti da tempo il mio compiacimento per il tuo ultimo Donnarumma
all’assalto; e volevo scrivertelo da napoletano, cioè a dire nella veste di chi è abbastanza consapevole dei
problemi da te trattati e in buona parte risolti. Sono lieto di stringerti la mano e di congratularmi per il tuo bel
libro che d’ora in avanti bisognerà tener presente in biblioteca ogni volta che ci muoveremo in quella
direzione. (23 settembre ’59)
Attraverso il lavoro industriale impiantato al sud, dunque, Ottieri analizza dal profondo un
aspetto disastroso della moderna società italiana prendendolo tuttavia come paradigma di una
condizione più generale attraverso l’asprezza del contrasto tra il progresso tecnico, secondo criteri
rigorosi tipicamente settentrionali, e l’arretratezza culturale della civiltà contadina meridionale sullo
sfondo di una popolazione fittissima, disoccupata, tragica e pittoresca. Eppure la fabbrica in
questione, la Olivetti di Pozzuoli, appariva come un esempio positivo e equilibrato tra la
produttività e il rispetto del paesaggio e dell’operaio; un’oasi filantropica nel deserto dove si
costruiscono calcolatrici: «Del resto in questa azienda più democratica delle altre, le nostre
mansioni psicologiche, umanitarie ci tengono vicino alle inquietudini degli operai» (DON, p. 156).
Pur nell’attenzione agli aspetti umani dell’attività in fabbrica e nel rispetto dell’operaio inteso non
soltanto nella sua funzione aziendale, anche nell’umanissima Pozzuoli emergono sia il lavoro in
serie che il macchinismo industriale, vale a dire il lavoro monotono e ripetuto delle macchine cui si
lega indissolubilmente il destino dell’operaio anch’egli scomposto e frammentato come l’oggetto da
produrre. L’organizzazione scientifica, le fasi dell’accanito automatismo e la polverizzazione del
lavoro conducono «allo svuotamento del pensiero e alla malsana fantasticheria» (DON, p. 171), o in
altre parole all’alienazione industriale.
Il tema cupo e catastrofico dell’alienazione marxista risuona nel fondo di tutte queste interpretazioni.
Causata dal non possesso degli strumenti produttivi o dalla sola organizzazione scientifica e dalla
52
suddivisione del lavoro, insomma dovuta al capitalismo o problema anche di una società socialista,
l’alienazione è il cancello di ferro che trattiene chi lavora, lo isola in una responsabilità così frazionata e
lontana dagli ultimi scopi, da violare l’istinto, la volontà, l’intelligenza. (DON, p. 173)
E come in Tempi stretti, anche in questo nuovo capitolo della realtà industriale, i tempi sono
automatizzati nelle diverse fasi della produzione, e al ritmo di essi si plasma la vita dell’operaio tra
proteste per le riduzioni degli intervalli della lavorazione e la prospettiva dell’aumento del tempo
libero che Ottieri, a metà degli anni Sessanta, svilupperà nel jet set dei Divini mondani in un mondo
del tutto opposto alla fabbrica.
A nome dei compagni Di Meo si è lamentato che i tempi sono stretti, che aveva provato lui e ce la
faceva a stento. […] Dall’affare delle multe siamo saliti ai passaggi di categoria e alle questioni dei tempi,
che è ancora il cuore dei problemi di fabbrica. […] La sociologia si occupa del «tempo libero» e lo studia per
pianificarlo, cioè per non renderlo più libero. (DON, pp. 51, 66, 172)
Altri elementi significativi che emergono dalle pagine di Donnarumma entrano negli
ingranaggi del lavoro industriale, nelle viscere della fabbrica, e riguardano, oltre alla questione
meridionale di uno stabilimento aperto nel sud Italia, la condizione operaia con le proprie
peculiarità quali il lavoro alienante, i tentativi di suicidio, gli incidenti occorsi, gli scioperi,
l’aziendalismo. L’alienazione ideologica, che si esprime con il non possesso degli strumenti
produttivi, è osservata nel lavoro corporeo degli operai ridotti a macchine che svolgono funzioni
proprie dei futuri robot. Le immagini proposte da Ottieri, da lui osservate di persona per alcuni anni
durante l’incarico svolto all’interno della fabbrica, ripropongono frammenti dei film Metropolis e
Tempi Moderni che, anche se da prospettive differenti ed estremizzando in modo inverosimile le
scene, hanno offerto uno spaccato inquietante del drammatico stato in cui erano costretti a lavorare
gli operai.
Proseguono a battere su chilometri di carta, fino all’esaurimento nervoso. Azionando avanti e
indietro la leva delle due macchine con le due braccia, dalla mattina fino alla notte, come rematrici, si
interrompono solo per premere i numeri della tastiera. Premono a memoria, con la punta delle sveltissime
dita, e quindi tirano la leva. Premono e tirano. (DON, p. 155)
E anche per i tentativi di suicidio i toni non sembrano variare dall’impassibile constatazione
dei fatti. Chi tenta il suicidio nel romanzo non è tuttavia l’operaio che lavora all’interno della
fabbrica, ma coloro che da essa vengono quotidianamente rifiutati, stazionando dinanzi l’entrata
principale per strappare un colloquio volante con il Dottore alla ricerca di una miracolosa
assunzione. Col passare del tempo, e dopo ripetuti rifiuti, si forma una piccola banda all’esterno
dell’edificio capeggiata da Donnarumma Antonio, cui prendono parte i vari Dattilo, Accettura
53
Vincenzo, Giglio Giovanni, i quali tentano a turno di farsi investire dai dirigenti della fabbrica per
dimostrare in modo drammatico la loro disperazione.
Dal gruppo dei postulanti che ogni mattina sta fisso in portineria, oggi verso le due, quando tutti
eravamo a mangiare, uno si è gettato sotto l’automobile del direttore. […] Uno dei manovali dell’impresa
che ha costruito lo stabilimento, e che non sono stati assunti nello stabilimento alla fine dei lavori, si era
gettato alle dieci contro l’automobile del direttore. Mezz’ora prima. Per questo i cancelli erano così sgombri.
Questi incidenti ripuliscono provvisoriamente la portineria. (DON, pp. 66, 118)
Nonostante il periodo positivo trascorso a Pozzuoli, e dopo soli nove mesi dell’assunzione,
Ottieri decise di rassegnare le dimissioni nel novembre del ’55, e si trattò per lui di una scelta molto
difficile: «Non si poteva vivere a Santa Maria per sempre?» (DON, p. 253). Adriano Olivetti gli
offrì di restare a Pozzuoli promuovendolo a direttore del personale della fabbrica, ma per essere uno
scrittore a tempo pieno Ottieri sentiva il bisogno di un lavoro meno stressante e part-time e quindi
decise seppur a malincuore di tornare a Milano.
Egregio Dottore, nell’occasione in cui Lei lascia Pozzuoli mi è grato esprimerLe, quale Direttore
dello Stabilimento, il mio ringraziamento per l’opera da Lei svolta e per la sensibilità e intelligenza posta
nella esplicazione del Suo lavoro. Le assicuro che sono molto spiacente che per ragioni indipendenti sia dalla
nostra che dalla Sua volontà Ella abbia dovuto cessare di darci la Sua preziosa collaborazione. (Lettera di
Rigo Innocenti, 12 novembre ’55)
A Milano Ottieri spera di ottenere un lavoro che gli lasci più tempo per scrivere e ancora una
volta Adriano Olivetti gli viene incontro offrendogli dapprima la promozione a capo del personale e
poi la nomina a dirigente, ma Ottieri le rifiuta entrambe in quanto le considera privilegio eccessivo
nei confronti di chi lavora a pieno tempo. Si accorderà infine per un contratto di consulenza a metà
tempo per la selezione dei futuri dirigenti commerciali, impiego che Ottieri svolgerà solo per pochi
anni rassegnando le definitive dimissioni a metà degli anni Sessanta per dedicarsi esclusivamente
all’attività di scrittore.
Donnarumma all’assalto è stata l’opera di Ottieri che ha riscontrato maggior successo dalle
copie vendute alle diverse edizioni stampate, tra cui cinque ristampe della Bompiani e due della
Garzanti, dalle numerosi traduzioni in lingue straniere ai tentativi di realizzarne un film, in
particolare per l’interesse del regista Rossellini. Dall’epistolario di Ottieri emergono alcune lettere
di traduttori che chiedono allo scrittore la possibilità di tradurre Donnarumma, e tra questi Herbert
Herlitschka si propone per una versione in lingua tedesca:
Caro Ottieri, quale consigliere letterario di alcuni editori tedeschi mi sono interessato del suo libro
Donnarumma all’assalto, e con l’ufficio estero della casa editrice Bompiani ho concordato che tenterò di
54
collocare questa sua opera presso un editore tedesco. Perché questo libro mi ha molto interessato gradirei
tradurlo io stesso. […] Quale traduttore rinomato posso garantirle una buona traduzione. (1 febbraio ’60)
In seguito si propose anche Petr Dragoev, uno studioso bulgaro di letteratura italiana
traduttore del Principe di Machiavelli, dei Promessi sposi, del Gattopardo e altre opere. In una
lettera del 20 settembre ’62 Dragoev chiede a Ottieri la spedizione del libro via posta all’indirizzo
Via Aleso Constantinov, 9 Sofia (V), anche con qualche domanda alquanto particolare, sperando di
bissare il successo della collega Descalova che aveva tradotto in bulgaro Tempi stretti.
Egregio Dottore, io m’interesso specialmente del Suo libro Donnarumma all’assalto, ma
naturalmente vorrei leggere tutte le Sue opere. La prego pure di spedirmi qualche notizia biografica. Da noi,
quando si fa proposta per la traduzione di qualche libro, è necessario di presentarlo con qualche parola.
Naturalmente, la prima condizione è d’essere un autore progressista. Lei è membro del Partito Comunista o
no? (20 settembre ’62)
Tuttavia i tentativi di Herlitschka e di Dragoev non avranno buon esito e, a causa di alcuni
impedimenti burocratici, gli abbozzi delle due traduzioni resteranno nei cassetti degli studiosi. Ma
l’interesse per Donnarumma non scemava e dalla Spagna si propose, per le Ediciones Horizonte di
Madrid, Jesús López Pacheco che confidò a Ottieri alcuni problemi di censura dovuti all’ottusità del
Regime franchista.
He escrito hace unos días a su eitor de Donnarumma all’assalto comunicandole la noticia de que ha
sido autorizao por la censura española, con un lamentable corte. […] Respecto al lamentabilísimo corte que
la censura española ha tenido a bien hacer en el texto (desde la pagina 206 hasta la 211, donde termina el
passaje entre lo sicotecnico y el obrero Attanasio) no desespero aún de salvarlo. Una vez traucido el libro
peiremos una revisíon a la censura y posiblemente logremos hacer que pase el fragmento limando levemente
ciertas expreciones. (28 dicembre ’62)
In una lettera successiva Pacheco rivela a Ottieri di aver terminato la traduzione del libro che
ormai è pronto per le stampe e uscirà effettivamente pochi mesi dopo, ma prima di quest’ultimo
passaggio gli chiede il significato di alcune espressioni particolari del testo e incomprensibili in
spagnolo quali «saltafosso», «imbuto», «sfregare due dita», «scorticato», «celerini», «cantieriscuole del Ministro Romita» e altre. Oltre a ciò Pacheco vorrebbe informazioni sul film
Donnarumma che Rossellini aveva intenzione di girare, e in ultimo propone a Ottieri il
cambiamento del titolo del romanzo per la versione spagnola.
Siccome Donnarumma è un cognome italiano meridionale che dice poco o niente al lettore spagnolo
essendo allo stesso tempo per lui di una difficile pronuncia, si ha pensato in un nuovo titolo per il romanzo.
Davvero non mi piace farlo, ma ci sono ragioni commerciali a imporcelo. Ho proposto agli editori El ojo de
la aguja, cioè «La cruna dell’ago» in italiano. Capisco che non è granché, ma comunque ha il vantaggio di
55
suonare molto a tutti i lettori che hanno letto o sentito della Bibbia, e la Spagna è un paese molto cattolico.
(13 marzo ’63)
Le altre traduzioni di Donnarumma all’assalto sono in lingua inglese con il titolo The men
at the gate, tradotto da I. M. Rawson e pubblicato nel ’62 per la Houghton Mifflin Company di
Boston e per le edizioni Victor Gollancz di Londra, il cui risvolto di copertina proponeva: «This
book is destinate to stand among the great classics of the literature on Southern Italy, half-way
between the writings of Fortunato and Christ stopped at Eboli by Carlo Levi». La versione francese
Les grilles du paradis, traduzione di Hélène Pasquier, Editions Stock di Parigi, esce nel ’63; dello
stesso anno è l’edizione polacca Donnarumma atakuje grazie alla traduzione di Stanislaw
Wawrzkowicz per il Panstwowy Institut Wydawniczy di Warszawa; mentre quella slovacca con
titolo Dennik Psychologa sarà pubblicata nell’80 per le edizioni Tartan di Bratislava.
Per una traduzione cinematografica di Donnarumma s’interessarono diversi registi dalla fine
degli anni Cinquanta fino agli anni Settanta quando, dopo numerosi tentativi infruttuosi, si realizzò
nel ’72 l’unico film tratto dal romanzo17. Il primo di molti registi a bussare alla porta di Ottieri fu
Benedetto Benedetti che gli chiese, in una lettera del 25 luglio ’59, il prezzo dei diritti per girare
Donnarumma: «Spero che nulla osti da parte sua se li ha già ceduti. Se non li avesse ceduti, è a lei
che mi rivolgo». In seguito si propone anche Roberto Rossellini:
Caro Ottieri, voglio dirle quanto amo il suo libro e spero di riuscire a realizzare il film. Non le
nascondo che ci sono delle difficoltà ma io spero di superarle. È indispensabile ambientare il film a Pozzuoli
e se gli Olivetti decidono di aiutarci sarà più facile realizzare questo progetto. Comunque io voglio farlo, con
l’aiuto degli Olivetti o senza. Mi auguro d’incontrarci presto. (15 settembre ’60)
Con Ugo Pirro emerge un importante scambio epistolare dal ’61 al ’63 attraverso il quale è
possibile comprendere le numerose traversie che impedirono a Donnarumma di svilupparsi come
film sotto la regia non solo di Rossellini ma anche di Comencini: il problema determinante fu il
fallimento della Maxima Film, la società che aveva acquisito i diritti del romanzo.
Caro Ottieri, non ho cessato d’interessarmi del tuo libro. Sto facendo quanto mi è possibile. Ho
interessato anche altre persone, inoltre in questi giorni si è rifatto vivo anche Rossellini. (25 aprile ’61)
Sono ormai due anni che corro dietro al tuo Donnarumma. […] I produttori temono le novità, essi
sono quasi sempre degli autentici succhiatori di ruote altrui. Di preciso posso dirti questo: con Rossellini
siamo ormai certi di poter concludere le trattative. […] La mia speranza è che il film si faccia in primavera.
(27 novembre ’61)
Caro Ottieri, finalmente il film Donnarumma sembra varato! La Maxima film ha acquistato da
Rossellini e da me i diritti del libro e abbiamo fatto già il passaggio di proprietà dal notaio. Così pure
Comencini ha firmato il contratto per la regia e io quella per la sceneggiatura. […] Così dopo tre anni di
17
Dopo molto tergiversare, Donnarumma all’assalto soltanto nel ’72 sarà tradotto su pellicola dal regista
Marco Leto attraverso le interpretazioni di Gianni Garko, Milena Vukotic e Stefano Satta Flores.
56
insistenze, di arrabbiature, di lotte, di complicazioni di ogni genere, sono riuscito a varare questo film a cui
tanto ho sempre tenuto. (16 ottobre ’62)
La società (la Maxima film) proprietaria dei diritti è sull’orlo del fallimento. Il film viene comprato
da un giovane cineasta Guida. Mi dispiace che Donnarumma non abbia ancora incontrato la sua suerte. Ma
forse, ora che io non c’entro più, cambierà anche la suerte, sia del libro che mia. (1 giugno ’63)
E proprio in quei mesi Ernesto Guida, il giovane regista romano cui fa riferimento Pirro,
colpito dall’importante messaggio sociale che l’opera racchiude, contatta Ottieri per trasformare il
romanzo in film: «Dottor Ottieri, ho letto il Donnarumma, e poi l’ho riletto. È così importante il
problema che Lei pone, e soprattutto i napoletani sono spiegati in ciò che sentono e con tale
chiarezza che mi sembra un peccato non darsi da fare come dannati per tradurlo in film. Vorrei
battermi per realizzare Donnarumma». (5 aprile ’63)
Ma non solo registi italiani pensarono a Donnarumma come un film; il cineasta americano
Ethel Tyne di passaggio a Roma, dopo esser venuto a conoscenza del fallimento della Maxima
Film, prende contatti con Ottieri per sapere lo status del romanzo e la possibilità di acquisizione dei
diritti per girarne un film: «Dear Mr. Ottieri, we are back in Rome now, and have heard that
Maxima Film is out of business. Again, I would like to know what the status is of your book…
whether it now reverts to you, or whether someone else still has the rights». (Luglio ’63)
I.4 I venditori di Milano
I venditori di Milano18 è l’unica opera ufficialmente drammaturgia di Ottieri sebbene la
visione teatrale sia confluita spesso in altre opere come L’infermiera di Pisa, La psicoterapeuta
bellissima, Le guardie del corpo, Il poema osceno, Una tragedia milanese, dove le entrate in scena
dei personaggi, le battute, i dialoghi e le scenografie sono pensate teatralmente, mentre le parti
corali soprattutto nei poemetti s’intersecano a quell’ossessiva voce monologante tipica della sua
poesia. Ottieri in questa commedia mette in scena un altro aspetto del mondo industriale dopo
averne sviscerato gli ingranaggi nei testi precedenti. Nei Venditori di Milano l’attenzione è
incentrata sui dirigenti osservati da un piano orizzontale e non più dal basso come accadeva in
Tempi stretti o in Donnarumma. Anche in questo caso Ottieri trasferisce sulla pagina alcuni aspetti
autobiografici della propria esistenza, poiché egli lavorò per alcuni anni nei piani alti della Olivetti
18
La commedia, dedicata a Elio Vittorini, fu rappresentata per la prima volta al teatro Gerolamo di Milano il
21 marzo del ’60 con la regia di Vittorio Puecher.
57
scorgendovi quotidianamente delle storture nell’ambito, in particolare, delle vendite e della
pubblicità.
La commedia pensata da Ottieri si confronta in modo diretto con il pubblico garantendo la
solennità della rappresentazione: la cronaca dei fatti non si distanzia dalla realtà osservata con i
propri occhi, anche se questa si snoda sul palcoscenico con l’arma dell’ironia che scivola
immancabilmente sui personaggi rendendoli ridicoli. Il protagonista della commedia Lucio Davoli
nella piramide dell’azienda è secondo solo al grande capo ovvero l’amministratore delegato,
ricoprendo un ruolo di prestigio quale capo dell’ufficio vendite. Egli tra l’assillo del commercio e i
dati mensili che sanciscono il successo o meno del lavoro, instaura con la signorina Ferrario,
segretaria dell’A.D., una relazione segreta ma non troppo che desta il consueto scandalo negli uffici
dell’azienda. L’evento piccante dei baci rubati durante le ore di lavoro si può considerare quasi un
topos della letteratura industriale di Ottieri, il quale ricorda spesso, come in Tempi stretti e nella
Linea gotica, tale situazione ai limiti della decenza che infervora le fantasie e le indiscrezioni di
alcuni impiegati.
Ferrario, c’è una denuncia contro di lei. Guardi, le dico subito, in questi casi io non so se siano da
punire i denunciati o i denunciatori. […] Ferrario l’hanno vista nell’antibagno, più volte. […] Con chi non si
sa. […] L’uomo non è stato visto, perché pare fosse nascosto dietro la porta. O è furbo, o il caso lo poneva lì.
Mentre la ragazza appariva, inequivocabilmente. (VM, p. 36)
I delatori occupano un ruolo importante nella fauna di qualsiasi ufficio; le loro occhiute
interpretazioni dei singoli fatti permettono di svelare anche quei segreti che non possono sottrarsi
alla verità in un microcosmo ricolmo di ipocrisie e abiezioni. Con un tono sempre oggettivo e
distaccato, Ottieri mette in scena tutti quei personaggi, tradotti sul palco dalla realtà, che animano la
quotidiana vita industriale: padroni, arrampicatori aziendali, servi, lacché, segretarie nevrotiche e
attraenti, giovani invasati dal lavoro e con la prospettiva della carriera. L’insieme è dominato da un
solo comandamento: vendere, motivo che si ripresenterà anche in Cery nei pensieri di Filippo Ciai,
scrittore alter ego di Ottieri intento a ragionare su un romanzo che ha come protagonisti Gli
imprenditori. Nella commedia, la ditta in questione è attiva nel ramo dei frigoriferi, che negli anni
Sessanta entrano in molte case degli italiani oltrepassando il concetto di bene di consumo, e deve
battere la sempiterna concorrenza a scadenze mensili più che annuali. Il linguaggio pubblicitario,
oltre a caratterizzare le vendite, s’impone anche sulla vita privata degli impiegati che sul ricavo
proiettano il benessere personale; così che il lavoro della giornata si rovescia inevitabilmente sul
tempo libero quasi inesistente sia per il corpo che vegeta all’interno dell’ufficio ben oltre il classico
orario di chiusura, sia sulla mente che non può districarsi dai meccanismi automatici del guadagno,
non solo economico ma esistenziale.
58
Noi arriviamo nel 1965 sul taglio del crinale, per poi scendere, comodi. Nel 1965 almeno un terzo
della concorrenza deve essere cauto. Che fa la concorrenza per tenere il fronte? Una guerra di posizione. Noi
ora attacchiamo gli ultimi tornanti. La nostra è una economia in bicicletta, Davoli, si regge quando cammina.
[…] Mi aumenti il ’59 dell’otto e io le dirò che è un bell’aumento. Se no, l’avverto subito: i costi sono tali
che chiudo in tre mesi. […] Ora abbassi lo sguardo a questo inverno, Davoli. Siamo all’inizio della
primavera. Lei ha due compiti importanti davanti a sé: la campagna natalizia ’58-’59 e la Fiera del ’59. (VM,
pp. 64-65)
Quando nel secondo atto la scena si sposta dall’ufficio alla camera di Lucio Davoli,
ufficiosamente malato di nervi o da stress lavorativo del Ventesimo secolo, l’azienda si trasferisce
intorno al letto del degente. Da qui inizia una normale giornata feriale con il solito tran-tran:
riunioni, discussioni, carrierismo incalzante, rendiconti, subdoli interventi. Il risultato è
agghiacciante: Ottieri riesce a trasportare in una stanza da letto il linguaggio e l’atmosfera
dell’ufficio inglobando in un’unica realtà, quella mercificata del consumo, l’alienazione dell’uomo
moderno inevitabilmente industriale anche quando non vorrebbe esserlo.
Ottieri apprezzava molto il teatro e avrebbe voluto comporre un numero maggiore di opere
drammaturgiche, lo stesso desiderio irrealizzabile verterà anche per le sceneggiature
cinematografiche, e questa sua particolare predisposizione venne ben compresa da alcuni registi
teatrali come Gianfranco De Bosio e Flaminio Bollini che lo invitano, nel cuore degli anni Sessanta,
a proseguire un lavoro drammaturgico solamente accennato; Marcello Aliprandi invece gli chiede la
collaborazione per il programma del Teatro Belli di Roma.
Caro Ottieri, ho letto con viva attenzione e particolare interesse la Sua commedia nella prima stesura
[Amore e affari]. Sono stato sorpreso dall’abilità con la quale Lei usa il dialogo; debbo dirLe che raramente
nella mia esperienza di lettore di commedie italiane mi sono imbattuto in dialoghi così efficienti. Sono
convinto che Lei abbia le qualità e l’istinto per diventare un completo scrittore di teatro. Circa l’opportunità
di rappresentare questa opera, ho qualche dubbio. Le nuoce l’insistenza sul tema fondamentale – rapporti
d’azienda – che ritorna in tre atti vuoi in superficie vuoi in profondità senza assumere varietà di episodi e di
imprevisti tali da giustificare la durata di tre atti. (Gianfranco De Bosio, 14 agosto ’59)
Caro Ottieri, sono curioso di sapere se in questi ultimi mesi Lei ha ripensato al teatro e in quale
modo; se ha ripreso in esame la Sua commedia Affari e sentimenti, oppure se si è accinto a scriverne un’altra.
(Gianfranco De Bosio, 31 dicembre ’59)
Caro Ottieri, ho letto con grave ritardo L’impagliatore di sedie e mi ha molto interessato, soprattutto
(spero di non dispiacerti) le parti aziendali e quelle psichiatriche. […] Perché non scrivi ancora per il teatro?
Io qualche volta, dopo l’edizione radiofonica, penso ancora ai Venditori di Milano che rimane, a mio avviso,
tra le commedie più originali del teatro italiano recente. (Flaminio Bollini, 26 settembre ’65)
Oltre ai Venditori di Milano, l’unica opera teatrale di Ottieri a esser pubblicata e poi
rappresentata, si possono inoltre ricordare alcuni lavori precedenti che non hanno ottenuto la
medesima fortuna, confermando tuttavia l’attenzione posta da Ottieri alla forma teatrale attraverso
59
cui veicolare le proprie visioni. Il regista e sceneggiatore Luciano Lucignani, ad esempio, quando
alla fine degli anni Cinquanta lavora alla RAI dove si dedica al teatro grazie al diploma in regia
ottenuto all’Accademia nazionale d’arte drammatica, chiede a Ottieri l’invio della commedia Se
stesso: «Caro Ottieri, il comune amico Calvino mi segnala una sua commedia, che io molto
volentieri leggerei. Vuole anche la cortesia di farmela avere? […] Calvino mi presenta il suo nome
come se io ignorassi che lei è il fortunato autore di Donnarumma». (30 luglio ’59)
Il critico letterario e dirigente RAI Angelo Guglielmi vorrebbe tradurre, negli anni Sessanta,
alcune opere teatrali di Ottieri in versioni televisive; ma è necessario una nuova riscrittura da parte
dell’autore per rendere più intelligibile una materia densa di significati.
Caro Ottieri, abbiamo letto con vivo interesse le due opere teatrali da lei indicate, L’assemblea
deserta e Se stesso. […] Riteniamo pertanto necessaria una diversa messa a fuoco, e vale a dire una
elaborazione impegnata a rendere esplicito e diretto quanto nei suoi testi teatrali risulta affidato alla
dilatazione e alla densità di un linguaggio scelto e selezionato. (23 ottobre ’62)
60
CAPITOLO SECONDO. LA CLINICA
II.1 L’impagliatore di sedie
Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, Ottieri, avvertendo la fine del
«matrimonio tra letteratura e industria» (IMP, p. 5) che lo aveva occupato durante la stesura della
tetralogia industriale, e dunque con la consapevolezza di aver chiuso un periodo significativo della
propria esistenza, si dimette dall’incarico alla Olivetti, non scrive più opere ambientate in fabbrica
e comprende che è necessario, «riprendendo alcuni fili del mio primo libro Memorie
dell’incoscienza» (IMP, p. 6), analizzare à nouveau aspetti psicologici e sociali a lui congeniali.
Nel ’62 Ottieri viene chiamato a Roma da Tonino Guerra per collaborare alla sceneggiatura
de L’eclisse di Michelangelo Antonioni, film estremo e pessimistico incentrato sulla nevrosi che
corrode esistenze e rapporti interpersonali; esperienza che spinge Ottieri a scrivere una
sceneggiatura romanzata: L’impagliatore di sedie.
Mi è capitato di lavorare con il più interessante regista italiano, uno dei migliori al mondo. Senza sua
colpa, per la necessità obiettiva della struttura, ho provato i morsi della alienazione da sceneggiatura, una
alienazione che non ha nulla da invidiare a quella classica dell’operaio moderno. […] Lo scopo principale di
questa autoprefazione è avvertire che questo libro è una sceneggiatura cinematografica. E che, nello stesso
tempo, non è una sceneggiatura cinematografica. […] Sono stato preso da smanie cinematografiche, dalla
voglia di fare, proprio io, un film. […] Fare il regista? Sì, fare il regista. […] Scrivere una sceneggiatura per
me.(IMP, pp. 9, 10)
Dalla collaborazione alla sceneggiatura dell’Eclisse a Ottieri si richiederanno dalla Francia i
diritti per farne una versione francese ancor prima dell’uscita nelle sale italiane del film. Ottieri
dichiara quanto segue:
Je soussigné Ottiero Ottieri, demeurant à Rome, Via Calabria 56, déclare avoir collaboré au scénario
original intitulé L’éclipse et avoir autorisé la Société Paris Film Production dont le siège social est à Paris, 72
avenue des Champs Elysées, à produire et à exploiter un film tiré de cette œuvre. La présente autorisation est
accordée pour la durée de la protection légale à compter de la sortie du film. Fait à Rome, le 7 août 1961.
In Ottieri le visioni di eclissi e deserti esistenziali saranno presenti in molte opere, in
particolare nel Campo di concentrazione, e derivano come visione cinematografica proprio dalla
conoscenza diretta di Antonioni che aveva tentato di renderle concrete sulla pellicola con la
61
cosiddetta tetralogia dell’esistenza formata da L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962)
e Deserto rosso (1964).
Ha avuto una ben esatta intuizione, Antonioni, nel chiamare L’Eclisse il film i cui veri protagonisti
sono l’irrealtà oggettiva, e non autopercepita, di lui e il sentimento d’irrealtà soggettivo, autopercepito, di lei.
Questi fantasmatici protagonisti impediscono l’amore tra lui e lei, mettono legittimamente e filologicamente
nel film il tema dell’alienazione non da salotto e una sorta di sviluppo in reificazione – cosificazione. (IQ, p.
40)
Il deserto dell’esistenza malata è un’immagine che riassume lo stato di sfinimento dei
personaggi depressi nelle opere di Ottieri, il quale si appoggia al Deserto rosso di Antonioni anche
per la descrizione alienante degli ambienti industriali, e infatti l’alienazione causata
dall’industrializzazione si manifesta soprattutto attraverso il paesaggio deprimente, grigio e fumoso,
sommerso da ciminiere e serbatoi. Il regista per la prima volta, oltre all’uso della tinta peculiare di
una pittura astratta che afferma la funzione psicologica del colore in un’estetica pittorica della
fabbrica, si serve della musica elettronica per rendere l’atmosfera ancora più alienante, aleatoria.
L’esperienza entusiasma Ottieri che non tarda a voler sperimentare una scrittura cinematografica
pensando di ricavarne la sceneggiatura per un film: «Il cinema è stato ed è importantissimo. La mia
vera ambizione sarebbe quella di riuscire a alternare il libro con la regia, come hanno fatto, sia pure
con diversi valori, Pasolini e Bevilacqua. Io ho aspirato alla regia. Perché è un lavoro artistico fatto
con gli altri, non solitario» (ne Gli ultimi eccentrici, p. 135). Il risultato sarà L’impagliatore di
sedie, pubblicato nel ’64, in cui egli può applicare le nuove tendenze di un informale
psicopatologico rimasto in parte assopito durante il periodo industriale.
Il progetto letterario che anima Ottieri si sposta dunque, a metà degli anni Sessanta, dalla
ricerca realistica a un realismo clinico dove poter esprimere «l’introspezionismo, il flusso
associativo dei pensieri, l’interpretazione analitica e psicodinamica del loro contenuto, insomma un
monologo interiore visto alla luce di una dottrina che tenta di classificarlo e spiegarlo» (IMP, p. 12).
L’impagliatore di sedie, opera al confine tra romanzo e sceneggiatura, apre un percorso artistico,
che si concluderà con l’Irata sensazione, in cui Ottieri scruta le diverse forme della malattia
dell’anima, i sintomi ricorrenti comuni tra gli individui, le psicoterapie in atto per ricostruire
l’irrealtà della depressione.
Attraverso la narrazione di dieci giorni di vita quotidiana, compreso un week-end, Ottieri
descrive nell’Impagliatore di sedie le idiosincrasie di alcuni personaggi tra i quali l’autobiografico
Carlo Armani, la depressa segretaria Luciana anticipatrice per alcuni aspetti della Contessa,
l’amante Teresa, il giovane Pino; ma su tutti emerge l’immagine dell’impagliatore di sedie, un
ragazzo catatonico destinato al manicomio. Ottieri dissemina in quest’opera i motivi portanti della
62
sua futura produzione come gli esaurimenti nervosi, la vita alienante di Milano, l’introspezione
psicoanalitica, il senso di vuoto che avvolge l’esistenza, l’amore impossibile, la mondanità fatua e
allucinatoria con l’ironico auto-riferimento allo scrittore industriale Ramiero Ramieri che anticipa il
Salottiero Salottieri del periodo mondano, i tarli che rodono il cervello, il collasso del tempo
immobile, la visione dell’imbuto infernale, l’immagine funerea delle cliniche dall’aspetto innocuo
di ville fuori città, la tendenza schizofrenica, l’orrore della mercificazione nella moderna società di
massa, il pensiero della morte, l’angoscia del risveglio mattutino, gli stati di alienazione. Tutti
aspetti che lo scrittore traduce in scrittura vivendoli quotidianamente in prima persona e che
verranno in seguito approfonditi ne L’irrealtà quotidiana, I divini mondani, Il pensiero perverso, Il
campo di concentrazione, Contessa, Il poema osceno, De Morte.
La città-garage è più brutta e grigia possibile. […] Ho fatto tardi per l’esaurimento. […] Non è
sempre il solito. Chi sta fuori si sbaglia. È sempre lo stesso ma cambia. Da due giorni quel senso… quel
senso… che avevo nel cervello, è diventato un altro senso. […] Vorrei essere sempre da un’altra parte da
dove sono. […] Questo senso mi dà… fastidio. O un brivido, al cervello. Ce l’ho sotto il cervello. […] Ho la
sensazione che vorrei andare in un altro mondo. […] Quell’altro mondo è in questo Mondo. Ma anche fuori,
sopra. […] È il tempo che mi dà… fastidio, sotto il cervello… la mattina, il pomeriggio, il dopocena.
L’esaurimento è il tempo. […] Sono precipitata giù per un imbuto, lo so, ha le pareti lisce, dove non c’è dove
appoggiarsi. Sto male. […] Non mi va di vivere domani, stasera, fra un’ora. È tutto chiuso. Le strade, i muri,
i muri mi fanno orrore. Ho orrore della realtà, della città. […] Vai a cena con loro. Poi a chiacchierare in un
salotto. I salotti, i salotti, sempre i salotti, che ci fai? Ci aspetti di andare a ballare. E, dopo, vai a ballare. […]
Quella medesima notte, depresso scende, cautamente per non cadere, la scaletta buia e tortuosa di un night
elegante, quasi un club. […] Naturalmente punta verso il bar, ma incontra subito uno dei pochi intellettuali
notturni di Milano, forse l’unico, il quarantenne Ramiero Ramieri che esce dal gabinetto e che egli conosce,
perché Ramieri è uno scrittore integrato nell’industria. […] Io sono schizofrenica. – Schizofrenica no. Un po’
schizoide. […] Noi abbiamo creato e veniamo continuamente ricreati da una civiltà di massa. È il nostro
destino sociologico. […] La morte è più importante della vita. […] La mattina la fa tremare minuto per
minuto e la immerge scorticata viva in un mare di sale. […] Si è incamminato circospetto verso il cancello di
una grande villa; verso un giardino con altissime piante, anonime, verdi, piatte. […] L’alienato è tutto uomo
e il rovescio vero dell’uomo. (IMP, pp. 25, 35, 36, 38, 90, 91, 109, 111, 112, 114, 126, 166, 184, 197, 201)
Per questi motivi L’impagliatore di sedie è un exemplum per comprendere la modalità
creatrice e progettuale di Ottieri, quella volontà esplicita di strutturare la propria poetica in un
progetto letterario nel quale tutti i testi sono parte integrante di un insieme inscindibile. La
sorprendente novità di un’opera inclassificabile come L’impagliatore di sedie, che presenta motivi
quali l’alienazione mentale, esaurimenti nervosi, depressioni, ancora abbastanza vergini nella
letteratura italiana a eccezione del Male oscuro di Giuseppe Berto pubblicato nello stesso anno
dell’Impagliatore, non passò inosservata e alcuni critici letterari come Luigi Baldacci e Mario
Pompilio lo riferirono direttamente all’autore: «Caro Ottieri, non ho capito poi perché
L’impagliatore di sedie Le abbia procurato quei dolori a cui Lei accenna. Per me è stato veramente
il Suo più bel libro, il Suo libro nuovo». (28 agosto ’64)
63
Caro Ottieri, il tuo Impagliatore di sedie è come un mondo d’acquario, ecco la mia sensazione,
qualcosa che sta al di là di un vetro e io non riesco a toccare. […] Sei stato lo scopritore e l’antesignano
d’una materia, quella dell’alienazione industriale, che adesso, in mano ai faciloni venuti dopo di te, è
diventata finanche stucchevole: e capisco che, per tuo conto, tu voglia battere altre strade. […] La questione
che ti resta soprattutto da risolvere, tu scrittore d’una generazione che ha trovato la sua ragione d’essere
confrontandosi con la storia, è di chiarire meglio a te stesso i rapporti tra alienazione sociale e alienazione
mentale. (19 giugno ’64)
L’impagliatore di sedie verrà proposto anche alla selezione del Premio Campiello per il ’64
senza tuttavia raggiungere il riconoscimento finale, attestando comunque un notevole interesse per
l’opera: «Gentile Dottor Ottieri, nella prima rosa delle opere figura anche il Suo libro
L’impagliatore di sedie e pertanto Ella dovrebbe comunicarmi entro il 15 giugno p. v. se Le è
gradito che la Sua opera partecipi al nostro Premio Campiello» (Vittorio Cossato, 3 giugno ’64).
Interesse che travalica anche le frontiere italiane. Ottieri viene contattato infatti da Dionys
Mascolo, un italo-francese reattore delle Edizioni Gallimard di Parigi che gli chiede, in una lettera
del 21 dicembre ’64, di poter tradurre L’impagliatore di sedie: «Je peux vous dire simplement que
j’ai écrit, au milieu du mois de novembre, à M. Javion pour lui demander s’il accepterait de traduire
L’impagliatore di sedie». Il lavoro di traduzione si rivelerà più difficoltoso del previsto a causa di
molteplici problemi, dalla scelta del traduttore ai cambiamenti ai vertici della casa editrice parigina.
In una lettera del 24 ottobre ’67 Mascolo sembra confermare allo scrittore l’avvenuta traduzione
ormai pronta per andare in stampa e con l’uscita prevista per la primavera del ’68.
Ottieri fa confluire efficacemente i motivi de L’impagliatore di sedie nell’opera successiva
L’irrealtà quotidiana che rappresenta nel percorso letterario di Ottieri un’opera determinante, una
frattura in rapporto ai suoi romanzi precedenti relativi alla letteratura industriale, attestando l’inizio
ufficiale dell’analisi approfondita sul Male, termine che riassume la malattia storica e psicologica
vissuta in se stesso e nella società, che accompagnerà l’autore fino all’Irata sensazione conclusiva.
II.2 L’irrealtà quotidiana
L’irrealtà quotidiana è un saggio romanzato che vinse il Premio Viareggio del ’66 non
senza obiezioni e polemiche da parte dei giurati a causa della sua difficile inclusione nella sezione
riservata ai saggi. La difficoltà di classificazione è una caratteristica della scrittura di Ottieri che
riguarda opere narrative e teoriche, prosa, versi, pamphlet, poemetti, satira menippea, diario
confessione etc. Da qui l’inclassificabilità come elemento distintivo che lo ha reso scrittore,
romanziere, poeta, drammaturgo, commediografo, sceneggiatore, sociologo, analista-analizzato,
64
acutamente problematico, complesso, mai banale e con il quale i conti restano sempre aperti. A tal
proposito Dionys Mascolo, già conosciuto ai tempi della traduzione dell’Impagliatore di sedie,
spiega a Ottieri l’impossibilità di tradurre in francese L’irrealtà quotidiana perché il testo, in Italia
come in Francia, non è catalogabile:
Monsieur Ottieri, quant a L’irrealtà quotidiana, la raison principale pour la quelle M. Gallimard a
finalement décidé de renoncer au livre, c’est que, de l’avis de tous les lecteurs, le livre n’aurait pu trouver
place dans aucune collection, ni de romans, ni d’essais. […] Je peux résumer leurs jugements, en disant
qu’ils pensent que l’essai dans votre livre vient neutraliser le roman, et que l’élément romanesque affaiblit
l’essai. Je dois ajouter, non pas pour vous faire plaisir, mais pour être véridique, que tous les lecteurs
trouvent cependant l’ouvrage du plus haut intérêt. Mais tous ajoutent aussi que la multiplicité des thèmes
risque d’égarer les lecteurs. Je dois dire aussi (vous savez que cela compte) que tous doutaient que le livre
pût trouver en France un public suffisant. (24 ottobre ’67)
Nell’Irrealtà quotidiana Ottieri ha radicalizzato le sue esperienze precedenti aprendo la
breccia sul tema della malattia, mentre si chiudeva in modo definitivo la riflessione industriale
elaborata nella tetralogia. Ma non si può trascurare che, anche nelle opere ambientate in fabbrica, il
malessere esistenziale, la disperazione, il conflitto uomo-società erano già presenti, confluendo poi
nella produzione successiva. In sintesi L’irrealtà quotidiana fa da trait d’union tra il tema
industriale e quello clinico, senza alcuna frattura e con un passaggio del testimone ben riuscito, se
non per le situazioni che cambiano; e la conclusione di questo processo sarà il punto di partenza per
affrontare de visu il Male esistenziale.
L’itinerario tracciato nell’Irrealtà quotidiana segue diversi percorsi: storico dal dopoguerra
agli anni Sessanta, politico dal fascismo giovanile al socialismo, filosofico da Cartesio a Sartre,
sociologico con l’analisi delle trasformazioni sociali avvenute in Italia, psicanalitico grazie
all’interesse per gli studi di Freud, Perrotti, Bouvet, Gabel, letterario nei rapporti diretti con
Moravia, Berto, Pavese e Volponi, artistico con riferimenti alla Pop-Art. Nella complessità di tale
trattazione, Ottieri tenta di definire la natura del sentimento d’irrealtà, la sua struttura, la possibilità
di descriverlo e il modo in cui esso influenza la percezione della vita quotidiana.
L’irrealtà quotidiana ha struttura propriamente saggistica con quattro parti suddivise
ciascuna in sei capitoli, a eccezione dell’ultima con cinque, che propone una storia romanzesca,
quella di un nuovo alter ego dello scrittore, Vittorio Lucioli che riprende il suo secondo nome e il
primo dei cognomi anagrafici della famiglia Ottieri, mediante un’indagine-confessione in cui le
vicende private si sovrappongono a quelle pubbliche sullo sfondo di un’epoca che stava
trasformando il volto della società italiana e non solo. Si tratta di un’autobiografia culturale che
parte dal ’39, con l’inizio della seconda guerra mondiale, per arrivare alla metà degli anni Sessanta
con quei conflitti sociali e politici pronti a esplodere nel ’68. L’irrealtà quotidiana è un’auto-analisi
65
letteraria, un’indagine viscerale condotta senza indulgenze, una confessione senza confessore in cui
una vicenda privata è nello stesso tempo l’emblema di una storia comune, prettamente italiana, di
quei decenni: dalla crisi del fascismo, alla Resistenza, al boom industriale, alla rivolta contro i
Padri, all’infatuazione marxista, all’alienazione. Tappe forzate di una fase storica in cui il volto
dell’Italia contadina e provinciale si stava trasformando troppo velocemente, caratterizzata da
enormi distorsioni sociali che Pasolini definì con due espressioni: «mutamento antropologico» e
«progresso come falso progresso». Lucioli è l’immagine di questa mutazione, della sofferenza
esplicitata nel male spirituale, il sentimento d’irrealtà, lo specchio disperato e convulso di una realtà
nemica. Ottieri realizza una trattazione ben documentata di quel periodo compenetrando le vicende
personali con quelle sociali in un connubio inscindibile, senza tuttavia restare prigioniero della sua
opera.
Lucioli è uno scrittore nevrotico impiegato in un’industria, in eterna terapia e studioso di
psicoanalisi, analizzatore nel lavoro per la selezione del personale e analizzato nella vita, paziente e
medico insieme, che tenta di spiegare la propria poetica, in quanto scrittore, e nello stesso tempo la
malattia che influenza la sua scrittura in un’opera fittizia, un’Autobiografia culturale pubblicata nel
1964 dalle Edizioni Della Ciaia, dal nome di un ramo genealogico della famiglia Ottieri, che in
realtà è l’attuazione pratica, letteraria e autobiografica delle teorie studiate, analizzate, vissute dallo
stesso Ottieri. Lucioli utilizza dunque la letteratura per indagare il proprio male e gli stati d’irrealtà
vissuti dall’infanzia, al tempo del fascismo adolescenziale, fino al marxismo-freudismo dell’età
matura. La malattia che condanna Lucioli è uno stato mentale indescrivibile che «sta all’incrocio fra
io e mondo, io e sé, coscienza, percezione e conoscenza, dove s’incontrano tutte le filosofie del
mondo» (IQ, p. 156), i cui sintomi si presentano come percezioni della propria essenza,
irricordabile, senza immagini, pura astrazione, un pensiero senza visuale. Lucioli segue una terapia
e, grazie agli studi giovanili di psicologia, s’interessa di psicanalisi freudiana e si autoanalizza
contendendo all’analista il primato dello scavo profondo nel suo animo.
Sono tre i motivi principali esaminati da Lucioli nella sua opera: la malattia, la cultura e
l’arte. L’obiettivo dichiarato è quello di ripercorrere culturalmente il proprio passato attraverso un
libro di memorie, l’Autobiografia culturale, analizzando con attenzione, lui scrittore, le fonti della
propria poetica. Il contesto storico è quello dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, del boom
economico e delle trasformazioni industriali, delle illusioni perdute e del “paese mancato”. L’arte e
la scrittura sono connesse alla scienza, alla filosofia, alla politica, alla psicanalisi e Lucioli non può
estraniarsi da questi rapporti: è necessario dunque ripensare alla natura dell’arte e relativizzare il
problema delle poetiche per individuare il momento della verità che si trova tra il conscio e
l’inconscio. La sua scrittura è legata alla psicoanalisi, alla lotta analitica tra medico e paziente,
66
all’agonismo che pone tutto in analisi fin dal rapporto con i Padri, necessariamente al plurale. Tra
storia, politica, società, psicoanalisi, il sentimento d’irrealtà si sviluppò in Lucioli negli interstizi
della «infezione psichica» (IQ, p.178) mentre la crisi storico-individuale viene vissuta, in quel
determinato contesto socio-culturale, dallo scrittore che si sentiva un disadattato trafitto dagli strali
dell’ansia, dell’angoscia, della depressione. La vocazione letteraria, morbosa, contestata, sofferta, si
presentava dunque come un’esplosione-implosione di debordanti sensazioni di una malattia senza
volto ma avvolgente che non si lasciava osservare e descrivere con facilità.
Fin da piccolo Lucioli aveva sofferto d’ansia e di malinconie rapide, improvvise che stentava a
giustificarsi, passando davanti a un giardinetto triste e magro tra due case, o suonando il campanello di casa
sua per rientrare, nel momento stesso in cui appoggiava il dito sul vecchio, lungo, tremolante pulsante
bianco. Erano soffi neri, pause cupe e sprofondanti, dovevano essere i primordi del sentimento d’irrealtà che
un bambino poteva vivere soltanto come crisalidi di depressione. (IQ, p. 170)
Come durante uno stato d’ipnosi, Lucioli regredisce alle fasi infantili riavvolgendo il nastro
della sua esistenza: in principio fu il sentimento d’irrealtà, osservata sempre con il colore bianco
mentre la depressione è nera, a determinare le prime percezioni del bambino e a modificare il suo
sentirsi nel mondo. L’episodio cardine ricordato da Lucioli, il momento decisivo che ha segnato la
sua vita, riguarda il suonare quel campanello di casa. Nell’intervista Non sono un malato ma un
policlinico rilasciata a Serena Zoli in E liberaci dal male oscuro, Ottieri rielabora le esperienze
contrassegnate dal Male e da una sintomatologia molto violenta non solo legata alla depressione ma
anche agli attacchi di panico, ai disturbi ossessivi-compulsivi: «A cinque anni ho avuto il primo
segno. Fu mentre rientravo a casa, suonai il campanello e fui preso da un fortissimo senso di
struggimento. Violento e improvviso. Che cos’era? Oggi lo battezzo col nome alla moda
“malinconia”. Lo ricordo in modo vivo, come un flash» (In E liberaci dal male oscuro, p. 425). La
medesima circostanza verrà ricordata anche in alcuni versi della Corda corta e in un passo
dell’Infermiera di Pisa: «Ricordi / di aver cominciato a non sopportarlo / a circa tre anni, / quando
passavi dai Giardini alla casa / e premevi il campanello domestico, / con il cuore nero» (COR, pp.
130-131). «Premendo / il campanello bianco della scura / porta di casa in noce, / fui succhiato dal
mulinello della melanconia. / Il cuore scese in basso» (IP, p. 27).
Dopo aver posto le basi delle prime esperienze infantili, Lucioli riprende il cammino
dell’analisi introspettiva che non lascia spazio a mitigazioni di alcun genere. Egli non fa sconti, non
cerca scuse, non attenua le conseguenze della propria malattia: si auto-osserva come disteso sul
lettino dell’analista o sul tavolo del chirurgo per sviscerare-asportare il Male psichico-fisico dalla
propria anima-corpo. Impresa ardua che Ottieri conduce offrendo la scena principale a un alter ego
67
il quale spesso parla in terza persona per oggettivare con più precisione questo tipo di analisi
impietosa.
Lucioli era psicologicamente vigliacco. La sua si manifestava come nevrosi di debolezza,
aggressività rientrata, autoriferimento, evasione non fantasticata, ma roditrice. Imitava per inesperienza di sé
(se non astratta) e per identificazione con gli altri; soffrendo come capita a chi si vuole mettere nella vita di
un altro: vive la impossibilità di una operazione simile, ritorna a un se stesso insufficiente, paralizzato dal
fantasma di vivere la vita di un altro. (IQ, p. 173)
Il concetto «vivere la vita di un altro» ovvero Identificarsi, tentativo pazzesco, quinto
paragrafo della terza parte Rapporto gerarchico e rapporto paritetico dell’Irrealtà quotidiana, avrà
una propria evoluzione poetica nel secondo poemetto della Corda corta intitolato Gli altri o le
proiezioni invidiose in cui Ottieri, appena giunto nella clinica Kremlin-Bicêtre19 di Parigi dopo
l’esperienza alle Betulle20, «sei passato da Appiano a Parigi, / da un pianeta a un castello, / quello di
Bicêtre che fu prima / prigione di Sade, poi ospedale / per ogni male, ove si pratica ora / la cura del
disgusto, in banlieue, / a Porte d’Italie» (COR, p. 147), riflette su quelle disfunzioni della propria
personalità che dopo averlo trasformato in un Niente, lo costringono a essere un altro, cioè in ordine
di apparizione Achille, L’uomo di Odogno, Moravia, Sante il nobile vaccaio, Antonioni, Abbao,
Pasolini, Crispolti, Di Mauro.
A tal proposito la vigliaccheria psicologica definita da Lucioli si può comprendere nei
sintomi della depersonalizzazione al cui interno, secondo Ottieri, si agita il sentimento d’irrealtà. La
persona come soggetto di relazioni è stata pensata, in ambito filosofico, in tre accezioni che si sono
succedute storicamente: sostanza primaria capace di agire secondo libertà con conseguente
coinvolgimento delle proprie azioni; autorelazione dell’individuo con se stesso secondo il modello
cartesiano che identifica la persona con l’Io inteso come coscienza; relazione con il mondo
conformemente all’ipotesi marxista che concepisce la persona come la risultante dei rapporti che
l’uomo istituisce con la natura e con i propri simili. In ambito psicologico la persona è considerata
come punto d’incontro, sempre dinamico, di fattori genetici e socio-ambientali responsabili dei
costitutivi consci e inconsci di ciascun individuo. Rispetto al concetto d’individuo, quello di
persona si distingue per il riconoscimento che viene dagli altri e questa interdipendenza psicologica
è alla base anche dei processi di depersonalizzazione in cui l’individuo non percepisce più se stesso
come presente nella vita quotidiana e come interagente con i propri simili. Il sentimento d’irrealtà
19
Le Centre Hospitalier Universitaire du Kremlin-Bicêtre si trova al 78, rue du Général Leclerc, 94275 Le
Kremlin-Bicêtre, pochi chilometri a sud di Parigi. Ottieri soggiornò al Kremlin-Bicêtre alcuni mesi del ’75 per
disintossicarsi dall’alcol sottoponendosi alla «cura del disgusto», esperienza tradotta poeticamente nella seconda parte
della Corda corta dal titolo Il gusto del disgusto.
20
La Casa di Cura Le Betulle, ubicata in Viale Italia 36 ad Appiano Gentile (CO), fu ideata e costruita per
volontà di un gruppo di medici psichiatri diretti dal Prof. Dott. Augusto Guida, e inaugurata il 3 aprile 1966. Ottieri
trascorse alle Betulle un lungo periodo di degenza tra gennaio e luglio del ’74.
68
scaturisce, per Ottieri, proprio da queste avarie psichiche che provocano condizioni alienanti,
apatiche, di vuoto, stati nevrotici con difficoltà a organizzare in modo congruo i propri pensieri.
Lucioli rielabora la propria esistenza sotto la lente d’ingrandimento degli studi psicoanalitici
condotti fin dall’adolescenza e l’autoritratto che emerge è impietoso: «Lucioli aveva un destino di
solitario e quattro diavoli lo incalzarono nell’ingresso nella vita: la letteratura, il lavoro, gli studi
non letterati, la vita affettiva. […] L’esistenza di Lucioli non è mai stata tranquilla, anzi, si potrebbe
dire, è stata un inferno» (IQ, p. 175). L’inferno di Dante e la Commedia sono presenti nelle pagine
di Ottieri attraverso citazioni e rifacimenti, ed è possibile immaginare il campanello bianco della
sua infanzia come la selva oscura, mentre la malattia individuale e sociale post-bellica come
metafora dell’ingresso all’inferno. Il riferimento sarà ancora più esplicito nel Campo di
concentrazione dove l’esistenza del malato-condannato si svolgerà in un vero e proprio inferno: il
manicomio.
Dopo aver superato la porta di questo immaginario ingresso, Lucioli ripercorre le tappe della
sua personale Vita Nova che inizia negli anni Quaranta, con una guida particolare, la psicoanalisi, il
Virgilio di turno. La psicoanalisi, ossia «il lavoro di analisi è un buco che si fa nel profondo, buco
che viene continuamente ricoperto da detriti, che sono i sintomi» (CC, p. 18), accompagna tutto il
percorso letterario di Ottieri, il quale fin dall’adolescenza s’interessò di psicoanalisi come strumento
per analizzare gli spazi interni, soggettivi e ancora inesplorati dell’animo umano.
Ho cominciato presto a leggere Freud e ho avuto i primi contatti con un analista nel ’46, appena
finita la guerra. Sono stato fra i primi in Italia. L’inconscio, l’inconscio tutta la vita. E anche adesso
l’inconscio comanda. È lui che se vorrà mi manderà via dalla clinica. A me sembra di vivere, di essere tutto
nella coscienza, e di cercare non l’inconscio ma l’incoscienza. (CC, p. 91)
La terza parte dell’Irrealtà quotidiana, intitolata Rapporto gerarchico e rapporto paritetico,
è dedicata alla conoscenza di Lucioli della psicoanalisi, e in particolare alle riflessioni sul
freudismo, agli scontri con l’analista e «alla relazione di questa relazione con la metodologia della
rappresentazione artistica» (IQ, p. 179). Lucioli iniziò la terapia mentre all’esterno impazzava il
boom economico: per lui la crisi, che pochi anni prima era collettiva e storica, si stava trasformando
in individuale e psicologica con un culminante esaurimento nervoso che coincideva con quello
storico. Il sentimento d’irrealtà fu interpretato dall’analista come una:
Estrema difesa, l’ultimo arroccamento difensivo contro l’accettazione della realtà, da parte di chi si
vedeva erodere dall’analista tutto il proprio Sistema (di vita). L’analisi fu per Lucioli una lotta di Sistemi; il
suo, il narcisistico, che gli pareva l’unico giusto e possibile ma che lo faceva stare insopportabilmente male,
e il sistema nuovo, non narcisistico, prospettato dall’analista, che a Lucioli pareva per sé assurdo, ma che era
l’unica alternativa concreta. […] Il sentimento d’irrealtà di Lucioli fu, appunto, una difesa dalla realtà e
sostituì altri sintomi. (IQ, p. 179)
69
È un tipo di analisi particolare, agonistica, una vera e propria Lotta analitica, titolo del
capitolo terzo, con la quale bisogna fare i conti per comprendere le peripezie di Lucioli, mentre le
tensioni che si sviluppano tra medico e paziente hanno due ragioni determinanti: in primo luogo
tutto è in analisi finché essa dura, e inoltre il paziente stesso studia psicologia. Dall’Irrealtà
quotidiana al manicomio di Zurigo (Il campo di concentrazione), dalla casa di cura San Rossore di
Pisa (L’infermiera di Pisa) alla clinica di Losanna (Cery), dal Pensiero perverso alle Guardie del
corpo all’Irata sensazione, la letteratura di Ottieri è disseminata di analisi, psicoanalisi, cure
disintossicanti, medici, infermieri e carcerieri. Gli analisti Musatti, Cassano, Zapparoli, Gallimberti
si presentano sulla scena come gli antagonisti dello scrittore, e con essi s’instaura uno scontro senza
quartiere per la supremazia nelle tecniche terapeutiche. Il confronto con questi numerosi Padri è
sempre serrato ma l’impressione finale è che nessuno possa uscire vincitore dal perpetuo
combattimento. Un elemento cardine di tale rapporto conflittuale è il silenzio che crea un muro
invalicabile e imbarazzante per il paziente che nel riempire tale vuoto parla con poco costrutto
senza ottenere alcuna risposta. È una tecnica usata in psicoanalisi e riscontrabile in Giada, La
psicoterapeuta bellissima, che tace irresistibilmente mentre gli altri, pazienti e non, le parlano:
Entra la bellissima Giada. GIADA: «Sono felice, mi hanno promossa agli psicotici». (Diceva e
ripeteva psicotici come facesse un pompino). CHRISTIAN: «Ma chi sono questi psicotici?» Giada, sussiegosa,
tace. GIADA: «Devono essere quelli che hanno una tale ansia che, per scrollarsela di dosso, corrono nudi per
la via del Tritone e, ritornati in stanzetta, mangiano la propria cacca». Giada, sussiegosa, tace. (PB, p. 9)
In questo breve frammento si nota il silenzio della terapeuta che lascia parlare senza
intervenire nella discussione per fugare eventuali dubbi o chiarire le incomprensioni. Dialogo
surreale in cui le malattie mentali sono trattate come argomento triviale fino a ridurre a macchiette
sintomi penosi che attestano gravi regressioni, quali il delirio o la scatofagia. Anche Lucioli si trova
ad affrontare un’analisi silenziosa in cui il terapeuta utilizza lo strumento del silenzio:
Disse al medico che dovevano darsi del tu. Secondo la tecnica, il medico tacque. […] Sono
affascinato da questo silenzio dell’analista neutrale, io che non reggo il silenzio. […] È la tragedia analitica
del silenzio, il rimbalzare del paziente contro il muro fermo del medico. […] Dicono che intere sedute si
svolgono nel silenzio completo dei due. A me non è capitato mai perché non reggo il silenzio, parlo e parlo,
per riempire il vuoto. Ma l’analista tace. […] «Forse potrei cominciare l’analisi oggi». Tace. «Lei non ha
nessun parere in proposito?» Tace. (IQ, p. 192)
La lotta analitica, l’agonismo psicoanalitico che mette in contrasto il medico «Padre
crudele» (IQ, p. 224) con il paziente, viene vissuto da Lucioli come una battaglia personale che gli
permette, basandosi sulle proprie forze, di raggiungere risultati insospettabili: l’autoanalisi. Il
70
transfert, che designa la condizione emotiva della relazione del paziente nei confronti dell’analista,
in questo caso si scioglierebbe, e nella partita a scacchi tra i due proprio il paziente avrebbe la
mossa per lo scacco matto, il contro-transfert. Il rapporto allora non sarà più gerarchico, come
prevede la psicoanalisi, bensì paritetico: e questa appare una vittoria sofferta ma ottenuta con merito
dal paziente che finalmente si sente libero. Vittoria di fugace sollazzo, come si constaterà ben
presto:
E se diventassi analista io? Molti pazienti attraversano questa fase. Conquisterei il diritto di
interpretare il mio analista, la interpretazione di lui che interpreta me che interpreto lui. […] L’analisi è
l’arretrare, il ripercorrere. L’inconscio è il mio dubbio, la mia speranza, la mia rovina e il mio alibi. […]
Interpreti pure che continuo a aver bisogno di un Padre come quando necessitavo di un duce. […] Ogni
identificazione, ogni venire dell’analista verso, con, incontro a me, mi toglie speranza di guarire. Mi sembra
che disinneschi la terapia (che castri il Padre?). […] E mentre Lucioli analizzava, forse l’analista, Padre
crudele, pensava: si sappia chi è costui che giudica e manda dietro la sua scrivania… Eccolo lì il falso
medico e perciò il falso paziente. Analizza gli altri per sfuggire sé, ma non si sfugge veramente, se appena
lasciato solo, va al gabinetto a vomitare angoscia. (IQ, pp. 187, 190, 191, 224)
Nello svolgimento di questo contrasto, Lucioli comprende che il suo pensiero ambivalente lo
condannerà ancora una volta, mentre il proprio freudismo vissuto, deformato, non risolve affatto il
transfert come lui vorrebbe. Alcuni aspetti del freudismo, causalistico, razionalistico, gerarchico e
contenutistico, spingono poi Lucioli a considerare il paziente, lui stesso, quale un oggetto nelle
mani del terapeuta che lo osserva come una res, un congegno meccanico. Ma l’uomo-oggetto non è
certo una prerogativa soltanto psicoanalitica avendola riscontrata nel concetto di alienazione
marxista. E inoltre Lucioli scopre un’altra applicazione effettiva dell’uomo-oggetto durante i
colloqui di assunzione nei quali egli, addetto alle interviste per la selezione degli impiegati, è
costretto a valutare i candidati con leggi tecnocratiche, con il tempo e le domande predeterminate. È
questo un periodo fondamentale della vita di Lucioli-Ottieri, in cui egli personaggio-uomo, medicopaziente, tra Freud e Marx, analizza gli altri mentre viene analizzato, applicando su se stesso
l’alternativa di ruoli, un leit motiv della sua poetica. Si è all’inizio degli anni Cinquanta, e Ottieri
viene assunto dall’ingegner Ariano Olivetti con l’incarico di selezionatore del personale nella sede
della nuova fabbrica di Pozzuoli. Il Lucioli analizzato-analizzatore trascorreva le sue giornate tra la
fabbrica e lo studio dello psicoanalista cambiandosi di costume dal ruolo d’intervistatore a
intervistato, per poi scrivere opere relative alla letteratura industriale dove si condensavano
differenti elementi quali Freud, Marx, la fabbrica, la scrittura, la questione meridionale, lo
stravolgimento sociale durante il boom economico in Italia.
Si dovrebbe rifare la storia delle origini involontarie di quel che chiamano Letteratura e industria. È
più interessante riferire le impressioni di Lucioli circa il periodo in cui fu un analizzato e in un certo senso un
analizzatore. […] L’unico tempo e spazio che aveva per cambiarsi l’abito e l’animo era il breve tragitto nel
71
centro della città ingorgata; guidava meccanicamente e assisteva al cambio della guardia nel proprio cervello.
(IQ, p. 221)
Lucioli svolge due parti in commedia per non scegliere mai: questa è l’analisi del terapeuta.
La professione di analista-selezionatore si accartoccia durante le sedute con lo psicologo ma non si
liquefa: è la condanna del «bipolare rapido» (GC, p. 69) per il quale il meccanismo ossessivo del
dramma della scelta non gli permette di dare la preferenza a una sola possibilità. L’autoanalisi
celebrata in precedenza è in verità solo uno specchio per le allodole perché all’interno della struttura
dell’opera e nelle viscere del protagonista si sta affrontando una questione ancora più rilevante,
quella dell’essenza stessa del personaggio nella narrazione:
Il paziente-medico (di se stesso) è il protagonista del dramma dell’autocoscienza, dell’insufficienza
di questa. […] Ugualmente, il medico-paziente è il personaggio centrale dell’epoca, l’Amleto di oggi, il
protagonista di un romanzo ontologico che forse qualcuno sta già scrivendo, in cui non si discutano le
strutture del romanzo in sé ma si discutano di riflesso alla discussione sulle strutture di un uomo, appunto il
medico-paziente, colui che sta fra la possibilità di dire l’ultima parola su se medesimo, cioè di mettere in
crisi le proprie strutture contraddicendole tecnicamente e nel profondo. (IQ, pp. 222-223)
Il nucleo della riflessione riguarda la natura e la conoscenza dell’essere come oggetto in sé
attraverso l’analisi delle strutture dell’uomo in un periodo in cui lo strutturalismo, negli anni
Sessanta, si presentava come la rivoluzione epistemologia del secolo. Le strutture di un uomo sono
complesse a causa dei rapporti dinamici di fattori genetici e socio-ambientali mentre lo
strutturalismo riconduce, nell’ambito di un’analisi rigorosa, anche quelle realtà spirituali come
l’arte o lo studio sull’uomo. In Ottieri non c’è, e non ci sarà mai, il raggiungimento di un punto
fermo, di un risultato privo di contestazioni; al contrario, il rovellarsi continuo e il dubbio
martoriante lasciano aperte numerose analisi già in Lucioli, personaggio simbolo di una crisi
irreversibile per tutti gli altri suoi colleghi condannati a stati d’irrealtà permanenti. Ciò che si ottiene
alla fine è un ritratto impietoso e al confine del grottesco:
Eccolo il super-ragionevole, mite, lucido, a volte dolce, a volte tagliente, ma sempre tutto in ordine
di fronte al mondo: eccolo, da solo, posseduto dai demoni come una zitella meridionale tarantolata. È molto
meno pazzo di un pazzo. Molto più nevrotico di un nevrotico, molto più savio di un sano e non è savio per
niente; ma che è? Butto a mare la psicoanalisi e dico semplicemente: è un isterico! (IQ, p. 224)
Gettata la maschera, la definizione «isterico» con tanto di punto esclamativo distoglierebbe
l’attenzione dalla realtà di questo personaggio che sarà l’archetipo di tutti gli altri presentati da
Ottieri nelle opere successive. Tra pazzia e ragione, malattia e analisi, ordine e demoni, l’uomo a
mille dimensioni è frantumato nell’alternativa di ruoli mentre emette gli ultimi spasimi di
un’esperienza che tuttavia lascia aperte nuove combinazioni (le più immediate Il pensiero perverso
72
e Il campo di concentrazione). Gli ultimi spasimi si riferiscono all’utopia psicologica che, seguendo
il modello marxista di dissoluzione delle classi sociali, potrebbe cancellare ogni gerarchia psichica:
il marxismo nella mente di Lucioli, da sociologico diventa antropologico addentrandosi poi
nell’ambito della psicologia fino a distruggere tutte le gerarchie del mondo, tra cui quelle psichiche,
al grido Nevrotici di tutto il mondo, unitevi! «Realizzata l’utopia psicologica, distrutte le gerarchie
del mondo, resta da calare nel mondo l’utopia psicologica che distrugga le gerarchie psichiche. Qui
viene il bello» (IQ, p. 225).
La prima parte dell’Irrealtà quotidiana prende il titolo dal sentimento stesso e, nel corso dei
sei capitoli, Ottieri tenta di analizzarlo nel profondo e da diverse prospettive sebbene esso si mostri
difficilmente afferrabile. Già dal primo capitolo, La svolta a U, si delinea una causa determinante
nello sviluppo di tale sentimento che è la scissione tra la mente e il corpo a causa del meccanismo
ossessivo del dramma della scelta, tipico esempio di dualità vissuto da un «bipolare rapido» (GC, p.
69) come si autodefinisce Ottieri: «Il meccanismo (ossessivo) di questo vecchio dramma della
scelta è semplice: appena si decide una via, si finisce per decidere anche la via opposta» (IQ, p. 9).
Nelle prime pagine dell’Irrealtà quotidiana Ottieri utilizza alcuni termini per descrivere come il
drammatico procedimento della non-scelta sia vissuto da chi lo prova, facendo riferimento ad altri
registri linguistici o contesti letterari, con il risultato di una scrittura straniante ma efficace. Il
linguaggio usato da Ottieri è spesso ambivalente e intriso di metafore, ossimori, con rimandi
impliciti ad altri autori che rendono la sua scrittura aperta a diversi coinvolgimenti e densa di
richiami letterari. Nel descrivere il conflitto perpetuo dell’inevitabile non-scelta che inchioda
l’uomo ambivalente a una drammatica immobilità, Ottieri riprende delle espressioni dantesche
estrapolate da alcuni canti dell’Inferno. Ne è un esempio la frase «Se io sono incerto fra due corni di
un dilemma sul piano mentale» (IQ, p. 9) che rinvia ai due corni della «fiamma antica» di
fraudolenta memoria: il riferimento è all’episodio di Ulisse e Diomede nel ventiseiesimo canto: «Lo
maggior corno della fiamma antica / cominciò a crollarsi mormorando, / pur come quella cui vento
affatica» (Inf., XXVI, 85-87). La fatica della scelta del bipolare rapido si coagula con la difficoltà
della voce di Ulisse nel farsi strada attraverso la lingua di fuoco, mentre si scrolla come gli alberi al
vento, del tutto simile all’ondeggiamento della non-scelta.
Quest’eterno dramma esistenziale si svolge all’interno della mente del malato in cui si
scontrano forze antitetiche che non riescono a prevalere tra loro: «Intanto nella mia testa avviene il
cozzo, il subdolo ed estenuante confronto fra due immagini accostate come due carte da gioco
aperte in una mano» (IQ, p. 9). Il cozzo rimanda allo scontro tra gli avari e i prodighi del secondo
cerchio: «In etterno verranno a li due cozzi: / questi resurgeranno del sepulcro / col pugno chiuso, e
questi coi crin mozzi» (Inf., VII, 55-57). Il termine «cozzo», come il verbo «cozzare», caratterizza
73
per Dante l’aspetto bestiale dei dannati nelle loro azioni, mentre in Ottieri determina l’inumanità
delle malattie mentali evidenziando l’evaporazione dell’aspetto fisico del malato.
Un’ultima annotazione riguarda due termini, «lacerazione» e «zuffa», che avvengono
durante il conflitto della non-scelta: «Non scegliere affatto; ovvero ritirarsi in un punto più alto sul
terreno arato e martoriato del tira-e-molla, lì arroccarsi e riacquistare una unità che assiste alla
lacerazione di un altro, e alla zuffa delle motivazioni immaginate» (IQ, p. 11). Uno scenario
mentale che rinvia alla grottesca scena dei barattieri cui sono dedicati il ventunesimo e il
ventiduesimo canto quando Dante, riparatosi dietro una roccia, osserva come i dannati della quinta
bolgia, tra cui Ciampolo di Navarra, vengano ferocemente lacerati da «più di cento raffi» (Inf.,
XXII, 52) dei diavoli, con le carni dilaniate e strappate di continuo: «E Libicocco “Troppo avem
sofferto”, / disse; e preseli ’l braccio col ronciglio, / sì che, stracciando, ne portò un lacerto» (Inf.,
XXII, 70-72). Fino alla beffa ordita dallo stesso Ciampolo, il quale riesce a sfuggire ai diavoli che si
azzuffano tra loro in una delle scene più comiche di Malebolge e della cantica in generale: «Irato
Calcabrina de la buffa, / volando dietro li tenne, invaghito / che quei campasse per aver la zuffa»
(Inf., XXII, 133-135). I riferimenti impliciti ad alcune immagini riprese da Dante non stonano con
l’analisi delle malattie mentali, piuttosto rendono vitale anche la morte, o meglio il senso di morte
che aleggia nelle descrizioni di disastri psicologici o di cadute nell’imbuto infernale, come avverrà
nella clinica del Campo di concentrazione.
Nei primi paragrafi dell’Irrealtà quotidiana, l’attenzione è posta sulla mente che deve
scegliere tra diverse possibilità ma che non vi riesce a causa del meccanismo ambivalente che la
conduce in un vicolo cieco, per una strada senza uscita, provocando angoscia e stordimento con il
progressivo distacco dal mondo con il quale già si erano persi i contatti. La mente crede di poter
vagliare molteplici ipotesi (A, B, C, D…) ma, non potendo farlo, è costretta a cedere a infiniti
compromessi con se stessa:
La mente è in preda a opposti venti incontrollabili, che nascono e rinascono con una loro autonoma
origine prepotente. […] Castellino di carte, che non la realtà, ma la mente stessa fa subito crollare
accorgendosi di essere ancor peggio smembrata, […] allora la mente si risolve ad abdicare. […] La mente si
dispera di se stessa, schiava di un meccanismo da cui non concepisce di uscire, anche se intravede
oscuramente e astrattamente che la scelta non sprigionerà mai da quel meccanismo, che è il meccanismo
puro della scelta, quindi il meccanismo della necessità imprescindibile di scegliere e quindi della non scelta.
(IQ, pp. 10-11)
Da questo conflitto perpetuo e improduttivo che si svolge all’interno della mente e conduce
a una stasi catatonica, emerge il corpo con le sue prerogative: sul piano del comportamento, infatti,
valgono in esso le leggi dello spazio e del tempo così che, a causa della propria fisicità, il corpo
esige una scelta. Si apre dunque una tensione tra la mente e il corpo non facilmente definibile
74
poiché in una persona, che per comodità Ottieri definisce x, la lotta tra le immagini create dalla
mente e la realtà fisicamente vissuta dal corpo che può – davvero? – dissociarsi dalla mente,
converge in un conflitto senza regole, determinato da numerosi fattori psichici di notevole
complessità che conducono la stessa persona x a vivere in un altro mondo: «La qualità della
larghezza di divaricazione della mente rispetto al corpo e viceversa non è facilmente definibile. Si
può anche definire alienazione. […] La cosiddetta capacità d’essere altrove non è completamente
una forza né completamente una debolezza: è la lotta fra l’immagine e la realtà» (IQ, p. 12). Per
superare l’impasse della tensione tra la mente e il corpo Ottieri propone due leggi, la prima è quella
dello status quo (IQ, p. 13), cioè sul piano del comportamento la non-scelta è sempre una scelta,
immaginando un malato di depressione che trascorre l’intera giornata immobile sul letto, come
accadrà nel Campo di concentrazione. La mente non sa, o meglio non può scegliere, mentre il corpo
resta incatenato a letto e «giace piuttosto che rischiare di scegliere davvero nel comportamento, […]
così il corpo svanisce sotto l’invasione del cervello: tutto il corpo è una grande mente infilzata per
la fronte al letto» (IQ, pp. 14-15). Ma non appena si percepisce un minimo movimento del corpo,
tutto torna in questione con il conseguente disfacimento dell’idilliaco status quo. Ottieri individua
allora la seconda legge che regola l’incertezza sul piano del comportamento: quando il corpo si
muove una decisione c’è (IQ, p. 15). Il comportamento nasce dall’azione eseguita dal corpo che fa
una scelta scavalcando, anche se per un solo istante, la mente e decretando la vittoria della libertà di
scegliere. Effimera vittoria di Pirro, tuttavia, se la mente interviene poi a bloccare la scelta appena
eseguita, così che si può immaginare il corpo della persona x che sull’autostrada compie una
delirante svolta a U ripartendo assai pericolosamente contro mano:
Dunque il corpo va verso A perché una frazione sufficiente di intenzione ce lo induce lungo una
strada (statale o autostrada) della realtà, in basso; e in alto, all’altezza degli occhi e dietro essi, lungo il
corridoio buio del cervello. Ma il flusso d’intenzione verso A lentamente rimatura per B dentro al corridoio
del cervello e arretra, rifluisce, gira, fa una svolta a U proibitissima sull’autostrada e riparte contro un muro
di aria solida. (IQ, p. 16)
Le due leggi proposte da Ottieri, anche senza essere in contrapposizione tra loro, non
superano però il blocco iniziale: la mente è libera di scegliere tra A, B, C, D…? La risposta è
semplice: no. La mente non può scegliere perché interviene sempre l’eterna incertezza, la più
prolifica creatrice d’immagini sostituendo la realtà con l’apparenza d’infinite altre realtà. Il dramma
della scelta permette dunque la creazione di una particolare realtà schizofrenica, alienata, solitaria
per quella persona x lasciata poco fa sull’autostrada in contromano. Chi è o cosa rappresenta la
persona x? Un malato, lo scrittore, un pazzo, oppure un indifferente noi? Da quest’incertezza
trionfante emerge il sentimento d’irrealtà, in quel sentiero «dove la realtà si biforca dal suo
75
contrario, che è l’irrealtà. Forse è questa la genesi dell’irrealtà» (IQ, p. 20). L’immagine del sentiero
che si è biforcato, oltre a offrire notevoli riferimenti letterari da Calvino a Borges, spinge a
intraprendere il percorso dell’irrealtà fino all’ultima pagina dell’Irata sensazione, in un viaggio che
dura quarant’anni.
Generato dalla Dea Incertezza, a seguito dell’irrisolto conflitto tra la mente e il corpo, come
vorrebbe una lettura originale di una moderna battaglia allegorica, il sentimento d’irrealtà viene
sviscerato da Ottieri nel secondo capitolo, Un fulmine lento, dove compare sulla scena F., altro alter
ego dello scrittore, dirigente industriale che prova sentimenti d’irrealtà e «passa le sere tra salotti»,
pertanto un salottiero. F. ha lo stesso curriculum di Ottieri: selezionatore del personale e dirigente
negli anni Cinquanta, è in piena stagione mondana nel decennio successivo tra feste, vernissage,
locali notturni, cocktail, che verranno descritti nei Divini mondani. Ottieri osserva direttamente
quella realtà particolare, ci vive dentro assecondando una nuova compulsione di tipo sociologico nei
luoghi di villeggiatura alla moda, arrivando persino ad attribuirsi un soprannome ironico e amaro,
Salottiero Salottieri, che non sfugge all’attenzione di Fortini che gli dedica un feroce epigramma:
«Come eri meglio ieri / quando non eri noto / nuovo devoto al vuoto / Ottieri». I divini mondani
attestano, dopo l’industria e la clinica, la particolare inclinazione di Ottieri nei riguardi della materia
da narrare, estrapolando dal cuore di mondi così distanti ma per molti aspetti anche simili, quei
malesseri sociali ed esistenziali che strutturano le sue opere. Anche della mondanità Ottieri ci offre
un racconto che si svolge come una cronaca obiettiva dei fatti osservati da una posizione
privilegiata: senza trama si succedono vorticosamente cocktails, pranzi in piedi, battute di caccia,
defilés, viaggi, approcci e tentativi di seduzione continui. Il protagonista è Orazio, un play-boy
industriale che produce sanitari e lussuosi bidet, intento a esportarli anche nei paesi anglosassoni.
Entrò in uno dei salotti, dove si teneva il grande cocktail; vi era la padrona di casa che salutò. Al
centro stava il gruppo di Pietro con una ragazza nuova. Orazio iniziò, cessò di colpo la conversazione
brillante con il gruppo. […] Ella ansimò, ansimò più forte, scosse la testa di qua e di là sul cuscino, stese,
piegò tragicamente le gambe. «Soffoco. Qui alla gola, Orazio, mi stringe la gola, l’anima. Dammi una
medicina. Cado sotto il mondo». […] Esclamò Mildred piena di orrore con uno sforzo agonico. […] «Mi
sfugge il mondo». […] «Questa vita che facciamo è dispersione». (DM, pp. 7, 51, 52, 73)
F. parla di un preciso sentimento d’irrealtà volendo «esprimere proprio l’inesprimibile» (IQ,
p. 21) e rendere concreto l’ineffabile: «Era la sensazione improvvisa che gli altri appartengano a un
altro mondo, no, che me ne sto sopra e di fianco al mondo» (IQ, p. 23). Ma la sensazione provata è
indicibile per sua stessa essenza e definizione. È una sorta d’estraniazione che si scontra con la
coscienza, poiché quest’ultima mette gli argini e blocca la perdita della realtà e del sé ancorando la
percezione al dato reale mentre il sentimento d’irrealtà è uno stato di non-coscienza, un disturbo, un
vuoto, una cupa vertigine metafisica che silenziosamente, e all’apparenza con calma, distrugge il
76
mondo dall’interno creando un «altro mondo» (IQ, p. 25) ugualmente terreno. Torna con frequenza
quest’ultima immagine connessa al sentimento d’irrealtà nello sviluppo di percezioni estranianti,
alienate, che affondano chi le prova nell’involucro di un’esistenza parallela a quella reale anche
laddove l’estraniazione diventa la realtà.
Le soste, i ripensamenti, favoriscono l’irrealtà, che però non è semplicemente la solitudine e
nemmeno, come hanno sospettato alcuni, l’astrazione dei filosofi, per lo stesso motivo per cui non è la
coscienza, bensì è attigua alla coscienza. […] È un incrocio-ingorgo fra la perdita dell’ovvietà quotidiana
concepita come verità e la medesima perdita concepita come catastrofe, da parte di uno il cui amore per il
mondo è disfatto. […] È un intero sussulto agghiacciante dell’esistenza. […] Come direbbe Sartre, uno
spasmo dell’Io. (IQ, pp. 25-26)
Nell’esprimere l’inesprimibile, Ottieri argomenta nel dettaglio tutti i sintomi del sentimento
estraniante ed emerge una considerazione primaria, quella della perdita. Ci si distacca dal mondo, si
perdono i contatti con l’esterno quasi auto-annullandosi, si naviga a vista senza vedere nulla e,
scomparsa qualsiasi parvenza di stella polare, si va alla deriva. È un abbandono esistenziale, senza
punti cardinali, astratto e soffocante, dove spirano venti di bonaccia desertica che partono dalla terra
del Male, dal profondo, dagli abissi della malattia come sabbie mobili mentali.
F. sentiva un’irrealtà fosca, pesante come una grossa tenda sulla gola. Non mandava barriti
d’angoscia, zitto cercava d’inghiottire il sentimento d’irrealtà dicendosi insieme che non poteva più passargli
e che da lì a un momento gli sarebbe passato per forza. […] Alle spalle sembra non avere niente. […] Egli
non ha più memoria, non possiede niente. Non ha che, davanti a lui, una misteriosa vaghezza di scopi
personali e questo futuro generale verso cui l’avanguardia tecnocratica e scientifica lo spinge. […] È il
dramma dell’essere altrove, in un sistema per il quale si è sempre Altrove, nell’Al di là, in cui si va verso un
altro mondo. […] Il meccanismo del partire per raggiungere l’altrove, l’alibi o l’al di là. […] Evasione
mentale. […] Si parte, e nel tempo di un istante ci si ricorda di non avere più mete. L’irrealtà sarebbe questa
simultanea andata e ritorno. (IQ, pp. 25-27)
Dallo spazio che si annulla al tempo che si scioglie, il passaggio è breve. Nel sentimento
d’irrealtà il passato non esiste più, non si ha alcuna memoria, non si possiede nulla; dinanzi
s’intravede solo un futuro generale d’avanguardia tecnologico-scientifica. I disturbi qui evidenziati
rientrano nella categoria dei dissociativi, caratterizzati da alterazioni improvvise e temporanee della
coscienza, del comportamento e dell’identità, comprendenti l’amnesia psicogena come perdita della
memoria, parziale o totale, che si protrae per un periodo che va da qualche ora a qualche anno, la
fuga psicogena cioè amnesia accompagnata da una fuga e la personalità multipla. No time no space,
il sentimento d’irrealtà è vissuto come uno «stupore doloroso e nero» (IQ, p. 29) in cui si perdono i
normali parametri percettivi per intuire una «buia verità» (IQ, p. 29) collassando dentro un buco
nero, in una concentrazione di materia associata a un campo gravitazionale così intenso da far
richiudere completamente lo spazio-tempo su se stesso. Ottieri parla di sobbalzo cerebrale,
77
ribaltamento, sotto-sopra, testa-coda per definire il modo in cui lo spazio-tempo s’incurva
all’interno dell’irrealtà proprio come accade nella creazione di buchi neri. Essere altrove dentro un
universo a sé, lontano dal mondo conosciuto e impossibile da descrivere: questa è in sintesi la prima
percezione di tale sentimento che sancisce una netta spaccatura con la realtà, ma anche un forte
senso d’inferiorità che l’uomo prova nell’irrealtà stessa. Questa condizione, al limite della
sopportabilità, è individuata da Ottieri con alcuni efficaci ossimori quali fulmine lento e tuono
silenzioso che non servono tuttavia a comprenderla meglio, mentre F. «si accanisce a vivisezionare
l’irrealtà che gli sembra mentale (ed è istintuale) e che gli sfugge dalla mente. […] L’uomo è
inferiore alla realtà, che pure è schifosissima» (IQ, p. 30).
Le conseguenze dirette di questa drammatica condizione sono l’aumento della paura, lo
scivolamento verso nevrosi e psicosi, l’inabissamento nella pazzia fino a raggiungere stati di
schizofrenia come accade a Renée, la protagonista del Diario di una schizofrenica21 alla quale
Ottieri dedica il terzo capitolo Renée e gli altri. F. non ha ancora raggiunto queste “maledette
sponde” e naviga nella categoria psicopatologica della depersonalizzazione che è un altro tassello
da porre al mosaico del sentimento d’irrealtà dopo quello dell’incertezza. Ottieri affronta questa
tematica attraverso gli studi di quattro psicanalisti: Perrotti, Tomasi di Palma, Bouvet e Gabel22,
analizzando esempi clinici di pazienti che hanno sofferto disturbi di depersonalizzazione, per
commentarli lui stesso. Da questi studi emergono delle caratteristiche peculiari sullo stato di
depersonalizzazione che, secondo Bouvet, cattura il sentimento d’irrealtà come l’impressione di non
esistere, essere incoscienti, sentirsi morti e soprattutto di non poter spiegare tale stato d’alienazione.
Per me vivere o morire è la stessa cosa… Non trovo le parole per esprimermi, per dire se è che non
esisto… Per me non c’è più niente e non sono, io, più niente… Sono incosciente, ho perso coscienza… È
impossibile descrivere questi stati. È abominevole e nello stesso tempo incomunicabile, ci vorrebbe un
linguaggio speciale. È qualcosa di ordine cosmico, sarebbe necessario avere un linguaggio che corrisponda a
un linguaggio di quest’ordine… Io sono il vuoto, sono l’inferno, non esisto… Sono morta… Si è tuttavia
esseri umani, il mio universo è il vuoto… Ci sono e insieme non ci sono… Non abbiamo che il vuoto… Sono
la morte, essere la morte è un modo d’essere immortali. (IQ, pp. 34-36)
Una massiccia dose di sofferenza accompagna le descrizioni che i malati fanno della propria
condizione in cui il senso di vuoto provato durante le crisi sancisce il definitivo distacco dal mondo
reale. Ed è proprio in questa vertigine, nel vuoto che infrange il confine fra il malato e il mondo fino
21
SECHEHAYE Margherite, Diario di una schizofrenica (1955), Giunti, Firenze 2006. La presentazione del libro
nella versione italiana con la traduzione di Franco Fortini, è del Dottor Cesare Musatti, il primo analista di Ottieri.
22
PERROTTI Nicola, La depersonalizzazione, in «Rivista di psicoanalisi», gennaio-aprile 1960, Editrice
Universitaria, Udine 1960; TOMASI DI PALMA Alessandra, La spersonalizzazione, in «Rivista di psicoanalisi» gennaioaprile 1960, Editrice Universitaria, Udine 1960; BOUVET Michel, Dépersonnalisation et relation d’objet, P.U.F., Paris
1960; GABEL Jean, La fausse conscience, Edition de minuit, Paris 1962. Le date di pubblicazione di questi studi
storicizzano le riflessioni teoriche e il successivo lavoro letterario di Ottieri. Tuttavia gli studi sulle malattie mentali,
accompagnati dai progressi nella farmacologia, evolvono nel tempo e quindi alcune considerazioni, valide negli anni
Sessanta, sono state superate nei decenni successivi.
78
a far combaciare il malato stesso con il vuoto, che si esprime magna cum voce il sentimento
d’irrealtà assecondato dall’angoscia, la quale gioca un ruolo importante nei momenti di crisi giacché
rimanda costantemente al rapporto con la realtà che sembrava perso. Inoltre le crisi più acute nel
corso di nevrosi possono sfociare nei deliri di derealizzazione (la sensazione che il mondo sia
irreale) provati anche da Renée, in cui il sentimento d’irrealtà s’immerge nella schizofrenia.
Percezioni alterate, deliri, vistose allucinazioni, vaghezza delle associazioni caratterizzano la vita di
Renée, malata di schizofrenia, sulla quale Ottieri si concentra nell’ultima parte del capitolo
evidenziando nella ragazza, presa come exemplum, quello stadio di deliri allucinatori che
conducono direttamente alla distruzione del mondo nella Welt-Untergang-Erlebnis (WUE),
l’esperienza della fine del mondo, ovvero l’Apocalisse. Ottieri lesse con molto interesse il Diario di
una schizofrenica la cui prima edizione fu del ’55, trovandovi le attestazioni dei propri sentimenti
d’irrealtà raccontati con dolorosa commozione dalla protagonista del Diario. L’opera tuttavia
appare con il nome della psicoanalista ginevrina Margherite Sechehaye che curò il caso della
giovane Renée elaborando una nuova tecnica terapeutica, la realizzazione simbolica, al fine di
trovare una guarigione ritenuta quasi impossibile a causa della drammatica condizione in cui
versava la paziente sotto la continua minaccia della disgregazione del mondo e della sua stessa
personalità. La schizofrenia è il più oscuro e problematico dei disturbi mentali, caratterizzato da
deliri, allucinazioni, attività motrici disturbate e altri sintomi; e si presentava in Renée come una
regressione alle fasi di sviluppo in cui la distinzione tra l’io e il mondo non si era ancora
integralmente stabilizzata, così che alla terapeuta spettò il compito di attuare una comunicazione col
paziente attraverso gli elementi rimasti integri della sua personalità e di:
Far ripercorrere alla paziente quelle fasi stesse, correggendo il processo come storicamente si è
determinato, in modo che – per il fatto che questa volta il processo si svolge senza quelle difficoltà che
l’hanno in origine ostacolato – l’io del soggetto si ricostruisca in forma più solida e stabile e con rapporti
normali verso la realtà. Sarebbe come a dire che si tratta di prendere questo individuo adulto, ridivenuto in
un certo modo e per certi aspetti un bambino di pochi giorni, privo della coscienza di sé e incapace di
riconoscere le cose, e portarlo a ripercorrere quell’evoluzione che i bambini normali percorrono nei primi
mesi di vita. (Diario di una schizofrenica, dalla presentazione di Cesare Musatti, p. XXIII)
Ottieri durante la lettura del Diario venne attratto dai passi in cui la paziente esprimeva il
proprio sentimento d’irrealtà che servirà come base dell’Irrealtà quotidiana in cui trasferisce interi
paragrafi. Ma lo studio e la conoscenza letteraria della schizofrenia permettono a Ottieri di
comprendere che il proprio disturbo mentale è la depressione, non certo la schizofrenia, se non
fosse per il sentimento d’irrealtà che avvicina le due malattie. Fin dall’età di cinque anni, analogia
cronologica con il primo segno di depressione percepito da Ottieri, Renée soffriva di vari disturbi
79
quali angoscia, senso di prigionia, tensioni emotive, abbandono della realtà, paura, terrore, stati di
WUE:
Non riuscivo a rientrare nella realtà, e tutto rimaneva per me elettrico, meccanico e artificiale. […]
L’irrealtà era aumentata e il vento aveva assunto per me un significato particolare. […] D’un tratto la Paura,
la paura terribile, m’invase; non era la solita angoscia dell’irrealtà, ma una vera paura, quel che si sente
all’avvicinarsi di un pericolo, di una disgrazia. […] Ero annullata dalla paura. […] Un po’ per volta confidai
alle mie compagne che il mondo stava per esplodere, che bombardamenti aerei ci avrebbero annientati. […]
In quel silenzio profondo, in quell’immobilità tesa, avevo l’impressione che qualche cosa di terribile stesse
per accadere per rompere il silenzio e che uno sconvolgimento atroce dovesse sopravvenire. […] Mi sentivo
proiettata al di fuori dal mondo e dalla vita, spettatrice di un film caotico che si svolgeva incessantemente
davanti ai miei occhi e dalla cui partecipazione ero esclusa. Erano momenti atroci, il mio malessere era
inesplicabile e, non avendo alcuna difesa, potevo solo sopportare e subire. (Diario di una schizofrenica, pp.
17, 18, 30, 62)
Gli scatti reificanti uniti al senso d’inimicizia col mondo sprofondano Renée nell’irrealtà più
oscura, dentro, oltre il buco nero, nerissimo, dal quale si esce solamente dopo l’Apocalisse; e
proprio alla sua sorgente, nella primordiale purezza, si ritrova il sentimento d’irrealtà, individuato
da F. come «perdita della funzione del reale […] senso di stranezza del reale […] sentimento di
vuoto»
(IQ,
p.
45),
delirio,
metafora,
ambiguità.
Essendo
una
componente
della
depersonalizzazione, come avverte lo stesso Ottieri, tale sentimento necessita di un costante
atteggiamento introspettivo che conduce l’uomo pensante, o meglio che si pensa o si percepisce, a
sentirsi irreale: il sentimento d’irrealtà irrealizzerebbe il sé e il punto di partenza della riflessione
filosofica di Ottieri è la Meditazione cartesiana del Cogito ergo sum che si trasforma nell’Angor
ergo non sum fino a sciogliersi ne L’être et le néant23 di Sartre in cui la percezione del mondo come
tale è nullificante «dal momento che il mondo appare come mondo, si pone come non essente che
quello» (IQ, p. 46). Ancora una volta s’individua nel distacco dal mondo il momento essenziale del
sentimento d’irrealtà che, unendosi indissolubilmente all’angoscia, trasforma la celebre espressione
di Cartesio in Angor ergo non sum. Il filosofo francese rappresentava per Ottieri un esempio di
rifiuto della dottrina imperante, il verbalismo scolastico, a favore della ricerca di un sapere fondato
sul modello della conoscenza matematica; e in seguito per l’ambizione a una sintesi filosofica
alternativa rispetto alla scolastica che fornisse un quadro sistematico altrettanto comprensivo e
definitivo. Cartesio, attraverso il trattato metodologico Regulae ad directionem ingenii, tentò di
rendere comprensibili problemi complessi evitando di dare risposte non conducibili a qualcosa di
immediatamente intuitivo. Nel trattato Cartesio affrontava il problema dell’analisi della conoscenza
attraverso una continua illuminazione intellettuale, costruendo un vero e proprio Sistema-mondo
23
SARTRE Jean-Paul, L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943. Ottieri possedeva una copia di questa edizione e
sul frontespizio scrisse: «L’uomo è una passione inutile». Dell’opera studiò con particolare fervore l’introduzione e il
primo capitolo L’origine de la négation.
80
sviluppato nei minimi particolari con la spiegazione di tutti i fenomeni rilevanti dell’universo,
compresi quelli biologici. A causa di questa particolare predisposizione nello studio del mondo,
Cartesio si presentava come un modello per le riflessioni teoriche di Ottieri e sarà proprio la
massima del Cogito ergo sum a introdurre l’analisi filosofica del sentimento d’irrealtà: dal Sistemamondo cartesiano si arriverà al Sistema dell’irrealtà di Ottieri quasi per partenogenesi. Difatti la
struttura dell’Irrealtà quotidiana rinvia direttamente al Discorso sul metodo di Cartesio nella forma
di un’idealizzata autobiografia intellettuale che potesse fornire un’esposizione pressoché completa,
e in tono divulgativo, della sua filosofia. Nella quarta parte del Discorso si trova l’affermazione
della prima verità, ovvero dell’io pensante attraverso il Cogito ergo sum che è l’argomento centrale
della seconda Meditazione. È il dubbio sistematico e radicale che insito nell’uomo rinnova e
aggrava le percezioni sulla verità e sulla realtà della vita quotidiana fino a dubitare che non esista
realmente nulla di ciò che si vede, come se la vita fosse un lungo sogno e che ci s’inganni
sistematicamente anche quando si ritiene certa la verità di un teorema già dimostrato.
Ottieri struttura il suo saggio romanzato partendo dalle argomentazioni cartesiane attraverso
il dubbio sistematico, le riflessioni sull’esistenza, l’allucinante vita quotidiana, la ricerca della
verità. Il punto di frattura, o meglio il momento in cui Ottieri si allontana dal filosofo francese, si
concretizza proprio nel cogito: c’è qualcosa che per Cartesio, nell’esperienza del dubbio metafisico,
si sottrae a esso ed è la certezza che io esisto poiché dubito con il pensiero. E l’aspetto attivo del
pensiero umano è nella ricerca della verità, nell’abbandono di ogni certezza spontanea e di ogni
sapere ricevuto, cioè i pregiudizi, fino a ricorrere a Dio per giustificare il passaggio al piano
ontologico della verità. È evidente la biforcazione dei pensieri tra Cartesio e Ottieri partendo
proprio dal dubbio: da una parte il cogito, dall’altra l’angor con conseguenze discordanti poiché in
Ottieri l’introspezione e il pensarsi conducono all’irrealtà: «Si può anzi indulgere sull’ipotesi che
l’uomo tenderebbe a divenire – o a sentirsi – irreale quando pensa o meglio si pensa (o si
percepisce). Il sentimento d’irrealtà irrealizzerebbe il sé, e l’oggetto. La partenza diverrebbe Cogito
ergo non sum» (IQ, p. 46). Ma poiché il sentimento d’irrealtà è legato all’angoscia più di qualsiasi
altra percezione, l’angoscia stessa scavalca, annullandolo, il pensiero: «L’angoscia è angoscia di
essere; difatti si dice, parallelamente a Cartesio, Angor ergo sum, anche se la parte sana del paziente
che sta davvero male dell’Angor ergo sum se ne infischia» (IQ, p. 47). L’ultimo passaggio della
staffetta chiama in causa uno dei fenomeni che caratterizzano il sentimento d’irrealtà, la
depersonalizzazione che comporta la sensazione angosciosa di estraneità al proprio corpo, di non
esistere, essere incoscienti e sentirsi morti: quindi Angor ergo non sum.
Mi chiedo che cosa significhi non sum. Istituendo un rapporto tra Cogito ergo non sum e Angor ergo
non sum, il primo può dirsi l’inizio di un’ambiguità, il secondo di una cosificazione. Il secondo perciò può
81
anche significare una concreta e non metaforica mancanza di essere, come mancanza di libertà emotiva e
quindi di libertà in senso assoluto poiché non sopravvive una libertà dello spirito in una affettività coatta.
(IQ, p. 48)
Dopo aver posto le basi filosofiche del sentimento d’irrealtà, Ottieri argomenta il modo in
cui si prova considerando le difficoltà a volte insormontabili di esprimere l’inesprimibile. Come
spesso accade, lo scrittore non tergiversa sulle questioni da trattare e svela subito quale tipo di uomo
sarà preso in esame.
L’uomo è oscillante, volubile, ambivalente verso l’oggetto e verso se stesso; e notoriamente fatto in
modo che pone l’essere e anche il non essere: il sentimento d’irrealtà è interpretabile come un’ambivalenza.
L’uomo, o un certo tipo di uomo? Di preferenza (è naturale) l’uomo del tipo ambivalente. E chi è l’uomo del
tipo ambivalente? È l’uomo narcisistico, di contro l’uomo genitalizzato (secondo la distinzione di Freud
riguardante la relazione d’oggetto: immatura se ferma alla fase narcisistica, pre-edipica; matura se postedipica e genitalizzata). (IQ, pp. 49-50)
Il narcisismo indica l’amore dell’individuo per la sua immagine come nel mito greco di
Narciso, ed è stato analizzato da Freud nell’Introduzione al narcisismo del 1914 come un processo
nel quale la libido disinveste gli oggetti esterni reinvestendo l’Io. Dopo la revisione del suo pensiero
avvenuta tra il ’20 e il ’23, Freud introduce la nozione di Es e differenzia il narcisismo in primario,
i cui prototipi sono la condizione intrauterina e il sonno, caratterizzato sia dalla mancanza di
distinzione tra l’Io e l’Es che dalla penuria di rapporti oggettuali giacché tutta la libido è ripiegata
sull’individuo; e secondario che coincide sostanzialmente con quello trattato nell’Introduzione,
concepito come funzionale al processo di strutturazione dell’Io. Poiché il narcisismo implica pur
sempre una relazione, il primario della condizione intrauterina fu contestato da molti psicologi tra
cui Melanie Klein; al contrario, nella seconda metà del Novecento, esso venne rivalutato
nell’ambito teorico della psicologia del Sé a opera soprattutto di Heinz Kohut che analizzò il
disturbo narcisistico all’interno della società industriale dove si sperimenta di continuo la solitudine
del bambino e il suo drammatico tentativo di autorealizzazione. È proprio su questo punto,
narcisismo e società industriale, che s’innesta la riflessione teorica di Ottieri senza tuttavia
tralasciare la Dépersonnalisation et relation d’objet di Bouvet per il quale la depersonalizzazione è
una sospensione della libido dovuta alla perdita di un oggetto narcisistico, cogliendo l’origine
dell’irrealtà proprio nel periodo pregenitale sempre riguardo all’oggetto e al suo possesso
incondizionato e assoluto da cui dipende il mantenimento della strutturazione dell’Io. Il narcisismo
porta a un’equidistanza dall’oggetto dinanzi al quale l’equilibrio tra vicinanza e distanza è
ineccepibile:
82
È la legge del narcisismo istintuale il quale determina una ragione narcisistica, cioè un pensiero la
cui legge sia l’equidistanza. Il pensiero equidistante è per eccellenza un pensiero incerto e ambivalente,
impossibilitato a scegliere […] e la legge dell’equidistanza alita sempre nei sotterranei dell’inconscio sino ai
fastigi della conoscenza teoretica. Fa scoppiare il dramma mentale e infine anche comportamentistico, della
scelta di un oggetto e, contiguo, il sentimento d’irrealtà come non scelta dell’oggetto in sé: ossia della realtà.
(IQ, p. 50)
Nel pensiero narcisistico il non essere s’incarna nel non esistere che, coadiuvato dal vuoto
del sentimento d’irrealtà, s’indurisce verso la scelta del suicidio che è la concretizzazione del non
esistere. Ma quale scelta è questa, se l’uomo narcisistico non può scegliere per la legge
dell’equidistanza? Come ci si può suicidare dopo aver compiuto una scelta? Ottieri descrive un
uomo non dissimile dalla persona x che sta andando contromano in autostrada, o forse è la stessa,
che cammina in sottile equilibrio su un altissimo cornicione di una casa. Pensa al suicidio ma non
riesce ad attuarlo, e se non è in grado di sciogliere il dilemma tra la vita e la morte, che stanno
davanti a lui come due oggetti perfettamente equidistanti, egli sta scegliendo la vita pur non volendo
vivere: è la legge dello status quo, sul piano del comportamento la non-scelta è sempre una scelta:
«Il dilemma non è tanto il vecchio essere o non essere, quanto la vertigine del capire che, nel dubbio
fra essere e non essere, pur sempre si è. E tuttavia sembra effettivamente, anche, che non si è.
Nell’esistere si sperimenta il non esistere» (IQ, p. 51). Essere e contemporaneamente non essere
riflette la suprema incertezza, e il sentimento d’irrealtà cala gli ormeggi proprio in mezzo a tale
equidistante ambiguità: si trova al centro tra la vita (l’essere) e la morte (non essere).
Il sentimento d’irrealtà è accanitamente ambiguo. Esso è anche una difesa dalla realtà – così gli
psicoanalisti lo vedono – quindi dalla realtà come suicidio e dal suicidio come realtà. Esso
contemporaneamente evoca e tiene lontano il non esistere concreto. Un poco è una scarnificazione di sé e
della realtà. (IQ, p. 52)
Dopo l’elaborazione filosofica dell’Angor ergo non sum e la connotazione narcisistica,
Ottieri prosegue l’analisi del sentimento d’irrealtà che s’incarna nella psicopatologia della
depersonalizzazione attraverso due spinte: quella del linguaggio che risponde alle domande senza
risposta «Si può esprimere?» o «Si può rappresentare?» e quella della connessione, o frattura, tra
alienazione psicologica e sociologica. Il sentimento d’irrealtà non si può esprimere correttamente a
causa delle sue prerogative e occorrerebbe un linguaggio speciale per:
L’irrequietezza semantica che lo avvicina a molta arte contemporanea incerta tra metafora e delirio e
tipica per esigere anzitutto linguaggi nuovi. […] La pop-art ha avuto molta eco proprio perché ha eccitato il
nervo divisorio fra arte e non arte e fra realtà e irrealtà e ha dichiarato una nuova poetica della realtà. […] È
simile a una poetica dell’irrealtà quotidiana. (IQ, pp. 53, 162)
83
Dell’arte contemporanea cui fa riferimento Ottieri, il movimento della Pop Art assume gran
rilievo a causa della tecnica di rappresentazione che, proprio come il sentimento d’irrealtà,
seleziona brandelli della realtà all’interno di un’intelaiatura concepita dal sentimento irrealistico.
Il sentimento d’irrealtà è il banco di prova, sia scientifico che estetico, della rappresentazione
artistica; di un’arte che camminando si sia trasferita dalla scoperta della realtà alla scoperta del rapporto con
la realtà e con se stessa e quindi che, nel ragionamento, arrischia la propria morte: tappa riflessiva
(irrealistica) succeduta a una tappa estroflessa (neorealistica, realistica). La pop-art ha avuto molta eco
proprio perché ha eccitato il nervo divisorio fra arte e non arte e fra realtà e irrealtà e ha dichiarato una nuova
poetica della realtà: invero, isola frammenti scelti della realtà, dentro una cornice inventata del sentimento
irrealistico. È simile a una poetica dell’irrealtà quotidiana. Il muro di gabinetto di Dine è brutto e già kitsch:
comunque, è realistico in quanto allucinatorio. L’ossessione del quotidiano sbalza l’oggetto a rimanere
figurativamente tale, anzi tale e quale, né astratto né deformato, ma fuoriuscito dallo sfondo della percezione
realistica con una ironia che è allucinazione. Nella allucinazione non vedo alterato l’oggetto, lo scorgo
esattamente come è, ma dove e quando non c’è. È un caso di sentimento d’irrealtà quotidiana fatto progredire
sino a un delirio artificiale. (IQ, pp. 162-163)
Con la sua nuova poetica della realtà la Pop Art è dunque per Ottieri simile a una poetica
dell’irrealtà quotidiana. Si tratta senza dubbio di un elogio per quegli artisti che, constatando la
perdita del loro monopolio sull’immagine nella tecnocratica e consumistica società di massa, si
applicarono ai linguaggi della moderna comunicazione visiva assumendo a base delle loro opere gli
oggetti di consumo insieme alle immagini moltiplicate e stereotipate dei mass media, della
pubblicità, dei fumetti, attraverso una figurazione che ricalcava, con diverse modalità critiche e
inventive, il flusso freddo dell’immaginario nella moderna società urbana e mercificata che aveva
già attuato una distanza estraniante tra l’uomo e i processi di massificazione e standardizzazione. La
Pop Art attinse i propri soggetti dall’universo del quotidiano, in particolare quello metropolitano
della società americana, fondando la propria intelligibilità sul fatto che gli elementi caratteristici
delle loro opere erano assolutamente noti e riconoscibili, con immagini banali e quotidiane
attraverso gli stessi procedimenti formativi dei mass media, dunque spersonalizzati, rigorosi,
meccanici, moltiplicati su larga scala, ma svuotati della loro essenza dopo aver prelevato
l’immagine dai normali circuiti dell’informazione di massa per presentarla in un altro contesto.
Questo parallelismo del sistema Pop Art, ossia riprodursi artisticamente come una merce, riuscì a
svelare il sentimento di vuoto e di assenza quotidiana percepibile nella società contemporanea:
l’arte Pop volle dunque smascherare l’opacità del reale, svelarlo, portarlo alla luce attraverso la
tecnica dello spaesamento con due procedimenti base: il raddoppiamento e la dislocazione. Come
rivela Ottieri, la Pop Art «isola frammenti scelti della realtà, dentro una cornice inventata del
sentimento irrealistico», riuscendo in questo modo a rappresentare un qualsiasi oggetto, anche il più
banale estrapolato dalla vita quotidiana, allucinandolo sullo sfondo di un’impensabile percezione. Il
sentimento d’irrealtà si presenta per Ottieri attraverso un procedimento simile, cioè mediante
84
l’estraniazione della quotidianità che concede allucinazioni continue di un oggetto comune.
Tuttavia, nonostante la vicinanza con la Pop Art, Ottieri deve ammettere che il sentimento d’irrealtà
evita la cattura di qualsiasi rappresentazione rimanendo astratto e sottraendosi furbescamente a ogni
immagine. E solo in un secondo tempo si tenterà di coglierlo di sorpresa con uno stratagemma
particolare, concretizzandolo da un punto di vista letterario attraverso il riferimento ad alcune opere
di Moravia e Berto nelle quali il sentimento d’irrealtà, anche se con maschere diverse, si erge a
protagonista connesso al fenomeno dell’alienazione.
Se la rappresentazione del sentimento d’irrealtà si arresta, ma solo in apparenza, all’origine,
emerge nell’Irrealtà quotidiana una questione molto complessa che chiama in causa il fenomeno
dell’alienazione, analizzato da Ottieri da diverse prospettive. Già partendo dal termine tedesco
Entfremdung, «alienazione», egli constata che Freud e Marx lo utilizzarono indifferentemente anche
in ambiti diversi, «senza contare che l’Entfremdung di Marx è già la derivazione materialistica di
un’altra Entfremdung, quella idealistica di Hegel» (IQ, p. 52). Per Ottieri si deve chiarire, in primo
luogo, il significato profondo del termine e le differenze semantiche presenti nelle diverse
alienazioni; a tal proposito Ricœur parlerà di «sovraccarico semantico che a forza di significare
tanto rischia di non significare più nulla del tutto»24. «Le distinzioni vanno ricordate quando corre
troppo l’abitudine di mescolare alienazione filosofica, economica, politica e psicologica in base a
certe loro somiglianze e di pasticciare con una Alienazione Unica confusa» (IQ, p. 77). Dietro l’uso
generico del termine per cui s’intende l’alienazione come divenire altro, l’essere o il sentirsi
totalmente estraneo, alieno, la prima riflessione teorica su tale fenomeno è attribuibile a
Campanella, il quale analizzò in un passo della Metaphysica il problema della conoscenza che
l’uomo ha della realtà come una forza che lo estrania dalla realtà stessa: «Conoscere è alienarsi;
alienarsi è impazzire, e perdere il proprio essere per acquistarne uno estraneo. Non è quindi un
conoscere le cose per quello che sono, ma un diventar cosa e un’alienazione. Ma alienazione è
follia, e quindi l’uomo impazzisce quando si trasforma in essere estraneo»25. Le riflessioni di
Campanella mettono in luce un elemento essenziale della poetica di Ottieri: l’estraniazione
dell’uomo dal mondo circostante e la sua relazione con le malattie mentali, stati d’irrealtà,
schizofrenia:
Si apre una tensione fra la mente e il corpo. […] La qualità della larghezza di divaricazione della
mente rispetto al corpo e viceversa non è facilmente definibile. (Si può anche chiamare alienazione). La
cosiddetta capacità d’essere altrove non è completamente una forza, né completamente una debolezza: è la
lotta tra l’immagine e la realtà. (IQ, p. 12)
24
25
RICŒUR Paul,
CAMPANELLA
Aliénation, in Encycloepeia Universalis, Paris 1968.
Tomaso, Metaphysica (1623), 3 voll., Zanichelli, Bologna 1967.
85
In seguito, il fenomeno riguardò soprattutto il linguaggio giuridico inteso come cessione,
dono o vendita di ciò che si possiede a titolo di proprietà. Una lunga elaborazione teorica risale a
Rousseau che nel Contratto sociale indica nella aliénation totale la cessione di sé con i propri diritti
a tutta la comunità, condizione cui possono ridursi tutte le altre clausole del contratto sociale:
l’alienazione si presenta così come l’atto di cessione positiva che istituisce la volontà generale.
Hegel invece respinge la teoria contrattualistica della formazione dello Stato in cui
l’alienazione si presenta come rapporto reciproco di cessione e scambio, individuando il soggetto
della storia non negli individui ma nello spirito assoluto che si scinde e si moltiplica in processo di
alienazione-estraniazione. Dalla Fenomenologia dello spirito emerge il significato di alienazione di
spirito come rapporto deformato o rovesciato tra la prassi sociale dell’uomo e le istituzioni da lui
create che vengono a contrapporsi al soggetto rendendolo, poiché parte ed espressione di esse,
estraneo a se stesso.
Nei Manoscritti economici-filosofici, Marx, attraverso la dialettica hegeliana della negatività
come principio motore, riprende il significato di alienazione in senso storico-materialistico
identificando nel lavoro materiale, presente nelle società capitalistiche, l’elemento suscettibile di
essere oggettivamente alienato in quanto produttore di un mondo mercificato. Per Marx il mondo
degli oggetti prodotti dall’uomo tende a costituirsi come autonomo di merci, la cui ragion d’essere
non è più nel soddisfare i bisogni dei produttori ma quelli del capitale che si sviluppa secondo leggi
proprie, trasformando i beni da valore d’uso a valore di scambio, per cui l’attività dell’uomo, in cui
si esprime la sua vita, viene reificata ovvero tradotta in cosa, la res. Marx quindi imputa alla
proprietà
privata,
di
formazione
economico-sociale
capitalistica,
la
causa
dominante
dell’alienazione che si presenta in cinque forme: religiosa, filosofica, politica, sociale, economica,
tutte riconducibili all’espropriazione del lavoratore da parte dei proprietari dei mezzi di produzione
capitalistica. I rapporti di produzione sono quindi il fattore essenziale dell’alienazione che si può
superare solo abolendo la proprietà privata.
Feuerbach nell’Essenza del cristianesimo elabora un’interpretazione religiosa del fenomeno,
osservando nella fede religiosa la forma principale di alienazione dell’uomo che, proiettando in un
essere mitico le migliori facoltà e attribuendo a esso i propri poteri creativi, si estranea da se
medesimo per rendersi schiavo delle proprie rappresentazioni. Nel Novecento si è continuato ad
analizzare il fenomeno dell’alienazione seguendo in parte il pensiero marxista come perdita che un
soggetto subisce per opera di varie forze sociali nella sfera sessuale, familiare, politica, economica.
In Lukács, Storia e coscienza di classe, sono connessi al concetto d’alienazione quelli di
reificazione, feticismo e falsa coscienza, stati distorti delle facoltà mentali conseguenti l’incapacità
di pensare dialetticamente e di modellare le categorie mentali sull’esperienza. Psichiatri francesi
86
hanno poi sviluppato il pensiero di Lukács sui rapporti tra falsa coscienza e reificazione, tentando di
trarre uno strumento esplicativo di vari stati psicopatologici, tra cui la schizofrenia. Gli effetti più
evidenti dell’alienazione sono la separazione di fatto del pensiero o della pratica del soggetto dalla
comprensione o dall’intervento attivo nei processi sociali e culturali dai quali dipende la sua
esistenza e ai quali egli stesso contribuisce; vi è quindi uno scarto tra l’essere e la coscienza, un
distacco tra l’essere per sé e la pratica collettiva in cui si è coinvolti; si parla in questi casi di
dissociazione. L’alienazione inoltre accresce oggettivamente l’ostilità tra gli uomini poiché
ciascuno percepisce l’altro come concorrente, avversario, nemico.
Per Sartre, Critica della ragione dialettica, l’alienazione è originata dalla scarsità che induce
gli uomini a entrare in conflitto, attraverso le guerre, per le risorse della terra. L’alienazione è
dunque il prodotto ultimo della scarsità, in altre parole del fatto che la natura è ostile all’uomo, onde
ciascuno si contrappone materialmente agli altri come concorrente e avversario. L’alienazione è
esperienza di tale ostilità della materia, come pure dei rapporti sociali plasmati dall’uomo per
combattere l’intrinseca indifferenza della natura.
Ottieri si era molto interessato alle varie riflessioni sviluppatesi sul tema dell’alienazione e,
partendo dalla prospettiva marxista, analizza gli aspetti più inquietanti della società industriale e
capitalistica del Novecento in cui gli individui sono sottratti a loro stessi e immersi in un mondo
mercificato, per giungere in seguito a un’analisi approfondita dell’alienazione psichiatrica. In
ambito psichiatrico il termine alienazione di solito si accompagna all’aggettivo «mentale» e, oltre al
significato generico di «follia», è utilizzato in due sensi specifici: innanzitutto nelle psiconevrosi
ossessivo-coatte in cui si parla di alienazione del Sé quando il soggetto, nel tentativo di tenere
lontane le proprie emozioni, le trasferisce fuori di sé vivendole come forze estranee; e in secondo
luogo nelle schizofrenie dove certi organi o aree corporee, e talvolta il corpo intero, vengono
alienati e quindi percepiti come se non appartenessero alla persona o come se fossero diversi da
come sono. L’esito di questa alienazione è la depersonalizzazione, di cui il sentimento d’irrealtà è
una componente. È necessario per Ottieri comprendere fin dall’inizio le differenze insite nei vari
aspetti dell’alienazione e in quali forme essa si presenta, perché la sua principale caratteristica è la
variabilità a livello economico, sociologico, politico e religioso, altrimenti le analisi sarebbero
lacunose e perderebbero ben presto l’obiettivo, ovvero comprendere e esprimere il sentimento
d’irrealtà:
Riflettere poco sulla differenza fra alienazione psicologica e alienazione sociologica, e infischiarsi
del loro rapporto, ha portato l’alienazionismo in salotto. Al contrario c’è l’obbligo di chiarire alienazione
psicologica e psichiatrica rispetto a alienazione filosofica, politica e economica, oggi che la malattia mentale
è vicina alla cultura e reciprocamente; e che mai l’alienazione più celebre, quella dell’operaio, si è tanto
allargata all’universo. […] Ovvie distinzioni vanno ricordate quando corre troppo l’abitudine di mescolare
87
alienazione filosofica, economica, politica e psicologica in base a certe loro somiglianze e di pasticciare con
una Alienazione Unica Confusa. (IQ, pp. 53, 76)
In questo passo Ottieri prende in esame tre importanti motivi che disseminerà nelle sue
opere: la co-presenza incessante di Marx e Freud, la malattia mentale come forma di cultura, e il
Male dell’operaio nella società industriale. Marx e Freud, «questo accoppiamento l’ho vissuto come
bisogno primario» (PAD, p. 62), le stelle fisse nella costellazione del Novecento, sono due modelli
culturali che guidano costantemente le riflessioni di Ottieri, dall’industria alla clinica alla politica,
senza tuttavia concretizzare alcun ideale salvifico in grado di arrestare la decadenza del mondo
contemporaneo, perché Marx e Freud possono garantire solo una cultura e una metodologia
letteraria, non una salvezza:
Il filo che lega la psicoanalisi e il marxismo si ritrova sempre: la presa di coscienza, l’idea limite di
libertà come superamento concreto (cioè economico nel marxismo ed emozionale nella psicologia analitica)
della necessità. […] Molti della mia generazione percepivano degli ostacoli a raggiungere ciò che volevano,
e sentivano che la tradizionale forza morale non serviva più. Questa maniera di sentire e di vivere ci ha
avvicinati alla psicologia del profondo e al marxismo, cioè a quelle tecniche, più che ideologie, le quali
mirano appunto alla rimozione, non moralistica, non idealistica, degli ostacoli, per il raggiungimento di una
più grande libertà, di cui abbiamo le capacità potenziali. (LG, pp. 34, 103)
Sulla malattia mentale come fenomeno di cultura è l’opera omnia di Ottieri che ne risponde,
mentre all’alienazione dell’operaio, affrontata già nel periodo industriale, lo scrittore dedicherà il
sesto capitolo della prima parte dell’Irrealtà quotidiana, dal titolo L’operaio pazzo, dove si
sovrappongono le immagini del povero operaio in fabbrica e del ricco borghese ingenuamente
libero consumatore di beni di consumo mentre:
La scoperta sociologica più inflazionata negli ultimi anni non è stata la diagnosi di alienato al povero
uomo che sembrava scegliesse di più, a colui che ingenuamente si credeva un libero, capriccioso
consumatore di beni di consumo? È stato l’ultimo pilone per completare il Ponte dell’Alienazione che ora
scavalca tutta l’umanità e non si vede su quale disalienazione si appoggi. (L’ultimo pilone è subdolo:
interessatamente l’hanno infitto i persuasori occulti, spostando il baricentro del neocapitalismo da monte a
valle, dalla fabbricazione alla distribuzione, per la maggior gloria del consumismo imperante). (IQ, p. 54)
Che rapporto ha il sentimento d’irrealtà con il fenomeno dell’alienazione? O meglio, con
quale alienazione in particolare? Poiché è un sentimento squisitamente individualistico, solipsistico
ed estraneo a esperienze collettive, sopprime la realtà e gli uomini come un’alienità che cancella
l’alterità. Eppure esso non ha mai origini univoche, vale a dire non solo psicologiche, giacché la
realtà determina condizioni sociali e stati psichici particolari: «Al primo colpo d’occhio il
sentimento d’irrealtà sembra la rete di confine fra alienazione in sede psicologica, che spesso ne è
invasa, e alienazione sociologica dove l’infiltrazione del sentimento d’irrealtà sarebbe respinta da
88
una superficie liscia e oggettiva come la pietra» (IQ, p. 54). L’Entfremdung rimarrebbe
ambivalente, marxiana e freudiana insieme, anche se resta da capire quale tipo di coinvolgimento,
attivo o passivo, ne possa derivare. L’Entfremdung è un’«alienazione-a-qualcosa», un passivo
rinunciare a se stessi per consegnarsi a un potere estraneo, quindi la vera alienazione, che ben si
addice al modo in cui l’uomo subisce il sentimento d’irrealtà. Da distinguere sia dalla Verfremdung,
«alienazione-da-qualcosa», estraniamento attivo e voluto dalla cosa; sia dalla Entäusserung,
«l’oggettivazione», che «è la faccia ottimistica, assolutamente priva di sentimento d’irrealtà,
dell’alienazione intesa come prassi, […] positiva perché dialettica non nello spirito ma nella realtà
concreta, storico-materiale» (IQ, p. 55); sia dalla Verdinglung, «reificazione» o «cosificazione», in
cui l’alienazione non riscattata si trasforma nella totale perdita del mondo comportando fenomeni
psicotici quali la schizofrenia, oppure il «sentirsi divenire una cosa».
Concludendo queste riflessioni Ottieri giunge a determinare, per quanto sia possibile almeno
nella teoria, il sentimento d’irrealtà. Esso riguarda dunque un esito dell’alienazione psichiatrica, in
altre parole la depersonalizzazione intesa come un processo psicologico in cui l’individuo non
percepisce più se stesso come presente nella vita quotidiana e interagente con i propri simili. Ottieri
analizza i tre aspetti della depersonalizzazione: autopsichica, quando si ha incertezza sulla propria
entità personale avvertita come cambiata, estranea, irreale; somatopsichica che riguarda il proprio
corpo; allopsichica, che combacia con l’Entfremdung, in cui il mondo esterno appare irreale. Questa
condizione, caratterizzata anche da un vuoto emotivo e dall’apatia, si accompagna alla
derealizzazione, o meglio la perdita progressiva del senso della realtà. In sintesi, il sentimento
d’irrealtà si può intendere più generalmente come un’alienazione dell’esistenza che giunge fino alle
Apocalissi, erodendo ogni istante di vita quotidiana poiché «l’irrealtà quotidiana è per l’appunto il
contrario dell’ovvietà quotidiana, è la perdita di essa e dell’ovvio calore dell’esserci» (IQ, p. 59).
Nella letteratura italiana il tema dell’alienazione s’impone in particolar modo negli anni
Sessanta quando scrittori come Moravia, Piovene, Berto, Volponi, Parise, Mastronardi, Bianciardi,
Del Buono, Malerba, Pasolini e Calvino tentarono di esplorare il vuoto e l’incomunicabilità della
vita moderna, rappresentando una società in piena trasformazione tecnologica e immersa
nell’assurda banalità di un’esistenza sempre più mercificata. Dal secondo dopoguerra vi è stata,
infatti, una radicale trasfigurazione della struttura sociale italiana in seguito alla ricostruzione
neocapitalistica che ha modificato il carattere, le abitudini, i comportamenti degli uomini. Sono gli
anni del cosiddetto miracolo economico che, con la diffusione dei consumi di massa e
l’elaborazione di nuovi modelli culturali, ha trasformato la vita quotidiana attraverso modelli di
comportamento e desideri omogenei uniformati in funzione della produzione e del rapido consumo
di mode e gusti. I rapporti di ciascuno con gli oggetti e con le persone si privava inevitabilmente di
89
umanità e valore, tendendo a svolgersi in modo automatico fuori della ragione, della coscienza e del
sentimento, con drammatiche conseguenze quali l’incomunicabilità e l’alienazione in cui anche gli
scrittori furono immersi.
L’alienazione, da Ottieri studiata da ogni prospettiva, diventa nelle sue opere materia
letteraria, vissuta o meglio sofferta dai personaggi alienati nella società come all’interno di un
manicomio; il viaggio nella storia romanzata dell’Irrealtà quotidiana inizia proprio da questo
presupposto, e il protagonista alter ego Vittorio Lucioli incarna il sentimento d’irrealtà connesso
agli stati di alienazione. Un problema metodologico tuttavia si pone per Ottieri: dov’è la
concretezza, la vicenda da raccontare, la realtà nel sentimento d’irrealtà? E come si può
rappresentare l’alienazione? Ottieri comprende che per rendere “concreta” l’alienazione è
necessario riprodurla nella scrittura, così che nel viaggio filosofico-psicanalitico-romanzato
dell’Irrealtà quotidiana si analizzano i due romanzi Il male oscuro di Berto e La Noia di Moravia
che esemplificano, da un punto di vista culturale e letterario, le riflessioni teoriche precedentemente
espresse per i fenomeni di alienazione, depersonalizzazione, sentimento d’irrealtà, angoscia e
depressione. Questi testi hanno date di pubblicazione significative, tra gli anni Cinquanta e
Sessanta, e vengono esaminate da Ottieri con l’ausilio del lavoro di psicologi contemporanei, tra i
quali i soliti noti Perrotti, Bouvet, Tomasi di Palma, Gabel, permettendo all’Irrealtà quotidiana di
realizzarsi culturalmente in quel periodo, anche se l’opera, col trascorrere degli anni, non sembra
aver perso quel dirompente vigore né quella vitalità avvertita al tempo della prima pubblicazione
del ’66.
Berto nel Male oscuro26 racconta una nevrosi d’angoscia in cui per la prima volta nella
letteratura italiana, a eccezione di alcuni lavori di Svevo e Pirandello, i temi dell’inconscio e della
psicoanalisi sono affrontati con coraggio da uno scrittore che tenta di sviscerare le cause di una
malattia mentale, la depressione, allora quasi sconosciuta e non facilmente diagnosticabile. Tra il
corpo e la psiche s’innesta il viaggio intellettuale di Berto nel cuore del miracolo italiano e delle sue
contraddizioni, vissuto da chi deforma la realtà a causa della propria sofferenza. Ed è questa la
peculiarità del romanzo che interessa Ottieri: la malattia diventa uno strumento per analizzare senza
intermediazioni la realtà e se stessi, mentre la scrittura può scandagliare i più reconditi processi
psichici dell’uomo per renderli, almeno in parte, comprensibili sulla pagina. Il romanzo di Berto si
struttura come un’auto-riflessione, un’auto-analisi dal ritmo incessante, liberando l’espressività
della parola che descrive ciò che non può essere rappresentato come l’oscuro abisso della malattia
mentale. Sono molteplici gli elementi che dal Male oscuro filtrano non solo nell’Irrealtà quotidiana
26
BERTO
Giuseppe, Il male oscuro (1964), Rizzoli, Milano 1966.
90
ma anche nelle altre opere di Ottieri come Il campo di concentrazione, Il pensiero perverso,
L’infermiera di Pisa.
La differenza tra dolore e angoscia sembra perspicua in qualsiasi nevrotico. Ma nei depersonalizzati
la difesa dal dolore prende quel tono estremo di attonimento, distacco, impallidimento di vita. […] La eco
divulgativa di una simile diagnosi differenziale sta nel Male oscuro di Berto: sul finire del romanzo e della
psicoterapia narrata, il protagonista scopre di non provare più angoscia, ma dolore al repentino tradimento
della moglie: lo scopre la sera, e la mattina l’analista l’aveva dimesso giudicandolo guarito. (IQ, pp. 126127)
Il male oscuro e L’irrealtà quotidiana sono pubblicate nel cuore degli anni Sessanta, 1964 e
1966, all’interno di un contesto letterario nebuloso e fitto di sperimentalismi, neoavanguardie,
antinomie in cui autori come Moravia, Parise, Mastronardi, Bianciardi, Sciascia, Pasolini, Morante,
stavano descrivendo il periodo contraddittorio del boom economico con i suoi stravolgimenti
sociali. L’impronta data da Berto in tale prospettiva è determinata dalla malattia attraverso cui
Ottieri struttura la propria poetica partendo anche dall’aspetto autobiografico del Male oscuro:
Da quando Flaubert ha detto «Madame Bovary sono io» ognuno capisce che ogni scrittore è
autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé, cioè quando si propone più
scopertamente il tema dell’autobiografia, perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare
dall’altra possono portarlo a una addirittura maliziosa deformazione di fatti e persone. (Male oscuro, p. 6)
Berto apre il proprio romanzo con tre motivi che attirano l’attenzione di Ottieri:
l’autobiografia, il narcisismo e la scrittura. Interessante è il rapporto dello scrittore con la sua opera,
il proposito artistico quando egli avverte che «è la storia in un certo qual modo a scriversi da sola»
(Male oscuro, p. 8), riflettendo implicitamente sul ruolo concesso a chi elabora sulla pagina la
propria esistenza, in quella forma di bio-letteratura riscontrabile in Ottieri. L’elemento essenziale
della vita è la malattia, oscura, dell’anima e del corpo, che disintegra l’Io provocando stati
quotidiani d’esaurimento nervoso, angoscia, sofferenza, ansia, pazzia, alienazione.
La spiegazione corretta alla quale arrivai per mezzo della psicanalisi apprendendo tra l’altro che il
mio esaurimento si chiamava bellamente nevrosi da angoscia. […] Un bel disastro aveva combinato con
quell’esaurimento nervoso che ogni tanto mi scaraventava di colpo nei regni del terrore e del pianto. (Male
oscuro, pp. 155, 165)
L’esaurimento nervoso di cui parla Berto riguarda un generico processo d’indebolimento
dell’organismo che comporta una modificazione della struttura psicofisica dell’individuo dovuta al
perdurare di situazioni fisicamente o psichicamente sfavorevoli, con riduzione del rendimento e dei
fattori funzionali e organici. Si distinguono in genere due forme di esaurimento, fisico e psichico,
mentre tra le cause vengono indicate frustrazioni, dispiaceri e preoccupazioni che, a lungo andare,
91
creano uno stato di tensione tale da indurre modificazioni fisico-chimiche delle cellule del sistema
nervoso centrale in persone eccessivamente scrupolose o sovraccariche di lavoro e di responsabilità.
Quella avvertita da Berto è una malattia complessa contraddistinta da una crescente disperazione
che non permette un prossimo risanamento, «oscura e infinita… è qualcosa di più perverso che va al
di là della fine, è lo smarrimento dell’eternità forse l’inferno oltre la vita» (Male oscuro, p. 224),
che Ottieri espliciterà nell’inferno del Campo di concentrazione e nel Pensiero perverso. Il Male è
vissuto in prima persona nel corpo e nell’anima, e dagli stati di crisi perenne in cui si perdono i
contatti quotidiani con la realtà, le sensazioni di Entfremdung e di Welt-Untergang-Erlebnis
vengono provate senza intermediazioni: «Mentre io per esempio sarei capace di sentire nel rumore
lontano di un treno che pur resta il rumore lontano di un treno il presagio imminente della fine del
mondo» (Male oscuro, p. 245).
Per Berto l’origine del Male riguarda la lotta con il Padre, evidenziata già nella prima frase e
ripresa in diversi passi del romanzo, come nell’arrivare tardi al suo funerale con i successivi sensi di
colpa che caratterizzano l’oscura malattia dell’anima.
La mia lotta col Padre mi sembra quanto basta varia e lunga da poter essere argomento di una storia.
[…] La volta che mio Padre morì, io arrivai, naturalmente, tardi, ossia quando l’avevano già bello e
sistemato su uno dei cinque o sei tavoli di marmo della tavola mortuaria. […] Ancorché poi nell’inconscio
mirassi a raggiungere risultati ancora nebulosi, oggi però del tutto lampanti e strettamente connessi con quel
diffuso senso di colpa che, com’è fin troppo chiaro, si è sviluppato in me fuori di misura soprattutto grazie
agli influssi paterni. […] Questo segnò l’inizio benché ancora lontano e recondito dell’oscura malattia che mi
venne nell’anima, anzi diciamo senz’altro che è nata da lì questa brutta malattia. […] Poi una volta
congedato s’era messo a vendere cappelli, ombrelli e berretti, che dopotutto per lui era una bella cosa, e poi
aveva avuto una moglie affezionata e fedele, e figli non tutti venuti su male come me. (Male oscuro, pp. 9,
14, 15)
Anche in Ottieri lo scontro con il Padre è uno dei motivi caratteristici degli sviluppi
successivi della malattia, e il poemetto Il Padre mostra tale conflitto fin dai primi versi, con chiare
analogie con la vicenda di Berto, come ad esempio il ritardo con cui egli si presenta alla morte del
genitore insieme al sentimento di esser nati male: «La pugna con lui fu dura. […] Io, figlio mal
riuscito. / Non poté neppure tanto avvilirsi / quando seppe che non sarei / venuto neppure a vederlo
morire. / Nell’immensa casa non poté vedere / che giunsi per egoismo / due ore dopo» (PAD, pp.
49, 54).
Berto e Ottieri intraprendono lo stesso rapporto conflittuale con la psicoanalisi e i medici sia
nell’ambito dell’autonomia della loro letteratura, in equilibrio tra libertà d’espressione e fuorvianti
interventi dell’analista, sia nella scelta della terapia da seguire. Si apre un nuovo interminabile
conflitto con sullo sfondo l’onnipresente psicoanalisi, strumento di guarigione e nello stesso tempo
di tortura, di aiuto intellettuale e di ampliamento della sofferenza. Oltre alla terapia psicoanalitica
92
non possono mancare i sogni, analizzati in varie riprese nel Male oscuro e presenti in molte opere di
Ottieri.
Comunque una volta che si è giunti alla decisione psicoanalitica si è fatto solo il primo passo perché
subito dopo bisogna prendere altre decisioni particolareggiate, ossia se è preferibile un analista junghiano
dalla psicologia complessa o un freudiano che propende piuttosto per il pansessualismo, e in quest’ultimo
caso se è preferibile uno di scuola viennese o svizzera o inglese dato che da noi la scuola americana pare non
venga contemplata. (Male oscuro, pp. 283-284)
Inoltre ci sono altri punti di contatto che valorizzano l’importanza del Male oscuro nel
percorso letterario di Ottieri, soprattutto nell’ambito delle argomentazioni psicologiche e filosofiche
riguardanti la malattia. In un passo del romanzo, ad esempio, Berto accenna a una svolta a U che
effettuerà la persona x nell’Irrealtà quotidiana: «Devo per forza proseguire poiché succede che nei
tratti brutti non si può retrocedere né tantomeno eseguire la cosiddetta conversione a U ossia girarsi
per tornarsene a casa» (Male oscuro, p. 257). «Dunque il corpo va verso A […] ma il flusso
d’intenzione verso A lentamente rimatura per B dentro al corridoio del cervello e arretra, rifluisce,
gira, fa una svolta a U proibitissima sull’autostrada e riparte contro un muro di aria solida» (IQ, p.
16). Diversa è l’atmosfera e l’intenzione di chi sta guidando: in Berto si ha la necessità di
proseguire un viaggio, mentre in Ottieri un processo mentale germinato dal dramma della scelta non
consente alcuna risoluzione accettabile. Non vi è in apparenza identità d’intenzioni, eppure
l’immagine dell’inversione a U, incontrata nel romanzo di Berto, potrebbe aver indotto Ottieri per la
rappresentazione fisica dell’eterno dramma della scelta.
Un altro elemento rilevante è il letto: «Noi ammalati abbiamo qui il nostro letto che è il
feticcio della malattia. Non ho voglia di scendere in città con un’infermiera per poi risalire qui al
feticcio del letto» (CC, p. 71). «Ora sto a letto tutto il giorno con le mani sopra la pancia a sentire il
mio cancro che rode e se per caso mi alzo e vado in giro faccio paura con i miei occhi spiritati
appena appena addolciti dalla consapevolezza che sto andandomene nel modo più ingiusto che si
possa immaginare» (Male oscuro, pp. 280-281).
Il rapporto tra vita e scrittura è decisivo per l’uomo e scrittore Berto nel quale le due figure
si coagulano nel romanzo come lui stesso ha evidenziato nell’incipit: è difficile vivere in quelle
condizioni e anche lo scrivere riflette uno stato in cui il male si alimenta dalla scrittura stessa. Il
medesimo interrogativo animava Ottieri durante l’elaborazione delle sue opere: che tipo di
letteratura può nascere dalla malattia che influenza ogni percezione dell’esistenza? La risposta, mai
definitiva, verrà ricercata attraverso una scrittura-specchio della malattia.
Dato il capolavoro che mi restava da scrivere, nelle mie presenti condizioni per me era difficile non
solo scrivere ma financo vivere. […] E non c’era mi pare scusa più bella della malattia, e ecco quindi il
93
semplice contegno per cui l’ambizione di scrivere un capolavoro alimentava il male. (Male oscuro, pp. 285,
364)
Il problema del vivere e dello scrivere ha pesato su tutta la mia vita. Non l’ho mai risolto, o
scrivendo troppo o vivendo troppo (senza scrivere). […] Sto attaccato allo scrivere come a un salvagente.
[…] Scrivo unicamente per sopravvivere, scrivo per vivere, per gettare un ponticello sopra l’abisso. (CC, pp.
14, 17, 21)
L’altro incontro letterario di notevole importanza compiuto da Ottieri nell’Irrealtà
quotidiana riguarda Moravia attraverso l’analisi morale e psicologica di Dino, protagonista del
romanzo La Noia27, tormentato da un grave disagio esistenziale che lo porta ad avere rapporti
indifferenti, estranei verso gli altri e gli oggetti. La sua esistenza è determinata da scelte tortuose,
turbamenti interiori, rapporti difficili fino all’estraniazione dal mondo, all’aridità comunicativa e
all’ostilità insuperabile verso cose e persone. La noia è una condizione psicologica caratterizzata da
insoddisfazione, demotivazione, riluttanza all’azione e sentimento di vuoto, segnalata fin dalle
trattazioni medievali con il nome di acedia da cui il celebre passo nel settimo canto dell’Inferno:
«Fitti nel limo dicon: «Tristi fummo / ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, / portando dentro
accidïoso fummo: / or ci attristiam ne la belletta negra» (Inf., VII, 121-124). La tristezza, tristitia è
sinonimo di accidia nei testi teologici medievali, è la connotazione tipica degli accidiosi che, anche
dinanzi alla luce del sole splendente sulla terra, preferirono il buio delle loro sensazioni e perciò
sono condannati all’inazione totale, immersi nel fango sul fondo della palude melmosa senza alcuna
possibilità di movimento.
La noia che travaglia Dino si esprime fin dalla prima frase romanzo con una cessazione:
«Ricordo benissimo come fu che cessai di dipingere» (Noia, p. 5), per poi svilupparsi in sintomi
quali l’insufficienza nell’agire, l’inadeguatezza delle scelte, la scarsità provata nei confronti di una
realtà non più comprensibile o assimilabile concretamente, specchio impietoso di un malessere
oscuro:
Mi accorsi che tutta la mia energia si era scaricata in quel gesto di distruzione. […] Il senso di
catastrofe che mi stringeva alla gola mi aveva portato all’impotenza completa. […] La noia, per me, è
propriamente una specie d’insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. […] È buio e vuoto, […] una
malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina. […] Il sentimento
della noia nasce in me da quello dell’assurdità della realtà, insufficiente ossia incapace di persuadermi della
propria effettiva esistenza. […] Soffrivo di una specie di paralisi di tutte le mie facoltà, per cui, muto, apatico
e ottuso, mi pareva di essere murato vivo dentro me stesso, come dentro una prigione ermetica e soffocante.
[…] La noia era in fondo mancanza di rapporti con le cose, mancanza di rapporti con me stesso. So che sono
cose difficili a spiegarsi. […] La noia aveva corroso a fondo la mia vita con l’impossibilità pratica di stare
con me stesso. (Noia, pp. 6, 7, 14, 19, 20)
27
MORAVIA
Alberto, La noia (1960), Bompiani, Milano 2007.
94
Il senso d’estraneità e di assurdità della realtà circostante fa scaturire in Dino il sentimento
di noia, difficilmente esprimibile e senza via d’uscita, con la consapevolezza di non aver più alcun
rapporto con le persone e gli oggetti della vita quotidiana. Tendenze coercitive e irrazionali
spingeranno poi il protagonista a ripetere determinati comportamenti (coazione a ripetere
compulsione o costrizione) di cui egli stesso riconosce l’inutilità, ma la cui mancata esecuzione
provoca angoscia, mostrando chiaramente il carattere ossessivo della sua nevrosi. Per superare
questo stato di malessere quotidiano e recuperare il rapporto con la realtà, Dino sceglie la pittura:
un’espressione artistica utile, come la scrittura in Ottieri, per riacquistare quella parte di sé che
evapora a causa della malattia.
Seguendo la vicenda di Dino, si comprende come egli sia, se non il fratello, comunque un
parente molto stretto di F., di Lucioli e di altri personaggi ottieriani legati tra loro dagli stati
d’alienazione vissuti drammaticamente nel rapporto con il mondo. La noia, la variante romanzesca
del sentimento d’irrealtà secondo Ottieri, è il sintomo svelato dell’alienazione sofferta da Dino, che
è nello stesso tempo di tipo economico e psicologico:
Dino è un esempio vivo di sentimenti d’irrealtà a provenienza economica […] in cui si mescola la
psicologia: l’irrealtà di Dino è provocata dai soldi non guadagnati che la madre gli elargisce ricattandolo
affettivamente, con un miscuglio di privilegio sociale e di epidismo. […] Denuncia una situazione particolare
che ha cause particolari. […] Il sentimento d’irrealtà storico prevale ora sulla ipotesi di un sentimento
d’irrealtà eterno. (IQ, p. 65)
La causa della noia sta nel feticismo borghese del denaro che comporta la derealizzazione e
la reificazione non solo di Dino ma della società intera. Tale alienazione economica, «vi era un
nesso indubitabile benché oscuro tra la noia e il denaro» (Noia, p. 13), regola i rapporti tra Dino e
gli altri due personaggi importanti del romanzo: la madre e la sua ragazza Cecilia. Il «miscuglio di
privilegio sociale e di epidismo» di cui parla Ottieri si riscontra nella condizione economica della
famiglia di Dino che obbliga il ragazzo a essere ricco usufruendo di tutti i privilegi connessi anche
senza volerlo: «Mi annoiavo perché ero ricco» (Noia, p. 13). È attraverso il denaro che Dino
costruisce suo malgrado i suoi rapporti non solo con la madre, a causa dei continui prestiti di soldi,
ma anche con Cecilia fino alla grottesca scena dell’amplesso con la ragazza ricoperta di banconote
sul letto della madre. Con quest’ultima, possessiva e castratrice, si crea un rapporto di «epidismo»
per cui la villa rappresenta il suo stesso utero provocando nel ragazzo «il solito sentimento di
disagio e di ripugnanza. […] Un costernato orrore. Un orrore come chi si accinga a commettere un
atto contro natura, quasi che, imboccando il viale, fossi in realtà rientrato nel ventre che mi aveva
partorito. […] E adesso? Adesso che ci stavo in questo ventre non ne sarei mai più uscito» (Noia,
pp. 24, 25, 35). La scena della colazione nel giorno del compleanno di Dino è paradigmatica; alle
95
pressanti domande del figlio sul patrimonio di famiglia, la madre non vuole rispondere alla presenza
della cameriera e preme, sotto il tavolo, il piede del ragazzo per farlo tacere:
Quel piede di mia madre sul mio m’ispirò addirittura un sentimento di disperazione. Dunque, lei mi
premeva il piede come fanno gli innamorati fra di loro; soltanto che eravamo madre e figlio e il legame che
ci univa non era l’amore bensì il denaro. D’altra parte io non potevo rifiutare questo legame, perché rifiutarlo
avrebbe voluto dire rifiutare anche il legame di sangue che esso sottintendeva. (Noia, pp. 48-49)
Anche con la ragazza Cecilia, è il denaro a regolare il rapporto con sentimenti di venalità,
valutazioni mercificate delle persone, feticismo. Come la madre tenta, attraverso il denaro, di
impadronirsi del figlio, così Dino si lega a Cecilia con la profusione di un numero sempre maggiore
di banconote che, in una scena del romanzo, la ricoprono per tutto il corpo dove «il denaro si fa
carne e sangue» (Noia, p. 315). La ragazza inoltre è il personaggio specchio di Dino; come in
quest’ultimo si scorge un particolare complesso d’Edipo, in Cecilia non si celano sentimenti
d’amore verso il Padre che si riassumono in psicoanalisi nel complesso di Elettra: «Quando io ero
più giovane, avevo avuto una vera passione per mio Padre» (Noia, p. 89). La caratteristica
determinante di Cecilia è l’inafferrabilità: figura di maniera, spesso astratta, dalle risposte
meccaniche ed evasive, sempre sfuggente, non può essere agevolmente catturata neanche con il
denaro. Da qui la gelosia di Dino che si esprimerà con appostamenti, scenate violente, sentimenti
distorti, attese spasmodiche dinanzi al telefono o al portone di casa mentre Cecilia incontra altri
uomini.
Ne La noia, Moravia proietta il fenomeno dell’alienazione nel contesto dell’Italia
neocapitalistica del boom economico degli anni Cinquanta, all’interno di una borghesia industriale
che, come l’insieme della società, si stava radicalmente trasformando nell’arco di alcuni decenni.
Nell’analizzarla Moravia combina motivi ricavati dall’esistenzialismo, dal marxismo e dalla
psicanalisi28 attraverso cui l’assurdità del reale s’intreccia con la moderna condizione borghese,
precisando in questo modo una causa storica ben precisa: il moderno capitalismo. Nel romanzo vi è
la compresenza di Marx e Freud come elementi culturali, in un’analisi nello stesso tempo
sociologica e psicanalitica della società attraverso le vicende di un particolare nucleo familiare.
Ottieri legge in Moravia un esame dell’alienazione non solo come crisi del rapporto con la
realtà ma soprattutto come fenomeno determinante del mondo contemporaneo, connessa al
neocapitalismo che si è esteso su tutta la società con le sue degenerazioni politiche per cui
28
«Anche se Moravia non ha letto molto di Freud, la psicoanalisi è stata per lui un garante intellettuale, una
conferma obbiettiva intellettuale per cui i rapporti tra gli uomini, e tra l’uomo e le cose, appaiono a un tratto in una
prospettiva totalmente diversa e nuova. Per Fernandez, la psicoanalisi è stata per Moravia la scoperta di una nuova
problematica. […] Sono tutti convinti dell’importanza tematica e rivoluzionaria della psicoanalisi nell’opera di
Moravia. Quando in Italia si vuol parlare di letteratura psicoanalitica, il primo nome che si fa è sempre quello di
Moravia». Dall’Introduzione di Michel David ne La Noia, cit.
96
«l’operaio di Ford è altrettanto alienato come il suddito di Stalin» (IQ, p. 61). Anche Bouvet aveva
teorizzato la relazione oggettuale, ovvero il rapporto affettivo verso l’oggetto quale causa storica e
individuale per cui la perdita di quel dato oggetto avrebbe prodotto il sentimento d’irrealtà. È la
maledizione narcisistica che fa evaporare l’oggetto e l’uomo stesso che lo desidera; e pertanto,
perduto l’oggetto, l’uomo prova il senso di vuoto sentendosi lui stesso quel vuoto prosciugato e
sospeso, e «fra esso e la realtà scende il nero (o bianco) velario d’organza del sentimento d’irrealtà
che dunque ha la sua storia. La strutturazione della libido lo comanda» (IQ, p. 71). Se prevale il
sentimento d’irrealtà storico, Ottieri ne ricerca il casualismo nell’insieme delle cause e del loro
intreccio in diverse forme: meccanicistico, astorico, unilienare senza tuttavia centrare l’obiettivo
poiché ognuna di esse ha limiti strutturali. E tuttavia sono, come sempre, l’ambiguità e
l’incomunicabilità di tale sentimento, anche se osservato storicamente, a non determinare una
visione concreta della malattia esistenziale: «La morbosità nervosa e mentale è appunto un intrico di
radici il cui misterioso affondare spesso è l’anima della malattia. Malattia è il non sapere mai tutte
le cause, è il buio smarrimento del senso dei precedenti, della ragione o delle ragioni e dei legami
chiari innocenti con la realtà» (IQ, p. 66). Questa malattia Ottieri la percepisce nella noia di Dino
correlata al sentimento d’irrealtà di F., come se l’irrealtà potesse in un primo tempo sostituire
l’angoscia e offrire un’estrema difesa dalla realtà nel complesso rapporto tra l’irrealtà, l’inimicizia
col mondo e il delirio: «Gli autori psicanalisti hanno visto quasi tutti nella depersonalizzazione una
finzione difensiva» (IQ, p. 68). In quest’atteggiamento difensivo, il sentimento d’irrealtà è simile al
pensiero della morte, poiché entrambi si trovano oltre la vita ma necessariamente nella stessa e
vissuti durante l’esistenza. E Dino, anche lui intrappolato nel dramma della scelta, non sa se
continuare a vivere o suicidarsi: «Ogni tanto, tra queste frenesie della noia, mi domandavo se per
caso non desiderassi morire; era una domanda ragionevole, visto che vivere mi dispiaceva tanto. Ma
allora, con stupore, mi accorgevo che sebbene non mi piacesse vivere, non volevo neppure morire»
(Noia, p. 22).
II.3 Il pensiero perverso
Il pensiero perverso, opera di ampio respiro strutturato in quarantuno poemetti, rappresenta
l’esordio poetico di Ottieri e segue le prime esperienze letterarie dei romanzi, saggi e drammi. Da
quel momento la poesia entra con forza nelle sue preferenze espressive superando nel complesso il
97
numero dei romanzi29, anche se Ottieri non è mai stato un poeta lirico, nel senso che la sua poesia
nasce dallo sviluppo interno della prosa rispondendo al bisogno di ritmare le proprie riflessioni con
pause, rimandi, ripetizioni e versificazioni peculiari della poesia.
Non sopporto più le descrizioni, le lentezze della narrazione in prosa. Coi versi posso andare dritto al
centro del problema e poi, altro vantaggio, la poesia è più vicina al procedimento mentale psicanalitico,
quello che in linguaggio chic si chiama associazione involontaria e che detto terra terra suona: andar di palo
in frasca. (CRO, p. 181)
Lo stesso Ottieri preferisce definire il suo lavoro poetico come prosa ritmica che arriva sulla
pagina senza mediazioni per trasformare la sofferenza psichica in occasione letteraria. Il rapporto
del paziente-scrittore con la propria malattia è determinante in quanto lo scrivere rappresenta un
modo per sopravvivere anche in condizioni disperate, facendo ritrovare al poeta quell’io sminuzzato
e frammentato dopo vari mesi trascorsi in manicomio. La poesia di Ottieri nasce per un prodigio a
causa della debolezza della prosa che è condannata a descrivere troppo e lentamente, mentre la
forma poetica è più diretta e riesce a mettere in risalto senza intermediazioni i meccanismi
involontari della mente: «La poesia è un’irruzione irrazionale, nasce senza che io lo premediti. Sono
un narratore, tutti i miei libri di poesie nascono come per miracolo. O forse nascono da un
fenomeno di estenuazione della prosa» (ne Gli ultimi eccentrici). È presente in questo passaggio il
riferimento al procedimento della poesia involontaria adottato dai poeti surrealisti, anche se Ottieri
si dissocia apertamente dalla loro dottrina, in particolar modo quando viene chiamata in causa la
psicoanalisi:
Non convince che lo stile monologante, e di palo in frasca di certi scrittori, puntualmente venga detto
psicoanalitico. Fa il verso a un tono dell’analisi, l’associazione libera, ma l’analisi è più tragica:
l’associazione libera è sempre minacciata dall’autocoscienza razionalizzatrice e difensiva del paziente, di
rado è libera, spesso è programmata e sempre calamitata, come le maree dalla luna, dall’intervento
interpretativo dell’analista ordinatore per eccellenza. (IQ, p. 198)
L’associazione, in termini psicologici, riguarda la successione di pensieri che affiorano alla
mente in modo spontaneo da un determinato elemento, oppure senza controllo in modo dissociato.
Nell’ambito psicoanalitico si parla di libera associazione come della regola fondamentale, nel
trattamento analitico, per la ricognizione dell’inconscio e l’interpretazione dei sogni, mentre il
paziente dovrebbe rinunciare volontariamente alla censura cosciente per esprimere in libertà i suoi
pensieri, sentimenti, speranze, angosce. L’esercizio della pratica associativa dimostrò tuttavia che le
29
Saranno ben tredici le opere scritte in versi: Il pensiero perverso (’71), La corda corta (’78), L’estinzione
dello stato (’82), Versi adolescenziali (’86), Vi amo (’88), Il Padre (’90), L’infermiera di Pisa (’91), La questione
meridionale (’92), Storia del PSI (’92), Il palazzo e il pazzo (’93), Le guardie del corpo (’94), Il diario del seduttore
passivo (’95), Il poema osceno (’96) inteso nelle parti poetiche. I romanzi invece sono solamente undici.
98
libere associazioni non erano né libere né casuali poiché il paziente di solito metteva in relazione
fatti ed elementi connessi all’immediata situazione terapeutica. Inoltre la libera associazione viene
influenzata anche dalle resistenze che possono risultare indicative di ciò che il paziente vuole tacere
o evitare di conoscere. Poiché il freudismo è secondo Ottieri razionalistico e gerarchico, solo la
psicoanalisi poteva razionalizzare quei passaggi mentali che la poesia involontaria, scaturita da
un’associazione veramente libera, rendeva concreti sulla pagina. Sì all’irrazionalità, no al filtro
psicoanalitico, sembra ammonire lo scrittore, e di conseguenza le sue poesie cercano quello spazio
di libertà vietato a turno sia dalla metrica che dalla riflessione.
La poesia di Ottieri, mediante questo procedimento involontario, o surrealistico sui generis,
riesce a entrare in contatto più diretto con la malattia dando voce al pensiero ossessivo e alla
depressione che possono esprimersi direttamente sulla pagina senza mediazioni, superflue lentezze
o metafore. All’interno della clinica, la scrittura corre su binari paralleli a quelli dell’analisi e
scaturisce dalla necessità di tornare a vivere, o meglio di aggrapparsi fisicamente a un barlume di
vita anche se impalpabile per ritrovare se stessi e ricostruire il proprio io disfatto, sminuzzato,
alienato. La scrittura può quindi far reintegrare lo scrittore in sé ritrovando quell’io eroso dalla
malattia, ma con l’orizzonte continuamente sfuocato e con il rischio di confondere la propria vita
con la scrittura. Il pensiero perverso si rivela paradigmatico del modo di poetare di Ottieri: il
pensiero stesso origina la frammentazione delle immagini che si distendono sulla pagina senza
schemi fissi o modulazioni predefinite, in un vortice ossessivo privo di pause e in un versicolare
caratterizzato da cadenze litaniche che a volte determinano un ingorgo comunicativo. Il pensiero
perverso è la confessione poetica dello scrittore, vittima del proprio male e testimone oculare di una
condizione insopportabile. Accompagnata da un’esperienza specializzata, tale confessione viene
condotta in terza persona permettendogli un certo distacco da sé e, nello stesso tempo, una
dichiarazione di neutralità nei confronti della materia narrata non facilmente esprimibile.
Il pensiero di cui parla Ottieri è un’attività mentale che comprende diversi fenomeni come
ragionare, fantasticare, ricordare, e che permette di essere in comunicazione con la realtà esterna,
con se stessi e con gli altri, nonché di costruire ipotesi sul mondo e sul modo di pensarlo, e può
deteriorarsi nel delirio o disorganizzarsi come nell’erompere delle emozioni. Nei versi Ottieri
definisce il suo pensiero perverso, ossessivo, nero, infinito, devalorizzante, grossolano, sottile;
aggettivi che rientrano nell’area dei disturbi del pensiero:
Cerca di scrivere del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo / lasciatogli libero dal pensiero
ossessivo. / Non lavora, non esce, non mangia, / all’infinito perfeziona la tessitura d’aria / con un’aderenza
perfetta / schiacciata incollata alla cerebrale / spoletta. Schifiltosità disperata / verso ogni dolce
contaminazione, / non guarda, non tosse, immobile e puro / sfuggendo la pena che avvampa / dopo il
barlume di una distrazione. Se si accantona, se schiaccia / la molla del dubbio / essa scatta / più forte, il velo
99
opaco che era / nella scatola della testa / si indurisce, il dubbio marrone / scuro picchia da sinistra e da destra.
(PP, p. 9)
L’incipit del Pensiero perverso evidenzia alcuni elementi caratteristici tra cui la scrittura e la
scelta della terza persona per narrare la personale esperienza della malattia; intanto tra vita e
letteratura staziona il Male imperativo con cui bisognerà fare sempre i conti. Il tempo è davvero
esiguo nel momento di libertà sempre agognata e mai realmente raggiunta, tuttavia eterno nella
sofferenza, mentre l’immobilità determina la conditio sine qua non dello scrittore, statico nel
proprio non-essere che in verità è un essere pieno ma solo nell’ingorgo della malattia. La
distrazione appare in un bagliore, un lampo, e subito racchiusa nella concentrazione sul proprio
male mentre il dubbio, attinente al dramma della scelta, è invece un congegno a scatto che fa
rimbalzare i pensieri da una parte all’altra della mente senza requie.
Altri motivi, quali il succedersi delle ore, il rapporto mente-cervello, il vuoto, i colori, il
letto, la depressione, la psicoanalisi, avvicinano Il pensiero perverso al Campo di concentrazione,
applicazione l’una poetica e l’altra romanzata delle teorie formulate nell’Irrealtà quotidiana. Il
tempo e l’alternanza del giorno e della notte, nel corso dei quarantuno poemetti del Pensiero
perverso, hanno le stesse caratteristiche che si riscontreranno nel Campo di concentrazione:
l’incoscienza della notte è agognata come una quotidiana salvezza, tuttavia troppo labile e
passeggera, mentre il giorno, con la luce, il risveglio e la coscienza di esserci, provocano angoscia e
disperazione. Lo scorrere del tempo in tale succedersi di ore è lentissimo distillando e allungando la
sofferenza che accompagna lo stato depressivo, mentre il pomeriggio è vissuto come un penoso
infiacchimento di istanti fossilizzati dalle lancette dell’orologio, in particolar modo durante le prime
ore pomeridiane.
Fruga prevede cieca / nella visione storta / del mattino, / se sceglie si condanna, / la non scelta è
dannata. […] Impegnata, tesa è la testa nella notte, / inutile il corpo, l’istinto morto, / e misterioso, il buio /
istinto del cervello trivella / l’aria e il tempo. […] È vicino il mattino e più soffia vicino / più la spoletta urge
s’avventa nella testa. […] Troppo corta è sempre la notte / per il pensiero ossessivo, di natura / infinito. […]
Inganno che il dubbio ossessivo si calmi / la notte. / Dorme sì qualche volta. Rinviene / forte alla secca
tapparella aperta. / Evita il risveglio, prolunga il sonno / come un elastico. […] Progredisce nel tempo il
pomeriggio / doloroso e noioso come pura / consunzione del tempo; / aspetta – non può coglierla mai – / che
l’occasione passi, se la lasci / alle spalle, il tempo / medica il dubbio. Ma il dubbio / rinasce dal tempo. Quel
che è perdita / di tempo è per lui l’unico acquisto. (PP, pp. 10, 11, 14, 15)
Indicativa l’aggettivazione utilizzata da Ottieri nel descrivere tali stati emotivi: «storta» è la
visione del mattino che proietta il depresso a contatto della concreta realtà, altrove definita
«rachitica», mentre la notte è «corta» in opposizione al pensiero perverso «infinito» legato
indissolubilmente al dubbio già conosciuto nell’Irrealtà quotidiana come dramma della scelta.
Ottieri rovescia in questo modo il motivo classico della brevità della vita e della fugacità della
100
giovinezza, cantato dal poeta greco Mimnermo e in seguito da Catullo, Orazio e Lorenzo il
Magnifico, i quali invitavano senza troppa parsimonia a godere dei passeggeri momenti di felicità
concessi all’uomo.
Confrontando i versi di Ottieri con quelli del carme V di Catullo, si può osservare il
ribaltamento completo del frenetico desiderio di vita evocato dal poeta latino per il quale la luce del
giorno è breve mentre sopraggiunge l’amara consapevolezza della notte eterna. In Ottieri al
contrario il giorno si dilata drammaticamente distillando il dolore in ogni attimo, mentre la notte che
porta con sé la pace della coscienza è sempre troppo breve: «Soles uccidere et reire possunt: / nobis
cum semel occidit brevis lux, / nox est perpetua una dormienda»30. In genere l’immagine della notte
si staglia come sinonimo di morte e netta antitesi di vita, accentuata nei versi catulliani dai due
aggettivi «perpetua» e «una» strettamente collegati per asindeto e dalla disposizione chiastica degli
attributi e dei sostantivi «brevis lux» – «nox perpetua». Per Ottieri vale il contrario giacché proprio
nella «nox» troppo corta si può auspicare una vita dignitosa, incosciente quanto si vuole, ma pur
sempre l’unica forma di vita possibile. Il dubbio, descritto «marrone scuro» «velo opaco» «molla»,
perfora il cervello, coadiuvato in questo compito dallo stato depressivo che corre in suo aiuto per
aumentarne il carico d’angoscia.
La depressione / sotterra vivacissimo il dubbio, lo slarga, / l’ansia lo piglia per le due / corna e lo
sbatte per lo spazio mentale / percotendo il vuoto pieno di segretissimi / lampi, di qualche cenere, di
soffocato fuoco / del più acre pensiero umano. […] Un corno / del dilemma si drizza: ha vinto senza catarsi.
(PP, p. 11)
Torna con efficacia l’immagine del «corno del dilemma [che] si drizza» simile al «corno
della fiamma antica» dei fraudolenti (Inf., XXVI, 85-87) già comparato con l’ondeggiamento della
non-scelta del depresso descritto nell’Irrealtà quotidiana. Il perno intorno al quale ruota l’autoriflessione sul proprio stato psichico è il «vuoto», o meglio un «vuoto pieno» di dolore, vissuto
come prosciugamento fisico e morale per chi si scopre impotente dinanzi alla malattia,
simboleggiato dall’abisso che si spalanca ai suoi occhi. È proprio su questo vuoto che si gettano le
fondamenta della sconfinata depressione, dell’angoscia infinita, sulla quale solo la scrittura può
valere come distraente, anche se fallibile.
«Talvolta si rifà viva l’arte: / un miscuglio di vivere e scrivere, / di fiume e mar / si intreccia
/ in uno statico estuario» (PP, p. 18). Quest’ultima immagine rappresenta quelle zone limacciose
della psiche inesplorabili a occhio nudo ma che si possono esaminare attraverso la scrittura, più
utile della psicoanalisi almeno in apparenza e tuttavia perdente come aveva già rilevato Lucioli:
«Tempo di scegliere e di essere scelto; / la letteratura più non cura né cuore / né paura, rimovente si
30
CATULLO
Gaio Valerio, Le poesie, Einaudi, Torino 1997, p. 18.
101
esplicita. (PP, p. 53). «La psicoanalisi ha monopolizzato le scoperte psicologiche che un tempo
faceva la letteratura; secondo cui la letteratura privata del suo compito vero di pioniera della
psicologia, è rimasta retrograda, ornamentale, consolatoria: disoccupata. Lo scrittore serio allora
tacerebbe. Morte dell’arte» (IQ, p.160).
Nel Pensiero perverso l’attenzione di Ottieri è posta sulle proprie modalità espressive: ad
esempio, la poesia come associazione involontaria, surrealistica solo nell’idea non nell’attuazione,
gli permette di svincolarsi dai legami della prosa per esprimersi con più libertà. È su questo
concetto, continuamente agognato dal malato, che si fonda il principio di una poesia caratterizzata
da spinte irrazionali non filtrate dalla riflessione, da immagini frammentate disunite tra loro,
dall’utilizzo di termini che acquistano specifico valore all’interno del verso, dal ritmo incalzante a
volte ossessivo che combacia con il pensiero perverso e da un vortice musicale di colori e
sofferenza. Un narrare in versi che auspica la libertà di raccontarsi, esplicitato nei versi successivi
come esempio dimostrativo di questo particolare modo di far poesia.
Sempre, nell’apparente quiete convinta / si alza la paletta secca / della mental Riserva: / è il sistema,
il sistema ossessivo. / Arduo spiegarlo se intender / non lo può chi non lo prova. / Occorre che l’estraneo
muova / per una foresta senza foglia, / per uno scheletro fitto / (mai per un pensiero invitto!) / un folto
radiografico intreccio / in cui lo scatto fisso rimanda / a un altro scatto, a uno ancora, / macchina coerente,
camma, / tirantino, piagnone, sistema / binario, inferno meccanografico, / coerenza logica e orfica, / la più
razionale e in ferro / disperazione possibile. / Morirà con riserva. (PP, p. 75)
A prima lettura i versi della poesia sembrano caratterizzati da alcuni disturbi formali del
pensiero tra i quali la cosiddetta fuga delle idee, cioè una profusione di idee incontrollate che
fioriscono per via associativa a getto continuo; oppure la circostanzialità per cui il pensiero si perde
in molti dettagli con facili passaggi ad altri argomenti; o anche la disgregazione, contraddistinta
dalla perdita di controllo nel modo di percepire le impressioni, così che si pongono in primo piano
certi
particolari
con
conseguente
frammentazione
del
campo
dell’esperienza
dovuta
all’eliminazione di orientamenti superiori. Si noti come questi disturbi formali siano determinanti
nella strutturazione della poesia surrealista e influenzino il versicolare di Ottieri, il quale tuttavia
evita d’«andar di palo in frasca». Nella sostanza, sono proprio quei particolari che articolano, come
frammenti di un mosaico, la costruzione poetica che si trae vantaggio in modo impressionistico di
raggruppamenti cangianti fondati sul senso del dolore e sulla capacità evocativa.
Il «sempre» che apre la poesia si riferisce a quella tendenza psichica, la coazione a ripetere,
che spinge il soggetto malato a ripetere meccanicamente esperienze già vissute e legate nel caso
specifico al confronto impari della Riserva che alza la paletta, come un vigile urbano, per fermare il
timido tentativo della quiete che, in un barlume di fermezza cosciente, vorrebbe stanare un
momento di pace. Ciò che non si spiega rientra nella difficoltà di esprimere l’inesprimibile e Ottieri
102
per chiarire la situazione fa entrare in scena un estraneo, che non è assalito da tale pensiero, in una
boscaglia brulla: «Arduo spiegarlo se intender / non lo può chi non lo prova. / Occorre che /
l’estraneo muova / per una foresta senza foglia, / per uno scheletro fitto» (PP, p. 75), chiaro
richiamo al dantesco bosco degli alberi spogli dei suicidi nel secondo girone del settimo cerchio:
«Non era ancor di là Nesso arrivato, / quando noi ci mettemmo per un bosco / che da neun sentiero
era segnato. / Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; / non
pomi v’eran, ma stecchi con tòsco» (Inf., XIII, 1-6). In Ottieri è uno scheletro, immagine che si
congiungerà all’anoressica del Campo di concentrazione, simbolo della negazione della vitalità
dell’uomo insieme agli alberi stecchiti e ai suicidi, a essere folto in aperto ossimoro con la foresta
spoglia: è il sorprendente gioco delle parti ordito da Ottieri che snatura di senso immagini comuni
per caricarle di altre percezioni e significati, seguendo in questo modo la poetica della Pop Art.
Nella seconda parte della poesia, predomina invece l’aspetto meccanicistico nell’analisi
introspettiva del malato: «radiografico intreccio», «scatto», «macchina coerente», «camma»,
«sistema binario», «inferno
meccanografico». Nell’unione degli elementi si tratta di
un’osservazione interna senza scampo, non a caso attuata dal metodo di esame radiologico a scopo
diagnostico con fotografie a raggi X che martellano il corpo del malato. Si parla di radiografie,
eppure non c’è la minima traccia del corpo né delle sue parti costitutive, dunque l’analisi ancora una
volta è indirizzata sull’anima, o ai brandelli che ne restano, del malato. La conclusione univoca,
dopo un lavorio privo di contraddizioni in cui la macchina è coerente come la coerenza logica e la
disperazione razionale, non può essere che la morte: «morirà con riserva».
In altri passi del Pensiero perverso ritorna l’immagine radiografica che sviscera l’essenza
del malato: «Nuotava nel fango denso, radiografiche / le radici dell’essere, sciupata / l’ovvietà del
mondo. / Era la visione / del non mondo, dunque più larga» (PP, p. 39). Di radiografia in
radiografia evapora dal tavolo operatorio non solo il corpo, non c’è mai stato, ma addirittura la
realtà stessa che lascia il posto all’irrealtà determinata dal pensiero ossessivo, la depressione, che ha
situato l’accampamento su quel perno già conosciuto: il vuoto.
Solo qualche verso – gli scrive il poeta – / filtra dalla mia poltigliosa irrealtà. / Dalla sua gelatina ora
non filtra che un sentimento perso. / Il pensiero perverso / sostituì l’irrealtà: / passò il dereismo attraverso il
vuoto / prima di approdar / all’odierno perverso, / graticcio che copre il buco del vuoto, / occupazione,
spirale. […] Non ride né / gli riesce la permanenza devalorizzante: / avida di valore la vita. Aspetta che passi
la / colata di piombo / nel cervello. (PP, pp. 38, 40)
Ciò che accomuna realtà e irrealtà si trova in uno stato imbolsito tra fango, poltiglia,
gelatina: l’immobilità del tempo e del letto si determina maggiormente per un inabissarsi lento e
quotidiano nelle sabbie mobili della depressione cronica, con le solite lastre di piombo posizionate
103
sul petto o conficcate nel cervello. Non esiste via d’uscita, se non il suicidio, anzi in alcuni casi la
sentenza suona ironicamente crudele: condannato a vivere: «Il paziente non si uccide perché
l’ossessivo / è condannato a restare vivo: / per la buona volontà dell’ossessione stessa / che non
ammette un attimo / di non permanenza» (PP, p. 26).
La depressione è la protagonista del Pensiero perverso, come anche nel Campo di
concentrazione, e alcuni disturbi si presentano in forma poetica, soprattutto quelli dell’affettività
con sentimenti improntati a una tristezza profonda, monotona e cupa che resiste alle sollecitazioni
esteriori, cui si aggiunge una progressiva perdita d’interesse per la vita:
È il rifiuto d’altri, / direi, forse negazione del sé, altra questione / nella vasta depressione che investe
/ l’area occidentale tutta. […] La depressione del mattino / non ha miraggi di riscatto, / si attesta ormai come
una vita infinita. […] Si scatena il comportamento perverso. / Come un fischio negli occhi vibra la
previsione, / la disperazione del momento perenne, / il sussulto, il folle punto dell’impossibilità / e della
soluzione. […] La sofferenza eccede. / Rintrona la visione del mondo. / L’identità di sé s’è perduta per via /
della mania e del terrore. / Dura oltre ogni umana paurosa / misura la paura, come un affogamento / della
durata di sei giorni. […] Ei soffre il consueto / danno anancastico / di fronte al giovinetto / psicologo. (PP,
pp. 16, 21, 23, 30, 99)
Ottieri chiama in causa una tipica forma di depressione, quella anancastica accompagnata
da tensione, angoscia, idee ossessive e paranoiche in individui la cui personalità premorbosa è di
tipo rigido e ossessivo. L’ananacasmo è per l’appunto un’idea o comportamento ripetitivo e coatto
presente in soggetti in cui dominano manifestazioni compulsivo-ossessive, e il pensiero perverso o
dominante esprime palesemente tale stato emotivo. Altro disturbo riguarda l’abulia nel
comportamento e l’inibizione del pensiero accompagnato dalla perdita d’iniziativa e progettualità.
Si tratta di una perdita totale di se stessi e della propria identità senza prospettive di miglioramento
future: il tempo si appiattisce, partendo dal mattino, in un’addizione perversa di ore vuote che
bloccano qualsiasi tipo di azione. La sofferenza portata dalla depressione è incommensurabile e
distrugge gli argini difensivi di una mente sottoposta al martirio quotidiano, così che l’attenzione
viene concentrata solo sui temi melanconici rendendo difficoltose sia le associazioni mentali che le
ideazioni. Quella che segue è una delirante scena di vita quotidiana:
La paura fobica stringeva il pensiero / ossessivo a pensare la scelta e perché pensi siede / immobile
pensando, unicamente, giorni: / anima viva non deve stargli intorno. / Si astiene dall’orrore della menoma
azione: / il cerimoniale astenico non tollera / impercettibile distrazione, / la colpisce a sangue nel cervello. /
Quindi si scatenava il moto ondoso, / pseudo libidinoso, che libidinizza, / l’ubiquità, l’essere qui mentre
vorrebbe essere là; / e doveva moltiplicare le occasioni / nel coatto sistema della quantità. / Non lui decide
non si fida di sé. / È la riserva mentale che da sola si drizza / (partorisce il doppio, il triplo, il tutto) / come
una paletta della ratio / mossa dal relais e la strizza. / Ma qui ora perde tempo. S’alza, / telefona, va, s’aggira,
beve, / nella coazione insaziabile. / Mobilità immovibile. (PP, pp. 28-29)
104
Il tratto patologico della paura, su quelle situazioni che si considerano spaventose, assume i
tratti della fobia, del timore irrazionale per oggetti o specifiche situazioni che non dovrebbero
provocare apprensione. La fobia è il tentativo di costruire una difesa contro la propria ansia
allontanandone l’occasione di manifestarsi con un atteggiamento di rifiuto che tuttavia non fa che
evocare continuamente il fantasma. Ottieri manifesta il diniego dell’occasione non solo con la
solitudine ma anche con l’immobilità e l’inazione, senza peraltro superare la crisi. Anzi quel
fantasma si aggira con sospetto nei reconditi meandri della sua mente scatenando «il moto ondoso»,
la tempesta nel cervello, in contrasto con la «mobilità immovibile» e l’«inazione» del depresso
dovuta all’eterno dramma della scelta.
Un altro fantasma è presente in questi versi: è il malato che vaga senza meta alla ricerca di
qualcosa che non esiste senza alcun accenno di guarigione. Inevitabili, nei casi più gravi, la deriva
nell’alcoolismo, la tendenza al suicidio e il desiderio di morte che accompagnano costantemente la
sua vita.
Allora solo l’alcool smussa / i sanguinolenti spigoli del dubbio, / i sussulti del corno trascurato. […]
Unicamente l’alcool libera il petto / e la mente, privilegiate sedi / del tubo e del piombo, della nuvolaglia /
che non caglia, della gramigna ossessiva / germinante come il germe solitario. / Alcool semiconvinta
liberazione breve / catarsi ripetitiva ossessiva della sistemazione ossessiva, / giacché notoriamente il
sadicissimo / super-io è solubile in alcool, / verso il nirvana. (PP, pp. 36, 44)
All’alcolismo Ottieri dedicherà grande spazio nelle sue opere fino agli ultimi romanzi Cery e
Una irata sensazione di peggioramento. Tra le motivazioni psicologiche sofferte dallo scrittore,
sono da considerare incentivi che facilitano l’alcolismo gli stati di tensione, le difficoltà nelle
relazioni umane, i sentimenti d’insicurezza, l’incapacità di affermazione personale. Nei versi
precedenti si nota un uso delle assonanze tra «nuvolaglia» e «caglia» e nel trittico «gramigna»
«germinante» «germe» nell’indicare con termini dispregiativi la condizione del depresso in ausilio
del quale interviene l’alcool, liberatore inutile, però, essendo il malato evaporato da sé. Dal Poisson
soluble di Bréton si passa al «super-io solubile» di Ottieri, con buona pace della psicoanalisi
freudiana.
Un altro aspetto notevole delle poesie di Ottieri, presente anche nella produzione in prosa, è
la connotazione psicologica riguardo ai significati emotivi e simbolici derivanti dall’uso dei colori.
Nonostante le differenti interpretazioni che si riscontrano nelle varie culture ed epoche storiche, i
colori rappresentano in ogni area geografica e a ogni livello di conoscenza uno dei riferimenti più
espressivi della lettura simbolica del mondo esteriore e interiore. Per ciascuna cultura e per qualsiasi
individuo ogni colore assume un certo significato ed esercita un determinato effetto connesso a
immagini, contenuti, figurazioni che il soggetto percepisce. Il colore prevalente nel percorso
105
letterario di Ottieri è il nero che caratterizza la depressione, oltre al buio, la notte, il pensiero, il
decesso, l’inferno, dato dall’assenza totale di luce e perciò associato all’oscurità, al mondo delle
ombre, alla morte.
Tesa è la testa nella notte, / inutile il corpo, l’istinto morto, / e misterioso, il buio / istinto del cervello
trivella / l’aria e il tempo. […] Il tempo che come il dubbio / pompa il pensiero nero. […] Lo acceca in
un’ansia nera. […] Ombra umida, cupa, gelosa è l’istinto. […] Vedere il mondo ridotto / a una luna
vicinissima al naso / ritagliata e nera. […] La nevrosi mondana è una femmina narcisa / e ossessiva che
sostituisce il sentimento / chiaro e nero. (PP, pp. 10, 29, 39, 50)
Le poesie rinvengono di moda dopo la paura enorme, il rivolgimento del cielo e della terra e la
disperazione nera. Non vi è altro aggettivo alla disperazione che: nera. […] Non so bene che cosa scrivere
sulla disperazione, posso dire soltanto che essa è nera. Colora di nero il mondo e lo restringe ad un imbuto
nel cui punto più stretto sta il disperato. […] So che il cielo s’offusca, un mattone si schiaccia nel petto, il
circuito dei pensieri è nero-grigio. Ognuno potrebbe elencare i propri neri pensieri. (CC, pp. 9, 23, 60)
In opposizione al nero, il bianco, scaturito dalla fusione di tutti i colori dello spettro, non
contiene alcuna dominanza che lo faccia propendere verso qualche colorazione ed è considerato in
generale simbolo della purezza, innocenza e castità. Per Ottieri invece bianca è l’irrealtà, l’opposto
della realtà viva e piena di colori, quindi se possibile più atroce del colore nero. Se la depressione
imprigiona il malato in un abisso infernale dove prevale il nero delle sensazioni, il bianco è la
negazione assoluta di qualsiasi percezione della realtà e dunque anche del possibile male che pur
nella sua atrocità è “vitale”. Il bianco è per Ottieri il nulla divenuto materia astratta, un
prosciugamento effettivo dei sensi che non possono più toccare la realtà: si attesta, in questo modo,
il distacco non rimarginabile tra il malato e il mondo circostante. Il bianco si caratterizza non per
una fusione ma per negazioni e non retrocede al principio delle cose ma le scavalca verso la morte.
Disseccamento, disidratazione, aridità, smarrimento sono le connotazioni principali del bianco, che
sta lì a estirpare qualsiasi barlume di vitalità.
Vede il bianco, la sua irrealtà è sicuramente bianca; vede recidivamente la luce abbagliante, il nitido
liscio della materia. […] L’angoscia si dissecca e nell’aria arida che lascia si forma la membrana della
irrealtà, bianchissima, disidratata, paurosa in ogni affetto. […] Perché non do tutto il bianco, tutto bianco?
Perché non posso atteggiarmi interamente al bianco, essere bianco. Perché non posso atteggiarmi interamente
al bianco? Perché per uno scrittore il bianco è il male. E dal male si rifugge non problematicamente, si cerca
di dominarlo, e giudicarlo, conglobarlo dall’alto di un rapporto gerarchico. Così il bianco è incorniciato,
sottomesso dal nero. (IQ, pp. 42, 68, 255)
È l’umano che si smarrisce nella cameretta abbagliata dal sole con l’ansia mia bianca e il via-vai
ininterrotto dell’agitato. […] La monotonia della mattina si alza davanti a me come un altissimo muro
bianco, compatto, sempre uguale, percorso da fessure che sono sempre le stesse e che conosco a memoria.
(CC, pp. 56, 96)
106
Il colore grigio, invece, caratterizzerà la domenica crepuscolare di Ottieri: «È una domenica
grigia, triste oltre la morte. La realtà in cui sono immerso mi ripugna. È una domenica grigissima, di
pioggia» (CC, p. 21), annullando la luce del giorno per avvicinarsi alla morte. Anche in un passo
del Pensiero perverso il temporale inevitabilmente è grigio e l’atmosfera si discioglie senz’altri
colori: «Nella paura il temporale è grigio, / non sprizza un litigio, / si passeggia in tondo nel cortile /
servile, si deambula nell’oceanico / senso del mondo. […] È marcio. Ha compiuto / la vita. Dolore
grigiastro senza colore, / abitudine, stremata sofferenza / divenuta cieca per i troppi bagliori» (PP,
pp. 22, 87).
Tra tante oscurità, emergono anche tinte più chiare e delicate quali l’azzurro e il verde: «E
ciò lo smunge, ottunde / a ilari pensieri campestri / di viaggio, a sguardi d’orizzonti, / a
contemplazione di monti / azzurrini, soste in verzura» (PP, p. 17). La contemplazione di monti
lontani, con un labile richiamo al manzoniano Addio ai monti, si lega al motivo del viaggio, fatto
sorprendente per chi è suo malgrado inchiodato a letto, e al ristoro in un insieme di piante verdi, la
«verzura», termine arcaico che rimanda all’inclinazione umanistico-rinascimentale per le
descrizioni di boschetti e fiumi ristoratori come «il mover de le frondi e di verzure» di Ariosto. I
pensieri campestri puntellano questo quadretto quasi idilliaco, un unicum stridente nelle poesie di
Ottieri, accresciuto dall’aggettivo «ilare», giulivo buonumore, davvero di un altro pianeta rapportato
all’universo di sofferenza vissuto nella clinica. Eppure tutto ciò rientra in un gioco poetico ben
strutturato se si considerano con attenzione i due versi iniziali che indicano rispettivamente
svuotamento
(smungere)
e privazione (ottundere)
e
il seguito
della poesia chiarirà
quest’inclinazione: «Preme la pera / nel cranio occupato come un cesso. / Peccato, andava questa
volta / lunghesso un fiume virgiliano, / un mare mitico. Nulla / della natura o dell’arte / gl’importa.
La pera solo» (PP, p. 17). Le illusioni bucoliche, con un vago richiamo virgiliano, di pastori, campi
lussureggianti, fiumiciattoli sinuosi, nature incontaminate, si scontrano con l’immagine deforme e
grottesca del pensiero perverso che occupa il cervello trasformandolo in una volgare toilette.
Crollano a questo punto le speranze di un rinsavimento delegato all’arte, poiché il valore assoluto
della depressione non consente fughe in nessun luogo.
Il riferimento a Virgilio è solo uno dei numerosi rimandi letterari presenti nel Pensiero
perverso. Oltre agli auto-riferimenti che Ottieri fa delle proprie opere, c’è Leopardi: «Pigro? Ma
egli salta / su come un augelletto / al primo lucore dell’aurora se il risveglio / non è lavoro mortale. /
Se il risveglio è gioia. / Ma mortale è il rebus» (PP, p. 20). «Lucore» è termine letterario che
connota un’attenuazione della luce dell’alba, mentre l’«augelletto», diminutivo arcaico di augello
dal provenzale auzel, rinvia all’«odo augelli far festa» di Leopardi, e inoltre ci sono evidenti
contaminazioni di pessimismo cosmico, come il risveglio mortale, in un confronto serrato con
107
alcuni versi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: «È la vita mortale. / Nasce l’uomo a
fatica, / ed è rischio di morte il nascimento. / Prova pena e tormento / per prima cosa. […] Forse in
qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale»31. Il
Canto notturno genuinamente poetico del pastore errante sviluppa una solenne meditazione sui
grandi temi leopardiani quali il senso oscuro dell’esistere, l’estraneità remota e incomprensibile
della natura, l’ontologica necessità della sofferenza, il dolore cosmico e il senso tragico d’esser vivi.
Ottieri s’inserisce nella riflessione sul dolore primogenito della tormentata coscienza dell’uomo che
inizia dalla nascita per terminare con la morte, concretizzando tuttavia il pessimismo in una
malattia, la depressione. Dolore certamente cosmico ma che ha un nome e una diagnosi
rapportandosi esclusivamente agli uomini con l’affrancamento degli animali, esclusi dalle
considerazioni di Ottieri ma controparte fondamentale nel canto del pastore.
In altri versi del Pensiero perverso affiorerà anche il riferimento a un altro elemento
essenziale della poetica leopardiana: il rimpianto della giovinezza, periodo in cui era possibile
gioire della felicità, mai davvero vissuta, rappresentato nelle drammatiche vicende di Silvia nel
canto omonimo e di Nerina nelle Ricordanze. Simili percezioni sono provate dal malato
imbalsamato nell’eterna e ossessiva coazione a ripetere in una sorta di reiterazione senza pausa di
azioni e pensieri immodificabili, in cui s’inserisce l’immagine della primavera, la giovinezza, che
non è concessa al malato condannato all’ergastolo nella clinica: «Dimenticata per la coazione / che
abbellisce l’azione di sinistra spinta, / la tinta del dosaggio, l’assaggio, il maggio / del paziente che
non venne» (PP, p. 27). «Di quel vago avvenir che in mente avevi. / Era il maggio odoroso: e tu
solevi / così menare il giorno. […] Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, / da chiuso morbo
combattuta e vinta, / perivi, o tenerella. E non vedevi / il fior degli anni tuoi»32. «Se torna maggio, e
ramoscelli e suoni / van gli amanti recando alle fanciulle, / dico: Nerina mia, per te non torna /
primavera giammai, non torna amore»33. Silvia e Nerina personificano il motivo della morte
precoce, delle speranze perdute, della giovinezza spezzata dal Male su cui fa perno il sentimento del
tempo passato in perfetta simbiosi per Ottieri con la condizione del depresso, non ancora morto ma
nemmeno in vita. Esperienze esistenziali che collimano nella visione di un futuro chiuso,
impermeabile, in cui la forza evocativa è delineata dal dolore per la felicità mai raggiungibile.
Anche D’Annunzio della Sera fiesolana è richiamato nei versi di Ottieri: «Ha dinanzi
l’insano / vagolar del pomeriggio, / e la sera non fiesolana, / la sera che sbrana» (PP, p. 21).
«Fresche le mie parole ne la sera / ti sien come il fruscio che fan le foglie / del gelso ne la man di
31
LEOPARDI Giacomo, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1829), in Poesie e prose vol. I,
Meridiani Mondadori, Milano 1988, pp. 84-88.
32
LEOPARDI Giacomo, A Silvia (1828), in Poesie e prose vol. I, cit., pp. 77-78.
33
LEOPARDI Giacomo, Le ricordanze (1829), in Poesie e prose vol. I, cit., pp. 79-83.
108
chi le coglie / silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta / su l’alta scala che s’annera / contro il fusto
che s’inargenta / con le sue rame spoglie / mentre la Luna è prossima alle soglie»34. Ottieri rovescia
l’atmosfera placida e simbolica della poesia di D’Annunzio in cui viene decritto, in tre quadri
diversi, l’approssimarsi della sera con la fine del pomeriggio, il tramonto, l’inizio della notte. Il
richiamo c’è ma per negazione: non parole fresche né la delicatezza del gelso né il fusto che splende
né il silenzio, ma uno squilibrato errare del pomeriggio verso una sera che annienta. Ottieri sceglie
un modello poetico per rendere più trasparente il contrasto col proprio modo di versicolare e il
D’Annunzio delle Laudi fa al caso suo. I toni della poesia dannunziana, tra pioggia musicale e
divine creature alate, stazionano per contrasto ben lontano dalle atmosfere lugubri delle cliniche.
In un passo del Pensiero Perverso vi è anche un riferimento a Boccaccio attraverso
l’immagine della «lieta brigata» di giovanetti che, per sfuggire al contagio della peste del 1348, si
rifugiarono in una villa di campagna come è ricordato nell’incipit del Decamerone: «Lo shock, la
medicina, la fonda psico- / analisi, il movimento, / la quiete, l’ozio, solitudine e liete / brigate,
letteratura e vita» (PP, p. 26). Ottieri fa collimare il senso della letteratura, come unica ancora di
salvezza dalla desolata atmosfera cittadina all’interno della clinica, con le poesie che aggrappano il
poeta alla realtà ma senza riuscirci pienamente. Novelle per salvarsi dalla peste, e poesie per
sopravvivere alla depressione; ma nella villa i giovani trascorsero il tempo tra banchetti, canti,
danze e piacevoli racconti, mentre nella clinica è la sofferenza che caratterizza il periodo di degenza
e le poesie descrivono questa condizione disperata.
L’immagine del letto, feticcio della malattia accostato a una tomba, richiama direttamente
l’apertura dei Sepolcri di Foscolo: «Una volta uscito dall’urna / senza cipressi e pianto, / urna del
letto dove giace vivo / schivo non schivo» (PP, p. 72). «All’ombra dei cipressi e dentro l’urne /
confortate di pianto è forse il sonno / della morte men duro?»35. La tomba-letto del depresso non
può lasciare alcuna memoria ai posteri in primo luogo perché non è ancora morto, anche se a volte
sembra esserlo, e inoltre perché non ha alcun valore da trasmettere. Il suo monumento è
assolutamente inutile, scoperchiato come quello di un eretico cui si negano i cipressi e le lacrime,
dove l’ossimoro «giace vivo» connota un’esistenza immobile e miserevole. Da qui il contrasto con
l’idea foscoliana di sepolcro simbolo di affetti domestici che stabilisce tra vivi e defunti quella
«corrispondenza d’amorosi sensi» del tutto negata ai malati di Ottieri, non per mancanza di premure
dei familiari ma a causa dello stato di malessere cosmico che non consente loro neppure un minimo
sollievo. L’«urna senza cipressi» di Ottieri indica un sepolcro eretto fuori dei cimiteri e nel poema
foscolinano quest’immagine rinvia all’affronto subito da Parini: «A lui non ombra pose / tra le sue
mura la città, lasciva / d’evirati cantori allettatrice, / non pietra, non parola» (vv. 72-75). Non
34
35
D’ANNUNZIO Gabriele, La sera fiesolana (1899), in Alcyone, in Poesie, Garzanti,
FOSCOLO Niccolò Ugo, Dei Sepolcri (1807), Mondadori, Milano 1987, p. 145.
109
Milano 1984, p. 347.
casuale l’avvicinamento a Parini, anch’egli poeta emarginato da una società dissoluta e impudica, di
cui Milano città dal «cielo finto» (ISP, p. 31) ne era l’emblema, che non riconosce il valore
educativo della poesia preferendogli poetucoli senza nerbo.
Un ultimo riferimento riguarda il Manzoni del Cinque maggio nell’epigrafe lapidaria piena
di contrasto tra l’ei, pronome che indica per antonomasia Napoleone e il depresso in Ottieri, e il fu
che ne determina la scomparsa o l’immobilità: «Ei giaceva, più che ricco di singulti, / con
abbondanza di cerebrali / spasimi e flutti. […] Ei giacque a lungo» (PP, pp. 85-86). «Ei fu. Siccome
immobile, / dato il mortal sospiro, / stette la spoglia immemore / orba di tanto spiro»36. La
condizione del morto undead, tipica del depresso grave, è immaginata da Ottieri nello stare
immobile sul letto affossato da una rilevante quantità di malesseri: «ricco», «abbondanza» e «a
lungo» sottolineano lo stato d’animo sul quale pianti convulsi e dolori acuti confluiscono
indisturbati. L’«immemore» manzoniano, nel confronto, rappresenta una situazione più vivibile: la
fissità della morte dissolve il malessere di sentirsi disintegrato e ancora in vita, che altrimenti
sarebbe infinito.
II.4 Il campo di concentrazione
Ottieri ha sempre rifiutato la simbiosi tra letteratura e malattia e a chi gli poneva delle
domande in merito rispondeva ironicamente che era «roba da americani»; eppure la sua poetica
ruota attorno ai rapporti tra la malattia mentale e lo scrivere che incessantemente conserva
l’impronta dei frequenti stati psichici alterati. Si potrebbe definire quella di Ottieri una letteratura
malata, anche se è necessario riflettere sull’avversità dello scrittore, sempre attento a non restare
inchiodato nelle etichette letterarie, a questa definizione. La malattia è una delle tematiche
prevalenti nel percorso letterario di Ottieri e nel Campo di concentrazione diventa essa stessa
personaggio, con la quale è possibile esplorare i meandri della sofferenza umana, del Male
congenito nell’uomo e dei turbamenti della psiche. Ottieri finisce a volte per annullarsi nella
malattia che prende possesso di tutta la realtà, filtrandola nella sua mente, con la conseguente
creazione di un altro mondo con le proprie regole, leggi, divieti, affetti e sentimenti paralleli al
mondo normale.
36
MANZONI
Alessandro, Il cinque maggio (1848), in Tutte le opere, Giunti Barbera, Firenze 1967, p. 20.
110
La depressione e l’ansietà mi impediscono di produrre. Non sarò mai più un grande. […] Quale sorte
avranno le mie poesie qui sul comodino? Non oso nemmeno chiedermelo. Potrò un giorno finire di
correggerle o sono già superate? Mi stupisce curiosamente tornare a scrivere: come un bambino fa gli
esercizi per il maestro. […] L’analista vuole che torni uno scrittore. Una parte di me non lo vuole. Ho paura,
a essere integro. Anche adesso scrivo con paura, sempre pensando di cessare da un momento all’altro. (CC,
pp. 11, 13, 14)
Nel Campo di concentrazione Ottieri racconta l’esperienza vissuta durante il ricovero alla
Klinik am Zürichberg di Zurigo37. La malattia mentale sofferta dallo scrittore per lunghi periodi
della sua vita è la depressione, «il cancro dell’anima», spesso «sottodiagnosticata», «sottotrattata»,
«mal-trattata» nel corso dei secoli, «un vero e proprio scandalo della medicina»38. La depressione
clinica è uno stato duraturo dell’umore che influenza il sonno, le abitudini alimentari e impedisce a
chi ne soffre di provare piacere e di vivere un’esistenza serena. Dalle persone depresse emergono
delle espressioni metaforiche nel descrivere la propria condizione, paragonandola a uno stato di
oscurità e di appesantimento. I malati gravi hanno in genere un’immagine di loro stessi molto
negativa fino all’orrore, una pulsione sessuale bassa, possono soffrire d’insonnia o avere un
accresciuto bisogno di dormire, sfuggono i contatti sociali e pensano fortemente al suicidio. Il
depresso è totalmente assorto nella propria sofferenza che il suo cervello spesso prova
un’intolleranza per tutto ciò che è vitale, dinamico, rumoroso e luminoso.
Passate tre settimane in clinica (durante le quali è stato inconcepibile scrivere). Ricordarsi di dire che
la sera, stando meglio, ho gli stessi problemi di scelta che a casa. Raccontarli all’analista. […] Una via
l’altra. La ridda delle donne vagheggiate. Ritorno come prima. Le poesie rinvengono di moda dopo la paura
enorme, il rivolgimento del cielo e della terra (nelle prime tre settimane) e la disperazione nera. Non vi è
altro aggettivo alla disperazione che: nera. Come usavo, non mi muovo piuttosto che scegliere. (CC, p. 9)
Già nell’apertura, Ottieri rileva i motivi essenziali che strutturano il suo romanzo quali il
tempo (le iniziali tre settimane), il luogo (la clinica-prigione), la scrittura (il comporre poesie), la
psicanalisi (l’analista e i problemi di scelta già alla base dell’Irrealtà quotidiana), l’amore (la «ridda
delle donne vagheggiate») e soprattutto la depressione («disperazione nera»). Partendo proprio da
quest’ultima, la protagonista del romanzo, Ottieri dissemina sulla pagina le impressioni avute
durante il ricovero:
Il tempo si rischiara, la grande depressione si solleva lentamente a decimi di millimetro. Si sta
attaccati alle più scarne origini, dormire, mangiare, lavarsi, vestirsi. Si sta a un centimetro dal suicidio.
Sospiro cercando aria come un sommergibile affondato che finisce le sue riserve. È mezzogiorno, è il pranzo
37
Si tratta della Klinik am Zürichberg, clinica privata di psichiatria e psicoterapia di Zurigo che si trova alla
Dolderstrasse numero 107, all’incrocio tra l’Aurorastrasse e Pilatusstrasse.
38
Le espressioni citate appartengono al Dottor Giovanni Battista Cassano, professore ordinario di psichiatria e
direttore del Dipartimento di Psichiatria, Neurologia, Farmacologia e Biologia dell’Università di Pisa, e sono state
estrapolate dal libro E liberaci dal male oscuro.
111
buio senza appetito, cui l’anima non partecipa, fugge altrove. […] Mi sento strano sconvolto irreale. […] Il
mondo mi ruota intorno alla testa. […] Ho terrore. Tramortito, allucinato, rivoltato come una fodera. Mi
rifugio nel letto. (CC, pp. 24-25)
I sintomi descritti mostrano alcune sensazioni tipiche di uno stato depressivo: ad esempio, la
malattia opprime non solo la mente ma anche il corpo del malato con un forte senso di pesantezza
che spesso lo immobilizza a letto. Le azioni si riducono ai minimi termini, basilari, come se agisse
un primitivo uomo moderno che lotta per la sopravvivenza quotidiana. Fuori della caverna però non
ci sono animali feroci da cui difendersi ma le proprie angosce, le bestie del diavolo, che spingono il
depresso grave sull’orlo dell’abisso alla ricerca del suicidio. Il climax «strano – sconvolto –
irreale», cui segue il trittico «tramortito – allucinato – rivoltato», offre un’immagine eloquente dello
stato depressivo del malato: i contatti con la realtà diventano labili, inconsistenti, mentre si
abbandona progressivamente il mondo reale per immergersi, con sommessa e soffusa atrocità, in
un’altra esistenza che ha i suoi ritmi, regole e prerogative, e dove l’uomo cessa di essere tale per
diventare qualcos’altro disumanizzandosi giorno dopo giorno: «Vista dal di dentro, superata la
paura, la malattia mentale è disumana» (CC, p. 71). L’altro, il diverso, l’alieno sono termini che si
riferiscono ai malati gravi che hanno perso i contatti con la realtà esterna, e inoltre delineano quella
zona irreale, l’altrove, quel nuovo mondo che la depressione costruisce all’interno della mente, del
cuore, dell’animo del malato: «La malattia, superata o tamponata è diventata una vita. […] La
depressione è tutto il dolore possibile riunitosi in una pianura unica dove non sorgono alberi.
Stasera non mi sento depresso per la clinica ma per la vita. Questo non è un episodio dell’esistenza,
ma questa è l’esistenza» (CC, pp. 53, 216). Questa nuova esistenza sembra nascere per
partenogenesi dalla prima vita e si caratterizza per alcuni elementi imprescindibili: il dolore, la
sofferenza, il colore nero, la pesantezza fisica e mentale, la spossatezza, la solitudine, l’orrore del
proprio corpo e della vita quotidiana, la sensazione di sentirsi irreale, vuoto, sminuzzato,
smembrato. Ma dove sorgono questi stati di malessere infinito e come si sviluppano all’interno del
corpo o nella mente del depresso? Ambiente e genetica, cultura e natura: sono innumerevoli i fattori
che concorrono a costituire un individuo e una contrapposizione netta tra questi termini sarà
impropria nell’analizzare qualsiasi malattia mentale, anche dal punto di vista letterario.
Più si va approfondendo lo studio sul piano neurobiologico, maggiore appare l’importanza
delle caratteristiche funzionali delle strutture nervose: il cervello umano è un organo complesso e
difficile da esplorare, può avere deficit funzionali dalla nascita, subire traumi o lesioni nelle fasi
precoci dello sviluppo, presentare un processo involutivo di deterioramento senile, essere
danneggiato da sostanze tossiche cui viene esposto come alcool, fumo, gas inquinanti etc. Ma
soprattutto può mostrare disfunzioni interpretate come stranezze o bizzarrie o tratti caratteriali che,
seppur lievi e modeste, sono in grado di influenzare le scelte di ciascun individuo: la malattia
112
mentale rappresenta in questo senso la più seria minaccia per la libertà dell’uomo. Fin dal primo
romanzo il concetto di libertà è chiamato in causa durante l’occupazione nazi-fascista dell’Italia su
uno sfondo politico e sociale in cui l’adolescente scrittore, che nelle Memorie veste i panni di
Lorenzo Bandini, vive sotto il segno dell’incoscienza psicologica i traumatici eventi della storia tra
un amore non corrisposto e una colpevole ignoranza della realtà. In seguito, nella Tetralogia
industriale, la libertà è cercata all’interno delle fabbriche dove i Padroni, ricchi industriali e
imprenditori che detengono le chiavi dello sviluppo economico italiano durante il famigerato boom,
sottomettono gli operai condannati a partecipare al miracolo del paese. Come Dante che «libertà va
cercando», anche Ottieri nel suo personale esilio mentale cerca la libertà nei meandri della malattia
ossessiva e all’interno dei meccanismi corrotti di una società in perpetuo declino, oppure
«nell’alcool e nel far tardi la sera» (CC, p. 13) del periodo mondano, ma senza mai trovarla
concretamente. «Immane, inutile, inesistente libertà. Libera schiavitù. Schiava libertà. Prigionieri
della clinica e di se stessi. Quando uscirò da questa bilancia?» (CC, p. 109). Sentirsi prigioniero è
uno degli aspetti caratteristici dello stato depressivo, e nel tentativo di fuggire da questo carcere o
lager la scrittura aiuta il paziente Ottieri a trovare la libertà dalla malattia e da quella parte della
propria persona che lo opprime, con l’obiettivo di recuperare l’indipendenza perduta.
Ottieri, nel descrivere la propria malattia nel Campo di concentrazione, utilizza con
frequenza metafore atmosferiche che associano la depressione a dense nuvole nero-grigie
trasportate da venti (i pensieri neri) che di mattina (il risveglio della coscienza) si addensano nel
cielo (il cervello del malato), in procinto di scatenare forti temporali (contrassegni della
disperazione) che si abbattono sulla terra (il petto tramortito, schiacciato). Le descrizioni coincidono
per gli elementi ricorrenti: il cielo, completamente ricoperto da nuvole nere, combacia con la mente
del malato che, dopo aver ripreso coscienza al momento del risveglio, si sente oppresso dai foschi
pensieri della depressione. La giornata inizia allora sotto l’insegna del colore nero senza alcuna
ipotesi di luce e con il sole quale labile ricordo, mentre l’oscurità si distende per tutto l’orizzonte:
questa cappa umidiccia, melmosa, opprimente scende poco alla volta e inesorabilmente sulla terra,
ovvero il petto dello scrittore oppresso da un masso pesantissimo, avvertito anche come una pietra,
una roccia, un mattone, che non gli permette alcun movimento: «La sofferenza del primo mese è
stata la depressione, unita alla clausura, all’estraneità, alla mancanza d’alcool. Non so bene come
spiegarla. È una roccia senza spacchi. È un masso» (CC, p. 34). È difficile se non impossibile,
dunque, alzarsi dal letto e iniziare la giornata caratterizzata dal male fisico e psichico che avvolge la
realtà, il corpo malato. Il depresso percepisce nel proprio petto il luogo per eccellenza dove la
depressione molla gli ormeggi e affonda al suo interno, smembrando ogni forma di quiete come
qualsiasi barlume di disperata felicità:
113
La depressione non è in fondo che l’abbassamento del livello del petto, una sua rientranza. Il dolore
depressivo è metafisico, ma anche strettamente domestico. Si può sovente raggiungere un’acme depressiva
nella stanza da bagno. L’abbassamento del petto si accompagna a un concatenamento di circoli viziosi del
pensiero. La depressione può essere indefinitamente definita. È orgogliosa e umile. Si fa vittoriosa e vuole
essere vinta. (CC, p. 170)
Al senso di oppressione segue, inevitabile, quello della caduta in basso nell’abisso scavato
dalla disperazione senza possibilità di aggrapparsi a qualche appiglio per salvarsi. In quei momenti,
che a parte rare eccezioni sono la regola di vita, non trovano diritto di cittadinanza né le illusioni, né
le speranze di un risanamento. Si vive, o meglio si muore alla giornata con l’ipotesi del suicidio
quale unica uscita di sicurezza consolatoria e salvifica: «La depressione rode piano piano le radici
della vita, le toglie il perché. La depressione è logica: la catena dei pensieri che si conclude con la
mancanza di una motivazione alla vita è il tipo razionale. Il suicidio è la conclusione logica della
depressione» (CC, p. 169). Qui si propaga il dolore fisico e autentico del malato che non riesce a
compiere alcun tipo di movimento, sentendo in sé questo peso intollerabile come una zavorra
impossibile da allontanare, con la conseguenza che le azioni si rallentano mentre il respirare diventa
un’attività mostruosa. Le ore che seguono il risveglio aumentano il senso di malessere, gonfiando a
dismisura il «pallone» della disperazione che, già verso mezzogiorno, è in procinto di scoppiare
dilaniando il corpo del depresso.
La sera stessa, l’indomani mattina il cielo s’offusca, un mattone si schiaccia nel petto, il circuito dei
pensieri è grigio-nero. E sempre in agguato sta la disperazione: quando si abbandona la giostra dei pensieri e
tutti i pensieri precipitano in una direzione esatta, monovalente. La disperazione è la caduta diritta e unica di
tutto. È una discesa ripidissima e rettilinea verso cui si concentrano i neri pensieri dapprima turbinanti,
abbandonando, in un certo senso, il turbinio. […] Lentamente le inevitabili nuvole della depressione hanno
cominciato a oscurare, a imbrogliare il mio cielo – il petto e la mente – come fosse impossibile che rimanga
limpido, insidiato da un vento misterioso e inesorabile che soffia ogni mattina. […] Ieri mattina ho scritto
poco e male, dopo un buon risveglio; verso le dieci si addensa sul cielo precariamente sereno la nuvolaglia
ansioso-depressiva. […] Man mano che il giorno sale l’angoscia rischia di gonfiarsi, e occupare il cielo,
come un palloncino che nella primissima mattina sia stato gonfio, un concetto di gomma. Diviene poi un
grosso pallone variegato e teso, turgido, ripieno di un gas ammorbante che scuote e aizza le serpi del
cervello. […] Dopo una rara e nuova felicità mattutina mi si comincia a lievitare sul petto una lieve
depressione, senza motivo, come un cielo troppo terso che non regga la propria limpidezza e si offuschi di se
stessa. […] Mi sono svegliato sereno, quasi felice, per il ricordo della sera precedente. Quindi un velo di
nuvolaglia ha ricoperto il blu del petto. Ho avuto, forse per la prima volta nella mia vita, il senso di una
depressione senza causa, anzi con causa euforizzante, una depressione endogena. […] La depressione è un
oscuramento di tutto il cielo, che va dai bottoni dei pantaloni all’orizzonte, passando per il pasto imminente,
per il pomeriggio, per la serata, per l’indomani. La depressione ha cadenze e nello stesso tempo è priva di
storia. Ha la sua cronaca è vissuta come eterna. Dilata lo spazio e il tempo. Dà la paura di vivere,
strettamente apparentata con la morte. Tiene l’esistenza in bilico, mettendola continuamente in causa,
togliendole valore. […] Stamattina lievi nuvole appannano il mio petto svegliatosi sereno. È difficile far
durare la serenità. Andrebbe fissata con una colla. […] Intenderei guardare dall’alto il continuo temporale
che è la mia vita. Temporale che non può placarsi presto. È alto (profondo): occorre dominarlo da più alto
114
ancora. […] Dopo un buon risveglio mattutino, le nuvole sono tornate nel cielo sereno spinte dall’inevitabile
vento. (CC, pp. 60, 94, 151, 153, 177, 178, 180, 183, 225, 241)
Le immagini che Ottieri delinea nel romanzo rinviano alla visione di un’eclisse quotidiana:
il cielo fin dalla mattina è scuro, pieno di nuvole nere, in cui predomina il senso notturno della vita
o quel che ne resta. Non c’è mai il sole ma non si scorge neppure la luna che in letteratura
interviene a lenire le sofferenze dei poeti, poiché la realtà descritta da Ottieri è altra, differente da
quella conosciuta e lontana dalle percezioni normali. È il deserto dell’esistenza, il vuoto che diventa
cosmico, il nulla estraniante, un assorbimento, un prosciugamento dell’essere dilaniato dalla
depressione che come «un reattore succhia all’indietro tutte le forze, le assorbe nel processo
pensatorio infinito» (CC, p. 36).
Nelle opere di Ottieri il tempo è un motivo ricorrente che modifica le sue caratteristiche in
relazione ai diversi luoghi in cui si presenta: è stretto nella fabbrica, libero nei salotti dei Divini
mondani, inesistente nelle cliniche dove ossessiona i pazienti con l’interminabile scansione di
malessere sofferta ogni attimo. Il tempo all’interno del manicomio è un distillatore di sofferenza che
scandisce il Male a singole gocce tra il risveglio, la barba, il vestirsi, la colazione, il the, il pranzo
etc. Attività quasi impossibili per il paziente depresso che vorrebbe evadere dalla prigione per
avventurarsi in città dove il tempo esiste concretamente. Il concetto di tempo malato e sofferente si
ripresenta in tutte le esperienze biografico-letterarie che Ottieri ambienta nelle cliniche cui si lega
l’ossessiva domanda senza risposta: per quanto tempo si resterà rinchiusi lì dentro?
Per quanto tempo sarà così? Per mesi? Anni? Ho terrore. […] La domanda quando guarirò è
considerata la più bambinesca e ritenuta simbolo di malattia grave. Il tempo, il tempo dovrebbe essere,
insieme all’analisi, il grande curatore. Il tempo non esiste più e siamo ossessionati dal tempo. Che cosa ho
davanti oggi alle 15 meno dieci? Il the delle 15 e un quarto, lo spazio massiccio dalla fine del the alla cena
delle 18. (CC, pp. 25, 45)
La depressione è definita in modo inquietante “malattia del tempo” poiché la dimensione
temporale vi è compromessa e sparisce il senso del futuro. Si arresta infatti nell’esperienza di molti
depressi il divenire temporale, bloccandosi la cognizione soggettiva del tempo che passa con la
conseguente perdita della capacità di proiettarsi verso il futuro. Il tempo che non cura la malattia ma
anzi la dilata per tutto il ricovero ha una doppia valenza all’interno della clinica poiché è inesistente
e nello stesso tempo massiccio: esiste nel concreto ma sfugge, opprime lo scrittore ma non si lascia
afferrare. A questo tempo infinito, inesistente e perduto, Ottieri tenta fin dai primi giorni
d’internamento di opporre resistenza afferrandolo con le date, i giorni, i mesi e persino i minuti,
senza tuttavia raggiungere l’obiettivo. È normale, del resto, che lo scrittore tenti di agguantare il
tempo immobilizzandolo nelle date, «ho fame di date. Ma non si fissano date. Questa fame è forse
115
un segno della malattia» (CC, p. 216), perché Il campo di concentrazione è un diario, come afferma
lo stesso Ottieri: «Sono destinato a passare il ferragosto da solo, accompagnato da questo diario, che
certe volte mi nausea, senza nuove amicizie» (CC, p. 136).
Per quanto riguarda il motivo del dolore esistenziale espresso e strutturato nella forma
diaristica, Ottieri avvertiva molte convergenze nei confronti di Pavese riscontrabili nel Diario
(1935-1950) conosciuto anche come Mestiere di vivere39 che, iniziato il 6 ottobre ’35 e chiuso il 18
agosto ’50 pochi giorni prima del suicidio del 27 agosto, sarà analizzato da Ottieri soprattutto in
Contessa. Pavese scrive con ostinata tensione analitica nella tormentosa indagine di se stesso e dei
rapporti con gli altri, avvertendo il sentimento di essere altrove che non gli permise di realizzare il
suo impegno intellettuale come avrebbe desiderato. Per Ottieri l’immagine di Pavese, non solo
scrittore, è stata molto significativa per il suo essere tragicamente in una realtà percepita come
estranea e con la quale non riuscì mai a conciliarsi. La vita di Pavese che filtra dalle sue opere si
dissolve in una continua analisi introspettiva e nei rapporti con gli altri attraverso il Male
angoscioso, nel costante e drammatico scavo interiore fino al suicidio. Ottieri lo ricorda in diverse
opere, dalla Linea gotica all’Irrealtà quotidiana al Campo di concentrazione a Contessa, quando il
Diario di Pavese appare come modello di vita infelice. «Letto il Diario di Pavese. Chi soffre come
Pavese, cioè in modo nevrotico, non desidera che il piacere, e subito» (LG, p. 102). «Il male è il
tempo malato, una malattia del tempo. Come nel Diario di Pavese, il tempo, insidioso, si rivolta
contro l’uomo: mi diventa il nemico peggiore e chiaramente l’essenza del dolore è il tempo
ammalato» (IQ, p. 107). «Ho raccontato loro delle idee suicide di Caterina e del Diario di Pavese»
(CC, p. 186). «Elena confessò di non ricordare nel Diario di Pavese il minimo accenno a un
desiderio di terapia» (CON, p. 50). Il mestiere di vivere, che rappresenta un’esistenza solitaria e
tormentata da un senso di vuoto e d’isolamento, è un’esperienza che Ottieri sentirà molto vicina.
Come anche la consapevolezza della negatività che pesa incessantemente sull’uomo, l’orrore della
sopravvivenza, la lacerazione interiore, il bisogno di socialità, la vana ricerca di una memoria felice,
l’attenzione alla problematica sociale e psicologica.
La forma diaristica in Ottieri è predominante soprattutto all’inizio della sua produzione; egli
ripete spesso di aver in testa una storia ma anche di non riuscire a esprimerla in modo sinfonico,
riassorbendo il contenuto in una forma più schematica, elementare del diario: «Avevo molte idee
originali e esperienze, ma non avevo la trama, la trama! Fobia della mia giovinezza. (Finivo sempre
per scrivere un diario)» (CERY, p. 45).
Di colpo durante il the delle 15 e un quarto mi sento meglio. Sto discretamente dalle 15 e trequarti a
adesso, ore 19. […] Sono le 19 e 30 del 27 giugno 1970 e scrivo sul mio letto. […] Che farò oggi? Prima o
39
PAVESE
Cesare, Il mestiere di vivere. Diario (1935-1950) (1952), Einaudi, Torino 2008.
116
poi dovrò alzarmi. Sono le 9 e 30. […] È freddo, i termosifoni sono accesi il 17 luglio, piove. […] Pur di
lasciar la clinica sono disposto a tutto. Almeno adesso, ore 13 e 30 del 21 luglio 1970. […] Sono le 14 e 20.
Alle 14 e 30 c’è il cambio delle infermiere. […] Ora l’angoscia dura, un po’ attenuata. Sono le 14 e dieci.
[…] Sono le 17 e dieci. Cosa aspetto? La cena. […] È l’una e quaranta di sabato 29 agosto. […] È oggi il 6 di
settembre. Sono ancora malato dopo tre mesi esatti di clinica. […] È il 4 di marzo. […] Oggi è l’8 marzo.
[…] Ancora analisi del 9 marzo. […] Sabato 13 marzo, deserto, primavera. […] 21 marzo: adesso non sono
più capace d’andare via. […] 28 marzo. La paura, la paura. Mi sento irreale e cangiante come un sogno.
Secondo l’analista la mia sensazione d’irrealtà dipende dalla mancanza di relazione. Non so decidermi
d’andare a casa. (CC, pp. 12, 14, 19, 44, 71, 89, 92, 196, 201, 202, 221, 234, 261, 265, 266)
Con l’ausilio delle date ricavate dalle pagine del romanzo-diario, è possibile delineare con
precisione l’arco cronologico di degenza vissuto all’interno della clinica di Zurigo dallo scrittorepaziente Ottieri: la prima data è quella del 27 giugno ’70 mentre l’ultima è del 28 marzo dell’anno
successivo. Sono dunque dieci i mesi raccontati nel diario ma soltanto cinque quelli nominati:
giugno, luglio, agosto, settembre del ’70 e marzo del ’71. Dunque la stagione autunnale, come
quella invernale, viene con accortezza eliminata, così che dalla fine di agosto si passa direttamente
alla primavera successiva. Se si accetta il principio di Ottieri secondo cui si può scrivere solo nei
momenti di minore depressione, allora il periodo del ricovero che va dal settembre ’70 al febbraio
’71 è stato il più difficile e non ne rimane alcuna traccia. A tal proposito giova ricordare che è
notevole l’influsso esercitato dalle stagioni sull’andamento umorale del malato; una forma molto
diffusa riguarda l’episodio depressivo ad andamento stagionale scatenato solitamente dalle due
stagioni di passaggio, la primavera e l’autunno. Per quanto concerne la stagionalità del malessere
che aumenta e diminuisce, la spiegazione viene da molto lontano e vede l’uomo inserito in pieno
nella natura e nei suoi cicli: il mutamento sconvolgente, che in primavera investe la natura e tutti gli
esseri viventi, tocca anche l’uomo. Infatti per gli uomini come per gli animali il risveglio è
provocato e sostenuto da una tempesta di eventi neurobiologici che interessano aree differenti del
cervello, oltre al fatto che in primavera entra in circolo una quantità straordinaria di
neurotrasmettitori, di sostanze eccitanti che hanno un effetto droga, come delle stimolazioni intense
che squilibrano lo stato precedente. Chi è predisposto alla depressione non regge l’urto, non supera
questo squilibrio improvviso e dopo ogni euforia-eccitamento si fa avanti una nuova depressione
come malattia dei ritmi biologici. La depressione stagionale sembra rappresentare un residuo
ancestrale di ritmi stagionali che hanno avuto un importante significato per la sopravvivenza della
specie. Nel mondo contemporaneo, tuttavia, tali ritmi persistono in un ambiente dove siffatte
risposte alle variazioni stagionali non sono più richieste: la società moderna, infatti, esige livelli
stabili di funzionamento, senza intermittenze, nell’arco dei dodici mesi.
Il tempo fisico e massiccio è rappresentato all’interno della clinica dalle lancette
dell’orologio che sembrano muoversi a fatica, come fossero di pietra, impigliate nella sofferenza del
luogo, plasmando un tempo eterno (siccome immobile) e perciò inesistente, inafferrabile. Il
117
momento peggiore si rende concreto al risveglio mattutino quando il depresso vede la giornata
dinanzi a sé come un lago immobile, insuperabile, una melmosa palude che lo riempie d’angoscia.
Appare un’impresa impossibile arrivare alla sera, si prova una solitudine eterna e orrore per tutto
ciò che sta intorno: «Sfioro di nuovo la disperazione. L’ambivalenza acuta mi accompagna sempre
per mano nella zona della disperazione. Nella disperazione si esalta la solitudine, si contano i
minuti, si ha orrore della sedia, della poltrona, della donna delle pulizie, e del mondo. Si ha orrore
soprattutto della stanza da bagno dove comincia la giornata della coscienza» (CC, p. 103). I
momenti della giornata dalla fatica spaventosa di radersi fino alla cena che non arriva mai, «primo
pensiero del mattino: la vita – o la mia vita? – così com’è – o in generale, comunque la vita che io
so procurarmi, non è degna di essere vissuta» (CC, p. 226), sono percepiti dallo scrittore come tappe
forzate di un percorso doloroso da cui non si può fuggire. Il senso di nausea, noia e dolore che
caratterizza il periodo di degenza è legato a questo concetto di tempo che non passa e che rende le
giornate uguali tra loro, inevitabilmente vuote di qualsiasi speranza di guarigione eppure ricolme di
pensieri negativi. La necessità di stare male è avvertita dallo scrittore come una condizione fatale
all’interno della clinica-prigione che non offre possibilità di fuga, tranne il suicidio, e dove il tempo
sembra allearsi alla sofferenza inchiodandosi al muro dell’eternità. La clinica, l’analisi e il tempo,
che dovrebbero in teoria aiutare il paziente a uscire dallo stato depressivo, finiscono per coalizzarsi
con la malattia creando un mondo a parte, un vero campo di concentrazione simile all’inferno in cui
il corpo del malato-dannato è ridotto allo stato primordiale, perdendo progressivamente le fattezze
umane per diventare qualcos’altro.
Guardo sempre l’orologio e il tempo non passa mai. […] Chissà se questa infinità di tempo è tempo
perduto. […] La giornata vuota ma piena come un lungo viaggio del pensiero e dell’emozione. […] Che
domani io non stia troppo male. Sempre questa paura dell’indomani, ogni oggi. […] Spesso, mentre il tempo
non passa mai, guardo l’orologio affinché il tempo non passi. Voglio che manchi il più possibile alla cena,
che lo spazio fra il the e la cena sia eterno e io non debba affrontare di nuovo la tavola silenziosa e allucinata.
Voglio ora che non venga la sera, il sonno, poiché porta le angosce di domattina. (CC, pp. 11, 16, 47)
Una caratteristica rilevante della depressione è il lento trascorrere delle ore, un’altra prova
della disfunzione diencefalica, fino al blocco dell’orologio che marca il tempo interno e arresta il
fluire degli istanti in cui ogni esperienza si solidifica in un presente immobile che dilaga
nell’infinito senza avvenire. Nella percezione del depresso, il tempo presente diventa eterno e in
esso la sofferenza immutabile con l’inevitabile conseguenza che la sua volontà ne risulta paralizzata
e senza alcuna possibilità di decidere o agire poiché tutto è fermo e bloccato, i pensieri come le
azioni. Il tempo vissuto in questo modo dal paziente, oltre a distillare la sofferenza, trasforma la
realtà circostante modificandola nella forma e nella sostanza, e mentre la realtà si alleggerisce e si
assottiglia fino a usurarsi, il Male si dilata all’interno della mente del depresso inglobando ogni
118
pensiero. In quei momenti impalpabili ed eterni, che formano l’intero periodo di degenza, ma non
solo, la realtà lascia il passo all’irrealtà quotidiana che a sua volta si solidifica costruendo un muro
invalicabile, coerente con lo stato di prigionia della clinica.
Poco è concesso al paziente per alleviare il dolore, e in particolare non si può stabilire una
data di uscita dalla clinica; dall’idea di una permanenza settimanale si passa ben presto a
considerare il tempo con lo scorrere dei mesi e degli anni transitando dalla Montagna alla Clinica
incantata. Qui s’intravede l’aspetto purgatoriale dei pazienti-dannati: non più, o meglio non solo si
trovano nei cerchi infernali ma anche nelle cornici del Purgatorio dove il tempo esiste
concretamente e, nella purificazione mentale, viene sofferto a ogni istante con la misura degli anni.
L’analista ha parlato stamani di spostarmi di letto, col tempo. È sempre il tempo lungo che domina
questa avventura, mentre la sofferenza ha sempre più fretta. […] Qui regna il tempo e qualsiasi scatto di
relais è disciolto nella giornata sempiterna, tutta prevedibile, e tutta inattesa. […] La lunghezza della giornata
in clinica usura la realtà, la assottiglia e l’irrealtà si fa più densa, spessa. […] Mi hanno lavato il cervello al
punto di considerare il tempo come lo considerano qui: con la misura degli anni. […] Il tempo dura mesi e la
giornata viene vissuta attimo per attimo. (CC, pp. 56, 107, 124, 144, 145)
Il tempo gioca anche altri ruoli nella depressione: le diverse ore della giornata, come alcune
stagioni dell’anno, esercitano un’influenza scatenante sulla sensibilità del malato. Il fenomeno
dell’alternanza diurna, altro aspetto tipico della malattia, indica una disfunzione diencefalica e
consente al depresso di stare peggio di mattina e meglio verso la sera. Si ritiene che queste
variazioni circadiane della sintomatologia siano sottese da oscillazioni della concentrazione
ematica, e quindi cerebrale, di alcuni ormoni.
Ma come trascorrono i pazienti questo tempo inesistente e massiccio dentro la clinica?
Anche se c’è un comune denominatore, la malattia mentale che in forme e gradi diversi influenza la
loro degenza, i malati trovano differenti modi per passare la giornata tra il ping-pong, l’atelier di
pittura, la dependance, la piscina, le passeggiate, le uscite in città, il cinema etc. Ottieri tuttavia evita
queste attività a causa del suo stato depressivo che a mala pena gli consente di alzarsi dal letto, non
lasciandogli altri spiragli che la scrittura: «È davvero una giornata terribile. Girano vecchi, aspiranti
suicidi, schizofrenici, disperati. […] Sono le 13 e tre quarti. Manca molto alla notte. Non so
assolutamente che fare. L’unica cosa è scrivere di non saper che fare» (CC, pp. 24, 68). Tra i giorni
della settimana quello che più si avvicina al malessere dello stato depressivo è la domenica, di solito
vuota, grigia, interminabile, solitaria che stringe con un nodo d’angoscia la gola dello scrittore. È
una domenica crepuscolare, emblema di un’esistenza malata vissuta ogni giorno, in cui il tarlo
tragico scava nell’anima e nelle cose seppellendo il paziente in un’eterna immobilità dolorosa. Il
repertorio crepuscolare nelle descrizioni mette in risalto malati, infermiere, solitudine, giardini
chiusi, pioggerella incessante, mentre gli elementi che circondano questa realtà in agonia, le
119
situazioni, gli oggetti, come anche le storie di quotidiano squallore, diventano i correlativi allegorici
di una condizione esistenziale emarginata, capace tuttavia di cogliere, grazie a una poetica
sofferente e introflessa, alcuni caratteri essenziali dell’uomo novecentesco come la pena, la
negatività, la nausea, il negativo. Ottieri riprende dalla poetica crepuscolare il tono dimesso delle
descrizioni oltre alla tetra mestizia di non aver nulla da dire e da fare: «io di nuovo agogno la sera,
le luci accese, un crepuscolo. […] Preferisco il crepuscolo alla notte del no e al giorno del sì» (CC,
p. 145). A Ottieri si possono accostare i massimi poeti crepuscolari come Gozzano, Corradini e
Moretti con il quale vi sono evidenti analogie nel descrivere la dimessa atmosfera domenicale,
come un normale giorno di pioggia:
Un’altra giornata totalmente vuota. Starò male per forza. Sto eseguendo un lavoro di dolore. Il
mestiere, qui dentro è la sofferenza. Sono un impiegato dell’infelicità. […] Fra un’ora al massimo debbo
alzarmi. È una domenica grigia, triste oltre la morte. La realtà in cui sono immerso mi ripugna. […] È una
domenica grigissima, di pioggia, sembra che nella piccola clinica non ci sia nessuno, che tutti siano
scomparsi. Non si sente una voce. […] Domenica. Male. […] È brutto tempo, è domenica, sono solo. (CC,
pp. 15, 21, 23, 79, 153)
Io sento in me la stanchezza del giorno domenicale; / del giorno un po’ lacrimoso / che dà i pensieri
più tetri / e fa cercare oltre i vetri / ignote vie di riposo. […] E intanto di fuori / continua a piangere il cielo, /
e continua a stendere un velo / grigio sugli ultimi fiori, […] che questo grigio v’asconda / per sempre agli
occhi mortali / o vi faccia tutte eguali / questa tristezza profonda!40
Il colore grigio che qualifica la domenica crepuscolare cancella la luminosità del giorno
connotando negativamente lo scorrere delle ore, inevitabilmente tristi e più vicine alla visione della
morte che a un barlume di vita. La pioggia sembra essere una fedele ancella di tale giornata grigia e
vuota, caricando l’atmosfera di un senso allucinato di malessere e isolamento, come se il tempo si
fermasse per condannare il poeta a vagare ramingo per la clinica o la città sperduta. Il motivo della
pioggia, sempre caratterizzata dal colore grigio, dalla tristezza e dalla solitudine, congiunge alcuni
versi delle poesie di Moretti con immagini estrapolate dal Campo di concentrazione.
C’è un temporale, piove, alle cinque credo di non poter andare in giardino a veder passare la signora
dei sogni. Ne sono contento. L’ideale del depresso è una malattia fisica che lo costringa a letto, una
mancanza di vita intorno a lui, un divieto. […] Naturalmente non amo il bel tempo, bensì la pioggia che
chiude, rallenta, impedisce. […] È freddo, i termosifoni sono accesi il 17 luglio, piove. Ho un desiderio forte
di persone normali. Ora la malattia non mi affascina. (CC, pp. 47, 71)
Piove. È mercoledì. Sono a Cesena. […] Batte la pioggia il grigio borgo, […] io sono triste. E forse /
triste è per te la pioggia cittadina. […] Guardi le cose intorno. Piove. S’avvicina / l’ombra grigiastra. Suona
l’ora. È tardi.41
40
MORETTI Marino, La domenica della pioggerella, da Poesie scritte con il lapis (1910), in Crepuscolari, a
cura di Francesco Grisi, Newton Compton, Roma 1995, p. 93.
41
MORETTI Marino, Cesena, da Il giardino dei frutti (1915), in Moretti in verso e in prosa, Meridiani
Mondadori, Milano 1991, p. 42.
120
Lo scrittore ha già trascorso alcune settimane in clinica e la sua condizione non sembra
trarne giovamento, anzi il nero della disperazione non gli offre molte speranze. La clinica del
ricovero è la «clinica X. di O. dove si applica la psicoterapia individuale a nevrotici e psicotici e
tossicomani tutti insieme» (CC, p. 14), che agli occhi dello scrittore ha l’aspetto di un luogo chiuso
da cui non si può uscire, simile a un carcere, assumendo anche altre forme nel corso del romanzo,
quali «manicomio» (p. 22), «convento» (p. 113) o «prigione» (p. 106). L’immagine che ricorre con
più frequenza è tuttavia quella dell’inferno, anzi «peggiore dell’inferno» (p. 15), «che si restringe a
un imbuto nel cui punto più stretto sta il disperato» (p. 23), in cui non ci si può «immaginare in
quale girone ci si trovi» (p. 26) e dove il paziente-condannato «non può prevedere come continuerò
a passare attraverso il basso inferno. C’è una perplessità nel dolore: non sa alcune volte da quale
lato gettarsi. Certo, sono molto stanco dell’inferno e continuo a sognare una giornata di gioia» (p.
126). L’inferno è il luogo per eccellenza dove sono condannati i peccatori, anche se per i malati
mentali non è ancora stato predisposto nessun cerchio particolare; eppure il depresso ci si sente lo
stesso, all’inferno, perché la clinica è un luogo recintato da dove è impossibile andar via, diviso in
settori e con un denominatore comune per tutti: la sofferenza. Molti depressi si sentono dannati e
definiscono la loro malattia come un inferno, un baratro oscuro, in cui si avverte il senso di
smarrimento e dove tutto è buio, nero, spento, avendo perso i valori e gli ideali che prima li
guidavano: «La scatenata perfidia della depressione conduce al fatto che dalla clinica non si può
uscire, né vi si può rientrare. Il dentro e il fuori si macellano a vicenda» (CC, p. 46). «Dava una
mancia all’infermiere Caronte, / che teneva sempre una cicca gialla in bocca, / perché ti portasse
con la valigia al tuo girone» (COR, p. 146).
Ottieri descrive la clinica facendo riferimento anche al «campo di concentrazione» (CC, pp.
16 e 165) che, strutturato come un cerchio infernale, oltre a dare il titolo al romanzo mette in luce
l’aspetto più drammatico del periodo di ricovero per depressione, quello di un lager invalicabile in
cui l’uomo mostra le proprie debolezze fisiche e mentali senza alcuna possibilità di sopravvivere e
dove il nero dell’animo, della sofferenza, della speranza, è il colore predominante:
Questo è un campo di concentrazione. […] Non so bene cosa scrivere sulla disperazione, posso dire
soltanto che essa è nera. Colora di nero il mondo e lo restringe a un imbuto nel cui punto più stretto sta il
disperato. È una defecazione incompibile dello spirito. […] Questo campo di concentrazione non vuole
evitare distrazioni? (CC, pp. 16, 23, 165)
L’immagine dell’imbuto rinvia alla struttura dell’inferno dantesco ricolmo di nera
disperazione, dove l’oscurità dei luoghi si condensa nelle anime dei dannati come nelle menti dei
depressi che vi scorgono soltanto un futuro carico di dolore. Infatti la «selva oscura» nella prima
121
terzina dell’Inferno si può intendere come uno stato depressivo; Ottieri percepisce quest’attinenza
quando, nell’ultimo dei nove poemetti di Vi amo, richiama alla mente Dante paragonando la sua
discesa negli inferi all’esistenza sofferente di un depresso.
Anche l’Alighieri / prima di scendere e ascendere / si ritrovò in una selva oscura. / Valicare le mura
della selva / occupa forse tutta la vita, / è un processo che a fasi alterne / dura fino al decesso. / Nei casi gravi
si svolge / fra la camera da letto e il cesso, / nei casi leggeri accompagna / al tavolino e al tornio, / o in giro
per il largo mondo. (AMO, p. 63)
Nelle operette Di chi è la colpa Ottieri immaginerà una sua personale e letteraria discesa agli
inferi nel nono dialogo Che fai stasera? dove Dante e Virgilio discutono di malattie mentali,
psicoanalisi, terapie, letteratura, suicidio, pazzia; si tratta di una summa medievale e allucinata della
poetica e della vita di Ottieri.
Dante: «Io mi trovo per una selva oscura non soltanto nel mezzo del cammin della mia vita, ma ogni
due anni circa, o tutte le sere». Virgilio: «Lo smarrimento della diritta via è sempre della stessa specie?»
Dante: «Sempre uguale e sempre diverso». […] Dante: «Fai la psicoanalisi? Anche io conosco la
psicoanalisi. È nata nel Duecento ma ora, nel Trecento, ha la sua esplosione massima». Virgilio: «Cosa
intendi per esplosione?» Dante: «Una bipolarità» […] Virgilio. «Credi ancora molto nel terapeuta?» Dante:
«Credo nella terapia. […] Divento pazzo. Porto con me, come Cristo tutti i dolori del mondo. C’è distruzione
nella mia follia?» (COL, pp. 143-151)
Ottieri gioca anche sulla doppia valenza del termine «concentrazione» richiamandone il
senso figurato di un’insistente meditazione, spesso riferita al tema della follia, come se fosse una
necessità del depresso la riflessione continua sul proprio stato per affrontare meglio la malattia. La
conseguenza paradossale di questo procedimento, che estende la concentrazione ai limiti massimi di
sopportazione umana fino alla distrazione, si avrà con il dialogo Il campo di distrazione in Di chi è
la colpa (pp. 37-56). Tuttavia non è nella concentrazione che germoglia la speranza di salvezza
poiché il meditare su se stesso, la cosiddetta riflessione interna, corrode con più ferocia la mente del
malato influenzando l’attività del corpo. La concentrazione sul proprio essere, l’auto-riflessione,
conduce lo scrittore depresso a distaccarsi dalla realtà verso l’estraniazione e a catapultare
l’immagine di sé al di fuori del mondo, in quelle zone d’irrealtà quotidiana dove si perdono i
contatti concreti con la realtà circostante fino a raggiungere stati di alienazione totale:
È la concentrazione della follia che dà l’antipatia della realtà, della irrealtà. Se non fossimo
concentrati, saremmo più attraenti… Ma è necessaria ogni sorta di concentrazione, dei corpi e della mente, è
necessaria. […] Il rapporto tra distrazione e concentrazione, qui, non è chiaro. Invitano alla concentrazione
ma considerano migliorato uno che sa distrarsi. […] Ho sempre avuto orrore per l’azione non preceduta, non
partorita da una riflessione intensa. E la riflessione intensa è divenuta il cancro che divora il mio cervello, ha
cominciato a divorare il mio corpo. (CC, pp. 75, 119, 162)
122
L’atmosfera lugubre della clinica del Campo di concentrazione su cui cala spesso un
silenzio tombale grava sui pazienti che, con le loro figure senza volto, formano nell’insieme un
corteo spettrale e angoscioso in cui risaltano stati d’animo deformati dell’individuo ridotto a ombra
di se stesso. La stessa atmosfera allucinata è presente in alcuni dipinti di Edvard Munch, e in
particolare Sera sul viale Karl Johan (1892), L’Urlo (1893) e Angoscia (1894), nei quali il pittore
norvegese coglie i momenti d’ansia solitaria e il dolore dell’individuo dinanzi al cosmo allargato a
dimensione universale dove gli uomini, con gli occhi sbarrati e allucinati, diventano fantasmi di loro
stessi senza alcuna possibilità di fuggire dalla loro condizione alienata. Per Munch dipingere
equivaleva a un’operazione introspettiva, a un lavoro di ricerca nel proprio animo, al recupero delle
ansie sofferte per tutta la vita, così che la sua pittura diventa un esame di coscienza nel tentativo di
comprendere il rapporto con la vita e in particolar modo con la morte: «Attraverso la mia arte ho
cercato di vedere chiaro nella mia relazione con il mondo. Può essere chiamato anche egoismo.
Tuttavia ho sempre pensato e sentito che la mia arte poteva aiutare altri sulla via della ricerca della
verità»42. Stessa motivazione è riscontrabile in Ottieri, per il quale la scrittura è uno strumento di
conoscenza di sé e della realtà esterna, ma ci sono altre analogie significative che accomunano il
loro percorso artistico. Ad esempio, per Munch un inedito orizzonte culturale si stava aprendo sul
finire dell’Ottocento quando alcuni letterati e artisti erano in procinto di elaborare una nuova
poetica che esprimesse i turbamenti e le ansie della società in evoluzione. Munch, esegeta
dell’Espressionismo, portò alle estreme conseguenze questo processo con le sue opere che pur
partendo dalla vicenda biografica assumevano valore universale. Fin dai primi dipinti, anche se con
uno stile ancora impressionista, già si scorgeva l’intenzione di indagare la psiche e di sottoporre la
persona a uno svisceramento interiore per scandagliare il Male insito nell’uomo, tanto che la sua
pittura sembrava in molti casi assumere una profondità interiore che preludeva alla scoperta
psicoanalitica dell’inconscio.
Oltre al percorso artistico, sono le vicende biografiche di Munch e Ottieri che collimano in
modo a volte sorprendente: Munch soffrì di depressione, anche se non in una forma patologica,
ebbe un difficile rapporto con il Padre, soffrì di alcolismo e nel 1908 fu ricoverato a seguito di un
severo crollo nervoso trascorrendo otto mesi in una clinica di Copenaghen dove continuò a lavorare
nella propria stanza trasformata in atelier, come la camera-scrittoio di Ottieri nel manicomio di
Zurigo. La vicenda esistenziale del pittore fu pervasa dal dolore e dall’angoscia di vivere che
influenzarono i suoi dipinti, nell’insieme da considerare come un diario per immagini in cui gli
elementi autobiografici si elevano a raffigurare il destino doloroso dell’intera umanità. Munch,
come farà anche Ottieri, ha costruito un sistema nel quale le opere più importanti si coagulano in
42
MUNCH
Edvard, ne I classici dell’arte – Il Novecento, RCS Quotidiani, Rizzoli-Skira, Milano 2004, p. 66.
123
una sequenza unitaria e dove il significato di ogni dipinto risulta accresciuto dalla vicinanza degli
altri. Una sorta di opera aperta che cresce, si sviluppa e si modifica nel corso degli anni, sempre
pronta ad assorbire i nuovi impulsi, desideri e tormenti dell’artista. Simile è il procedimento nel
lavoro di Ottieri che costruisce il suo sistema attraverso scritti legati tra loro da tematiche e motivi
che s’intrecciano in una ben strutturata “sinfonia”. Un altro tratto in comune è l’ostracismo che una
parte della critica e del pubblico ha rivolto alla loro opera considerata anarchica, disturbata, oscena,
scandalosa, irriverente, in poche parole da evitare. Infine, entrambi si sono occupati di motivi
industriali: Munch nel 1908 iniziò una serie di dipinti ispirati al mondo operaio nelle fabbriche,
mentre Ottieri è considerato il capostipite della letteratura industriale in Italia.
Nella sua stagione più alta, sul finire dell’Ottocento, Munch realizzò alcuni capolavori
destinati ad assurgere a emblemi del suo immaginario e da lui stesso riuniti nel ciclo Fregio della
vita, composto da dipinti apparentati per il loro contenuto che «una volta appesi insieme, mi sembrò
che improvvisamente una stessa nota musicale li unisse. Non avevano più nulla a che vedere con
quello che erano stati fino a allora. Ne risultava una vera “sinfonia”» (Munch, p. 15). Il tema
centrale dell’Angoscia di vivere, sezione che comprende L’Urlo, è l’alienazione dell’uomo moderno
e il suo tormento esistenziale. L’artista stesso ricorda con queste parole l’origine del dipinto:
Camminavo lungo la strada con due amici – quando il sole tramontò. I cieli diventarono
improvvisamente rosso sangue e percepii un brivido di tristezza. Un dolore lancinante al petto. Mi fermai –
mi appoggiai al parapetto, in preda a una stanchezza mortale. Lingue di fiamma come sangue coprivano il
fiordo neroblu e la città. I miei amici continuarono a camminare – e io fui lasciato tremante di paura. E sentii
un immenso urlo infinito attraversare la natura. (Munch, p. 84)
È un grido sovrannaturale, inumano e immobile, silenzioso, strozzato, ricolmo di paura e
disperazione che si materializza e deforma ogni oggetto circostante, mentre l’Essere universale si
sente sempre più solo in un mondo ormai estraneo e a lui ostile. L’Urlo, manifesto dell’angoscia
esistenziale e della disperazione metafisica dell’uomo moderno, irrompe in alcuni passi del Campo
di concentrazione:
Tutta la mia vita è ora aperta, spalancata come un bosco raso al suolo, finché l’ansia e la depressione
non abbuiano tutto, e non rimane allora che uno stretto buco nella terra da cui fischia un urlo di dolore muto,
uno statico soffio di fumo acre. […] Senza che nulla accada dal di fuori, all’interno dell’uomo si svolgono
questi fenomeni vaporosi, tra il petto e la mente. (CC, p. 167)
L’angoscia, l’ansia, la depressione rompono l’equilibrio dell’uomo a contatto con la natura,
mentre quest’ultima ondeggia paurosamente quasi sul punto di essere risucchiata da un vortice
devastatore. Tutto ciò accade nel silenzio terrificante dentro l’animo di quella creatura che si volta
in primo piano, sbarra gli occhi e porta le mani alle orecchie per non udire un urlo che è al
124
contempo suo e del mondo circostante. Questa creatura diventa il simbolo di ogni essere umano
senza sesso, etnia o età, ridotto ai minimi termini tanto che il corpo stesso ondeggia rappresentando
quell’uomo sminuzzato, frammentato e sofferente che gravita nella letteratura d’inizio Novecento
ed emblema della poetica di Ottieri.
L’urlo alla Munch è presente in un altro passaggio del Campo di concentrazione quando una
paziente, malata di depressione, grida la propria disperazione facendo atterrire Ottieri che,
paralizzato dalla paura, non riesce a uscire dal proprio letto:
La pazza – chissà se è pazza – con la vestaglia rossa mi atterrì la sera del suo arrivo. Solo adesso
sono capace di scriverne. Dopo poco il suo arrivo eccitato, in cui aveva, tutta dipinta, stretto le mani di tutti,
dalla sua camera si levò un urlo da folle (la camera davanti alla mia). Ero inchiodato al letto. Non ho visto.
[…] La scena si è subito chiusa, mentre io giacevo nel letto in preda alla paralisi dalla testa ai piedi, lungo
tutte le gambe, i polpacci. (CC, p. 27)
In questo passo emergono due elementi ricorrenti nella pittura di Munch: il colore rosso e la
camera con la malattia o la morte sempre presenti all’interno. Il rosso, oltre a caratterizzare i cieli
allucinati dell’Urlo e di Angoscia, si trova in altri dipinti: è ad esempio il colore della vestaglia della
piccola Sophie, la protagonista de La madre morta e la bambina (1899), la cui figura sembra
bloccata nel tempo con lo sguardo sbarrato verso l’osservatore mentre porta le mani alle orecchie. È
lo stesso gesto della creatura dell’Urlo, quel tentare una difesa estrema contro il dolore del mondo
esprimendo la propria disperazione per la madre morta. Il silenzio opprimente che pesa sul resto
della stanza si spezza di colpo nell’azione di Sophie e il rosso vivo della sua vestaglia sembra
trasformarsi in un suono che rimbomba nel vuoto della camera, alludendo non solo al nulla della
morte ma dell’esistenza in generale.
L’altro motivo, quello della camera, è presente in diversi quadri di Munch come Il Mattino
(1884), Pubertà (1893), Notte a Saint-Cloud (1893), Il giorno dopo (1895), La madre morta e la
bambina (1899). Ne La morte della stanza della malata (1893) la morte prende possesso della
scena mentre i personaggi sono immersi in un alienato stato di prostrazione e solitudine che, nella
lugubre atmosfera della stanza, li chiude nel proprio immobile e muto cordoglio per la morte della
piccola Sophie. La camera nei romanzi di Ottieri rappresenta un ambito angusto e angoscioso in cui
la malattia si presenta in modo inquietante condannando il paziente a fossilizzarsi nel letto senza
alcuna possibilità di fuga. All’interno della camera, in una clinica come nella propria casa, lo
scrittore imprigionato nella sua depressione, osservato e custodito da medici e infermieri (Le
guardie del corpo), trascorre il tempo tra l’angoscia e gli attacchi di panico nell’attesa di una
salvezza sempre più remota. L’immagine della morte entra con insistenza nelle camere di Ottieri ed
è percepita a volte da un sentimento di liberazione dal Male opprimente. Anzi molto spesso, durante
125
le crisi depressive più cupe, si guarda al suicidio come una ragionevole risoluzione per abbandonare
definitivamente una realtà troppo dolorosa.
È a questa morte in faccia, che il suicidio viene preferito. In questo caso della morte addosso è
legittimo dire che ci si suicida per paura della morte e che il suicidio fa meno paura della morte. In questo
caso il male che tiene lontani dal suicidio, ci sbatte a strattoni contro il suicidio e forza l’immaturità
narcisistica verso una maturità ribaltata. Perché il suicidio è, rispetto all’idea di suicidio, una maturazione
genitalizzata. (IQ, p. 108)
E quando dalle cliniche-prigioni andar via è impossibile, ai pazienti non restano che le
soluzioni più drastiche: una di queste è gettarsi dalla finestra: «La finestra non mi serve per fare
venire la luce e per aprirla, ma per buttarmici di sotto» (IMP, p. 166). «La terza settimana non si
vide / poiché a casa si era lanciato / dalla finestra ammaccando l’asfalto. / Non lo aveva salvato / né
farmaco né linguaggio» (COR, p. 124).
È stata nella saletta seduta come una statua la schizofrenica che prima di venire qui si è gettata dalla
finestra. Sono, siamo noiosi. […] La schizofrenica che si è buttata dalla finestra mi ha detto ieri sera che è
felice. La felicità c’è anche qui, randagia, astratta. […] La depressione rode piano piano le radici della vita, le
toglie il perché. La depressione è logica: la catena dei pensieri che si conclude con la mancanza di una
motivazione alla vita è il tipo razionale. Il suicidio è la conclusione logica della depressione. Deve sì
combattere con l’istinto di conservazione; qualche volta lo vince. Quando? L’altro ieri la paziente graziosa,
che ride sempre, la madre ventenne felice d’essere qui, si è buttata dalla finestra. (CC, pp. 130, 156, 169)
Il motivo del suicidio è presente fin dal primo romanzo di Ottieri, Memorie dell’incoscienza,
in cui il protagonista Lorenzo non riuscendo a sopportare una deficitaria realtà storica per
l’occupazione nazi-fascista di Roma, e sentimentale per l’amore non corrisposto di Katja, pensa di
uccidersi. Di suicidio si tratta anche nel romanzo industriale Donnarumma all’assalto quando il
dramma colpisce i disperati disoccupati del sud Italia che cercano, non trovandolo, un lavoro per
affrancarsi dalla miseria. Spesso il suicidio si presenta al depresso come l’unica idea consolante,
una sorta di uscita di sicurezza preferibile alla malattia. La depressione comporta un tipo di dolore
che non ha eguali tra le varie sofferenze cui l’uomo è sottoposto; intenso dolore fisico e mentale,
spesso avvertito come eterno oltre le possibilità di resistenza umane. Dinanzi al malato si spalanca
un panorama desertico senza luce né segno di vita dove tutto, dall’interno, si spenge così
intensamente che l’istinto di conservazione viene meno, la spinta verso la vita si affievolisce, il
legame con i sentimenti si dissolve. L’idea della morte è dunque un sintomo basilare della
depressione quando si vive come una malattia non curabile. Oltre ai suicidi definitivi e improvvisi,
ci sono molti suicidi lenti, i più frequenti, che consistono col lasciar perdere la propria vita giorno
dopo giorno ricercando la morte con la droga o l’alcool.
126
Il ricovero, la malattia, il sentimento d’irrealtà provato all’interno della clinica conducono lo
scrittore ad avvertire spesso un forte senso di estraniazione nei confronti del luogo circostante che
appare, in modo grottesco, di vacanza mentre l’unico panorama possibile è quello di una piccola
stanza adibita a farmacia proprio davanti alla sua camera:
Estraniato pomeriggio. Tutto è strano qui, tra il carcere e la villeggiatura. […] Le infermiere aprono e
chiudono continuamente la porta della farmacia, perché è regola chiuderla anche se si allontanano un istante
– per tema che qualche paziente (io, per esempio) si getti a fare una scorpacciata di pillole. Questo è il
panorama che io godo quando sto sul mio letto perché è davanti alla porta sempre aperta che dà sull’amena
saletta. Questo è l’unico panorama che ho visto dalle tredici alle ventuno, durante le prime tre settimane
quando stavo disteso sul letto in preda ai pensieri orridi. (CC, pp. 13, 88)
In tale ambiente, il riferimento alla villeggiatura e al panorama da osservare rende ancora
più crudele il ricovero forzato del paziente che può solo fantasticare sulle medicine della farmacia a
pochi metri dal suo letto. In questo microcosmo che è la clinica, il letto è luogo indispensabile di
tutti i ricoveri, un atollo fisso, stabile e determinato, una certezza (forse l’unica) per il degente che
vi passa gran parte del tempo dal momento del risveglio fino alla notte, oppresso da una lastra di
piombo poggiata sul petto che gli impedisce qualsiasi tipo di movimento. Vero e proprio «feticcio
della malattia» (CC, p. 71), il letto diventa una protesi del corpo e dell’animo del malato che lo
percepisce come un nido dal quale è quasi impossibile distaccarsi, come già appurato in un passo
dell’Impagliatore di sedie: «Sarebbe voluta restare a letto per sempre. […] Il mattino la spaventa»
(IMP, p. 183).
Tuttavia nei momenti di minor pressione, quando il malessere si allevia, lo scrittore può
registrare la propria esperienza su carta, quasi documentando il proprio stato psichico fino ad autoanalizzarsi. La scrittura diventa quindi necessaria per sopravvivere e salvare quella parte di sé
ancora indipendente e non sopraffatta dalla malattia. Ottieri utilizza alcune metafore nel tracciare gli
elementi fondamentali del carattere salvifico della propria scrittura: essa è un «salvagente» al quale
egli sta «attaccato come un naufrago in mezzo a un mare immenso, calmo sì, ma da cui non si vede
alcuna riva. Un mare bianco. Appena lascio il salvagente, affogo» (CC, p. 17). Questa sensazione
rinvia al «naufragar m’è dolce in questo mare», fondamentale esperienza estetica di Leopardi
implicitamente presente nella mente di Ottieri con continui rifacimenti d’immagini e sensazioni. In
questo caso, si riprende il motivo del naufragare che Leopardi ha espresso attraverso un’esperienza
sensistica in cui l’immaginazione si distaccava dal reale per sprofondarsi nel nulla infinito mentre il
pensiero del poeta s’immerge oltre l’esplorazione delle sensazioni umane e terrene: «E sovrumani /
silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo. […] Così tra questa / immensità s’annega il
127
pensier mio: / e il naufragar m’è dolce in questo mare»43. Il lavorio del pensiero permette di varcare
il confine tra il reale e l’immaginario, ma se per Leopardi quest’abbandono metafisico può
rappresentare un istante d’inebriante dolcezza, in Ottieri la meditazione malata fa affondare il
depresso nell’abisso di strazianti ossessioni. Il rifacimento, o meglio la parodia dei versi
dell’Infinito, è presente nella descrizione che Ottieri fa della propria camera da dove l’unico
panorama plausibile sembra essere la stanzetta delle medicine. L’«estraniato pomeriggio» in cui
«tutto è strano» rinvia all’atmosfera metafisica dell’«ermo colle», mentre le percezioni visive si
stagliano sulla soglia della porta e sulla siepe leopardiana «che tanta parte / dell’ultimo orizzonte il
guardo esclude». Il paziente Ottieri non può vedere altro dalla sua camera che è la cella di una
prigione simile alla stanza di Recanati per Leopardi, e l’unica sensazione udibile è rappresentata
dall’aprirsi e chiudersi della porta della «farmacia» che, come lo stormire del vento sulle foglie,
rinvia a un altro mondo distinto dall’illusorio benessere delle medicine nell’attimo di smarrimento
in una pace superiore. Dalle Betulle della Corda corta, s’intravede (per difetto) un altro possibile
infinito: «Nei limpidi giorni / vediamo oltre le betulle, la Grigna, / il Resegone e, più vicino, gatti, /
cespugli, erbe, rododendri, azalee. / La porta della hall non è chiusa; spalancata / è l’immaginazione
protetta, sovrapensiero, / e la non necessaria fuga» (COR, p. 126).
In un altro passo del romanzo, Ottieri descrive una domenica pomeriggio trascorsa nel
giardino della clinica rilevando una quiete assoluta che rinvia a quella «profondissima» dell’idillio
leopardiano: una sorta di pausa dal dolore, d’interruzione momentanea della sofferenza che può
coincidere, in Leopardi come in Ottieri, nel nulla, nell’immaginazione suprema, nell’estasi, nella
regressione infantile, nell’incoscienza, nel sonno. Lo stato di dolorosa prigionia sofferto in modo
individuale è assunto a emblema della più generale condizione umana assillata dal male e dalla
noia, in cui all’individuo privato del piacere e gettato in un mondo negativo non resta che sognare
una realtà altra, come può avvenire durante il sonno, momento sublime dell’esistenza in quanto
allontana il Male dalla mente e dal corpo degli uomini offrendo gli unici momenti di pace:
In ciascun punto della vita, anche nell’atto di maggior piacere, anche nei sogni, l’uomo o il vivente è
in istato di desiderio, e quindi non v’ha un solo momento nella vita (eccetto quelli di totale assopimento e
sospensione dell’esercizio de’ sensi e di quello del pensiero, da qualunque cagione essa venga) nel quale
l’individuo non sia in istato di pena.44
Ottieri riesce ad annullare il dolore della depressione e assopire il male di vivere solo
durante il sonno che avvicina l’uomo alla morte, alla pace eterna dove l’annullamento totale dei
sensi concede l’unica possibile salvezza: «La notte dormo anch’io e non posso godere con la
43
44
LEOPARDI Giacomo, L’Infinito (1819), in Poesie e prose, vol. I, cit., p. 49.
LEOPARDI Giacomo, Commento all’Operetta morale Dialogo di Torquato
(1824), in Poesie e prose, vol. II, Meridiani Mondadori, Milano 1988, p. 1310.
128
Tasso e del suo genio familiare
coscienza la pace dell’incoscienza» (CC, p. 57). Si tratta dunque dell’agognata notte
dell’incoscienza in cui l’uomo regredisce allo stato infantile per assaporare la dolcezza del nonessere senza contatti con il mondo tangibile, immergendosi in quella realtà altra che si avvicina alla
morte e che fa sprofondare ogni cosa nell’oblio. Al risveglio invece appartengono, oltre alla
coscienza, elementi negativi quali i pensieri, primi nemici della giornata appena iniziata, e osservati
dal paziente come un esercito che avanza inarrestabile fino al letto del malato per opprimerlo con
armi invincibili. Le contrapposizioni tra coscienza e incoscienza, tra il giorno e la notte, tra la veglia
e il sonno, tra il male e la quiete, presenti in tutta la degenza, sono spesso ricordate durante le analisi
a cui Ottieri si sottopone:
Del mio concepire la realtà come madre archetipica. Del mio preferire la vita dell’incoscienza (la
notte) a quella della coscienza (il giorno). […] Il mio risveglio è un lento, faticosissimo, dolorosissimo
districarsi dall’incoscienza e un immediato snudare la spada contro la schiera dei pensieri chiari e nemici che
avanza col giorno. Avanzano questi pensieri in formazione obliqua, prima l’uno, poi l’altro, poi tutti insieme,
fino a che, completamente risvegliato, a metà scalata dal pendio alto del mattino, formano un plotone
compatto e confuso dentro cui rumina un’ansia cupa, che lega le gambe e le braccia. […] Mi vogliono far
diventare maturo ragionevole guarito e io voglio rimanere un bambino che vive la notte e oblitera il giorno,
affascinato dall’incoscienza, tirato indietro la mattina da corde che lo riportano verso la notte trascorsa. Un
bambino che non si sdipana mai dalla unica dolcezza del sonno e non accetta una nuova giornata. Che cosa
gli dà questa nuova giornata se non il dolore? (CC, pp. 56, 59, 148)
All’interno della clinica, la scrittura diventa per il paziente uno strumento di sopravvivenza
fisica non tanto per avere un miglior contatto con la realtà, sempre fucina di dolore, ma per restare
legato a quel barlume di esistenza materiale che s’intravede a stento. Tra vivere e scrivere Ottieri
sceglie la seconda via perché non è possibile percorrerle entrambe; inoltre nella prima si scorgono
solo binari morti, anche se lo scrittore non sceglierà mai in modo risolutivo in quanto il problema
della scelta gli impedisce di prendere una decisione congrua tra le varie opzioni che si presentano in
ogni situazione ambivalente. Tuttavia, durante il ricovero nel Campo di concentrazione, tra il tutto e
il nulla e tra il vivere e lo scrivere, Ottieri propende senza dubbio per il nulla e la scrittura, con la
speranza di immergersi nel sonno del pensiero ed evitare in questo modo la realtà. Si può anche
notare come al concetto del sonno si leghi quello dei sogni, con le frequenti apparizioni della
Signora dei sogni che spesso passeggia nel giardino della clinica, e quindi dell’inconscio con
l’incoscienza strettamente legata al nulla e alla scrittura, attraverso un procedimento tipico in Ottieri
che condensa in poche righe motivi che si ritrovano, si ampliano, si modificano nelle sue opere
anche a distanza di decenni. È caratteristico inoltre l’accenno autoreferenziale alle opere scritte in
precedenza e nate da particolari condizioni di vita, come si è osservato correlando L’irrealtà
quotidiana al Padre. Nel passo seguente, estrapolato dal Campo di concentrazione, Ottieri richiama
alla memoria il periodo di Donnarumma e dei Divini mondani:
129
Ho fondato la Letteratura industriale e con l’ultimo libretto ho aperto la strada di una possibile moda.
[…] Stanotte ho sognato di tornare al mio vecchio lavoro d’ufficio. […] Forse è un libro quello che sto
scrivendo. Vorrei, se mai, scrivere ancora un libro sui mondani: con la storia autobiografica di uno che vi si
perde dentro. Non conosco un altro mondano, eccetto quello che ho già descritto, così bene da viverlo come
protagonista. E io non so inventare. (CC, pp. 41, 224)
La chiosa «io non so inventare» mette in luce una caratteristica peculiare della sua scrittura,
ossia lo spunto autobiografico che serve da stimolo per raccontare le esperienze vissute. Inoltre, è
proprio attraverso il filtro della letteratura che lo scrittore riesce ad analizzare meglio la sua vita
mettendo in risalto, grazie alla memoria, quei momenti trascorsi dentro l’involucro buio della
depressione e difficili da descrivere:
Io sono distante dalla vita ma desidero la vita. Quali giorni ho passato qui nelle prime due settimane.
È che non potevo scrivere e adesso non li ricordo, sono un’unica sofferenza uguale. Tali giorni mentre si
vivono non si possono scrivere, quando si sono vissuti non si possono ricordare. Perciò è difficile offrire una
descrizione della disperazione. Forse impossibile. Se ne può dare soltanto una eco, quando è passata. Durante
la crisi si è muti, oppure il lamento è lungi dal poter essere fissato su carta, è labile, è caleidoscopico, è
molle, agghiacciato, non può essere raccontato. (CC, p. 20)
Il sentimento di vuoto, di abbandono, di assopimento della ragione e dei sensi si lega in
Ottieri alla scrittura che, paragonabile al sonno, diventa un mezzo per estraniarsi dalla realtà
sofferente e placare il malessere quotidiano.
Sono gonfio d’ansia. Non voglio smettere di scrivere altrimenti piombo in una vita che mi ripugna. È
sempre la legge del tutto o del nulla, la mia legge. O tutto vivere o tutto scrivere. Dovrei fare una passeggiata
ma non me la sento. Non voglio alzarmi, voglio continuare infinitamente a scrivere, evitando di radermi, di
mangiare, evitando la realtà. Dio, e se d’un tratto non trovo più nulla da scrivere, devo risvegliarmi da questo
sonno, staccarmi da questo steccato puro contro la disperazione (per ora non sto scrivendo di nulla) e
affrontare la stanza da bagno, lo stare ritto, l’incubo del pasto di mezzogiorno. (CC, p. 18)
Ottieri registra la propria esperienza su carta come se stesse analizzando il proprio stato
psichico fino all’auto-analisi, così che la scrittura diventa necessaria per sopravvivere,
presentandosi come un «salvagente» al quale lo scrittore sta «attaccato come un naufrago in mezzo
a un mare immenso, calmo sì, ma da cui non si vede alcuna riva. Un mare bianco. Appena lascio il
salvagente, affogo» (CC, p. 17). Riguardo al valore salvifico della scrittura, Ottieri utilizza altre due
metafore che sono la roccia per lo scalatore e il cornicione per l’operaio, e in entrambe le situazioni
l’atmosfera circostante è così carica di angoscia che l’intervento della scrittura, come unica
possibilità di sopravvivenza, appare quasi obbligatorio: «Sto attaccato allo scrivere come un
rocciatore ansioso su un appiglio marcio. […] Sto attaccato allo scrivere astratto come sta attaccato
a un cornicione l’operaio che è scivolato giù dal tetto» (CC, p. 18). Nel primo caso, la caratteristica
130
del rocciatore è l’ansietà, un tratto tipico del depresso, mentre la roccia su cui basa la propria
salvezza è marcia quindi pronta a cedere sotto il suo peso; nel secondo, l’operaio è già scivolato dal
tetto e sta sospeso su un cornicione che sporge nel vuoto. Se si riprende anche la prima immagine,
quella del naufrago con il salvagente, si può constatare che le tre metafore sono caratterizzate dal
movimento del cadere giù e che gli appigli per salvarsi sono molto labili, quasi inconsistenti: in
senso figurato è la depressione che fa sprofondare lo scrittore nel vuoto. Come è del resto
impalpabile lo scrivere astratto che nasce da questo generale stato di malessere e di afflizione: «Non
scrivo più da una settimana. Ora scrivo soltanto per disperazione. Scrivo per disperazione perché
non ho altra alternativa di vita» (CC, p. 227). La scrittura, pur nascendo dalla depressione, ha valore
salvifico; ma quali sono gli argomenti che può trattare? Del nulla, risponde Ottieri, e qui il cerchio
sembrerebbe chiudersi: la vita è un orrore e la depressione fa precipitare il malato nel vuoto dove la
scrittura è l’unico strumento per sopravvivere e non impazzire completamente; tuttavia la scrittura
parlerà proprio di questo vuoto, del nulla, della malattia che allontana il paziente dalla realtà:
Non so assolutamente che fare. L’unica cosa è scrivere di non saper che fare. Non ho in mente
nessun libro nuovo. Scrivo del nulla. Non ho appigli. Sto sospeso in aria, con l’aria che manca. […] Quello
che sto scrivendo non posso fare a meno di scriverlo. Devo fissare questo nulla. Nelle prime tre settimane il
nulla era troppo pieno di disperazione. Diminuita la disperazione, prende forza il lavoro. Non ho altro lavoro
che scrivere, scrivere anche del non scrivere. Procedo con la penna come procedevo con il pensiero. (CC, pp.
68-69)
A questo punto emerge una caratteristica essenziale della poetica di Ottieri, ben evidente non
solo nel Campo di concentrazione: la scrittura si proietta in quelle zone inesplorate della mente
umana dove, a causa della malattia mentale, i legami con la realtà sono rescissi mentre l’unica vita
rimasta sembra soltanto quella psichica tuttavia malata, sofferente, estraniata. La malattia mentale
crea dunque l’unica realtà possibile che è anche il nulla vissuto all’interno della clinica dove la
scrittura si erge a ultimo baluardo di sopravvivenza per lo scrittore-paziente. Ciò nonostante la
scrittura, che nasce dalla malattia e parla della stessa esplorandone i meandri più nascosti e
dimenticati, riporta alla luce (sulla pagina) tutto quello che difficilmente si può esprimere a parole:
depressioni, sofferenze, ossessioni, dolori etc. Il binomio scrittura salvifica-disperata non si scioglie
in Ottieri, anzi diventa un elemento distintivo della sua letteratura che non può dare alcun ristoro
dalla malattia, e quando s’intravede una labile salvezza essa è solo apparente:
Rimango qui e scrivo, di nulla. Lo scrivere filtra l’angoscia, la depura dalla confusione mentale,
almeno. E forse questo scritto sarà un documento. È letteratura? Non ho mai scritto in questo modo evitando
totalmente lo stile. Scrivo unicamente per sopravvivere, per gettare un ponticello sopra l’abisso, per essere
nella realtà e nello stesso tempo per estrarmi dalla realtà. Scrivo solo per spremere sulla pagina una goccia di
soddisfazione, di pausa (e invece sto ugualmente, grigiamente male stamani). Scrivo per salvarmi. […] La
letteratura vince tutto? La specie di letteratura che sto facendo è pagata troppo cara. E forse si sta esaurendo:
131
allora non resterebbero che il suicidio o il vero romanzo. […] Non scrivo da una settimana, ora scrivo
soltanto per disperazione. Scrivo per disperazione perché non ho altra alternativa di vita. […] Scrivo sempre
senza la speranza che la letteratura mi renda felice. (CC, pp. 21, 162, 227)
La malattia riesce dunque a farsi scrittura e a parlare di sé attraverso il paziente-scrittore,
l’apparente personaggio principale, ma in verità è la malattia la reale protagonista del Campo di
concentrazione e l’affermazione precedente «o tutto vivere o tutto scrivere» si può leggere in
un’ottica diversa: il binomio non è in contrasto definitivo perché la malattia, attraverso la scrittura,
racconta l’unica esistenza possibile (dentro una prigione) permessa al depresso, simbolo universale
dell’uomo moderno.
Descrivere una giornata di relativo benessere, si può tentare. È la giornata nera, la quale sempre
ripete il suo varco incompatibile tra vivere (soffrire) e scrivere, che è difficile da scrivere. […] Non ho voglia
di lavorare alle poesie. Mi fissa troppo qui, mi concentra qui dentro, mentre la mia mente, pur altamente
concentrata in questo campo di concentrazione, deve rimanere libera all’altrove distraibile. Scrivere quello
che sto scrivendo ora mi permette in qualche modo di non scrivere ma soltanto di registrare dei pensieri,
quasi gli stessi pensieri che penso. Lo scarto fra pensiero ossessivo e pensiero scritto è il più possibile
ridotto, anche se la registrazione dà un’idea lontana della realtà pensosa. Questo scritto non è scritto in senso
letterario. Credo che la clinica non lasci fare letteratura, creazione. Frantuma tutto con il male. Questa
scrittura assomiglia, mi sembra, a quella epistolare, e tende ad appoggiarsi a luoghi comuni. Manca di
impennate linguistiche. Siamo, con la depressione, anche agli albori di un contenutismo, di un realismo
elementare, che non si accende di splendore stilistico nemmeno quando è sua intenzione descrivere orrori.
(CC, pp. 37, 44, 45)
In questo passo del romanzo Ottieri espone l’aspetto nucleare del rapporto tra letteratura e
malattia, o meglio quale tipo di letteratura può nascere all’interno di una clinica. Nel presentarlo
egli gioca su diversi contrasti che si possono delineare attraverso sei coppie d’opposizioni: clinicaletteratura, prigione-libertà, campo di concentrazione-altrove, registrazione-scrittura creativa,
pensiero ossessivo-pensiero scritto, contenutismo-estetismo. Il risultato di queste antinomie
arriverebbe però a negare un presupposto fondante della poetica di Ottieri, ovvero il rapporto tra
clinica e letteratura, poiché come egli stesso afferma esplicitamente «creo che la clinica non lasci
fare
letteratura,
creazione».
La
creazione,
all’interno
della
clinica-prigione-campo
di
concentrazione, è negata a causa del Male che frantuma qualsiasi tentativo di fare letteratura; di
conseguenza non solo il personaggio-uomo (depresso) è frantumato ma anche la stessa creazione
letteraria, così che la malattia impedisce allo scrittore di essere tale per trasformarlo sic et
simpliciter in un registratore di dolore. Ottieri, durante la permanenza in manicomio, sente che la
depressione ha la forza di rinviare la scrittura a uno stadio primitivo, individuato negli «albori del
contenutismo» e nel «realismo elementare», avvicinabile a un tipo di scrittura infantile influenzata
dalla malattia. La conseguenza più immediata è che lo scrittore si percepisce senza fantasia e che,
132
dentro la clinica, egli può solo comporre un’opera documentaria dallo stile approssimativo e con
tendenza epistolare.
L’analista insiste nel distinguere l’illusione dalla fantasia, apprezza quest’ultima e gli piacerebbe che
la prossima volta io uscissi dal documentario per creare un’opera esclusivamente fantastica. Fino ad adesso
ho ripetuto tante volte di essere uno scrittore senza fantasia. Secondo l’analista un serbatoio del mio
inconscio è ripieno di fantasia non venuta alla coscienza. Reagisco nel mio solito modo: esiste l’inconscio?
(CC, p. 240)
Il termine inconscio trova impiego come aggettivo per qualificare i contenuti non presenti
alla coscienza, e come sostantivo per indicare una zona dello stato psichico. Questo concetto è
centrale in tutte le psicologie del profondo per le quali i contenuti della coscienza non sono originari
ma derivati da processi che, sfuggendo alla coscienza e a essa antecedenti, sono detti appunto
inconsci. Per Ottieri l’inconscio, anche filtrato dagli studi psicoanalitici, è stato un motivo che ha
caratterizzato non solo i periodi trascorsi nelle cliniche ma una vita intera: «L’inconscio, l’inconscio
tutta la vita. E anche adesso l’inconscio comanda. È lui che se vorrà mi manderà via dalla clinica. A
me sembra di vivere, di essere tutto nella coscienza, e di cercare non l’inconscio ma l’incoscienza»
(CC, p. 91). L’inconscio nella teoria psicoanalitica è considerato da due punti di vista, descrittivo e
topico. Nel primo uso, inconscio è un aggettivo che si riferisce a tutti quei contenuti psichici che
non compaiono nell’orizzonte della coscienza, mentre nel secondo s’intende l’inconscio come un
luogo dell’apparato psichico dove si trovano tutti quei contenuti cui è stato rifiutato l’accesso al
sistema conscio tramite la rimozione.
Nel periodo di degenza descritto nel Campo di concentrazione, molti sono i riferimenti
diretti alla psicanalisi e Ottieri si presenta nella tripla veste di paziente, scrittore e studioso della
materia: egli è in analisi ma si auto-analizza conoscendo gli strumenti della psicanalisi con i suoi
pregi e limiti, dopo averla studiata, vissuta, sviscerata. Ancor prima di entrare nella clinica di
Zurigo, infatti, lo scrittore aveva seguito per alcuni anni un’analisi freudiana senza tuttavia ottenere
sensibili miglioramenti:
Anche la Dottoressa è del parere che io debba innanzitutto diventare più sicuro di me e ciò con
l’analisi, e ciò attraverso mesi, anni. Farò l’analisi tutta la vita, oramai. […] Che cosa mi farà mutare?
L’analisi. Ma ne ho già mancata una, freudiana, di tre anni più due anni. Riuscirà la nuova analisi a fare di
me un capo e non un suiveur? (CC, p. 142)
Il campo di concentrazione è l’attuazione letteraria delle teorie psicanalitiche, nel senso che
il paziente, tentando di curare i propri disturbi psichici, applica su se stesso, studiandole e
offrendone poi un resoconto dettagliato, i metodi della psicanalisi. Nel corso del processo
terapeutico, la psicanalisi prevede l’uso di diverse tecniche come, ad esempio, l’associazione libera
133
che incoraggia il paziente a esprimere qualunque pensiero anche se illogico, irrilevante o
imbarazzante. La finalità di tale procedimento è che, eliminando il giudizio e l’interpretazione
dell’intelletto, la persona aggiri le difese dell’io e faccia luce sulle radici inconsce dei suoi
problemi. Ottieri concretizza questa tecnica con la stesura di poesie, confluite nel Pensiero
perverso, che, seguendo un processo automatico, gettano su carta i pensieri non bloccati dalle difese
dell’io.
Un’altra tecnica riguarda l’interpretazione dei sogni usata dai terapisti di orientamento
psicoanalitico per rendere conscio l’inconscio, individuando i significati nascosti o i meccanismi di
difesa rilevati dalle azioni e dalle affermazioni del paziente; i sogni rappresentano dunque degli
indizi rimarchevoli che mettono in luce la vera natura dei problemi. Secondo Freud il contenuto dei
sogni ha due livelli: uno manifesto determinato dagli avvenimenti espliciti e concreti del sogno,
l’altro latente che rinvia a un significato nascosto e simbolico. I sogni di Ottieri raccontati nel
Campo di concentrazione sono tre, accompagnati dalle riflessioni dell’analista che, con l’ausilio del
paziente stesso, tenta di rilevare gli elementi più significativi anche se dalle parole dello scrittore
filtra una certa sfiducia: «Sono sempre restio a prendere in considerazione i sogni. Li scrivevo e
analizzavo venti anni fa, quando cominciai la mia prima analisi. Occuparmi dei sogni oggi mi dà
l’impressione di ricominciare tutto da capo, di essere tornato alle scuole elementari, che tutto il mio
lavoro freudiano non sia servito a niente» (CC, p. 74). La psicoanalisi attribuisce al sogno un
significato psicologico rintracciabile attraverso l’interpretazione, compiendo all’inverso il cammino
intrapreso dal lavorio del sogno che trasforma il contenuto latente in manifesto, e che dunque non è
creativo
bensì trasformativo
mediante quattro operazioni:
condensazione,
spostamento,
rappresentazione, elaborazione secondaria. L’interpretazione del sogno è considerata da Freud
l’analisi principale che può condurre alla conoscenza dell’inconscio nella vita psichica, in quanto fa
retrocedere il sogno dal contenuto manifesto al significato latente cui conducono le libere
associazioni del sognatore e la conoscenza del simbolismo onirico.
Il medico che ebbe in cura Ottieri durante il ricovero alla Klinik am Zürichberg fu Philippe
Rupp al quale lo scrittore, appena rientrato a Milano, invia una lettera:
Caro Dottore, il nostro rapporto, così amichevole, è morso alla base dall’essere lei stato per un anno
il mio padrone, dall’averla io vissuta anche come padrone. […] Il pensiero, a questo punto morto, va al bere.
Ma mi sta accadendo qualcosa a proposito del bere (almeno nei momenti di non crisi): mi disgusta, non mi
dà la minima euforia e mi dà il massimo di sensi di colpa. Stamattina mi sembra di essere fermato, d’essere
formata una solitaria follia, rotta dall’ora alla settimana con lei, però schiacciata da una massa d’ora di treno
e da quelle strane ore in clinica di cui godo la pace perché so di potermene andare anche dopo mezz’ora. […]
La mia vita è ancora grigia, la pubblicazione del mio libro troppo lontana, la vibrazione euforica del primo
mattino in cui adesso mi sveglio si spegne sugli spalti delle 11 e 12 nell’attesa del pasto. Questa vita non è
degna di me. Un anno di clinica a Zürichberg mi ha reso cerebralmente scheletrico. Lei deve aiutarmi a
vivere con sentimento fuori della clinica. (Lettera non datata, probabilmente dell’autunno ’71)
134
Con questa lettera Ottieri collega, dal punto di vista letterario, Il campo di concentrazione a
Contessa, il romanzo successivo non ancora pensato e che sarà pubblicato ben quattro anni dopo; il
riferimento all’abbandono della clinica di Zurigo ma con l’obbligatoria visita settimanale, e dunque
l’angoscioso viaggio in treno Milano-Zurigo, sarà infatti il motivo conduttore di Contessa in cui
Elena Miuti, la protagonista alter ego femminile di Ottieri, ripercorre in forma romanzata alcune
vicende vissute dallo scrittore dal soggiorno a Pozzuoli, alla scrittura di Donnarumma, ai ricoveri,
alla terapia settimanale. Inoltre in alcuni passi della lettera Ottieri riprende degli elementi che hanno
contraddistinto Il campo di concentrazione come il sentirsi uno scheletro nell’anima, il rapporto di
dipendenza con gli alcolici, l’esistenza che come tale non è degna di essere vissuta, evidenziando la
comunione d’intenti tra vita e letteratura imprescindibile nella sua poetica.
Un interessante commento al romanzo lo offre Ferruccio Foelkel in una lettera inviata a
Silvana Mauri il 23 febbraio del ’72, pochi giorni dopo l’uscita nelle librerie del Campo di
concentrazione:
Cara Silvana, sul Campo di concentrazione posso davvero dire di godere e partecipare di un libro
straordinario, a me mitteleuropeo e con abbondante sangue ebraico profondamente vicino. […] Opera così
desueta nella letteratura italiana, un’opera che – forse – non verrà capita e apprezzata. Penso che sia
superiore a Donnarumma, e comunque alle altre opere di Ottiero. (23 febbraio ’72)
II.5 Contessa
Come un assassino è solito tornare sul luogo del delitto, così per un paziente è logico
rientrare nella clinica dove ha trascorso un periodo, in parte lungo e critico, di degenza. In Contessa
Ottieri racconta il ritorno in quella Klinik am Zürichberg che nel Campo di concentrazione è stata
descritta come un lager. Tuttavia per la Contessa Elena Miuti, il primo alter ego femminile dello
scrittore, le circostanze sembrano migliori. La Contessa non è ricoverata nella clinica dove entra e
esce quando vuole dovendo saltuariamente seguire una psicoterapia; la clinica non appare più un
campo di concentrazione in quanto le sue porte sono state schiuse da immaginarie forze di
liberazione che, pur scarcerando il paziente dal lager, lasciarono intatta la struttura del manicomio
dove pazienti, medici, infermieri, continuano a vivere all’interno. Elena si trova sospesa in questa
nuova condizione: libera dalla prigionia ma non del tutto poiché la terapia le impone di rientrare
nella clinica almeno una volta alla settimana.
135
In Contessa Ottieri pone un altro importante tassello sul processo formativo del personaggio
malato, che è lui stesso attraverso numerose controfigure maschili e femminili, in un’originale
Weltanschauung che attraversa il mondo clinico di cui nell’Irrealtà quotidiana si posero le
fondamenta teoriche; il paziente finalmente matura, prende coscienza di sé e delle proprie
sofferenze fino a diventare un analista. Il doppio ruolo del personaggio, paziente e analista nello
stesso tempo, al centro delle lotte analitiche intraprese da Lucioli nell’Irrealtà quotidiana, si
realizza nella figura di Elena, psicosociologa e depressa, analizzante e analizzata, paziente
alcolizzata, mondana e scrittrice, che riunisce in sé le diverse parti del personaggio disgregatesi nel
Campo di concentrazione.
«Elena prese un taxi per circa la duecentesima volta e salì in collina. Appena uscita dal taxi
davanti alla clinica udì il grido non nuovo, riconoscibile come una voce, intervallato da ululi, della
sua amica Heidi certamente legata» (CON, p. 37). L’urlo è la prima attestazione della presenza
umana percepibile all’interno della clinica, ed è esemplare che Ottieri si soffermi su questo
elemento per introdurre la scena. L’urlo raccapricciante, gridato o muto, adottato a emblema della
sofferenza umana che dà il benvenuto nella clinica è quello di Heidi, una conoscente di Elena, sul
cui viso si sovrappongono sfumature di colori che vanno dal tenue al tetro, quasi applicazioni
pittoriche del Male che devasta l’esteriorità, oltre che il profondo psichico, di un essere umano.
Rivide il solito volto di bionda chiarissima appena rosato, pieno di efelidi, ma ora di un unico colore
rosso bruno, e devastato dal grido intermittente all’estremo dell’ugula umana e della disperazione umana
creata da qualche Dio. […] «C’è la disperazione del malato e la disperazione del medico. Io per disperazione
intendo gli urli o l’urlo muto a letto o il tarantolamento per terra. Il medico, anche disperato, lavora. La
disperazione del malato porta spesso al suicidio». (CON, pp. 38, 101)
Nel rapporto con la «clinica K.» di Zurigo, Elena è sia psicosociologa che paziente, libera
(ma non troppo) di entrare e uscire a suo piacimento: «Ora Elena che come ambulatoriale non aveva
più la chiave della porticina della K. attendeva che le aprissero. La raggiunse un Dottore con la
chiave» (CON, p. 38). Questa particolare visione della clinica influenza anche la percezione dei
degenti che arrivano a considerare la clinica stessa migliore della propria abitazione e del mondo
esterno, addirittura simile a un accogliente luogo di villeggiatura. La conseguenza sorprendente è
che molti pazienti insistono per non uscire più dalla clinica dove sembra abbiano trovato un
insospettabile equilibrio nel vivere seppur non del tutto risanato; e infatti, escludendo la clinica, ci
sono poche alternative plausibili per ricrearsi un’esistenza soddisfacente. Si preferisce allora
oscillare tra la malattia e la guarigione ma sempre all’interno della clinica, così che anche se si
raggiungesse uno stato di relativo benessere, questo non implicherebbe un rimettersi in gioco
all’esterno con altre regole, leggi e pratiche difficili da maîtriser. La clinica appare accogliente, i
136
suoi ambienti caldi, familiari, con un ritmo codificato dalle consuetudini e con poche varianti: la
malattia e la cura, facendosi quotidiane e ripetitive, possono garantire al paziente uno stato di
regolarità esistenziale invidiabile. Da questa concezione, la clinica è osservata come un hotel, uno
chalet di campagna, un ritrovo di vecchi amici.
Molti restavano alla K., guariti, perché non sapevano dove andare e non resistevano soli. Oppure
andavano e poi tornavano. I medici avevano da combattere con quelli che tentavano ogni giorno la fuga e
con quelli che dovevano cacciare via. […] Fu contenta di rientrare nel caldo del camerone delle sue
giovanissime compagne, tre, quattro, sei volte mancate suicide, graziose, pulite; delle sue vecchie che
aspettavano la morte, delle mature abbandonate alla K., incistate alla K. […] Per un momento la clinica
pareva un animato chalet di campagna. […] Ella avrebbe voluto rimanere alla K. Ma non poteva più vivere
alla K. Il Dottore le aveva proibito di dormirci anche solo una notte, in un letto libero, tanto temeva quel
male che si chiama ospedalizzazione. […] Un’idea rifolgorò Elena: voglio tornare nella clinica, non voglio
più bere un goccio, voglio farci l’amore. […] Conosceva la sua stanza non lieta. Non fu legata poiché non ve
ne era bisogno. […] Elena faceva ormai parte della casa e sapeva che in quella casa per la guarigione
occorreva l’intera coscienza. (CON, pp. 43, 45, 208, 209, 210, 218)
Nella clinica in questione, la K. di Zurigo, si applica la psicoterapia junghiana, ovvero la
psicologia analitica: «Lei si ricordi che sta eseguendo un’analisi junghiana. In essa l’analista è meno
neutrale e può ammollirsi e farsi cascare le braccia come l’analizzato» (CON, p. 212). La psicologia
del profondo elaborata da Jung si staccò da una precedente adesione al pensiero di Freud con
l’opera Simboli della trasformazione (1912) nella quale Jung prospetta una lettura dell’energia
psichica, la libido, non più limitata alle sole manifestazioni pulsionali come aveva ritenuto Freud,
ma estesa anche alle espressioni culturali con finalità creative. A Jung interessa il processo
d’individuazione che richiede il riconoscimento e l’accettazione delle funzioni inferiori della
personalità, rimaste indifferenziate e arcaiche, per una loro integrazione nella dinamica
dell’individuo psicologicamente maturo. Elena, come altri personaggi ottieriani, segue anche la
terapia junghiana, non semplice e snervante per il paziente, che richiede numerose sedute per un
tempo imprecisato: «Appena seduti, poltrona davanti a poltrona. […] Fauteuil-fauteuil la settimana
dopo Elena tacque» (CON, pp. 41, 104). Analisi basata anche sul silenzio, elemento ricorrente nelle
terapie “subite” dai pazienti: «Il Dottore fu molto interessato ma tacque sempre. […] Anche il
Dottore taceva. […] Il Dottore disse: “Non so”. Passò qualche minuto: taceva sempre. Elena disse:
“Non ha niente da dirmi?” Il Dottore tacque ancora» (CON, pp. 41, 104, 207).
Anche l’elemento onirico occupa un ruolo importante nella terapia, ma alle insistenti
domande del medico riguardo ai sogni fatti, Elena risponde spesso con fastidio affermando di non
credere molto all’interpretazione dei sogni, come anche il prigioniero del Campo di concentrazione
aveva evidenziato: «Sono sempre restio a prendere in considerazione i sogni» (CC, p. 74). «Io non
credo più all’interpretazione dei sogni. […] Il problema, ripeto, è che non credo all’interpretazione
dei sogni, al linguaggio dell’inconscio. […] Lei con questi sogni mi fa diventare di ricotta. I sogni
137
servono al Dottore analista come l’analisi delle urine al medico» (CON, pp. 41, 68, 134). La
psicologia analitica definisce il sogno un’autorappresentazione spontanea della situazione attuale
dell’inconscio espressa in forma simbolica, concezione che contrasta con la formula freudiana in
quanto rinuncia a dare una formulazione precisa del senso del sogno; e pur affermando che questo è
una rappresentazione simbolica di un contenuto inconscio, non giunge a considerare i suoi contenuti
come soddisfazione di desideri. Ma i sogni servono all’analista come «le urine al medico» poiché
essi possono essere letti, oltre che con il metodo causale, anche con quello prospettico o costruttivo,
consentendo di leggervi le linee di sviluppo di un processo psichico a partire dalle potenzialità che
nei sogni si manifestano come non ancora realizzate. E per attuare questo tipo di analisi, è
necessario rinunciare a una simbologia onirica valida per tutti e fare riferimento al contesto
biografico e psicologico del sognatore: per questo motivo il medico insiste continuamente sui sogni
facendo diventare di «ricotta» la povera Elena, aggredita nel profondo da ogni angolazione, in
quanto i particolari dei sogni diventano importanti se rapportati alle sfumature di significato che
emergono attraverso le associazioni fatte dal paziente.
Un’altra analogia riscontrabile con l’esperienza vissuta nel Campo di concentrazione si
rileva nel concetto del tempo, malato, pietrificato, sofferto da Elena che vi scorge solo
un’interminabile fucina di disperazione. La coscienza del tempo esperita da un depresso annulla
l’esistenza del presente che non può avere nulla tra il non più del passato e il non ancora del futuro.
Un malato psichico, come Elena, restando chiuso nella pura attualità del presente senza memoria
del passato e senza proiezione nel futuro, si dimostra incapace di dar senso alla propria esistenza e
al mondo. Il depresso si ritrova allora imprigionato nella retentio, ovvero l’atto intenzionale per cui
si costituisce un passato vuoto mentre il presente diventa il tempo dell’incessante lamento e il futuro
si dischiude come un involucro pieno di vacue intenzioni. Per questi motivi la depressione è
interpretata come una destrutturazione della temporalità in cui il valore del tempo si annulla in
un’assenza totale di possibilità. Eppure i colloqui che si svolgono settimanalmente tra Elena e il
Dottore evidenziano, in modo maligno, un aspetto essenziale della terapia: il tempo, che è
disperazione per il malato, si rende necessario per la cura e, fatto ancor più grave, non è possibile
determinarlo nella durata. La terapia ha dunque bisogno di un tempo aperto, lungo, per mettere in
opera una cura adeguata; tuttavia si tratta di un aspetto che il depresso vuole evitare poiché una
dilatazione eccessiva del tempo aumenterebbe la sofferenza riducendo qualsiasi fiducia nel metodo
di cura: «Lo spazio si accorcia, il tempo si allunga nella disperazione senza tempo» (CON, p. 56). I
vari dialoghi che si svolgono di frequente tra Elena e il medico attestano la necessità del tempo cui
corrisponde la non accettazione dello stesso.
138
«Per lei non è una questione di star bene o di star male, di guarire o di continuare così all’infinito; ma
di diventare la psicanalista di se stessa». Lo avvertì come una condanna. «Quando?» aveva chiesto. «Non si
può dire. Col tempo». […] «Non lo capisco». «Col tempo». «Quanto tempo?» «Si vedrà». […] «Questo mi
pare incredibile». «Perché incredibile?» domandò il Dottore. «Non l’ho ancora capito». «Col tempo».
«Quanto tempo?» «Molti anni». […] «Non tollero, poi, la lotta contro il dolore, peggiore del dolore». «Col
tempo». «Ma durante il tempo c’è la disperazione». «La disperazione c’è sempre. Il tempo è la
disperazione», disse insolitamente il Dottore. […] «Allora qual è il nocciolo, per non dire la causa?» «Nel
suo essere inconscia». «Ancora». «Un po’ meno di prima». «E quando non sarò più inconscia?». «Col
tempo». «Quanto tempo»? «Vedremo». (CON, pp. 110, 167, 172, 181, 188)
A causa di una terapia troppo lunga e faticosa, durante la quale Elena è condannata a soffrire
l’immobilità atroce del tempo oltre ad aver il cervello fiaccato delle interpretazioni dei sogni che il
medico di continuo le propone, la Contessa decide di provare una terapia del tutto differente rispetto
a quella junghiana di Zurigo. In chiusura del romanzo la donna si rivolge allora alla clinica
Schwarzen di Vienna dove si attuano terapie esclusivamente farmacologiche con applicazioni
terapeutiche di sostanze chimiche sulle funzioni psichiche.
La clinica era una villa antica circondata da una foresta ai margini della città, fuori della città ma non
tanto che non vi fosse una birreria di fronte al cancello. Entrò e bevve due birre. Era quasi felice. […] La
città era adesso tagliata fuori dal mondo moderno, come tagliata fuori era lei, la clinica, un territorio
moderno, vivissimo, morto, racchiuso, senza confini. (CON, pp. 191, 193)
Con questa scelta Elena anticipa le vicende che Ottieri narrerà nell’Infermiera di Pisa dove
il depresso alter ego dell’autore, ricoverato nella clinica di San Rossore, segue l’orientamento
psicoterapico della psicobiologia dopo aver sperimentato gli insuccessi delle terapie freudiane e
junghiane in cui «per la guarigione occorreva l’intera coscienza» (CON, p. 218). Il metodo di cura,
per i tempi rivoluzionario, consisteva in una terapia farmacologica, e non dunque psicoanalitica, che
avrebbe riguardato non più l’anima ma il corpo, non la parola ma la chimica. La psicofarmacologia
è una scienza nata agli inizi degli anni Cinquanta con l’introduzione della cloropromazina da parte
di Jean Delay e Pierre Deniker che necessita di molti ambiti disciplinari come la genetica, la
biochimica, la neurofisiologia, la psicofisiologia per attuare un processo d’integrazione fisico nel
cervello del malato più che provvedere alla cura della sua anima. Dopo alcuni decenni di successo
incondizionato, si comprese che gli psicofarmaci avevano un’azione più sintomatica che causale,
nel senso che l’andamento del disturbo psichico risultava modificato più nelle sue manifestazioni
esteriori che nelle dinamiche profonde e il caso di Elena si mostrerà emblematico. Durante la prima
fase della terapia chimica il paziente si sente guarito, riacquista forza non solo fisica ma morale,
ritiene di aver superato il periodo più buio della propria disperazione e ha fiducia nel futuro: «Io
sono completamente guarita. Né alcool né angoscia. Basta un mese alla clinica Schwarzen di
Vienna. L’indomani mattina telefonò alla clinica Schwarzen e fissò una camera. […] Elena era
139
assurdamente felice come mai delle proprie gambe che nessuno ora vedeva. Non desiderava uscire
di clinica» (CON, pp. 190, 196). Quando però le dosi dei farmaci diminuiscono a causa delle
inevitabili assuefazioni, accade spesso che il paziente perda la sicurezza poco prima conquistata
soffrendo la “zavorra farmacologia”, con conseguenze drammatiche nei casi più disperati come una
maggiore depressione o anche tentativi di suicidio. Elena rientra in questa classe.
Il vino riempiva Elena come una spugna. Cominciò a sentirlo nelle gambe gonfie. Fu la protezione
delle gambe a spingerla a Zurigo. Arrivò sola, di sera, gonfia di whisky che aveva bevuto in treno per
fronteggiare il terrore. […] Andò in bagno. Vide una After Shave Lotion, lasciata da un paziente, e se ne
bevve una metà. Vide una lametta da barba lasciata da un paziente, sporca, per incuria non elvetica dalla
Schwester del mattino. Si tagliò leggermente la vena interna del polso sinistro. Sentì il bruciore schifoso
nello stomaco della After Shave Lotion, vide il sangue uscire dalla vena. (CON, p. 218)
Oltre a essere psicosociologa, Elena è anche una depressa alcolizzata che soffre di
«depressione endogena» (CON, p. 24), ovvero di una forma che insorge senza cause apparenti per
cui si suppone che venga da dentro senza poter specificare la natura della sua formazione. Questo
tipo di depressione è intesa come la forma classica conosciuta fin dall’antichità sotto la
denominazione di malinconia, di cui si distinguono forme periodiche a decorso monopolare con fasi
solo depressive, e forme cicliche con decorso bipolare che alterna alla fase depressiva quella
maniacale. La depressione endogena prevede oscillazioni durante la giornata, con risveglio precoce
nel primo mattino e il manifestarsi d’idee deliranti su diverse sensazioni quali colpa, rovina,
incurabilità che scaturiscono dal senso di oppressione e angustia nella zona toracica.
Un referto della Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Pisa recita per la
paziente Elena Miuti: «Il protocollo rivela una struttura disarmonica, scarsamente conflittuale,
riportabile piuttosto a un difetto di controllo e di integrazione alla vita istintivo-affettiva e difficoltà
di adattamento» (CON, p. 26). Per Elena la forma di depressione endogena prevede nel risveglio
uno dei momenti più difficili della giornata in cui la coscienza della vita appare più drammatica di
una possibile visione della morte. Per superare questo blocco quotidiano la donna ricorre necesse
est all’alcol per continuare a vivere: da qui la depressione si lega indissolubilmente all’alcolismo,
concretizzando quel circolo vizioso del male che viene alleviato da un’intossicazione.
Svegliandosi nel pomeriggio ebbe di nuovo l’ora agonica. Le avevano detto che nella depressione
endogena, l’ora agonica al risveglio è naturale. Bisogna lasciarla sciogliere per superare, con dolorosissima
incertezza, il crinale dalla parte della morte, e iniziare il declivio dalla parte della vita, movendosi piano
piano a passettini con il massimo dell’ansia. È in questo lasso che spesso si impara a bere un whisky a
digiuno per affrettare lo scioglimento dell’agonia convinta, logica, dura, inattaccabile dagli sciroppi
lusinghieri della vita. […] L’ora agonica seguiva sempre il medesimo itinerario. Elena la scioglieva prima
con il vino nudo a digiuno, aspettando che questo vino la riportasse sul dorsante della vita, fuori dal vischio
lucido e pastoso dei sogni. (CON, pp. 24, 63)
140
L’ebbrezza alcolica, di cui si serve Elena per iniziare la giornata, si collega a una psicosi
esogena passeggera marcata dalla quantità di alcol ingerito e dalla tolleranza del soggetto depresso.
Nella prima fase dell’aumento del tasso alcolico nel sangue si riscontra un certo restringimento del
campo della coscienza insieme a fenomeni di disinibizione con umore euforico, aumento
dell’impulsività e della facilità di comunicazione, indebolimento della critica. L’ulteriore aumento
dell’intossicazione tuttavia comporta un effetto narcotico e, nella fase depressiva che segue, una
progressiva paralisi delle funzioni nervose centrali. Elena lotta da molti anni contro questa
condizione apparentemente irrisolvibile; la depressione e il conseguente uso di alcolici le
impediscono infatti un corretto svolgimento della propria esistenza. L’alcool arriva a occupare
l’intero orizzonte delle sue percezioni e, in mancanza di meglio, Elena trova sollievo nei dopobarba;
molti anni dopo Filippo Ciai soffrirà in Cery delle medesime sofferenze.
Questa era una vita fatta per bere. Elena sapeva fino alla nausea che se l’alcool distrugge, prima fa
rifiorire e sembra guarire dal suo stesso male. […] Ma qual è in pratica la vita di una irreversibile etilista
spacciata? […] Un’etilista che, chiusa in clinica, per mancanza d’alcool beveva i dopo-barba degli uomini.
[…] Andò in bagno. Vide una After Shave Lotion, lasciata da un paziente, e se ne bevve una metà. (CON,
pp. 63, 64, 218)
Non avevo forse il diritto di profumarmi? Ne bevvi tre grandi sorsate. Mi sentì subito meglio anche
se la colonia non è propriamente gentile al palato, alla gola. Raschia. […] Niente di strano. Un depresso ha
crisi depressive, si dà all’alcol, sfiora il suicidio o si suicida. […] Non sono matto perché sono alcolizzato.
Curo la follia con l’alcol. È a nasconderlo che mi vergogno. (CERY, pp. 21, 98, 117)
Nel campionario dei malesseri sofferti da Elena, Ottieri ne evidenzia due che interessano
aspetti della sessualità femminile: la frigidità e il vaginismo. Poiché l’orgasmo è continuamente
bloccato da uno stallo mentale, la donna in tutto il romanzo non riesce ad avere rapporti sessuali
soddisfacenti con i diversi amanti che tentano di recarle piacere. La frigidità, detta anche
anafrodisia, si riferisce infatti all’incapacità della donna di raggiungere l’eccitazione nel coito. Se
non di natura organica, questa inadeguatezza non si considera una malattia bensì un sintomo di
conflitti nevrotici sottostanti che possono rinviare a numerose cause: rifiuto della propria identità
sessuale, omosessualità latente, legami edipici non risolti, sentimenti di colpa nei confronti del
piacere carnale, reminiscenze di esperienze negative, sentimenti d’insicurezza, disgusto per
comportamenti erotici deludenti.
Elena è sposata ma il marito e il figlio sono distanti non solo nel suo pensiero ma anche
fisicamente: il primo vive in America mentre il secondo in un college europeo e non vengono mai
nominati nel corso del romanzo, quasi la donna volesse farli evaporare nei ricordi: «Non si è ancora
accorta che lei non chiama mai suo marito e suo figlio con i loro nomi. Eppure un nome lo avranno»
(CON, p. 140). Elena tenta di sopperire a questa mancanza attraverso avventure amorose con
141
numerosi amanti (Pietro, Giorgio, Peter, Quint, Arnold, Giulio) senza mai trovare un pieno, ma
nemmeno parziale, godimento. La frigidità comporta una totale anestesia sessuale relativa a diverse
forme tra cui insensibilità vaginale con rispondenza limitata alla zona clitoridea, interruzione
dell’eccitazione, oppure angoscia, tensione, insonnia, depressione subito dopo l’orgasmo. Elena
sembra condensare tutti questi aspetti nell’arco dei suoi rapporti.
Elena cade all’indietro sull’origliere, imperlata, sfinita, stanca, non di piacere. «Non sei venuta,
vero?» disse Giorgio. «No». «E perché?». «E perché mi domandi sempre “E perché?”». «Perché non mi
ami». «No, non lo sai…». Subito Elena si alzò per lavarsi e bere un whisky. […] Elena non gridava in
proporzione, taceva, distesa sul pavimento. Mandò un balzo clitorideo allora che egli con un dito volle avere
la prova dell’umido. Questo balzo fece scoppiare il siluro calabrese che si afflosciò nella donna. «Sei
venuta?» chiese di fretta lui che l’aveva penetrata fino alla gola. «Io non vengo mai» disse Elena. «Ora vai».
[…] Arnold era molto eccitato. Trafficava con la mia camicetta, con il reggipetto e così stando vicino al mio
petto sentiva meglio l’ansia cardiaca che mi sbatteva e mi immobilizzava. Avrei avuto bisogno di
raccontargli i motivi del mio stato, ma ero contratta da non poter parlare. […] Io sentivo che stando alcuni
giorni con lui avrei forse raggiunta quella confidenza non contratta da cui nasce l’orgasmo. […] Io ripetei
«No» con tutto il mio cervello. «No» dissi «questa felicità non mi basta». Egli ammutolì, abbandonò la sua
asta vestita alla mia mano che d’un tratto si ritrasse. Egli non ebbe così eiaculazione. (CON, pp. 30, 62, 117,
118, 170)
Per il medico che segue Elena nella terapia, la sua frigidità si deve analizzare come un
problema di relazione dovuto alla distanza che separa la donna dal marito e dal figlio; e una volta
ricongiuntasi Elena con loro, la depressione (intesa dunque non endogena) e l’alcolismo
apparirebbero come disfunzioni dell’umore non irrisolvibili. Le figure del marito e del figlio, così
lontane e importanti per una corretta guarigione, ritornano spesso nelle indicazioni del terapeuta che
intravede in loro i personaggi più indicati per ristabilire l’equilibrio psichico di Elena. Durante
l’analisi Elena afferma, infatti, che la frigidità iniziò con il primo adulterio in quanto nei rapporti
con il marito tale sintomo nevrotico non si era mai presentato.
Secondo il medico, fin dalle prime sedute, avrebbe dovuto guidare se stessa; raggiungere il marito; la
frigidità non era un problema sessuale ma di relazione, avrebbe dovuto ricongiungersi con il marito e con il
figlio; non bere perché la depressione passa e non altera la personalità: l’alcool, come la schizofrenia, altera
la personalità. […] «È una lettera che lei manda a se stessa e che la fa ricadere nell’inconscio, il problema di
suo marito e di suo figlio. Non è vero?» «È vero». «Sembra che non sia vero». […] «Io non sono mai stata
frigida con mio marito. Mi sono scoperta frigida al primo adulterio». (CON, pp. 42, 77)
L’altro problema di cui soffre Elena è il vaginismo, contrazione spasmodica e dolorosa del
muscolo della vagina che impedisce la penetrazione del pene. In assenza di una causa organica, i
motivi vanno ricercati a livello psicologico dove il rifiuto del rapporto sessuale si esprime a livello
somatico, oltre che con un’inibizione dell’eccitazione, anche con un comportamento volto ad
assicurare la salvaguardia di tale inibizione. Giorgio, l’amante più importante di Elena, patisce i
problemi sessuali della donna e tenta di comprenderli meglio studiandone i vari sintomi sui libri di
142
psichiatria che Elena, come psicosociologa, possiede in casa. L’articolo che lo interessa
maggiormente è quello delle Funzioni sessuali nella donna e loro alterazioni, dove, oltre alla
frigidità e alla disparemia, un’attenzione particolare viene posta al vaginismo:
«Il vaginismo è uno spasmo involontario dei muscoli vaginali. Così il vaginismo può essere
paragonato alla eiaculatio praecox o alla eiaculatio ritardata… Poiché i fattori psicologici che portano alla
frigidità possono bloccare la funzionalità ovarica, questi sintomi non sono bloccati dalla libido bloccata, ma
piuttosto da una mancanza di libido». Triste, Giorgio si avviò all’ufficio pensando di leggere più cose
sull’argomento. (CON, p. 32)
Elena tuttavia non è l’unica eroina ottieriana a soffrire di vaginismo poiché il problema sarà
patito anche da un’altra protagonista femminile della sofferenza, Clara de Il divertimento che per
molti aspetti assomiglia a Elena da potersi considerare una sorella letteraria. Entrambe sono donne
sui quarant’anni, alcolizzate e abbandonate dai rispettivi mariti, che osservano svanire la loro
bellezza tra storie d’amore senza futuro nell’irresistibile desiderio di trovare un uomo giusto senza
tuttavia poterlo amare davvero.
Appena a casa di Clara il ragazzo si spogliò e la spogliò. La trascinò sul letto e prese a leccarla. La
leccava con una naturale sapienza, dalla bocca ai piedi. Ella gemeva, impazziva. […] Clara diventava sempre
più pazza ed era felice che non la penetrasse; avrebbe dovuto confessare il suo vaginismo. Passavano le ore e
il ragazzo non si stancava di baciarla ovunque e di leccarla tutta, davanti e di dietro. Muggivano tutti e due.
All’alba egli la penetrò. Clara diede un grido di dolore che il ragazzo scambiò per un urlo di gioia. Poi il
ragazzo si rivestì, le disse addio. (DIV, p. 110)
Tra le diverse forme di alienazioni vissute da Elena, la solitudine appare come una
condizione psicologica inevitabile, quasi una sintesi dei problemi sessuali e relazionali che la donna
non è in grado di affrontare da sola né con il terapeuta. La solitudine nasce, infatti, dalla mancanza
di significativi rapporti interpersonali e dalla discrepanza tra le relazioni umane che Elena desidera
avere con quelle che effettivamente porta avanti nel corso del romanzo, le quali possono essere
insoddisfacenti per la loro natura, numero, o incapacità di stabilizzarle.
Ci vide l’apparire di una frangia della sua follia nascosta. Ma questo sentimento fu compresso da un
altro vecchio: la propria solitudine. […] La solitudine desertica induce alla lotta per procurarsi la compagnia
e non lascia spazio al mistero della vita. La solitudine voluta, placata, malinconica, mancante di tensione
verso un altro induce quella sensazione che per tutta la vita, via via negli anni, aveva chiamato senso del
margine, senso oceanico, senso d’irrealtà, dereismo, devalorizzazione, senso del mistero. (CON, pp. 45, 130)
Nonostante le molteplici occasioni mondane in cui è invitata, gli incontri erotici con gli
amanti, le conoscenze furtive durante i cocktails, o forse proprio per questo, Elena insegue
disperatamente una parvenza di vita normale con affetti e sensazioni concrete ma senza percepire
un’essenza vitale diversa dalla solitudine. Il suo essere Contessa, aristocratica nell’alterità,
143
distaccata dagli uomini perché incapace ad amare, assai abile invece a soffrire per il terrore di
sentirsi inadeguata e poi abbandonata, la costringe a isolarsi dal mondo trovando l’unico rifugio
accogliente nella malattia. Di solitudini Elena ne esperisce diverse forme: c’è un senso in cui essa è
un dato invalicabile dell’esistenza che non permette alla donna di uscire dal suo mondo e dal modo
di percepire il reale, rimarcando l’invalicabilità della propria coscienza. Esiste anche una solitudine
che favorisce esperienze di senso ulteriore a quello comunemente condiviso; in questo caso la
malattia aiuta la protagonista a trovarsi spesso oltre la realtà effettiva. Infine la solitudine può
derivare dalla percezione del mondo come ostile, negativo o indifferente, che induce la donna a
rifugiarsi in sé finché non sopraggiunge anche il disgusto della propria persona, successivo al
distacco dell’esistenza che non riesce a conferire altro senso se non la prigionia della propria
individualità.
Nemmeno lei sapeva come la guarigione della clinica si sfilacciasse giorno per giorno nella
solitudine della sua casa, fra i suoi oggetti. Dava la colpa alle telefonate, agli inviti, che in fondo le facevano
piacere; ma ella riteneva di conoscere una ragione più profonda nel preferire la solitudine della clinica,
specie di Vienna, alla solitudine della casa di Milano: le occasioni, e tornava l’ansia delle occasioni, ferma,
fissa, ormai da tempo. Era sicura a Vienna di non aver occasioni, aveva troppe occasioni a Milano. La
mancanza delle occasioni le toglieva la noia, l’ansia, il privilegio e la paura. (CON, p. 199)
Eppure esiste per Elena una solitudine migliore di quella consueta: si tratta dell’isolamento
percepito nella clinica-prigione da cui scaturisce paradossalmente il valore positivo del lager dove
la necessità del vivere appartati, in estrema solitudine e senza contatti esterni, annulla le scelte e le
occasioni rendendo alla fine giustizia alla donna. Una vita sola è possibile, giusta o sbagliata che
sia, serena o tormentata, quieta o drammatica. Il segreto sta nella possibilità, o meglio nel non
averla per non stare male.
La disperazione e la schizofrenia sono l’approdo più diretto dei sintomi provati dalla
protagonista. Per quanto riguarda la disperazione, essa è un sentimento che accompagna Elena nella
convinta persuasione di una sconfitta esistenziale, inevitabile e irreparabile, causata dall’incapacità
di sopportare rifiuti, negazioni, abbandoni, e derivata da una limitata soglia di tolleranza alla
frustrazione del desiderio o alla sopportazione del dolore: «Io nel giardinetto pativo una contrazione
d’anima infrangibile. Scoppiavo disperatamente senza mai scoppiare» (CON, p. 112). La
disperazione che implode si riferisce anche al rapporto della donna con se stessa che, a causa della
sua finitezza, non riesce mai a essere all’altezza delle proprie possibilità. La schizofrenia cui Elena
fa riferimento riguarda le sensazioni provate da Renée nell’Irrealtà quotidiana: «Non è come se
provassi il vuoto; io sono il vuoto» (IQ, p. 35). «Come ho letto che diceva una pazza: “Non sono nel
vuoto, sono il vuoto”. […] La schizofrenia vista da vicino è il mistero del mistero della vita» (CON,
pp. 121, 136). Elena utilizza quest’espressione legata alla schizofrenia poiché tale sentimento si
144
staglia in alcune pagine del romanzo accompagnando le traversie esistenziali della protagonista
insieme a spifferi e soffi terrificanti che si coagulano nell’incomprensibile spasimo dell’esistenza.
Aveva un sintomo fisso, uno spiffero anche di un capello, il soffio del mistero della vita. Per un
attimo di tempo la portava via come una brezza triste. […] Nella relazione tesa con gli altri, non avvertiva il
soffio del mistero della vita. […] Tornando sola, quando fu nel punto più basso della concavità solitaria,
ferma davanti al portone di casa, ebbe un soffio di mistero della vita e la necessità, questa volta, di fermarlo.
(CON, pp. 11, 15, 130)
Poiché Elena soffre di depressione endogena, è interessante rilevare il collegamento che lei
stessa compie con la schizofrenia in quanto la forma depressiva, in alcuni casi particolari, può
sovrapporsi alla sintomatologia schizofrenica o sostituirsi a essa come forma intermedia tra due
classi: in questo caso si parla di sindrome marginale che sfugge a un’attribuzione precisa. Per tutte
queste forme e sintomatologie si tratta di entità cliniche di difficile isolamento che presentano
un’eziologia multideterminata anche per la presenza in profondità di conflitti psicotici mascherati in
superficie da meccanismi di difesa di tipo nevrotico. Giova ricordare a tal proposito le definizioni
che Ottieri, con molta ironia, tracciava nel proprio quadro clinico attraverso le quali si comprendono
i personali disturbi attribuiti ai suoi personaggi:
Non sono un malato ma un policlinico… Un congresso medico da solo. […] Modestamente la mia
vita è stata un calvario. […] Quanto all’esperienza del male, io ho sempre avuto una sintomatologia molto
violenta: non è che io fossi solo depresso, ma depresso agitato. […] Poi non mi sono limitato alla
depressione, io. Conosco gli attacchi di panico, il DOC. […] Avuto anche quello. Alla fine, dopo essere
arrivato completamente astemio fino ai quaranta, pure l’alcolismo. […] Io sono legato al primato della
sofferenza. Io batto tutti. […] Io conosco tutte le cliniche d’Europa, sono stato ricoverato ovunque, potrei
scrivere una guida come quella dell’Espresso per i ristoranti. (in E liberaci dal male oscuro, pp. 424-430)
Elena si presenta nel romanzo anche come una scrittrice dimostrando una spiccata attitudine
per lo studio interiore dell’individuo, soprattutto se malato, grazie ai decennali approfondimenti
negli ambiti della psicologia, psichiatria e dell’analisi terapeutica che lei stessa ha vissuto, o meglio
sofferto, in prima persona: «Ho sempre sostenuto che valeva di più il giro intorno al cervello di uno
schizofrenico che il giro del mondo» (CON, p. 56). Elena viene ammessa dai Dottori della clinica
K. durante i colloqui con altri pazienti considerandola come una praticante; inoltre prende parte alle
discussioni e indica a volte le possibili terapie da seguire con lucidità e fermezza quando si tratta di
altri malati, mentre con se stessa non dimostra il medesimo equilibrio. L’analista che la segue tende,
infatti, a considerare quest’aspetto come preminente: Elena non potrà mai essere una brava
psicoterapeuta se prima non risolve i propri disturbi mentali, e nello sviluppo del romanzo si delinea
con forza tale condizione: la donna viene ammessa nei consulti più come una educata habituée della
clinica che in qualità di analista.
145
Ma non solo di psiche la protagonista sembra interessarsi, poiché è sul versante della
sociologia che i suoi lavori riscuotono un discreto successo. Nella prima scena del romanzo Ottieri
focalizza un avvenimento importante: Elena non prende il solito treno che da Milano la porta a
Zurigo per la terapia, bensì «un supertreno per Roma delle otto meno cinque» (CON, p. 7) che la
condurrà fino a Napoli per partecipare a un dibattito, organizzato dalla Rai, sulla trasposizione
televisiva di un suo precedente romanzo, La fabbrica sul mare, in altre parole Donnarumma
all’assalto intendendo i riferimenti autobiografici dell’autore. Anche in questo caso, dopo Zurigo
sul versante clinico, Ottieri concede a Elena un altro ritorno al passato, in quel meridione dove visse
e ambientò uno dei suoi più fortunati romanzi: «Quando abitava a Bagnoli [le luci] le veniva a
vedere tutte le sere, quindi fuggiva perché nessuna città, a causa della miseria, era più triste di
Napoli la notte» (CON, p. 13). Il romanzo-documentario La fabbrica sul mare è la «storia di un
Capo Personale donna, psicosociologa e bella, che doveva scegliere scientificamente cento operai
su quarantamila domande per una nuova e snella fabbrica costruita a Pozzuoli, librata su un
giardino» (CON, p. 14). Il testo viene trasportato su pellicola ma nella versione televisiva alcuni
elementi divergono dal testo: ad esempio il selezionatore del personale è un uomo affascinante che,
oltre alle valutazioni del personale, trova il tempo per avventure erotico-galanti che nel libro non
c’erano. Piccole differenze imposte dal gusto del pubblico che tende ad apprezzare tali diversioni,
mentre la scelta del sesso del selezionatore fa scaturire una riflessione sui già allora deformati
meccanismi del cosiddetto auditel.
Elena rivide se stessa impersonata da un uomo (il libro era autobiografico), attore virile e attraente
alla prima prova impegnata. […] Coloro che tengono le sorti dello spettacolo l’avevano voluto trasportare da
decine di disimpegni western all’impegno sociale, per premiarlo. Inoltre qualche deputato, spostato a destra,
avrà preteso che anche in un’industria d’avanguardia, romantica, sul mare, il ruolo di sceglitrice, smistatrice,
controllatrice di 40 mila uomini, non si poteva per il video affidare a una femmina, come nella realtà. (CON,
pp. 14-15)
La reazione dell’assemblea alla visione del telefilm non è positiva. Si critica Elena perché,
lei milanese, interpreta la disoccupazione e le disfunzioni sociali dell’Italia meridionale da una
prospettiva prettamente antropologica, criticando gli uomini del sud senza un’adeguata riflessione:
«Voi, signora, o signorina, avete portato uno spettacolo, chiamiamolo così, che lede il nostro sud in
tutto il mondo» (CON, p. 15). Dopo numerose e aspre disapprovazioni, la psicosociologa scrittrice
tenta di chiarire le sue posizioni in merito alla questione meridionale e alle responsabilità politiche,
chiedendo in primo luogo se qualcuno avesse letto il libro. Alla risposta negativa dell’intero
uditorio, Elena coglie un aspetto decisivo del problema, oltre la storia, la politica, la società o
l’antropologia: si tratta del «complesso d’inferiorità» che cresce come un sintomo senza
all’apparenza arrestarsi mai:
146
Mi fate diventare razzista perché voi siete razzisti. Ora mi prendo una pausa e vado al bar. Il vostro
complesso d’inferiorità negli ultimi anni è diventato obeso. […] Il vostro complesso d’inferiorità invece di
diminuire cresce, come un bambù. Lo vedo crescere come un bambù, decine di centimetri al giorno. Il vostro
complesso d’inferiorità sta al livello di guardia. Questo ho il dovere di riferirlo al nord e al sud, dove che sia,
pur con tutte le sue giustificazioni storiche. […] Vi esorto non alla storia ma all’attualità. Il vostro complesso
d’inferiorità non ve lo sbatto in faccia, se voi non mi sbattete in faccia quello che certamente chiamerete il
mio complesso di superiorità. Ho solo scritto un libro che, insieme ad altri, vi ha più aiutato e giustificato al
mondo. Voi sapete che si tratta dello scontro fra industria settentrionale ricca e agricoltura e pesca povere.
(CON, pp. 19-20)
Con l’escamotage del telefilm ripreso dal romanzo, e del dibattito nella sede Rai di Napoli,
Ottieri attraverso la Contessa può chiarire alcune incomprensioni rimaste in sospeso dopo la
pubblicazione di Donnarumma all’assalto. «Ho solo scritto un libro» ammonisce Elena che
giustifica la condizione degli operai nel sud in un contesto storico-sociale molto particolare, quello
del boom economico in un’Italia scossa da scandali avvilenti, degradi urbanistici e congiunture
economiche (il contro-boom). Sulle distorsioni sociali scaturite dal miracolo economico Ottieri
intervenne non solo con i suoi romanzi industriali che avevano una prospettiva ben definita; in un
articolo scritto nel dicembre del ’51 e inviato, con lo pseudonimo di Vittorio Marchi, al direttore
dell’«Europeo», Ottieri analizza il falso ottimismo di moda in Italia quale specchio per le allodole di
una crisi già incombente.
Caro Direttore, l’Italia oltre ad aver perso la guerra, ha perso anche il dopoguerra: le cose lo
dimostrano tutti i giorni. Basta viaggiare in terza classe. Il treno Venezia-Milano, ad esempio, di domenica 9
dicembre di sera, era un treno da guerra perduta e perduta di recente, un treno come quelli della NapoliRoma via Cassino del 1944 o ’45. […] Si vorrebbe oggi che tutti gli italiani fossero ottimisti, per paura della
loro coscienza e del loro pessimismo. […] Ci vuole il coraggio necessario per capire e affrontare dal basso le
strutture di una società e i loro dilemmi, per capire la differenza sostanziale che corre fra quelli che debbono
essere pessimisti, e fra quelli che possono essere ottimisti e vogliono che tutti lo siano. (Dicembre ’51)
Solo una lettura superficiale del romanzo (La fabbrica sul mare-Donnarumma) potrebbe far
pensare a una critica di Ottieri nei confronti del sud, poiché la concreta forza dell’opera s’insinua
nella denuncia e nella partecipazione attiva di uno scrittore engagé dinanzi a una realtà sbagliata. Il
sud torna in auge anche in altre pagine di Contessa quando Elena «ricordava come fremeva che la
mattinata dei test finisse perché sarebbe voluta andare subito a Capri, a Mare-Moda» (CON, p. 26).
Capri è un luogo importante nella vita e nella letteratura di Ottieri; per quest’ultimo aspetto l’isola
sarà l’approdo del viaggio di nozze di Giada e Tomaso nella Psicoterapeuta bellissima tra orge
pseudo-intellettuali, mondanità, attenzione per l’ambiente e un romanzo da scrivere:
Siamo in viaggio di nozze al Quisisana di Capri, nell’esplosione della primavera. […] La partouze si
svolge non solo a livello sessuale, ma anche verbale. […] C’è, a Capri, rispetto per l’ambiente? […] Il suo
147
sguardo è attratto da uno smilzo romanzo che s’intitola: Delitto a Capri. S’immerge nella appassionante
lettura. […] A Capri il rispetto dell’ambiente va rispettato più che in ogni altro luogo del mondo. (PB, pp. 11,
14, 16, 19)
Qualche anno prima di morire, Ottiero volle tornare a Capri con la moglie. C’era stato tanti anni
prima. Aveva desiderio di rivederla. Prese una camera in un grande albergo e non ne uscì mai se non per
ripartire. Andai a trovarlo, teneva la finestra aperta, ascoltava i suoni del mondo esterno, senza poterlo
raggiungere. Le gambe gli si erano bloccate. Ma come ti è passato per la mente di venire proprio qui, dove
non si può fare a meno di camminare, gli dissi. Ne avevo voglia, mi rispose. Quando giunse il giorno della
partenza, si fece dare un passaggio da uno di quei veicoli elettrici che usano i trasportatori dell’isola. Andò
via insieme alle sue valigie. Capì che Capri era cambiata, glielo dicevano tutti, ma lui dovette venire ad
annusare. Fu uno dei suoi splendidi capricci. (Silvio Perrella in CRO, p. 14)
La difficoltà di deambulazione è sofferta anche da Elena che in un passo di Contessa
esprime l’orrore del fare movimento senza scopo, seguendo un principio celebre di Ottieri che era
solito prendere «un taxi per andare dal salotto alla cucina».
Tutti le dicevano che doveva fare del moto per rimanere giovane. Ella voleva a ogni costo rimanere
giovane e rifiutava il passare del tempo: ma le faceva schifo il moto in se stesso, sia nelle foreste, nei centri
eleganti delle città, nelle periferie, per i campi. Per farlo doveva appoggiarsi a una persona di fresco amata,
nuova, o alla ricerca dell’alcool. Piuttosto del moto restava a letto. (CON, p. 42)
Nella pagina iniziale di Contessa si evidenzia come il romanzo La fabbrica sul mare avesse
ricevuto un discreto successo fino alla rappresentazione televisiva45 e al successivo incontrointervista alla Rai di Napoli. Elena è una scrittrice che ha dovuto abbandonare le velleità
universitarie di un’improbabile carriera come docente a causa dei suoi disturbi psichici, senza
tuttavia rinunciare allo studio della letteratura nemmeno nei periodi più difficili della malattia, anzi
lo scrivere, come già appurato per il recluso nel lager di Zurigo, si presenta quale «salvagente» per
continuare a vivere. Elena è concentrata su un saggio dal titolo provvisorio Che cosa sarebbe
accaduto se Cesare Pavese si fosse curato? che riguarda Pavese, il suo male di vivere, il suicidio, la
coerenza nel togliersi la vita, lo scrivere che nasceva da uno stato mentale infelice. Il rapporto di
Elena con la letteratura è molto particolare: la donna non riesce a leggere nessun libro perché è
distratta e della letteratura sembra interessarsi davvero poco. Non legge nemmeno i quotidiani o le
riviste tralasciando del tutto i romanzi ma non per superiorità o alterigia, semplicemente perché non
le interessano e non riesce a concentrarsi.
Ella aveva troppi libri e non riusciva a concentrarsi su nessuno. Non riusciva a concentrarsi
nell’oggettivazione di un libro o di un pensiero fuori di lei, perché doveva e poteva pensare solo di se stessa.
[…] In quel periodo non leggeva. Pensava, come se leggesse sempre lo stesso libro del suo cervello. […]
45
Anche in questo caso Ottieri riesce a filtrare, attraverso la sua Contessa, esperienze realmente vissute: il
romanzo di Elena, La fabbrica sul mare, riflette la vicenda di Donnarumma all’assalto, scritto nel ’59 e trasformato in
un film nel ’72.
148
Annoiata da queste vecchie riflessioni e definizioni, non potendo tuffarsi nella lettura di un appassionante
romanzo o di un saggio illuminante, restava a letto, fumava molto. […] Ella non aveva letto gli ultimi studi
su Pavese, poiché non poteva leggere. (CON, pp. 10, 24, 25, 51)
Nelle azioni di Elena filtra l’atteggiamento di Ottieri nei riguardi della letteratura. Anche lui
non leggeva quasi nulla e in numerose circostanze, ricavate dalle sue opere o da alcune interviste
rilasciate, egli ricordava che, dopo aver letto moltissimo durante l’adolescenza, in seguito la lettura
non lo sollecitava affatto.
Ottiero Ottieri era uno scrittore, non c’è dubbio; però non rassomigliava a nessuno degli scrittori che
mi è capitato di conoscere. Della letteratura gli importava poco, e quando parlava di libri ne parlava quasi
distrattamente. A lui stavano a cuore le idee: le idee più dei libri. […] Era raro che in lui scattasse un vero
interesse per uno scrittore. Parlava più volentieri con la filippina che lavorava in casa, per non dire dei tanti
medici che è stato costretto a conoscere. (Silvio Perrella in CRO, p. 7)
Per quanto riguarda lo scrivere, la situazione per Elena non è migliore rispetto alla lettura. Il
suo comporre nasce da un travaglio faticoso e poco lineare che deve fare i conti con realtà non
favorevoli come i periodi di depressione che bloccano la creazione letteraria. Il prodotto che
affannosamente emerge sulla pagina risente di un forte autobiografismo in quanto Elena può
scrivere solo di se stessa, concetto corrispondente alla bio-letteratura di Ottieri.
Ugualmente parve a lei d’un tratto di nutrire mille idee sul suo argomento e di poter cominciare a
scrivere subito, dopo mesi e mesi di silenzio. Tremava. […] Elena alzò la penna dalla pagina. Scriveva, come
sempre, come di se stessa. […] Pensò che se scriveva non poteva scrivere che di se stessa, e che non era una
psico-sociologa malata ma una malata psico-sociologa. (CON, pp. 51, 64)
La ripresa nella scrittura affiora per Elena dopo mesi di silenzio ed è quello che accade a
Ottieri che dalla pubblicazione del Campo di concentrazione nel ’72, impiega quattro anni prima di
licenziare Contessa nel ’76. Questo è l’intervallo di tempo più ampio della sua carriera letteraria
eguagliato solo in un’altra circostanza, dai quattro anni trascorsi dai poemetti Di chi è la colpa
pubblicati nel ’79, al romanzo I due amori dell’83. La produzione di Ottieri è stata molto
sostanziosa, più di trenta opere che attraversano cinquant’anni di attività, e ciò è dovuto alla
«graforrea» (ISP, p. 166) con cui scriveva.
Amava scrivere rapidamente, la materia della vita la mitragliava sulla pagina e passava oltre. Ho
finito un nuovo libro, ti diceva, e ne sto scrivendo un altro. Ma quando scriveva? E quando leggeva? È
difficile dirlo, perché il luogo dal quale prendeva vita e forza la sua scrittura era un luogo segreto e buio,
anche quando potevi guardare un suo taccuino e anche quando ti sembrava possibile una spiegazione critica.
(Silvio Perrella in CRO, p. 7)
149
Efficaci i termini usati nel delineare il profilo di Ottieri scrittore: il verbo «mitragliare»
condensa l’attività frenetica e in apparenza incontrollata nel riversare sulla pagina idee e sofferenze
in modo diretto senza filtri o intermediazioni inutili, come già evidenziato nel Pensiero perverso.
Inoltre la corrispondenza dei diversi testi si denota non solo da un punto di vista cronologico ma
anche tematico, come dimostra l’intrecciarsi di motivi che si sovrappongono incessantemente nelle
sue opere. Infine, la profusione di testi che senza tregua assalgono gli editori provoca spesso dei
problemi di pubblicazione come accadrà a Filippo Ciai in Cery.
Telefonai al Grande editore per un mio piccolo libro di poesie, egli mi disse quasi infuriato che non
ne capiva nulla e che, se insistevo, dovevo mandarlo al Direttore editoriale. Così feci. Invitai a colazione il
Direttore editoriale, uomo distinto e piacevole che però del mio libro tacque completamente. […] Dopo tre
anni il libretto uscì. Andò bene, ma io, durante l’attesa, avevo scritto per ingannare il tempo, un altro libretto.
Quando lo annunciai al Direttore, ribatté che io producevo più di quanto qualsiasi editore potesse pubblicare.
(CERY, p. 96)
In Elena si riscontrano sentimenti quali il terrore, lo spavento e la paura dinanzi alla pagina
bianca che rimane vergine nonostante le idee che opprimono la sua mente incapace di produrre una
sola riga. Il rapporto fisico con il foglio, la scrivania e la penna, diventa inquietante: i mezzi
d’espressione si presentano come ostili assistenti alla creazione letteraria. Nei momenti di minor
pressione, tuttavia, la scrittura si dimostra salvifica offrendo un raro barlume di felicità in una vita
disperata, e anche in questo caso si possono comparare le medesime traversie vissute dal prigioniero
nel Campo di concentrazione, come l’attaccarsi alla scrittura per evitare una morte certa, o anche la
corrispondenza tra vivere e scrivere.
Il libro che stava scrivendo, ora le faceva paura. Piena di idee, l’appoggiare il pennino sulla carta,
cioè il concreto, le dava un blocco panico. […] Io portavo dentro di me la gioia dell’aver scritto bene, che
non si spengeva con la realtà della sera, che rendeva più brillanti le luci della sera e l’addormento era fiero,
dolce, gettato in un continuo. […] Scriveva con una difficoltà particolare. Nel cominciare. Il passaggio dal
vivere allo scrivere avveniva con spavento, lo rimandava; ella si allontanava dalla scrivania, si riavvicinava.
Esitava sofferente. Scrivendo, la sua fantasia doveva concentrarsi e di questo imbuto ella aveva paura. (CON,
pp. 204, 207, 210)
Il Dottore che analizza Elena è molto interessato a quest’aspetto peculiare rilevando tuttavia
che l’essere una scrittrice può portare, nel corso dell’analisi terapeutica, una distorsione nel rapporto
medico-paziente quando, nel raccontare le proprie sofferenze, la donna utilizza le stesse come
materia da romanzo. Se da una parte il racconto romanzato può apparire interessante all’ascolto, la
vera finalità della terapia, la guarigione, sfuggirebbe a entrambi. La Contessa si dimostra cosciente
di questo fatto non negando comunque quella propulsione inconscia nel ricercare una poesia
assoluta che avvolge, in un unico tratto, la vita con la scrittura. Stare male significa per Elena anche
150
la possibilità di raccontarlo, altrimenti la malattia, la letteratura, la terapia, la vita, non avrebbero
alcun senso né di essere vissute e tanto meno narrate.
«Passeremo alcune sedute a raccontarci il trauma. Forse mi annoierò di meno perché lei è una
pessima scienziata, ma una buona narratrice». […] «Ma con questo tipo di analisi in cui lei mi racconta un
romanzo e io mi limito, per ora, a ascoltarlo, non facciamo le parti giuste». […] «Ah, sì. Mi scusi, ho qualche
versificazione repressa. Qualche volta mi sembra che noi due facciamo del teatro. Del buon teatro». (CON,
pp. 145, 161, 165)
L’immagine del teatro, espressa qui dalla Contessa, ritorna anche nell’Infermiera di Pisa
dove la stanza della clinica si trasforma in un palcoscenico in cui il paziente, i medici e le
infermiere sembrano interpretare ognuno un ruolo quasi riverberando atmosfere comiche proprie
della Commedia dell’arte: «Facevamo intellettuale teatro. / Troppo poche volte ho agito con il
ventre. / Stasera sono disperato. […] Per i chirurghi il vecchio / recitava una parte. / Lo chiamavano
l’habitué» (IP, pp. 54, 66).
Il libro che Elena con tanta difficoltà sta tentando di scrivere, «lavoro che ora le sembrava
una trovata, esaurita tutta nel titolo» (CON, p. 42), ha come argomento i pensieri sul suicidio che
hanno caratterizzato la vita di Pavese ed espressi nelle pagine de Il mestiere di vivere46. Ottieri
collega le vicende di Elena al prigioniero del lager di Zurigo attraverso il Diario che letto,
analizzato e studiato in diverse circostanze (nella Linea gotica, L’irrealtà quotidiana, Il campo di
concentrazione, Contessa), si presenta come un’opera determinante nella comprensione del Male
che influenza una vita intera. Le attenzioni rivolte da Elena per quest’opera si concentrano sulla
depressione come malattia storica, sulle medicine che erano in uso durante la vita di Pavese e su
quelle sperimentate solo dopo la sua morte che forse avrebbero potuto salvarlo. Da questo
presupposto Elena immagina una cura possibile ma non più attuabile sulla mente dello scrittore.
Il Male che serpeggia nelle pagine del Diario mostra una vita sbagliata, sofferente, inadatta a
confrontarsi con il mondo per un forte senso d’impotenza non solo sessuale che ha tormentato
Pavese nei rapporti con le donne fino a evidenziare una trasparente misoginia, ma anche esistenziale
nel non esser mai riuscito a integrarsi nei freddi meccanismi di una società a suoi occhi meschina. Il
suicidio compiuto da Pavese in una stanza dell’albergo Roma di Torino, nella notte tra il 26-27
agosto del ’50, fece grande clamore per la natura del suicida, scrittore celebre e vincitore nel giugno
precedente del premio Strega per La bella estate. Mentre le ipotesi in merito si sovrapposero tra
delusione amorosa, crisi ideologica, impasse creativa, il suicidio non fu certo una sorpresa per
Pavese in quanto l’estrema alternativa alla vita era stata pensata da molti anni e architettata proprio
nelle pagine del Diario più che in qualsiasi altra opera. La tentazione del suicidio si faceva sempre
46
PAVESE
Cesare, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950 (1952), cit.
151
più lucida con il passare del tempo e quando la disperazione toccò il suo apogeo allo scrittore non
rimase che mettere in pratica l’idea corteggiata per tutta la vita. Attraverso le pagine del Diario si
comprende che per Pavese la patologia sottesa al suicidio rinviava a sfondi depressivi, e in
particolare alle depressioni endogene rispetto a quelle nevrotiche e reattive. Nella predisposizione al
suicidio si è riconosciuto il ruolo importante ricoperto dall’isolamento interumano, strettamente
legato alla perdita di significato e di senso della propria vita, evidente nell’esperienza dello scrittore.
Nel Mestiere di vivere le motivazioni del suicidio sono affrontate da molteplici prospettive e, in
ultima analisi, il togliersi la vita si evidenzierebbe come un gesto eroico, l’affermazione della
dignità dell’uomo davanti al destino quale prova definitiva di vitalità e volontà. Seguendo la
cronologia dei riferimenti al suicidio presenti nel Diario, tale scelta è presente all’inizio con dei
freni, «il suicidio… non consumerò mai» [10 aprile ’36] (MV, p. 32), ma dal gennaio ’46 si
presenta tra le soluzioni più auspicabili e fattibili, a rilevare il vuoto che sottostava ai rapporti
interpersonali e all’attività di scrittore di successo. Il suicidio ha rappresentato una protesta nei
confronti di una frustrazione che non riusciva più a sopportare, con l’intento d’indurre negli altri
sentimenti di colpa e di solidarietà; mentre a livello sociologico, il tipo di suicidio in cui incorre
Pavese si definisce egoistico in quanto egli non sentendosi integrato in modo consono nella società
fu costretto a fare affidamento unicamente alle sue risorse personali.
Elena va oltre tali questioni: la sua attenzione, o meglio il suo studio è incentrato su un altro
aspetto, davvero rilevante per Ottieri, che si è spesso trascurato riguardo alle interpretazioni sul
suicidio di Pavese, ovvero «se si fosse curato che cosa gli sarebbe successo?» (CON, p. 41). Il
lavoro di Elena prenderebbe dunque un taglio più clinico che esistenziale o letterario individuando
nei farmaci, e soprattutto nella loro mancanza, uno dei motivi della morte prematura di Pavese,
evitabile se alcune terapie, a base di «Largactil» ad esempio, fossero state intraprese solo qualche
anno prima. Attraverso tale analisi condotta da Elena su uno scrittore suicida, Ottieri vuole
evidenziare
un
errore
fondamentale
nella
trattazione
dei
disturbi
depressivi,
quello
dell’incomprensione e ignoranza che per molti secoli, e ancora nel Ventesimo, hanno accompagnato
lo studio delle forme depressive erroneamente considerate solo manifestazioni di malinconia e di
scarsa volontà d’animo. Anche il cervello dunque, e non soltanto l’animo o le circostanze della vita,
può influenzare gli stati depressivi come già rilevarono le riflessioni del Professor Cassano a
margine del Campo di concentrazione. A Pavese mancò una terapia in grado di sviscerare le
problematiche esistenziali da lui ritenute insuperabili e che lo accompagnarono per tutta la vita
senza intravedere alcuna possibilità di miglioramento. Ottieri percepisce l’esperienza di Pavese,
come uomo e letterato, molto vicina alla propria evidenziando tuttavia una differenza sostanziale
152
relativa all’atto di suicidarsi: forse Ottieri non arrivò mai al suicidio anche grazie alle terapie e ai
farmaci contro i quali continuamente lottava, mentre Pavese non poté usufruire di tale possibilità.
Elena confessò di non ricordare nel Diario di Pavese il minimo accenno a un desiderio di terapia.
[…] Il Largactil è nato nel 1952, il Toffranil, il suo derivato, nel 1954. Cesare Pavese è morto nell’agosto del
1950. Nel Mestiere di vivere si parla di frequente di due, tre, o più attacchi d’asma al giorno che Pavese
curava con la pipa. Si ha motivo di credere che questi attacchi d’asma fossero attacchi d’ansia. La prima
domanda è: come, durante il fascismo, durante la seconda guerra mondiale, nel primo dopoguerra si curava
la sindrome ansioso-depressiva? […] Non aveva alcuna voglia di scrivere su Cesare Pavese. L’argomento la
interessava unicamente come preparazione della mente al suicidio. È il tedio universale disperato che fa
pensare al suicidio o una contrarietà personale. Non sapeva. […] Se Cesare Pavese si fosse curato forse non
si sarebbe ucciso così presto. Ma avrebbe avuto una vita cruda, crudele. […] Non riusciva a lavorare
sull’ipotesi di un Pavese curato, guarito. (CON, pp. 50, 51, 57, 58, 63)
La mancanza di una terapia e l’incomprensione della malattia sofferta da Pavese lo hanno
condotto al suicidio. Eppure, e qui si entra nel secondo aspetto della questione, proprio tale
deficienza clinica ha permesso allo scrittore di non soffrire più togliendosi appunto la vita. Sembra
un circolo vizioso, tuttavia le riflessioni di Elena si articolano con lucida chiarezza: una terapia
avrebbe forse impedito il suicidio, ma il continuare a vivere sarebbe stato più atroce della morte
liberatoria. Riguardo al concetto di libertà nel suicidio, la psichiatria ha rilevato come sia
problematico individuare nel suicidio una reale capacità di libera decisione, ossia di una libertà
nella scelta intesa non astrattamente bensì immersa nel contesto di una prassi e di una indagine
clinica. Ed è proprio quello che Elena vuole comprendere studiando però i sintomi di un uomo già
deceduto mediante un’autopsia dell’anima che possa individuare una possibile cura: «Si concentrò
sulla cura adatta per Pavese, sulla cura adatta per un morto» (CON, p. 76). A questo proposito è
interessante rilevare come Pavese, ancora in vita, si sentisse già esanime: «In fondo, tu scrivi per
essere come morto, per parlare fuori del tempo, per farti a tutti ricordo» [10 aprile 1949] (MV, p.
367). In ultima analisi il suicidio è stato «coerente», e su questo aggettivo Elena costruisce il
proprio lavoro: la coerenza si mostra come l’elemento base della drammatica vicenda poiché Pavese
non aveva alternative possibili se non quella d’interrompere la vita in modo logico e necessario:
«Ho lavorato al libro Pavese-Coerenza, cominciando a sostenere la logicità e necessità del suicidio
in alcune circostanze. […] Scrisse una serie di paragrafi su Pavese. Il primo appunto fu: Non
amando la vita è coerentissimo togliersela» (CON, pp. 104, 143).
Da quest’ultimo aspetto si può risalire alla questione del rapporto tra Pavese e Ottieri in
merito al suicidio messo in pratica o meno, con l’evidenza di una difformità sostanziale: Ottieri non
si tolse la vita pur auspicandolo per molti suoi alter ego perché, a differenza di Pavese, nel profondo
amava e molto la vita. Nell’Irrealtà quotidiana, nel capitolo Il tempo ammalato della seconda parte
La psicoanalisi e l’utopia psicologica, Ottieri riflette sulla natura del suicidio connesso al
153
sentimento d’irrealtà: il suicidio possiede una necessità e una logicità narcisistiche che lo rendono
un perfezionamento supremo e concreto della coscienza dell’uomo, da non confondere con l’idea
del suicidio che si staglia come una perfetta equidistanza narcisistica dalla vita ed «è più una
rivelazione e intuizione terminale che una vera scelta» (IQ, p. 103). Il suicidio in sé è materiale,
comportamentistico, più vicino a una scelta rispetto all’idea, anche se non si può sapere con
precisione se tale scelta sia volontaria: «Quando il mio simile, quando io stesso, superiamo
(vogliamo superare? Siamo costretti a superare?) il male del suicidio per porlo in opera, non è cosa
conoscibile» (IQ, p. 104). Il tempo è un elemento determinante nell’analisi della gestazione del
suicidio in quanto lo stato depressivo è solito incatenare il tempo che rende tangibile il Male il
quale, a sua volta, si palesa come una malattia del tempo.
Come nel Diario di Pavese, il tempo, insidioso, si rivolta contro l’uomo: mi diventa il nemico
peggiore e chiaramente l’essenza del dolore è il tempo ammalato. Questo stesso dolore che può allontanarmi
dal suicidio perché non voglio attraversarne l’ultimo pezzo di tempo desertico – può proiettarmi agli occhi
interni l’idea del suicidio. L’idea del suicidio si disegna sullo schermo come impossibilità di tollerare
l’abbozzo del domani e le concrete ore di oggi. (IQ, p. 107)
Anche Pavese oscilla, a suo modo, tra il suicidio e l’idea dello stesso. Il Male di vivere è
come un filtro che costringe il potenziale suicida a continuare l’esistenza covando continuamente
l’idea ma senza l’atto. Se il motivo del suicidio percorre l’intero Diario fin dalle prime pagine, è
senza dubbio nella parte finale, quella riguardante gli ultimi mesi di vita tra luglio e agosto ’50, che
Pavese propende per l’atto concreto in quanto, riprendendo la citazione di Ottieri, appare evidente
l’«impossibilità di tollerare l’abbozzo del domani».
«Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti
ormai escludono» [17 agosto 1950]. «Basta un po’ di coraggio. Più il dolore è determinato e preciso, più
l’istinto della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio. Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno
fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più» [18
agosto 1950]. (MV, p. 400)
Con queste ultime frasi lapidarie del 18 agosto termina il Diario e si possono rilevare delle
coincidenze con alcune percezioni espresse da Ottieri nel suo ultimo romanzo Una irata sensazione
di peggioramento, testamento letterario in cui lo scrittore rielabora i punti cardini della sua poetica.
Si tratta di un’opera di assoluto rilievo dalla quale è possibile estrapolare i pensieri definitivi di
Ottieri sui temi affrontati in cinquant’anni di letteratura: «Per la sua opera e per le sue sventure
Pietro era detto profondo conoscitore della psiche umana (anzi degli “abissi” della psiche umana);
inoltre era nominato come scrittore di quegli abissi, fino… Fino a seccare. Insomma non poteva,
non doveva più scriverne» (ISP, p. 133). E infatti non ne scrisse più. La fine della letteratura
154
coincide per entrambi con la fine della vita, con o senza suicidio. Pavese non dice «non vivrò più»
ma «non scriverò più», e Ottieri è interessato al valore estetico della sua opera rispetto agli anni che
gli restano da vivere i quali, senza la letteratura, sarebbero inutili. Pavese si suiciderà otto giorni
dopo aver scritto l’ultima pagina del Diario concretizzando l’atto, il gesto, ed escludendo per
necessità le parole che lo avrebbero rinviato soltanto all’idea del suicidio. Quando «la morte in
faccia» (IQ, p. 108), cioè la prosecuzione di una vita dolorosa arrivata ai limiti estremi, appare più
orrenda della morte concreta, allora proprio in quel punto il suicidio viene preferito: «In questo caso
della morte addosso è legittimo dire che ci si suicida per paura della morte e che il suicidio fa meno
paura della morte» (IQ, p. 108). A questo punto, a suicidio avvenuto, mentre ancora il cadavere è
caldo, non si deve secondo Ottieri ricercare le cause che hanno portato al compimento dell’atto
poiché:
Le forze, le quali provocano il coraggio del vero suicidio, rimangono misteriose e diverse da quelle,
analizzabili, dell’idea del suicidio. […] Parlo di un suicidio non stoico, non romano né da comandante di
nave che affonda. Con il suicidio non riteniamo di salvare il nostro onore. Ma vivendo; non perché si
consideri il suicidio una viltà di fronte al coraggio del vivere: tutto il contrario, vivere può essere una
immatura viltà. (IQ, p. 109)
La morte è l’esito perseguito da Pavese durante il corso di un’intera vita anche se
maggiormente considerato negli ultimi anni, accampandosi nel Diario come una realtà non più
rimandabile. La tentazione della morte, che subisce nel tempo variazioni d’intensità, sentita vicina o
ricacciata lontano, emerge con insistenza e in forme più nette verso la fine, dagli stati di
prostrazione fisica che rendono precaria qualsiasi essenza vitale a una visione «archetipo
ancestrale» [13 maggio ’50] (MV, p. 396) della morte stessa.
Un altro elemento di convergenza tra il Diario e la poetica di Ottieri si può individuare nel
progetto letterario di Pavese che, mediante una pianificazione ben definita, tende a costruire l’opera
come potenzialmente unitaria in cui riemergono pensieri, situazioni, idee, ossessioni che si
sovrappongono nel corso degli anni e si distendono sulla pagina con nuova linfa derivata
dall’esperienza personale di chi scrive. Il Mestiere di vivere è un diario costruito con accuratezza
tale che il tempo della vita e della scrittura progressivamente coincide per interrompersi solo al
momento della morte dell’autore. Anche Ottieri struttura la propria “sinfonia” secondo questo
progetto, in una sorta di opera omnia che si accresce con il passare del tempo insieme alla
pubblicazione di testi che, come singoli elementi, s’incastrano tra loro in un grande mosaico.
L’interesse di questo giornale sarebbe il ripullulare imprevisto di pensieri, di stati concettuali, che di
per sé, meccanicamente, segna i grandi filoni della tua vita interna. È l’originalità di queste pagine: lasciare
che la costruzione si faccia da sé. C’è una fiducia metafisica in questo sperare che la successione psicologica
dei suoi pensieri si configuri a costruzione. [22 febbraio 1940] (MV, p. 175)
155
Il procedimento di scrittura del Diario di Pavese sembra configurarsi come un modello per
Ottieri, riscontrabile nella struttura diaristica di molte sue opere e dal rincorrersi e rinnovarsi di
pensieri e situazioni che si plasmano in tempi diversi e molteplici risorse espressive. Gli stati
concettuali di cui parla Pavese si alimentano nel loro «ripullulare» e salgono alla mente
all’improvviso per esser approfonditi e depositati sulla pagina, confrontandosi in seguito con le loro
precedenti apparizioni grazie allo sviluppo di una struttura immanente, diacronica, e con una
costruzione in continuo divenire che si evolve nel tempo e puntualizzata dai fatti della storia, privata
e pubblica. Per Pavese si tratta di «un’opera di costruzione sempre fatta d’istantanee illuminazioni –
momenti metafisici – che vengono après coup saldate, cioè chiarite unificabili» [27 febbraio 1940]
(MV, p. 179). La natura letteraria di questo tipo di costruzione rinvia all’idea di un Canzoniere che
coagula vita e letteratura, pensieri e poesia, erigendo un’opera omnia che sia anche il riassunto di
un’intera esistenza.
Poiché immagino che nessuna mia ricerca possa perdersi e il progresso consista in un sempre più
comprensivo macinare esperienza, gettando le nuove sulle vecchie. [19 ottobre 1935]. La nuova opera
comincerà soltanto alla fine del dolore. Per ora non posso che almanaccare estetica, il problema dell’unità, e
studiare domande per finire il dolore. […] Resta, di rintracciare in un gruppo di poesie le sottili, e quasi
sempre segrete, corrispondenze di argomento (materiale unità) e di illuminazione (unità spirituale). [17
febbraio 1936] (MV, pp. 14, 26, 27)
Questa scrittura coagulante che scaturisce per entrambi dal dolore esistenziale ha
«un’origine autobiografica del pensiero raccontato nelle tue poesie, va parallela con l’origine
autobiografica del romanzo oggettivo» [31 dicembre 1937] (MV, p. 72). I sentimenti provati da
alcuni personaggi ottieriani combaciano con quelli espressi da Pavese nel Diario, soprattutto
quando si auto-analizzano sviscerando gli angoli più reconditi del loro animo e individuano nei
diversi aspetti del Male di vivere l’essenza dello stare al mondo. Che, in sostanza, si riassume nel
sentirsi prigionieri della malattia e impossibilitati a vivere liberamente.
È atroce questa sofferenza. [28 febbraio 1936]. Bisogna aver sentito la mania dell’autodistruzione.
[24 aprile 1936]. Si scopre così che nella vita quasi tutto è passatempo, onde il proposito che formerebbe il
prigioniero di vivere, se uscirà, come l’eremita, succhiando il suo passatempo, cavandone tutto il midollo.
[28 dicembre 1936] (MV, pp. 30, 35, 46)
Questo Male che nasce in Pavese dal tempo dell’infanzia converge in Lucioli mentre suona
il campanello bianco di casa, primo avvertimento e simbolo del Male che lo accompagnerà per tutta
la vita: «Fin da piccolo Lucioli aveva sofferto d’ansia e di malinconie rapide […] suonando il
campanello di casa sua per rientrare, nel momento stesso in cui appoggiava il dito sul vecchio,
156
lungo, tremolante pulsante bianco» (IQ, p. 170). Pavese individua nel periodo dell’infanzia il
momento decisivo in cui nasce il sentimento del Male; pertanto si deve risalire ai primi anni della
vita per comprendere lo stato sofferente dell’adulto. Il concetto che si evidenzia con forza è
l’irreparabile necessità di soffrire:
Tutti gli uomini hanno un cancro che li rode, un escremento giornaliero, un male a scadenza: la loro
insoddisfazione; il punto di scontro tra il loro essere reale, scheletrico, e l’infinita complessità della vita. E
tutti prima o poi se ne accorgono. Di ciascuno bisognerà indagare, immaginare il lento accorgersi o il
fulmineo intuire. Quasi tutti – Padre – rintracciano nell’infanzia i segni dell’orrore adulto. Indagare questo
vivaio di retrospettive scoperte, di sbigottimenti, questo loro angoscioso ritrovarsi prefigurati in gesti e
parole irreparabili dall’infanzia. [26 novembre 1937] (MV, p. 59)
Il valore dell’infanzia, chiamata spesso in causa da Ottieri e Pavese come momento
originario del Male, emerge nel dramma del bambino indifeso e dipendente per un periodo
maggiore rispetto agli altri mammiferi. Questo spiega perché i tratti caratteristici del
comportamento e della personalità dell’adulto dipendono in gran parte dagli eventi e dalle influenze
dell’infanzia, caratterizzata dallo sviluppo dell’organismo modellato dalla maturazione e
dall’apprendimento. Decisivi sono poi la deprivazione ambientale nel primo periodo di vita quando
la carenza di stimolazioni si ripercuote nei processi di apprendimento nell’età adulta, oltre
all’arricchimento (sempre ambientale) che determina sia una migliore capacità di comprensione, sia
un aumento delle dimensioni del cervello. L’accresciuta stimolazione non può tuttavia produrre
un’accelerazione nello sviluppo prima che il bambino non abbia raggiunto un adeguato stato di
maturazione. Alcune circostanze biografiche, relative all’infanzia dei due scrittori, permettono di
tracciare alcune disfunzioni della crescita evidenti nei disturbi del comportamento e nelle psicosi
infantili tra cui la depressione anaclitica.
Ottieri e Pavese sono anche, e soprattutto, degli scrittori che hanno utilizzato la letteratura
non solo per esprimere le proprie sofferenze ma anche per viverci dentro, per organizzare una sorta
di vita parallela non certo inferiore a quella reale, ma anzi più profonda e tangibile. Entrambi
avvertivano fortemente lo sdoppiamento, o anche la speculiarità fra la propria esistenza e la
narrazione, offrendo la possibilità a degli alter ego letterari di vivere più concretamente dei loro
autori. Pavese parla, a questo proposito, dell’«arte di guardare in faccia la gente, compresi noi
stessi, come fossero personaggi di una nostra novella» [9 ottobre 1938] (MV, p. 121). Chi alla fine
del Diario si suicida, non sarà l’uomo, bensì il personaggio Pavese, personaggio-scrittore che ha
voluto chiudere in modo dignitoso la cronaca diaristica imponendosi come protagonista della
propria narrazione. Pavese insiste spesso sull’interazione tra vita e letteratura e sul valore difensivo
di quest’ultima nel senso che «la letteratura è una difesa contro le offese della vita» [10 novembre
1938] (MV, p. 135). Se la letteratura assume per Ottieri e Pavese valori così alti, superando per
157
alcuni aspetti la vita stessa, si condensano accanto a loro una schiera di altri autori con i quali è
possibile istituire serrati confronti intellettuali, allargando le proprie esperienze in un più vasto
panorama letterario: Pavese attinge a una ben selezionata biblioteca in cui emergono i nomi di
Baudelaire, Leopardi, Dante, Vico, Pirandello, Svevo, Montaigne, Bacon, Proust, Lee Masters.
Anche se arriva un momento, per Ottieri e Pavese, in cui la letteratura, o meglio il leggere non
interessa più e si evita di addentrarsi in nuovi romanzi; questo blocco si avverte con la conclusione
della giovinezza, quando invece si leggeva con voracità. Il tempo sembra aver annullato il piacere
della lettura ed evidenziato un ripiegamento interiore che non permette di provare empatia per altri
sentimenti letterari.
Tra i segni che mi avvertono esser finita la giovinezza, massimo è l’accorgermi che la letteratura non
mi interessa più veramente. Voglio dire che non apro più i libri con quella viva e ansiosa speranza di cose
spirituali che, malgrado tutto, un tempo sentivo. Leggo e vorrei leggere sempre più, ma non ricevo ormai
come un tempo le varie esperienze con entusiasmo, non le fondo più in un sereno tumulto prepoetico. [13
sett. 1936] (MV, p. 43)
Nell’analisi comparativa degli aspetti che avvicinano il Diario di Pavese all’opera di Ottieri,
la poesia è intesa come un eccellente strumento espressivo, migliore anche del romanzo, per
manifestare le proprie sofferenze. L’irruzione irrazionale della poesia, delineata da Ottieri nel
Pensiero perverso, è analizzata da Pavese nelle prime pagine del Mestiere di vivere dove le date
iniziali dell’ottobre ’35 sono caratterizzate da attente riflessioni proprio sul modo di scrivere poesie
in cui egli esamina le precedenti composizioni poetiche relative a Lavorare stanca, pubblicato nel
’36 per le edizioni di «Solaria».
Più feconda la ricerca, da tempo concepita, di nuove cose da dire e quindi nuove forme da foggiare.
Poiché la tensione alla poesia è data al suo inizio dall’ansia di realtà spirituali ignote, presentite come
possibili. […] La poesia viene alla luce tentandola e non prospettandola. [6 ottobre 1935] In poesia non è
tutto prevedibile e componendo si scelgono talvolta forme non per ragione veduta ma a istinto; e si crea,
senza sapere con definitiva chiarezza come. [10 ottobre 1935] (MV, pp. 7, 8, 10)
Anche sulla poesia surrealista Ottieri e Pavese convergono in un punto essenziale
distanziandosi da tale movimento in quanto produttore di testi culturali artificiosi e lontani rispetto
alla naturalità e istintività delle rispettive elaborazioni. Pavese analizza l’opera di Marcel Raymond
De Baudelaire au Surréalisme il 10 febbraio ’41 (MV, p. 218 e sgg.), evidenziandone i limiti
poetici, ma più in generale egli non riusciva a acclimatarsi negli orizzonti delle nuove poetiche degli
anni Venti-Trenta, dal surrealismo al dadaismo al futurismo all’ermetismo. Anche Ottieri non
amava molto le avanguardie e del surrealismo non lo convinceva che «lo stile monologante, e di
palo in frasca di certi scrittori, puntualmente venga detto psicoanalitico» (IQ, p. 198).
158
Riguardo al tema dell’amore, esso è presente nel Diario connotandosi di un’evidente
misoginia scaturita dall’impossibilità di Pavese di stabilire una relazione duratura con qualsiasi
donna conosciuta con la quale il processo d’invaghimento seguiva in ogni circostanza le medesime
tappe: sentimenti profondi in parte corrisposti, illusione di un futuro concretizzabile nel matrimonio,
échec sessuale e intellettuale, abbandono, rabbia, invettive vernacolari dopo il definitivo distacco.
La letteratura si propone allora come sostituto o compenso per le frustrazioni prodotte dal
sentimento non ricambiato. L’amore è presente in quasi tutte le opere di Ottieri e osservato da
numerosi punti di vista, dalle donne vagheggiate alle infatuazioni per le infermiere o per le pazienti
delle cliniche fino al confronto tra l’amore coniugale (necessario) e concubino (auspicato). Tuttavia
sono le tonalità espressive a tracciare una manifesta divergenza tra i due scrittori: alla misoginia di
Pavese, Ottieri fa corrispondere una frequente ironia da Don Giovanni in clinica o playboy
mondano, così che alle delusioni d’amore del primo cui fanno seguito le inevitabili disperazioni per
le ripetute delusioni, i personaggi maschili di Ottieri rispondono con uno struggimento positivo, nel
senso che a ogni rifiuto segue una sempre maggiore attività di conquista. Semmai delle similitudini
si possono riscontrare paragonando la disperazione di Pavese con le figure femminili di Ottieri
condannate nella maggior parte dei casi a soffrire amori infelici, matrimoni sbagliati, fallimenti
ripetitivi e solitudini esasperanti che spesso conducono a stati depressivi o all’alcolismo: i casi più
vividi sono quelli di Elena e di Clara, la protagonista del Divertimento. Attraverso questi personaggi
può corrispondere l’infelice sentimento d’amore descritto da Pavese, anche se cambia il risvolto
della medaglia: in Ottieri a soffrire veramente sono solo le donne perché gli uomini sembrano
divertirsi nell’essere lasciati o nel veder respinte le proprie avances. Con l’eccezione del prigioniero
del Campo di concentrazione che soffre profondamente per qualsiasi rapporto vivendo forse
l’esperienza letteraria più angosciosa dal punto di vista psichiatrico, tutti gli eroi ottieriani sono
degli amanti propositivi che vivono l’amore con ironia dongiovannesca. Alle donne sue alter ego
invece Ottieri concede il puro dolore d’amore che si presenta in forme femminili come il vaginismo
o la frigidità, una sofferenza avvicinabile a quella misoginia provata da Pavese. Elena riflette al
femminile il disagio di vivere e di amare provato da Pavese nel Diario, opera su cui non a caso sta
lavorando per scrivere un saggio sul valore della coerenza nel suicidio. Sono molti gli elementi in
comune tra la personalità dell’alter ego femminile di Ottieri e l’esperienza dello scrittore torinese.
In primo luogo la solitudine: Elena è una donna sola nonostante la sua bellezza e le frequenti
richieste di compagnia tra cocktails e feste, retaggio del periodo mondano, che si concludono
sempre in rapporti sessuali insoddisfacenti. La solitudine soprattutto l’attanaglia durante i periodi
festivi e, come accadeva nel Campo di concentrazione, anche lei soffre di sintomi quali Christmas
blues quando le feste, natalizie in particolare perché molto lunghe e coincidenti con la stagione
159
invernale, possono amplificare gli stati depressivi con asfissianti vuoti esistenziali: «All’orizzonte,
le Feste. Come i week-end, sono la gioia e il sostentamento morale dei normali lavoratori. Ma sono
lo spavento dei disturbati oziosi. […] Elena si svegliò con la pesantezza nel petto sentendo che la
sua felicità umana, nell’orrendo Natale mercificato, era finita» (CON, pp. 205, 216).
Dopo le numerose correlazioni fin qui evidenziate tra il Diario di Pavese e il collegamento
letterario proposto da Ottieri in Contessa, si constata una divergenza non meno importante relativa
ai riferimenti dell’attualità storico-politica che sono assenti nel Diario, mentre in Ottieri la cronaca
anche all’interno dei manicomi è sempre attuale. L’aspetto che più colpisce durante la lettura del
Diario è la netta chiusura in se stesso condotta da Pavese che esclude riferimenti troppo espliciti e
contingenti alla realtà, mentre gli anni di inizio e chiusura del Diario sono storicamente
emblematici: 1935 e 1950. I tragici fatti che intervengono direttamente ad aumentare inquietudini
personali, come ad esempio il carcere e il confino, vengono taciuti da Pavese come anche la guerra
civile in Spagna, la conquista dell’Etiopia, le leggi razziali, il Patto d’acciaio, l’entrata in guerra
dell’Italia, l’armistizio, la liberazione, le bombe atomiche, la divisione del mondo in due blocchi, la
ricostruzione post bellica. Poco o quasi nulla filtra nelle pagine del Diario di eventi così
significativi per la storia contemporanea, non solo dell’Italia, e a questo proposito si è parlato di
claustrofilia nell’atteggiamento di Pavese. Intesa come un bisogno patologico di essere confinati in
luoghi chiusi e protetti, la claustrofilia esprime una forte tendenza all’isolamento dalla realtà e si
osserva di frequente nei casi di nevrosi ossessiva. La politica, in questo modo, anche attraverso le
determinazioni storiche e ideologiche in guerra tra loro, non entra nel Diario, rimanendo ai margini
della vita e dell’arte. Elena, studiando in profondità i testi, ritiene che Pavese avesse avuto paura
non solo delle donne ma anche del Partito Comunista che lo considerava un compagno non in grado
di esercitare quei doveri necessari alle incombenze storiche. Ottieri in alcuni versi della Storia del
PSI rende omaggio a Pavese che partecipò attivamente alla lotta politica subendo la prigionia e il
confino durante la liberazione partigiana dell’Italia, per poi iscriversi al PCI e collaborare a
«L’Unità» sul finire della guerra: «Aggiunse che Pavese oltre che delle donne aveva paura del
Partito Comunista; aveva paura che lo considerassero un cattivo compagno; certo, un uomo afflitto,
come si diceva da eiaculazione precoce, non poteva essere un Capo» (CON, p. 58). «Raccontando la
sua personale / sessuale tragedia, Pavese si lamentava: / Dicono (in ambito PCI) / che P. non è un
buon compagno. / Ed egli aveva scritto / Il compagno, pubblicato a Torino» (PSI, p. 28). Il verso
«P. non è un buon compagno» Ottieri lo ricalca da una frase del Diario di Pavese che
presumibilmente venne pronunciata da parte di qualche compagno del PCI: «“P. non è un buon
compagno”… Discorsi d’intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli
che più ti stanno a cuore. [15 febbraio 1950] (MV, p. 389).
160
I riferimenti all’attualità storica, politica e sociale sono solidamente presenti nella letteratura
di Ottieri e questo aspetto lo distanzia dal Diario di Pavese nei confronti del quale, come si è notato,
si riscontra un fervido dialogo intellettuale, atteggiamento ricorrente in Ottieri che parla attraverso
le sue opere con altri autori. In Contessa, la scena principale è occupata dalla protagonista Elena,
eppure sullo sfondo si stagliano le preoccupazioni dello scrittore per l’Italia in un periodo di crisi e
recessione. Elena prospetta per l’Italia una psicoterapia, ritenuta necessaria a causa della mancanza
di carattere che impedisce agli italiani di sentirsi un popolo e alla nazione di essere democratica.
Ottieri individua lo snodo centrale dell’atavico problema che affligge l’Italia proprio
nell’impossibilità storica di costruirsi un carattere, a causa della mescolanza deleteria di determinati
fattori quali divisioni interne, dominio straniero, sentimenti mai assopiti di servitù, corruzione
dilagante, leggi liberticide, che hanno reso l’Italia un unicum nel panorama europeo occidentale.
Una celebre invettiva di Dante, Purg. VI, 76-78, ripresa anche nella Corda corta, servirà a Elena
per collegare diversi periodi storici accomunati da una sorta di tenebra sociale, individuando nella
ripetitività degli eventi negativi la constatazione dell’impossibile salvezza dell’Italia.
«Ahi» pensò «serva Italia di dolore ostello – nave senza nocchiero in gran tempesta – non donna di
popoli, ma bordello». […] Gettate le basi o per una società della droga o per una guerra civile. State
reimmergendo l’Italia nell’inconscio collettivo. Un gigantesco sforzo di coscienza sarà necessario alla
nazione perché non regredisca alle sue fasi anteriori. Ahi, serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiero
in gran tempesta, non donna di province ma bordello. (CON, pp. 22, 158)
Dopo due giorni progettavi / calmo a tavolino un’inchiesta / circa le sorte oggi, nello stracciato
paese, / nella tempesta senza nocchiero. (COR, p. 138)
In questa denuncia rivolta all’Italia, la voce personale di Dante prende il sopravvento
esprimendo la sua grande passione politica e morale attraverso la quale l’indignazione si scaglia
contro l’ingiustizia presente in una società corrotta e nei riguardi delle istituzioni in cui credeva
fermamente. La metafora della «nave» è un topos classico, già presente in Platone e Aristotele, e
Dante la riprende parlando della necessità di un unico imperatore (in Convivio IV,
IV
5) che possa
garantire la pace nel mondo; ma per attuare questo progetto costui deve stare da solo sulla plancia di
comando. L’Italia, non più signora delle nazioni dopo il crollo dell’Impero romano, si ritrova a
essere considerata una squallida meretrice che governa la cosa pubblica non secondo diritto ma per
sopraffazioni e corruttele. In più, l’essere un «doloroso ospizio» rimanda all’immagine di un
manicomio, per cui Ottieri non tergiversa nel propugnare all’Italia una terapia favorita dal fatto che
il paese stesso è il paziente e contemporaneamente la clinica in cui s’intraprende la cura.
Ma prima un’enorme psicoanalisi collettiva dovrebbe salvare l’Italia dai suoi pericoli del carattere:
essere un paese dell’America del Sud, un teatro di guerre altrui, una colonia, un basso impero e un
Medioevo, la cancellazione del Risorgimento. A lei conveniva un regime di destra e parteggiava per un
161
regime di sinistra. […] Erano sempre d’accordo che l’Italia avrebbe dovuto fare una certa cura di
rafforzamento dell’Io analoga a quella di Elena, una cura per calmare la psicosi e i mostri, provenienti dalle
tenebre dell’inconscio sociale. Un enorme psicoanalista si sarebbe dovuto mettere fauteuil-fauteuil con
l’Italia. (CON, pp. 89, 131)
Considerando l’Italia un individuo, se si vuole attuare una plausibile terapia psicoanalitica
secondo i precetti di Elena, la prima operazione da svolgere riguarda l’analisi del carattere come
motivo determinante del paziente. Il carattere è la configurazione in parte permanente di un
individuo cui ricondurre gli aspetti abituali e tipici del suo comportamento che appaiono tra loro
integrati sia nel senso intrapsichico sia in quello interpersonale. Tale analisi conduce a riflettere
sulle origini dell’assenza del carattere; e se lo sguardo d’insieme si proietta nel collettivo,
inevitabile quando l’oggetto di studio è uno Stato, l’inconscio sociale rimanda al concetto proposto
da Jung per il quale i contenuti di esso non sono mai stati nella coscienza, e dunque non acquisiti
individualmente, ma devono la loro esistenza all’ereditarietà, mentre il contenuto dell’inconscio
collettivo è formato in generale da archetipi. Il problema essenziale è dunque la mancanza di
carattere che condanna gli italiani a essere un popolo a metà, mai veramente libero, unito, cosciente
della propria storia, rispettoso delle leggi che provengono da un Potere detestato, incompreso e nella
migliore ipotesi avvertito come nemico. Gli eventi storici dovranno per necessità essere analizzati
attraverso questo filtro, altrimenti risulterebbero incomprensibili e forieri di contraddizioni e
compromessi. Attraverso questa visione peculiare di Elena, Ottieri osserva con attenzione alcuni
eventi che accadono in Italia nel periodo storico in cui si sviluppa la vicenda della Contessa. Ci si
trova nel cuore degli anni Settanta in una fase complessa per i ferventi dibattiti etici che porteranno
il Parlamento a licenziare le leggi sul divorzio e sull’aborto, per il tentativo del compromesso
storico tra la DC e il PCI, per il terrorismo extrapolitico con le deflagrazioni degli anni di piombo.
Le pagine di Ottieri sono intrise di eventi storici pur partendo dalla reclusione in un manicomio,
poiché lo sguardo sul presente non si annulla, anzi le osservazioni che scaturiscono da stati di
sofferenza e alienazione permettono al lettore di partecipare, anche a distanza di molti decenni, a
quegli avvenimenti sociali che seguono tale prospettiva. Inoltre Ottieri commentava le
trasformazioni in atto nella società italiana con articoli scritti a metà degli anni Sessanta per «Il
Giorno» e raccolti nel volume Cronache dell’al di qua che riscossero grande attenzione da parte dei
lettori, tra i quali spicca Mariano Rumor allora segretario della Democrazia Cristiana:
Egregio Dottore, mi rivolgo direttamente a Lei, non tanto nella mia qualità di Segretario della DC,
ma come cittadino preoccupato per un problema che è diventato grave, non soltanto in Italia. Lei occupa un
posto non indifferente nella nostra società; svolge il Suo lavoro con preparazione, segue la stampa, si
dimostra informato sui problemi più importanti del mondo d’oggi; ha le Sue idee precise su molti argomenti.
Eppure, chi come me dedica tutte le sue energie alla politica, si rende conto che oggi c’è un fossato che
divide il mondo politico da molti dei cittadini più preparati. Ho avuto altre volte l’onore di chiederLe il voto
162
per il mio partito. Ma oggi sento il dovere di dirLe che abbiamo bisogno di qualche cosa di più, abbiamo
bisogno di una Sua partecipazione ai nostri problemi, in modo critico e costruttivo. Come? Troveremo
insieme i modi. Perché? Per costruire meglio uno Stato degno dei suoi cittadini. Credo che l’epoca dei partiti
che organizzavano e guidavano le masse sia finita. Deve nascere l’epoca dei cittadini che guidano i partiti.
Posso contare sulla Sua collaborazione? In questo caso mi permetterei di scriverLe ancora. Suo, Mariano
Rumor. (Aprile ’68)
In Contessa, tra i diversi riferimenti all’attualità politica e sociale dell’Italia, Ottieri chiama
in causa per tre volte i capelloni che proprio negli anni Settanta, non solo in Italia, facevano la loro
apparizione come simbolo della protesta giovanile contro il conformismo della società borghese
rappresentata da quei Padri che stavano perdendo la propria autorità.
L’unico grido, nella silenziosa terra svizzera, era una ridda di musica pop che urlava iteratamene dai
nastri di un giovane capellone circondato da altri capelloni. Non fumavano erba perché alla festa
partecipavano quasi tutti i Dottori e le schwester. […] Elena prendeva la sera il treno che da Stoccarda porta
a Reggio Calabria (poi in Sicilia). Vi erano intorno a questo treno capelloni nordici, capelloni meridionali,
emigranti spagnoli e italiani. Gli emigranti italiani erano i più subumani. […] Elena vide un capellone col
berretto rosso, un capostazione. (CON, pp. 47, 73, 92)
Il tono utilizzato da Ottieri nel descrivere questi capelloni rifugge da qualsiasi forma di
condanna, come invece era comune a quel tempo da parte degli inquisitori dell’ordine, della morale
e dei costumi. Ottieri è solito condannare i potenti, i politici corrotti, le disfunzioni della democrazia
italiana, ma per i giovani, capelloni e meno, non si riscontrano nelle sue opere parole di critica o di
biasimo. In un articolo apparso su «Il Giorno» il 26 settembre ’65, dal titolo La capellona si sente
umiliata, raccolto in Cronache dell’al di qua con una piccola variante La capellona si sente
musulmana, Ottieri descrive le prime visioni dei capelloni importati dall’America:
Pare che a Roma siano scesi i capelloni, cioè i ribelli incruenti, miti e senza una lira che protestano
contro l’attuale società meccanica, sedendosi su una gradinata, non facendo niente, nemmeno parlando.
Evidentemente non si annoiano tanto in questa sospensione di ogni attività oggettivante, in questa specie di
sciopero della vita. Le donne li accompagnano. (CRO, p. 73)
Ottieri osserva i capelloni con simpatheia scorgendo in loro comunque dei figli, nei
confronti dei quali gli occhi di un Padre, e Ottieri lo era diventato dopo esser stato anch’egli un
figlio a suo modo ribelle, tentano di scorgere un punto di contatto tra generazioni distanti. Proprio a
questo aspetto Ottieri dedicherà il primo poemetto di Vi amo in cui analizza il rapporto Padri-figli
mettendo in risalto la contiguità delle esperienze, per cui anche i Padri sono stati figli ribelli e gli
attuali figli diventeranno a loro volta Padri di nuovi figli e così via: «Fra noi c’è, con amore e lotta, /
un reciproco illuso / desiderio di perfezione. […] Voi non tollerate / che perdiamo al casinò della
vita, / vi diamo fastidio / coi nostri eterni problemi, / i temi di chi è giunto / all’orlo della vecchiezza
/ ed è infantile, / ricerca in voi la giovinezza» (AMO, p. 3). Nel conflitto generazionale tra Padri e
163
figli, Ottieri individua nell’affievolirsi della potenza fisica, morale e autoritaria dei primi il sintomo
della debolezza che sopravanza con il tempo, mentre ai figli è concessa la possibilità di partecipare
attivamente alle vicende della storia grazie alla loro esuberante giovinezza. I figli dunque
tenderebbero a eliminare mentalmente i padri ingombranti, ormai vecchi impotenti e considerati dei
relitti della società, mentre questi ultimi reclamano il posto che spetta loro per esperienza e volontà
di sopportazione. Ottieri inoltre si assume la responsabilità della propria assenza, causa malattia, nei
confronti dei figli che tuttavia perseguono l’incessante rivoluzione generazionale contro i relativi
Padri. Ma ciò che viene richiesta da Ottieri, oltrepassando i contrasti, le incomprensioni e le
inevitabili distanze, è la pietà per colui che, per diverse ragioni, non ha avuto il tempo di diventare
Padre.
E non siamo eletti da nessuno, / discendiamo dai letti / della nostra progenie / ex figli anche noi. /
Nessuno ci protegge, / i nostri genitori sono morti. […] Andiamo avanti perché amiamo la vita / e voi,
ingrati, / che non capite la sofferenza / procurataci dai vostri armati giudizi. […] La vostra giovanile
rivoluzione / è stata quella contro di noi. […] Peggioriamo col tempo, / saggi non diveniamo. […] Eterno
fanciullino / devo rimanere / più che Padre e uomo. (AMO, pp. 3-9)
Ottieri supera il conflitto di generazioni ponendosi ai margini della questione, lui ancora
«fanciullino» nonostante sia divenuto Padre. Egli chiede dunque, sulla soglia della vecchiaia, di
poter esser compreso dai figli e considerato un loro pari, a differenza degli adulti, dei padri e dei
medici che hanno impiegato numerosi lustri per renderlo maturo tuttavia senza riuscirci. Ma l’eterna
immaturità che lo scrittore dimostra nella vita e nella letteratura è una forma di protesta, la più
rivoluzionaria possibile che si possa attuare, e perciò egli chiede ai figli di integrarlo nel loro
gruppo: «Abbiate pietà, figli, per colui / cui manca il tempo per diventare Padre, / colui che non può
rinascere, / segnato dal destino» (AMO, p. 9). Il tempo che manca è il motivo ricorrente che rende
invidiosi e impotenti i padri nei confronti dei figli e in Ottieri questo aspetto si concretizza nella
convinzione dell’inevitabile peggioramento delle condizioni di vita, quando lo spazio che conduce
alla morte si assottiglia escludendo di conseguenza i genitori dalla contesa. Ottieri si sente
colpevole, «sono stato è vero molto assente, / demente di me, non di voi, / lontano d’anima e di
corpo» (AMO, p. 5) di non aver potuto partecipare al miglioramento collettivo di uno Stato miope
che non poté evitare il terrorismo né l’assassinio del segretario della DC Aldo Moro da parte delle
Brigate Rosse, evento emblematico della debolezza atavica di una politica impotente. La cerimonia
funebre senza salma, con gli onori di Stato e vili lacrime profuse da chi sacrificò la vita del
segretario democristiano in nome di un’improbabile fermezza, ufficializzò non solo la morte di
Moro quanto dell’Italia stessa. Il terrorismo e i cosiddetti anni di piombo furono infatti una diretta
conseguenza dell’insofferenza serpeggiante nel Paese, mentre la politique politicienne italiana
164
tentava di arginare l’urto con compromessi di varia natura nel ristabilire l’ordine con il rigore e la
forza: «Indignazione contro il Partito comunista divenuto subdolamente più destro della
Democrazia Cristiana. […] Quel che è sicuro, è che adesso in Italia ci si ammazza molto» (CON,
pp. 105, 161).
II.6 Quattro poemetti: L’infermiera di Pisa, Il palazzo e il pazzo, Le guardie del
corpo, Il diario del seduttore passivo
Nel viaggio esplorativo nei meandri della depressione, Ottieri compose nella prima metà
degli anni Novanta quattro poemetti L’infermiera di Pisa (1991), Il palazzo e il pazzo (1993), Le
guardie del corpo (1994) e Il diario del seduttore passivo (1995) che, analizzati nell’insieme, si
strutturano come quattro atti di un unico psicodramma esistenziale dai risvolti teatrali e con i
personaggi ben definiti: il protagonista è lo scrittore alcolizzato e depresso in perpetuo conflitto con
i Dottori acerrimi antagonisti che lo curano, mentre le azioni si svolgono nelle camere degli
ospedali o nelle stanze dove viene rinchiuso il «pazzo»; le storie poi si arricchiscono delle entrate in
scena dei familiari, dei ricordi che riaffiorano della propria adolescenza, della disperante condizione
d’alcolista cronico etc.
Pisa ha rappresentato per la vita e la scrittura di Ottieri una tappa significativa, poiché vi è
ubicata la clinica San Rossore47 dove lo scrittore ha trascorso un lungo periodo di degenza dal quale
maturò L’infermiera di Pisa48, opera in versi dall’aspetto teatrale, dove prende forma in modo
fantasioso e grottesco l’infatuazione per un’infermiera pisana, passione impossibile da realizzare tra
auto-denigrazione e senile vanità dongiovannesca. La teatralità49 del poema si riscontra nella
rappresentazione dei personaggi e nelle situazioni, nel modo di entrare in scena e nei dialoghi,
47
La Casa di cura privata San Rossore si trova a Pisa in Viale delle Cascine 152, adiacente all’Aurelia e poco
distante dalla pineta di San Rossore. Vicina al centro storico, dalle stanze della clinica si possono scorgere tratti della
torre e della Piazza dei miracoli. Legata all’Università di Pisa, con le Facoltà di Medicina e Chirurgia, si avvalse negli
anni di medici di chiara fama, tra i quali, durante la degenza di Ottieri, i Professori Giovanni Battista Cassano, Giulio
Perugi e Valter Mignani.
48
L’infermiera di Pisa fu pubblicato dalla casa editrice Garzanti nel ’91, e Ottieri ebbe una corrispondenza
epistolare con Ernesto Ferrero, allora direttore editoriale, che il 4 maggio del ’90, quando ancora il poema non era
completato, gli invia questa lettera: «Caro Ottieri, agli inizi del ’91 vorremmo invece aprire una serie – ovviamente
migliorata – della collana di poesia, ed è in quella sede che vorremmo ospitare il libro. Se Lei è d’accordo, nei prossimi
giorni Le farò avere un contratto, la cui parte economica sarà per forza di cose quasi inesistente. D’altra parte quello
della poesia è un piacere o un lusso che gli autori coltivano non certo per scopi di lucro».
49
La logica teatrale struttura la maggior parte dei componimenti poetici di Ottieri, dalla commedia I venditori
di Milano (unica opera ufficialmente drammaturgica) all’Infermiera di Pisa, da Il palazzo e il pazzo alla Psicoterapeuta
bellissima, dalle Guardie del corpo al Diario del seduttore passivo, dal Poema osceno a Una tragedia milanese, le parti
corali s’intersecano a quell’ossessiva voce monologante tipica della sua poesia.
165
mentre la scenografia è ridotta ai minimi termini, una stanza, un letto, una tendina: «“Lei è un
istrione” sorride Perugi / “assai bellino. Ha recitato / per tant’anni l’Amleto, ora tocca a Re Lear”. /
Vorrebbe che noi fossimo / spettatori plaudenti. / Siamo medici che curano. […] Facevamo
intellettuale teatro. […] Per i chirurghi il vecchio / recitava una parte. / Lo chiamavano l’habitué»
(IP, pp. 28, 54, 66). Il protagonista di questo dramma o commedia è lo scrittore che interpreta,
secondo i medici, la parte di Amleto e di Re Lear, figure shakespeariane con le quali egli sente un
certo feeling autodefinendosi «Amleto» (IP, p. 16) e assecondando l’eterno problema dell’essere e
non essere che nella clinica di Pisa diventa «ben-essere o non ben-essere… Lo risolvo il
problema?» (IP, p. 21), fino a avere gli stessi occhi dell’eroe tragico: «Come Amleto vedea il
Padre» (IP, p. 66). Amleto, torturato da dubbi e irresolutezze che si alternavano a slanci emotivi e
azioni decise, rappresenta per Ottieri il simbolo universale del dramma della scelta; mentre Re Lear
che muore di dolore ripudiato dalle figlie, privato di tutto e sull’orlo della follia, si rivela una figura
esemplare. Amleto è stato già chiamato in causa da Ottieri circa trent’anni prima dell’esperienza
pisana, nel sesto capitolo della terza parte dell’Irrealtà quotidiana, in merito al confronto-scontro
tra il paziente e l’analista in quell’alternativa di ruoli che rappresenta il fulcro dell’incessante lotta
analitica condotta con fervore, durante qualsiasi terapia, dai personaggi ottieriani: «Il pazientemedico (di se stesso) è il protagonista del dramma dell’autocoscienza, dell’insufficienza di questa.
[…] Ugualmente, il medico-paziente è il personaggio centrale dell’epoca, l’Amleto di oggi, il
protagonista di un romanzo ontologico che forse qualcuno sta già scrivendo» (IQ, p. 222).
Lo scrittore, l’Amleto di ieri e oggi ormai anziano, si è rifugiato nella clinica di Pisa per
tentare una nuova terapia di concezione americana, la psicobiologia fondata sulla chimica e sul
corpo, condotta dallo psichiatra Cassano50 e i suoi collaboratori che interpretano sul palco di San
Rossore la parte degli antagonisti. L’infermiera, sempre sfuggente e restia a qualsiasi tentativo di
seduzione, è la figura femminile amata di un sentimento irrealizzabile dal protagonista. Intorno a
queste tre figure, il paziente, il medico e l’infermiera, si svolgono le situazioni tipiche di qualsiasi
clinica già riscontrate nel Campo di concentrazione di Zurigo: il dolore della malattia, la speranza di
una guarigione, il conforto dei medici, le ossessioni e i pensieri perversi del malato. Quest’ultimo
propende per una costante auto-denigrazione, definendosi «vecchio babbeo», «porco senile»,
«gradasso delle cliniche», «bambinone», «coi cernecchi e la pancia», «donnaiolo senza capelli e con
la gola da gallinaccio», in particolar modo quando tenta degli approcci, puntualmente infruttuosi,
con l’infermiera. Si noti che il «babbeo» e il «bambinone» appaiano ciascuno per tre volte nel
50
Giovanni Battista Cassano è professore ordinario di psichiatria e direttore del Dipartimento di Psichiatria,
Neurologia, Farmacologia e Biologia dell’Università di Pisa. È stato coautore, insieme a Serena Zoli, del libro E
liberaci dal male oscuro, cit. Il Professor Cassano ricorda, in un biglietto inviato il 18 febbraio ’94, il periodo trascorso
da Ottieri nella clinica di Pisa con un aggettivo che qualifica lo scrittore: «All’indimenticabile Ottieri di Pisa».
166
poema, e che tutte le attestazioni grottescamente ingiuriose siano presenti soprattutto nella prima
parte dell’opera (da p. 7 a p. 38), e assenti nelle pagine conclusive.
Come spesso accade, lo scrittore racconta la drammatica esperienza vissuta all’interno della
clinica oscillando tra la prima e la terza persona per il bisogno d’estraniazione e oggettività nei
confronti della materia da narrare, ovvero il proprio malessere. Il suo stato psico-fisico è
mortificante: le cure precedenti, tra cui la psicoanalisi studiata o per meglio dire subita dagli anni
Quaranta e intesa come terapia all’europea fondata sulla parola e sull’anima, non hanno portato
alcun miglioramento. La novità allora viene dall’altra parte dell’oceano e prevede un metodo di
cura rivoluzionario per i tempi: non più l’anima ma il corpo, non la parola ma la chimica. Il
Professor Cassano si fa interprete di questo nuovo procedimento e il paziente instaura con lui, come
sua consuetudine, una nuova battaglia analitica per capire come e quando sarà possibile sconfiggere
la malattia.
Lo charme acuto o tondo di Cassano / lo riprendeva per mano. / Bello, intelligente, cocciuto, / era
Cassano, / tenaci e acuti i suoi seguaci, / di onniscienza americana, / self-confidence e performance. / La
clinica era di destra. / L’imperialismo americano / l’aveva infilzata, / la voleva anzi comprare. […]
Sublimare! Replicava al progetto / l’organicista antifreudiano Cassano, / l’americano. Buttata via dalla porta,
/ rientrava la psicologia dalla finestra. / Ma inutile e imbelle è l’analitica psicologia, / la psicobiologia di
Giovanni Cassano / è armata come una crociata: / chi vince? (IP, pp. 7-8)
Ottieri chiama in causa direttamente la psicobiologia: si tratta dell’orientamento
psicoterapico ideato da Adolf Meyer che, partendo da una concezione dell’uomo come unità
indivisibile, propone un trattamento capace di integrare lo psichico con il biologico, in cui centrale è
il concetto d’integrazione che può essere raggiunto a livello fisico, chimico, fisiologico e
psicologico. Attraverso analisi e sintesi distributive, il malessere viene dapprima scomposto ai vari
livelli di mancata integrazione e poi ricomposto secondo vie corrette. Reintegrare l’anima con il
corpo, lo psichico col biologico, la cui irreparabile scissione è stata descritta con sofferenza
nell’Irrealtà quotidiana, rappresenta senza dubbio un momento storico, una sorta di anno zero
impensabile qualche tempo prima: «Biologico sposalizio / fra anima e corpo. / Finalmente! Dopo
tanto dibattito» (IP, p. 31).
Il perno sul quale ruota l’indagine dei medici, e la conseguente terapia, è l’umore: «Tre
erano gli addetti / all’impazzita lancetta dell’umore, / disturbo da curare / senza che avvenga / la
penosa mutazione dell’Io» (IP, p. 10). L’umore, o gradazione di base dell’affettività, si riferisce
all’umore di fondo come caratteristica costante del carattere con i tratti di durevolezza e relativa
indipendenza dalle situazioni e dagli stimoli ambientali. Da questo si distingue lo stato d’umore che
varia per lo stesso soggetto in base all’equilibrio somato-biologico, ai pensieri, alle situazioni
esistenziali vissute. Il tono dell’umore, che occupa tutta la gamma che va dalla gioia alla tristezza,
167
influenza l’attività intellettiva, volitiva, comportamentale, nonché le funzioni vegetative e
somatiche. Interpretato psicoanaliticamente come una scarica libidica graduale che protegge l’Io da
un’esplosione incontrollata, l’umore assume tratti patologici quando oscilla oltre le soglie
compatibili con l’importanza della situazione di gratificazione o di frustrazione vissuta
dall’individuo. Le forme più impressionanti di oscillazione dell’umore si manifestano nelle
depressioni e negli stati maniacali, e questo si riscontra in modo trasparente nella clinica di Pisa.
A Pisa si solve prima l’umore, / poscia, di buon umore, il problema. / Disturbo dell’umore è la follia.
/ In Pisa si lavora attorno all’umore, / alle più friabili lancette / e mutevoli del mondo. / Sei tutto, umore, /
bilancino del mondo. […] Da chi dipende l’umore? / Dall’alchimia americana, / dal modo di prendere / le
lotte e l’amore. / Tale è il Verbo della / Biologica Psichiatria. (IP, p. 20)
I tre medici che hanno in cura lo scrittore sono il già citato Cassano, il grande capo, «bello,
intelligente, cocciuto», «il Fulgido Dottore», «il barone del farmaco», «il terapeuta rivoluzionario»,
«falco», «aquila», «toscano e americano ma nell’animo napoletano», «positivista, trasformista,
mago»; Valter Mignani «l’angelico e fermo» e Giulio Perugi «il teoretico e realista»51. Costoro
studiano le oscillazioni dell’umore e tentano spesso di spiegare al paziente la finalità della nuova
terapia che prevede l’uso di farmaci antidepressivi in grado di stabilizzare l’umore. Troppo
semplice e banale risuona tale affermazione per il paziente che ha sofferto negli anni una malattia
non facilmente identificabile: «Noi mutiamo l’umore / con cui sono pensati i pensieri. […] È
l’effetto Cassano. Sott’esso / per l’ennesima volta / punta tutto sulle molecole: / psicobiologico
anch’egli» (IP, p. 23).
L’utilizzo considerevole di psicofarmaci trova all’inizio delle resistenze da parte di chi è
stato devoto, ma pur sempre lottando, alla psicoanalisi; da qui l’ironia a volte tagliente con cui
Ottieri descrive Cassano e il suo metodo. La psicofarmacologia, scienza nata negli anni Cinquanta,
è un ramo della farmacologia che studia, su base sperimentale e a scopo terapeutico, l’azione delle
sostanze chimiche sulle funzioni psichiche e ha bisogno dell’apporto di molti ambiti disciplinari,
come la genetica, la biochimica, la neurofisiologia, la psicofisiologia, per un graduale processo
d’integrazione. Da quest’aspetto clinico e insieme farmacologico s’innesta una problematica
determinante nel percorso culturale di Ottieri, ovvero la disgregazione del personaggio il quale può
giovarsi di tale terapia per reintegrarsi combinando la fusione di vita e letteratura in una pagina
vivente di bio-letteratura. In un verso dell’Infermiera di Pisa, il paziente arriva persino a
51
Valter Mignani e Giulio Perugi, specializzati in psichiatria, hanno lavorato presso l’Università di Pisa in
collaborazione con Cassano, ponendo particolare attenzione alla psicofarmacologia clinica attraverso lo sviluppo di
progetti di ricerca su vari aspetti dei disturbi dell’umore, dallo stato misto alla mania, alla depressione atipica, ai disturbi
d’ansia e di bipolarità.
168
rimpiangere le antiche benzodiapezine52, più umane rispetto ai nuovi farmaci, poiché riuscivano a
diminuire i livelli di ansia nevrotica reattiva agli avvenimenti e legata a fenomeni depressivi: «La
rottura con le benzodiapezine / è statunitense. […] Ridatemi le mie benzodiapezine. / Non voglio
più soffrire come una bestia / crisi d’astinenza. / L’umore per voi sta bene se mi astengo / da tutto,
tranne che dal sale. / Ma la vita è sciocca» (IP, pp. 35, 41). Tuttavia queste non avevano alcun
effetto terapeutico sul disturbo dei processi cognitivi e percettivi e, se assunte per lunghi periodi e a
dosi elevate, potevano dare assuefazione e causare crisi di astinenza. Anche per questo motivo, i
medici americani spingono per un diverso trattamento, quello a base di sali di litio53:
Esiste un sale / detto di litio che è miracoloso / come la pietra filosofale. / O l’ennesima beffa? /
Quando è nel setting del verbo, / vuole il sale, / nel sale, il verbo, / cervello rotto dalle antinomie. […] Io do
adesione critica / alla psicobiologia, / io mi affido al sale, / però mi lasci dubitare, / ho dubitato fin dalla
culla. (IP, pp. 12, 26)
Sebbene non appartengano propriamente ai farmaci psicoanalettici, i sali di litio hanno avuto
una larga diffusione per le sindromi depressivo-maniacali in quanto ne diminuiscono la gravità e
aumentano gli intervalli di benessere fino a raggiungere una stabilizzazione duratura del tono
dell’umore. Ed è proprio questo il percorso terapeutico tracciato dal famigerato, per il paziente,
trittico americano. Anche il linguaggio usato dai medici risponde agli echi statunitensi, «il trittico
dunque parla inglese. […] Pareva che i mali s’adeguassero agli angloamericani» (IP, p. 31) e lo
scrittore lo sottolinea con accurata ironia grazie al susseguirsi di termini tecnici come sleepdeprivation, social phobia, free floating anxiety, panic-attack, swing, self-confidence, performance,
light-therapy, ai quali per contrasto Ottieri fa risaltare un linguaggio spiccatamente aulico con
parole quali «frale», «volea», «sentiere», «aura» con un voluto effetto stridente.
Oltre che titubante e scettico, il paziente si mostra rigido nel concedere fede incondizionata
alla novità che si sperimenta sul suo corpo, o sarebbe meglio dire cervello, arrivando a chiedere una
penosa quanto inutile «questione di fiducia» (IP, p. 40) a un parlamento fantoccio, schermo di un
inflessibile potere autoritario personificato dal Dottor Cassano, restio a perdite di tempo. Il valore
del tempo è importante a qualsiasi latitudine, da Zurigo a Pisa e in ogni altra clinica, e per Ottieri il
tempo non sembra essere galantuomo. Imprigionato in un presente invivibile, senza prospettive
52
Le benzodiapezine appartengono alla famiglia dei farmaci psicolettici che producono rilassamento e
depressione dell’attività psichica, e più precisamente al gruppo dei timolettici, depressori degli affetti, che a loro volta si
distinguono in neurolettici che svolgono un’attività antipsicotica e in tranquillanti che diminuiscono i livelli d’ansia in
tutte le sue forme. Le benzodiapezine fanno parte di quest’ultimo sottogruppo di tranquillanti o sedativi ansiolitici che
riducono l’ansietà patologica, la tensione e l’agitazione.
53
I sali di litio appartengono alla famiglia dei farmaci psicoanalettici che stimolano l’attività psichica e si
distinguono in timoanalettici o antidepressivi, quando la loro azione investe gli affetti, e in nooanalettici o
neurostimolanti, per lo stato di vigilanza. I sali di litio appartengono al primo gruppo, dei timoanalettici che agiscono
sul tono dell’umore e tendono a elevare, sulle espressioni del pensiero, un effetto nei diversi casi ansiolitico o
stimolante.
169
rassicuranti per il futuro, il paziente oscilla il proprio malessere appeso alle lancette di piombo
dell’orologio che solidificano lo scorrere delle ore.
La clinica diventa un microcosmo con le proprie leggi, fazioni, lotte, lavori, amori, illusioni
e con una sua Storia specifica, riuscendo lo scrittore ancora una volta a non dimenticare la realtà
storico-sociale del mondo esterno anche quando si trova imprigionato per lunghi periodi in un luogo
chiuso. La clinica è sempre legata alla realtà contingente e a Ottieri non sfugge nulla, lucido nel
sapere ciò che avviene oltre la sua stanza, perspicace pur nella malattia nel comprendere come sta
evolvendo il mondo. Dalla crisi dei paesi socialisti in un anno emblematico come il 1991
(L’infermiera di Pisa viene composto mentre è in atto la disgregazione dell’Unione Sovietica)
all’alba del disfacimento del PSI (del ’92 sarà la Storia del PSI), da Solidarność alla corruzione
dilagante in Italia, dal capitalismo occidentale al ricordo di Musatti e del binomio marxismopsicoanalisi che non lo abbandona mai. Attraverso la clinica, la società, la storia e la politica, in
quei decenni di crisi, libertà è una delle parole chiave della poetica di Ottieri dall’oppressore
nazifascista nelle Memorie agli ingranaggi alienanti dell’industria, dal Male che imprigiona alla
corruzione politica. «Aveva fatto della clinica un mondo, / del mondo una clinica. / Libertà va
cercando ch’è sì cara, / libertà va cercando. / Libertà da tutto» (IP, p. 17). Il calco del verso
dantesco «Or ti piaccia gradir la sua venuta: / libertà va cercando ch’è si cara, / come sa chi per lei
vita rifiuta»54 (Purg., I, 70-72) è significativo poiché si delega a Dante un ruolo di rilievo non solo
dal punto di vista letterario, le immagini e le cadenze della Commedia emergono di continuo nella
scrittura di Ottieri, ma soprattutto per la sua figura storica di uomo sdegnoso, simbolo della libertà
intellettuale che non si piega dinanzi alla corruzione dilagante, pagando in prima persona con
l’esilio le sue drammatiche scelte di vita. E non a caso, per una sorta di metempsicosi, Ottieri si
reincarna in Dante quando in un verso del poemetto si autodefinisce «ghibellin fuggiasco»55 (IP, p.
26) mettendo in risalto il valore dell’inevitabile fuga da una situazione non più sostenibile che può
condurre al suicidio o all’esilio56. Ottieri segue Dante sulla via dell’esilio ma a modo suo, di clinica
in clinica, aspramente critico con la società del Ventesimo secolo non dissimile per corruzione e
indegnità morale a quella medievale ferocemente condannata nella Commedia. Sono sette i richiami
che Ottieri compie nei confronti di Dante confermando l’importanza letteraria e intellettuale del
poeta fiorentino, soprattutto come guida morale: «Distinguere il velle dal posse / è metafisica cima /
o abisso del profondo. / Solo Dante avrebbe voluto e saputo» (IP, p. 29).
54
Si tratta di Catone l’Uticense che si tolse la vita per non cadere sotto la tirannia di Cesare. La sua drammatica
vicenda è narrata nella Farsaglia di Lucano dalla quale deriva la conoscenza di Dante che dà al gesto del suicidio un
valore simbolico, venerando in Catone una grande virtù morale.
55
Dal v. 174 dei Sepolcri di Foscolo. Nonostante Dante fosse guelfo di parte bianca, per le tesi anticurialiste
espresse nella Monarchia e nella Commedia, gran parte del Risorgimento italiano lo interpretò ghibellino.
56
Il motivo dell’esilio fisico, politico, mentale è fortemente radicato nel pensiero di Ottieri che in una lettera
del 20 maggio ’47 scrive all’amica Fabrizia Baduel: «La mia vita è una condizione estrema, d’esilio».
170
Ottieri inserisce nell’Infermiera di Pisa alcuni versi che sono altrettanti calchi danteschi
come ad esempio «aspro, torvo e cupo sentiere» (IP, p. 23) per descrivere la condizione del malato
in clinica da cui può uscire attraverso le nuove terapie come la psicobiologia, anche se Ottieri non
nasconde la propria diffidenza. «Le psicologie dinamiche / braccano il malato, / non hanno pietà del
suo soffrire, / accrescono l’angoscia / per farne uscire con un salasso / il riveder le stelle» (IP, p.
76). Gli ultimi versi dell’Inferno (XXXIV, 136-139) sono caratterizzati da un evidente
cambiamento di tono rispetto all’intera cantica; il linguaggio è più leggero, i termini utilizzati
rinviano a dolci visioni, al cielo stellato e soprattutto alla chiarità di un mondo che sembrava
perduto per sempre. In Ottieri l’atmosfera è agli antipodi come se per un malato l’inferno non si
dovesse mai abbandonare: senza tregua né pietà, la sofferenza aumenta insieme all’angoscia, e se
un’uscita s’intravede essa è impraticabile. Si è sempre dentro l’inferno.
«Ora gliela togliamo, diceva / il Barone del farmaco al disperato lamento / di colui cui
morde l’angoscia» (IP, p. 10). Il «colui» è riferito al paziente, mentre l’immagine dell’angoscia che
«morde» per il valore espressivo del verbo rimanda a due versi di Dante che Ottieri congiunge:
«L’angoscia che tu hai / forse ti tira fuor de la mia mente» (Inf., VI, 44-45) e «Fé sembiante / d’omo
cui altra cura stringa e morda / che quella di colui che li è davante» (Inf., IX, 102-103). La prima
citazione riguarda il goloso Ciacco la cui afflizione fisica e morale non permette al poeta di
riconoscerlo; mentre nella seconda si staglia l’immagine dell’Angelo che giunge in aiuto a Dante e
Virgilio dinanzi alla porta della Città di Dite nel suo atteggiamento aureo e superiore per l’alta cura
che lo attende in cielo. Il paziente esprime le medesime sofferenze dei dannati infernali con il suo
miserabile lamento che spesso nell’aurea tetra risuona tra eterni sospiri e patimenti.
«Più la vedeva e più ci voleva fuggire, / via dalla sacra piana / giacente sulla sabbia / fra
Arno e Serchio, / lasciare la città ampia e silente / dove la torre pendente, cadente, / fa da pendant
alla Spina, / non chiese ma oggetti / preziosi deposti» (IP, p. 16). Ottieri immagina di fuggire dalla
clinica con l’infermiera per vagare attraverso le strade di Pisa. L’indicazione geografica della città
«fra Arno e Serchio» è un altro esplicito riferimento a Dante che si era occupato di Pisa in toni poco
lusinghieri: «Ahi Pisa, vituperio de le genti / del bel paese là dove ’l sì suona, / poi che i vicini a te
punir son lenti, / muovasi la Capraia e la Gorgona, / e faccian siepe a Arno in su la foce, / sì ch’elli
anneghi in te ogne persona!» (Inf., XXXIII, 79-84). È il canto di Ugolino e l’invettiva violenta
prorompe dall’animo di Dante, come solitamente avviene, con durezza e intensità. Il «Serchio» è il
fiume di Lucca le cui acque, dopo un percorso di circa cento chilometri, raggiungono il mare sulla
costa tirrenica in località Migliarino nella provincia di Pisa; fiume che Dante cita nel canto dei
barattieri immersi nella pece: «Ecco un degli anzïan di Santa Zita! […] Qui non ha loco il Santo
Volto! / Qui si nuota altrimenti che nel Serchio!» (Inf., XXI, 38-49). Nel descrivere alcuni
171
particolari della città Ottieri si sofferma sui monumenti più importanti; in primo luogo la Torre e la
Chiesa di Santa Spina il cui nome deriva da una reliquia della corona di spine di Cristo portata da
un pellegrino pisano di ritorno dalla Terrasanta. Al suo interno si trovano importanti opere come il
tabernacolo di Stagio Stagi, la Madonna della Rosa di Nino e Andrea Pisano e l’altare marmoreo di
Girolamo da Carrara.
Un altro richiamo a Dante si riscontra nella figura di Cassano immaginato in modo
fortemente ironico come un novello Omero, in quell’atteggiamento tipico del malato che diffida
della nuova terapia e combatte il medico con le uniche armi a sua disposizione, la poesia:
«Accorreva dal terzo piano / Cassano come un falco, / aquila / che sopra agli altri com’aquila vola»
(IP, p. 32). «Cos’ì vid’ i’ adunar la bella scola / di quel segnor de l’altissimo canto / che sovra li
altri com’aquila vola» (Inf., IV, 94-96). Omero è il maggior rappresentante della poesia epica che da
lui ha avuto origine, mentre «la bella scola» rappresenta quel piccolo gruppo di poeti ammirati da
Dante nel Limbo quali suoi prediletti maestri. Qui Ottieri accomuna ironicamente Cassano a Omero
e «la bella scola» ai suoi collaboratori.
Alla fine del poemetto c’è anche un riferimento agli adulatori attraverso la figura di un noto
conduttore televisivo asservito al «Presidente», un’anticipazione delle critiche politiche che Ottieri
condurrà nelle opere successive, dal Poema osceno all’Irata sensazione, in cui egli osserva con
rabbia e delusione la decadenza progressiva della società italiana sotto i colpi magmatici della
televisione: «Accendere la tv, / beccare il sopravvissuto Buongiorno / che loda se stesso e il
Presidente / in una sbroda volgare e sciocca / degna di questo magnifico e progressivo / canale
privato. / Guarda canale cinque» (IP, p. 74). In questo magma si ritrovano gli stessi odori
nauseabondi della seconda bolgia infernale dove sguazzano gli adulatori immersi nello sterco nei
confronti dei quali Dante prova un forte disprezzo. Viene rappresentata un’umanità meschina e il
tono della descrizione si adegua nel tratteggiare, con crudo realismo, quella sorta di distacco morale
che caratterizzerà il rapporto di Dante con i dannati di Malebolge. Le rime che qualificano la
seconda parte del XVIII canto dell’Inferno (vv. 103-108 e 113-117), tra cui si ricordano «scuffa»,
«muffa», «zuffa» e «Lucca», «zucca», «stucca», accompagnate da un colorito di abietta volgarità
come «sterco», «privadi», «merda», «lordo», «gordo», «brutti», «pinghe», riescono a dipingere con
precisione l’atmosfera circostante: è un vero e proprio mondo di «merda», ricolmo di lusingatori e
adulatori a ogni crocicchio, lestissimi a inginocchiarsi dinanzi al potente di turno. Da Dante,
passando per Machiavelli, Foscolo, Pasolini, fino a Ottieri il richiamo a un rinnovamento morale
per l’Italia resterà lettera morta.
Nel classico per Ottieri gioco di richiami letterari, oltre a Dante sono presenti
nell’Infermiera di Pisa anche altri poeti come Foscolo, Leopardi e Manzoni. Del primo ritroviamo
172
calchi evidenti oltre al «ghibellin fuggiasco» in un omaggio Alla Sera: «Forse perché della fatal
quiete / tu sei l’imago, a me si cara vieni, / o sera. / Egli aveva sempre ritenuto / che lo spirito
guerrier che rugge / entro il Foscolo, fosse ansia. / Voleva chiederlo / al professore di italiano alla
Normale. / L’ombre, il crepuscolo, la notte / sono amici del bipolare, / che annaspa la mattina» (IP,
p. 67), Ottieri è attratto dalla profonda inclinazione depressiva del sonetto Alla sera in cui Foscolo
condensa, con potente forza lirica, alcuni aspetti essenziali della sua poetica: la natura tempestosa
specchio dell’animo irrequieto, un ardore ruggente di passioni, un angoscioso desiderio di morte e
soprattutto la mitizzazione della sera, da lui adorata perché simile alla morte immagine della pace
eterna. La notte come prefigurazione della morte celebra inoltre quel particolare viaggio
intellettuale verso il nulla che sfocia in uno strenuo conforto della pace serale nell’incoscienza dei
sensi, motivo che Ottieri collega al sonno leopardiano. L’omaggio poetico nella ripresa dei primi tre
versi del sonetto Alla sera determina la riflessione di Ottieri sulle percezioni avute da Foscolo nel
comporre il sonetto quali il nulla infinito, il tempo colpevole che fugge, lo struggimento provato dal
poeta, l’oscurità della notte. La figura di Foscolo esule, malato, in costante opposizione politica e
mai piegatosi al potere dominante, si presentava come un modello per Ottieri che vedeva nella sua
personalità l’emblema di un poeta profondamente engagé.
Anche Manzoni rientra nell’effetto di rimandi poetici presenti nel poemetto. È interessante
notare che quando Ottieri compone i suoi versi prosaici dimostra una grande conoscenza dei più
importanti poeti della letteratura italiana come Dante, Foscolo, Manzoni, Leopardi con i quali
instaura un coinvolgente rapporto intellettuale. Ciò è dovuto alla conoscenza che egli ebbe di questi
autori studiati e amati fin dal tempo del liceo; la lettura delle loro opere restò impressa nella sua
mente anche in età adulta e durante la composizione delle proprie poesie i richiami, parodie o
rifacimenti dei modelli giovanili emergono con naturalezza: «Premendo / il campanello bianco della
scura / porta di casa in noce, / fui succhiato dal mulinello della melanconia. / Il cuore scese in basso.
/ Mille volte poi / risorsi e giacqui» (IP, p. 27). Paragonarsi al Napoleone del Cinque Maggio, per il
«risorsi e giacqui», è senza dubbio un azzardo amplificato dal momento che precede il cadere. Se
infatti Napoleone «lui folgorante» cade dopo numerosi trionfi, Ottieri crolla nel semplice atto di
premere il campanello di casa, evento già ricordato nell’Irrealtà quotidiana che segnerà ad libitum
la sua vita psichica. Qualora ce ne fosse ancora bisogno, Ottieri ci vuol ricordare che tutto ruota
intorno alla malattia; ma si tratta del Male assoluto e dunque la sofferenza che ne consegue può
prevedere, senza eccessive disarmonie, anche il sentirsi un nuovo Napoleone, un moderno
condottiero della depressione.
Ma oltre la letteratura e la malattia, se esiste una speranza di rinnovamento psichico e sociale
questa passa per un’evoluzione di pensiero che possa condurre alla realizzazione di una società
173
migliore. Il socialismo, che si proponeva di eliminare i contrasti più stridenti tra le classi sociali,
appare agli occhi di Ottieri quale auspicabile ideale rivoluzionario. Da qui la conoscenza del
marxismo, la partecipazione politica, la speranza del compimento della libertà agognata; ma la
Storia sembra dare allo scrittore dei riscontri negativi. La crisi del marxismo si avverte già nel
primo dopoguerra per poi sfociare nell’implosione degli stati socialisti alla fine degli anni Ottanta,
cui segue il disfacimento politico di alcuni partiti europei tra cui il PSI. Allo scrittore non rimane
allora che tentare una rivoluzione par soi-même non più politica bensì sentimentale immaginando
allora un nuovo socialismo, questa volta fondato sugli affetti che rimpiazzi quello politico non più
credibile; e nello stesso tempo egli si sente come la Polonia, riconoscimento importante per il primo
paese, tra quelli socialisti dell’Europa dell’Est, a eleggere un governo non comunista57: «Questa
volta faccio / la sentimental rivoluzione, / rovescio di sana pianta la prassi. / Fondo un neosocialismo! […] S’era per urgente bisogno / spostato all’Ovest come la Polonia» (IP, pp. 25, 31).
Lo scontro Est-Ovest, non solo d’ideologie e politiche differenti nel dualismo comunismocapitalismo, URSS-USA, è vissuto da Ottieri soprattutto da un punto di vista psichiatrico. La nuova
terapia farmacologica cui si sottopone nella clinica di San Rossore giunge proprio dall’America e il
Dottor Cassano, che lo ha in cura, è uno degli adepti.
Venne dall’America la DEP / malattia mentale unificata. / Venne ricca di sigle / che piacevano
all’imperialismo / che aveva sempre fretta. […] Bush portava quattrini, / Cassano speranza / e fede nella
possibilità del bene. / Potenza del West / e delle sue parole. […] Insofferente agli Usa tuttavia / permaneva il
matto / anche se l’Est gli dava / non pochi pensieri. Più forti del matto / permanevano gli Usa / e l’economia
pianificata / pareva proprio essere sbagliata. (IP, pp. 30, 31, 33)
Come reagisce il poeta a queste trasformazioni sociali, al periodo di crisi incombente, al
crollo delle illusioni, ai piani quinquennali ormai abbandonati mentre è imprigionato nella clinica?
Con l’unica voce non ancora dissolta: la poesia. Nei versi si fa luce il pensiero di Ottieri che non
vuole cedere passivamente al decadimento generale, innalzando con lucidità e senza ipocrisie un
grido alla gioia che assume un nobile valore rivoluzionario non appena la parola viene concessa ai
poeti. Questo è l’ultimo stadio della rivoluzione, utopico certo ma auspicabile: la voce disperata del
poeta. In tale condizione si sedimenta la vita di Ottieri, poeta malato nella definizione più
immediata ed erronea, poiché è soprattutto la figura dell’intellettuale anticonformista che rispecchia
fedelmente la vita di chi non si piegò mai alla volgarità politica e culturale del proprio paese.
57
Dal 22 settembre ’80, data in cui venne costituito il sindacato professionale indipendente autogestito
Solidarność, al giugno ’89, in cui ebbero luogo le prime elezioni semilibere con la netta vittoria proprio di Solidarność,
la Polonia visse una fase di profonde mutazioni politico-sociali attraverso scioperi, manifestazioni, referendum e
repressioni fino all’elezione, a seguito della prima consultazione democratica avvenuta in un paese del Patto di
Varsavia, di Tadeusz Mazowiecki (luglio ’89), primo ministro intellettuale e cattolico esponente di Solidarność.
174
Negava l’evidenza, / la destra evoluzione del mondo / affettato dai potenti, / voleva ancora ire / nella
piana della giustizia / (oimé, sognatore), / nascondersi nel covo degli innocenti / senza servi. / Quando i
potenti e i pre-potenti / logorroici la finiranno di sparlare / e la voce dei poeti / tornerà a farsi seria sentire /
(prima, beffarda), inaudito / echeggerà il suo grido alla gioia. / Sapeva che anticapitalisti pervicaci /
consideravano la sua malattia / una rivolta schiacciata, / confinata nelle cliniche. / Non si inorgogliva. Era
incerto. (IP, pp. 19-20)
I versi propongono alcuni contrasti significativi: sproloqui logorroici-parole poetiche,
potenti-anticapitalisti, servitù-innocenza. Al cospetto di tali conflitti il poeta nega l’evidenza non
accettando la realtà dei fatti, come la svolta a destra che è l’immagine del trionfo capitalistico
contro la crisi dei paesi socialisti nell’involuzione, più che nell’evoluzione, della società moderna.
Chi non acconsente ai mutamenti politici effettivi è un illuso sognatore che tenta di ritrovare
l’umanità perduta nella giustizia e nell’innocenza. I termini per Ottieri si caricano di un denso
significato e come per libertà, qui innocenza riporta idealmente a quello stato primitivo di purezza
perduto nella società contemporanea seguendo un mito che attraversava il pensiero occidentale da
Rousseau a Pasolini, ovvero quello del buon selvaggio secondo cui originariamente l’uomo era un
animale buono e pacifico che in seguito è stato corrotto dalla società e dallo sviluppo tecnologico.
Mentre il rifiuto netto e feroce del servilismo lo avvicina sempre più a Dante, alla fine sarà
esclusivamente la voce dei poeti, al plurale, a indicare la strada per il sospirato rinnovamento
umano ben oltre la politica, gli interessi di bottega, la corruzione. Purezza e innocenza in quella
voce di un poeta fanciullo, l’unico in grado di estrapolare un sussulto, un grido, dopo i vari urli di
dolore nei manicomi, questa volta di gioia. Dalla gioia alla tristezza, tuttavia, il passo è breve e
Ottieri non perde tempo nel dare risalto a questo movimento. Gli ostinati oppositori al sistema
capitalistico, cioè coloro che dovrebbero interpretarlo meglio, relegano la sua poetica all’interno
delle cliniche. A chi può dunque rivolgersi Ottieri? Non ai medici, a quanto sembra, poiché loro
agiscono su un piano diverso, molto più oggettivo e in apparenza distaccato. Questo atteggiamento
ferisce lo scrittore che si sente troppo spesso abbandonato a letto senza il conforto di una terapia che
tenga in conto anche l’anima. Elemosina allora una parola, una consolazione, un momento
d’intimità umana più che clinica e non la subitanea fuga, mentre si partecipa alla festa, ossia al
banchetto del suo cervello che si compie durante l’analisi.
Fermati, Cassano? ’scolta, capito? / Fermati, vieni spesso / ma ti trattieni un lampo. / Non parliamo,
Cassano, / di quando vieni col codazzo. […] Io ti capisco, Cassano, è la tua festa. / Ma io che ho l’anima
pesta / ti avverto, grande medico, vieni solo. […] Devo una volta per sempre / dirti dettagliatamente / chi
sono e come fui. / Io so che mi puoi ascoltare, / deliberatamente non fuggire. (IP, pp. 45-46)
E allora il personaggio malato arriva a rimpiangere le ore di psicoanalisi in cui, seppur nella
lotta, c’era empatia tra medico e paziente e soprattutto si parlava. Non parole ma fatti, o anche più
175
banalmente non psicoanalisi ma chimica, gli risponde a Pisa l’americano Cassano determinato a
seguire senza tentennamenti la sua terapia, subita dunque dal paziente ma con l’onore delle armi.
Ponendo l’attenzione sul protagonista, il poeta malato, è necessario comprendere per quale disturbo
sia stato rinchiuso in clinica. Sui sintomi non si hanno sorprese trattandosi di depressione
accompagnata dai ben conosciuti stati d’irrealtà quotidiana: bipolarità, ipocondria, paranoia,
alcolismo: «Non sono un malato ma un policlinico» (in E liberaci dal male oscuro).
Nella DEP c’è sempre l’Euforia / pel bipolare. Bipolare, / guardati da essa! /Ha sapore d’acciaio.
[…] «Lei pensa a tutto e al contrario di tutto». […] I professori / con le loro disperazioni e speranze / sulla di
lui centenaria mania / e ipocondria / gli procuravano paranoia e noia. […] L’ossessione è fuori dalla storia. /
Dalle atemporali ossessioni / era assediato. (IP, pp. 12, 13, 22, 23)
Da questo breve campionario di malesseri, Ottieri mette in primo piano l’Euforia, in
maiuscolo come un personaggio da tragedia greca, stato emotivo caratterizzato da allegria,
esuberanza e felicità in corrispondenza di un evento positivo e gratificante. Accompagnata da un
eccitamento psicomotorio, l’euforia può assumere un significato patologico quando la risonanza
emotiva è sproporzionata ai dati della realtà, come accade nella mania secolare per lo scrittore.
Inoltre essa si caratterizza per una condizione psicologica qualificata da una fuga dispersiva
d’iniziative e idee che prorompono oltre ogni contesto biografico cui il soggetto si rapporta in modo
assolutamente acritico. Il disturbo bipolare, dal suo canto, aggiunge ai sintomi depressivi un
comportamento maniacale alternando periodi di profondo scoramento ad altri in cui si dimostra
energico e esuberante. La durata dei cicli di malattia e delle fasi di compenso è variabile e i quadri
con cui si presenta sono numerosi perché i sintomi mutano da un estremo all’altro dell’umore per
qualità, numero e intensità. L’ipocondria, detta anche patofobia, aggiunge a questo quadro
complesso una preoccupazione immotivata per le proprie condizioni di salute, accompagnata da
disturbi fisici e stati d’angoscia, imponendo al malato un ritiro della libido dal mondo esterno con
concentrazione della stessa su di sé e sull’organo interessato. La paranoia è un altro tassello del
mosaico e si precisa come una psicosi caratterizzata da un delirio incentrato sulla persecuzione,
grandezza o gelosia. La personalità paranoica presenta tratti di diffidenza, sospettosità, riservatezza,
rigore, ma questi contrastano con l’estrema lucidità della coscienza e con la perfetta conservazione
della memoria falsata solo dal contenuto delirante, insieme a una logica supportata da una dialettica
impeccabile a cui si aggiunge un contegno esteriore ordinato e una condotta corretta. L’ossessione,
infine, «assedia» il depresso e non a caso Ottieri ha utilizzato proprio questo termine che deriva dal
latino obsidere, propriamente assediare, bloccare, occupare, per descrivere la condizione di chi è
ostacolato dal bisogno insopprimibile di compiere determinati atti o di astenersi da altri, o è
costretto a trattenersi con pensieri o idee particolari che non è in grado di evitare, ripetendo
176
indefinitamente questo obbligo coercitivo. Le ossessioni includono idee, pensieri, ragionamenti
spesso percorsi dal dubbio e dall’interrogazione, immagini, sentimenti, ricordi o impulsi che, senza
un nesso ricollegabile a uno stimolo esterno, si propongono in modo iterativo e automatico contro la
volontà del soggetto.
Durante il ricovero in clinica, oltre alla decennale lotta analitica tra il paziente e il medico,
c’è un altro conflitto che assume notevole importanza e riguarda quello in atto tra realtà e fantasia
che si svolge all’interno della mente di Ottieri.
La fantasia s’era scrollata dal reale / e garriva. / La realtà ammainava. / Prudentemente Cassano /
sollevava i lembi di cotesta bandiera. […] «Lei è il più grande esempio» fece Mignani / «del guasto delle
interpretazioni permanenti. / Lei non conosce più la verità, / solo la sua ombra cipressina». […] È davvero il
sogno / più della vita? / No, è un’alienazione che logora il cervello / e le mani. / Ormai il vecchio era tediato /
e reso moribondo dai fantasmi, / dall’annaspare per l’aere. […] Egli era diventato, / sempre nella tropicale /
immaginazione, / un professore della Normale. / Insegnava teoria della personalità. […] Vicino a te
s’acquieta / l’irrequieta anima mia. / Forse s’acquieta col fantasma. / Ma il fantasma / dieci volte al giorno /
cangia. (IP, pp. 13, 28, 40, 63)
Fantasia, cui fa riferimento Ottieri, è un termine usato in psicologia in due accezioni: come
attività immaginativa alla base di ogni processo creativo, e come fantasma cioè espressione di
risonanza psicoanalitica connessa a quella condizione in cui si realizza l’appagamento di desideri
inconsci. Il fantasma è un prodotto illusorio che non resiste al confronto con la realtà e tende a
soddisfare i desideri per via fittizia nei rapporti con il mondo esterno che impone al soggetto il
principio di realtà. I fantasmi possono essere consci come nel caso dei sogni diurni, o inconsci dove
il riferimento è al nucleo originario del sogno e, secondo Freud, tutta la vita di un soggetto,
comprese le sue condotte che sembrano lontane dall’attività immaginativa, è modellata e strutturata
da una fantasmatica inconscia. La fantasticheria, day dream o sogno diurno, risponde all’esigenza
di una legittimazione esistenziale ed esprime un desiderio del presente che corre a una piacevole
esperienza passata per riviverla con l’idea di una realizzazione futura. In genere i sogni a occhi
aperti prosperano tanto più rigogliosi quanto più il reale ammonisce alla moderazione, e Ottieri si fa
interprete dello scontro in atto tra la realtà, che sembra abbandonata, e la fantasia nella quale
riversare i fantasmi assai mutevoli e soprattutto erotici. Nell’Infermiera di Pisa sono descritti, anche
con minuzia di particolari, vari amplessi scaturiti dalla fantasia dello scrittore e rivolti non soltanto
all’infermiera, la «grande favorita» (IP, p. 39), ma anche ad altre donne.
Attendeva che l’infermiera di Pisa / slacciasse il grembiule, / aprisse la veste, / scoprisse i misteriosi
seni, / forieri di misteriose terre. […] Non intendeva sublimare / nella fantasia l’infermiera di Pisa, /
guardarla, guardarla, guardarla / da ogni lato, / portarne l’immagine nella stanzetta, / appiccicata agli occhi
del cervello / che in pratica era distante / anni-luce dalle mani. (IP, pp. 17, 74)
177
Oltre al gesto nell’immaginazione comune di slacciare il grembiule per osservare gli
inevitabilmente «misteriosi seni», è determinante l’indicazione spazio-temporale della distanza
«anni-luce» che determina la differenza effettiva tra la realtà, l’infermiera è lì con la sua divisa, e la
fantasia con l’apertura impossibile della veste. Tutto il poema ruota su questo perno:
l’immaginazione infinita e la pratica negata di un desiderio, sempre lo stesso, inappagato.
Il gioco letterario di Ottieri si caratterizza per alcuni topoi volutamente comuni della
letteratura erotica: in una clinica un anziano degente, dongiovanni in pensione, ha un’infatuazione
per una giovane infermiera. Fin qui nulla di male, ma come viene descritta l’infermiera? La divisa
aumenta le fantasie erotiche sia per il motivo dell’uniforme che le dà un aspetto di comando, sia per
il desiderio di immaginare quello che si nasconde dietro il grembiule. Tuttavia le connotazioni
fisiche che caratterizzano la donna sono tutt’altro che sensuali, e fin dall’inizio l’ironia di Ottieri
sagacemente indirizza verso una particolare interpretazione del testo, l’infermiera è bruttina: «Corri
per la corsia come un colpo / di fucile, scandito dal tacchettio, / o alto stelo leggermente curvo» (IP,
p. 7). Gli elementi vengono disposti con una logica teatrale fin dall’entrata in scena del personaggio
femminile che corre per la corsia, e sarebbe un atteggiamento normale per una qualsiasi infermiera;
eppure quel determinato tipo di corsa è sgradevole, improvviso e soprattutto reso fastidioso dalla
serie fitta di piccoli colpi secchi prodotti dai tacchi alti il cui rumore è davvero molesto per chi suo
malgrado lo percepisce, ossia il paziente immobilizzato a letto. Già dalle prime indicazioni
affiorano alcuni elementi interessanti: oltre al contrasto corsa-immobilità, l’insieme delle parti
comporta una visione sgraziata della donna, alta, magra e anche un po’ curva: l’infermiera è goffa,
quasi caricaturale e non certo bella58 come dimostreranno le descrizioni successive.
Gli bastava vederla, ignara, curvarsi, / albero dinoccolato, ossuto e molle, / libellula. […] In questo
setting di Pisa, / c’era la lunga infermiera di Pisa, […] alto stelo […] snodata pianta […] dinoccolato stelo.
[…] Non avea petto, né pancia, né sedere, / piallata sciacquava nella veste blu, / albero fronzuto solo di ricci
neri, / d’occhi, di naso e di bocca. […] Lunga infermiera / dinoccolata a volte come un burattino, / o libellula.
[…] L’ancheggiante ci sarebbe mai / andata con lui? […] Era crudo il molle stelo. […] Alto stelo scorrente
in corsia. […] Sempre svelta, estroversa nell’azione. […] Un’anguilla, […] giovanissima ragazza, […]
giovane sposa. / Leggermente curva […] col suo magro e casto / culetto a segreti scatti. […] Era un alto
stelo. (IP, pp. 9, 10, 11, 14, 15, 16, 18, 39, 44, 45, 56)
Ottieri attinge a piene mani dal mondo vegetale e animale per descrivere l’infermiera, e il
ritratto complessivo appare poco allettante. È la scelta dei particolari spesso ripetitivi che sorprende,
come lo «stelo» iniziale ripetuto per ben sei volte che caratterizza l’infermiera e tra i vari aggettivi
«dinoccolato» ricopre, senza dubbio, un ruolo caratteristico nel sottolineare l’andatura dondolante,
«ancheggiante» e snodata dell’infermiera aumentando, qualora ce ne fosse bisogno, il suo generale
58
Eppure Vincenzo Loriga è costretto ad ammettere in una lettera inviata il 23 ottobre ’91 allo stesso Ottieri:
«Deliziosa la tua Infermiera di Pisa, a tutti gli effetti; un altro po’, me ne invaghivo anch’io».
178
aspetto spiacevole. «Stelo», «pianta», «albero» rappresentano il trittico descrittivo derivato
dall’ambito vegetale, ma ogni attributo a loro legato è sgradevole. «Libellula» e «anguilla»
rappresentano invece due recuperi dal mondo animale, entrambi usati in modo figurato per
caratterizzare una persona che, con agilità non disgiunta da una certa grazia, sguscia o fugge via
facilmente. Infine l’immagine del «burattino» si riferisce a movimenti sgraziati poiché la donna si
muove a scatti e senza armonia. Sebbene il ritratto complessivo dell’infermiera sia strutturato con
caricature e forti negazioni, l’infermiera non è bella ma forse proprio per questo lo scrittore ne è
attratto.
Per quanto concerne il suo carattere, si tratta di una «giovanissima ragazza» (IP, p. 39) e
«giovane sposa» (IP, p. 44) che alla fine del poema regredisce nella mente del paziente a «bimba»
(IP, p. 71), dedita completamente al lavoro senza tentennamenti e per questo corre spesso tra le
corsie e le stanze. Parla poco nel complesso e appare restia alle avances e alle battute dello scrittore
mostrando di conseguenza un cuore di pietra:
Non ha altro da pensare / questo vecchietto? / È squisito / e sempre parla a voce bassa. […] Al
signore posso fare mille clisteri, / non una carezza. / Era crudo il molle stelo, / s’ignorava come avesse
abbandoni, / che cosa miagolasse nell’amore. / Nel lavoro era lieta, / estroversa e veloce. / Correva a testa
bassa / dalla guardiola al fondo, / dal fondo alla guardiola. (IP, p. 18)
Le parti della tragicommedia sono ben delineate e non possono sovrapporsi: da una parte
l’infermiera che svolge il proprio lavoro e dall’altra il paziente che deve guarire. Clisteri sì, amore
no. E allora lo scrittore si prende una personalissima rivincita nel fantasticare un rapporto con
un’altra donna dalle caratteristiche opposte, quasi una donna-schermo con la quale si possa agire
attivamente: «Come un colpo / di fucile traversò la ruminazione del vecchio / l’idea dell’amante di
Roma, / bionda. / Avea le cosce lunghe, / i seni a coppa. / Una terrificante libidine / lanciava il
paziente / al ricordo di colei che nuda / faceva il ponte all’indietro. / Le ficcava il membro da retro»
(IP, pp. 20-21). Il motivo del colpo di fucile torna con l’approssimarsi delle figure femminili sulla
scena, quasi a voler indicare il carattere improvviso, ma anche spaventoso, dei rapporti con le
donne. La figura di quest’amante di Roma, o meglio la sua fantasticheria giacché si tratta pur
sempre di un’idea riportata volutamente in corsivo, è l’altra faccia della medaglia sessuale rispetto
alla bruna e piatta infermiera in divisa: essa è bionda con cosce lunghe e seni formosi, nuda e
posseduta «da retro». Ovviamente si tratta di una fantasia notturna che si dissolve ai primi bagliori
del risveglio, all’alba, quando la coscienza della realtà non permette ulteriori divagazioni a
eccezione dei day dreams sempre bene accolti. La bruna e la bionda sono tuttavia solamente due
figure tra le tante che affollano la mente dell’anziano scrittore, in quella ricorrente «ridda delle
179
donne vagheggiate» (CC, p. 9) osservata già nel Campo di concentrazione e attentamente studiata
dai medici.
Cassano dall’alto trono / del suo sacerdozio: «Non ti farai mica, / ora che sei quasi a cavallo, /
scompensare dalle donne?» / «Professore, tutta la mia vita / è travagliata a morte dalle donne». […] Lui
sempre smaniato di donne, / fin da ragazzino / era vissuto tra uomini. […] Faceva intanto attenzione delirante
/ a uno degli ultimi suoi lanci dello sperma. / Tutte le donne che avea nel cervello / componevano una
leggiadra, dannata / ghirlanda: poteva pur immaginare / uno scroscio di sperma nel ficheto. (IP, pp. 47, 49,
62)
La selva dei sessi femminili accoglie tutte le fantasie erotiche dello scrittore fino
all’allucinazione sessuale con immagini che prefigurano le scorribande amatorie del successivo
Poema osceno. Tutte le scene di sesso elaborate nella clinica di Pisa vedono protagoniste molte
donne ma non l’infermiera, sognata d’un amore impossibile, che filtra il desiderio dell’anziano
degente con fantasticherie sessuali che hanno un target ben preciso. Si scinde dunque il desiderio
d’amore con la fantasia erotica, e quest’ultima diventa tanto più intensa verso altre donne quanto
aumenta la ritrosia dell’infermiera nei suoi confronti. Un inno al sesso libero che non contempla
alcuna procreazione; non c’è più tempo e non avrebbe alcun senso, e allora ogni alternativa al
concepimento è ben contemplata. L’esplodere ripetuto del pene con lo sperma accusatore
rappresenta, nelle fantasie dello scrittore immobilizzato a letto, un ultimo tentativo di rivincita per
stare ancora nel mondo a modo suo, esprimendo i propri sentimenti in una forma aggressiva e nello
stesso tempo innocente. Quello sperma che inonda il petto e le cosce delle numerose donne
fantasticate si trasforma quasi per incanto in inchiostro che trova sulla pagina la finalizzazione di un
rapporto fertile: la poesia solipsistica e rivoluzionaria.
Accostandosi a lei, / esplodeva di desiderio. […] S’era proposto / di sodomizzarla, / cercando tutti i
fori / che non facessero nascere un bambino. / Ella non volle. / Le propose di mettere il pene / fra i seni
ch’ella con le mani / dovea predisporre a pareti. […] Poté infilare sereno / il pene gonfio da scoppiare, / che
scoppiò. / Il liquido / inondò alla vergine la gola. […] Nella pensione / il pene si rigonfiò. / Glielo mise fra le
cosce. […] Per struggimento, / voleva cacciarle il pene in bocca. / Non lo permise. (IP, pp. 69, 70, 73)
Si sogna dunque il possesso fisico di diverse donne, in qualsiasi luogo e in qualunque
posizione, in una rivisitazione personale del Kamasutra che consente l’aggiunta di nuove avventure
con infermiere, modelle, commesse, Miss Italia, attrici, bionde, brune, alte, basse, vergini o sposate,
capelli lunghi o corti, vestite o nude; nel campionario senile non ne manca nessuna e «egli
immaginò col pirla / di possederle tutte» (IP, p. 55), mentre i suoi medici e psichiatri vanno a nozze
con tutto questo materiale. Cassano si oppone alle fantasticherie erotiche dell’anziano degente il
quale prende spunto per un’inversione improvvisa di tendenza auspicando, dopo tanti sogni a occhi
aperti, un gesto definitivo e coraggioso per un’esibizione d’assoluto rilievo: «Voglio con atletico
180
cazzo / penetrare una stupida fica. […] Ma basta col verbo: / poniamo mano / alla performance»
(IP, p. 51). Breve momento di sollazzo toccando la realtà che tuttavia non concede nulla se non le
illusioni. E allora si torna a capofitto nei sogni allungando a dismisura il circolo vizioso della volpe
e l’uva.
Le donne rappresentano un topos della letteratura di Ottieri in quanto, dalle Memorie fino
all’Irata sensazione, le figure femminili si ritagliano degli spazi significativi all’interno delle sue
opere. Katja, Elena, Rita, Caterina, Tullia, Giada, Samantha, Lotte, Fraulein Müller nascondono
molteplici e variegati aspetti della donna quale moglie, sorella, cugina, amante, alcolizzata,
depressa, psicoterapeuta, drogata, infermiera… Tutto un universo che esplode intensamente nelle
fantasticherie dello scrittore il quale vuole conoscere le sue donne in modo approfondito attraverso
la poesia e il sesso, fantasticando su una nuova Città delle donne che Ottieri, novello Dottor
Katzone di felliniana memoria, rielabora in uno psicotico Mondo delle donne. E sebbene il
vaneggiamento sessuale spinga lo scrittore a fantasticare su altre figure femminili, a Pisa è senza
dubbio l’infermiera che si arroga il titolo di «Grande favorita» (IP, p. 39), il cui carattere è oggetto
di esame da parte di Ottieri che non si arresta alla sua descrizione fisica peraltro non esaltante,
tentando di analizzare le profondità umorali della giovane sposa e bimba, reale e nello stesso tempo
sognata, emblema del mitigarsi della sofferenza e inchiodata in un eterno presente.
Solo l’infermiera di Pisa / sembra non avere antitesi, / o tutto il reale. […] Il pazzo all’alba si sentiva
sommerso / da terapie e ideologie, / l’infermiera di Pisa era la sola cosa / per cui fare pazzie. […]
L’infermiera di Pisa era soltanto un sogno. […] La bimba non viveva d’attesa, / si comportava come chi vive
nel presente. / Viveva d’un presente ben fermo / e scandito tra futuro e passato. / Sapeva che amava
l’infermiera / perché era il simbolo / dell’attenuarsi / della sofferenza. (IP, pp. 12, 36, 49, 60, 71)
Con l’infermiera l’anziano degente, oltre al sesso, immagina di fuggire dalla clinica. Il
motivo della fuga, ossessivo nel Campo di concentrazione, ritorna con forza a Pisa anche se in
questa circostanza si tratta di evadere con qualcuno, tra l’altro con un rappresentante della clinica
stessa, verso la libertà. E cambia anche la prospettiva: se a Zurigo il tentativo d’evasione era stato
puro, assoluto e percepito come un ultimo anelito di sopravvivenza, qui a Pisa si annacqua per la
presenza dell’infermiera che, nelle fantasie dello scrittore, lo dovrebbe accompagnare oltre l’uscita
verso un mirabolante futuro. Ma non accadrà nulla di tutto ciò: si resta dentro la clinica e si
continua a fantasticare dal suo interno.
Voglio fuggire e giacere / con l’infermiera di Pisa, / nel vero. […] «No» smaniò il pazzo / «io non mi
sposto da San Rossore! / Non cerco altr’orma. Semmai / fuggo nella foresta / con l’infermiera di Pisa». […]
Nausea. Paura. / Sorta di orrore, tremore / della mente, no, del corpo. / Arrancamento pel selciato. / Bisogno
di fuga. (IP, pp. 24, 25, 32)
181
Oltre ai motivi della fuga e della pazzia, classici nell’universo della clinica, Ottieri indugia
su altri elementi aprendo un nuovo capitolo di storia letteraria, propriamente ariostesco, quando si
sofferma a rivivere in parte le gesta di Orlando, come lui furioso, pazzo, in fuga, follemente
innamorato e alla ricerca del proprio desiderio inappagato.
Non come Amleto, come Orlando / attendeva che l’infermiera di Pisa / slacciasse il grembiule, /
aprisse la veste, / scoprisse i misteriosi seni, / forieri di misteriose terre. […] Parve un po’ quietato /
l’Orlando furioso inibito. / Ora in terra di Pisa i suoi Dottori / lascian gli strazi e vanno a insegnare / le forme
dell’inumano dolore alla Normale. (IP, pp. 17, 50)
L’ironia di Ariosto tendeva a dissolvere il mondo cavalleresco svuotando di valore la
tradizione medievale attraverso la rielaborazione del carattere di finzione e la riduzione dei modelli
eroici a pura invenzione narrativa. Il procedimento compiuto da Ottieri è simile: anche lui svuota di
senso la materia narrata andando oltre il Male, si fa beffe dei medici mettendoli in ridicolo e sogna
fughe d’amore con l’infermiera; ma soprattutto si ritrova quell’ironia dissacrante tipica in Ariosto,
per cui gli infedeli sono i Dottori, Angelica è l’infermiera, le guerre analitiche sul campo sono
quotidiane, e senza sosta si attraversano boschi e labirinti mentali nell’ininterrotta ricerca, tra fughe
e raggiungimenti, del desiderio che illude ovvero la guarigione.
Oltre ad Amleto e Orlando, risaltano nel poema altre due figure con le quali Ottieri sente un
forte legame sempre in relazione allo stato in cui si trova, immobilizzato a letto dentro una clinica.
Il primo riferimento riguarda San Sebastiano: «L’ossessione è fuori dalla storia. / Dalle atemporali
ossessioni / era assediato. Per lenire le piaghe / di questo San Sebastiano / consiglia un farmaco
Cassano» (IP, p. 23). Il San Sebastiano rimuginato da Ottieri è quello del Mantegna59 per
l’immagine drammatica il cui volto si contrae in una smorfia di dolore mentre il corpo viene
percorso dalla tensione drammatica. Il segno di Mantegna nel dipingere San Sebastiano è duro,
secco e spigoloso, con tratti netti e precisi per ogni particolare del martire dalle rughe del volto ai
rilievi delle ossa e dei muscoli, alle pieghe contorte del panneggio che cinge i fianchi. Il carattere
energico e monumentale del quadro è rilevato inoltre dagli elementi architettonici che caratterizzano
lo sfondo quali una colonna romana, un capitello riccamente lavorato e dei ruderi di un edificio
antico. Questo San Sebastiano è immobile e incatenato alla colonna in posizione verticale, colpito
da numerose frecce che ne aumentano la sofferenza ripresa da Ottieri il quale, inchiodato a letto
orizzontalmente e senza possibilità di fuga, sente gli strali della malattia che lo dilaniano ogni
giorno. I busti dei due arcieri nel dipinto, con reminiscenze di Van der Weyden, trasmigrano nel
59
Si fa qui riferimento al San Sebastiano del Louvre, dipinto dal Mantegna nel 1480. La tragica vicenda del
martire interessò fortemente la sensibilità del pittore che dedicherà tre quadri a questo tema: oltre al dipinto già citato,
c’è un San Sebastiano del 1470 che si trova al Kunsthistorisches Museum di Vienna e un altro del 1490 conservato al
Ca’ d’Oro di Venezia.
182
poemetto attraverso le figure dei medici che infieriscono con i continui farmaci, simili a «frecce»,
sul corpo quasi esanime del paziente: «L’amante di Roma / sta sempre in agguato, / lenta a rientrare
in faretra. […] Sono un famoso / antico ossesso. Ci vuole un esorcismo. / La tua medicina svizzera /
non intacca le frecce» (IP, pp. 21, 48).
L’altra immagine cara a Ottieri riguarda un personaggio mitologico: Tantalo, il semidio che
per aver offeso gli dei fu costretto a subire l’eterno supplizio consistente nel non poter bere né
mangiare nonostante egli fosse copiosamente circondato da cibo e acqua. Inoltre un grosso macigno
incombeva sopra la sua testa con la minaccia di schiacciarlo, facendolo vivere in una condizione di
terrore perenne. Il masso opprimente, il desiderio eternamente inappagato, la paura quotidiana
avvicinano le esperienze di Tantalo a Ottieri, il quale avverte il bisogno primario nella fantasia
dell’infermiera, vitale come il cibo e l’acqua: «Tantalico supplizio. / Meglio che finisse il turno, /
per immaginare in solitudine / la grande favorita» (IP, p. 39). Anzi Ottieri va oltre il mito: il
supplizio è atroce nella realtà, in quanto il possesso fisico della donna è impossibile, quindi
preferisce l’assenza per concretizzarne il raggiungimento in quella zona della mente in cui tutto è
realizzabile, applicazione pratica di un day dream.
In quest’opera dall’aspetto teatrale, dopo aver analizzato gli antagonisti, i medici e il
personaggio femminile dell’infermiera, è necessario soffermarsi sul protagonista principale, lo
scrittore rinchiuso in clinica. Come spesso accade, Ottieri non tergiversa sulla propria condizione
descrivendola in modo crudele fino a fornire al lettore un lucido autoritratto che prende forma nei
diversi passi del poemetto.
Sono un famoso / antico ossesso. Ci vuole un esorcismo. […] Sono un lucidissimo pazzo. / Ho
sofferto sofferenze inaudite. […] Ora era antico. / Avrebbe conquistato / la sua celebrale e folle senilità / una
modella in pelliccia? […] Relitto d’uomo. […] Si dichiara ferrovecchio. […] Egli è pazzo. / Vuol essere
pazzo, / tiene la follia come un cibo fra i denti, / perché il buon senso / glielo vuole strappare. (IP, pp. 48, 49,
51, 53)
Il vecchio poeta, che ha trascorso un’intera vita a combattere il Male e i medici curanti,
giunto alle battute conclusive della propria vicenda, personale e letteraria, non si lascia investire
passivamente dai sintomi dell’invecchiamento, tra cui la solitudine e la depressione, elaborando un
suo mondo a parte, edificato dalle fantasticherie erotiche talvolta deliranti che emergono come pura
ribellione. A tal proposito, in una lettera giovanile scritta a Fabrizia Baduel l’8 giugno ’49, Ottieri
scrive: «io sono sempre abbastanza pazzo, ma un pazzo vivo e non un morto. Mi chiedo dove andrò
a finire».
183
Conclusasi l’esperienza di Pisa senza alcun riscontro favorevole per il paziente, giacché la
terapia americana del «Nobile Cassano» (PAL, p. 80) non sembrava aver sortito gli effetti sperati,
Ottieri il Conte pazzo esce dalla clinica e si rifugia nel passato delle Memorie ambientando il
poemetto Il palazzo e il pazzo, il secondo atto dello psicodramma esistenziale, nel Palazzo di Chiusi
a cui sostituisce il solito nome di Belverde, paese amato e odiato fin dall’adolescenza. E come per
L’infermiera di Pisa, anche qui Ottieri segue una certa logica teatrale nel far entrare in scena i
personaggi secondo lo sviluppo narrativo: «Conte, lei è soprattutto / un teatrante. / Ho letto dei libri.
/ Pare che il teatro / sia un volto tipico del disturbo, / un modo non di orchestrarlo, / ma di fuggire la
guarigione» (PAL, p. 111). Mentre sullo sfondo emergono con vivacità le immagini di Chiusi, dei
luoghi frequentati, degli abitanti, delle inclinazioni politiche intrise di amarcord e affetto da parte
dello scrittore che spesso si era sentito un corpo estraneo nel Palazzo a causa dell’atmosfera
opprimente che avvertiva nella famiglia, «avevo una bisnonna, una nonna, una zia / originali. / Io
sono originale / da parte di madre e padre» (PAL, p. 114) e della mentalità non proprio aperta del
paese: «Che pensa lei, che pensa il paese / del conte figlio del conte?» (PAL, p. 28). La
considerazione dei paesani verso il reprobo, lo scrittore alcolizzato, il metropolitano che disdegnava
l’origine agraria non fu negli anni molto positiva: non si comprendevano bene le originalità di
Ottieri, la sua scrittura e gli atteggiamenti mondani. Niente di nuovo dalle Memorie nonostante i
decenni trascorsi: «Tutto il paese mi considera / un verme. / Io invece voglio / essere per
acclamazione sindaco» (PAL, p. 47). A Chiusi Ottieri trascorse le estati durante l’adolescenza,
mentre negli ultimi anni ritrovò proprio nel Palazzo un luogo di quiete relativa, oscillando tra
sentimenti contrastanti per il paese a cui si sentiva legato per le origini del padre che, come i suoi
antenati era di Chiusi mentre la madre di Cetona, un paese vicino.
Non ho con cotesta landa, / un bel rapporto. […] Il primo modo di sciogliere / il nodo Belverde / è
andarci a vivere. […] Belverde! / Tutt’e due siamo rossi, / disfattisti, / civili, depressi. / Non siamo più agrari,
/ ma nemmeno terziari. […] Belverde è Cuba. / Il Conte di Belverde / preferisce morire che intraprendere.
(PAL, pp. 11, 93, 109, 110)
Nonostante la comunanza di sentimenti depressi, Ottieri non riuscirà mai ad abbandonare
Milano, città davvero odiata, per Chiusi dove regnavano una confusione di idee politiche già
presenti nelle Memorie, e un’evidente gracilità intellettuale che non permettevano allo scrittore di
integrarsi nel paese.
Il paese è fortemente politicizzato. / Vi regnano il Fascio e la Catechesi, / e l’Imbarazzo dell’area
marxiana. […] Siete, siamo / estremisti e disfattisti, / apocalittici e utopisti. / Sognatori e depressi. / Io te lo
dico perché il caso Belverde / è il caso mio. […] Lo sai perché la striscia rossa / di Siena è rossa? / Perché è
povera. / Belverde è il paese più povero / della striscia rossa, / di questo sud del centro. (PAL, pp. 7, 32, 33)
184
Anche se il tema principale del poemetto è la pazzia, non mancano neanche in quest’opera,
scritta nel ’93, i riferimenti agli sconvolgimenti storici di quel periodo soprattutto con il crollo del
socialismo dopo la dissoluzione dell’URSS. Emerge in alcuni versi la responsabilità
dell’intellettuale di sinistra che avrebbe dovuto spiegare coram populo cosa stava accadendo a
un’ideologia alla quale si era creduto per decenni.
Non sei, non eri… / Un famoso compagno? / Famoso…! / Compagno, abbiamo preso / un bel colpo
in testa. / Perché non si sapeva meglio / che l’Est era un disastro? / Voi intellettuali organici / dovevate
saperlo. / Ho sempre sostenuto che la classe operaia / non deve fidarsi / degli intellettuali. / Essi, al momento
buono, si squagliano. / È la disgregazione. / È la rifondazione. / Insomma che cosa dicono, / che cosa fanno
ora, / gli intellettuali di sinistra? / Ancora una volta conviene / tacere. (PAL, p. 29)
Sull’ingenuità di una parte intellighenzia di sinistra, Ottieri aveva rivelato le proprie
perplessità già nel ’49 in una lettera inviata a Fabrizia Baduel: «Non fidarsi degli intellettuali di
sinistra (e quindi di me stesso) è il mio motto. Malraux è finito segretario di De Gaulle. Qui, delle
due l’una. O si è per e con la classe lavoratrice, o si finisce coi generali e gli arciduchi (o ci si limita
a bisticciare in famiglia, ipotesi quest’ultima la più probabile)» (24 maggio ’49).
Anche se nella Storia del PSI, e in parte anche nel Padre, Ottieri tenterà di analizzare le
cause politiche, economiche e sociali che hanno portato al crollo degli Stati socialisti, nel Palazzo e
il pazzo una riflessione dolorosa è incentrata sul marxismo, uno degli elementi cardini della sua
formazione culturale fin dagli anni Quaranta. Si potrebbe dire la fine di un sogno anche se, in realtà,
già nel periodo industriale Ottieri aveva avvertito l’impossibilità di una realizzazione concreta del
marxismo in qualsiasi tessuto sociale.
Il marxismo non è solo / una fantasiosa diagnosi / e terapia del mondo, / era un modo per fare della
miseria una scienza. […] L’orrido mito marxiano non termina / che con il termine della povertà mondiale. /
Allora la televisione potrà tutto. / Per ora ancora, / agli umili un’utopia extra è necessaria. […] Sussistono il
sentimento della morte / e la morte reale, / come il socialismo. […] Compagni, / il sistema social-comunista,
/ di cui gli intellettuali di sinistra / italiani sono stati, / con discorsi, saggi, poesie, romanzi, / fautori sfegatati /
per cinquant’anni, / ha dimostrato di rendere i poveri / più poveri. / Il suo unico scopo / è quello di rendere i
poveri / meno poveri, / mentre pare che ciò avvenga meglio col sistema / il cui unico scopo / è quello di
rendere i ricchi più ricchi. (PAL, pp. 34, 37, 56)
Parlando di Marx non può mancare anche un riferimento a Freud per quest’accoppiamento
vissuto da Ottieri «come bisogno primario» (PAD, p. 62). E in pochi versi l’autore riesce a
condensare l’essenza delle due culture in modo epigrammatico e tagliente: «Lasciamo Freud,
torniamo a Marx. […] La lotta di classe / non l’ha inventata Marx, / ma la divisione in classi. / La
libido / non l’ha inventata Freud, / ma le difficoltà del cazzo» (PAL, p. 35).
185
Ottieri fin dai primi versi mette in chiaro i punti cardini del poemetto: il protagonista è uno
scrittore depresso e alcolizzato che si aggira come un pazzo nell’antico Palazzo; e come solitamente
accade, quando Ottieri parla di sé non fa sconti. L’autoritratto che emerge dalle pagine è impietoso:
con una certa insistenza egli pone l’attenzione sui vari disturbi mentali che da decenni lo
rinchiudevano in prigioni poco dorate, le cliniche, e i ricordi rinviano alla Klinik am Zürichberg
nonostante siano passati molti anni da quell’esperienza: «Diceva sottovoce a Zurigo / per un anno,
Vedremo, / lo psicologo del profondo. […] Non ce la faccio più a Zurigo. / Vedremo. / Questa
clinica per casi disperati / mi dispera. / Non tollero il week-end sul Dolder» (PAL, pp. 73, 76). E
neanche la permanenza nella clinica San Rossore di Pisa, la cui immagine è sempre vivida, ha
potuto migliorare la condizione psichica dello scrittore. Come se ci fosse ancora qualcosa in
sospeso o non raccontato nell’Infermiera di Pisa, nei ricordi del paziente da poco dimesso e ormai
pazzo riaffiorano le atmosfere dell’ospedale, le frasi dei medici Mignani e Perugi, la lotta analitica
terminata senza vincitori, e soprattutto si eleva la figura del Dottor Cassano nemico privato numero
uno:
Decolpevolizziamo la depressione, / non l’alcolismo, / dice Mignani in San Rossore. […] L’uomo è
geloso e poligamo, / dice sereno Perugi a Pisa. / Ma egli aggiunge / che è questione di umore. […] Ma lei,
Dottor Perugi, / mi considera pazzo / nel senso / che si intende per le strade del mondo? […] Lei è pazzo,
disse Mignani, / se non altro / perché beve come un pazzo. […] Il nobile Cassano / mi considera un matto
ameno. […] Io temo (io voglio) dover tornare / nella troppo amata Pisa, / dal nobile Cassano. (PAL, pp. 21,
40, 79, 80)
Tra le varie cliniche, manicomi, ospedali in cui Ottieri ha soggiornato, la clinica San
Rossore di Pisa resterà senza dubbio, tra dolore e nostalgia, ben fissata nella sua memoria senza
dimenticare le terapie seguite. Del resto la clinica, e i medici lo compresero da subito, appare allo
scrittore come l’unico luogo, almeno dal punto di vista letterario, in cui poter vivere e da cui non si
vorrebbe mai uscire:
Ho soprattutto combinato / di infilarmi a ripetizione / nei ricoveri. Mi pareva / movimento,
invenzione, / spostamento, distrazione e amenità, divertimento, svago, / cadenza, alternativa. […] Lei
considera l’ospedale / come il casino, / l’unico luogo di piacere, / una casa di svaghi. […] È che solo la follia
giustifica / il mio inanellare clinica a clinica / per trovare / sollievo. (PAL, pp. 42, 79, 80)
Il protagonista ricomincia da capo il viaggio verso la guarigione senza una meta precisa e la
forza d’animo necessaria. Con tuttavia una buona base di partenza, ovvero la follia che, in disuso
nel linguaggio scientifico, è ben presente in quello letterario, sociologico e antropologico dove nel
corso dei secoli ha subito rimandi in campi di varia significazione, dalla «divina follia» di Platone
alla «follia morbosa» psichiatrica, dalla linea interpretativa illuministica di Diderot che attribuisce
186
la follia al corpo, a quella romantica secondo cui la follia è interpretata come il fondo dello spirito
umano che è compito della ragione regolare (Schelling). Nel Novecento, Jaspers, spostando il
registro della lettura psichiatrica dalla spiegazione alla comprensione, ha stabilito che la follia in sé
è incomprensibile; impostazione seguita dall’analisi esistenziale di Binswanger e dalla psichiatria
sociale in cui si precisa che la follia non è una finzione, ma la presenza della malattia mentale non
può essere dedotta da alcun esame clinico, rimanendo quindi un’ipotesi: «la follia è un mistero»
(PAL, p. 46).
Lo scrittore si considera dunque pazzo60 nonostante il parere contrario del Dottor Cassano
che, infatti, non gli ha rilasciato il tanto agognato certificato di pazzia, ma la maschera della pazzia
è uno stratagemma ordito da Ottieri attraverso cui esprimere la propria irritazione nell’essere
considerato soltanto uno scrittore malato: «Il mondo lo preferiva demente. […] Scusi, posso essere
un caso letterario, / invece di un caso clinico?» (PAL, pp. 14, 27). I pazzi vanno assecondati e allora,
si domanda Ottieri in questo gioco letterario, come si può leggere un poemetto scritto da un autore
ufficialmente pazzo? Ritenendolo savio e ragionevole. Un procedimento simile Ottieri lo porrà in
atto nel Poema osceno quando per descrivere le degenerazioni della politica italiana, pur
raccontando oscenità, darà alla luce un testo in realtà pudico nonostante le apparenze. Inoltre, dal
trono della pazzia egli può osservare una convergenza sul piano del malessere da parte di coloro che
fingono di vivere serenamente sviluppando una personale teoria, a mo’ di piccola rivincita
sull’intera società, che prevede l’intreccio indissolubile tra depressione privata e pubblica, motivo
espresso fin dai tempi delle Memorie e che si ripresenterà anche nell’Irata sensazione: «Nobile
Cassano, / ti faranno Presidente. / La psichiatria entra al Quirinale e cura / la depressione nazionale.
/ La gestione nazionale / passa alla psichiatria. […] La depressione pubblica / e quella privata si
intrecciano. / Non te lo dice un ideologo, / ma uno scorticato vivo, scarsamente / abbiente» (PAL,
pp. 27, 33). «Con lui la psichiatria è entrata al Quirinale: la psicologia del profondo e la politica
hanno cominciato i lavori, comparandosi» (ISP, p. 159). La depressione nazionale cui fa riferimento
Ottieri prende l’aire non solo dalle proprie riflessioni quanto soprattutto dallo stato di degrado che
la società italiana stava vivendo durante i processi di Tangentopoli e i paralleli disastri politici,
tematiche approfondite nella Storia del PSI e nel Poema osceno. Nel Palazzo e il pazzo l’Italia
viene osservata con pochi sguardi eloquenti: nel primo caso si tratta di una prostituta, che si chiama
appunto «Italia», attesa spasmodicamente dal giovane Ottieri in un bordello; mentre nel secondo è il
sentimento di schiavitù che gravita sul Paese a turbare le speranze sulla difficile libertà da
conquistare: «Volevo immaginare che ogni prostituta / si innamorasse di me. / Una si chiamava
60
«Io sono un pazzo? Sono un pazzo nazionale, noto dal Nord fino al profondo Sud. E nemmeno me ne sono
accorto… Può un pazzo sapere che è pazzo? E se lo sa bene e gliel’hanno detto e diagnosticato, gli hanno precisato la
specie oggettiva della sua pazzia, che cambia? Pazzo rimane» (ISP, p. 38).
187
Italia, / bruna, alta, / Italia, Italia, Italia, / alla nuova alcova. […] Mettiamo nella vita / la morte. /
Siamo sempre stati regolati / da Qualcuno. / Quando non c’è più Nessuno, / cadiamo nella
Confusione» (PAL, pp. 24, 33).
Ottieri prosegue l’analisi della propria condizione psico-fisica senza alibi, non dimenticando
però che allo specchio si può osservare l’intera società; e quindi il pazzo, ancor meno poeta e
narratore del solito, si espone come semplice portavoce di un dramma esistenziale che pur partendo
dal privato è fondamentalmente comune a tutti.
Ne uscivo con il down. / Ahi, rapida bipolarità, / anzi istantanea. […] La parola bipolare / è divenuta
famosa nell’Alta Milano. […] Nella mania e nella malinconia / io sono implacabile. / È questa la mia vitalità.
/ Il depresso è molto vitale. […] Pare che nelle vostre / carte segrete vi sia / una diagnosi di psicosi /
maniaco-depressiva. / Lei ha un disturbo / bipolare aggravato. (PAL, pp. 25, 26, 79)
Questi i sintomi, mentre le cause vengono ricercate dai medici, dottori, professori, psichiatri,
psicologi che hanno banchettato con il cervello dello scrittore che candidamente affermava: «La
fossa delle serpi era / dentro la mia testa» (PAL, p. 86). Tra gli indizi più probanti risalta alla lettura
una vecchia ma sempre attuale conoscenza nelle opere di Ottieri: l’alcool, compagno fedelissimo e
motivo ricorrente della depressione dal Campo di concentrazione all’ultima frontiera dell’Irata
sensazione. La dipsomania lo obbliga a bere quantità di alcolici sempre maggiore, «il tossico che
dovrebbe / smussare i picchi, esaspera / la malinconia e la mania» (PAL, p. 50) con gli stessi
inconvenienti: moltiplicare l’alcool tra l’urina prorompente e la «merda liquida calduccia» (CERY,
p. 15) senza soluzione di continuità, sotto lo sguardo avvilito di medici e familiari. Ottieri riesce in
pochi versi a condensare il vedemecum del perfetto alcolista, dal bar di prima mattina all’aumento
del dosaggio, alla disperazione dell’astinenza, al pensiero dominante, «si pensa che mi interessi
tanto / di suicidio e rivoluzione / non per via di attualismo / ma di birra» (PAL, p. 36), fino alla
spiegazione delle cause. S’inizia a bere alle prime luci dell’alba, mentre la città dorme, per
sciogliere il pesante groviglio presentatosi non appena la coscienza illumina lo stato depressivo;
tuttavia il senso di esaltazione evapora ben presto sotto i colpi della dipendenza che non permette
nessuna guarigione: «La mattina presto l’alcole / ha doppia euforia e onnipotenza, / presto diventa
un massacro. / Ne chiedo un’altra. […] Mi svegliai prestissimo, corsi / al baretto delle corriere. /
Alle 7 bevvi tre birre» (PAL, pp. 41, 60). È necessario l’aumento delle dosi al fine di assaporare la
giusta soddisfazione di sentirsi ancora vivi; ma anche in questo caso, il buon umore sarà obbligato a
lasciare il posto all’assunzione di altre bevande. L’ebbrezza alcolica così ricercata si manifesta
come una psicosi esogena passeggera, marcata dalla quantità di alcol ingerito e dalla tolleranza del
soggetto. Nella prima fase dell’aumento del tasso alcolico nel sangue, si riscontra un certo
restringimento nel campo della coscienza oltre che fenomeni di disinibizione con umore di solito
188
euforico, aumento dell’impulsività, della facilità di comunicazione e indebolimento della critica:
«Gli fu portata una prima / birra media. / Poi una seconda. / Il conte divenne / di buon umore»
(PAL, p. 15). Tuttavia l’ulteriore aumento dell’intossicazione comporta un effetto narcotico e, nella
fase depressiva che segue, una progressiva paralisi delle funzioni nervose centrali. E quando
durante un qualsiasi ricovero l’assunzione di alcolici è proibita, scatta nel tossicomane la necessità
impellente di bere (dall’alcol denaturato all’eau de toilette come accade per la Contessa o per
Filippo Ciai in Cery) affinché si possa ristabilire l’equilibrio perduto. In quei frangenti l’alcolizzato
si dà al bere improvvisamente e in modo compulsivo finché l’insorgere della tossicosi non gli
impedisce l’ulteriore assunzione di alcol, mentre i danni organici cominciano a manifestarsi con la
debilitazione degli impulsi, la labilità emotiva, la debolezza critica, oltre a un restringimento della
cerchia degli interessi e una marcata diminuzione dell’attenzione e della memoria.
Le chiesi come un dannato, / compulsivo, ossessivo, bipolare in preda / a un crisi di panico, maniacodepressivo, / un bicchiere solo di vino. […] Un bicchiere, un solo bicchiere, / un bicchiere mi porti,
Dottoressa, subito, / subitissimo un bicchiere. […] La depressione agitata era più forte / della morte, / e della
vergogna: / bramavo la calma / procurata da una damigiana. […] L’alcol non è / né malattia né vizio; poiché
fa morire / è una scelta di vita. […] Io non concepisco / la realtà senza birra. (PAL, pp. 44, 45, 46, 49, 68)
Nei quadri psicopatologici dell’alcolismo s’inseriscono complicazioni spesso a decorso
cronico di ordine neurologico e psicologico, tra cui il delirium tremens che Ottieri ricerca con
bramosia come se fosse la conferma della raggiunta ebbrezza.
Eccolo, mi dissi, il tremens. / Era lui? / O non era lui? / Cercavo, come sempre, / l’ebbrezza, ma non
la trovavo. / Mi arrabbiavo col tossico, / volevo avere / sicurezza d’ebbrezza. […] Non so ancora / cosa sia
questo tremens. […] Deliravo? Era comodo delirio pensare / che avessi il tremens, / che deliravo il delirio?
(PAL, pp. 48-49)
Il delirium tremens viene così chiamato in riferimento all’evidente aumento del tremore a
cui segue la scena delirante inaugurata spesso da turbe della percezione prevalentemente notturne e
associate a un sentimento crescente d’inquietudine e da allucinazioni visive che hanno per oggetto
piccoli animali per lo più numerosi e in movimento; e non mancano allucinazioni tattili o acustiche
elementari come rumori, fischi o musica.
Dalla porta allungò il naso un mostro, / come una gru da ristrutturazione. […] Io non sapevo / se lo
vedevo / o se c’era. / Sapevo che non c’era / ma lo vedevo. / Mi voltavo e rivoltavo. / Voltato mi sentivo il
mostro alla schiena, / mi voltavo per vederlo almeno in viso. / Mi voltavo, mi rivoltavo. / Eran le immagini
della punizione. / La vergogna non ha tregua. / Arriverà la proboscide a sfiorarmi? (PAL, p. 20)
189
Lo stato d’animo del malato varia dall’angoscia a un certo livello di euforia, ma in genere il
paziente è docile e con uno scarso grado di aggressività. Al contrario, con l’aggravarsi del quadro si
fa evidente l’obnubilamento della coscienza e l’agitazione psicomotoria, così che le allucinazioni
diventano più stabili e il soggetto cerca di difendersi o ripararsi in qualche modo. Non mancano, nei
casi più gravi, segni fisiologici come la febbre e la sudorazione marcata con tendenza al collasso
circolatorio, mentre la prognosi si fa più grave se compaiono crisi epilettiche, e infausta se il
delirium tremens non viene tempestivamente curato.
Per quanto riguarda l’eziologia, le cause dell’alcolismo che si presentano negli atteggiamenti
del poeta si riferiscono a diversi ambiti disciplinari, dalla biologia alla genetica, dalla sociologia alla
psicologia, dall’antropologia alla psicoanalisi. In primo luogo, l’appetenza: le bevande alcoliche
prevalgono sulle altre per il loro affetto euforizzante e per il momentaneo sollievo che danno
all’angoscia. Per quanto concerne invece la costituzione biologica, essa comporta una variazione del
rapporto tolleranza-assuefazione-dipendenza che domina tutta l’eziologia della condotta
dell’alcolizzato. Infine, per le motivazioni psicologiche, sembrano essere per il pazzo incentivi che
facilitano l’alcolismo gli stati di tensione, le difficoltà nelle relazioni umane, i sentimenti di
insicurezza, l’incapacità di affermazione personale, il bisogno di gratificazione. Per le teorie
psicoanalitiche si tratta di una regressione allo stadio orale della libido e quindi una specie di attività
erotica sostitutiva: «Ora pare che io beva non tanto / secondo l’accezione tradizionale, / per riempire
il vuoto o smussare un’anxiety, / ma perché ho il panic-attack. / Esso è una specialità del nobile
Cassano / quindi mia. Bevo per anestetizzare / le angosce dovute alla crescita / necessaria per
divenire uomo» (PAL, p. 74).
Lo scrittore è dunque un pazzo alcolizzato che vaga per le stanze del Palazzo. Ma come
passa le giornate oltre a bere in casa e nei bar? Non fa molto altro; fantastica tuttavia grazie alla
forza espressiva del suo pensiero perverso che lo riporta di colpo sulla “retta” via rappresentata
dalle donne immaginate nelle proprie fantasticherie.
Qui a Belverde sono stanchissimo / di questo problema: / appena penso a una donna, / ne penso
anche un’altra. […] Non vorrei mai / che una delle due, o tutt’e due, / pensasse a me e a un altro. […] È gioia
/ amar solo la bionda, / amar solo la bruna, / impazzir solo per la bruna. […] In questo momento / ho la bruna
in testa / e preferisco la bionda. (PAL, pp. 39, 40, 54, 56)
Il problema atavico dei suoi numerosi alter ego ossessionati dalle donne è la difficile
conquista cui si lega in modo inscindibile la paura del rifiuto: «Così il dongiovanni tremebondo /
poteva continuare / senza il bisogno / della terrificante conquista, / dove ci si imbatte nel No che
scardina, / nella manina ritratta. / Passavo così attraverso una serie / di sì tetri. / Ne uscivo con il
down» (PAL, p. 25). Viene spesso ripresa da Ottieri per auto-descriversi nei momenti topici del
190
corteggiamento l’immagine di Don Giovanni che, come personaggio assurto a simbolo della libertà
sessuale, dell’infedeltà, dell’amore come impresa della seduzione senza passione e dell’amore non
individualizzato, preferisce alla profondità del rapporto l’intensità del momento. Dal punto di vista
psicoanalitico, Don Giovanni è stato considerato come l’espressione di una ipersessualità motivata
dall’esigenza di contrastare sentimenti di inferiorità attraverso continue dimostrazioni di successi
erotici. Un’altra interpretazione vuole che Don Giovanni non sembri realmente essere interessato
alla donna ma la utilizzi come strumento di soddisfazione dei propri bisogni narcisistici, e la sua
ipersessualità sia solo una difesa contro tendenze omosessuali inconsce: è quello che verrà appurato
nelle pagine di Cery a proposito dell’omosessualità latente riscontrata nel personaggio Filippo Ciai.
Assillato dai ricordi, Ottieri, tralasciando il Padre a cui dedicherà il poemetto omonimo,
delinea nel poemetto una rappresentazione della propria famiglia dai nonni alla madre, dalla cugina
alla figlia. «Il nonno era stato / sindaco di Belverde. […] Con mia moglie dormivamo / nella stanza
di Lucrezia e Quintilio. […] Mi gettai sul letto / ove morì mio nonno, e ingravidò la nonna, /
amplesso / difficile da immaginare» (PAL, pp. 38, 39, 61). Nella figura materna, Ottieri ricorda il
suo carattere mite, anodino, malinconico, depresso: «La pazzia di stemma e di amore / perse mia
madre / insieme alla bellezza / e alla optalidomania. […] Mia madre, la scema, / nata per essere
beffata, / e che più si difendeva più era demente» (PAL, pp. 50, 92). Della cugina Elena, un altro
ritorno dalle Memorie anche se in quel caso si trattava della sorella di Lorenzo, contessa alcolizzata,
Ottieri ricorda la follia, la malinconia depressa e il continuo scambio di opinioni sulla scrittura e
sulla vita.
La mia bella cugina / era ingrassata di sedere / per i farmaci e la vita. […] Elena, inseguo / l’umore
lineare. […] Tu, Elena, hai l’orgoglio / di nascondere la tua follia, / prodotta forse dall’orgoglio, / il tuo Ceto
non la prevede, / anzi, non la permette. […] Elena, tu, la più bella fra le belle, tu sei grassa, / malinconica e
lenta, / molto la follia e la sua terapia / incide / sul culo, sul portamento, / sull’occhio, cade su esso / una
tendina. (PAL, pp. 49, 50, 51, 53)
Della figlia Maria Pace lo scrittore concede il primo ritratto nel Palazzo e il pazzo
individuando quei tratti che maggiormente risaltavano ai suoi occhi, dalla «cattiveria stupida» (PAL,
p. 57) a quella sorta di tirannia svelata in seguito nelle Guardie del corpo, quando la figlia si
presenta sulla scena come una nuova antagonista, oltre ai medici curanti, del suo alcolismo fino a
diventare l’ereditaria del Palazzo insieme al fratello Alberto, il secondo figlio di Ottieri: «Oi, che
mia figlia non paghi / la mia sofferenza psichiatrica. / Con quella mente, / ella esibisce la cattiveria
stupida / poiché non ha altr’arma. / Io temo che sia contro-aggressiva / per disperazione tappata di
somigliarmi. […] Ella ama l’Africa / poiché è, come me, / un’antropologa di deboli e di poveri»
(PAL, p. 57). Ottieri riassume in pochi versi, quasi in forma di epigramma, l’attività di giornalista e
191
scrittrice di Maria Pace, di cui egli era molto orgoglioso. Il riferimento all’Africa è dovuto
all’ambientazione del primo romanzo della figlia, Amore nero, storia di un viaggio in moto nel
cuore del continente africano fino all’Alto Volta: «Mi occupavo degli operai / di Sesto Marelli, /
mia figlia si occupa del profondo Congo» (PAL, p. 67). La «spietata figlia» (GC, p. 135) combatte
contro la condizione di alcolizzato cronico del Padre finendo per essere considerata, per la fedeltà
alla causa, «la più ostinata nemica / della mia bottiglia» (GC, p. 141). Diversi stratagemmi tenterà
Maria Pace per contenere la dipsomania del Padre, uno dei quali per arguzia e finezza viene
ricordato alla fine del poemetto:
Ci sono tre birre allineate / dentro un cassettone, / come in soffitta le trappole. / M’avvento con
inaudita / bramosia. / Sento scendere un liquido pesante, / che riempie. / Rutti su rutti, non l’aurora / della
contentezza breve. / Sono mitridatizzato? / La soluzione dell’enigma si sposa / all’ingorgo gastroenterico. /
Sulla scatoletta c’è scritto: / Analcolica. Mia figlia / mi ha fatto un tiro. (PAL, p. 113)
I figli Maria Pace e Alberto saranno gli ereditari del Palazzo e lo scrittore indugia spesso su
questa inevitabile conclusione con rammarico misto a ironia: «Viene il momento / che non vado più
a palazzo / né vestito né con le mutande, / ma i figli. / A babbo morto / e a cimitero chiuso, / tocca a
loro il palazzo. / Tocca a loro tutto, / compresi i diritti d’autore, / che non sono un cazzo» (PAL, p.
58). L’ironia amara tocca uno degli aspetti più malinconici dell’attività letteraria di Ottieri, ovvero
la conferma di esser stato uno scrittore «bad-sellerista» (CERY, p. 121), condizione che lo
amareggiava dalle poche copie vendute delle Memorie fino all’Irata sensazione: «Sono povero, non
ho soldi. / Guadagno coi libri / 500 lire al mese» (PAL, p. 111). La povertà, o presunta tale di Ottieri
che era comunque di origine aristocratica, scaturisce dalle enormi spese dovute alle medicine e ai
ricoveri continui che sovrastavano i magri guadagni provenienti dalle vendite: «Costa di
psicofarmaci, / dalle 500 alle 700 mila al dì. / Si dice: 20 milioni al mese. / Coi libri guadagna
50.000 al trimestre» (PAL, p. 97). Che tipo di scrittura ha condotto Ottieri a vendere poco e,
nonostante i numerosi studi a lui dedicati, a non trovare uno spazio di primo piano nella storia della
letteratura italiana? Questo poemetto gli permette di tirare le somme riguardo una produzione di
opere cospicua e originale nei temi trattati… ma non per il pubblico: «Io non sono / un poeta
maledetto. / La mia vita è maledetta, / ma la scrittura è tardo-borghese. […] Sono un uomo senza
fantasia, / autobiografico perso. / Lo scoramento, lo struggimento / minavano la mia vita. […] Più
che un poeta sono un sinergico / dello psicologico mercato» (PAL, pp. 8, 75, 94).
Quando la legge numero 180 del 13 maggio ’78, attraverso i suoi undici articoli, impose alle
regioni il trasferimento delle funzioni in materia si assistenza ospedaliera psichiatrica e, soprattutto,
l’adozione di tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere, legge che confluì nella numero
192
833 del 23 dicembre ’78 con la quale veniva istituito il Servizio Sanitario Nazionale, per l’eterno
degente sembravano finalmente aprirsi le porte della clinica-prigione. Nelle Guardie del corpo61,
poemetto scritto nel ’94 e pubblicato insieme alla Psicoterapeuta bellissima, si racconta
quest’esperienza particolare, del malato non più in prigione come a Zurigo o a Pisa ma libero. Ed è
proprio nel concetto di libertà tanto agognato che si sviluppa quest’opera, attraverso la descrizione
di uno stato di relativa schiavitù, poiché, sebbene non in clinica ma nella sua stessa casa, il malato è
seguito ventiquattro ore al giorno da medici personali, Le guardie del corpo, che non lo lasciano
solo nemmeno un istante per il timore di un’ennesima ricaduta nell’alcool. Braccato a vista, lo
scrittore si scaglia contro lo psichiatra Zapparoli62, il Capo dell’Organizzazione, un nuovo nemico
di una lunga lista reiterando ramanzine già sperimentate con Cassano, «di qui il solito straziante
burlesco: ma dietro di esso vi sono cose serie» (GC, p. 56). Cosa c’è dietro? Una classica storia
ottieriana con i soliti volti noti: il malato, il Dottore, gli infermieri, le fantasie erotiche… Eppure la
novità è tanto evidente quanto significativa: si esce obtorto collo dalle cliniche per respirare un po’
di libertà: «Ahi Giancarlo, / vuoi evitar la prigione, / ma come la tua morsa stringe / ai domiciliari
arresti» (GC, p. 58). Cambiano i medici, le terapie, i luoghi, ma l’unica costante sembra essere lo
scrittore che protesta contro una situazione infinitamente triste. Non si guarisce mai, questa è la
realtà dei fatti e non ci sono psicoanalisi, manicomi o benzodiapezine che tengano dinanzi alla forza
coriacea di un malato impavido e, a suo modo, coraggioso. Alla fine, tra auto-ironia e autodenigrazione, nel confronto fanciullesco tra guardie e ladri, si simpatizza inevitabilmente per chi
perde sempre, e Ottieri riesce pur con tutti i suoi tic e idiosincrasie a essere un eroe moderno: «Ma
Giancarlo, […] m’hai ficcato / nella tua Organizzazione, / di cui troppo / ti compiaci. / Da analista
sei diventato Capo, / da detective di Inconscio, / Guardasigilli. […] Ahi Giancarlo, / vuoi evitar la
prigione, / ma come la tua morsa stringe / ai domiciliari arresti» (GC, pp. 57-58).
Il protagonista di questo nuovo capitolo del viaggio attraverso la malattia è, ancora una
volta, lo scrittore sofferente che non esita a definirsi l’«alieno» in diversi passi del poema dove per
trentasei volte compaiono termini come «alieno», «alienato» e «alienazione» spesso auto-referenti
che mettono in luce, con un’insistenza maggiore rispetto alle altre opere, il carattere di estraneità
vissuto dallo scrittore per il mondo circostante. Quale mondo? È lecito interrogarsi: quello esterno o
interno alla clinica? Scovare la differenza è una questione di lana caprina. Il mondo in sé, e il
conseguente stare in tale mondo, si presenta definitivamente come un enorme campo di
concentrazione, ovvero una clinica-prigione dalla quale non si può fuggire. Lo stato di alienazione,
61
«Le Guardie del corpo è una delle cose più belle, divertenti e commoventi che ho letto da… non so quando. È
pieno zeppo di cose (passami la volgarità) profonde, sì, profonde, al di là di ogni ironia con cui tu le vuoi velare o farle
passare per boutades». (Lettera di Edoardo Albinati a Ottieri, 7 ottobre ’94)
62
Giancarlo Zapparoli, psichiatra e docente di Psicologia presso l’Università degli Studi di Milano dal ’51 al ’67,
dal ’63 fu membro ordinario della Società psicoanalitica italiana.
193
processo in cui il soggetto diventa estraneo a sé, di origine filosofica che viene anche impiegato
come sinonimo di follia, si carica di un’accezione positiva nelle profondità della poetica di Ottieri:
«Questo cielo / lo vorrei sbudellare / per fuoriuscire dall’altra parte del mondo» (GC, p. 106). Il
cielo così immaginato63, pur sigillando uno stato di malessere eterno con la sua volta celeste e
infinita ma ermeticamente chiusa, può essere squarciato o addirittura “sbudellato” dal sofferente che
grazie all’alienazione è in grado di andare oltre, dall’altra parte del mondo per cercare la libertà
sempre negata. Da questo punto di vista, il termine alienazione acquista un significato psichiatrico
ulteriore rispetto ai due comuni sensi specifici64: l’«alieno» cui fa riferimento Ottieri è davvero un
alieno imprigionato sulla terra che appartiene a un altro pianeta dove vorrebbe ritornare. Il
«fuoriuscire» comporta la realizzazione della fuga immaginata per anni e preparata nei minimi
dettagli: s’intende dunque una fuga verso l’aldilà per ritrovare la propria essenza. L’alienazione,
dopo numerosi studi e analisi concettuali, si carica di un’accezione positiva in quanto si è estranei a
se stessi, agli altri e al mondo circostante perché non potrebbe essere altrimenti. Ottieri si sofferma
spesso, nello sviluppo delle Guardie del corpo, a delineare un ritratto di sé tangibile e veritiero
partendo proprio dal vedersi alieno attraverso uno schietto autoritratto:
Sono un border-line. […] Egli era brutto / ma la sua disperazione / non riusciva mai a spengere / il
lumino dell’illusione. […] Eppure sappiamo / che tu nel far soldi / non sei famoso. / Sei più famoso per /
otturarne / le pattumiere dei reparti. […] Maniaco depressivo, / bipolare rapido. […] Con tanta psichiatria /
non so se questo sdoppiamento sia / la famosa schizofrenia. / Con tanta psichiatria / non ho mai capito che
sia / la schizofrenia. / Forse perché sono schizofrenico. […] Passa dalla claustro- / all’agora-fobia / come
dalla neuro alla psico / e viceversa. / Ha combattuto tre guerre / d’indipendenza, / tre conflitti per il potere
nel mondo, / si ritrova costretto / su monotona monorotaia. (GC, pp. 61, 63, 65, 67, 69, 70, 127)
Ottieri fa emergere delle disfunzioni psichiche ben precise. Innanzitutto per borderline
s’intende la sindrome marginale intermedia tra due classi che sfugge a un’attribuzione precisa in
quanto l’isolamento delle entità cliniche dipende o dall’impossibilità di includerle nei quadri
nosologici classici, o dalla presenza di un’eziologia multideterminata, o infine dall’esistenza in
profondità di conflitti psicotici mascherati in superficie da meccanismi di difesa di tipo nevrotico.
Borderline, o anche schizofrenia pseudonevrotica, è una forma marginale collocata tra schizofrenia
e nevrosi in cui il quadro clinico presenta in superficie uno stato d’ansia accompagnato da astenia e
inerzia nei confronti di attività e talvolta da timori ipocondriaci. In profondità si ritrovano i tratti
63
Un procedimento simile, del ribaltamento del cielo e conseguente fuoriuscita dal mondo, Ottieri lo riscontrò
già nell’Impagliatore di sedie: «Non c’è fretta. È sentirsi buttati fuori dal mondo, girare così svelti che… esco fuori
dalla realtà, ci monto sopra, sulla realtà. Il passo della realtà, del tempo, non lo tengo, lo scavalco, perché è troppo
lento… Oppure vado io più lenta. Il tempo è una cosa strana, estranea… troppo… densa» (IMP, p. 188).
64
Innanzitutto nelle psiconevrosi ossessivo-coatte dove si parla di alienazione del Sé, quando il soggetto, nel
tentativo di tenere lontane le proprie emozioni, le trasferisce fuori di sé vivendole come forze estranee. In secondo
luogo, nelle schizofrenie, dove certi organi o aree corporee, e talvolta il corpo intero, vengono alienati e quindi percepiti
come non appartenenti alla persona o diversi da come sono. L’esito di questa alienazione è la depersonalizzazione.
194
tipici della schizofrenia con rigidità affettiva, difficoltà nei rapporti interpersonali, distacco dalla
realtà e ritiro in se stessi: sintomi attestati in tutti i periodi di degenza, dentro e fuori le cliniche,
vissuti dallo scrittore e per questo non sorprendenti. Particolare attenzione inoltre merita il
riferimento diretto alla schizofrenia, esaminata nell’Irrealtà quotidiana nel terzo capitolo della
prima parte in merito a Renée. Un tratto considerato tipico della schizofrenia è la Spaltung, la
«dissociazione» in parti reciprocamente indipendenti della vita psichica riscontrabili nella
disgregazione del personaggio e nello sdoppiamento all’interno del percorso letterario e intellettuale
di Ottieri. Ma ci sono altri elementi che inducono a considerare Ottieri, sempre dalla proiezione
letteraria, «forse uno schizofrenico» nei suoi scritti. L’autismo, ad esempio, è un tratto di tale
psicosi endogena e si esprime in un distacco nei confronti della realtà con ripiegamento su se stesso
e predominio della vita interiore popolata da produzioni fantastiche incontrollate, come gli ossessivi
day dreams riscontrati a Pisa. I disturbi dell’affettività riguardano, invece, il senso di
un’inadeguatezza affettiva rispetto alla situazione o di una coesistenza di sentimenti o atteggiamenti
contrastanti, come il vagheggiamento per le donne connesso all’affetto per la moglie. I disturbi
della personalità, a loro volta, sono caratterizzati dalla perdita della coscienza della propria identità,
dei limiti dell’Io e, in alcuni casi, del corpo che mal si percepisce come distinto dal mondo esterno.
Infine anche le allucinazioni, i deliri e i disturbi del linguaggio, presenti nelle opere di Ottieri, sono
sintomi che qualificano la schizofrenia, e quando parlò di Renée e gli altri forse lo scrittore già
immaginava di essere uno inter pares.
«C’è la fantasia e c’è la realtà» (GC, p. 58) ripetono con insistenza i medici che curano il
paziente-personaggio Ottieri il quale scorge l’essenza primaria del suo lavorio intellettuale e
letterario proprio nello sviscerare tale espressione. Incarnando in sé il fenomeno dell’alienazione
con tutti i suoi crismi, lo scrittore tenta di rovesciare la percezione oggettiva del confronto fantasiarealtà, prodotto illusorio il primo che non resiste a paragone con il secondo. Tuttavia, non appena ci
si estranea in modo totale da se stessi, la realtà, almeno quella esterna, uscirà sempre sconfitta nelle
quotidiane battaglie condotte dai fantasmi o dalle fantasticherie mentali. La fantasia e la realtà non
saranno allora in opposizione soprattutto quando si considera la realtà psichica, l’unica plausibile
nella mente di un alienato intesa come effettività interna fatta di desideri, immagini, pensieri,
fantasie e sentimenti, distinta da quella esterna costituita da cose e persone. Conferire realtà
all’interiorità significa riconoscere che le espressioni di quest’ultima agiscono sul soggetto nello
stesso modo degli stimoli provenienti dalla materialità esterna. Dunque nel mondo delle nevrosi la
realtà psichica è quella determinante, più concreta di quella materiale non solo perché fantasie e
immagini ne influenzano la percezione ma anche perché sia la realtà sensibile (il mondo della
materia) sia quella intelligibile (il mondo dello spirito) sono accessibili solo tramite le immagini
195
prodotte dalla realtà psichica. Dalle riflessioni perverse di Ottieri sembra dissolversi non solo
l’esame di realtà che, attribuito al sistema della coscienza inibente l’investimento del desiderio, non
permette al sistema percettivo di essere sopraffatto dalle eccitazioni interne, ma anche il principio di
realtà che regola il funzionamento della psiche la cui comparsa avviene con lo sviluppo delle
funzioni coscienti quali l’attenzione, il giudizio, la memoria, il pensiero.
La psicoanalisi, questa volta messa in atto tra le mura domestiche, dovrà tentare di sciogliere
l’enigma esistenziale dello scrittore sotto ogni aspetto, dal conflitto psichico al sogno, all’inconscio,
alla teoria delle pulsioni, ai meccanismi di difesa. Le guardie del corpo guidate da Zapparoli
lavorano per questo obiettivo e si comportano come etichetta freudiana impone: col silenzio
terapeutico presente nell’Irrealtà quotidiana, nel Campo di concentrazione, nella Psicoterapeuta
bellissima e nei dialoghi Roberto o la corpoanalisi e Che fai stasera? (COL, pp. 125-140 e pp. 141152). Nelle Guardie del corpo s’innesca uno scontro quotidiano tra gli analisti che utilizzano il
silenzio durante le sedute e il paziente che invece ripudia quei momenti non accettandone la terapia.
Stava trangugiando il sadismo / del silenzio freudiano. […] Gli psicoanalisti continuano a far soffrire
/ per una guarigione da non dire. […] La guardia della psiche e del corpo / godeva a non aprire bocca. […]
L’analista è analista / solo perché tace (anche di sé). / Il silenzio freudiano nasce / dal fallimento dei
Consiglieri etici / e degli Amici guaritori. […] Voi, guardie freudiane silenti, / come, dietro il lettino una
volta, / il vostro organizzatore, / state qui per farmi ricordare / minuto per minuto / la mia sventura. […]
Anche io ho paura del silenzio. (GC, pp. 59, 60, 104, 109, 136)
Nell’accezione speculativa il silenzio è la condizione dell’inesprimibile oltre quello che può
esser detto o descritto e segna il limite della comprensione di fronte a quella che Jaspers chiama
«l’indecifrabilità di tutti i segni del mondo». Indecifrabile è, ma solo in apparenza, il delitto di cui si
macchia il paziente, colpevole appunto del «delitto di pazzia» (GC, p. 84) e per questo condannato
ai «domiciliari arresti» (GC, p. 58). Le esperienze letterarie tracciate da Ottieri nei diversi campi di
concentrazione collimano con alcune argomentazioni filosofiche riguardo al sentirsi inevitabilmente
colpevoli nelle condizioni depresse più gravi, con annessi il dramma della scelta e la dissoluzione
del tempo. Il «delitto di pazzia» comporta una condanna per direttissima al carcere, la clinica, che
può tuttavia essere tramutata nei «domiciliari arresti». In altre parole, si è eternamente colpevoli
senza alcuna possibilità di ricorrere in appello o di auspicare la prescrizione del reato. La colpa è un
termine di provenienza giuridica impiegato per indicare l’infrazione involontaria di una norma,
mentre il delitto suppone che l’infrazione sia volontaria. In ambito filosofico la colpa è intesa come
condizione ontologica dell’esistenza umana, e se l’uomo può essere imputato di colpa, vuol dire che
la possibilità di essere colpevole appartiene alla sua essenza. Considerata insieme all’angoscia come
espressione ontologica della condizione umana, la colpa, connessa al sentimento di separazione da
un’unità originaria, si attiva ogni volta che il soggetto abbandona una certa forma di sicurezza con il
196
dubbio di non poterla più ritrovare. L’orientamento fenomenologico della psichiatria ha colto,
nell’esperienza della colpa, uno dei motivi della depressione endogena per cui, in base alla
sensazione di chiusura al futuro che si elabora nel passato in cui la colpa presunta o reale è stata
commessa, si delinea un tempo di sofferenza assoluto.
Nelle Guardie del corpo il protagonista soffre, a causa del suo stato psichico, una
particolare forma d’irritazione dovuta alla decennale condanna in prigionia, clinica o arresti
domiciliari, mentre le guardie del corpo alle sue spalle ventiquattro ore al giorno sembrano degli
aguzzini che lo privano della libertà da tempo agognata. Per ribellarsi il poeta utilizza un lessico
scurrile che trova giustificazioni nella drammatica condizione in cui egli è condannato a vivere.
Io non voglio essere la mente, ma il cazzo. […] Lei ha un’intelligenza imbecille / e un accidentato
cazzo. / Difficile / renderli tutti e due pervii. […] Il tuo cazzo è troppo ambivalente. […] Eppure, cosa, /
mente e cazzo / possono combinare insieme! […] Alla ben nota potenza del suo visus / si stava sostituendo la
macchina, / sempre sottintesa, non sempre tesa, / del cazzo. […] Quante volte fra l’ideologia del pazzo / e il
suo cazzo / c’è contrasto. […] Io mi uccido pur di trovare / una condotta normale. / Signore, stiamo facendo /
un lavoro duro. / Pensai: Guardia del cazzo, / ma quale lavoro. (GC, pp. 72, 77, 82, 100, 109, 116, 125, 131,
136)
Già, quale lavoro? Domanda più che lecita da parte di chi sta lottando da molti anni con tutti
i medici che lo hanno in cura. In questa sarabanda di «cazzi» Ottieri unisce l’immagine dell’organo
sessuale con la mente in un rapporto attinente alla psicologia sessuale che studia gli aspetti psichici
soggettivi e comportamentali connessi all’insorgenza, alla maturazione e al declino della sessualità.
Già nell’Infermiera di Pisa si era avvertita la fase calante, e qui prosegue il declino nell’ambito
sessuale anche se accompagnato da un’irrefrenabile fantasticheria che spinge il personaggio a
immaginare eiaculazioni mirabolanti. Eppure la sua sessualità è traballante e ambigua, non certo le
qualità migliori per avventurarsi in approcci erotici con infermiere o modelle di turno, e infatti si
ammaina la bandiera proprio quando si dovrebbero con fierezza affrontare prove d’amour fou.
Tuttavia ciò non impedisce anzi aumenta la fantasia verso quella farneticazione erotica, riscontrata a
Pisa ed essenziale nel futuro Poema Osceno, che si concretizza nel «ficheto» pisano e qui «foresta
incantata»: «S’era promesso, invece del compito di guardarle / tutte, / quello di chiavarne una, /
foriera di altre. / Chiavato un albero, / tutta la foresta incantata si discioglie. / Ahi, davvero, come /
il suo disturbo è polarizzato sul sesso!» (GC, p. 85). Le nuove prospettive allora si chiamano Brasile
e Rio de Janeiro, e c’è abbastanza materiale in attesa dello scoppio della libido che puntualmente
arriverà: «L’idea sessuale di Rio / sopravviveva alla sopravvivenza, / tormentava nel letto, / in
salotto. / Mi vedevo cavalcare l’immensa / città, scendere alle spiagge / oceaniche» (GC, p. 99).
Oltre al disturbo sessuale, riaffiora ancora una volta il grave problema dell’alcolismo che
accompagnerà anche gli ultimi lavori da Cery all’Irata sensazione. Nelle Guardie del corpo
197
vengono fortificate le basi della condizione di dipendenza, determinata dall’assunzione di bevande
alcoliche, che si definisce cronica quando esprime uno stato patologico dovuto a una eccessiva
assunzione di alcool prolungata nel tempo; acuta se relativa alla semplice ubriachezza dove
l’intossicazione alcolica e le modificazioni dell’attività di coscienza e di comportamento sono
episodiche e occasionali. Durante la lettura del poemetto si comprende ben presto che per Ottieri si
tratta di etilismo cronico, e a causa di questa patologia le Guardie del corpo non lo lasciano libero
nemmeno un istante. La lotta ora non è più analitica ma si sposta molto prosaicamente sul numero
di bicchieri che il paziente dovrebbe (non) bere durante la giornata. Dallo zero iniziale, dopo
numerose peripezie, si riesce a conseguirne un numero sempre maggiore fino al raggiungimento
insperato di qualche ora di libertà che lo scrittore utilizza per visitare i bar del quartiere: «Non mi
facevano bere una goccia. / Poiché una goccia porta alla morte / io vivevo la miglior sorte, / a casa.
[…] Avevo un disturbo che metteva in gioco / la sopravvivenza. […] L’alcool è l’unica sostanza
che molce / le orrende sofferenze della mente» (GC, pp. 60, 67, 131). In ordine al sistema nervoso
l’alcool agisce come un depressore e un narcotico e, con l’aumento delle dosi, si registrano disturbi
visivi, riduzione del campo dell’attenzione e della coscienza, rallentamento nel tempo di reazione
agli stimoli, scoordinazione motoria, quindi torpore, sonno e in casi estremi coma. In genere le
bevande alcoliche hanno prevalso sulle altre per il loro effetto tonico ed euforizzante e per il
momento di sollievo che danno all’angoscia, come già osservato nelle avventure del «pazzo».
Tuttavia qualunque sia il grado di tolleranza, l’individuo può giungere più o meno rapidamente a
uno stato di dipendenza che si manifesta con l’impossibilità di astenersi dal consumo di bevande
perché subentrano sintomi fisici come la sete, oppure con la perdita di libertà per cui il soggetto è
incapace di trattenersi fino a che non ha raggiunto lo stato di ebbrezza.
Telefonai a Giancarlo. Disse / che dalle otto alle dodici ero libero, / che tra la Scilla del coma / e la
Cariddi dell’astinenza / si dovevano trovare / meccanismi autoregolatori. / Subito al mattino, come Moravia,
/ mi posi a scrivere. Scrissi / con la velocità di un pendolino. Mi inceppai. / Per riavviarmi corsi / a bere due
rossi in piazza Cavour / al bar di destra, poi due al bar di sinistra, / poi due in via Ennio Quirino Visconti, /
poi due in piazza della Libertà, / due in via Larga: qui dissero / che non avean lo sfuso. Comprai una
bottiglia. / La nascosi in armadio. / La vide quel pomeriggio stesso / un Dottorino freudiano. (GC, p. 66)
Per quanto riguarda il decorso della tossicomania alcolica rapportato all’esperienza che
Ottieri fa riemergere in varie occasioni letterarie dal Campo di concentrazione al Pensiero perverso,
dalla Contessa alla Corda corta, dall’Infermiera di Pisa al Palazzo e il pazzo, dalle Guardie del
corpo al Poema osceno, da Cery all’Irata sensazione, le diverse forme di alcolismo prendono
sempre avvio dal cosiddetto «bere sintomatico» che consiste nel ricorrere all’alcool per lenire i
molteplici disagi psichici e somatici sofferti. Si determina in questo modo un circolo vizioso quando
il malessere comporta angoscia e il sollievo è rappresentato dall’alcool che, in quanto temporaneo,
198
ne richiede nuova assunzione generando un disagio secondario con nuova angoscia. Per uscire da
questo tourbillon di spossatezze, le Guardie del corpo gli consigliano candidamente di spostare le
sue attenzioni dalla bottiglia alle donne, forse inconsapevoli di aprire le danze di un’originale ma
sempiterna contesa tra le fantasie erotiche e l’impossibilità di realizzarle. «Sono un border-line, /
avendo un comportamento perverso, / preferendo alla figa la birra. […] È ora / che lei si consoli con
la passera. / O proprio lo vuole / prendere nel culo?» (GC, p. 61).
Nelle Guardie del corpo Ottieri si sofferma a considerare «Le due città» della sua vita:
Roma e Milano. Ottieri nacque a Roma nel ’24 e poco più che ventenne si trasferì, nel ’47, a Milano
dove iniziò l’analisi terapeutica con Musatti mentre frequenta la sede del PSI, per poi ritrovarsi
quarant’anni dopo in una sezione degli Alcolisti Anonimi: «A Milano / dalla sezione socialista /
della Pirelli Bicocca nel ’48 / è passato nel ’90 / alla sezione AA di Bonvesin de la riva: / prima
lottava solo / con gli operai contro il padrone, / ora con il gruppo / solo contro l’alcole» (GC, p. 82).
Psicoanalisi e politica iniziarono negli anni Quaranta a fondersi nelle riflessioni letterarie di Ottieri
divenendo elementi imprescindibili della sua poetica. Se Roma è la città della nascita, e quindi della
non scelta, Milano rappresenta invece un particolare «dover essere» (LG, p. 22) in un luogo che, da
quel che risulta dagli scritti e dai suoi pensieri, non ha mai davvero amato65. Il colore che
accompagna le descrizioni di Milano è il nero, mentre le sensazioni più frequenti sono il disagio e la
sofferenza nello stare in una città che Ottieri considerava «morta» (COL, p. 97). Già nell’Infermiera
di Pisa Ottieri si era lanciato in un’invettiva che ricalcava alcuni versi di Dante (Inf., XXXIII, 7981): «Ahi, Milano, vituperio delle genti, / dove si celebra il padrone / per quattordici ore. […] Città
senza cielo, / terrore d’ansia e di suoni, / l’ambascia corre sul filo, / travolge i giovani e il vecchio,
gonfi / scoppianti, ubbidienti ai fendenti» (IP, pp. 9-10). L’attitudine critica di Ottieri prende il
sopravvento grazie alla commozione, unita alla passione civile, che gli tormenta l’animo di fronte
alle ingiustizie quotidiane e alla decadenza delle istituzioni gestite da un Potere corrotto. Milano è
in balia di grossolani usurpatori devoti al potere della pubblicità e della televisione, mentre si
affossa nei cittadini l’ideale di libertà che sarebbe dovuto provenire da un governo democratico.
Milano è una «città senza cielo» (IP, p. 10) o dal cielo finto come descritta a più riprese in Una
tragedia milanese dove il lavoro stabilisce i ritmi della vita in una città «fangosa […] concava piena
di edifici grigi, priva di paesaggio, di fiume, di idee» (TM, pp. 9 e 17). Tra fango e denaro emerge
un altro aspetto non secondario nelle riflessioni di Ottieri, ossia figure femminili che abbelliscono a
loro modo il contesto degradato: «Milano è la città delle belle donne, / ma tutte incanalate e
nascoste / nei profondi solchi / della borghesia potente» (GC, p. 62). Roma risponde con la stessa
65
Ottieri scriverà persino una «lettera aperta» al Sindaco di Milano definendo la città lombarda come «la più
brutta del mondo. Non lo è per ragioni fatali, ma perché i milanesi la vogliono orribile».
199
moneta, dispiegando sul tavolo immagini di donne attraenti che confondono ancor di più le idee e le
fantasie dello scrittore:
Le belle donne di Roma / pare che facili navighino sull’onde / di una società senza classi, / divisa in
belli e brutti, / a portata di mano, / come i pesci negli atolli. […] Quella Roma ricolma / di attrici,
annunciatrici, conduttrici, / amanti bionde / degli industriali di Milano. […] L’alieno sarebbe stato capace, /
mentre si preparava il ritorno a Milano, / di volgere il piè verso Roma. / Nella clinica a Roma, / come in un
albergo / venivano le idee, le ideologie / e idiosincrasie di Milano. (GC, pp. 62, 65, 83, 145)
Il confronto tra le due città mette in risalto le caratteristiche principali delle stesse: da una
parte la città veloce, industriale, dedita all’economia e al commercio, dall’altra la città imbolsita
dalla storia millenaria e pietrificata in monumenti che ne danno un significato eccelso e
contraddittorio:
Così, comportamentalmente, agiscono i due / nel risveglio della città-macchina, / della città cantiere /
della città boutique, / della città liscia e snella, a confronto / della città grossa, di Roma, / dove enormi e
pesanti / sono i monumenti; / nella città che produce / e vende a piacere, a dovere, / nella gioia, nell’obbligo /
del libero mercato / autotreni e pannolini. (GC, p. 87)
Poiché antica e affrancata dalle attività del libero mercato, Roma mantiene agli occhi di
Ottieri un aspetto ancora primitivo dove è possibile realizzare anche i desideri più reconditi, come
quello di fare il regista. E dove, se non a Roma, in quella città raccontata da Fellini e Pasolini tra la
Dolce vita e Accattone, si potrebbe girare un film pieno di emozione e colore? Un nuovo valzer di
fantasie apre le danze della sua immaginazione che non disdegna l’entrata in scena di belle e
giovanissime attrici pronte ad assecondare le sue fantasie erotiche. Ottieri gira mentalmente un film
il cui successo è assicurato.
Vai a Roma, combini subito un film. / I rotocalchi sono subito pieni di articoli / che spiegano / come
lo scrittorello delle cliniche / sia diventato il grande cineasta / dell’amore delle metropoli. […] La prima
attrice innamorata di te. […] S’innamora di te la giovane madre / della giovanissima prima attrice. […] Il
film ha un successo inaudito. / Ti si aprono tutti i mercati. […] Da una clinica non potevo / telefonare a
Fellini. / C’erano belle donne / e non sapevo verso quale puntare. (GC, pp. 102, 145)
Per telefono Ottieri e Fellini tentavano spesso di sentirsi o meglio di rincorrersi. Il 23
febbraio ’84, Fellini scrisse infatti a Ottieri: «Caro Ottiero, ho provato a chiamarti a Milano, ma era
eternamente occupato. Eccoti quindi il mio numero, o meglio i miei numeri: quello di casa […],
quello di Cinecittà […], e infine quello del mio studio […]. Ho un altro paio di numeri in Vaticano,
ma lì non posso essere disturbato, e puoi capirne le ragioni».
Anche nelle Guardie del corpo Ottieri gioca con la letteratura riprendendo alcuni celebri
versi di poeti italiani con i quali instaura proficue correlazioni piene di rimandi anche provocatori.
200
In un passo del poemetto, ad esempio, Ottieri è vittima di una caduta occorsagli durante una
passeggiata per i vicoli di Belverde (Chiusi): «Decisi / di fare svelto, battendo le guardie appresso, /
il giro del paese. / Alla prima del Corso / discesina scivolai e cadi. […] Ora ero alieno, vigilato e
zoppo. / Tutto il paese di mio Padre / e di avi gotici / aveva visto il fin de race / cadere. / La
letteratura è piena / di alcolisti zoppi» (GC, p. 70). Il tono, i termini utilizzati e l’atmosfera rinviano
alla Caduta di Parini: «Me spinto ne la iniqua / stagione, infermo il piede, / tra il fango e tra
l’obliqua / furia de’ carri la città gir vede; / e per avverso sasso / mal fra gli altri sorgente, / o per
lubrico passo, / lungo il cammino stramazzar sovente»66. Nel cuore dell’inverno e sul far del
tramonto, su un terreno reso viscido dalla pioggia tra lo sfrecciare incrociato delle carrozze, Parini
descrive la propria rovinosa caduta. Ma oltre al fatto in sé, quello che accomuna le due vicende è
l’idealizzazione che emerge dai versi e che Ottieri accoglie pienamente, connessa alla
rivendicazione del diritto della poesia e del poeta a essere ascoltato, in quanto portavoce di valori
civili, dal più ampio pubblico possibile. Ma se questo manca, e così sembra essere avvenuto a Parini
e a Ottieri, anche in contesti storico-sociali molto diversi, la frustrazione per i meriti e diritti
misconosciuti si converte e si sublima in una sorta di risentito arroccamento: «E se i duri mortali / a
lui voltano il tergo, / ei si fa, contro a i mali, / de la costanza sua scudo e usbergo» (La caduta, vv.
93-96). Il ruolo dell’intellettuale all’interno della società e la funzione civilizzatrice della poesia
sono dei pilastri nella poetica di Ottieri, il quale avvertiva questo senso di engagement, di
partecipazione attiva al senso civico della sua letteratura. In questa prospettiva, oltre i già citati
Parini e Foscolo, la figura di Pasolini si presentava con veemenza, intrisa di quel coraggio
intellettuale foriero delle dure reprimende al Potere e al Palazzo che emergono dalle pagine degli
Scritti corsari e Lettere luterane. A più riprese Ottieri ha reso omaggio al poeta bolognese con
riferimenti diretti alle sue opere, considerandolo una delle espressioni poetiche più alte della
letteratura italiana del Novecento, e in un verso delle Guardie del corpo si fa riferimento a Petrolio,
l’ultimo romanzo di Pasolini pubblicato postumo, che servirà da modello per il Poema osceno:
«Non tollero più il dolore. / Lo annego in qualsivoglia / sostanza, vino o profumo, / alcool o
Petrolio» (GC, p. 104). «Pasolini dà coraggio ai giovani. Il protagonista di Petrolio non è mai
osceno anche se scopa la nonna; la verità non è mai oscena perché è sempre rivoluzionaria» (PO, p.
8).
Leopardi, altro poeta molto amato da Ottieri, è presente nel poemetto con l’«immortale
affanno» riferito al dolore della coscienza, alla condizione dell’uomo gettato nella vita e costretto a
un desolato tormento che comincia dal giorno della nascita per terminare con la morte. È il male
universale, riflesso di quel pessimismo cosmico che Ottieri incarna nella condizione alienata del
66
PARINI
Giuseppe, La caduta (1775), in Il giorno - le odi, BUR, Milano 1978, p. 264.
201
depresso, simbolo universale dell’uomo moderno: «Giancarlo, come permetti / che i tuoi uomini
considerino / l’immortale affanno / cosa benvenuta e allegra, / e che il nostro motto sol sia / Angor
ergo sum?» (GC, p. 58). In questi versi si riscontrano la parodia di una preghiera cattolica «è cosa
buona e giusta» trasformata in «cosa benvenuta e allegra» riferita al dolore cosmico, e un autocitazione dell’«Angor ergo sum» analizzato nell’Irrealtà quotidiana, la quale a sua volta trova
spazio nel poemetto: «Avevo una volta un soffio al cervello, / che chiamai / sentimento d’irrealtà»
(GC, p. 137).
Un altro riferimento letterario presente nelle Guardie del corpo riguarda il verso iniziale
della tragedia Il conte di Carmagnola di Manzoni, in cui la prima strofa è costruita su un
parallelismo accurato che serve a dare il senso scenico di un eguale spiegarsi di forze nell’avvio
dello scontro tra i due eserciti che si fronteggiano. Al contrario, nel poema di Ottieri non c’è
nessuna guerra in corso se non nel suo cervello ambivalente, e si combatte solo per la
ristrutturazione di due case confinanti, in un parallelismo a specchio, mentre non squilla una tromba
ma un telefono: «La mia casa è un cantiere. […] È inabitabile / intanto che la rendiamo più bella, /
colpi di grande martello / percuotono mura e abitanti. / Risponde a destra uno squillo di telefono, /
la casa di fronte è percossa / da analoghi martelli, perforata / da trapani omologhi» (GC, p. 112).
Petrarca è l’ultimo rimando letterario presente nel poemetto: «Ella m’avea / ben rimesso al
mio ruolo / mentre ella impavida rimaneva al suo. / Quand’io era in parte altr’uom da quel ch’i
sono, / non dissi alla mia sposa / il mio pensiero vero: / quali e quante donne / m’erano state madri; /
ch’io non potevo andare che con mamme, / vecchio, per altro, da manuale, percorso» (GC, p. 93).
Ottieri vuole sottolineare la diversità della propria persona rispetto al tempo passato, ma senza alcun
possibile ravvedimento, inutile oramai, mentre Petrarca evidenzia almeno la plausibilità di una
indulgenza: «Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono / di quei sospiri ond’io nutriva ’l core / in su
’l mio primo giovanile errore, / quand’io era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono; / del vario stile, in
ch’io piango e ragiono / fra le vane speranze e ’l van dolore, / ove sia chi per prova intenda amore, /
spero trovar pietà non che perdono»67. Il sonetto di Petrarca apre il Canzoniere e ha una duplice
funzione strutturale, letteraria-sentimentale e ideologica in quanto doveva unificare la raccolta per
apparire come la storia organica di un’anima in pena che, pur partendo da numerosi peccati
giovanili, era approdata a un amaro pentimento della vita passata. Se tra i due il punto di partenza è
lo stesso, cambia la prospettiva futura per una sorta di conversione auspicabile per Petrarca e
inattuabile in Ottieri.
67
PETRARCA
Francesco, Il canzoniere (1375), Feltrinelli, Milano, 1998, p. 55.
202
Il Diario del seduttore passivo è composto da cinque poemetti: Monica Dreyfus, Lo
psicoterapeuta perfetto malgrado lui, Sotto il martello della rivalità e autostima, Le filippine, Il
seduttore passivo e già dal titolo Ottieri svela gli elementi principali dell’opera: si tratta di un diario
scritto da un dongiovanni sconfitto da uno stato psicofisico non più tollerabile. La materia narrata
non si distanzia molto dalle opere precedenti e l’io autobiografico espone il proprio male in modo
romanzato con degli alter ego che prendono il suo posto tra la depressione, l’alcolismo cronico, i
medici curanti, il vortice di donne nel cervello, la pazienza della moglie e dei figli,
l’incomprensione del mondo letterario. Nulla di nuovo, eppure Ottieri riesce ogni volta a districarsi
nei meandri della sofferenza con prospettive diverse, unendo tasselli di un puzzle che di opera in
opera assume forme più comprensibili, come se scrivere della propria malattia fosse l’unico modo
per spiegala a tutti, anche a se stesso.
Debbo scrivere, intanto, la mattina. / Deve? È convinto / che per la letteratura italiana / un alcolizzato
della sua età sia indispensabile? […] Ormai ero / un vecchio scrittor che si ripete, / avendo tagliato il ponte
levatoio. […] Lei è piuttosto il Dante / delle Rime Petrose. […] Il vino non l’aiuta a scrivere. / L’aiuta a stare
presto / zitto per sempre. / Perugi in Pisa: Ho letto / tutti i suoi libri. / Gli scritti col vino sono pessimi. […]
Dottore! Stanotte / ho avuto l’ennesima prova / che senza vino / non scrivo un cartellino! […] Si considera
uno scrittore fallito? / Forse. Sono comunque / uno scrittore minore. […] Il tuo autobiografismo è prolisso.
[…] Ma io sono un poeta. / Altro mestiere / mi porta via tempo. […] Ora non era più noioso, / anzi brillante,
/ scrittore perfino scriveva. / Lo sciroppo dà fiato alle trombe / e alle trombette. […] Stava troppo male / e
nemmeno scriveva. / Che cosa è mai / scrittore che non scrive? (DSP, pp. 14, 16, 18, 20, 58, 74, 76, 93, 105)
Il connubio malattia-scrittura si evidenzia in alcuni versi del poemetto quando Ottieri ricorda
il passaggio dalla Garzanti che non vuole pubblicare il Diario, alla casa editrice Giunti invece
favorevole: la conclusione della trattativa porta alla pubblicazione dell’opera e di conseguenza il
pagamento di una parte della retta per il soggiorno alla Métairie68; ma per chiudere il conto sarà
necessario vendere un terreno, gli dirà la moglie: «Ho lasciato / il mio Editore cattivo, / per uno che
mi vuole bene. / Mi ha già fatto / il contratto per / Seduzione Morale, / romanzo epistolare, / con
esso il conto / di Maiterie onoro. (DSP, p. 58)
Nel primo dei cinque poemetti che formano il Diario del seduttore passivo, dal titolo
Monica Dreyfus in onore di un’infermiera, Ottieri narra del soggiorno trascorso nella clinica
Métairie di Nyon, «nel reparto alcologico detto Jura» (DSP, p. 7), per curare la propria tossicomania
dovuta all’alcool. Ancora una volta torna la Svizzera nel percorso umano e letterario di Ottieri:
«Montammo con mia moglie / sul treno della disperazione, / quello che va da Ginevra a Milano, /
da Milano a Domo, / da Domo a Losanna. / Gli italiani credono ancora / che in Svizzera si guarisca
meglio» (DSP, p. 60). La Métairie rappresenta per Ottieri la seconda tappa del tour della Svizzera
68
La Clinique La Métairie si trova all’Avenue de Bois de Bougy CH-1260 Nyon in Svizzera. Ottieri nel poema
rovescia la prima é del nome col dittongo ai che in francese si pronunciano allo stesso modo.
203
(la prima fu la Klinik am Zürichberg del Campo di concentrazione e di Contessa, la terza sarà la
clinica psichiatrica Cery di Losanna) all’interno di un più esteso tour de force europeo cui si
sottopone lo scrittore per cercare una guarigione, se non definitiva almeno auspicabile: «Tutta la
Maiterie s’accorse / che non facevo nulla. […] Sono alla Maiterie nella torretta chic, / separata dal
corpo del manicomio elegante, / torretta riservata al know-how. […] Ahi, Maiterie, galera lussuosa
e ampia / di behavior crudele e non dichiarato» (DSP, pp. 11, 23, 31). Il soggiorno alla Métairie
assomiglia molto alle precedenti esperienze vissute e trascritte nelle cliniche, dalle terapie da
seguire al confronto-scontro con i medici, dalla classica girandola di donne fantasticate al tempo
malato, dal rifiuto categorico dell’atelier che «nel pensier rinnova la paura» (DSP, p. 13) all’orrore
per la riunione di gruppo «un Sinerio… Corte d’Assise d’Appello» (DSP, p. 56), dagli scompensi
psicofisici dovuti all’astinenza alcolica, sempre molto passeggera, alle avventure per soddisfare il
bisogno d’alcol, dalle visite e telefonate attese della moglie «sposa infinita […] lume della mia vita»
(DSP, pp. 25, 60) all’apprensione costante dei figli.
C’erano belle donne / che avrei voluto possedere ratto / e fuggire. Anche se ho la figa, / sono sempre
in fuga. […] Cercando nella terapia / la lussuria, conobbi la giovanissima / Dreyfus dalle calze nere, / non
essendo la mia geografia / fatta di ricoveri bensì, in essi, / di donne. […] Perché, si domanda, / questa mania
delle donne / questo guardarle in modo indecente? / Ma egli è pazzo. È inaffidabile, estroso, / il suo cazzo.
[…] Era la Dreyfus. Di nuovo / a una ragazzina / veniva affidato il favo / del lunatic-asylum. (DSP, pp. 15,
22, 24, 56)
Tra tutte queste donne desiderate Ottieri sogna addirittura una ragazza che abbia lo stesso
profilo di Dante coniugando un’ossessione giovanile, ossia il poeta amato, con un invasamento più
maturo come le donne: «Ahi, quante volte / obliai la mia sposa infinita. / Qui in Maiterie prediligo /
una ragazza lunga / col profilo dell’Alighieri, / piccoli seni, / un’aria non insana, / anzi soave,
scrupolosa, / presa da pensieri / regolari» (DSP, p. 25).
Il tempo, anche in questo ricovero, oscilla senza certezze tra passato, presente e futuro,
anche se dopo le riflessioni proposte nell’Irrealtà quotidiana e nel Campo di concentrazione, si
comprende che per il depresso cronico il tempo non esiste, o almeno non quello conosciuto
abitualmente. Si ripetono al paziente in modo ossessivo le stesse domande che non possono avere
risposta.
Lei / è nel passato, / nel futuro o nel presente? / Nel presente. […] Chiese / se ero nel presente, nel
passato o nel futuro. / Non ho futuro. […] Lei è un signore inquieto, vive / nel presente, nel passato / o nel
futuro? / E lei? […] Tu non hai passato. / Potentissimo ora, in te, / è il futuro, / ti togli da te stesso / il
tappetino del presente / da sotto i piedi. (DSP, pp. 12, 13, 29, 79)
Tra le oscillazioni del tempo, tuttavia, dal passato riaffiora un ricordo alla mente dello
scrittore, importante perché riguarda un episodio della prima adolescenza che si conficcò
204
profondamente nella sua memoria e che a distanza di molti anni risulta indelebile: si tratta di un
ballo.
Uno psicotico adolescente / una domenica pomeriggio ai Parioli / andava verso il salotto T. H., /
dove fra teens nobilissimi / si imparava a danzare. / Un martello pneumatico, / per strada, / martellava la sua
gola nera. / Agognava un terremoto, una catastrofe, / pur di non andare. / E andava. / Non riusciva a danzare
/ e intrattenere le dame. / Una lo invitò due volte, / due volte lo abbandonò. […] Ma l’ansia prestazionale e la
socialphobie / Legavan allo psicotico le labbra e i piedi. (DSP, pp. 8-9)
Poi c’era la «scuoletta di ballo» a darmi angosce sovrumane. Noi siamo toscani, ma stavamo a
Roma. Mia madre voleva introdurmi in un buon ambiente, anzi nel migliore di tutti. Dovevo prepararmi alla
scalata mondana. Come si faceva? Ogni domenica c’era una riunione di bambini nella casa di un nobile
diverso, a turno, e lì un maestro inglese ci insegnava il ballo. Avrò avuto dodici-tredici anni e al momento di
andare alla «scuoletta» venivo assalito da crisi di angoscia terribili. Eppure io, playboy antemarcia, avrei
voluto andarci perché riconoscevo che le ragazzine più belle erano là. Eppure non riesco a immaginare
angosce più terribili di quelle che provavo allora. Ma già, io sono legato al primato della sofferenza. Io batto
tutti. (in E liberaci dal male oscuro, p. 425)
A questo stato di confusione esistenziale si aggiunge la necessaria assunzione di alcol
giornaliera, senza la quale il paziente non potrebbe vivere: «Lei di qualcosa si deve nutrire, / non
dell’alcol e benzodiapezine» (DSP, p. 16). Come appurato nel Palazzo e il pazzo, già dalla prima
mattina il bisogno impellente di bere sovrastava qualsiasi cura o terapia, spingendo il tossicomane a
soddisfare tale necessità attraverso avventure picaresche che saranno ancora più evidenti in Cery.
Un risultato, almeno parziale, il paziente lo ottiene: l’allucinosi alcolica.
Feci una scappata al mattino alle 7 / nel bar di fronte. / Ci bevvi tre bianchini / che servivano a
correggere / la catastrofe / del risveglio, / o hangover. / Incosciente! Gridava lo psichiatra. / Lei è solo un
incosciente. / Il tossico gli faceva orrore. / Ahimè, a me / non faceva orrore per niente. / Uscivo la mattina
alle sette / dall’ospedale polispecialistico, / di corsa, facendo frenare i tir di colpo, / a trangugiare di seguito /
cinque bianchini / messi in fila sul banco. / Pare che al ritorno vomitai nell’atrio, / non ricordavo, non
ricordo. […] Mi riprese alla Maiterie, nel vuoto, / un mattino l’allucinosi. (DSP, pp. 39, 40)
Percezione senza oggetto con caratteri di fisicità e spazialità come l’allucinazione ma senza i
tratti tipici, l’allucinosi si evidenzia per la trasformazione fantastica della realtà, la direzione
autocentrica del soggetto che interpreta ogni fenomeno come riferito a lui soltanto, e
l’inaccessibilità del vaglio critico. Si hanno diversi tipi di allucinosi: acuta se insorge a seguito di
intossicazioni o traumi senza comportare perdita di lucidità o indebolimento delle facoltà
intellettive; alcolica cronica per prolungato abuso di alcol; oppure tattile cronica con sensazione di
piccoli oggetti, liquidi, insetti che molestano la pelle. E quando per evitare rischi ancora maggiori
alla salute, i medici gli sottraggono la materia prima, l’alcol, il tossicomane ricorre ad alternative
non meno gustose come l’acqua di colonia, stratagemma che vale per tutte le stagioni (Contessa, Il
palazzo e il pazzo e Cery): «Se non hai vino, / pensi all’alcole con cui / l’infermiera ti strofina il
205
sedere. / Il profumo, donna, non lo metti / dietro il lobo del piacere / ma lo trinchi. L’acqua di
Colonia / è prelibata bevanda» (DSP, p. 50).
Il Tour de force, tuttavia senza un traguardo da raggiungere, si struttura nel tempo come un
vagare inquieto e allucinato per le cliniche d’Europa passando attraverso varie terapie, medici,
medicinali. Ma se la strada è lunga e non si vede la fine, o forse proprio per questo, l’unico barlume
di salvezza si scorge nel passaggio ossessivo tra i vari manicomi che Ottieri definisce
«clinichismo»; così che alle vittorie di tappa del tour segue inevitabile, e con un certo
compiacimento, la supremazia della pena.
Esasperato, Cassano, lo invia a Padova / da un alcologo coraggioso. / Così corro da Milano a Pisa, /
da Pisa a Padova, / da Padova a Milano. / Ho bruciato l’Europa. […] Tu bevi e ti curi, / ti curi e bevi. […] Ti
disintossichi a Pisa sapendo / che ti intossicherai a Milano. / Poi Pisa. Milano poi. / Ma il totale è in rosso.
[…] Mi salvavo col clinichismo, / che è passaggio / da una clinica all’altra. (DSP, pp. 18, 22, 39)
A ogni città una clinica, a ogni clinica un medico, a ogni medico una terapia in un viaggio
che non avrà mai fine. Dietro ogni nome una città, una terapia, una lotta infinita: «La sua vita è un
giallo / psicologico» (DSP, p. 85). Dalle diverse cliniche di Milano oppure dagli arresti domiciliari
imposti da Zapparoli alla celebre San Rossore di Pisa del «Nobile Cassano», un’altra città viene
visitata da Ottieri: è Padova, dove lavora lo psichiatra e tossicologo Luigi Gallimberti, il Dottor
Carlo Migliorini nell’Irata sensazione di peggioramento.
Coloro che vanno / da Giancarlo / divengon borderline, / da Giovanni Battista / depressi, / da Luigi,
bramosi. / Il malato è mimetico, / ha il male / che il terapeuta vuole. / No. È il terapeuta / che cura la malattia
/ che il malato vuole. […] Tre ne aveva. / Chi, ora, sceglieva? / I tre sono collegati da un ponte / che solo il
paziente sente; / i tre sono rivali; / la terapia nasce da esperienza / ma soprattutto da ideologia; / il paziente è
costretto / a triangolare. (DSP, pp. 79, 117)
Non mi dica di scegliere tra Zapparoli, Cassano, Gallimberti. Poggio su tutti e tre. Ormai non sono
più ambivalente, ma trivalente. (in E liberaci dal male oscuro, p. 430)
Astutamente Ottieri supera l’impasse del conflitto tra medico e paziente divenendo egli
stesso da malato tossicomane a psicoterapeuta: seppur bislacca all’apparenza, tale trasformazione si
rese necessaria nel tempo. Già nell’Irrealtà quotidiana lo scrittore oscillava tra i due ruoli di
analizzato e analizzatore, scoprendo in seguito che non esisteva persona più adatta di lui a mettere
le mani nel proprio cervello. L’importanza di essere uno Psicoterapeuta perfetto malgrado lui,
come recita il titolo del secondo poemetto del Diario, svela una realtà dei fatti ormai inconfutabile:
il medico che vuole curare lo scrittore deve prima confrontarsi con un collega di pari livello per
studi e impostazione scientifica: lo scrittore stesso!
206
Ora lei / chiaramente si disvela / come psicotico, / divenuto psicoterapeuta / di territorio. / Da qui lei
passerà / alla terapia della nuova cronicità. / È sempre interessante notare / questo scatto di carriera. […] Lei
è un chiaro psicoterapeuta / di territorio o presidio, / che sostituisce il prete di parrocchia. […] Tu sei un
poeta / che sa fare solo / lo psicoterapeuta, / cioè il prete, / sei un sacerdote canoro. […] Meravigliosa è la
psicoterapia / perché è per te / l’unica relazione possibile, / e la relazione tenta / di addomesticare i demoni, /
la morte e il pensiero / che si osserva. (DSP, pp. 66, 76, 77, 79)
Lo psicoterapeuta perfetto malgrado lui è strutturato in forma teatrale con diversi
personaggi che irrompono sulla scena come Io, il Supervisore, l’Indiana, il Portiere, la Peruviana, la
Sorella, l’Infermiera in pensione, la Modella, Michele. Sebbene sia breve e non un componimento
cardine, questo poemetto, posizionato come secondo tempo del Diario, rappresenta un momento
importante della produzione di Ottieri poiché in esso si compiono le prove generali per il successivo
e monumentale Poema osceno, composto subito dopo il Diario e che tra l’altro all’inizio viene
rifiutato dall’editore perché troppo osceno: «Alzò il telefono; era l’editore / che disse: il tuo testo è
troppo / autobiografico e prolisso! / Pubblicarlo / non le conviene. / Per Lei lo dico! / Ci son troppe
sconcezze» (DSP, p. 115). Tra Lo psicoterapeuta perfetto malgrado lui e Il poema osceno
confluiscono alcune similitudini come la forma teatrale con cui i personaggi entrano in scena, senza
didascalie, per parlare dello scrittore, Io psicoterapeuta e Pietro osceno; inoltre collimano alcuni
argomenti trattati come le manie, idiosincrasie, follie, delusioni, malattie, i suoi ricordi, le riflessioni
sulla letteratura e la politica, sul ruolo del poeta nella società e sulla poesia cortigiana. Su
quest’ultimo aspetto spiccano dei versi che efficacemente riassumono secoli di cortigianeria della
cultura italiana, motivo che avvicina Ottieri ad alcune riflessioni di Indro Montanelli con il quale,
tra l’altro, si ricorda un dialogo in una Stanza del «Corriere della sera» dove il giornalista invitò lo
scrittore a dargli del «Voi».69
Un poeta / è sempre un poeta di corte / cioè un magnaccia. / È la corte / che sponsorizza / il poeta. /
La corte deve solo / trovare un buon poeta. / E può cacciar via il poeta / in favore / di uno migliore. / Per
questo / il poeta è un esule. (DSP, p. 83)
La cultura italiana è nata nel Palazzo e alla mensa del Principe, laico o ecclesiastico che fosse, e non
poteva essere altrimenti, visto che il Principe era, in un Paese di analfabeti e quindi senza pubblico mercato,
il suo unico committente. 70
Il risultato che scaturisce dai continui confronti avviati nello Psicoterapeuta perfetto offre
un’immagine complessa e sofferente di quel personaggio che è chiamato Io, cocciuto fino
all’inverosimile nel crogiolarsi nella malattia che lo assedia da decenni, sempre attento a ricercarne
le cause, le origini, gli sviluppi: «Tu continuamente rechi / prove della tua pazzia / o indizi. Conosci
69
«Caro Ottiero, Grazie di avermi procurato un giorno di riposo occupando tu la mia stanza. Ma perché mi dai
del lei? Visto che facciamo parte della stessa nomenclatura, e visto il colore della vernice con cui vuoi tingerla, diamoci
del voi». Caro Ottiero Ottieri, diamoci del voi, «Il Corriere della Sera», 7 luglio 1996, p. 33.
70
MONTANELLI Indro, Storia d’Italia (1993-1997), cit., p. 540.
207
tutte le definizioni / della pazzia e della tua pazzia. / Ma non si capisce / se vuoi o non vuoi essere
pazzo. / Anche qui sei incerto!» (DSP, p. 75),
In questo poemetto Ottieri ricorda inoltre circostanze particolari della sua vita, interessanti
dal punto di vista letterario poiché non verranno ricordate in altre opere, condizione dunque
specifica alla luce dei continui rimandi a intreccio con cui lo scrittore gioca in modo insistito. Il
primo di questi riferimenti è alla matematica che, odiata nel periodo scolastico, Ottieri riesce a
possederla nella fantasia: «Sono laureato in matematica. / Creo che la psicologia / sia una
trigonometria / dei bisogni» (DSP, p. 67).
Ho avuto episodi gravissimi per la matematica. Ero il primo della classe, ma in matematica no. Se il
giorno dopo c’era il compito in classe di matematica, la sera avevo delle crisi che allora venivano chiamate
isteriche. Così alle dieci e mezzo di sera tutta la famiglia era disperata intorno a me che gridavo. Che fare?
Chi chiamare? Finché trovarono un ragioniere disposto a venire anche alle dieci di sera. L’equazione me la
faceva lui. (in E liberaci dal male oscuro, p. 425)
L’altro rimando è per gli «orridi giardini»71 adiacenti il rifugio di Via San Primo, ultima
residenza milanese di Ottieri, dove qualche volta viene trasportato di peso per fare una passeggiata
non affatto desiderata. Non a caso si ricorderà in un passo successivo del testo: «il resto lo spendeva
in taxi. / In taxi andava / dal tabaccaio» (DSP, p. 118), che richiama l’«io prenderei un taxi per
andare dal salotto alla cucina».
I Giardini sono la rogna scarsa / della città opima, / ex-europea, perplessa. […] I manuali scrivono /
che uno dei sintomi della follia / è non uscire mai. […] Questo è il rognoso manto / che ricopre una zona
verde / che non è verde. Vi è un lago che non è un lago. / L’annesso Museo / di Storia Naturale / è una tomba
da scoperchiare, / pantegane balzano dai prati. / Il Planetario accanto è una fogna / di angosce ingorgate.
DSP, pp. 78, 81)
Nel terzo poemetto del Diario, dal titolo Sotto il martello della rivalità e autostima, Ottieri
ambienta la scena a Chiusi, ricollegandosi in questo modo al precedente Palazzo e il pazzo,
attraverso un alter ego Filippo Sanzio cui si contrappone la moglie qui trasformata in Ippolita
Bisanzio. Ottieri costruisce un piccolo quadretto di famiglia inserendovi anche figli e parenti in
un’atmosfera opprimente per il luogo, cioè il Palazzo di quel paese (Chiusi) «senz’anime […]
vuoto» (DSP, p. 89) e la disperazione incessante che va dalla depressione alla «tenebrosa WUE»
(DSP, p. 89) già vissuta da Renée nell’Irrealtà quotidiana. Anche in questo caso nessuna salvezza
sembra a portata di mano, ma sempre per volontà, masochistica e benefica, dello scrittore che
necessita del Male per vivere e dunque scrivere: senza il Male si sentirebbe, infatti, morto e non
potrebbe più lottare con i medici o concepire nemmeno un verso: «Da una parte speri / da loro una
71
Si tratta dei Giardini Pubblici Indro Montanelli che si estendono tra Corso Venezia, i Bastioni di Porta
Venezia, Via Manin e Via Palestro, e che hanno una superficie di 172.000 metri quadri.
208
guarigione / o il sollievo; / dall’altra cerchi / con tutti i mezzi di rendere la guarigione / impossibile,
/ per continuare a misurarsi con loro» (DSP, p. 100).
Eppure, nonostante lo smarrimento esistenziale ormai consuetudinario, si presenta nella vita
di Ottieri, e quindi nella sua letteratura, una novità che ha un nome stampato sui flaconi: Alcover72,
invenzione di Gallimberti: «Un portentoso sciroppo. Ora è anche in vendita, si chiama Alcover.
Quando non posso fare a meno di bere, bevo quello. Vado a Padova ogni quindici giorni dal Dottor
Gallimberti, alcologo» (in E liberaci dal male oscuro, p. 430).
Non sostengono inter-azioni / che attraverso lo sciroppo, / con esso sopraffanno / nei salotti e nelle
arti e mestieri, / lasciamo stare le alcove. […] Solo sciroppo può liberar dai ceppi / la sua voce solitaria
strozzata / dalla legge ferrigna / dell’Ap-Up-profitto. […] Il down da sciroppo fu terribile / una volta,
allorché assunse / in treno due misurini furtivi assieme. […] Annegava vivo. / Lettiga! Gridava l’internista /
ignaro di questa patavina pappa reale. […] L’unità di misura di Filippo / era ora l’overdose. […] Lo
sciroppo determina umore / ma umore determina sciroppo, / in reciprocità biologica, / come, dal
psicoastenico dubbioso, / il farmaco per scegliere / è, prima, scelto. (DSP, pp. 90, 92, 96, 106, 109)
Sull’evoluzione del rapporto paziente-sciroppo, Ottieri rinvia le conclusioni nell’ultimo
romanzo, Una irata sensazione di peggioramento, dove verranno narrate le avventure del suo
ultimo alter ego Pietro Mura, alcolizzato e depresso, uno dei molteplici protagonisti del lungo
viaggio intorno al Male, tra l’industria, la clinica, la società e la politica, iniziato quasi mezzo secolo
prima al tempo delle Memorie.
Gli ultimi due brevi poemetti del Diario sono delle istantanee scattate in pochi versi in cui lo
scrittore ricorda con benevolenza le Filippine, sempre più presenti in Italia e in casa Ottieri in
particolare, simbolo di una commistione non proprio compiuta tra oriente e occidente nella moderna
società globalizzata; e il Seduttore passivo, ovvero lui stesso, considerato poeta (in)civile in un
paese, da Chiusi all’Italia, destinato a una prossima scomparsa.
II.7 Cery
Cery è la storia del ricovero in una clinica di Losanna73 asettica e ben organizzata come
vuole il costume della Confederazione, in cui l’io protagonista, Ottieri nei panni alcolizzati dello
scrittore Filippo Ciai, tenta ma senza crederci di disintossicarsi dall’alcol. Il romanzo è anche un
72
L’Alcover è un coadiuvante utilizzato in diverse terapie per il controllo della sindrome di astinenza da alcol
etilico, nella fase iniziale del trattamento multimodale della dipendenza alcolica, nel trattamento prolungato della
dipendenza alcolica resistente ad altri presidi terapeutici in coesistenza di altre patologie aggravate dall’assunzione di
alcol etilico. In caso di sovradosaggio il farmaco svolge essenzialmente un’azione depressiva sul sistema nervoso
centrale con possibile stato confusionale e difficoltà respiratoria.
73
Costruito nel 1873, l’ospedale di Cery si trova al numero 1008 di Prilly, un quartiere di Losanna.
209
ritorno al passato, in quella Svizzera già conosciuta ai tempi del Campo di concentrazione dove il
prigioniero rinchiuso nella Klinik am Zürichberg lottava con la depressione cronica, mentre qui a
Losanna il tono cambia, facendosi più leggero, tragicomico, perché gli anni passano e l’esperienza
della malattia ha rafforzato le difese immunitarie dello scrittore. Dal lager di Zurigo alla villa di
Losanna sono trascorsi, infatti, quasi trent’anni e il tempo impiegato nella lotta contro il Male ha
caratterizzato in modo rilevante, tra angosce, deliri, fantasticheria e ironia, una parte consistente
della letteratura di Ottieri.
Come viene vissuto l’alcolismo da chi lo soffre in prima persona e lo racconta in un
romanzo? Il protagonista Filippo Ciai parla spesso di craving, bramosia, contro cui non c’è nessun
rimedio che lo possa placare se non una maggiore assunzione d’alcol. Ottieri pone l’attenzione sulla
dipendenza che si manifesta come impossibilità di astenersi dal consumo di bevande o perché
subentrano sintomi fisici come la sete, oppure per la perdita di libertà per cui il soggetto, dopo il
primo bicchiere, è incapace di trattenersi fino al raggiungimento dello stato di ebbrezza. Il soggetto
stesso ricorre regolarmente agli alcolici per affrontare le difficoltà della propria esistenza, ma qui si
forma un circolo vizioso in quanto l’uso di alcol provoca complicazioni che vengono affrontate
facendo ricorso all’alcol medesimo. Contribuisce alla dipendenza alcolica l’assuefazione
dell’organismo che richiede dosi sempre più elevate per produrre gli effetti psichici desiderati,
manifestando disturbi dopo la sottrazione del tossico: «Disperavo. Ma non rinunciavo. Nulla placa
il craving, se non fiotti e fiotti di alcol, che chiedono strillando nuovi fiotti. Il mio craving era al suo
massimo livello, quando l’uomo può uccidere per una scatola di birra» (CERY, p. 21). Il craving
riguarda la necessità impellente di bere, e per il protagonista può trattarsi perfino di acqua di colonia
dal momento che gli alcolici sono di norma vietati nella clinica disintossicante74. Filippo Ciai va
allora alla ricerca delle bottigliette distribuite nelle diverse camere ma senza soddisfare in pieno le
proprie impellenze, per poi acquistare un’intera bottiglia di Jean Marie Farina: «Non avevo forse il
diritto di profumarmi? Ne bevvi tre grandi sorsate. Mi sentì subito meglio anche se la colonia non è
propriamente gentile al palato, alla gola. Raschia» (CERY, p. 21). La scena potrebbe essere
drammatica se non ci fosse il tono ironico da tragicommedia nel descrivere le peripezie grottesche
di un alcolizzato che deve bere alcolici di qualunque tipo fino a apprezzare, in mancanza di meglio,
l’alcol denaturato a 90° con qualche cubetto di ghiaccio oppure l’eau de toilette. La dipsomania
senza freni conduce inoltre l’alcolista a ingurgitare enormi quantità di liquidi, alcolici o meno, con
delle conseguenze fisiche deplorevoli come, oltre alle alterazioni del comportamento, numerosi
danni organici quali gastrite, disappetenza, colite, diarrea e affezioni al fegato.
74
Alla voce Accueil du patient, la clinica di Cery indica alcune regole da seguire durante il percorso
terapeutico che Ottieri puntualmente farà infrangere al suo alter ego Filippo Ciai, dall’assunzione di alcol e di
medicinali, al programma terapeutico da seguire, ai rapporti sessuali all’interno della clinica.
210
Corsi via a precipizio, mi infilai in un bar nuovissimo e lucente. «Un gin tonic» dissi. «Un altro».
Stavo positivamente saziando il craving (la bramosia) quando sentii merda liquida scendere calduccia lungo
la gamba e sotto il calzone immacolato, aderendo all’interno di questo calzone, quindi alle calze, alle scarpe
fiammanti. Ci sarebbe voluto un tappo. (CERY, p. 15)
Le vicende narrate in Cery sembrano a volte riverberare atmosfere da romanzo picaresco in
cui l’eroe vagabondo o ladro, qui alcolizzato elegante, passa numerose peripezie solo per bere un
goccio e poi sfangarla sotto lo sguardo attento di barman, medici e infermieri, forgiando
un’immagine rovesciata dell’uomo serio, moderno, capitalista, imprenditore, titolo di un futuro
romanzo che Filippo Ciai vorrebbe scrivere. Se osservata sotto la lente dell’ironia che Ottieri non
disdegna mai, la sua ultima letteratura appare dunque furfantesca pur narrando storie drammatiche.
È la quotidianità insozzata, come spesso la definisce Ottieri, che emerge in superficie senza lasciare
immacolato nessuno, alcolista o arrivista che sia, e nel gioco particolare delle parti alla fine non
comprende nemmeno chi sia veramente pazzo.
L’alcool serve come un’auto-cura, un tentativo di soffocare l’angoscia altrimenti
insuperabile, un modo particolare di stare nel mondo, di reagire al Male imperante. Non vi è alcun
accenno di eroicità nel percorso intrapreso ma neanche di condanna: Ottieri si consente una
descrizione equidistante del proprio stato, certamente deplorevole ma senza inutili malignità o
eccessive sofferenze come invece accadeva a Zurigo. Chi riesce a contrastare l’angoscia se dopo
vari decenni nessuna cura è stata in grado di fornire un seppur plausibile strumento di difesa? Per
Filippo Ciai l’alcol ha questa prerogativa rappresentando comunque una vita anche se malata.
Nelle pagine finali del romanzo, dopo la clinica, le cure disintossicanti, gli scivolamenti
nell’alcol, il coma, le riprese, il protagonista si ritrova per un’ora di libertà a passeggiare nel centro
cittadino nei pressi della stazione nell’attesa di un treno da prendere, convinto ormai dell’inevitabile
(!) guarigione. Il tono dell’ultima avventura ricalca le precedenti, del tutto simile alle pagine
iniziali, chiudendo il cerchio su una storia che rappresenta una semplice tappa di un tour, ovvero
della volontà dello scrittore molto fluttuante:
Due giorni dopo, il giorno della partenza, ordii uno stratagemma. Invece delle quindici, presi un
treno delle diciotto. Avevo così il tempo per rivisitare Ouchy. Sedetti al bar di Byron. Mi guardavo intorno,
scopersi un cartello: Champagne. Prima coppa 10. Seconda coppa 8. Terza coppa : e così via digradando nel
prezzo fino all’omaggio. Gustai moltissimo l’omaggio. Lo champagne era buonissimo. Sentivo insieme
l’attualità e il fato. (CERY, p. 144)
Tra un bicchiere e l’altro, anche a Cery le donne rappresentano una materia inesauribile che
s’innesta in modo costante nello sviluppo di qualsiasi narrazione condotta da Ottieri. È quel turbinio
di donne immaginate che si rinnova in ogni opera e che ha aperto le danze con Katja del primo
211
romanzo, seguita da una schiera di numerose altre figure femminili che tempestano la mente dello
scrittore sempiterno dongiovanni infantile. A Cery Filippo Ciai instaura dei rapporti con venti
donne tentando con alcune anche un approccio più determinato. In ordine di apparizione tra
infermiere, pazienti e amiche: la moglie, l’infermiera Betti, Frau Lotte Firz, l’infermiera Martine,
l’infermiera Odile, una biondina, la Dottoranda Maud, una psicologa junghiana, un’amica,
un’infermiera siciliana, Fraulein Müller, la direttrice dell’atelier, la gallerista Tatia, l’amica
alcolizzata Antinea, la studentessa di psichiatria Francesca, l’infermiera Assunta Calì, Silhouette,
l’adetta dell’ufficio stampa, la critica letteraria Aurora, e infine la Vecchia paziente. Una vera e
propria Clinica delle donne parafrasando La città delle donne di Fellini ricordata già al tempo di
Pisa.
A Cery Filippo Ciai si perde in amori impossibili soprattutto verso due colleghe alcoliste,
Frau Lotte Firz e Fraulein Müller, anche se l’interesse per le infermiere non sembra scemare, ma
dopo l’esperienza di Pisa l’espediente stupisce poco. In questa nuova girandola di donne, il
problema eterno è quello della scelta mentre la delusione, anch’essa sconfinata, si evidenzia nel non
esser mai stato eletto quale oggetto d’amorose corrispondenze: «Temevo il rifiuto, la casta
Confederazione, il rischio osceno di esser voluto bene e non sapevo chi scegliere quale oggetto
d’amore. […] Non venivo scelto proprio da nessuno. E essere scelto è la mia sola occasione. L’altra
deve osare, io non oso» (CERY, p. 19), Degli amori che nascono all’interno delle cliniche si delinea
la loro improbabile realizzazione, e di questo ne è consapevole anche il protagonista. Ma proprio
nell’impossibilità germina la voglia di fantasticare confidando nel non possumus, imposto dalla vita
stessa, che permette solo di architettare fantasie non realizzabili e forse per questo più vere. Filippo
Ciai conosce bene le regole del gioco e s’innamora a modo suo, sapendo che nel concreto esistono
esclusivamente le fantasticherie quotidiane e allora, ancor prima di entrare in clinica, egli è convinto
d’invaghirsi a priori di qualche donna, paziente o infermiera che sia. Per lui, scrittore, si tratta di
abbozzare un romanzo su un episodio della vita che lo vedrà protagonista, ma la storia nella sua
mente inizia ancor prima dell’evento reale. Egli sa bene che s’innamorerà di qualcuna, che l’amore
sarà irrealizzabile, che alla fine del romanzo non cambierà nulla e che la fantasia avrà la meglio
sulla realtà. Sa e ha le prove. È l’altrove, l’altra vita, quella della fantasia e dei day dreams tangibili
più della realtà stessa, a presentarsi più vera, e allora è davvero importante realizzare una qualsiasi
idea per sentirla effettiva? No, risponde Filippo Ciai.
Io morivo d’ansia d’attesa. Suonò finalmente il dîner. Entrai in sala da pranzo come se mi gettassi
d’inverno in una piscina gelata o, peggio, in una piscina vuota. La vidi immediatamente. Era bellissima e
tosta, bella ma altera. Era il faro che squarciava la cupa, dura ombra del manicomio di Losanna. Mi misero al
tavolino accanto a Lei. […] A cena mi trovai faccia a faccia con la signora Firz, la dea. Era di origine
212
zurighese e alcolista come me. Appariva qualcosa di teutonico, tracce di muscoli nella sua ferma venustà. Ma
il volto era wagneriano. […] La rividi più bella e meno altera. Scappai. (CERY, pp. 9, 12, 126)
In quel «La vidi immediatamente» Ottieri rivela in modo esplicito il suo gioco letterario:
Frau Lotte Firz ci doveva essere per forza, il corsivo lo evidenzia bene, e d’immediato c’è solo
l’apparente sorpresa del lettore sprovveduto perché la presenza della donna si attesta per lo scrittore
ancor prima della sua visione concreta, sapendo già di trovarla e di scorgerla altezzosa. Quale
migliore aggettivo per costruire una storia d’amore impossibile con questa donna? E che sia sposata
verrà detto in un secondo tempo ma ovviamente ha meno valore dell’essere «altera», improntata a
maestà, dignità, fierezza. «La rividi più bella e meno altera» è anche l’epigrafe che apre Cery
rafforzando l’importanza della prima quartina del sonetto CCCII del Canzoniere di Petrarca75 che
Ottieri riutilizza anche durante la descrizione di un incontro tra il suo alter ego Filippo Ciai e Lotte,
con inoltre il riferimento a un romanzo di Gadda in cui:
In mezzo alla sua prosa straordinaria cita un grande poeta del Trecento, come se un aereo si levasse
in volo da un altro aereo, come qui: Levommi il mio pensier in parte ov’era / quella ch’io cerco, e non
ritrovo, in terra: / ivi, fra lor che ‘l terzo cerchio serra, / la rividi più bella e meno altera. C’è un ponte aereo
che allaccia il poeta a Gadda, nessuno riesce a trarne il filo principiante. (CERY, p. 36)
Ottieri gioca con la letteratura italiana nelle incessanti riprese, rifacimenti e parodie di altri
poeti o scrittori che caratterizzano la sua scrittura, e in questo passo di Cery interessa il recupero
dell’immagine di Laura per confrontarla con Lotte. Il sonetto CCCII si trova nella seconda parte del
Canzoniere, in morte di Laura, quando Petrarca sale sulle ali della fantasia per rivedere la donna
amata, bella e affettuosa come mai lo fu in vita. In questo modo il poeta riesce a consolare con
immaginazioni sentimentali il proprio dolore, creandosi nel sogno una personale realtà di amore
eterno. Tra le vicende di Petrarca-Laura e Filippo Ciai-Lotte sono tuttavia manifeste le divergenze: i
primi si sono conosciuti e amati in vita, di un sentimento contrastato e poi sublimato dalla morte
della donna, mentre i secondi non sanno nulla delle rispettive esistenze; quindi è esclusivamente la
fantasticheria a legare le due situazioni. Come detto in precedenza, e Ottieri qui ci offre una
conferma inequivocabile, lo scrittore già ama a modo suo e la donna esiste già ancor prima di essere
vista, perché ella è Laura, Charlotte, Beatrice sempre, anche a rischio di non incontrarla mai. Non a
caso Ottieri richiama gli archetipi junghiani per spiegare questo particolare modo di vivere e amare
anche diverse donne contemporaneamente:
Pimpinellavo dunque tra Firz e Müller. Nulla di strano. Continuavo a tenermi fra i due archetipi: la
giovanissima e la matura. Erano istinti, non pensieri, non scelte. La prima è un mio ideale costante. È
75
PETRARCA
Francesco, Il canzoniere, cit., p. 189.
213
irraggiungibile, nella realtà. Tenacissima, nell’immaginazione. La seconda è più realistica, più adeguata a me
(ma io sono adeguato?). (CERY, p. 34)
Il sorprendente verbo «pimpinellavo» non è una novità avendolo già riscontrato nelle
Guardie del corpo, «La biondina e la vicina / s’alternavano nella testa, / pimpinellando» (GC, p.
83), ma ciò che colpisce è la facilità dello scrittore nell’avvicinare termini colloquiali a riflessioni
profonde sul proprio stato psichico. Considerazioni che rinviano alla psicologia analitica di Jung e
in particolare ad alcune figure dell’inconscio come gli archetipi. Per Jung l’inconscio non contiene
solo tracce di esperienze vissute dimenticate o rimosse, ma anche uno strato più profondo dove è
depositato il patrimonio psicologico dell’umanità chiamato inconscio collettivo il cui contenuto è
formato essenzialmente da archetipi, ovvero l’esistenza nella psiche di forme determinate che
sembrano essere presenti sempre e dovunque. Gli archetipi sono forme a priori di apprendimento,
disposizioni a vivere un’esperienza in un modo piuttosto che in un altro, fattori di organizzazione
che esistono a priori alla stregua dei modelli funzionali innati costituenti nel loro insieme la natura
umana e il cui innatismo o apriorismo è l’elemento strutturale che non contraddice l’ereditarietà,
cioè le esperienze accumulate nell’ascendenza genealogica. L’istinto, non la scelta, di Ottieri rientra
dunque, per la descrizione della psiche, nel modello immaginale di Jung rispetto al tipo concettuale
di Freud.
Filippo Ciai, in quanto scrittore, vive le sue storie d’amore romanzate come un novello
«vecchio Werther» (CERY, p. 44) che sviluppa il rapporto attraverso le lettere scritte e mai spedite
alle amanti della stanza accanto, riverberando in modo ironico quegli aloni di amore ottocentesco
sentimentalmente drammatici e irrealizzabili. Non a caso Lotte è il diminutivo della Charlotte S.
goethiana, e il protagonista intreccia con la donna un rapporto che esalta le loro affinità spirituali,
nel bere, mentre c’è sempre un Alberto di troppo, in questo caso si tratta del marito di Lotte che
minaccia il divorzio a causa dell’alcol. Filippo Ciai instaura con la donna, durante il soggiorno a
Cery, una relazione basata sulla volontà di non bere più, sulla forza d’animo che rende consapevoli
e maturi i pazienti e sull’affinità intellettuale: «Continuai a scrivere lettere a persone che mi stavano
a dieci, venti metri di distanza. Ero la talpa buona di Cery. Tanto non spedivo nulla, mi tenevo le
lettere nascoste, per me. Non le stracciavo, erano celate. Come un tesoro sepolto in fondo al mare»
(CERY, p. 42). Oltre a Lotte, l’altra donna amata è la signorina Müller, emblema del male d’amore
che affligge non solo l’animo ma anche il corpo raggrinzito della stessa, tuttavia giovane e
affascinante costretta sulla sedia a rotelle per un male d’amore: sarà inevitabile che il protagonista si
debba innamorare anche di questa eroina disperata. Nell’altalena di sentimenti che sospinge Filippo
Ciai verso le donne amate, trova spazio anche Catullo, poeta novus dell’amore intimistico che si
oppose alla morale dominante del mos maiorum emarginandosi dalla vita civica per cercare l’otium
214
letterario. Ottieri riprende il motivo del bene velle rapportato all’amore in una sublime
contraddizione del cuore umano, anche se il tono rispetto al carme del poeta latino è molto più
drammatico come si può notare dal confronto serrato che il protagonista avvia con un’amica che gli
vuole bene ma senza amarlo: «Nel primo pomeriggio entrò d’improvviso una mia amica. Le chiesi
subito: “Mi ami?” “Ti voglio bene” rispose sicura. “Come, non mi ami?” “Non ti amo, ma ti voglio
bene” […] Le volevo strappare la passione, non la benevolenza. “Ti voglio bene” ripeté, cocciuta»
(CERY, pp. 18), Nel carme LXXII di Catullo, subentrano invece nell’animo del poeta l’amara
certezza dell’abbandono e la consapevolezza della volubilità della donna teneramente amata con lo
stesso affetto di un padre per la figlia. Dalla poesia emergono nuove predisposizioni sentimentali,
come la capacità di esaminare con mente lucida i propri affetti senza lasciarsi sconvolgere dalle
emozioni con la conseguente trasformazione dell’amore in semplice motivo di stima: «Nunc te
cognovi: quare etsi inpensius uror, / multo mi tamen est vilior et levior. / Qui potis es? Inquis. Quod
amantem iniuria talis / cogit amare magis, se bene velle minus»76. Il tono è delicato, quasi
rassegnato ma sereno; mentre nel romanzo è palese la tensione psichica provata dall’egotico
protagonista che vuole essere amato da una sua amica, senza tuttavia riuscirci. Ottieri, rispetto al
poeta latino, rovescia completamente la situazione a suo sfavore: se infatti Catullo esprime lo stato
d’animo di chi ha aperto gli occhi dinanzi alla dura realtà, Filippo Ciai resta incatenato alle proprie
elucubrazioni d’amore non-sense mentre è la donna a maturare il sentimento d’amicizia in un
maturo bene velle, condizione impossibile da sostenere per l’infantile uomo. Simili dissonanze
sentimentali furono già sofferte da Elena, «Tu mi vuoi bene e io ti amo. È la peggior sofferenza del
mondo» (CON, p. 143), fino alla blasfemia di Pavese analizzata dalla Contessa: «E mi dice questo
dopo il 13 agosto. E non le viene da piangere. E mi vuol bene! – Porco Dio!» (MV, p. 68).
Cery è un romanzo che pone una particolare attenzione ai problemi legati all’alcolismo,
eppure Ottieri non dimentica le diverse tematiche legate al male di vivere che hanno contraddistinto
la vita e la sua letteratura. Il soggiorno nella clinica di Losanna rispecchia in parte l’esperienza di
Zurigo attraverso lo scorrere del tempo con la distillazione d’angoscia e di stati d’irrealtà quotidiana
che opprimono l’animo e il corpo dello scrittore, eterno prigioniero di un’esistenza sbagliata. E la
clinica viene vissuta, ancora una volta, come un carcere il cui edificio dall’esterno appare una
prigione anonima, inquietante, sebbene il tono che avvolge Cery sia senza dubbio meno drammatico
delle precedenti reclusioni. All’interno della clinica, il soggiorno è regolato secondo i ritmi di un
comune “penitenziario”, con i suoi tempi e regolamenti ferrei, e l’esempio più eclatante riguarda
l’atelier, luogo per eccellenza detestato dallo scrittore come già accade nel Campo di
concentrazione, in Contessa e nel Diario del seduttore passivo:
76
CATULLO,
cit., p. 344.
215
Le 13 e 30 era il termine massimo per recarmi all’orrido atelier, mio assoluto dovere. Se non mi
recavo all’atelier rompevo tutte le regole elvetiche, e non era cosa da poco. […] L’atelier è un luogo dove si
deve fare esattamente quello che non si vuol fare. (CERY, pp. 37-38)
Per distrarsi dall’idea di essere una vittima della civiltà occidentale e quindi di avere l’obbligo di
trasferirsi in altre civiltà – trasferimento cui la pigrizia non era pronta – Elena scese in atelier. Era una specie
di cantina ingombra di cartoni, tele, colori, scarabocchi, quadri psicologici che esprimevano e liberavano
l’inconscio. (CON, p. 148)
Vada nel pomeriggio / all’atelier e fisiò. / Forse a fisiò, all’atelier giammai! / Troppi buchi in questa
Confederazione / ho praticato nel cuoio! / Troppi borsellini ho costrutto / intinti nella merda / dell’angoscia
marrone! / Il pensier rinnova la paura. (DSP, p. 13)
Nella clinica-prigione il Male si distende diligentemente sul malato che avverte con
disperazione le conseguenze nefaste nei diversi organi del proprio corpo, senza che la distinzione
tra anima e corpo sia sostanziale. La difficoltà di vivere viene esplicitata nella malattia che, in
alcuni casi, si può interpretare come un processo patologico difensivo in cui il malato si rifugia per
proteggersi dal mondo esterno. Tale processo è studiato dalla psicosomatica, una branca della
medicina che si occupa di disturbi organici che, senza avere alla base una lesione anatomica o un
difetto funzionale, sono ricondotti a un’origine psicologica. L’uomo è un essere unitario in cui la
malattia si manifesta a livello organico come sintomo mentre a livello psicologico come disagio.
Adottando questo punto di vista, la medicina psicosomatica ribalta lo schema eziologico classico,
per il quale la lesione dell’organo era causa della disfunzione e a sua volta origine della malattia,
nello schema secondo cui il mantenersi di uno stress funzionale, che ha la sua genesi nella vita
quotidiana dell’individuo in lotta per l’esistenza, genera quella disfunzione dell’organo quale causa
della lesione e dunque principio della malattia.
In Ottieri le circostanze della vita quotidiana comportano diverse disfunzioni sempre in
momenti particolari quali uscire dalla propria camera, entrare nell’atelier, rapportarsi con gli altri.
Gli stress psicosociali aumentano poi l’incidenza dei disturbi dell’immagine corporea
manifestandosi attraverso disordini somatici che colpiscono parti e funzioni del corpo investite di
significati simbolici consci e inconsci, influenzando l’atteggiamento del soggetto verso il proprio
corpo. Durante la prigionia a Cery, lo scrittore pone l’attenzione sulle disfunzioni avvertite sul
petto, stomaco e cervello che si disintegrano insieme al corpo. Nella poetica della disintegrazione,
la vicenda di Filippo Ciai si sovrappone a quella vissuta da Antoine Roquentin nel suo essere di
troppo ricolmo di angoscia e di Nausea sofferta nel Campo di concentrazione che rappresenta
l’essenza della vita umana. In alcuni passi di Cery emerge un altro aspetto del romanzo di Sartre,
ovvero le atmosfere domenicali sublimate nei tristi boulevards durante le passeggiate che si
caricano di un’intonazione lugubre e allucinata, mentre la folla assume i connotati di una marcia
216
spettrale. La passeggiata domenicale rivela in questo modo la sua doppia natura dell’alienazione e
dello spaesamento dell’individuo, e collega direttamente la Nausea alla triste domenica
crepuscolare del Campo di concentrazione e ad alcuni quadri di Munch come Sera sul viale Karl
Johan (1892) e Angoscia (1894), in cui le passeggiate della borghesia di Cristiania (Oslo) sono
raffigurate come cortei funebri in cui il dolore dell’individuo di fronte al cosmo si allarga a una
dimensione universale, comune per ogni essere umano. Munch mostra, come se fossero riflesse,
persone che passeggiano tranquillamente; eppure la sua doppia vista ne coglie l’angoscia e lo
svuotamento esistenziale.
Mi ero sgonfiato. Era sgonfio e malato di pallore anche il boulevard. Ma la domenica era finita. Dei
week-end non aspettavo che la fine, come se il lunedì riportasse la felicità. […] La domenica mattina ero
terrorizzato, stavo con gli occhi spalancati verso la finestra. […] Restavo bloccato. Riuscii a tirarmi fuori dal
panico. Mi diedi a pensare: quanto il reale, la domenica mattina, senza nulla da fare tutto il pomeriggio,
guardando giù nell’abisso pomeridiano e serale, provocava il mio malessere? Quanto esso era un sintomo
soggettivo della mia malattia? Che avrebbe fatto un normale, in cima alla domenica? (CERY, pp. 59, 90)
Ho capito che era domenica. […] Nei quartieri periferici, tra le interminabili mura delle fabbriche,
lunghe file nere si son messe in marcia e avanzano lentamente verso il centro della città. […] Ben presto, in
silenzio, le nere colonne invaderanno quelle vie che fanno la morte. […] In via Tournebride non bisogna aver
fretta: le famiglie camminano lentamente. […] Erano circa le tre; sentivo il pomeriggio per tutto il mio corpo
appesantito. Non il mio pomeriggio, il loro: quello che centomila bouvillesi stavano per vivere in comune.
[…] Per loro qualcosa era morto. La domenica aveva consumato la sua breve giovinezza. […] Il sole era
chiaro e diafano. La sua luce sfiorava appena i corpi, senza dar loro ombre né rilievo: i visi e le mani
facevano macchie d’olio pallido. […] Dietro di me, nella città, nelle grandi vie dritte, ai fredi chiarori dei
lampioni, agonizzava un formidabile avvenimento sociale: era la fine della domenica. (Nausea, pp. 63-84)
Vedevo tutte le persone dietro le loro maschere, sorridenti e flemmatiche, volti tranquilli, vedevo
attraverso di essi e c’era sofferenza in tutti loro, cadaveri smorti, frettolosi e affaccendati, correvano in giro
lungo una via tortuosa, il termine era la tomba. (Munch p. 98)
Anche in Cery affiorano numerosi riferimenti a opere di altri scrittori, oltre ai già citati
Petrarca e Sartre, quali Gadda, Dante, Parise, Byron, Foscolo, Pasolini, Piovene, Moravia. È il
classico tourbillon letterario in cui Ottieri dimostra una grande maestria nelle fini citazioni e negli
intelligenti rifacimenti che spaziano dalla cultura classica alla letteratura italiana ed europea
dell’Ottocento fino ad autori contemporanei. Tra questi Ottieri invoca Gadda come musa ispiratrice
ricordando l’incipit dell’Iliade di Omero: «Cantami, o Gaddus, del funesto ateliero la penosa
istoria» (CERY, p. 38), e poi gli rende un omaggio letterario imitando in un’intera pagina di Cery lo
stile di Gadda con suo linguaggio raffinato, fondamentalmente polifonico, in cui si condensano le
più svariate sostanze lessicali tra i calchi diretti del parlato quotidiano ed elementi volgari, tecnicosettoriali, dialettali, gergali, forme desuete ricavate dalla letteratura dialettale, oppure letterarie e
preziose, arcaismi colti illustri e raffinati, termini tecnici con un effetto angoscioso di
incontrollabilità degli oggetti catalogati. La lingua è condannata, nonostante questi tentativi, a
217
registrare l’inafferrabilità del reale sempre più aggrovigliato ed inestricabile in un pastiche che è
nello stesso tempo groviglio, intrico, ginepraio. Ed è quello che accade nel capolavoro di Gadda, in
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, un “pasticcio” di lingua e contenuto costruito con una
polifonia senza centro, che ha fortemente impressionato Ottieri: «a me Gadda mi avvolge, mi
sconvolge, mi muta, non posso non imitarlo anche nel parlare» (CERY, p. 36). Ottieri si prodiga
nell’imitare Gadda ed il risultato è sorprendentemente efficace:
La direttrice dell’atelier era un’arpia. Perfida, sfrontata, punitiva. Cantami o Gadda, de la direttrice
arpia l’ira funesta, ch’era arpia anche in nel volto, che non era brutto, ma peggio, arpiesco bellino, cutigno,
con du ciondoli di capegli niri niri a’ lati, funesti vitigni, arpieschi, accutumati, avvinghiati serpigni viperini.
I’ mi giacevo nella mi’ an-goscia nera. Non potevo, non potevo – non possumus – bucare i buchi con la
maligna pinza in nel non macerato cuoio, ciò è duro, durissimo cuoio, per costruire un borsellino de’ meglio,
a grand’arte compiuto e campito, con tutta la mi’ energia misurante-calcolatore, ciò è meccanico – disperato. «Ciai! Oggi tocca a lei la preparazione del tè e il risciacquamento del vasel-lame!». Ahhh! Vuol
stilettarmi. L’anima sbuzzarmi. (CERY, p. 39)
Ottieri descrive il disagio provato per l’obbligo di lavorare nell’atelier, con la sua «arpiesca»
direttrice, in un procedimento lessicale che rispecchia lo stile di Gadda nella cura dei dettagli
minuziosi, ossessivi e maniacali con i quali si forgiano descrizioni grottesche tra cui spicca la
direttrice «arpia», termine quest’ultimo impiegato cinque volte in poche righe per dare
all’immagine una vivida forza: il volto «arpiesco» e i capelli «arpieschi» delineano infatti un ritratto
brutto e senza alternative. Il tutto abbellito da numerosi neologismi come «cutigno» che rinvia alla
cute, «accutumati», «serpigni» da serpe che, legati a «viperini» per i capelli, rimandano
all’immagine della Gorgone, mostro femminile della mitologia classica, anguicrinito e dallo
sguardo terrificante. Inoltre si rileva, in questo passo, la presenza di forme dialettali siciliane come
«capegli niri niri», romane «du» per due, toscane nelle forme sincopate «mi’», «de’» e «i’». Oltre a
ciò Ottieri lega tra loro termini appartenenti a diversi ambiti, come il verbo «sbuzzare» che significa
propriamente «sventrare un animale» e che, per estensione, rinvia ad espressioni di truculenta
brutalità, ma il contrasto con l’oggetto destinato ad essere sbudellato, l’eterea «anima», rende un
effetto straniante. Nel testo vi è anche il riferimento alla formula utilizzata da Pio IX che nel «non
possumus» condannava le «usurpazioni» piemontesi del 1860, cioè l’unificazione dell’Italia e
l’annessione delle Romagne al Regno piemontese.
In Cery tuttavia l’attenzione maggiore Ottieri la pone su se stesso in quanto scrittore in cura
per disintossicarsi che osserva il proprio modo di scrivere, le difficoltà di pubblicare un certo tipo di
letteratura, e in generale l’incessante lavorio intellettuale che fa germinare le sue opere. Filippo Ciai
è in procinto di comporre un nuovo romanzo dall’emblematico titolo Gli imprenditori sui nuovi
padroni di fine millennio, ma avverte un impedimento nella struttura della trama. Ottieri riesce ad
218
analizzare, con il solito impeto irrequieto, la propria letteratura in un momento importante della
carriera, essendo infatti Cery il penultimo romanzo dopo trenta opere già pubblicate. La trama è
stata fin dalla giovinezza un problema insormontabile, come del resto l’intreccio, un ammasso nero
inestricabile dinanzi al quale la sua precoce vocazione letteraria si scontrava per poi divincolarsi a
strutturare l’ennesimo diario: «Mi spostai a sinistra, verso il quaderno dell’opera Gli imprenditori.
Avevo molte idee originali e esperienze, ma non avevo la trama. La trama, la trama! Fobia della mia
giovinezza. (Finivo sempre per scrivere un diario). L’intreccio era sempre una nube nera in cui si
annidava una tempesta» (CERY, p. 45). Ottieri ammette quale fatica dello scrivere lo abbia
accompagnato per tutta la vita: egli soffre come una partoriente e il disagio fisico viene ampliato da
uno struggimento mentale che non lascia scampo. La vocazione è una brutta bestia che non può
essere accudita e s’impossessa dello scrittore che deve trovare in sé le forze per tradurla
saggiamente su carta. Ma il procedimento non è automatico né tanto meno facile da attuare con
l’esperienza, e la scelta convergerà sull’esigenza di narrare ma senza appagamento, e dopo tante
opere pubblicate che hanno spaziato dal romanzo, al saggio romanzato, al dramma, alla poesia,
Ottieri si considera uno scrittore «infelice» (CERY, p. 121). L’ammissione, anche se filtrata
attraverso l’alter ego Filippo Ciai, non rappresenta certo una sorpresa poiché i suoi scritti, fin dal
primo romanzo Memorie dell’incoscienza, amplificano in modo progressivo il dramma esistenziale
riverberato sull’anima mettendo in scena delle creature, fantasmi di una mente sofferente, originali
e inclassificabili nella storia letteraria non solo italiana ma anche europea.
Avevo ricevuto un telegramma dal mio editore: «Tu non concedi nulla al lettore». Come, come in
pratica, potevo concedere? Che cosa concedevo? Veramente avrei voluto che il lettore e l’editore mi
concedessero qualcosa, cioè soldi e grande attenzione. […] Mi torturavo per concedere, così che non avrei
potuto concedere che la mia tortuosa tortura, cioè una amenissima concessione. Avrei concesso un contenuto
e una forma non concedibili, perché la coscienza non conviene mai. (CERY, p. 80)
Sul verbo «concedere» si riflettono alcuni aspetti della letteratura di Ottieri il quale soffriva
per non essere considerato uno scrittore popolare a causa degli argomenti trattati nelle sue opere, tra
cui l’alienazione nelle fabbriche, le irrealtà quotidiane, le malattie mentali vissute nei manicomi, le
critiche violente alla politica. Inoltre la struttura particolare spesso inclassificabile con cui ha
progettato i diversi lavori ne aumenta il disagio: romanzi diaristici, saggi romanzati, poesie in forma
di prosa, poemetti discorsivi, pseudo-sceneggiature, trageie non teatrali. È senza dubbio una lettura
difficile quella che s’intraprende dinanzi a ogni nuovo titolo di Ottieri poiché, oltre ai contenuti
alquanto articolati, emergono numerosi riferimenti culturali, letterari, filosofici, politici.
Nell’intervento di chiusura delle due giornate del convegno Le irrealtà quotidiane svoltosi a Roma
219
nella Casa delle Letterature il 2 e 3 marzo 2003, la moglie di Ottieri, Silvana Mauri, conferma il
pensiero del marito:
Ottiero non si sentiva un perdente come letterato. Soffriva di terribili angosce, le cliniche, si è detto,
lo laceravano nel cuore, […] ma si sentiva perdente solo perché non era uno scrittore popolare, quello che lo
avviliva era vendere 500 copie e non 40.000. […] Ottiero ha ricevuto moltissime lettere di depressi che si
riconoscevano, capivano che cosa avevano. Beh, questo l’ha reso felice, ricevere non dai critici, ma dai
depressi, da tutta Italia, persino dall’estero, perché per esempio non è stato poco recensito. Lui ha avuto
grandi critici, migliaia di recensioni, voleva essere uno scrittore popolare e questo non lo è stato. (Convegno,
p. 73)
Non uno scrittore di successo per i motivi appena ricordati, ma originale che ha illuminato
con la sua opera delle tematiche complesse come l’industria, la clinica e la politica rimaste
nell’ombra della storia della letteratura italiana, o solo parzialmente affrontate da altri autori senza
comunque quella full immersion che solo Ottieri ha potuto vantare vivendo in prima linea, seppur
recluso, nei tre ambiti presi in esame. Si parla della letteratura di Ottieri come inclassificabile e a
volte, soprattutto per le poesie, incomprensibile:
Telefonai al Grande editore per un mio piccolo libro di poesie, egli mi disse quasi infuriato che non
ne capiva nulla e che, se insistevo, dovevo mandarlo al Direttore editoriale. Così feci. Invitai a colazione il
Direttore editoriale, uomo distinto e piacevole che però del mio libro tacque completamente. […] Dopo tre
anni il libretto uscì. Andò bene, ma io, durante l’attesa, avevo scritto per ingannare il tempo, un altro libretto.
Quando lo annunciai al Direttore, ribatté che io producevo più di quanto qualsiasi editore potesse pubblicare.
[…] «No, no» disse, «è troppo autobiografico, prolisso, smisurato. Guarda, no». Post hoc, propter hoc.
Cominciai a avvelenarmi con troppe medicine che avevo con me. (CERY, pp. 96-97)
Qualsiasi editore vorrebbe pubblicare opere di successo, per guadagni immediati e sicuri.
Cosa può garantire Ottieri? Non certo un best seller e dunque si comprendono facilmente le
subitanee difficoltà incontrate a ogni nuova proposta. Eppure quando si leggono i nomi delle case
editrici che hanno pubblicato le sue opere nel corso di cinquant’anni, i riscontri sono soddisfacenti:
Einaudi, Bompiani, Marsilio, Garzanti, Guanda, Giunti, Longanesi. Il problema incessante è stato
quello di non poter mai pubblicare un best seller, anzi addirittura Ottieri arriva a considerarsi uno
«scrittore più cerebrale che celebre», un «bad-sellerista»77 che è un ottima etichetta per presentarsi
all’editore proponendo un nuovo lavoro.
Sempre è usato l’intrattenimento. Meglio una bolla di sapone che la noia. A chi dispiace passare
un’ora piacevole (e magari «nutritiva per lo spirito»)? Ma la separazione ormai è drastica a priori: o la
77
«Perché io sono stato lunghi anni malato, e quindi ho parlato molto della mia malattia, cercando di vedere in
essa anche un centro che potremmo chiamarlo clinico-filosofico, e cioè quando il dolore diventa un fatto centrale della
vita. Ma questi sono affari miei: non è che io esiga che altri facciano altrettanto per fare della buona letteratura». «E gli
editori come vivono questa insistenza?». «Ah, la vivono malissimo e dicono: Basta, piantala con la malattia e parla di
cose allegre. Possibile che tu un bel romanzetto rosa non sia in grado di scriverlo?» (In «Milano metropoli»)
220
letteratura da best seller o letteratura di ricerca. La prima si vende, la seconda no. Scegliete e non piangete. Io
vi do il dato. Ripresi il mio mitra e mi rimisi a sparare. […] Non scrivevo niente di fiction. Scrissi
unicamente realtà, né di ricerca né di best seller. […] Volevo provare a saltare dal mondo della ricerca al
mondo del best seller. Così mi avevano detto che si dividevano i libri e gli autori. Il giudizio mi sembrava un
po’ schematico e un po’ razzista. Tanto più che l’autore veniva concepito a priori come appartenente al best
seller o alla ricerca, qualunque libro egli facesse. La cosa era impressionante. È che io non concepivo
nemmeno come avrei potuto immaginare un libro di intrattenimento. Con quale riga avrei dovuto
incominciare? […] Io, scrittore senza fantasia, che ha sempre voluto scrivere senza fare lo scrittore, che non
piaccio agli italianisti e sono un bad-sellerista, scrittore più che altro pratico e «infelice», difficile che non ha
mai «lavorato sul linguaggio» e invece di cantare ragiona. (CERY, pp. 46, 69, 80, 121)
Filippo Ciai è uno scrittore e come tale sta lavorando a un nuovo romanzo dal titolo Gli
imprenditori, lavoro che va a rilento a causa delle lettere che invia quotidianamente alle due donne
amate in clinica, Frau Lotte Firz e Fraulein Müller. Perché questo titolo e quale argomento viene
trattato? Durante la gestazione del romanzo lo scrittore pensa che gli imprenditori debbano trovarsi
spesso in conflitto con lo Stato a causa delle diverse finalità che li caratterizzano, e il tema sembra
accattivante. Il problema si porrà in seguito, quando gli imprenditori saranno lo Stato. Più che a un
romanzo, Filippo Ciai pensa a un poema e inizia a strutturarne i primi canti invocando la musa
affinché possa insinuargli l’ispirazione, lui scrittore con poca fantasia, per delineare una figura
d’imprenditore modello devoto al Mercato e al dio Denaro che abbatte tutti i suoi nemici senza
pietà, dal concorrente all’operaio.
Con Cery si arriva alle battute conclusive di una vita esagerata per la malattia coinvolgente e
per la brillantezza dello scrittore nel tramutarla in letteratura; e poiché sta finendo il secolo, insieme
alla sua vita, lo sguardo si rivolge inevitabilmente al passato. Il periodo mondano di Ottieri esplose
a metà degli anni Sessanta tra feste e locali chic rispondendo a una nuova compulsione che lo spinse
a legarsi agli altri ma sotto il segno della fatuità. Dopo tanti anni lo scrittore fa un resoconto di
quella stagione, impressa nel romanzo breve I divini mondani, grazie alla confessione aperta e senza
filtri di Cery: egli era un maniaco, un pazzo, ma non un mondano nel senso specifico del termine,
quindi il divertimento non albergava in lui, anzi le feste aumentavano il suo disagio psichico
trasformandosi in sopportazione infinita fino al momento in cui interruppe quel particolare stile di
vita. Nello specifico, l’universo dei mondani non è molto diverso da quello comune in quanto c’è
l’horror vacui che li unisce all’irrealtà quotidiana, come affermò in un’intervista rilasciata a
Ferdinando Camon: «Dietro il mondo luccicante e fastoso della mondanità, si nasconde il classico
pericolo del vuoto, in tutto simile alla processione del sentimento d’irrealtà».78
Ottieri richiama poi alla mente anche Pasolini ma è un ricordo particolare, non letterario,
indirizzato agli aspetti intimi del poeta che marcarono la sua vita, e soprattutto ai rapporti con la
gretta società italiana del dopoguerra. Ottieri senza alcun moralismo ricorda Pasolini
78
CAMON
Ferdinando, Il mestiere di scrittore, Garzanti, Milano 1973.
221
esclusivamente per la sua omosessualità, da lui incompresa ma non condannata, con il filtro dello
sguardo della madre e della moglie attratte au contraire dagli omosessuali.
«Lei» mi domandò di colpo, «ha conosciuti molti omosessuali? Sua madre, sua moglie,
frequentavano, frequentano, amano frequentare omosessuali?». «A caterve» risposi. «Mia madre non si
innamorava che di pederasti. Il primo amore di mia moglie è stato Pasolini. La nostra casa pullula di
omosessuali. Di ogni razza e tipo. […] Del resto, non era omosessuale anche Freud? Solo il freudismo riesce
a trovare, sotto i più svariati sintomi, l’omosessualità. Essa è per me come l’unghia che riga il vetro. Io
capisco tutto, l’omosessualità non la capisco. È per me un buio inconcepibile, richiede un cervello, un cuore,
un clitoride, un cazzo che non sono capace di concepire». (CERY, p. 22)
Eppure, a modo suo, Ottieri lo poteva concepire se pochi anni prima strutturò un’opera così
imponente come il Poema osceno dove il protagonista è un maturo poeta che ama non solo le donne
ma anche i ragazzi, un’opera scandalosa che rispecchia in parte il Petrolio di Pasolini.
«Ma quando con un altro amico ci lasciavamo dopo molti conversari e io tornavo a casa con mia
moglie, e lui andava a battere alla stazione, alle marane, tutte le notti, io sentivo un taglio netto e secco, una
distanza fra noi che coinvolgeva tutta la nostra amicizia, tutte le nostre idee. Sentivo una diversità fondante».
Fui drastico come non mai: «Io non capivo, non capivo». «Esiste dunque un’eccezione al suo homo sum. Sua
mare li amava?». «Non si innamorava che di loro». […] «E sua moglie?». «Il suo primo amore è stato un
omosessuale famoso». […] «La sua vita è sempre stata circondata da omosessuali?». «Sì. Per questo ho la
mania delle donne?» (CERY, pp. 74-75)
La moglie Silvana Mauri nel suo libro-diario Ritratto di una scrittrice involontaria (diviso in
tre parti: Ricordi, lettere e sogni; Diario eitoriale ’44-’45; Ritratti e conversazioni) testimonia
l’esperienza della guerra osservata dalle stanze della casa editrice Bompiani, le fughe di Vittorini,
gli andirivieni di Antonio Banfi, i corpi fucilati per la strada, il 25 aprile. E soprattutto emergono,
nel corso degli anni, ricordi, lettere, sogni, ritratti, conversazioni, il matrimonio con Ottieri, l’arrivo
alla Bompiani, i contatti diretti con gran parte della cultura del secondo Novecento che a Milano,
specie nell’immediato dopoguerra, ha avuto il suo fulcro innovatore79. I due accenni espliciti al
primo amore della moglie nei confronti di Pasolini rinviano a un articolato rapporto intellettuale
sviluppatosi tra i due, o meglio tre, ma senza dimenticare che lo stesso Ottieri considerava Pasolini
un «maestro» (PO, p. 272). Ricorda Silvana Mauri:
Me lo portò a casa mio fratello Fabio, sedicenne, avendolo conosciuto nella reazione di una rivista
giovanile, «Il Setaccio», a Bologna, dove la famiglia Pasolini e la mia si erano stabilite provvisoriamente e,
in fondo, per caso. […] Mi parve bellissimo con la sua faccia sulla quale i tratti slavi, romagnoli, ebrei,
avevano composto linee uniche, una maschera irripetibile. […] Come è accaduto che io, ragazza borghese,
79
Silvana Mauri (Roma 1920 – Milano 2006), figlia di Umberto Mauri, futuro presidente delle «Messaggerie
Italiane» e nipote di Valentino Bompiani, nella cui casa editrice lavorò fin dai tempi del liceo, sposò Ottieri nell’aprile
del ’50 a Lerici, dopo essersi conosciuti la prima volta a Roma la sera del Referendum del ’46 in casa di amici comuni.
Di Silvana Mauri è stato pubblicato nel 2006 il libro Ritratto di una scrittrice involontaria, edito da Nottetempo e a cura
di Rodolfo Montuoro, in cui sono raccolte, tra le altre, lettere alla madre, al padre e a Ottieri.
222
senza radici paesane, eterosessuale, e lui allora, tutto pervaso e raccolto di poesia casarsese, materna,
inesperto del mondo, impaurito da ciò che non conosceva, tutto compunto del suo interno ignoto, con la sua
mente forte, geniale, studente diligente, omosessuale, ci siamo inseguiti per tutta la vita, scritti, raccontati,
raggiunti, quando appena era possibile e dentro la sua vita che sempre più si separava dalla mia? […] Era
onnivoro: di facce, di gesti, di paesaggi, di odori, del passato, del presente, di letteratura, di linguaggi e di
azioni, di ciò che era compiuto e di ciò che era incompiuto, nel suo vitale divenire. Del sublime e dell’orrido
dell’uomo. […] Fummo presto separati dalla guerra. Ci scrivevamo quasi ogni settimana o quasi ogni giorno.
Le mie lettere sono andate perdute. Prendevo treni gelati per raggiungerlo a Casarsa, dodici, a volte venti ore
di viaggio da Milano. […] Di giorno, ebbri di felicità, alati, smemorati, correvamo in bicicletta sulle prode
gelide del Tagliamento per qualche piccolo cinema parrocchiale dei paesi vicini o a ballare sfrenatamente
tanghi, polke e fox-trot nelle balere popolari. […] Io ero il riflesso di tutto ciò che gli apparteneva e mi
sembrava di non abitare un paese reale, ma il suo stesso cuore. Anche Pier Paolo allora era ancora felice.
[…] Anche la sua omosessualità era ancora un gioco dolce tra ragazzi. […] Quando fu cacciato da Casarsa
lui, mirabile maestro dell’Academiuta Furlana, mi chiamò a Roma. Mi disse che abitava una casa abusiva,
senza indirizzo, a Rebibbia. […] Stentai a trovarla, ma quando entrai nella povera casa senza tetto, lui era lì,
immobile, disperato di avere, come mi diceva, perduto tutto: lavoro, rispetto, fiducia del suo mondo
casarsese, la scuola e di avere trascinato via la madre. Sembrava il futuro Cristo del suo film. Intorno,
marrane, serrati, immondezza, l’informe suburbano, un pezzo dell’«inferno della borgata», ma vivo di
ragazzi, di diseredati. Dietro le sue parole desolate vedevo lampeggiare, nel fondo dei suoi occhi profetici,
una diabolica voglia di vivere l’inferno che lo circondava. 80
Pasolini scrisse molte lettere a Silvana Mauri e in una del 10 febbraio ’50 le confida la
condizione drammatica della propria omosessualità indicata scandalosa dalla società civile dopo il
fattaccio di Ramuscello e la conseguente fuga, insieme alla mare Susanna Colussi, da Casarsa a
Roma avvenuta di notte «come dei ladri».
La vita sessuale degli altri mi ha fatto sempre vergognare della mia: il male è dunque tutto dalla mia
parte? Mi sembra impossibile. […] La mia vita futura non sarà certo quella di un professore universitario:
ormai su di me c’è il segno di Rimbaud o di Campana o anche di Wilde, ch’io lo voglia o no, che gli altri lo
accettino o no. È una cosa scomoda, urtante e inammissibile, ma è così: e io, come te, non mi rassegno. […]
Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava
con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico, non me la sono mai sentita dentro. […]
Aggiungerò ancora subito su questo argomento un particolare: fu a Belluno, quando avevo tre anni e mezzo
(mio fratello doveva ancora nascere) che io provai per la prima volta quell’attrazione dolcissima e
violentissima che poi mi è rimasta dentro sempre uguale, cieca e tetra come un fossile. […] Tu sei stata per
me qualcosa di speciale e di diverso. […] Da quando mi hai aperto la porta a Bologna, […] e mi sei apparsa
sotto la figura di una madonna del duecento, […] tu sei sempre stata per me la donna che avrei potuto amare,
l’unica che mi ha fatto capire che cosa sia la donna, e l’unica che fino a un certo limite ho amato. […] Nel
mio ultimo biglietto ti ho scritto che tu eri l’unica, fra tutti i miei amici, con cui mi riusciva di confidarmi: e
questo semplicemente perché sei l’unica che io ami veramente, fino al sacrificio. Per te, per esserti di
conforto, farei qualsiasi cosa senza la minima ombra d’indecisione o di egoismo.81
Anche i rapporti tra Ottieri e Pasolini furono alquanto complessi: dal punto di vista umano
tra i due che erano coetanei, classe ’24 e ’22, non maturò nel tempo un’amicizia in senso stretto, ma
nemmeno si può parlare di semplice conoscenza. Ottieri viveva, o meglio soffriva, una sorta di
gelosia intellettuale nei confronti di un uomo (di cui s’innamorò la moglie) e di un autore
80
Ivi, pp. 276-285.
PASOLINI Pier Paolo, Lettere 1940-1954, con una cronologia della vita e delle opere a cura di Nico Naldini,
Einaudi, Torino 1986.
81
223
inarrivabile al quale non lesinò frequenti omaggi letterari, attraverso riprese e rifacimenti,
ritenendolo un «maestro» il cui giudizio estetico lo condizionava molto; si ricordi quanto le critiche
di Pasolini per Tempi stretti disorientarono il giovane Ottieri sugli errori tecnici evidenziati e
l’approssimazione linguistica. Riguardo alla lingua, Ottieri visse sempre una sorta di complesso nei
confronti di scrittori, come Pasolini e Gadda, che erano capaci di «mimetizzarsi con dialetti a loro
completamente distanti. Io mi sento un po’ poverino rispetto a loro; la mia lingua è povera» (in
«Milano metropoli»).
Nel colloquio con l’analista, il paziente Filippo Ciai fa una cronistoria delle proprie
conoscenze omosessuali, ricordando che sia la madre che la moglie ne erano attratte. In alcuni versi
del poemetto Il Padre, Ottieri aveva già ricordato come la madre s’innamorò solo di omosessuali e
che questo contribuì allo sviluppo della propria malattia: «Mia madre non amò che pederasti. […]
Molti pederasti illustri / hanno detto che la mia malattia / deriva dal non aver seguito la vera via, /
indicata da mia madre» (PAD, p. 76). Questa riflessione viene ripresa anche dal Dottor Cantini che
individua in Filippo Ciai «tendenze omosessuali fortemente rimosse» (CERY, p. 76). Freud, il
complesso di Edipo, il narcisismo, l’ossessione delle donne, i complessi sessuali sono elementi che
ritornano con insistenza nelle opere di Ottieri e meritano alcune precisazioni. Ad esempio
l’inquadramento nosologico dell’omosessualità e la sua rubricazione nelle deviazioni sessuali ha
suscitato, nella storia della psicoanalisi, numerose controversie. Le teorie sulla sua origine rientrano
in due classi generali, biologica e psicologica, e quest’ultima ha fornito diverse interpretazioni tra
cui la più significativa è quella freudiana attraverso il cosiddetto complesso d’Edipo. Partendo da
una premessa anatomica, Freud constata che le persone in seguito invertite abbiano attraversato
negli anni dell’infanzia una fase d’intensa fissazione sulla donna (perlopiù la madre) e che, dopo
averla superata, si identificano con la donna assumendo se stessi come oggetto sessuale. Partendo
dal narcisismo, il ragazzo rimuove l’amore verso la madre e cerca uomini giovani e simili alla sua
persona da amare come fece la madre, diventando così omosessuale. L’omosessualità maschile non
eviterebbe in ogni caso il contatto con altre donne, di cui anzi ci si circonda, sposandole in alcuni
casi e desiderandole ossessivamente come accade per le molteplici donne fantasticate nelle opere di
Ottieri.
Ho scoperto una cosa: se mia moglie la sera al telefono non dice d’amarmi, io non entro nemmeno in
salone. Per amare le altre, ho bisogno di essere sicuro del suo amore. Dicono che ciò accade frequentemente
all’uomo latino e che è l’attaccamento alla mamma, il quale raggiunge il suo vertice negli omosessuali. Per
cui il donnaiolo è simile a loro, ecco una spiegazione del paradosso. Gli uni e gli altri riducono a mamme
tutte le donne. (CERY, p. 63)
224
In ogni percorso terapeutico, oltre alla cura disintossicante, il paziente deve seguire un
programma di lavoro che risulti efficace nel raggiungere l’obiettivo fissato, ovvero la guarigione. In
questo processo Filippo Ciai è seguito nella clinica di Losanna dall’équipe di medici e infermieri
capeggiata dal Dottor Cantini, un nuovo antagonista che ingaggia con lo scrittore l’ennesimo round
del combattimento analitico in corso ormai da molti decenni. Cantini segue il metodo di lavoro
psicodinamico e durante le sedute riesce a evidenziare alcuni tratti della personalità dello scrittore, a
prima vista sorprendenti, che tuttavia non scuotono l’interessato.
«Dottor Cantini» proseguii. Cantini mi ascoltava attentamente, senza dar segni di fretta. «La mia vita
ha sempre costeggiato i burroni del sesso e delle sue varietà». […] Che ne diceva la psicodinamica? Il
Dottore tacque, a braccia conserte, interminabilmente, riflettendo sulla scomoda sedia. A tratti si grattava il
naso. Si alzò, andò verso la finestra, si volse di scatto, puntò il dito, esclamò: «Lei ha forti tendenze
omosessuali fortemente rimosse». «Dottore, questa rivelazione frequente non mi scuote affatto. È per caso
questo il mio problema? Non mi scosse affatto la prima volta che mi fu detta, in una sede autorevole come
questa. Che segno sarà?». Cantini fece ancora una volta il segnale di lasciar perdere, di non uscire dal
seminato. «La mia vita è marchiata dalla figura femminile. Un amico omosessuale di mia moglie, e il suo
giro, le hanno detto che io sono malato perché non ammetto la mia vera natura. Gentili». (CERY, pp. 74-76)
Il Dottore procede nella messinscena teatrale in modo istrionico con dei movimenti che sono
guidati dalle didascalie di un copione come dimostrano i verbi al passato remoto «si alzò… andò…
si volse… puntò… esclamò», mentre le frasi dei due personaggi stridono tra loro a causa della
solenne e sorprendente affermazione del medico che non scalfisce la sicumera del paziente per il
quale la verità rivelata è invece consueta. La rimozione delle tendenze omosessuali, di cui parla il
Dottor Cantini, si riferisce a quel processo inconscio che consente di escludere dalla coscienza
determinate rappresentazioni connesse a una pulsione il cui soddisfacimento sarebbe in contrasto
con altre esigenze psichiche. Freud distingue nella rimozione tre fasi: originaria, secondaria e
ritorno del rimosso. In un primo momento viene interdetto l’accesso alla coscienza dei
rappresentanti ideativi (pensieri, immagini, ricordi) della pulsione; in seguito avviene la rimozione
propriamente detta, ossia la repulsione da parte dell’Io o del Super-Io di rappresentazioni
incompatibili con le proprie esigenze; infine accade che gli elementi rimossi, che non vengono mai
soppressi dalla rimozione, tendono a ricomparire in forma deformata tramite i meccanismi dello
spostamento, della condensazione, della conversione, assumendo il tratto tipico dei sintomi. Lo
sviluppo dell’Io e l’adattamento all’ambiente dipendono dalla rimozione originaria, senza la quale
le pulsioni verrebbero scaricate immediatamente tramite l’esaudimento allucinatorio del desiderio.
Nello stesso tempo, una rimozione secondaria eccessiva condurrebbe a uno sviluppo difettoso
dell’Io e alla comparsa di sintomi; si ricordi a questo proposito che per l’epigrafe del Campo di
concentrazione Ottieri sceglie un’espressione del proprio medico curante Philippe Rupp: «La
volontà è un sintomo».
225
La letteratura di Ottieri è ricerca delle origini, delle cause, delle spiegazioni dei numerosi
sintomi che accompagnano le sue narrazioni. Sintomo come indizio di uno stato morboso,
fenomeno soggettivo avvertito dal paziente-scrittore che va poi decodificato e compreso in una
logica causale in cui si possano individuare cause patogenetiche (che provocano fenomeni) e
patoplastiche (che ne danno una forma). In ambito psicopatologico, il sintomo assume significati
diversi secondo i quadri teorici di riferimento all’interno dei quali avviene la lettura del disturbo
psichico. La letteratura di Ottieri rappresenta in gran parte questo sviluppo difettoso dell’Io di cui
parla Freud e la foresta di sintomi, che ne struttura la dinamica, permette di sviscerare il Male nelle
sue diverse forme, in un modo originale, un unicum che non trova riscontro per la sua disponibilità
tragica in nessun altro scrittore italiano: «Tutto ha complottato / perché divenissi pederasta /
secondo dottrina, / e un Edipo grave. […] Non sono un pederasta, ma dicono / che ne ho certi canali
cerebrali. / La mia mania della bellezza, / anche virile, è sospetta. / La mia mania dell’ebbrezza»
(PAD, pp. 84, 86).
Edoardo Albinati, sempre efficace e diretto nelle interpretazioni delle opere di Ottieri, gli
scrive riguardo a Cery: «Ho appena terminato Cery che mi pare il libro più bello dopo l’omerico
Poema osceno perché cristallino, veloce e tutto incentrato sul personaggio che dice IO. […] Credo
che tu abbia bisogno di essere sempre più quintessenziale, puro e narrativo». (27 giugno ’99)
L’amico Furio Colombo, non appena conclude la lettura del romanzo, commenta in questo
modo: «Non credo che Cery se ne andrà tanto presto. Devo ancora capire perché sembra leggero,
allegro, quasi lieto, con il peso che porta. […] C’è qualcosa di misterioso nella fabbrica di questo
libro. Forse è stata sfiorata la sbarra di plutonio del motore profondo». (1 ottobre ’99)
226
CAPITOLO TERZO. LA POLITICA
III.1 Memorie dell’incoscienza
Memorie dell’incoscienza, la prima opera pubblicata da Ottieri, esce nel ’54 presso la casa
editrice Einaudi, dopo numerose prove letterarie scritte nel periodo adolescenziale che non avevano
riscontrato i favori degli editori e nemmeno, in un secondo tempo, il gusto del giovane autore82.
Nelle Memorie Ottieri narra le vicende del giovane Lorenzo Bandini83, il primo di tanti suoi alter
ego, in un periodo cruciale della storia d’Italia, ovvero l’estate del ’43 dalla caduta di Mussolini del
25 luglio all’armistizio dell’8 settembre. La cronaca storica è fittamente presente nelle pagine
memoriali di Ottieri, il quale dimostra una particolare attenzione agli sconvolgimenti sociali in atto
negli anni conclusivi della seconda guerra mondiale, riflettendoli sulla psicologia del giovane
protagonista incosciente, incerto, inconsapevole delle cause e della soluzione della tragedia
personale e collettiva.
Il romanzo fu composto in due tempi, nel ’47 e nel ’51, così Ottieri ha potuto lavorare sia
sugli aspetti documentari del testo, sia sulla maturazione di Lorenzo dinanzi ai drammatici eventi
quali il disastro bellico, la guerra civile, l’amore non corrisposto per Katja, la morte della sorella
Elena. Ottieri, intrecciando il Male pubblico a quello privato offre una documentazione psicologica
di una generazione che, nata sotto il fascismo, vide in Mussolini il Padre della Patria, nel Regime
l’unica forma di Stato possibile e nella guerra la possibilità di un’evoluzione collettiva. Eppure
proprio quegli anni furono per Ottieri caratterizzati dall’incoscienza che, nella Nota dell’autore
scritta nel ’51 e posta alla fine del romanzo, egli definisce in questo modo:
Tengo molto al titolo di questo libro perché ho attribuito al termine incoscienza un significato
particolare e pregnante. L’incoscienza, qui, dovrebbe venire da inconscio (nel senso della moderna
psicologia del profondo), della cui azione quotidiana è il frutto; e sta a indicare non tanto la spericolatezza,
quanto una assoluta immaturità psicologica, un male senza colpa, eppure capace delle conseguenze più
disastrose. Tacciare qualcuno o un intero gruppo di uomini di incoscienza non è propriamente maledirlo, ma
82
«Ho scritto tre romanzi: uno alvariano, uno moraviano e l’altro pioveniano. […] Non li ho pubblicati e mai
lo farò. Spero che quando sarò morto non tireranno fuori queste opere giovanili. Anzi, lo escludo assolutamente perché
sono immature e echeggiano questi tre scrittori e poi creo che nessuno sappia neppure dove si trovino i manoscritti». In
«Milano metropoli», cit.
83
Con lo pseudonimo di Lorenzo Bandini, Ottieri invia il manoscritto alla casa editrice Einaudi. Italo Calvino,
che ne fu il primo lettore, lo giudica «un libro sincero» e Bandini uno «scrittore assai fine e insospettato […] per lettori
di palato fino».
227
respingerlo entro confini assai stretti, relegarlo a togliergli quella ingenua potenza che crede,
esibizionisticamente, di avere. […] In funzione dell’incoscienza, il libro […] dovrebbe lasciare
concretamente adito al progresso psicologico, personale. (MI, p. 216)
È indicativo il riferimento alla «moderna psicologia del profondo», poiché Ottieri iniziò a
studiare l’inconscio alla fine degli anni Quaranta grazie alla terapia seguita con il Dottor Cesare
Musatti, padre della psicoanalisi freudiana in Italia. Inoltre, come spesso accade, lo scrittore parte
da un dato autobiografico per inoltrare un’indagine accurata sulla (in)coscienza collettiva, riuscendo
in questo modo a esplorare in profondità una condizione di sofferenza storica determinabile nel
tempo e nello spazio. Oltre all’incoscienza, per quanto concerne la seconda parte del titolo, di
memorie Ottieri aveva parlato in alcune lettere giovanili indirizzate alle due amiche Tullia
Paolozzi84 e Dora Vallier85 in cui lo scrittore riverbera i tragici avvenimenti dell’estate del ’43.
Ottieri raccoglie le lettere a Tullia in un fascicolo con la didascalia «Frettolose memorie di Ottiero
rimasto a Tullia partita», mentre a Dora scrive: «Ti ho voluto un gran bene; ora ne conservo una
dolce-amara memoria».
Pur trattandosi del suo primo romanzo, Ottieri si dimostra uno scrittore già esperto,
considerato esordiente solo per la carta d’identità; e a questo proposito Pier Maria Bardi, direttore di
una casa editrice negli anni del regime fascista, che aveva letto le opere antecedenti alle Memorie
come L’eroe Daniele o Monsignore, rilevò nel giovane scrittore delle qualità importanti nel
panorama letterario italiano che gli avrebbero prefigurato un sicuro successo non appena Ottieri
avesse smussato le influenze alvariane o di altri autori stranieri:
Caro Ottieri, Le rinvio il manoscritto di difficile lettura, […] ma le pagine che ho letto mi danno la
convinzione che Lei è nato narratore. […] Tra un paio di anni tenti di scrivere un nuovo romanzo. Il romanzo
che scriverà allora entrerà sicuramente nella storia letteraria contemporanea. Lungo questa strada avrà
perdute le influenze alvariane, e alcune letture straniere che, ora, lo hanno un po’ ossessionato, saranno
digerite. La sostanza del suo romanzo è forte, gli elementi tragici sono di una bellezza che raramente si
riscontra nelle pagine che si leggono nella letteratura italiana di oggi; anche il suo discorso sociale è elevato
e dà la misura della sua cultura elevata. A un mio amico, molto esercitato nella critica, Lei è sembrato uno
scrittore già esperto e anziano. (26 maggio ’43)
84
Tullia Paolozzi era una giovane ragazza, figlia di amici di famiglia, che soggiornava spesso a Chiusi. Ottieri
con Tullia, oltre ad una relazione sentimentale, ebbe un’importante corrispondenza epistolare, come attestano le lettere
conservate nell’archivio con le date 8-14 settembre 1943 e la didascalia «Dalla resa delle armi alla resa, o quasi,
dell’ultimo respiro». In queste lettere Ottieri racconta lo stato di estrema confusione in cui versava il paese per le
contrastanti notizie di inizio settembre riguardo l’armistizio e il nuovo rapporto con i tedeschi, i quali avevano nel
frattempo occupato Chiusi per costituirvi un «centro di resistenza». Inoltre Ottieri le confida le correlazioni dolorose
incipienti nel proprio animo tra la tragedia pubblica e il disagio esistenziale: «I timori dell’animo mio mi schiacciano le
giovanili speranze». Tullia gli servirà per strutturare, solo in parte, il personaggio di Rita nelle Memorie.
85
Critica d’arte di origine bulgara, Dora Vallier, nella convulsa estate del ’43, conobbe Ottieri a Roma dove
risiedeva al seguito della famiglia. Il giovane scrittore s’invaghì della ragazza dal fascino «slavo» trasferendola nel
personaggio di Katja N. del romanzo.
228
I modelli letterari di riferimento cui il giovane Ottieri attinse a piene mani furono Alvaro,
Piovene e Moravia che lo influenzarono nella scrittura dei primi romanzi, d’allora mai pubblicati:
«Ho avuto tre modelli all’inizio, che ho copiato: Alvaro, Piovene e Moravia. Ho scritto tre romanzi:
uno avariano, uno moraviano e l’altro pioveniano, ma sono rimasti lì nel cassetto» (in «Milano
Metropoli»).
Lo scrittore che sembra già «esperto e anziano», durante stesura iniziale delle Memorie ha
ventitré anni, alla pubblicazione trenta, immette nella pagina una novità di tono rispetto al modo di
narrare un argomento che, tra romanzi e cinema neorealista, era al centro delle riflessioni di molti
scrittori e sceneggiatori. Grazie alla proiezione psicologica e attraverso l’inconscio personale e
collettivo in un clima culturale che si stava aprendo agli studi psicoanalitici, il romanzo di Ottieri
non passò inosservato. Ad esempio Giacinto Spagnoletti in due lettere inviate all’autore, oltre ad
attestagli la propria stima, individua alcuni elementi essenziali della sua poetica come la tendenza
psicoanalitica, il crepuscolarismo, la connessione tra il Male pubblico e privato:
Caro Ottiero, mi giunge il tuo romanzo; e ora non so che dire. Sono contento due volte. E penso a te
che ormai sei uno scrittore, anche se ti tratteranno da esordiente, da giovanissimo etc… Io ti considero uno
fra i più maturi e sinceri fra gli scrittori di questi ultimi anni. (19 marzo ’54)
Caro Ottiero, a me pare che queste cose risentano di una condizione di spirito (in particolare di una
condizione psicologica), che, uscita dalla cameretta della clinica (faccio i debiti scongiuri che per cento anni
non ci ritorni), continui a manifestarsi. È uno scompenso per chi scrive. […] Letterariamente è il tono che
s’otterrebbe mescolando versi crepuscolari a prose esistenzialistiche con qualche franamento psicoanalitico.
Il fatto è che tu dici delle cose tanto vere, vere non solo per te, che anche in questa forma spuria sono
accettate. (16 aprile ’54)
Calvino, individuando in Ottieri notevoli doti di romanziere, lo propose a Vittorini che,
come direttore della sezione di Milano della Einaudi, si occupava dell’analisi dei manoscritti per
eventuali pubblicazioni. Anche se con qualche riserva prontamente fugata di ordine politico,
Calvino sponsorizza il giovane scrittore ancora sconosciuto e di questo fatto Ottieri gliene sarà
sempre riconoscente.
Caro Elio, ti scrivevo per dirti che ho parlato con un certo Ottieri, nipote di Bompiani, di cui ho letto
un manoscritto ch’era stato raccomandato a Giulio solo per avere un giudizio. Il libro a me sembra notevole,
come ho scritto nel mio giudizio che lui stesso ti farà vedere, perché verrà da te a proporti la pubblicazione
per i Gettoni. Le mie perplessità o curiosità erano su un punto: l’autore è ancora un po’ fascista o no? O
meglio, il libro, comunque siano le intenzioni dell’autore, può far piacere ai nostalgici? Da quel po’ che ho
discusso con l’autore, e riflettendo anche sul libro, mi pare che fossero infondate e che il libro sia da fare.
Come tipo di narrativa è sulla linea di Del Buono, ma molto più bravo. (7 novembre ’52)
Per una casa editrice come la Einaudi, punto di riferimento della cultura di sinistra negli anni
Cinquanta e basata sull’intreccio politico-culturale inscindibile fin dai tempi del primo direttore
229
Leone Ginzburg, pubblicare un romanzo nostalgico del ventennio fascista sarebbe stata una mossa
azzardata e non in linea con le inclinazioni politiche dei vari Einaudi, Vittorini, Calvino. Ma come
aveva rivelato lo stesso Calvino, il romanzo di Ottieri partiva da eventi storici inconfutabili e quello
che emergeva nella scrittura non era soltanto il mero dato storico, bensì la maturazione psicologica
del personaggio nella generale incoscienza collettiva. Il dubbio di un Ottieri ancora fascista fu
confutato dallo stesso Calvino dopo aver conosciuto alcuni aspetti della biografia di Ottieri che in
gioventù era sì stato fascista, come molti ragazzi nati negli anni Venti che aderirono inconsciamente
al fascismo, ma solo per imitazione di atteggiamenti paterni.
Avevo undici anni all’inizio della guerra di Abissinia, per la grande adunata del 2 Ottobre 1935,
durante gli scioperi scolastici per le vittorie, per l’Amba Aradam… Tredici durante la guerra in Spagna, e
odiavo i rossi che bruciavano le chiese; non dubitavo affatto che la ragione e il bene fossero dalla parte di
Franco. Avevo quindici anni all’inizio della seconda guerra mondiale, ventuno al suo termine. Il fascismo mi
ha circondato la giovinezza, e anche nell’infanzia. […] I ragazzi sono i più fanatici di tutti; la loro fede,
derivata dal padre o da un primo contrasto con lui, è la più acerbamente totalitaria. (LG, p. 86)
Il giovane Ottieri si entusiasmò per la conquista dell’Abissinia provando orgoglio e onore
nei confronti di una Patria che lottava contro le grandi potenze europee per conquistare anche lei un
“posto al sole”; in seguito le sanzioni e l’embargo imposti nel ’36 dalla Società delle Nazioni, in
risposta all’offensiva militare italiana in Etiopia, rinsaldarono con maggior vigore gli animi
soprattutto dei più giovani che si sentirono accerchiati dagli altri Stati con l’impossibilità di attuare
la legittima espansione territoriale: «Consideravo le dittature rivoluzioni contro il quietismo scettico
e borghese, la patria una forma entusiasmante di coscienza morale» (MI, p. 8). In molti di loro
tuttavia, e Ottieri rientra nel novero, l’entrata in guerra dell’Italia e le successive catastrofi belliche
fecero emergere una profonda disillusione nei confronti delle speranze tradite che lo scrittore
avrebbe raccontato nelle opere successive dalla Linea gotica all’Irrealtà quotidiana al Padre,
riflettendo con sguardo assai critico su alcuni aspetti della propria adolescenza fascista:
Noi ragazzini abbiamo creduto al fascismo perché era carico di frecce pseudo-rivoluzionarie. Questo
è difficile da spiegare. (LG, p. 29).
Anche il giovane Lucioli era fascista. Come sarebbe venuto fuori più tardi, lo era per un tipo di
rapporto magico (nevrotico) con il pare, con Colui che risolve tutto (cioè il Duce). […] Dopo le prime
crisette mistico-puberali, Lucioli cominciò a infiammarsi per la guerra in Abissinia e il Duce, a 12 anni. Il
misticismo fu prontamente rimpiazzato dal patriottismo imperialistico. (IQ, p. 168)
Il rancore per la disinformazione / fu la prima freccia al petto / che mi fece gettare sul prato /
dell’antifascismo sfrenato. (PAD, p. 50)
La prima e l’ultima frase delle Memorie delineano un periodo storico ben definito:
«Cominciava un’altra estate, quella torrida del 1943» (MI, p. 7) e «Le cose sono cominciate a
230
cambiare» (MI, p. 214). Ottieri ricorda quei tragici mesi pre-armistizio attraverso lo sguardo di un
alter ego, il diciannovenne Lorenzo Bandini che, tra Roma e Chiusi, osserva con struggimento la
catastrofe sovrastante l’Italia mentre s’innamora di ragazze sfuggenti, Katja e Rita, iniziando un
percorso di maturazione psicologica che lo porterà alla nevrosi e a un convinto antifascismo.
In quel periodo avevo diciannove anni, la mia vitalità si esprimeva attraverso una grande smania
cerebrale ed ero molto retorico. Avevo ancora una sostanziale sicurezza di me, perché nel conto della stessa
esuberanza intellettuale mettevo sia i miei migliori pensieri, sia la paura di vivere, la vergogna per essere
incompreso, i desideri insoddisfatti, le umiliazioni e le lotte che spesso gli adolescenti si inventano. (MI, p. 8)
Ottieri da questo romanzo d’esordio utilizza degli espedienti letterari che gli saranno utili
fino all’Irata sensazione conclusiva; uno di questi è la narrazione effettuata attraverso un alter ego
su cui filtrano elementi autobiografici per offrire, con libertà e schiettezza, frammenti di sé che non
evaporano nel tempo e si concretizzano nella carne viva del testo. In questo modo Ottieri può,
meglio dei vari analisti che lo curavano, osservare in profondità le proprie inquietudini per renderle
intelligibili sulla pagina, adoperandosi come l’analista di se stesso con determinazione e a volte
anche durezza. Il primo aspetto della sua scrittura che emerge è l’autoritratto che Ottieri compie in
ogni opera, e nella maggior parte dei casi l’autore non lesina critiche mettendo in risalto le
idiosincrasie, le infezioni psichiche, il Male congenito, la depressione; sintomi riassumibili nel Male
dell’anima che sarà sviscerato da ogni prospettiva nei testi successivi: «Non voglio fare confusione
tra male nevrotico e male del vivere. Il male dell’anima, quale che sia, non m’incanta, mi blocca. E
sono fra quelli che debbono credere che si possa estirpare» (LG, p. 23). Quando scrive di Lorenzo,
Ottieri è un ventenne che avverte con forte partecipazione una «grande smania cerebrale» consueta
nell’ultima fase adolescenziale; eppure nella letteratura di Ottieri di ordinario c’è ben poco e le
parole vengono dosate con accortezza e perspicacia retorica. La prima indicazione che l’autore offre
di questo suo alter ego è un disagio psichico sofferto fin dalla prima età e ricorrente nella sua
poetica. Per tutto il romanzo non vi è alcuna descrizione fisica di Lorenzo e il primo attributo
riguarda il cervello, luogo deputato ad accogliere i futuri stati d’irrealtà quotidiana mentre gli altri
tasselli rinviano alla paura di vivere e a sentimenti quali l’incomprensione, l’insoddisfazione,
l’umiliazione.
Nelle lettere che Ottieri inviava negli stessi anni della stesura delle Memorie a Giovanni
Sartori (Vanni), Fabrizia Baduel, Tullia Paolozzi, Dora Vallier, Francesca, si percepisce nello
scrittore una maturità intellettuale e una sensibilità psicologica sorprendente per un ragazzo di
appena vent’anni. Le sofferenze psichiche, i difficili rapporti con i genitori, la prigionia di Roma e
di Chiusi, la passione per la letteratura, gli stravolgimenti storico-politici, gli amori, l’incipiente
difficoltà di vivere, le disillusioni personali e collettive sono gli argomenti principali che Ottieri
231
tesseva nelle lettere con una notevole capacità espositiva e con risultati convincenti per stile e
contenuto. Le Memorie acquistano maggior importanza partendo da questa proiezione
autobiografica, più psicologica che meramente legata agli eventi, poiché Ottieri coagula nel
Lorenzo-personaggio una parte consistente della propria adolescenza; e inoltre le Memorie sono
l’unica opera in cui egli riesce a proiettare l’esuberanza intellettuale degli anni giovanili mentre li
sta vivendo. Il giovane Ottieri assorbe in sé gli spasimi di un periodo particolare, la fine
dell’adolescenza, incanalandoli in una pericolosa alternanza di sentimenti che, se lo fanno apparire
come un ragazzo originale e pieno d’ingegno, possono condurlo alla disperazione e a stati
d’agitazione continua. Ottieri riesce a coagulare in Lorenzo queste condizioni psicologiche senza
intermediazioni, anzi trovando nella pagina il luogo più idoneo per osservare, anche
oggettivamente, la propria vitalità psichica. Sebbene nelle Memorie Ottieri dimostri, rispetto ai
lavori più maturi, una certa leggerezza espositiva nell’affrontare per la prima volta tematiche
complesse come il Male di vivere, esse rappresentano il primo tentativo di tradurre in letteratura
quella profonda disperazione mista a ironia che gli permetterà di esser riconosciuto come un caso
letterario specifico, se non unico, nella letteratura italiana.
Io ero molto agitato, il solito esaltato che lei conosceva bene. […] I giorni passavano uguali senza
crescere l’uno sull’altro, alcuni nella speranza, altri nella solitudine. […] La mia vita è attorcigliata come una
corda. […] Attorno a me la solitudine. […] Isolato dagli altri, mi sentivo cadere in un pozzo. […] Ero
ansioso, finché lentamente divenni stravolto. (MI, pp. 13, 21, 35, 36)
In una lettera scritta all’amica Dora Vallier, ispiratrice di Katja, Ottieri analizza il proprio
essere rivelando angosce, idiosincrasie, speranze che si condenseranno in Lorenzo:
Cara Dora, io, lo sai, sono un essere, se voglio universale (non ho patria, non ho Dio, non ho fede,
non ho lingua; mi posso confondere e smarrire con l’attimo misterioso e ineffabile che sta all’origine della
vita, il soffio del creatore, il nucleo, il granello di sabbia che muove l’esistenza). Ma sono molto giovane,
conosco poco il mondo. Impossibile spiegare e scrivere. (Settembre ’43)
In Ottieri fin dall’adolescenza presentava un evidente contrasto tra il quieto aspetto esterno
di un giovane molto tranquillo e l’irrequietezza interna. Lo scrittore evidenzia spesso nelle sue
opere questa discrepanza sottolineando lo stupore delle persone appena conosciute che non
riuscivano a immaginare tanta disperazione dietro una maschera così placida e flemmatica:
«Imparai a essere calmo, buono, imperturbabile agli altri. Tuttavia il soffocamento, di nascosto,
saliva o calava col solo spostarmi da una stanza all’altra, da una sedia all’altra» (MI, p. 88); mentre
in una lettera del 28 aprile ’47 scritta a Fabrizia Baduel, dunque contemporanea alla prima stesura
232
delle Memorie, Ottieri rivela: «Io che ho l’aspetto così serio e pacato, nell’intimo sono un
anarchico, e mio malgrado».
Attraverso un’analisi psicoanalitica, Elena, la sorella del protagonista, si sofferma sui
cambiamenti d’umore e sui momenti d’azione che si riassumono nella sindrome bipolare,
importante per comprendere le assuefazioni di Lorenzo: «“Non posso vederti così esaltato e triste.
Se continui così andiamo da un medico”. […] “Non sono mica pazzo”. “Macché pazzo, sei solo
esaurito”. […] “Ci andremo insieme”. “Dentro il manicomio?”» (MI, pp. 143-144). Elena fa
riferimento al Dottor Caprile, il primo di una lunga serie d’incontri che i personaggi di Ottieri
avranno con medici, psichiatri, psicologi ecc. La pazzia e la conseguente visione del manicomio
vengono proposti fin dal primo romanzo per diventare dei motivi strutturali delle opere ambientate
nelle cliniche. Inoltre, un momento topico che interesserà lo scrittore riguarda lo sguardo del malato
rivolto alla clinica che sarà su una collina a Zurigo, nelle periferie delle città, oppure un po’
nascosta tra gli alberi delle Betulle, e mai osservata soltanto come una clinica giacché il pensiero si
contorce in altre meditazioni scorgendovi un convento, prigione o albergo: «Appariva in
lontananza, che dominava da una collina, il grande edificio rossastro e merlato del manicomio,
simile a un convento. Noi scendemmo in basso, verso i villini e i giardinetti, per strade di oleandri.
Dopo lunghe ricerche in quell’aggraziato labirinto, scovammo il villino del Dottore» (MI, p. 145).
Lorenzo recita il primo atto di una tragicommedia letteraria che durerà quasi cinquant’anni
nella quale Ottieri racconta le proprie esperienze, dolorose, ironiche, grottesche, sentimentali
vissute all’interno delle cliniche in cui soggiorna mescolando sapientemente dramma e ironia,
malattia mentale e dongiovannismo senile, autobiografia e letteratura: «Poi entrammo nel gabinetto
delle visite, candido, al cui centro attendeva un ordigno di ferro e di cuoio, un letto poltrona. Questo
era un buon segno; significava che contro il dolore dell’anima c’era una organizzazione clinica e me
ne rallegrai. Le guarigioni dovevano essere previste» (MI, p. 146). In queste poche righe delle
Memorie s’irradiano dei motivi cardine della letteratura di Ottieri relativa al rapporto con la malattia
mentale: lo studio medico per le visite, il lettino che anticipa il Gurt minuziosamente descritto in
Contessa (CON, p. 39), lo studio sulle sofferenze dell’anima, la progettazione clinica agognata e
temuta con in prima linea i medici avversari del paziente il quale istaurerà con loro celebri lotte
analitiche, e infine le guarigioni sperate nel corso dei decenni e mai concretizzatesi. A colloquio con
il Dottor Caprile, il giovane Lorenzo spiega per la prima volta, non solo nel romanzo ma nella
letteratura di Ottieri, cos’è per lui quel “cancro dell’anima” che lo spinge all’idea del suicidio: la
depressione: «Per liberarmi dalla malinconia, dalla depressione, ho pensato che ci fosse un mezzo
unico… lei, Dottore, ha già capito, un mezzo che non è davvero nuovo… anzi, è notissimo… lei
saprà… il suicidio. […] Il suicidio è diventato la mia idea fissa» (MI, p. 147).
233
Oltre alla depressione, la sindrome bipolare riguarda il disturbo che ha caratterizzato
l’esistenza psichica di Ottieri il quale si considerava «un bipolare rapido, l’uomo più analizzato
d’Italia» (in E liberaci dal male oscuro). Si tratta di un’affezione caratterizzata da gravi mutamenti
dell’umore, riferita alle emozioni, pensieri e comportamenti, che provoca un’alternanza di euforia e
disperazione attraverso il passaggio repentino dal paradiso della fase maniacale all’inferno dello
stadio depressivo, anche più volte durante la vita. In molti casi la fase maniacale è caratterizzata da
umore disforico, con una sensazione d’ingiustizia subita e quindi grande irritabilità, collera e
intolleranza cui si accompagna un comportamento aggressivo, con scarsa capacità di valutare le
conseguenze delle proprie azioni. Le fasi depressive, invece, seguono spesso quelle maniacali e si
caratterizzano per l’umore molto basso con la sensazione che nulla interessi né possa dare piacere,
perdendo il significato della vita che appare profondamente doloroso. Inoltre il sonno e l’appetito
possono aumentare o diminuire, e si provano sensazioni di spossatezza insieme a una grande
difficoltà nel concentrarsi. A volte da una fase si passa immediatamente all’altra, mentre in
differenti circostanze intercorre un periodo di umore normale; tuttavia le fasi depressive, più
frequenti, durano di solito più di quelle maniacali, mentre l’abuso di alcol o droga si associa spesso
al disturbo bipolare e lo può peggiorare fino al suicidio o ad atti autolesionistici.
Sommandosi i giorni, arrivai all’idea del suicidio. […] Avrei voluto suicidarmi, ma sopravvivere al
suicidio, e certamente tale contraddizione mi indeboliva. Mi occupai della scelta del mezzo con cui darmi la
morte. […] Ho la mania… la mania di morire… di suicidarmi. […] Intanto io già pensavo alla logica del
suicidio. Consisteva nella sicurezza – finta – che ormai il suicidio non fosse una decisione disperata, ma
l’unica soluzione corretta della mia esistenza. […] Provavo nostalgia del suicidio poiché la disperazione che
vi porta per la prima volta, veduta da un’isola, è un elemento mosso e attraente, una tempesta luccicante.
(MI, pp. 97, 105, 142, 143, 157)
Il motivo del suicidio sarà un marchio di fabbrica della letteratura di Ottieri, il quale fin dal
primo romanzo getta le basi per evolvere il significato psicologico del gesto estremo. Dall’Irrealtà
quotidiana al Campo di concentrazione, da Contessa alla Corda corta, dal Divertimento a Cery,
passando attraverso l’alienazione industriale e la mondanità degli anni Sessanta, il suicidio è sempre
contemplato dai suoi personaggi che si affidano a esso come «l’unica soluzione corretta» (MI, p.
143) della loro esistenza. Lorenzo ha avuto dunque il merito di indicare un cammino in cui verrà
largamente seguito, e tra le diverse interpretazioni del suicidio, sociologica, filosofica e clinica, in
lui s’intuisce un tentativo di trovare l’estrema significazione della vita; così che l’atto si presenta
quale gesto vendicativo e riparativo, una vendetta e un’espiazione, recitando il suicida il doppio
ruolo di colpevole e vittima innocente all’interno di meccanismi sociali in cui egli non si sente
integrato in modo adeguato.
234
Durante la scrittura delle Memorie, Ottieri teneva un’importante corrispondenza epistolare
con l’amica Fabrizia Baduel e in alcune lettere lo scrittore spiega in modo dettagliato le proprie
afflizioni che trasferirà nel personaggio di Lorenzo, la sua prima proiezione letteraria. Si può
constatare a posteriori come Ottieri abbia tratto giovamento da questo modus operandi, ovvero
esprimere attraverso un alter ego aspetti rilevanti della propria vita; e poiché si tratta del primo
tentativo, Lorenzo in questo senso gli servì da cavia.
Carissima Fabrizia, la mia vita è piuttosto instabile (23 giugno ’46). Faccio una brutta vita,
nonostante le apparenze. Ma spero sempre di uscire fuori e di essere allegro un giorno (marzo ’47). Dubbi
sull’avvenire in quantità impressionante (15 aprile ’47). Purtroppo la mia vita è poco lieta, gli ultimi due o
tre anni mi hanno scosso e logorato (27 aprile ’47). Ho la testa come un pallone. Di lettere, telefonate,
progetti e dubbi. Non potevo cacciarmi in un’esistenza più malcerta e scombussolata (28 aprile ’47). La mia
vita è una condizione estrema, di esilio. Ho lucidissima davanti agli occhi la strada della rovina, tutti i giorni
la tocco con mano e la conosco, l’ho sperimentata. […] Tu non appartieni al mio inferno. […] Sono
disabituato alla quiete. […] I congegni del mondo ai miei occhi si sono un poco storti (20 maggio ’47). Mi
sento stordito e leggermente depresso (1 giugno ’47). Se ti dicessi che sono calmo e sto bene, mentirei. Ho
alcuni momenti di soffocamento e solitudine (9 giugno ’47). Se Dio vuole, la mia falsa maturità si è
sgonfiata. […] Scrivo con difficoltà, perché mi muovo con difficoltà tra questi gineprai. […] Perdonami la
lunga autobiografia, sopporta il mio egoismo (15 giugno ’47). Spero di essere tranquillo nei prossimi mesi
per fare qualche passo avanti. Scusa se mi preoccupo tanto di me medesimo, ma sono un essere disastroso
che ha molto bisogno di cure, blandizie etc. (3 luglio ’47). Devo combattere contro momenti di vera
disperazione e di tetraggine (10 luglio ’47). Sono un nemico acerrimo del dolore e farei qualsiasi cosa per
distruggerlo in me e negli altri. Purtroppo noi siamo condannati a produrlo continuamente in noi e negli altri
e spesso a considerarlo come il lievito della vita (17 luglio ’47). Io passo un periodo di forte isolamento e
aridità, dovuti al non aver trovato ancora una sicura capacità di affetti. Anni di solitudini mi hanno colpito
più di quello che credessi, e stento a recuperare l’equilibrio perduto. […] Oggi vedo che l’inferno non è per
nulla scongiurato (agosto ’47).
Da queste confessioni giovanili, da Ottieri inserite in epistole dal carattere già letterario,
emergono due elementi significativi: chi scrive ha ventitré anni ma dalle profonde riflessioni si
riflette l’animo sofferente di un uomo più maturo; e inoltre Ottieri dimostra una lucidità particolare
nell’individuare i sintomi del Male che lo affliggevano, quasi certificando una consuetudine
rinsaldata nel tempo. Ma oltre tali interpretazioni, si può constatare in Ottieri la precoce volontà
letteraria attestata dalla forma romanzesca dell’epistolario giovanile dove si comprende la notevole
eredità culturale di alcuni autori amati dal tempo del liceo, in particolare Foscolo (Ortis) e Leopardi
(Zibaldone). Ottieri è scrittore sempre, ancor prima di pubblicare le Memorie, poiché in lui la
commistione tra vita e letteratura si è fusa in modo indissolubile già nell’adolescenza: «Mi accade
di vivere esattamente il dramma che descrivo. […] Ecco, direi, il descritto è identico al vissuto»
(IQ, p. 15). Le sue lettere giovanili, e in particolare la corrispondenza con Fabrizia, sono dunque
materia da romanzo dove si presentano dei motivi come il tempo e l’inferno che Ottieri propone
nelle Memorie.
235
Ormai per noi il tempo non contava più. […] La prima cosa a mutare fu il tempo, non quello del
cielo, ma quello dell’orologio. Eterno, ogni minuto ne conteneva tre. Così dalla mattina si arrivava a fatica
alla notte. […] Il tempo passava per me con straordinaria lentezza. […] Il tempo non passava mai, e siccome
l’angoscia, non avendo più bisogno di uno stimolo vivo e nuovo, si riproduceva da se stessa, doveva esserci
dentro di me una parte sconosciuta che la riforniva. […] L’assillo peggiore è il futuro, la sensazione che ho
del tempo… Meditavo ancora sul tempo. Il tempo si dovrebbe considerare dall’alto, come quando tutto è
passato. (MI, pp. 11, 36, 81, 87, 95)
In Ottieri il tempo modifica le sue peculiarità in rapporto agli ambienti in cui svolge un
ruolo predominante: stretto nell’industria, fatuo nella mondanità, sofferente nella malattia; e per
questo, emblematici sono i titoli scelti dall’autore per darne maggior rilievo, da Tempi stretti al
Tempo ammalato, un paragrafo dell’Irrealtà quotidiana, alla distillazione di dolore nel Campo di
concentrazione: «Guardo sempre l’orologio e il tempo non passa mai. […] Spesso, mentre il tempo
non passa mai, guardo l’orologio affinché il tempo non passi» (CC, pp. 11, 47).
A eccezione di qualche fugace apparizione a Roma, Lorenzo trascorre l’estate del ’43 a
Chiusi, nella «fascia rossa sopra la civiltà etrusca» (LG, p. 48), nell’antico Palazzo al centro del
paese, in Via Porsenna all’incrocio con Via Petrarca, in cui si svolgono anche le imprese narrate nel
Palazzo e il pazzo mezzo secolo dopo (nel ’93). Chiusi fin dalle Memorie prende il nome
«Belverde», località di campagna a pochi chilometri dal paese dove si trovavano possedimenti
agricoli della famiglia Ottieri e una villa ricordata in alcuni versi del Palazzo e il pazzo: «Passava
per la strada / dall’infanzia e giovinezza, / andavo da Villa a Palazzo, / dalla madre alla nonna, /
dalla nonna alla madre. […] Corsi alla Villa; / era la mia antica / isola, un falso castello / separato
da grandi piante della terra» (PAL, pp. 11, 49).
Ottieri discende da una famiglia di proprietari terrieri di antica nobiltà senese ritiratasi a
Chiusi; poco dopo il matrimonio, il padre Alberto Lucioli Ottieri della Ciaia e la madre Ida Paci,
nata a Cetona un paese vicino, si trasferirono nel ’23 a Roma dove l’anno successivo nacque lo
scrittore il quale trascorse la giovinezza nella Capitale passando lunghe estati a Chiusi, tra il palazzo
avito al centro del paese e la villa di Belverde attigua a una piccola azienda agricola, insieme ai
genitori, ai nonni paterni Lucrezia e Quintilio, ingegnere già sindaco di Chiusi all’inizio del secolo,
agli zii e ai loro figli, cugini a lui coetanei: «Andai a Belverde nella vecchia casa della famiglia, che
Elena possedeva a metà con il cognato. Non sapevo che ci avrei dovuto passare tutta l’estate.
Belverde è in Toscana, confina con l’Umbria e con il Lazio, e sta sulla collina che chiude in basso
la Val di Chiana» (MI, p. 22). Nelle sue opere Ottieri non sembra serbare un felice ricordo del paese
per la mentalità ottusa degli abitanti e le abitudini diverse dall’ambiente della Capitale da cui
proveniva:
Il paese mi deluse, sciatto, arido, disincantato da un altro anno di guerra, come spalmato di un colore
bianchiccio. […] Triste condizione del paese senza lumi che la guerra aveva rinsecchito. […] Il paese
236
perduto, anarchico. […] Il paese appariva gretto e meschino […] Anche io preferivo vivere lì che nella mia
camera, posta al di là di una immensa sala nera, centro di tutto il palazzo. […] Tutto il paese era vecchio,
senza scopo. […] Tutti i piccoli paesi sono così; è duro abituarsi alle gretterie, alle meschinità della
provincia. E a questa vergogna. (MI, pp. 22, 25, 33, 42, 43, 120)
Oltre all’insanabile frattura tra chi proviene dalla città soggiornando al paese dei nonni solo
nei mesi estivi e coloro che invece ci vivono tutto l’anno, l’aspetto più inquietante sul quale Ottieri
pone l’attenzione riguarda, anche a distanza di decenni, l’amministrazione della terra, i conti, i
numeri, la gestione del patrimonio di famiglia, il rapporto con contadini, mezzadri, mugnai che il
padre tentò di svelargli fin dall’adolescenza trovando però delle insormontabili ritrosie da parte del
ragazzo: «I lavori agricoli dell’estate, la mietitura e la vendemmia, i discorsi su quei lavori, la salute
dei bambini e le nascite dei maiali, ci avvolgevano di noia» (MI, p. 117). «Mio padre, a tratti, / mi
portava con sé nei poderi. / Quando diceva: Domani ai Pozzarelli, / dopodomani al Toppo, / mi
metteva in un sottile / terrore di noia, che non doveva apparire» (PAD, p. 96). Nelle Memorie la
gestione del Palazzo e delle terre è affidata all’antifascista Claudio, il cognato di Elena.
Claudio curava anche gli affari di mia sorella e dirigeva l’amministrazione della campagna. […]
Lasciò d’un tratto la camera, per spostarsi nel suo studio dove avrebbe cominciato a controllare i conti e poi
ricevere la gente del paese, che faceva capo a lui. Era una piccola, noiosa processione fuori della sua porta.
Lo aspettavano due contadini, il fattore e il mugnaio. […] Giovanni, un uomo svelto, ma che parlava
precipitosamente, s’inceppava. […] Subito Claudio disse che andava bene e gli fece la promessa, per
cominciare meglio con Giovanni un lunghissimo discorso sui lavori del podere. (MI, pp. 22, 25)
Nel personaggio di Claudio è filtrato il ricordo del fratello del padre di Ottieri, dunque suo
zio, liberale e antifascista che insieme alla moglie si era opposto al Regime e che nel periodo del
tracollo bellico era appagato della fine del fascismo: «Claudio amava il paese, amava di esserne
stimato. Egli diceva male del regime da anni, contro la vittoria, la guerra, i tedeschi. Per il resto era
uguale agli altri. Per questo forse rispettavano il suo ostinato antifascismo» (MI, p. 23). «Il fratello
di mio padre era liberale, / vestiva da inglese, / lo snobismo di mia zia era di razza / anglofila, /
godeva d’ogni sconfitta / dell’Esercito Italiano» (PAD, p. 94).
Ma oltre alla terra, Ottieri pone l’attenzione su ciò che vi sta sotto, e in un passo del
romanzo Lorenzo, durante una conversazione con la moglie del sindaco e l’amico Costa nei giorni
successivi all’armistizio, tocca un argomento sensibile tra lo storico e l’archeologico: le origini
etrusche della città e la presenza della tomba di Re Porsenna addirittura sotto le fondamenta del
Palazzo antico.86
86
Chiusi, in etrusco Clevsin, il cui territorio è storicamente abitato dal XI a.C., fu una delle più importanti città
dell’Etruria Settentrionale, come è confermato anche dalla tradizione che vuole il re chiusino Porsenna alleato con
Tarquinio il Superbo per assalire e conquistare Roma. Dell’antica città etrusca non resta quasi nulla e le testimonianze si
237
«Ma qui ci sono gli etruschi!» scoppiò ironicamente Isabella. «Lei dimentica gli etruschi! Lei ignora
che sotto la mia sedia a sdraio, sotto i suoi piedi, sotto i piedi di Lorenzo, c’è una tomba, un tesoro, forse la
tomba di re Porsena?!». «La tomba e il tesoro di re Porsena» ribattei, «sono notoriamente sotto la mia
casa…». […] «E allora, Lorenzo, ecco che bel problema, […] o distruggere il vostro palazzo o rinunciare a
Porsena». «Distruggere il palazzo» dissi. (MI, p. 121)
Per quanto riguarda la tomba e il tesoro, Lorenzo si riferisce al labirinto di Porsenna formato
da una serie di cunicoli di probabile epoca etrusca che intersecano quasi tutta Chiusi vecchia, e che
furono scavati con lo scopo di drenare le acque piovane. Nel labirinto, tuttavia, non fu ritrovata la
mitica tomba di re Porsenna, da cui l’ironico «notoriamente» di Lorenzo, che secondo Plinio il
Vecchio era stato sepolto sotto la città di Chiusi in un monumento dal basamento di novanta metri
di lato e che racchiudeva un labirinto sormontato da piramidi e da una copertura di bronzo: «Mi
creda, Costa, gli etruschi sono la nostra rovina. Se lei scopre sotto terra i loro teschi, i loro cocci,
qualche rara volta i loro ori, le porteranno disgrazie, malattie e fallimenti. Ma la disgrazia peggiore
è che il belverdini di oggi assomigliano in modo impressionante ai belverdini etruschi, sono avidi,
pessimisti e cinici. Io ci soffro. Molto…» (MI, p. 121).
Lo sfondo storico in cui Ottieri ambienta le sue Memorie riguarda l’estate del ’43, dal crollo
del Regime all’armistizio, periodo vissuto con partecipazione dal protagonista Lorenzo che, deluso
per le sconfitte maturate durante il conflitto, ripudia il fascismo adolescenziale come stato
d’incoscienza personale e collettiva. Egli trascorre quei mesi estivi tra Roma e Chiusi, mentre la
catastrofe si stava abbattendo sull’Italia che proprio a seguito dell’armistizio vivrà all’interno dei
suoi confini la concretezza della tragedia bellica con distruzioni di città e la guerra civile. Per Ottieri
si tratta di vere memorie poiché, se la trascrizione romanzesca inizia nel ’47, già all’epoca dei fatti
lo scrittore riversava nelle lettere agli amici la disperazione vissuta quotidianamente evidenziando
una particolare commistione tra la tragedia pubblica e quella privata, tra il conflitto e il pessimismo
esistenziale, tra la guerra civile e l’angoscia di vivere. In primo piano Ottieri non vuole rilevare
l’orrore della guerra in sé, bensì la fragilità morale di un popolo osservata con preoccupazione da
una prospettiva antropologica che si evolverà nel tempo permettendo a Ottieri di tracciare una
discesa negli inferi attestata dall’Estinzione dello stato fino al fallimento della democrazia
raccontato nell’Irata sensazione.
Le considerazioni sociali dello scrittore, riportate nelle Memorie attraverso le vicissitudini
esistenziali dell’alter ego Lorenzo, costituiscono il primo tassello ordito da Ottieri di un grande
mosaico sulla Storia della Patria, o meglio del rimpianto di una Patria. Si tratta dell’ouverture
politica delle sue opere in cui la cronaca è sempre attuale, dagli anni Quaranta al Duemila, dal
trovano nelle numerose necropoli sparse nel territorio che attestano origini antichissime della città, con numerose prove
di stanziamenti dell’età del Bronzo sulla montagna di Cetona e di Belverde.
238
fascismo al boom economico passando per le convergenze parallele, i compromessi, la dissoluzione
del PSI fino all’ascesa di un partito pubblicitario. Le Memorie permettono a Ottieri di comprendere
il futuro e questo atteggiamento favorisce la previsione di alcuni eventi politici prima del loro
effettivo compimento. Ad esempio a inizio degli anni Ottanta, Ottieri compone il suo unico
Canzoniere dal profetico titolo L’estinzione dello stato; nel ’92 scrive la Storia del PSI
evidenziando lo scempio attuato dal «Satrapo» Craxi poco prima delle rivelazioni sulla sesquipedale
abbuffata tangentizia che avrebbe portato a un rapido scioglimento del partito dopo i processi di
Tangentopoli che iniziano qualche mese dopo la composizione del poemetto; nel ’92 abbozza
L’inconcepibile 1994 che confluirà nel Poema osceno del ’96 immaginando un futuro pieno di
incertezze per la politica e la società italiana.
Ottieri tenta di esaminare l’incoscienza esistenziale e politica del popolo italiano fin dalle
Memorie degli anni Cinquanta, così che il suo primo romanzo è da ritenersi antropologico più che
storico; gli eventi drammatici dell’estate ’43 gli servono, infatti, solo da sfondo per riflessioni che
scavalcano il mero dato concernente la seconda guerra mondiale e si ricongiungono nell’Irata
sensazione che chiude il cerchio sul triste destino assegnato all’Italia.
Insultavo il popolo, lo accusavo di sprecare, di ridicolizzare la sua tragedia, di cui non coglieva i
frutti, l’esperienza e la dignità. […] Da per tutto è la stessa vergogna. Caduto Mussolini non c’è più
nemmeno un fascista in Italia. Nemmeno uno. Questo è un fenomeno importante, nazionale, di paura e
vigliaccheria collettiva. Un’Italia simile fa schifo. […] Si può pretendere, vero, che sia una merda? […]
L’Italia si spaccava e si scioglieva. (MI, pp. 36, 67, 171)
Il peggioramento del paese è tale da travolgere tutto. […] L’Italia è una Repubblica sfondata da
Berlusconi – come recita il primo articolo della nuova Costituzione – mentre lo Stato, e figuriamoci il senso
dello Stato, si squaglia come un bel gelato impotente, invendibile. (ISP, pp. 52, 70)
Il punto di partenza dell’analisi storico-sociale-antropologica è il luglio ’43 che certifica la
fine della Patria in cui l’evento emblematico per Ottieri è rappresentato dal primo bombardamento
di Roma da parte degli Alleati.
Per l’Italia non ci sono più speranze, precipita con grande gusto verso la sua rovina. Il principio della
fine della guerra sarà segnato dal nostro disastro. […] Squillò il segnale dell’una. Subito la voce sonora
annunciò il bombardamento di Roma. Era il 19 luglio. […] Questo era il primo bombardamento di Roma in
tre anni di guerra, quando ormai tutti credevano la città intoccabile, inutile o sacra. […] Nemmeno una pietra
smossa intorno: solo qualcosa nell’aria di prima mattina, come se si aspettasse un’altra tragedia. […]
Affiorava la parola San Lorenzo. La Basilica e il grande cimitero erano stati l’epicentro delle distruzioni: per
tutta la città si ripercuoteva da essi non tanto un sentore di sangue, di disperazione, di morti, quanto una
vibrazione di fragilità, di attesa […] come se il bombardamento di Roma avesse svuotato d’aria tutta la città
e l’avesse lasciata senza memoria. (MI, pp. 9, 26, 27)
239
Lorenzo che si trovava a Belverde quando dalla radio trapelò la notizia del bombardamento
di Roma decise il giorno stesso di tornare nella Capitale per assicurarsi dell’incolumità della sorella
Elena ma anche dell’amica Katja. Elena tuttavia vuole mettere al sicuro il fratello imponendogli un
pronto ritorno al paese, da lei considerato un luogo più sicuro di Roma:
Perché non sei rimasto in campagna? Là almeno eri al sicuro. Preferivo se non tornavi. […]
Andiamo via di qui… partiamo. […] Torniamo a Belverde, rifugiamoci nel paese. […] Bisogna fuggire il
pericolo di qui. […] Bisogna partire, e molto presto. […] Restare qui è una colpa, una pazzia. […] Ho il
dovere di portarti via, di salvarti, anche se non lo vuoi. (MI, pp. 28-30)
Ottieri attraverso gli occhi di Lorenzo osserva Roma, sua città natale, con tristezza e
profonda commozione percependo la tragedia in procinto di scatenarsi. «Ma Roma era sempre una
città luminosa e accogliente [che] lievitava al sole» (MI, p. 7), descritta nei suoi tramonti soffusi,
negli angoli remoti dei vicoli del centro, nei giardini e nelle piazze, pigra e bella. Roma rappresenta
l’essere dello scrittore, la sua culla, i ricordi incoscienti, la scuola, i primi amori; ma anche una
prigionia, un soffocamento nella casa paterna che lo costringerà appena finita la guerra alla fuga
verso Milano. Anche i colori utilizzati riflettono il sentimento di forte partecipazione che animava
Ottieri nelle descrizioni della città: ad esempio il rosa dei tramonti lasciava adagiare una patina di
struggente malinconia nell’attesa della tragedia futura; e per questo si avverte una dolcezza
stucchevole nell’atmosfera di luoghi che hanno vissuto una Storia esclusiva, dai pastori zoticoni
sulle rive di quel fiume dall’etimologia etrusca Rom, all’impero al papato, dal Duce ai
bombardamenti alleati alla Città aperta.
I turbamenti provati dal protagonista autobiografico delle Memorie non sono una regressione
letteraria attuata post quem giacché nelle lettere del settembre ’43, indirizzate in particolare
all’amico Giovanni Sartori, Ottieri inizia fin da allora a scrivere il romanzo mentre l’immagine di
Roma si stagliava in tutta la sua drammaticità proprio con la firma dell’armistizio, e quindi con la
fine delle ostilità che celebrava l’inizio per la città della vera guerra fino a quel momento percepita
in lontananza.
Caro Vanni, siamo in un processo di dissoluzione. […] Gli avvenimenti di Roma non tranquillizzano
certo. […] Hanno messo Roma sull’orlo della guerra, ma fuori della guerra. […] Ieri sera, domenica, dicono
alle 18, entrarono in Roma le prime pattuglie della V Armata americana. Noi si aspettava da un pezzo che gli
avvenimenti in qualche modo si risolvessero, perché la vista della città era divenuta angosciosa e
insostenibile, specie dopo l’offensiva dell’11 maggio. Ma non si credeva mai che precipitassero come sono
precipitati. (4 settembre ’43)
Lorenzo, giunto a Roma dopo il bombardamento del 19 luglio e in procinto di ripartire per
Belverde insieme alla sorella Elena, ha il tempo di affacciarsi da un balcone, come ricorda lo stesso
240
Ottieri nelle lettere, mentre scruta lo scorrere della Storia da un punto di vista privilegiato: una
finestra sulla strada da cui egli, quasi da un loggione, osserva la rappresentazione di un’opera
teatrale. Ottieri, partendo da questa peculiare percezione degli eventi, che mentre accadono sono
vissuti e analizzati come in una tragedia, trasferisce questa logica teatrale nella struttura di molti
suoi componimenti poetici.
Per togliermi da questo imbroglio, che diveniva sempre più insopportabile, spalancata la finestra
m’affacciai. Credetti di notare che le strade erano meno battute del solito, e un vuoto nei marciapiedi. La
città aveva paura. La guerra, nell’agonia, tentava di travolgere tutti con sé, di minacciare tutti di un disordine
infido. La strana sicurezza dell’Italia precipitava… (MI, p. 31)
Caro Vanni, mi sono messo più quieto a lavorare e mi affanno intorno a tre esami, sbirciando fuori
dalla finestra ogni cinque righe, come se per strada mi attendesse la rivelazione. (5 settembre ’43)
Dopo i bombardamenti del 19 luglio, che segnarono un momento determinante nella
coscienza storica degli italiani sul valore della guerra vissuta all’interno della Patria, il giorno 25
dello stesso mese si ricorda per l’arresto di Mussolini e di conseguenza per la fine del Regime
fascista. Ma anche in questo caso l’evento passa in secondo piano nelle riflessioni di Ottieri che
rielabora le sue Memorie da una prospettiva antropologica: il 25 luglio è fondamentale per
comprendere lo stato d’incoscienza in cui annaspava il popolo italiano, incerto e angosciato dalle
future risoluzioni storiche che gli avrebbero precluso la scelta del proprio destino. Non si trattava
dunque per Ottieri solo di una sconfitta politica o militare, quanto di un disfacimento collettivo reso
possibile dalla mancanza di forza morale che ogni giorno diventava più flebile. Inoltre lo scrittore
non vuole escludersi dalle critiche, colpe o responsabilità; al contrario egli si lega al fascismo
adolescenziale per aggrapparsi agli ultimi brandelli di una speranza, seppur lacerata, di concretezza
storica mentre stava trionfando la nuova moda di obliare in fretta il Duce e la politica di conquista
che aveva entusiasmato, fino a pochi mesi prima, milioni di cittadini: «Perché rimanevo fascista /
nonostante le pressioni costanti / dei cugini, dello zio, / del professore privato, di Croce, / delle
buffonate tragiche del Duce? / Sono rimasto fascista / fino a diciott’anni / perché non mi piaceva / la
guerra alla guerra» (PAD, p. 94). Ottieri, attraverso Lorenzo, non vuole salvare o rivalutare il
fascismo o Mussolini, bensì la propria giovinezza, i primi ricordi, le memorie infantili, in altre
parole quella parte di sé destinata a evaporare nell’età adulta anche se vissuta sotto una dittatura; si
tratta pur sempre della propria adolescenza che non si può sconfessare per una guerra persa.
Consideravo le dittature rivoluzioni contro il quietismo scettico e borghese, la patria una forma
entusiasmante di coscienza morale. […] Avevo sempre concepito il fascismo un impegno superiore alle
forze, un dovere spirituale cui ubbidire soffrendo; una ostinazione della coscienza, amara e violenta. La mia
privata esaltazione cerebrale coincideva assai bene, nel campo pubblico, con il fascismo. Avviandosi alla
rovina, per di più il fascismo offriva tutte le emozioni delle cause perdute. […] Una fatica intima e una fatica
241
nazionale, la patria da costruire con le proprie mani. […] Soprattutto la sconfitta militare, sicura e non ancora
riconosciuta, ci sgomentava: essa stava dietro alla cauta del fascismo. Della sconfitta, assurda come idea e
inesorabile come fatto, non ci facevamo una ragione. La mia coscienza mi imponeva di non darmi per vinto,
di spronare gli altri. […] Che cosa sarebbe successo, se gli avessi esposto i miei ideali fascisti traditi? […]
Sapevo oscuramente ma fortemente di non potermi rinnegare e tradire, e che la realtà andava combattuta
poiché avevo le mie profonde ragioni. Il mio fanatismo politico era un fiume sotterraneo che, venendo alla
luce, si riduce a un vapore caldo, vago, avvolgente, ma quasi invisibile. […] Approfittai per dirle con
orgoglio che volevo partire, partire con i tedeschi. […] Gettarmi insieme ai tedeschi in una disfatta gloriosa e
disperata. Le ragioni politiche non contavano più, non contavano più le ragioni degli altri. (MI, pp. 8, 34, 63,
85, 109, 172, 178, 179)
Lorenzo in diversi passi del romanzo tenta di sviscerare le proprie considerazioni riguardo al
fascismo senza alcun giudizio positivo: dal punto di vista politico e sociale, il protagonista non
rimpiange nulla e nemmeno vuole giudicare l’operato del Duce. La parabola della sua incoscienza
inizia con l’attonita sorpresa per la sconfitta fino allo sdoganamento complessivo della politica,
anche se un’analisi attenta rivela che di essa si parla poco non essendo un motivo primario nella
maturazione del protagonista. Ottieri ritiene questo aspetto preminente della sua vita, ovvero il
ricordo mistico del periodo fascista, importante perché fu vissuto durante l’adolescenza seguendo
l’esempio paterno: il padre Alberto era un fascista che plaudeva alla forza del Duce e alla grandezza
dell’Italia, fiero di contrastare le altre potenze mondiali, il cui ricordo affiora nei ricordi di Lorenzo
soprattutto dopo la morte del genitore:
Sarebbe stato bello sapere in che modo, dopo la prima guerra mondiale, uno come mio padre avesse
subito amato il fascismo. […] Mio padre era fascista. M’aggrappai al fascismo avendo in principio seguito le
sue parole; egli era morto subito dopo la guerra d’Abissinia, durante la quale avevamo esultato insieme.
Amava il Duce e anche io lo amavo; insieme stavamo pigiati nella folla, in piazza, a ascoltare i discorsi di
lui; mio padre vi assisteva con compassata freddezza di carattere, mentre io mi riempivo di brividi. Giorno
per giorno commentavamo le notizie; gli chiedevo con ansia i suoi pronostici, non sapevo aspettare. […]
Avevo poi avuto bisogno della memoria di mio padre. (MI, pp. 24, 33, 34)
Circa quarant’anni dopo la stesura delle Memorie, Ottieri ritorna su alcuni aspetti della
propria adolescenza rielaborandoli nel poemetto dedicato al Padre dove l’aspetto biografico si lega
a quello politico soprattutto nella maturazione dal fascismo giovanile al socialismo marxista. Tra i
ricordi giovanili rielaborati nel Padre, lo scrittore ricorda i conflitti quotidiani col genitore: «La
pugna con lui fu dura. / Egli vedeva nella poesia / la causa della malattia, / ed era fascista» (PAD, p.
49); le invettive susseguenti l’abbandono del fascismo: «Mi provocava a pranzo e a cena /
lanciandosi come un pazzo / contro ogni parvenza di socialismo. / L’anticomunismo può rendere
pazzi. / Esaltava ogni sentore di fascismo» (PAD, p. 91); e inoltre la disinformazione come motivo
scatenante della ribellione contro i padri: «Il rancore per la disinformazione / fu la prima freccia al
petto / che mi fece gettare sul prato / dell’antifascismo sfrenato» (PAD, p. 91). Disinformazione che
Ottieri ricorda anche nella Storia del PSI come l’ottavo tra i dieci comandamenti del regime:
242
«Ottavo: Disinformava / come un serpente a sonagli. / Quando gli americani / dichiararono guerra, /
ciò fu detta un’americanata» (PSI, p. 37).
Lorenzo nelle Memorie parla di «dovere spirituale cui obbedire soffrendo […] di una
ostinazione della coscienza» (MI, p. 34) che vuole interpretare in modo psicoanalitico più che
politico. E poi, quando avverte nel proprio fanatismo un «vapore caldo, vago, avvolgente» (MI, p.
109), i riferimenti sono ben lungi dal ritenersi legati al Regime, giacché si tratta di uno stato
regressivo che rinvia all’infanzia: Ottieri nacque infatti nel ’24 poco dopo l’avvento del fascismo
nel ’22. Per lo scrittore, dunque, la Patria esiste ancor prima di nascere, è irrimediabilmente
«naturale» come afferma in una lettera all’amico Vanni. Alla luce di queste considerazioni, la frase
«Le ragioni politiche non contavano più» (MI, p. 179) acquista soltanto un senso letterario poiché in
Ottieri la politica non ha mai avuto un valore preminente nelle Memorie; in altre parole il rilievo
degli sviluppi storici è innegabile, e sarebbe fuorviante non tenerne conto, ma le motivazioni che
hanno condotto lo scrittore a rielaborare nell’arco di molti anni, dal ’47 al ’54, questo primo
romanzo vanno ricercate nella psicologia politica, ovvero nell’accezione che studia il
comportamento politico a partire da modelli psicologici come il rapporto amico-nemico, o come
l’etica di gruppo, rapportando tutto a un disagio esistenziale che è la determinante principale del
romanzo e più in generale della poetica di Ottieri.
Caro Vanni, l’età nostra, i vent’anni, della raggiunta maturità spirituale, non dico dello sviluppo
bensì nel metodo, è l’età più giusta e più pura, più adatta a nutrire ideali. L’ideale della patria, per esempio, è
incontaminato dalla passione politica, o meglio dalla professione di una fede politica. […] Che è la Patria?
Come la fede in Dio, l’abbiamo trovata fin dalla nascita, e anzi non v’è in lei nulla di divino, ma qualcosa di
naturale, di fisico, di irrimediabile e tutto il resto di umano e terreno. (Settembre ’43)
E gli sviluppi successivi delineati nelle Memorie, come l’arresto di Mussolini, la caduta del
Regime, la sconfitta, l’armistizio e la guerra civile, risentono di questa prospettiva esistenziale che
non è una rielaborazione pensata alla fine del conflitto in periodo di pace poiché l’epistolario di quei
mesi, luglio-settembre ’43, rivela già un atteggiamento peculiare dell’autore, da cui la cosiddetta
bio-letteratura, presente anche nelle opere della maturità che affrontano le tematiche dell’industria,
mondanità, malattia e politica.
La sera del 25 luglio, la cauta di Mussolini ci colse a Belverde di sorpresa. Nel primo momento non
ci credetti. Avevo voluto essere sordo alle voci generali sul disfacimento italiano e non dar retta nemmeno ai
miei occhi. […] Tuttavia la notizia non mi addolorò; mi chiesi piuttosto che relazione ormai ci fosse tra gli
avvenimenti e gli uomini, perché i primi accadevano da se stessi, liberi e alti sopra di noi, che eravamo
bagnanti sulle rive di un mare in tempesta. Proprio questa esclusione dalla responsabilità di ciò che si
trasformava e precipitava, avrebbe dovuto, secondo me, straziare e lacerare la coscienza di tutti. (MI, p. 33)
243
L’inizio della fine individuato nel 25 luglio permette a Lorenzo di avvertire, nella tragedia in
atto, il sentimento della libertà fondamentale nella poetica ottieriana:
Un mio occhio rimaneva aperto verso fuori, verso la realtà: e per istinto m’accorsi che dopo il 25
luglio si stava facendo una grossa scoperta, la libertà. Per me non era un bene riguadagnato, ma una specie di
bizzarria, in fondo disprezzabile, da osservare con meraviglia; essa mi stupiva e ringiovaniva, coi suoi aspetti
infantili, fisici. […] La famosa libertà del governo Badoglio, la libertà dopo vent’anni di tirannia aveva certo
un aspetto giovanile, sembrava tutta nuova, pulita; ma poiché perdevamo la guerra era soltanto un’ombra
inutile. (MI, pp. 38, 63)
Caro Vanni, ora l’Italia non esiste. Ora viene a mancare la Patria; e vediamo cosa significhi non
avere la patria. […] La libertà non interessa l’Italia. La libertà, come la vita, come la giustizia, si dimentica
nel tempo in cui la si adempie velocemente. La libertà è il respiro di cui l’uomo deve obliarsi quando voglia
essere libero. La libertà politica non si raggiunge che al termine di un calvario; è una promessa eterna; quindi
non basta, non serve negli accidenti particolari. (Settembre ’43)
Lorenzo prosegue l’autoanalisi storica e personale rivolgendo lo sguardo all’indietro per
considerare la sua ancor breve vita attraverso i tragici eventi che stavano lacerando gli entusiasmi
giovanili dapprima confluiti nel fascismo adolescenziale. L’esuberanza per l’Abissinia e
l’esaltazione per le prime vittorie si scontrarono in Ottieri con l’impossibilità di partecipare
attivamente a quegli eventi storici restandone ai margini tra Roma e Belverde: infatti alla visita di
leva, nel luglio del ’43, lo scrittore riceve la dichiarazione di rivedibilità e viene destinato a
svolgere, come soldato di Sanità, servizi sedentari presso il Sovrano Ordine di Malta nell’ospedale
di Via Monferrato a Roma.
Nascosto ai tedeschi – prima di malavoglia, poi con gusto clandestino – ero soldato di Sanità presso
il Sovrano Ordine di Malta, nell’ospedale di Via Monferrato. Più che da infermiere, facevo da cameriere:
asciugavo le posate e vuotavo i bidoni della spazzatura in cortile. In ospedale, ero anch’io convalescente
della delusione d’eroismo, patita con la sconfitta, e della rinuncia a scomparire nel Valhalla guerresco.
Avevano provveduto a ripararmi e mi ritrovai in un buon ambiente, di amici: il destino di carattere e di classe
si compiva sempre. (LG, p. 147)
Ottieri estende poi il suo forzato esonero a una generale mancanza di partecipazione legata
alla collettività del popolo che non ha mai potuto scegliere i propri governanti; il riferimento è
connesso certo al fascismo, dittatura imposta senza volontà popolare, ma Ottieri negli anni
successivi dilaterà questo concetto in un’ottica antropologica individuando negli italiani l’abitudine
a essere comandati da imperatori, re, papi, massoni o mafiosi senza sceglierli o potersi ribellarsi.
Proprio per l’animo servile dimostrato con tenacia nei secoli, Dante corrosivamente puntualizzava
nella celebre invettiva «Ahi serva Italia» che non esistono per questo paese alternative a tale infelice
condizione.
244
Caro Vanni, sono profondamente malinconico, ora, più che addolorato. Anche il vano dolore della
sconfitta ci è tolto, non resta proprio che la malinconia di questo pantano e di queste sabbie mobili. Bisogna
restaurare lo spirito di coscienza e di sacrificio. Bisogna credere con sincero impulso alla gioia del proprio
sacrificarsi, all’orgoglio dei propri valori sofferti per un ideale. […] Io vivo profondamente i fatti che ora
stanno accadendo, mi getto dentro di essi per seguirne gli estremi capillari meandri. […] Io che avevo
creduto e sperato nella vittoria, che avevo con ogni sforzo cercato di giustificare anche col raziocinio tale
spontaneo sentimento: l’Italia vincerà questa guerra e sarà grande, mi trovo oggi umiliato e smentito, negato
dalla realtà in tutte le mie affermazioni. […] Ci è stata sempre vietata la responsabilità che si divulga e si
spande e che ci sopravvive. Non abbiamo mai detto qualcosa che ci rimanga e duri più a lungo della nostra
volontà, che ci leghi e ci costringe a una sociale coerenza. (Settembre ’43)
E oltre al concetto di responsabilità prima evidenziato, Lorenzo si sofferma sullo spirito di
coscienza e di sacrificio che dovrebbe rianimare il popolo, oltre le diverse implicazioni politiche,
non tanto per raggiungere compromessi impensabili in quel momento storico, quanto piuttosto per
non diventare schiavi di un nuovo padrone.
L’argomento massimo delle riunioni erano le nostre responsabilità. […] Ci piaceva tenerci
compagnia e sfogare i sentimenti feriti, l’amore per la patria, il rancore verso gli antifascisti, il dolore della
sconfitta militare. […] Io insistevo sullo spirito di coscienza e di sacrificio, con cui intendevo riempire il
vuoto di quei giorni senza governo, senza alleati, senza notizie e senza nemici. (MI, pp. 63, 172)
Le Memorie seguono in ordine cronologico gli avvenimenti del ’43, e dopo le due importanti
date di luglio, 19 il bombardamento di Roma e il 25 l’arresto di Mussolini, Lorenzo ricorda con
profonda commozione l’8 settembre che determina la guerra all’interno del territorio italiano,
l’abbandono di Roma da parte del Re, un’estrema incertezza sugli alleati e sui nemici da
combattere, la spaccatura del paese tra i fascisti e la Resistenza, la guerra civile. Nel romanzo sono
due bambine che annunciano l’armistizio e lo scrittore indugia spesso, anche nelle lettere scritte in
quei giorni, sulle immagini di fanciulli che, una volta appresa la notizia, per loro poco
comprensibile, corrono per le strade e cantano di gioia per la fine della guerra. Ottieri vuole in
questo modo caratterizzare maggiormente l’atmosfera d’incoscienza collettiva estesa anche a quella
parte del popolo che ignorava gli sviluppi storico-politici del conflitto.
In quel mentre, nell’aria rarefatta del mezzogiorno inoltrato, vedemmo correre per il viale che porta
ai giardini due bambine di quattro o cinque anni […] che strillavano la stessa parola e la ripetevano
accanitamente divertendosi, correndo verso un gruppo di donne sedute: «Mamma, mamma, l’armistizio,
l’armistizio, l’armistizio». Si gettarono ridendo in braccio alle donne. […] Arrivammo senza accorgercene,
senza coscienza, alla mattina dell’8 settembre. […] Vi fu nel paese un breve scoppio di allegria e di gridi. Le
voci bianche dei ragazzini cantavano in piccoli cori: «Dov’è la vittoria, che schiava di Roma». (MI, pp. 109,
157, 159)
Caro Vanni, cominciavano a venire finalmente, chi sa perché e come, le prime notizie concrete: che
gli Americani erano alla Stazione, in Via Nazionale, in Via XX settembre, nella via stessa dove abitavamo
noi, che insomma «erano arrivati». Allora i giovini e le giovini si sono per primi rovesciati per la via a
gridare e gavazzare: «Siamo liberi. Evviva l’Inghilterra!». Era tutto finito così? […] Fui preso da uno
scoramento amarissimo. (Settembre ’43)
245
Lo sconforto cui fa riferimento Ottieri non riguarda la sconfitta militare, bensì
un’inquietante debolezza morale che avrebbe condotto l’Italia alla catastrofe sociale poi avveratasi
nella guerra civile. Lorenzo parlerà di vergogna riguardo all’armistizio non perché in lui si
agitassero i demoni di un immarcescibile fascismo (non vi è nel romanzo un solo elogio al Regime)
ma per evitare le profusioni di compiaciuto disfattismo ormai dilaganti.
Caro Vanni, ormai l’Italia è divisa. Gli eserciti avversari che si combattono pongono le premesse
della guerra civile: chi per i tedeschi (pochi), chi per gli inglesi (tutti). Gli equivoci si assommano. I veri
nemici appaiono liberatori e non lo sono per troppe ragioni. Noi non abbiamo tradito i tedeschi con
l’armistizio ma in quel lontano tempo in cui non s’è detto loro, chiaramente, quanto lavorasse il tarlo
dell’antifascismo e del disfattismo… (Settembre ’43)
L’annuncio della caduta di Mussolini fu accolto, infatti, dalla popolazione con
impressionanti manifestazioni di «uno strano giubilo popolare» (MI, p. 33), sfogando i risentimenti
accumulati nel corso degli anni contro i simboli del Regime, ma senza spargimento di sangue
poiché, in quei giorni di fine luglio ’43, il popolo italiano sembrava aver deciso in modo unanime
chi fosse il responsabile della disfatta. Sorprende, ma non troppo se considerati nel complesso i
disagi e le privazioni cui fu sottoposta la popolazione, la rapidità con cui la maggioranza dei
cittadini, tacciata di tradimento, non si sentisse più fascista nell’arco di una notte, come rilevano
alcuni passi del romanzo:
Da per tutto è la stessa vergogna. Cauto Mussolini non c’è più nemmeno un fascista in Italia.
Nemmeno uno. Questo è un fenomeno importante, nazionale, di paura e di vigliaccheria collettiva. Un’Italia
simile fa schifo. […] Siamo cauti in una rovina materiale e morale senza limiti, un abisso. Per me è una
sofferenza quotidiana, insopportabile, assistere a un simile… tradimento. […] Lei non sa che tutte, tutte le
migliori famiglie erano e si dicevano fasciste, ma che dopo l’arresto del Duce io non ho inteso neppure una
parola, in pubblico, una parola di ribellione, di indignazione… (MI, pp. 67, 118, 119)
L’entusiasmo con cui il paese accolse la caduta del fascismo si comprendeva non tanto per
la gioia della riconquistata libertà, quanto per la diffusa speranza di una prossima conclusione della
guerra, anche se l’uscita dal conflitto si rivelerà più tragica della guerra stessa. Il governo Badoglio,
sorto in seguito alla congiura monarchica del 25 luglio, mentre proclamava che nulla sarebbe
cambiato nell’impegno bellico italiano, stava allacciando trattative segrete con gli alleati per
giungere a una pace separata, per gli anglo-americani però si trattava di una resa incondizionata già
sottoscritta il 3 settembre a Cassabile, che fu resa nota solo l’8 in coincidenza con lo sbarco di un
contingente alleato a Salerno: «Noi eravamo contrari al prossimo tradimento di Badoglio. […]
Indignato allora per la vergogna dell’armistizio. […] Nel mio cervello si agitavano idee di ribellione
e sussulti di sdegno per l’armistizio che consacrava una sconfitta, palude melmosa e infida, non
246
abisso salutare» (MI, pp. 100, 110, 159). L’armistizio è ricordato da Ottieri come il primo
avvenimento storico in cui ha provato quel senso di ribellione caratteristico poi della sua letteratura,
quando «ridicolizzato dai fatti l’accecamento proiettivo sul Duce, se ne ingenerò una tale delusione
contro quel Padre, scoperto sciocco e impotente, che il meccanismo proiettivo si ribaltò in odio e
rancore eterni» (IQ, p. 176). Ma l’aspetto più inquietante dell’armistizio fu l’incertezza nella quale
il governo Badoglio gettò l’Italia dopo l’annuncio radiofonico dell’8 settembre: con la fuga del Re e
della sua corte, insieme al governo, per riparare a Brindisi nel Regno del Sud sotto la protezione
degli alleati, Roma fu lasciata sciaguratamente città aperta, mentre il nord del paese divenne terra
di conquista per le truppe tedesche diventate all’improvviso nemiche.
Le nostre incertezze si presentavano senz’altro quali incertezze politiche. Ogni progetto, se non
quello di non far niente, era rivoluzionario: essere contro la guerra, essere per la guerra. L’Italia attendeva di
venir tutta calpestata come un formicaio. […] Siamo all’oscuro di tutto. Di tutto. Ci devono essere in Italia
milioni di uomini che attendono ordini. […] Un’Italia così mi riempie di tristezza e di dolore. […]
L’indomani mattina l’incertezza fu maggiore. […] Nell’afa pomeridiana, verso le due dopo mezzogiorno, il
paese si scosse, sussultò. Ecco che cosa aveva portato quell’armistizio: la guerra. […] Gli alleati ci
occupavano e i nemici dovevano liberarci. […] Mi fissai in due pensieri opposti: che dovere degli italiani
fosse quello di non arruolarsi e di rinunciare definitivamente alla guerra; e che io invece, come privato,
potessi scomparire presentandomi ai tedeschi. (MI, pp. 62, 161, 161, 163, 172, 179)
Abbandonato a se stesso, l’esercito italiano sbandò a causa di ordini confusi e contraddittori
senza alcuna possibilità di opporre resistenza ai tedeschi, giacché in molte circostanze non si
comprese se fossero alleati o nemici. Le conseguenze del disastro dell’8 settembre, emblematico il
massacro di Cefalonia compiuto dai tedeschi con lo sterminio di un’intera divisione italiana che
aveva rifiutato di arrendersi, si ripercossero anche sull’andamento della campagna d’Italia poiché
gli alleati non riuscirono a avanzare oltre la linea Gustav. Diventata campo di battaglia per eserciti
stranieri riverberando ataviche consuetudini del Cinquecento con le guerre d’Italia e dell’Ottocento
con quelle napoleoniche, il paese era condannato a un tragico destino: occupato militarmente dagli
alleati e dai tedeschi, oscillante nell’incertezza di sapere chi dovesse salvarlo. Indicative a tal
proposito le malinconiche riflessioni del giovane Ottieri presenti in due lettere inviate in quei giorni
di settembre a Vanni e a Tullia.
Caro Vanni, l’Italia è ora un’espressione geografica, divisa da due eserciti che vi combattono; il
popolo non ha guida. La sola unione superstite è il terrore. La Patria attende gli uomini che le diano
coscienza di essere tale; i cittadini aspettano il governo nuovo.
Cara Tullia, da adesso tramonta l’unità dell’Italia: mi passa davanti agli occhi tutta la storia
prerisorgimentale, indietro; indietro fino al Cinquecento, alle prime lotte di francesi e spagnoli, agli stranieri
chiamati per scacciare gli stranieri.
247
La coabitazione con i tedeschi fu vissuta dal giovane Ottieri con molta partecipazione
emotiva poiché alcune truppe della Wehrmacht, ancor prima dell’armistizio, avevano scelto Chiusi
come base strategica per le operazioni militari. Ottieri li rappresenta nelle lettere:
Caro Vanni, siamo in pieno processo di dissoluzione. Chiusi è occupata dalle truppe tedesche; pare
una fortezza. (Settembre ’43)
Carissima Tullia, i tedeschi hanno scelto Chiusi come centro di resistenza, vi affluiscono da ogni
dove, vi si accampano. […] Sul tardi è apparso un proclama; firmato dal comandante tedesco, dal Podestà e
dal Tenente dei Carabinieri, dove si ordina il Coprifuoco dalle 20 alle 7! […] Durante la notte i tedeschi si
agitano ininterrottamente. (Settembre ’43)
E in alcuni passi del romanzo, senza un giudizio di merito particolare, criticando piuttosto
l’incoscienza del governo italiano che ha abbandonato i cittadini e l’esercito per improvvisare
originali relazioni con gli ex alleati ora nemici, Ottieri evidenzia la turpitudine incombente
sull’Italia che al principio delle ostilità dimenò «un colpo di pugnale a un uomo in terra»87 per poi
dare di sé uno spettacolo tanto miserando, umiliante e vergognoso che sarà difficile anche solo
ricordare nel futuro.
I tedeschi rovesciano ora su di noi un disprezzo contro il fascismo che hanno covato sempre,
considerandolo un sottoprodotto del nazismo. Ci rimproverano la nostra secolare mancanza di coscienza, ma
noi scontiamo un Risorgimento fatto di cartone e una borghesia a cui il fascismo già non serve più. […] «I
tedeschi si vendicheranno malamente», insinuò il signor Cenni dando il suo parere non militare. Ma, neppure
lui, uomo più sensibile, mostrava di preoccuparsi del lato morale dell’armistizio, quello che a me interessava
e che consisteva nella incoscienza degli italiani. (MI, pp. 114, 160)
Ottieri indugia spesso nella descrizione fisica dei tedeschi accampati alla Fortezza o sul
Prato, mentre li confronta con la propria intellettualità, aumentando un certo rimpianto per non
poter partecipare in modo più concreto agli sviluppi del conflitto:
Carissima Tullia, i tedeschi s’accampano e sfoggiano tutta la larghezza dei loro toraci nudi. Oh,
vituperio della mia intellettualità! (Settembre ’43)
I tedeschi non si facevano troppo notare. Eppure avevano occupato una parte del parco dei Mayer e
una mattina il prato fu pieno di volontari diciottenni, a torso nudo e bianco, che uscivano felici dalle loro
tende al sole meridionale. Gli alleati ci occupavano e i nemici dovevano liberarci. (MI, p. 172)
I militari tedeschi occupano un posto di rilievo nelle Memorie in quanto Ottieri li descrive
come vicini di casa, anzi addirittura compagni di stanza. Infatti dal quarto capitolo del romanzo la
scena, o meglio la casa del giovane Lorenzo viene occupata da alcuni soldati tedeschi che,
87
Frase pronunciata dall’ambasciatore francese a Roma François Poncet quando gli fu presentata da Galeazzo
Ciano, alle 17.30 del 10 giugno, la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia ormai interamente occupata dalle
truppe naziste, aggiungendo poi: «I tedeschi sono padroni duri, ve ne accorgerete anche voi».
248
stazionando nei pressi di Chiusi, requisivano diverse abitazioni nel paese: l’ufficiale Haacke, il
tenente von Maurenberg e il tenente Wagner abitano alternativamente l’appartamento di Lorenzo,
ospitati in modo affabile dalla sorella Elena che conoscendo la lingua tedesca poteva interagire con
loro senza eccessivi ostacoli. Nel descrivere questi militari, Ottieri vuole evidenziare il lato umano
delle rispettive personalità concedendo loro il diritto di soffrire e rammaricarsi per una guerra ormai
persa; inoltre nel romanzo le critiche che l’autore rivolge all’incoscienza degli italiani vengono
addirittura stemperate dagli ex alleati, i quali essendo militari devono rispettare gli ordini e le
prescrizioni superiori senza tergiversare sul comportamento della popolazione locale ancora
spaesata dai repentini stravolgimenti delle circostanze.
Pochi giorni dopo l’armistizio, nella confusione generale si ricorda la nascita di uno stato del
tutto subordinato ai tedeschi, la Repubblica di Salò richiamata alla memoria da Ottieri con i ricordi,
oltre che di Lorenzo, anche di Pietro Mura il suo ultimo alter ego protagonista dell’Irata sensazione
da una prospettiva storica diversa, cinquant’anni dalla pubblicazione delle Memorie, che non ne
affievolisce la riprovazione.
Si poteva di nuovo partire e uscire dal cerchio dell’armistizio; e intanto, liberato Mussolini, fu
annunciata la costituzione del Partito Fascista Repubblicano. (MI, p. 174)
Il Grande Somaro da Salò ragliava ormai troppo puledrescamente forte, nitriva, urlava come uno
stallone nell’estremo macello. […] L’idea forte della pazzia si distraeva, in Pietro, con l’odio. L’odio per
quei figuri in maschera che, volendo fare dell’Italia un Impero, l’avevano martoriata e rasa al suolo. Mi sta
bene che il fine giustifichi i mezzi. Ma non quando il fine è la fine. (ISP, p. 41)
La costituzione di un nuovo stato fascista, la Repubblica Sociale Italiana, venne proclamata
dal Duce dopo la sua liberazione dalla prigionia di Campo Imperatore sul Gran Sasso il 12
settembre ’43, ma essa era dipendente dai nazisti che occupavano militarmente le zone del nord
Italia, i quali con la creazione della Repubblica di Salò si prefissero l’obiettivo di reprimere e
combattere il movimento partigiano che stava nascendo nelle regioni settentrionali del paese. La
conseguenza inevitabile fu, oltre la spaccatura fisica dell’Italia in due zone occupate da eserciti
stranieri, la Repubblica di Salò nazi-fascista al nord e il Regno del Sud anglo-americano, la guerra
civile il cui spettro animava le dolorose riflessioni di Ottieri ancor prima dell’armistizio,
dimostrando una particolare perspicacia nel considerare con lucidità gli eventi che sarebbero poi
accaduti. Anche in questo caso le lettere scritte nel settembre ’43 a Tullia e a Vanni esemplificano
la correlazione tra l’epistolario, già pensato da Ottieri in modo letterario, e il primo romanzo in cui
le memorie si concretizzano sulla pagina.
249
Carissima Tullia, non si sa bene quel che accade; ma ormai superata con l’armistizio la disfatta
totalitaria, esaurito con l’8 settembre il periodo dei dolori comuni, si entra nella fase delle sciagure locali,
[…] quella fase che accenna alla lacerazione del paese e favorisce la guerra civile.
Benché mi amasse molto biasimava con insofferenza il mio pessimismo, le mie previsioni di guerra
civile, l’essere io deluso perché il popolo non precipitava persino più in fondo, per risorgere e compiere
interamente il suo ciclo di purificazione. […] Per noi infatti la guerra militare è un capitolo chiuso. Noi
abbiamo perso la guerra, anzi la stiamo perdendo ora per ora. Per noi c’è un altro destino… la guerra civile.
[…] La guerra che dobbiamo fare ormai è una guerra civile. Non c’è altra soluzione d’onore. Si può
cominciare subito, da ovunque, da qui. Basta non accettare il Re e Badoglio. […] La guerra civile sta alle
porte. (MI, pp. 37, 72, 99, 169)
Gli scontri violenti scoppiarono tra i gruppi di azione patriottica, che agivano soprattutto
lontano dai centri abitati con attacchi improvvisi e azioni di sabotaggio, e i nazifascisti che
rispondevano con spietate rappresaglie; infelicemente celebre quella delle Fosse Ardeatine del
marzo ’44 per replicare all’attentato di via Rasella con una proporzione di dieci cittadini per ogni
militare morto, con cinque in più aggiunti per errore, che Ottieri ricorderà nella Linea gotica,
nell’Irrealtà quotidiana e nel Padre:
L’eccidio delle Fosse Ardeatine fu un colpo ancora più grave, ma più oscuro, misterioso, senza
passato, per me. L’aveva preparato anche il mio assistente universitario di italiano, ma che ne sapevo, se
parlavamo solo dello stile di L. B. Alberti? (LG, p. 148)
Lavorò alla tesi di Laurea sulle Operette Amatorie di L. B. Alberti, nel 1944, con un assistente che la
mattina parlava con lui del cursus, nel pomeriggio preparava la dinamite per via Rasella. Quando la dinamite
scoppiò non intese nulla. (IQ, p. 174)
Volevo adire a Salinari e Alicata, / al compagno Sapegno. / Salinari, mentre discutevo con lui, / la
tesi sulla lingua di Leon Battista / Alberti, preparava via Raella. (PAD, p. 50)
Il panorama complessivo delineato nelle Memorie è molto dettagliato nei particolari
psicologici di Lorenzo che seguono gli sviluppi traumatici della storia, nonostante la forzata
estraneità al conflitto con il rifugio a Belverde e la disillusione politica di quei mesi. Oltre alle
circostanze storiche riportate con cura seguendo le memorie delle lettere, ciò che affiora con
profondo dolore è l’immagine di una Patria che non esiste più; e attraverso i richiami presenti
nell’insieme delle sue opere, il volto dell’Italia si costruisce come un mosaico partendo da questo
primo romanzo con l’aggiunta dei vari tasselli successivi. Un termine spicca per consuetudine
nell’apparire e per il senso di disperazione insito in esso: è la «liquefazione», connessa alla «merda»
politica evidenziata nel Poema osceno, che rende l’Italia un paese unico nel suo splendore.
Caro Vanni, ora l’Italia non esiste. Ora viene a mancare la Patria; e vediamo cosa significhi non
avere la Patria. […] Le decisioni si rarefanno e predominano i compromessi; difatti l’Italia è cauta di
compromesso in compromesso e la sua strada è seminata di equivoci e ironia, di ridicoli inganni e di
tragicomiche avventure. […] In questa lacerazione, liquefazione della Patria, il cosmopolitismo che è
250
retaggio degli stati fortissimi, è la più amara ironia. Ora si precipita verso il provincialismo. […] Davanti a
noi c’è oggi la più grande tragedia della Patria; davanti a me corrono giorni e giorni di rovina, di
avvilimento, di bruciore, di disonore. […] Che è la Patria? […] L’amor di Patria, Vanni, nell’essenza
sincerissima della nostra vita, non ti atterrisce questo pensiero? Ma guardati intorno, contempla la nostra
civiltà, la nostra filosofia, la nostra arte, contempla pure i moti riposti dei poveri di spirito, della borghesia e
del popolo: c’è un luogo per l’amor di Patria, il patriottismo del secolo passato, l’esilio e l’entusiasmo senza
retorica? […] La Patria, noi l’abbiamo nel sangue. (Settembre ’43)
Le dolorose riflessioni espresse da Ottieri nelle lettere risentono certamente dei tragici
sviluppi storici, ma riverberano altresì quei richiami all’amor di Patria presenti in particolare negli
autori di cui si era nutrito nell’adolescenza. La biblioteca giovanile dello scrittore che si trova nel
Palazzo di Chiusi presenta, oltre ai classici latini e greci, autori importanti della letteratura italiana
tra i quali risaltano, per devozione e profonde letture, Dante, Foscolo e Leopardi. In molte sue opere
Ottieri riprende alcuni versi di questi poeti con rifacimenti e a volte parodie, scegliendo il punto più
conforme del testo dove inserirli per far risaltare la sua vasta cultura e confrontarsi intellettualmente
con loro. Ad esempio, a conclusione delle lettere scritte all’amico Vanni, dopo l’armistizio Ottieri
riflette sulla condizione servile dell’Italia sul cui suolo si fronteggiavano due eserciti stranieri
riducendo la Patria a una mera espressione geografica. Senza dubbio lo scrittore era animato da una
profonda disillusione e rabbia per gli avvenimenti storici, mentre il tono e l’elaborazione del suo
pensiero risentono delle letture giovanili, e in particolare di un’opera politica di Foscolo.
Caro Vanni, fui preso da uno scoramento amarissimo. […] Ho dormito poco, e stamattina seppi
ufficialmente che avevamo cambiato padrone. Ho letto diverse pagine del Foscolo, in questi giorni confusi,
in cui ho dovuto cessare da ogni lavoro, specie il discorso intitolato «Della servitù d’Italia». E bastasse! Ma
(gli italiani) col somministrare la storia della loro propria stoltezza, giustificheranno quel principe che nel
calpestarli dicesse: «E son pur nati a servire, e il confessano». «Voi finché non avrete armi e non cambierete
costumi, non potrete cambiare se non padroni». «A rifare l’Italia, bisogna disfare le sette. Potrebbe se non
disfarle reprimerle il ferro straniero; ma allo straniero gioverà prima istigarle, onde più sempre signoreggiare
per mezzo di esse l’Italia». «Adunque siate servi, e tacete». […] Domenica notte, addormentandomi, mi
pareva d’aver vissuto una giornata di malattia. Ma queste sono impressioni personali, intimistiche, meglio
tralasciarle. La mattina seppi che avevamo cambiato padrone. (Settembre ’43)
Ottieri fa riferimento ai discorsi Della servitù d’Italia88, opera incompiuta di Foscolo la cui
immagine ribelle e insofferente contro i potenti ritorna con insistenza in varie opere fino a percepire
in se stesso, durante il soggiorno nella clinica San Rossore, quel foscoliano «spirto guerrier che
rugge» (IP, p. 67). Le attenzioni maggiori sono qui rivolte all’aspetto politico dell’opera di Foscolo,
in particolare nei discorsi Della servitù d’Italia che esplicita, in modo più tecnico e meno romanzato
rispetto all’Ortis, la corrispondente disillusione storico-sociale di Ottieri il quale vi trova un
modello di trattazione teorica utile per comprendere la realtà dei fatti, sempre attuale sebbene
88
FOSCOLO Niccolò Ugo, Prose politiche e letterarie dal 1811 al 1816. Frammenti sul Machiavelli,
Ipercalisse, Storia del sonetto, Discorsi sulla servitù dell’Italia, Scritti vari, edizione critica a cura di Luigi Fasso, Le
Monnier, Firenze 1933.
251
lontana nel tempo. Il progetto del libro Della servitù dell’Italia, al quale Foscolo nel primo abbozzo
milanese appose il titolo Dell’indipendenza del regno d’Italia, prevedeva una serie di discorsi
rivolti a tutti gli italiani con l’avvertimento a considerare, nel più breve tempo possibile, lo stato
deprecabile della nazione avvilita dalle lotte intestine. Al proemio seguiva un Discorso agli italiani
di ogni setta in cui il poeta ribadiva la pericolosità della divisione del popolo in partiti e un nucleo
di questioni intorno all’indipendenza italiana che avrebbe dovuto costituire il secondo discorso,
rimasto tuttavia incompiuto.
Ottieri, mentre è intento a comporre epistole o romanzi, esplicita una vocazione letteraria
leggendo Foscolo, Dante, Machiavelli, Leopardi e le loro considerazioni sul degrado della nazione,
espresse quando l’Italia nemmeno esisteva politicamente. Dalla lettera a Vanni emergono dei
termini o espressioni inequivocabili come «scoramento», «avevamo cambiato padrone»,
«stoltezza», «armi», «giustificheranno quel principe», «straniero», «signoreggiare», «siate servi, e
tacete» che si potrebbero condensare nella celebre invettiva dantesca «Ahi di dolore ostello» (Purg,
VI, 76) già ripresa in un passo della Contessa «“Ahi” pensò “serva Italia di dolore ostello”» (CON,
p. 22).
Nelle Memorie adolescenziali di un periodo storico particolare della propria Patria, la
tragedia pubblica si sovrappone a quella personale, intrecciando Ottieri i motivi di disagio
esistenziale nella più complessiva crisi dello Stato, al fine di attenuare le sue sofferenze private con
la catastrofe incombente sull’Italia. Da questa prospettiva Ottieri, nella stesura delle Memorie, ha
risentito della lezione foscoliana dell’Ortis, libro letto in gioventù che permetteva l’emersione di
profondi sentimenti idonei a esprimere la delusione storica connessa al male di vivere
autobiografico, all’amore irrealizzabile, all’ossessiva idea del suicidio, al desiderio di valori assoluti
contro la mediocrità del mondo, alla negatività della storia. Lorenzo va ben oltre il modello
dell’Ortis agognando sollievo e consolazione dalla tragedia collettiva per alleviare i propri dolori
d’amore non corrisposto per Katja.
Per l’Italia non ci sono più speranze, precipita con grande gusto verso la sua rovina. Il principio della
fine della guerra sarà segnato dal nostro disastro. Così, per pudore, confondevo il mio caso personale con
l’amarezza orgogliosa della guerra perduta. […] Affacciato alla finestra, rintanato, pauroso di uscire, di
affrontare l’aria finché Katja non avesse scritto, vedevo la gente ignara e piuttosto allegra, nonostante il
destino d’Italia. Me ne indignavo, con pudore. Sapevo che il silenzio di Katja era l’unica cosa che mi stesse a
cuore e che nella pretesa di vedere tutto il mondo depresso c’era uno sconfinato desiderio di compagnia. […]
Non potevo fare a meno di mescolare, o meglio nascondere, i miei sentimenti personali con quelli
dell’orgoglio nazionale ferito, e poi sfogarli con lei. […] Rigurgitavo di pena per la patria, sconvolto dalla
tragedia nazionale e dal bisogno di rivolta. Mi cacciavo dentro in questo dolore collettivo, che mi recava
sollievo. […] Un uomo nel mio stato non era in grado, non era degno di occuparsi di una sciagura collettiva.
Poiché, anzi, la desiderava per consolarsi. […] Ma un altro fatto mi preoccupava. Che, nonostante tutto, il
dolore collettivo fosse preferibile al dolore personale. Noi soffriamo, per innata costituzione, più delle nostre
pene che di quelle del mondo; anzi il dolore collettivo è la migliore medicina contro il dolore personale.
252
Gettarsi nel precipizio degli avvenimenti è una liberazione, una soddisfazione, e le tragedie nazionali
riempiono di amaro orgoglio, di vanità, anche una persona modesta. (MI, pp. 9, 36, 110, 131, 174)
Dalle confessioni romanzate del giovane protagonista, Ottieri attua un’introiezione mimetica
e consolatoria delle proprie sofferenze adolescenziali che, contratte in uno stato generale di
depressione, si purificano attraverso il dolore collettivo. L’introiezione riguarda, infatti, un processo
in cui viene incorporata nel sistema dell’Io la rappresentazione mentale di un oggetto esterno, in
questo caso la guerra, così che il rapporto dell’Io con l’oggetto si trasforma nel rapporto dell’Io con
l’immagine dell’oggetto introiettato. L’introiezione può essere considerata anche una difesa in
quanto protegge dall’angoscia individuale rapportandola, in modo mimetico, alle contingenze
esterne le quali, nel caso di catastrofi collettive, permettono di alleviare i dolori intimi dell’Io che
trae sollievo e consolazione nel dolore altrui. Quest’atteggiamento molto comune nel periodo
adolescenziale, ma che si presenta in alcuni casi anche nell’età adulta, prevede perciò una sorta di
purificazione individuale che richiede una tragedia estesa al mondo depresso, e che Ottieri spiega in
modo esplicito in una lettera inviata a Vanni dove aggiunge anche la riflessione sulla catarsi che il
dolore collettivo, esploso durante la guerra, può attuare con il procedimento opposto
all’introiezione, purificandosi attraverso il dolore del singolo individuo fino a diventare idea e
rivoluzione:
Caro Vanni, che strano dolore ne provo! È forse quel dolore assillante, continuo, insaziabile, che non
puoi disertare, che sale con te ovunque, che ti perseguita profondamente, che diventa tutto te stesso, che si
sovrappone alla tua personalità, che ti scaccia la tua anima e la sostituisce con questo soffio vitale fatto
interamente di sofferenza? Il dolore collettivo andrebbe collettivamente sofferto; ma nel riunirsi della
persona esso tende a sparire, a sfogarsi, a purificarsi, a diventare idea e rivoluzione. […] Il dolore collettivo è
il miglior farmaco verso il dolore personale; ho provato e provo tutt’ora quanto sollievo rechi intimamente
l’immedesimarsi nella tragedia della Patria, l’obliarsi nell’intrico della vicenda, nella caccia appassionata al
precipitare degli avvenimenti. (Settembre ’43)
Tra avvenimenti storici così importanti e il disagio esistenziale del protagonista Lorenzo,
nelle Memorie si riscontra una certa densità d’immagini femminili che formano nell’insieme il
primo movimento di quella «ridda» (CC, p. 9) ossessivamente presente nella letteratura di Ottieri.
Spiccano nel romanzo Katja e Rita, con le quali Lorenzo instaura delle relazioni sentimentali non
sempre pienamente corrisposte, ma in alcune circostanze affiora quell’atteggiamento che sarà
consueto dell’Ottieri più maturo, ovvero la mania della conoscenza contemporanea di numerose
donne, come avviene per un’amica rumena del fratello di Katja o per la cameriera della stessa:
In quel momento venivo più attratto dalla sua amica che da lei. […] Ora Katja, comparendo
all’improvviso, sorprendeva me e Antinea seduti in compagnia sul divano, si affacciava all’inquadratura
della porta e spiava dentro… […] Il suo corpo di donna fatale stava accasciato sul divano senza più nessuna
253
pretesa. […] Trovando piacevole la compagnia, durava fatica a andarsene: ci saremmo fatti sorprendere da
Katja. Sussultai e risi tra di me. (MI, pp. 18, 57, 58)
Ma oltre queste sottili divagazioni, importanti se analizzate come primi indizi di una
compulsione erotico-letteraria attestata nelle opere successive, la scena del romanzo è dominata da
due figure femminili: Rita Mayer e Katja N. attraverso le quali Ottieri filtra due suoi amori
giovanili, Tullia Paolozzi e Dora Vallier. Di Tullia si è già riferito in precedenza riguardo alle
lettere che Ottieri raccolse con la postilla «Frettolose memorie di Ottiero rimasto a Tullia partita»
facendo riferimento alla partenza della ragazza che aveva dovuto lasciare Chiusi con la famiglia
proprio nei giorni in cui fu annunciato l’armistizio:
Oh, mia cara Tullia, mutazione delle cose umane. […] La sera della tua partenza giunse la notizia
dell’armistizio. […] La gioia si prolungò durante la notte e pareva che i tedeschi rimanessero volatilizzati e
dispersi da questo entusiasmo popolare. […] Solo nel primo pomeriggio ci siamo resi conto della situazione.
[…] Siamo nel periodo caratteristico in cui è lontana la paura, ma non il sentimento della sciagura. […] Un
poco di sconforto m’invade di quando in quando per una memoria, per una nostalgia, soprattutto per il senso
che ho della mia debolezza, della mia infingardia, del mio idealismo retorico. […] Mi avevi promesso di
ritornare ma non tornerai, chi sa perché, per troppe ragioni. Sono nuovamente solo e vivo di questo
sconvolgimento, senza dolore, cercando di aguzzarvi dentro le pupille e di scorgere il meccanismo con
chiarezza. […] Bisogna uscire dalla ruota che segna le grandi epoche e le grandi rivoluzioni dello spirito. E
dopo questo, Tullia, il vivo ricordo di te, di quel nostro ultimo stare insieme, divenuto così tenace,
istintivamente, così privo di dubbi, a un tratto che quasi me ne stupivo. […] Tullia, ora finisco di scrivere;
segretamente aspetto che tu venga da me, ma finirò per salire, visto che mi pesa l’attesa. Che faremo? I
timori dell’animo mio schiacciano le giovanili speranze. (Chiusi 8-14 settembre ’43. «Dalla resa delle armi
alla resa, o quasi, dell’ultimo respiro»).
Nei ricordi del giovane Ottieri, riverberati da Lorenzo nelle Memorie, si staglia l’immagine
di Tullia l’amica d’infanzia incontrata ogni estate a Chiusi. Nel periodo bellico tuttavia quello che
emerge con forza è il distacco dalla ragazza, l’attesa per un suo ritorno, la tristezza della
separazione; e nel complesso Tullia è tradotta in Rita Mayer che trascorre le estati a Chiusi nella
casa dei genitori.
L’estate anteriore a questa avevo già amoreggiato con Rita, di sei anni maggiore di me, fino alla
partenza per la città in autunno. […] La casa, il giardino, il parco dei Mayer erano vastissimi e ci si poteva
stare in gran libertà, rifugiandosi da un luogo all’altro. […] Si lamentava della terribile estate, sempre
peggiore, usando il suo modo di beffarsene. (MI, p. 152)
Un amore in fuga, quello di Rita-Tullia, che non scompare nei ricordi di Ottieri che a
quarant’anni dalle Memorie riprende quella stessa vicenda sentimentale che si arrestò nel romanzo
giovanile portandola a compimento in un poemetto inserito in Vi amo (1988) dove ritorna
l’immagine di Tullia, questa volta anziana suicida.
254
Il tuo giorno fu lungo / e tardi da te stessa / mozzato, o Tullia, / mio primo grande amore / carnoso
dopo l’assurdo / della castità di Dora. […] A sessanta anni / di te sei da te stessa addormentata. / Non sapevo
più niente di te / da quaranta anni. / Ho saputo d’un colpo che non c’eri più. […] Col suicidio hai prevenuto
la botta / che decide il destino. (AMO, pp. 27-31)
Ma la protagonista femminile delle Memorie è senza dubbio Katja N. che riassume i tratti di
Dora Vallier, un fugace amore giovanile di Ottieri. In primo luogo, come il personaggio del
romanzo, Dora «era una ragazza slava che avevo conosciuta un mese prima, in maggio; abitava sola
con il fratello, diplomatico, un appartamentino in Via Ravenna 9 b, tra le ville rigogliose di Via
Nomentana e le grandi case popolari sulla ferrovia» (MI, p. 7). L’origine «slava» di Katja creò
alcuni problemi per l’edizione giacché Vittorini, che come capo responsabile della sezione milanese
dell’Einaudi aveva preso in visione il manoscritto, si dimostrò fin dall’inizio molto scettico su tale
caratteristica «troppo banale» del personaggio femminile che avrebbe dato uno spiccato senso di
«provincialismo» al romanzo, ma sia Calvino che l’autore propendevano decisamente per
l’elemento slavo. Alla fine Vittorini dovette arrendersi; tuttavia, pur avallando la pubblicazione
delle Memorie, considerò l’opera prima di Ottieri in modo non molto favorevole serbandogli in
seguito molte critiche di carattere contenutistico e formale. Nel ’52 Ottieri ebbe una fitta
corrispondenza con Calvino e, in parte, anche con Vittorini in merito alle Memorie sponsorizzate da
Calvino:
Caro Calvino, voglio ringraziare Lei in modo particolare perché è stato il primo a darmi, con grande
cortesia e sollecitudine, il senso di non essere rimasto al di qua; cioè d’aver varcato la linea fra non
pubblicabile e pubblicabile. Vittorini si è anche accordato con Bompiani. Anche Bompiani preferisce che io
cominci con un editore estraneo. Quanto a me, Le confermo che a Einaudi avevo sempre aspirato. (12
dicembre ’52)
Nella lettera Ottieri fa riferimento alla possibilità di pubblicare con Bompiani grazie alla
conoscenza diretta del presidente della casa editrice, Valentino Bompiani, diventato dopo l’aprile
del ’50 suo prozio avendone sposato la nipote Silvana Mauri. Ma per non sembrare uno scrittore
raccomandato e insieme all’alta considerazione per Einaudi, Ottieri decise di presentare i suoi primi
lavori alla Einaudi con cui, oltre alle Memorie, pubblicherà nell’arco di trent’anni Tempi stretti, I
venditori di Milano, I due amori e Vi amo. Valentino Bompiani, tuttavia, si dimostrò fin dall’inizio
assai schietto nei confronti dell’Ottieri scrittore, non lesinandogli critiche quando necessarie e
pubblicando i suoi lavori solo quando lo avrebbero meritato.
Caro Ottieri, dei tuoi racconti che ho letto, il più bello mi pare Monsignore che è, nella prima metà,
un bellissimo racconto. L’attento gioco psicologico è mosso con mano sicura in una scrittura precisa, sottile
e non letteraria e con tante inaspettate scoperte che anche il lettore procede per paesaggi che mutano. […]
Non ho apprezzato un certo andamento moraviano. […] Poi la seconda parte è delusiva per impazienza e
255
pigrizia. […] Metti da parte i tuoi moraviani cugini che potevano servirti ieri, ma non potrebbero aiutarti
domani. (26 maggio ’51)
Per quanto riguarda la corrispondenza tra Calvino e Ottieri, questa prosegue per tutto il ’53
dove si parla della correzione delle bozze delle Memorie, dei commenti di Vittorini e della malattia
di Ottieri, una grave forma di meningite tubercolare avuta in giugno e per la quale lo scrittore dovrà
essere ricoverato quattro mesi nella clinica fiorentina del Dottor Cesare Cocchi, l’unico a
quell’epoca in grado di curare la meningite.
All’inizio del ’53 accaddero due eventi importanti nella vita dello scrittore: il 7 febbraio
nacque a Milano la figlia Maria Pace; in marzo venne assunto con l’incarico di selezionatore del
personale all’Olivetti dove scopre, dall’interno, il mondo industriale da lui tanto agognato. In una
lettera datata 18 agosto ’53, Ottieri è felice di informare Calvino della ripresa dell’«attività
intellettuale post-meningite», in quanto può rivedere le bozze delle Memorie e dunque riflettere
sulle critiche di Vittorini in merito all’origine slava di Katja che Calvino comunque lascerebbe
invariata poiché rappresenta meglio lo spaccato sociale e politico dell’Italia degli anni Quaranta.
Tuttavia Vittorini aveva tentato di far cambiare idea allo stesso Calvino:
Caro Italo, io non amavo quella storia di balcanici che metteva nel libro un’aria alla Körmendi, ma
speravo che egli cambiasse in meglio. Se è come dici tu, ha cambiato in peggio, e allora sono anch’io del
parere di fargli ripristinare la vecchia manica. È il punto più falso del libro, purtroppo, ma pazienza. Lo
cercherò oggi per parlargli. (5 giugno ’53)
Non proprio positivo il riferimento che Vittorini instaura tra Ottieri e Körmendi, scrittore
ungherese molto popolare negli anni tra le due guerre soprattutto per la formula del romanzo
d’appendice riattualizzato per i gusti di un pubblico medio-borghese, e dunque molto distante
dall’engagement letterario di Vittorini. Ottieri riesce a salvaguardare il carattere slavo di Katja e
questo non è un aspetto marginale del romanzo se egli dovette confrontarsi e difendersi dalle
critiche di Vittorini, considerato in Italia tra le personalità più autorevoli nel panorama editoriale e
culturale degli anni Cinquanta. La spiegazione va ricercata negli influssi autobiografici che Ottieri
ha immesso nelle Memorie; se Lorenzo è la sua proiezione adolescenziale, Katja riflette l’amore
non corrisposto per Dora Vallier, figlia di diplomatici e studiosa di pittura dalla mentalità
mitteleuropea e dal carattere sfuggente, che lo scrittore conobbe a Roma alla fine della primavera
’43.
Cara Dora, ti ho voluto un gran bene; ora ne conservo una dolce-amara memoria, ma ti ricordo con
grande affetto. […] Tu per il paese, per il modo di vivere, per il fascino slavo (sic), per l’ambiente, per le
condizioni geografiche hai una mentalità diversa dalla mia. Hai la mentalità classica della straniera, come si
256
dice con una sorta di paurosa ammirazione, nostalgia e desiderio qui fra noi provincialetti d’Italia. (Ottobre
’43)
Dunque, come Dora è «slava» e «straniera» così anche la Katja delle Memorie; il riferimento
alla mentalità provinciale degli italiani che si crogiolano nell’ammirazione per chi a vario titolo
viene da un altro paese, riflette il pensiero dell’autore riguardo al servilismo insito nell’animo degli
italiani. In un passo del romanzo Katja fa una fugace apparizione a Belverde per incontrare Lorenzo
e l’evento, per le grette mentalità piccolo-borghesi e «provincialette» dei paesani, provoca curiosità
e attenzioni particolari rivolte ai due ragazzi:
Trovai a casa un telegramma di Katja lunghissimo, in cui si diceva che andava a Venezia, che
passava per Belverde e che voleva visitare Siena, con me. Venne così il momento in cui la ebbi dinanzi in
carne e ossa. […] La portai a vedere tutte le bellezze naturali e artistiche del paese, affinché ammirandole si
legasse al luogo dove vivevo. Non incontrammo nessuno faccia a faccia, ma tutti ci guardavano. Ognuno
doveva pensare che avessi un’amante. […] Quando incontrai di nuovo Katja parve che fosse arrivata allora,
per farmi una visita azzardata sotto gli occhi di tutti. (MI, pp. 134, 135, 139)
Le prime indicazioni offerte dall’autore su Katja sono, oltre all’origine slava, il suo indirizzo
di Roma «Via Ravenna 9 b, tra le ville rigogliose di Via Nomentana e le grandi case popolari sulla
ferrovia» (MI, p. 7) dove abita insieme al fratello diplomatico. Anche Dora viveva in quella zona e
c’è una corrispondenza evidente di situazioni tra il romanzo e l’esperienza personale di Ottieri:
Cara Dora, ho una terribile nostalgia di te, di quando ti incontravo sotto quell’orribile monumento al
bersagliere in Porta Pia. Eri una ragazza incomparabile, con quegli occhiali al sole, e la tua dolcezza. Saluta
tuo fratello! (Settembre ’43)
Durante il tragitto fra la mia e la sua casa, per le strade calde e alberate, sotto l’ombra dei pini di una
villa che costeggiavo, pensavo di concludere, di avere una risposta per sempre. Salivo piano le scale del
numero 9 b. Davanti si alzava una piccola pineta come un’oasi, in certe ore deserta, in altre piena di bambini.
Katja mi aspettava. (MI, p. 10)
Dora è figlia di diplomatici e dalle lettere scambiate col giovane Ottieri si comprende che la
ragazza vive tra Venezia e Bucarest; inoltre per il lavoro del padre è costretta a cambiare spesso
città, soprattutto nel periodo caotico dell’estate ’43 tra la guerra e l’armistizio. Poiché molte
ambasciate e consolati si trovano a Roma lungo la Via Nomentana, gli appuntamenti a Porta Pia e la
trasposizione dell’indirizzo di Katja in Via Ravenna non sono coincidenze casuali. Il riferimento ai
«pini di una villa» e alla «piccola pineta» riguardano, infatti, Villa Torlonia costeggiata da Via
Ravenna; e inoltre la casa romana di Ottieri è in Via Calabria, numero 56, dunque non molto
distante da Via Ravenna, così che Porta Pia rappresentava il classico appuntamento a metà strada.
Infine, anche il riferimento al fratello di Dora, Alex nel romanzo, diplomatico che dovrà rifugiarsi a
Venezia durante i mesi di Roma città aperta, fa combaciare l’aspetto biografico con il letterario.
257
I sentimenti provati da Lorenzo per Katja non sembrano essere corrisposti dalla ragazza
sempre sfuggente e restia a stringere una relazione che superi i limiti di un’amicizia seppur
profonda. La lontananza aumenta questo disagio in Lorenzo che, nell’impossibilità di vederla, se ne
ingelosisce a suo modo soffrendo più per l’idea che per l’effettivo sentimento provato. Lorenzo
infatti non è davvero innamorato di Katja; a volte si annoia quando la vede, non prova
coinvolgimento emotivo per i suoi interessi, la pittura e i viaggi, e non è nemmeno attratto
dall’aspetto fisico.
Katja, brava a conversare, descriveva le persone; ma a furia di raccontare, dopo avermi emozionato e
ingelosito, diventava noiosa. Calma, il viso largo e attento, con una luce serena, si occupava per ore anche di
argomenti intellettuali e insieme insignificanti. […] Era ingrassata, ma il viso, la bocca, la voce, erano
identici. (MI, pp. 10, 134)
Gli interessi di Katja riguardano nello specifico «la pittura e alcuni episodi di viaggio narrati
nei minimi particolari. Mi annoiavo?» (MI, p. 11). Anche Dora dimostra al giovane Ottieri una
particolare attenzione per la pittura oltre ai viaggi, allo studio delle lingue dal bulgaro madrelingua
al francese, all’italiano, al tedesco, all’inglese e al russo, alla conoscenza di altre capitali europee. In
un’intervista rilasciata a Lea Vergine e inserita nel libro Gli ultimi eccentrici89, dove è presente
anche Ottieri, Dora Vallier parla del suo lavoro di critica d’arte90 e della vita trascorsa in diversi
paesi a seguito della famiglia. Per questa eccentrica e complessa figura femminile si animarono, nel
giovane Ottieri, passioni adolescenziali abilmente filtrate in un alter ego romanzato attraverso il
quale distilla illusioni e fantasie tuttavia non corrispondenti alla realtà dei fatti; Lorenzo è attratto
dal particolare genere di vita della ragazza conosciuta da poco e più grande di lui, ha venticinque
anni, figlia di diplomatici che viaggia per il mondo e conosce diverse lingue. Eppure dell’essenza
vera di Katja, nel romanzo, non si fa alcun cenno, non per una tendenziosa pigrizia dell’autore bensì
per accentuare il particolare sentimento di Lorenzo che ama l’idea piuttosto che la persona.
Le ripetevo: «Ma io, Katja, sono venuto perché sono innamorato, lo sai, sono innamorato»; senza
negare, la ragazza sfuggiva e rimandava. […] Lei era davvero libera, stava ovunque, poggiata per caso. […]
Prima o poi, come sempre, lei e suo fratello sarebbero partiti. Io sapevo che presto avrebbero lasciato l’Italia.
[…] «Io vorrei sapere che fai quando non ti vedo. Eppure ti vedo sempre, sei sempre libera». […] Poiché
Katja era sempre sul piede di una probabile partenza, col pretesto delle commissioni girava disordinatamente
per la città e io l’accompagnavo, mi prodigavo. […] Potevo partire da Roma? La relazione con Katja
continuava solo se la vedevo giorno per giorno. […] Il filo sottile tra me e Katja c’era sempre, ma la
lontananza diventava insopportabile. (MI, pp. 9, 10, 11, 21 , 29 , 53)
89
Lea, Gli ultimi eccentrici, cit. L’intervista a Dora Vallier si trova alle pagine 116-124.
Dora Vallier ha pubblicato numerosi lavori, in francese e inglese (alcuni tradotti anche in italiano) sull’arte
contemporanea con particolare attenzione alle avanguardie e alla pittura astratta, come Braque: L’œuvre grave,
catalogue raisonné; Ce Pont-Là De Kyoto; L’intérieur de L’art: Entretiens avec Braque, Leger, Villon, Miro, Brancusi
(1954-1960); Peintures d’enfants: leçon de vie; Vieira Da Silva: chemins d’approche; Abstract Art; Henri Rousseau.
90
VERGINE
258
È un amore, quello provato da Lorenzo, sempre in fuga a causa della natura della ragazza
desiderata ma sempre instabile non tanto per carattere quanto per stile di vita e necessità familiari;
perciò il sentimento si esprime attraverso il distacco, l’inevitabile partenza, l’autonomia e la libertà
di Katja sempre sfuggente. L’amour en fuite di Lorenzo si confronta dunque con la passione non
corrisposta della ragazza che ammette esplicitamente di voler bene ma senza amare: «Povero
Lorenzo, perché non sei più ragionevole e più quieto? Io ti voglio bene, ma non posso amarti, sei
troppo giovane. Tu sei il mio amico, ma non posso scegliere te, no; per l’amore, per sposare,
sceglierò un tipo molto diverso da te» (MI, p. 14). Si tratta nelle Memorie del primo caso di un
motivo assai frequente nelle opere di Ottieri, ovvero il bene velle che si oppone all’amore: da questo
contrasto sorgeranno numerose relazioni che vedono il protagonista, sempre un alter ego dello
scrittore, provare sentimenti non corrisposti per donne necessariamente da amare, sebbene, ma forse
proprio per questo, ogni concretizzazione sia fin dall’inizio preclusa. Esempi di questa opposizione
sentimentale si ritrovano nel Campo di concentrazione, in Contessa, nel Poema osceno, in Cery e
nell’Irata sensazione.
Dunque a causa della lontananza, il rapporto tra Lorenzo e Katja si struttura attraverso le
lettere, e questo espediente mette in rilievo degli aspetti significativi della vita e dell’opera di
Ottieri91. Il suo epistolario, soprattutto dagli anni Quaranta ai Sessanta, si dimostra una fonte
inesauribile di notizie e riflessioni sulla società, la politica, la malattia, gli affetti, il mondo culturale
italiano. Fin dall’inizio, grazie a una predisposizione già letteraria, si comprende l’attitudine a
scrivere lettere non per fini utilitaristici poiché in esse si evidenziano una vasta cultura e una
volontà di fare letteratura grazie anche a una ricercata organizzazione delle parti tra racconto e
riflessione. Da queste considerazioni, le Memorie, seppur giovanili e opera prima di Ottieri,
nascono già mature e riflettono le inquietudini raccontate in forma privata a Fabrizia, Tullia,
Francesca, Dora, Vanni.
L’altro aspetto, propriamente letterario, riguarda invece il valore delle lettere all’interno del
romanzo: infatti il rapporto tra Lorenzo e Katja si anima grazie a un accalorato scambio epistolare,
come accadrà nel Campo di concentrazione tra il protagonista autobiografico e Caterina, e in Cery
tra Filippo Ciai e le due amanti della clinica.
Avevo già spedito tre lettere a Katja senza ricevere alcuna risposta. […] Cominciai nuovamente a
attendere la risposta di Katja. […] Due e più volte al giorno scendevo le scale buie per frugare con la punta
delle dita nel legno della cassetta delle lettere. […] Smaniavo, piuttosto, facendo fantasie a occhi aperti sul
groviglio dei servizi postali: impostazione di Katja, uffici, treni, altri uffici, distribuzione, orari. Una lettera
91
Fin dalla prima adolescenza lo scrittore si dimostra un accanito grafomane riempiendo numerose pagine al
giorno per le prime poesie e racconti o per la fitta corrispondenza, di solito con penna stilografica ad inchiostro blu,
mentre dagli anni Sessanta userà le penne biro blu o nere; per l’Irata sensazione, scritta all’età di settantotto anni e con
molti problemi fisici, Ottieri comporrà addirittura cinque versioni manoscritte.
259
può andare perduta? […] In quei giorni alzandomi la mattina provai ogni volta un malessere maggiore: dopo
qualche lettera di nuovo Katja non scriveva più. […] Fui sopraffatto dall’ossessione per il silenzio di Katja
non riuscendo a fissare il pensiero su altro. (MI, pp. 35, 37, 83, 87)
Il dato più rilevante della corrispondenza epistolare riguarda la faticosa attesa di lettere che
non arrivano mai, e il dolore provato dal protagonista riverbera la medesima ossessione del giovane
Ottieri per Tullia, Dora e Fabrizia. In ambito psicologico, l’attesa è una dimensione che caratterizza
l’atteggiamento psichico rivolto al futuro e dunque intesa come il contrario dell’attività, per cui si
attende che l’avvenire diventi presente. Per questo l’attesa è ansiosa, o meglio si parla di ansia da
attesa tipica negli psicotici, sospendendo l’attività in cui abitualmente è espressa la vita con il suo
conseguente carattere penoso laddove la temporalità è imprevedibile e nessuna esperienza del
passato interviene a ridurre lo spazio dell’inatteso.
Poiché la distanza, Lorenzo è a Chiusi e Katja a Roma, non si riduce con le lettere, anzi la
loro attesa aumenta l’angoscia, il giovane, accompagnato da Claudio, decide anche senza il
consenso della sorella di prendere il treno di notte, durante il tribolato periodo dell’armistizio, per
vedere la ragazza a Roma.
Ma la sera mi lasciò partire, per amore, per stanchezza, per rassegnazione. […] Giungemmo a Roma
di notte e decisi di farle visita immediatamente; se non la trovavo a casa, l’avrei aspettata. Avvicinarmi a
Katja era sempre un punto in cui il passato finiva e altro cominciava, e nell’emozione, sull’orlo di sfogarsi,
vibravano delle fantastiche speranze. (MI, p. 55)
Cara Dora, noi ci vedemmo quella mattina in Piazza di Spagna, era di lunedì, il 27, 28 o 29
settembre; ero partito la sera avanti da Chiusi viaggiando tutta la notte, per arrivare alle prime ore. (Ottobre
’43)
E le distanze aumenteranno quando Katja annuncia la sua prossima partenza per Venezia,
città che coincide nella vicenda biografica di Dora. Katja in un telegramma rivela a Lorenzo il
proposito di lasciare Roma per la città lagunare poco dopo l’armistizio; e alla fine del romanzo per
telefono gli annuncia il trasferimento definitivo: per Ottieri questa città viene avvolta da un alone di
mistero, in quanto sconosciuta, e dove la gelosia aumenta per la lontananza maggiore che lo separa
da Dora.
Lorenzo! Partiamo stasera per Venezia. Tutta la legazione si trasferisce a Venezia. Così mi raccontò
le lunghe peripezie, i preparativi estenuanti per questa partenza rimandata, da un mese, tutti i giorni e che
avveniva proprio oggi, la situazione pericolosa di Alex, le buffe tragedie dell’armistizio. Tutti i diplomatici
erano sottosopra. (MI, p. 207)
Cara Dora, come si sta a Venezia? Appena finita la guerra, cioè quando avrò i nipoti, corro a
Venezia. […] Vedi gente a Venezia? Sono geloso degli amici che hai a Venezia. Ma se dovessi dar retta alle
mie tumultuose passioni, a quest’ora sarei morto. (Ottobre ’43)
260
III.2 La storia del PSI nel centenario della nascita
La tematica politica rappresenta, oltre all’industria e alla clinica, un importante movimento
di quella “sinfonia” aperta in cui è strutturata l’opera di Ottieri. Il motivo dell’attualità politica, pur
essendo presente fin dai tempi delle Memorie e poi negli scritti successivi, si afferma soprattutto
nell’ultima parte della sua produzione con due capisaldi: il poemetto Storia del PSI nel centenario
della nascita e il prosimetron Il poema osceno, per poi trovare altre evoluzioni negli ultimi romanzi
Cery e Una irata sensazione di peggioramento. La cronaca politica, riferita a un partito in
particolare, è un argomento raro nella letteratura italiana e Ottieri la condensa attraverso la malattia
che certifica uno stato di crisi non solo personale ma anche del partito, per lui socialista, e
dell’autorità paterna con il poemetto Il Padre che si unisce tematicamente alla Storia del PSI
insieme al quale viene pubblicato dalla casa editrice Guanda nel ’93. Il privato, come sempre
accade in Ottieri, è connesso al pubblico osservando quegli stati d’alienazione che, nella fabbrica
come nei manicomi, nei salotti mondani e nella politica, investono non solo lo scrittore ma l’intera
società. A tal riguardo Silvia Bocca gli scrive: «Caro Ottiero, il Campiello è sicuramente un’altra
cosa. Ma il piacere di leggere te, la Storia del PSI, il tuo papà, la nostra vita, beh, questo è un
piacere grande di cui bisogna ringraziare. Silvia Bocca (l’infelice moglie di Giorgio Bocca. Così mi
ha definito un settimanale clerico-fascista)» (6 settembre ’93).
Ottieri nella Storia del PSI, una tappa del percorso letterario assai distante dalle opere
precedenti, si scaglia contro il partito traditore che ha progressivamente abbandonato quegli ideali
di giustizia sociale sui quali si fondò nel 1892. Nei versi del poemetto affiora una tristezza mista a
ironia, sarcasmo, dolore, malinconia, nostalgia per quello che non si realizzò mai, cioè il socialismo,
e anche un rimpianto per la propria presenza intermittente all’interno del partito, dalle riunioni nella
sezione socialista della Pirelli Bicocca nel ’48 al non rinnovamento della tessera nel ’51. Ottieri,
poeta engagé a modo suo, milita contro un socialismo senz’anima che ha perso i punti cardinali
della propria essenza per trasformarsi in qualcosa di diverso.
La Storia del PSI fu composta nel ’92, in un anno determinante della politica italiana
caratterizzato dallo scandalo di Tangentopoli e dal crollo fragoroso di un sistema corrotto che
sembrava arrivare al capolinea; ma anche un anno che certifica la fine dell’URSS, «il Monolite», lo
stato socialista per eccellenza. Ottieri tralascia gli aspetti più grotteschi della politica italiana, cui
darà ampio spazio nel Poema osceno, per analizzare con maggiore attenzione il disfacimento del
Partito Socialista connesso alla sua crisi d’identità. In quanto Storia, si parla del PSI partendo dalla
nascita (1892) fino al suo disgregamento (1992), attraverso un secolo di complessi, di rapporti
contraddittori con i «cugini» comunisti e con i partiti al potere, di utopie negate e di intrallazzi
261
realizzati, di figure paterne che in alcuni casi hanno tradito. In principio, ciò che ha segnato
l’esperienza politica di Ottieri fu il «complesso» vissuto nei confronti dei comunisti, «cousinage
mauvais voisinage» (PSI, p. 16), che per cinquant’anni hanno tirannicamente attratto le esigenze e i
voti dell’elettorato di sinistra.92
I socialisti avevano il complesso / dei cugini. […] Nelle sezioni si finiva sempre / per discuter
passionalmente / dei comunisti. […] Nello stesso tempo / Filippo Turati, in Milano, / non si nomava mai;
poco Gramsci. / Attiravamo tutta la sinistra, / Quella / della situazione odio-amore, / paura-bisogno, /
nell’inter-azione col Monolite. / Non volevamo essere socialisti solo per questo. / Allora per cosa? /
Vivevamo ancora la scissione del ’21? (PSI, p. 15)
Quando non avanza qualche ciclone politico nazionale, l’aria si accende fortemente per le beghe.
Stasera si è litigato per un litigio con i saragattiani, circa una bandiera e un monumentino a Matteotti. E i
rapporti difficili coi cugini comunisti occupano tre quarti delle assemblee: così fra saragattiani e comunisti,
la tensione si fa sempre più parentale. (LG, p. 33)
Il problematismo esistenziale vissuto dallo scrittore converge non solo con i cattivi cugini
ma anche con il «Monolite», l’URSS, interprete protocollare del socialismo mondiale. Il rapporto, o
meglio il distacco che il PSI ratifica con i sovietici non può tuttavia lasciare indenni da ingenue
giustificazioni. In sostanza Ottieri non si vuole nascondere dietro i crimini dell’URSS, legittimati
dalla parte più ortodossa del PCI, perché il valore del socialismo deve superare le diatribe dei
partiti; e il refrain non è colpa nostra non esclude il richiamo della pura coscienza socialista.
Il nostro vantaggio forte era / che se l’URSS faceva una strage / di un milione di genti, / non
dovevamo giustificarla, / giustificarci. / All’URSS mai aderimmo in toto. / È sempre stato arduo / giustificare
l’URSS in toto, / e non dico questo col senno di poi, / anche allora i socialisti / soffrivano per evitare / il
dissenso di classe. (PSI, p. 10)
Il salto che divide è sempre questa Urss misteriosa: accettarla in blocco o in blocco respingerla,
anche se i più di noi hanno il dubbio di non poterci andare – finalmente a vedere e decidere sul posto – mai.
(LG, p. 34)
Al momento del crollo dell’Unione Sovietica, Ottieri è costretto a osservare una situazione
particolare in Italia: da una parte i comunisti che l’avevano previsto dopo aver profetizzato una
nuova via politica da percorrere, dall’altra i socialisti che, pur lontani dall’URSS, si
colpevolizzavano a loro modo per la fine dell’illusione. Il risveglio è diverso e davvero
contraddittorio per entrambe le fazioni:
92
Solo per le votazioni dell’Assemblea costituente del 2 giugno ’46 il Partito Socialista, allora PSIUP, poté
vantare più voti e seggi rispetto ai «cugini» comunisti: il PSIUP ottenne in quell’occasione 4.758.129 voti (20,72%) e
115 seggi rispetto ai 4.356.686 voti (18,97%) e 104 seggi del PCI. Ad eccezione delle elezioni del 18 aprile ’48 in cui i
due partiti si fusero nel Fronte Democratico Popolare con risultati non certo positivi rispetto alla Democrazia Cristiana,
in tutte le altre consultazioni politiche il PCI prevalse sempre per il maggior numero dei consensi nei confronti del PSI.
262
Col senno di poi si vede / che, dopo il collasso orientale, / più sono seri certi socialisti italiani / che
certi comunisti. / Questi non fanno nemmeno autocritica, / non si suicidano, / freddi non esaminano / i reperti
del disastro. […] Molti comunisti d’acciaio / dicon semplicemente / che le cose sono cambiate, / per cui
devono essere / cambiate le idee, / e che l’avevano detto. / Non l’avevate detto per niente! / Io non sono
paranoico, / voi / siete paraguli! (PSI, pp. 23-24)
Ottieri individua in questo passaggio un elemento della più vasta crisi presente all’interno
della sinistra italiana che verrà, in modo più critico e feroce, analizzata nel Poema osceno, ossia
quella condanna a un’eterna opposizione che non permette di guidare seriamente uno Stato.
Condanna derivata da una certa ingenuità e incoscienza della cosa politica che ha soffocato quelle
spinte riformistiche volte a trasformare l’Italia in un paese democratico, seppur nei due partiti di
sinistra siano apparsi personalità di grande spessore tra cui Togliatti e Nenni. Su quest’aspetto si
eleva il grido di disapprovazione di Ottieri: tra complessi, alterità, questioni morali, compromessi
storici, convergenze parallele, grottesche non-sfiducie, la sinistra italiana ha perso troppe occasioni
per concretizzare i progetti di rinnovamento che spesso sono andati a ingrossare lo sconfinato
magazzino delle idee mai realizzate.
Il social-psicoanalista Perrotti / avvertì i suoi / e i rossi tutti / che potevano agonizzare / nello stato
infantile / dell’opposizione eterna. / Si rischia di stare / all’opposizione fin di se stessi! / Attenti!
L’opposizione permanente / è stato mentale / irresponsabile, pur se piacevole, / è stato parassitario, / da cui
poi non si può più uscire. (PSI, p. 16)
Poiché la Storia come magistra vitae non alimenta le speranze di chi ha molto visto e
sofferto, si comprende come in Italia ci sia l’impossibilità effettiva, dalle parole dello psichiatra
Perrotti, già presente nell’Irrealtà quotidiana, di un governo di sinistra per un congruo periodo.
Dalla batosta delle elezioni del ’48, caratterizzate da propagande messianiche con lo spettro dei
cavalli bolscevichi che nitrivano al cospetto delle fontane romane, il Partito Comunista e le altre
forze di sinistra hanno dovuto malinconicamente constatare le vittorie della Democrazia Cristiana e
dei suoi alleati-satelliti. Ma il disastro politico è evidente nell’atteggiamento “puerile” che
accompagna da allora il modus operandi dell’intellighenzia di sinistra: Ottieri lega l’infantile, come
stato mentale irresponsabile, all’incoscienza del fascismo vissuta già negli anni giovanili, quando il
buio della mente oscurò un intero popolo. E non si trattò di un caso isolato. Quello che si delineerà
in modo più esplicito nel Poema osceno è la visione di un paese di destra, fascista, clericale, e che
dal Duce a Berlusconi passando per i gerarchi DC, la percezione della democrazia è sempre stata
assai fugace. Per gli intellettuali engagés di sinistra, e Ottieri si conta nel novero, si riscontra una
condizione particolare: loro sono sempre di sinistra anche quando essa evapora come un’isola che
non c’è: «Gli intellettuali realizzano / che devono, per natura, / stare sempre a sinistra / anche
263
quando non c’è più sinistra. / È il paradosso della nuova sinistra, / insieme a quello che una nuova
sinistra / venga da destra» (PSI, p. 25).
Ottieri prende spunto da queste riflessioni per trattare la connessione tra la politica e la
malattia mentale che parte dalla vicenda biografica per allargarsi ben presto a orizzonti più ampi. In
primo luogo fu il principio del piacere che venne negato, sia dai socialisti che dai comunisti, a
favore del principio di rivoluzione, con la conseguenza che mai si presentò per loro la possibilità di
provare esperienze di benessere anche solo transitorie: «Sia i socialisti, sia i comunisti / scopavano
poco e questo / è molto importante, / come si vedrà in futuro. / Il principio del piacere / andava
completamente annegato / nel principio di rivoluzione. / Ma la tristezza della classe operaia /
sembrava gridare / più di uno sciopero generale» (PSI, p. 10). L’idea di fondare sul piacere il
principio di regolazione dell’attività psichica è stata proposta da Gustav Theodor Fechner che ha
enunciato tale principio nell’azione da intendersi non come finalità perseguita dall’azione umana,
secondo le teorie edonistiche, ma come effetto della rappresentazione dell’azione da compiere e
delle sue conseguenze. Partendo da queste premesse, Freud definisce il principio di piacere come la
riduzione della quantità di eccitazione, e dispiacere l’aumento della stessa. Tale principio è pensato
in opposizione a quello di realtà, nel senso che dapprima le pulsioni tendono a una scarica
immediata allucinando, quando possibile, nel sogno o nella fantasia l’esaudimento del desiderio; in
seguito, esperimentando la realtà, i soggetti imparerebbero a conseguire una gratificazione
procrastinata nel tempo con una condotta meno allucinatoria e più adattiva.
Ottieri chiama in causa tale principio per dimostrare che la sinistra italiana, a causa del
vulnus che l’ha infettata fin dal principio, rivoluzione sì piacere no, non riuscì mai ad adeguarsi alle
varie realtà che si presentavano nel corso della storia. I rivoluzionari di sinistra restano nell’attesa
disperante di un disio ben lungi dal potersi realizzare e se qualcosa può cambiare lo farà in peggio; e
arriverà il giorno in cui i socialisti si libereranno dalle catene del principio di rivoluzione per
guardare con occhi bramosi quell’altro principio da tanti anni accantonato. Questa rivoluzione al
contrario si attuerà quando del socialismo, svuotato di ogni senso logico e morale, non resta che il
nome, e il PSI guidato dal «Satrapo» infallibile «Asdrubale»93 Craxi diventa un tassello del
Pentapartito guidato dalla DC, rinverdendo i fasti di un antico ma moderno trasformismo di
depretisiana memoria. Ecco che la Storia, o meglio quel tipo di Storia che si era immaginata, non ha
più senso viverla né raccontarla. Il senso invece ci sarà e con una denominazione precisa:
Tangentopoli, capolinea di un sistema marcio in cui il PSI ha sguazzato e comandato per molti anni.
La Storia del PSI è il racconto in versi di una crisi irreversibile, di una speranza mai
realizzata, di un’utopia evanescente e di un dolore quasi indescrivibile. Ottieri tenta di incunearsi
93
Con il riferimento ad Asdrubale, Ottieri vuole riassumere nella figura di Craxi il ricordo dei tre generali
cartaginesi aumentando per iperbole le devastazioni compiute dal segretario del PSI.
264
attraverso quel quasi tra le fessure di un dispiacere sempre crescente negli anni. La vicenda storica
del PSI attraversa un secolo di politica italiana ed è contrassegnata da alcuni momenti fondamentali
che coincidono con gli sviluppi e cambiamenti del Regno d’Italia alla Repubblica. Le tappe di
questo percorso storico e politico, Ottieri le rivive passionalmente sovrapponendo in alcuni casi la
propria vicenda biografica. Ad esempio, importante fu la costituzione del Fronte Popolare nel ’48
mentre l’Italia si stava ricostruendo dalle macerie lasciate in eredità dalla seconda guerra mondiale
attraverso l’unione dei due maggiori partiti di sinistra, il PSI e il PCI; alleanza che rappresentava la
continuità con il movimento di Resistenza e del Comitato di Liberazione Nazionale, auspicando,
anche se con alcune divergenze, una Repubblica che rinnovasse dal punto di vista sociale e politico
il precedente regime fascista. Il Fronte Popolare non ebbe però il riscontro elettorale auspicato in
quanto le elezioni del ’48 vennero vinte dalla DC con il 49% dei voti e una maggioranza assoluta
con 306 deputati su 574, mentre il fronte si attestò al 31% con soltanto 183 seggi. A risultato
acquisito De Gasperi formò un governo di coalizione, il primo di una lunga serie, con i liberali, i
socialisti democratici e i repubblicani. Per i socialisti e i comunisti fu una batosta terribile e da
allora non si parlò più di alleanze politiche: «Nel Fronte Popolare / ci unimmo passionalmente, /
andammo, venimmo, perdemmo. / I cugini si odiavano, / s’accusavano, / ricominciavano da capo. /
Non canticchiavo più l’Internazionale, / a sfida, in tram, tornando la notte / dalla sezione in
pensione. / Avevamo fatto paura, / ora l’avevamo» (PSI, p. 20).
Quell’anno, il ’48, fu importante, oltre che per le prime elezioni democratiche in regime
repubblicano, anche per la vita di Ottieri che, a causa degli scontri politici e personali contro i suoi
Padri, decide di recidere drasticamente i legami che lo opprimevano nella casa paterna
abbandonando Roma, sua città natale, per Milano. Qui si apre per lo scrittore una pagina
fondamentale della propria esistenza a causa dei molteplici interessi e dei nuovi mondi con i quali
entra in contatto e che saranno determinanti per tanti aspetti della sua letteratura: «Quando mi
trasferii da Roma a Milano / non sapeva bene che lo facevo / per fuggire lui e mia madre, / per
conoscere, come Simone Weil, / la condizione operaia» (PAD, p. 57). «Procedevo nella marcia / di
avvicinamento alla condizione operaia, / anzi, c’ero dentro. Con qual ruolo? / Carbone, compagno,
esploratore reciproco, / psico-avventuriere?» (PSI, p. 12). A Milano Ottieri si avvicina alla
condizione operaia e nello stesso tempo partecipa all’attività politica frequentando una sezione del
partito socialista dove, tra gli altri, incontra il proprio analista: «Musatti, psicoanalista e socialista,
dice che il nevrotico, come l’innamorato, è antisociale. […] È il caso dei neurosocialisti» (LG, p.
232). È una situazione particolare perché in un sol luogo e in un dato momento, Ottieri coagula le
tre tematiche fondanti la sua letteratura: l’industria in cui vorrebbe lavorare, la clinica con una
psicoanalisi e la politica praticandola attivamente. Il ricordo di quel periodo è sempre vivo nei suoi
265
pensieri e riemerge in diverse opere dall’Irrealtà quotidiana all’Infermiera di Pisa alle Guardie del
corpo al Padre alla Storia del PSI:
Nel 1945 sbucò alla responsabilità con la psicoanalisi e la politica. […] Il marxismo si giovò
soprattutto della smania di scoperta sociale. […] Nella metodologia Freud e la lotta all’angoscia rinforzavano
Marx e la lotta all’ingiustizia, e viceversa. […] Questa volta Lucioli è stato costretto a una lunga terapia
freudiana, cioè una psicoanalisi. (IQ, pp. 175-178)
«Nel male psichico / non v’è rivoluzione. / Il rivoluzionario / dev’essere sano» / asseriva forte
Musatti / nel ’48 a Milano, / sollevando platee / di neurosocialisti, / che tutti i giorni e tutte le sere /
prendevano coscienza, / e portavano avanti la lotta. (IP, p. 30)
A Milano / dalla sezione socialista / della Pirelli Bicocca nel ’48. (GC, p. 82)
Facevo psicoanalisi con Musatti / che ritrovavo in sezione la sera. / Questo accoppiamento FreudMarx / l’ho vissuto come bisogno primario. (PAD, p. 62)
Io invece addirittura / non andavo più nella mia sezione cittadina / dove andava anche il mio analista,
/ gli davo del tu / in quella / residenza cognitivo-emotiva, / del lei nel setting, / o d’analista stanza. (PSI, p.
12)
La psicoanalisi accompagna Ottieri per quasi tutta la vita e si lega indissolubilmente alle
diverse esperienze vissute, tra cui la politica. Per lui socialista, «ero assai contento / di essere solo
socialista, / vivevo la tensione all’utopia» (PSI, p. 33), il rapporto Marx-Freud sarà determinante per
ogni riflessione successiva fino a considerare il partito come un frangiflutti tra il lavoro e
l’alienazione, tra rivoluzione e riformismo.
La ricerca di nuove verità necessarie / è appannaggio / di un movimento di modificazione nazionale,
/ di una psico-politica dinamica. […] Il PSI era il partito / che meglio sembrava contenere / l’andirivieni / fra
rivoluzione e riformismo / e quella fra cervello e cuore, / fra la Gioia del lavoro / e l’Alienazione, / davvero
non gioiosa. (PSI, pp. 25, 32)
Ottieri scava in profondità e s’immerge nelle viscere della politica che diventa materia
letteraria dove, increibile dictu, è possibile scovare un barlume di purezza, anche se molto spesso la
politica soffoca la letteratura: «I socialisti son poeti romantici, / i comunisti novecentisti ermetici. /
Il comunismo è la poesia / il socialismo la prosa. […] Gli scrittori insomma / non erano di sinistra
vaga, / erano comunisti / e si misuravano con Soviet preciso. […] La testa degli scrittori italiani era
russa» (PSI, pp. 22, 26). Di scrittori «comunisti» Ottieri nel poemetto cita Silone, Vittorini, Pavese,
Pratolini e Pasolini sottolineando per ciascuno degli aspetti significativi.
Perfino Silone / volea del Fucino fare un Soviet, / con Gesù Presidente. / I cattolici e i comunisti / si
sono sempre rassomigliati / nel credere in qualcosa / che non si sa che è. […] Non era possibile immaginare /
Vittorini alle prese con Nenni. / Non solo erano comunisti, / ma erano felici di esserlo, / di sentirsi soggettooggetto / di una forza la più grande / e di tutte la più logica. […] Raccontando la sua personale / sessuale
266
tragedia, Pavese si lamentava: / Dicono (in ambito PCI) / che P. non è un buon compagno. / Ed egli aveva
scritto / Il compagno, pubblicato a Torino. […] Sembrava avverarsi / il realismo socialista italiano / con
Metello (Salinari). […] Altro che modello / di sviluppo era Metello! / (Ma tu, Pratolini, / da che cosa / sei
stato inghiottito?). […] Pasolini cantava / le Ceneri di Gramsci / in ossimori forti e dolci. […] Il proletariato
aveva per lui / senso controverso, / poca ideologia, molta passione. (PSI, pp. 26-29)
Innanzitutto essi, da diverse prospettive, si concentrarono sui problemi storici, politici e
sociali che investivano l’Italia dal fascismo allo stato repubblicano, dalle macerie del conflitto al
boom economico, attraverso opere che hanno filtrato vicende biografiche sempre legate alla realtà
della Storia con particolare attenzione ai problemi del proletariato. Tuttavia fu difficile per loro
conciliare l’esigenza dell’impegno politico nel PCI con la letteratura, tra la libertà espressiva e le
direttive del partito fino a vivere momenti drammatici di dissenso con l’allontanamento dal partito
stesso.
Attraverso il percorso travagliato della Storia del PSI, Ottieri analizza anche la propria
condizione in un cammino impervio che nasconde un passato oscuro per quel fascismo
adolescenziale interpretato dall’incoscienza psicologica. La vergogna di essere stato fascista scatena
un forte senso di colpa che egli sente pesare sulla propria coscienza e che non può esser cancellato
nemmeno con il passaggio alla Resistenza, seppur soltanto intellettuale: «Fino a sedici anni / sono
stato un fascista fanatico, / giovinetto borghese intellettuale ingannato! […] Per una Resistenza / in
cui volevo passare / dall’altra parte, cancellare l’onta / d’essere stato da questa» (PSI, pp. 14, 20).
Se in principio fu il fascismo, la presa di coscienza non tardò a spostare i proponimenti dello
scrittore verso migliori acque: «Ripenso sempre alla cerniera fra il 1943 e il 1944, quando finì il
mio fascismo e cominciò l’antifascismo» (LG, p. 143). In quegli anni il socialismo che accoglieva
Ottieri era quello, tra politica e psicoanalisi, di Nenni e di Musatti, del marxismo ancora attuabile,
delle serate in sezione, della Resistenza, di un futuro radioso: un socialismo poetico che sanciva la
fine dell’incoscienza e l’inizio di una Vita nova. Eppure nei cento anni del PSI, quello che risalta
maggiormente agli occhi di Ottieri è il momento conclusivo, quando il partito stava esalando gli
ultimi spasimi nella bieca scorpacciata tangentizia. Poiché in Italia la maggior parte delle vicende
politiche desinit in piscem, ovvero delle cose il cui fine non corrisponde al principio, iniziate bene e
finite male, la coda del pesce che termina il busto della bella donna ha un volto e un nome preciso:
Beneetto Craxi detto Bettino94. Non appena emerge alla luce del sole il nuovo volto del socialismo
italiano, quello ottimista e vincente del «Satrapo» Craxi, la realtà sarà più grottesca di qualsiasi
speculazione precedente e il socialismo auspicato da Ottieri appare, alla fine, come un labile ricordo
ricolmo di nostalgia: «Il partito d’Asdrubale, / che non si capisce perché insista / a chiamarsi
94
Nato a Milano il 24 febbraio del ’34 e morto in esilio ad Hammamet in Tunisia il 19 gennaio del 2000, Craxi
fu il primo socialista a ricoprire, nella storia repubblicana, la carica di Presidente del Consiglio dei ministri dal 4 agosto
’83 al 3 marzo ’87.
267
socialista / quando non ha più nulla / di sociale, di socialista, / sta sotto / al capitalismo arraffone.
[…] Il partito socialista odierno / non è né bravo né stronzo / né socialista. / Che è?» (PSI, pp. 25,
41).
In realtà il partito nacque a Genova, il 15 agosto 1892, con la denominazione di Partito dei
Lavoratori Italiani in cui confluirono duecento associazioni di lavoratori, gruppi intellettuali e i
Fasci siciliani di Palermo e di Catania. Il programma del neonato partito, che sostanzialmente
manteneva ancora la vecchia struttura corporativa del Partito operaio, poggiava su tre punti-cardine
quali il riconoscimento dell’antagonismo di classe tra capitalisti e proletari, la socializzazione di
tutti i mezzi di produzione da gestire collettivamente e l’organizzazione di un partito di classe che
ottenesse miglioramenti economici attraverso la lotta di mestieri insieme a una lotta più generale
rivolta a conquistare i pubblici poteri, come i comuni e le amministrazioni provinciali, fino allo
Stato, per trasformarli da strumenti di oppressione e di sfruttamento in uno strumento per
l’espropriazione economica e politica della classe dominante. Nell’anno successivo alla fondazione,
nel 1893, il partito durante il secondo congresso tenutosi a Reggio Emilia cambiò la sua
denominazione in quella di Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI) ove appare una
qualificazione politica specifica, socialista, accanto a una sociale, dei lavoratori: dunque non
bastava più essere lavoratori per farne parte ma occorreva essere socialisti. Nel 1895 a Parma, sede
del nuovo congresso, si fissò la denominazione in Partito Socialista Italiano (PSI) che resterà in
vigore fino al suo scioglimento.
Nella parabola discendente del PSI il punto terminale è toccato dallo scandalo di
Tangentopoli ma, secondo Ottieri, i prodromi del grave malessere si erano avvertiti già nei decenni
precedenti. Come nell’analisi clinica di un corpo malato, il PSI si allontana dalla propria natura
appena entra a far parte del governo rappresentato, nei primi cinquant’anni della Repubblica, dalla
DC che ha gestito la cosa pubblica. Quella purezza, seppur incosciente e accidiosa della sinistra
all’opposizione, si smarrì nel PSI, per Ottieri non più di sinistra e nemmeno socialista. Degli operai
si era dispersa la traccia e tra scale mobili e imprenditori d’assalto, il «Satrapo» spremeva le
meningi non a favore degli operai ma per gli avventurieri del giorno dopo e di tanti anni futuri: «Il
PSI dei famosi poveri / non parla mai. / Gli operai sono scomparsi. / Sono diventati tutti ricchi. / Se
sono rimasti poveri non sono più / materiale per ideologia, / né materialistica né idealistica. / La
rivoluzione povera frega i poveri. / Solo l’evoluzione ricca / aiuta l’evoluzione povera» (PSI, p. 45).
L’ultima scena del poema è emblematica dello sfacelo della politica italiana e del Partito Socialista
in particolare: riprendendo la tecnica usata da Dante, sempre attuale nelle riflessioni di Ottieri, di
rappresentare un’immagine densa di significati con brevi definizioni efficaci, si legge: «Ora, nella
civiltà dietrologica, / Asdrubale sol cerca /di Di Pietro il didietro» (PSI, 46). Ottieri in questi versi si
268
riferisce a un episodio ben preciso accaduto il pomeriggio del 29 aprile ’93 quando la Camera dei
deputati doveva discutere e votare l’autorizzazione a procedere contro Craxi chiesta dal pool di
Mani pulite95: corruzione, ricettazione, violazione delle norme sul finanziamento pubblico dei
partiti; e inoltre il parlamento era chiamato a esprimersi sulla possibilità di sottoporre l’ex segretario
del PSI a perquisizioni personali e domiciliari. Craxi fu assolto: l’autorizzazione a procedere venne
negata per le accuse più gravi, ricettazione e corruzione, e per le perquisizioni, mentre veniva data
la luce verde alle accuse di minor peso. Per Ottieri si era arrivati a un punto di non ritorno; egli
osserva lo stato comatoso della politica italiana e comprende che la disgregazione, avvertita e
vissuta nei decenni sul proprio corpo, trova un compagno in parte insospettabile nel partito stesso
che gareggiava nello sminuzzarsi in una nebulosa di partitini oppure andando a ingrossare il
contenitore pubblicitario di Forza Italia: «La nostra cura era suddividerci / a pezzettini, temei che di
noi / restasse uno, dimezzato. […] Il PSI pareva contenere / anche la mia disgregazione / sotto il
martello pneumatico dell’ansia» (PSI, pp. 9, 33).
La Storia del PSI oltre a essere un viaggio che attraversa la politica e la società, è anche una
riflessione che Ottieri compie sulla propria persona individuando i momenti salienti della sua vita,
così che riesce in pochi versi a riassumere la condizione di imprigionato nelle cliniche, tra un
ricovero e l’altro, tra terapie inutili fino a degenerare nell’alcolismo.
Il mio indistruttibile / distruttivistico senso oceanico, / o senso del margine, / o senso d’irrealtà, / o
senso di umore, / o follia, / faceva squagliare la realtà. […] Faccio fatica a ripercorrere, con datazione, / il
cammino. / La demenza non ha memoria. […] La torsione dei ricoveri, / in cui sembra / d’essere in
compagnia, / è verso una totale privatizzazione. / La sicurezza desiata / è brutale. / Nulla entrava in testa. /
Non c’era posto. / Cominciava a emergere / il disturbo bipolare, / tale da fermare la vita / con inutile barriera
di fuochi, / che non si lasciano spengere da vino. […] Mi ha dannato la serpe / della malinconia e mania.
(PSI, pp. 33, 38, 39)
Un autoritratto impietoso in cui l’autore non toglie nulla al Male che ha caratterizzato il
vivere quotidiano ma che, a una lettura attenta degli incastri tra le vicende autobiografiche e
politiche, dimostra una preoccupante simbiosi. Essendo eternamente malato ci si domanda: egli
osservava tutte le situazioni che gli gravitano attorno in modo negativo poiché diversamente non
poteva, oppure la realtà esterna nel concreto gli si presentava più orribile del suo Male, e quindi per
lui meglio comprensibile? Saremmo più propensi per la seconda ipotesi.
95
Del pool di Mani Pulite di Milano facevano parte all’inizio Antonio Di Pietro, Francesco Saverio Borrelli,
Ilda Boccassini, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Armando Spataro.
269
III.3 Il poema osceno
Il poema osceno, composto nel ’95 e pubblicato l’anno successivo da Longanesi, unica
opera di Ottieri per questa casa editrice, è idealmente la seconda parte del viaggio introspettivopolitico iniziato nella Storia del PSI, in cui Ottieri rivisita la propria letteratura in un confronto
serrato con l’attualità italiana. Il poema osceno rifugge da qualsiasi etichetta ponendosi
deliberatamente fuori da ogni genere letterario ma inglobandone alcuni aspetti, dal copione teatrale
alla sceneggiatura cinematografica, dalla poesia alla prosa, dal romanzo al saggio,
dall’autobiografia alla satira politica. Nella forma più immediata il poema appare come un
prosimetron, commistione di prosa e poesia, che rimanda alla satira menippea di cui riprende il
taglio satirico e aggressivo. In tale coacervo di generi letterari, l’aspetto che risalta maggiormente è
quello teatrale a causa della particolare struttura dell’opera: la scenografia è ridotta all’essenziale, in
genere interni di abitazioni come soggiorni o camere da letto ma senza alcuna descrizione, le
“riprese esterne” saranno solo tre, a Venezia, in una villa toscana e a Pozzuoli comunque di breve
durata, mentre i ventiquattro personaggi irrompono sulla scena senza alcun filtro o attesa, come
parodie dei diversi aspetti di un’umana commedia, infittendo il poema di dialoghi articolati che
nella complessa tessitura distillano un concentrato di pura energia intellettuale.
Altro tassello del grande mosaico ordito da Ottieri, per la sua autobiografia perenne, è
questo Poema osceno la cui particolarità si riscontra nell’uso insistito dell’ossimoro, dalla vecchiaia
del personaggio principale che si sente giovane alla malattia che mantiene in salute, dal vivere in
una città del Nord agognando il Sud. Il protagonista di questo ennesimo viaggio nei meandri della
psiche, pur restando immobile su una sedia, è Pietro Muojo un nuovo alter ego di Ottieri, vecchio
poeta che dopo numerose esperienze letterarie vuole finalmente diventare civile in un difficile
periodo storico del proprio paese.
L’incipit del poema analizza le condizioni in cui l’uomo si trova coinvolto all’interno della
moderna società tecnocratica che ha stravolto quei rapporti naturali cristallizzatisi nei secoli
analizzando sia il rapporto uomo-tecnica sia il progresso ambivalente con i suoi effetti imprevedibili
e risultati contraddittori: «L’uomo della nostra società non ha alcun punto di riferimento
intellettuale, morale, spirituale, a partire dal quale potrebbe giudicare e criticare la tecnica. […] Il
maggior pericolo che esso fa pesare sull’umanità non è tanto l’eventualità di misfatti diabolici,
quanto la crescita di un’incertezza, fonte perpetua di angoscia» (PO, p. 6). Il tema della società
tecnocratica, mercificata e sedotta dalla pubblicità non è una novità nel percorso letterario di Ottieri;
infatti già negli anni Cinquanta, al tempo della tetralogia industriale, egli aveva attuato un
accostamento tra diverse discipline, letteratura, sociologia ed economia, ampliando poi le riflessioni
270
teoriche in alcuni capitoli dell’Irrealtà quotidiana fino a congiungersi con altri autori interessati al
mondo della fabbrica come Volponi e Parise. Tuttavia, nel Poema osceno il rapporto intellettuale
più stretto Ottieri lo consolida con il Pasolini96 corsaro e luterano che aveva analizzato, negli articoli
apparsi a metà degli anni Settanta sul «Corriere della sera», la condizione alienata dell’uomo
moderno in un periodo storico particolare, quello del miracolo economico postbellico in cui il
progresso si rivelava come un «falso progresso».
Pietro Muojo, dunque Ottieri, vuole diventare civile attraverso ciò che comunemente viene
considerato incivile, ovvero lo scandalo assoluto, ricalcando le orme di Pasolini attraverso il
riferimento diretto ad alcune opere come la raccolta di poesie Trasumanar e organizzar che filtra
nel «non voglio rivoluzionar / organizzar» (PO, p. 26). Ottieri è affascinato dal modo in cui Pasolini
si abbandonava a un’inarrestabile oratoria, dove il flusso dell’esistenza personale si identifica nella
riflessione e nella polemica, con un’aggressiva denuncia della difficoltà di «trasumanar» (COR, p.
170), cioè uscire dalle condizioni umane date, oltre che delle contraddizioni e delle storture
politiche. Inoltre dai versi di Ottieri affiorano dei riverberi tratti dalla tragedia Orgia (’66) in cui i
protagonisti, un Uomo e una Donna, rinchiusi in una camera da letto, si estraniano dal mondo per
vivere un’apocalittica esperienza di sesso e violenza, con la speranza di liberarsi dall’omologazione
sociale imposta dal moderno regime capitalistico, esprimendo in questo modo le rispettive diversità.
È il mondo in generale che per Pasolini va bestemmiato (e non a caso la raccolta di tutte le sue
poesie nell’edizione Garzanti ha come titolo, voluto dal poeta, Bestemmia) attraverso la poesia pura,
ribelle in quanto indipendente e slegata dalle regole commerciali: «Pasolini, sdottoravamo /
dall’alto di un miserabile / potere editoriale, / sul tuo verso friulano: / chi ci capiva niente? / Non eri
commerciale. / Fortunatamente avevi / di te stima; / noi, di noi, ora meno» (PO, p. 275).
Schierandosi sempre controcorrente rispetto alle tendenze dominanti e alienandosi ogni
appoggio politico dai comunisti ai democristiani ai fascisti, Pasolini ha delineato un quadro
apocalittico della società moderna e in particolare italiana. Figura solitaria, originale e
intellettualmente inarrivabile, Pasolini si scagliò contro il proprio tempo con una forza e una
passione disperata aggredendo una realtà svilita con le armi della poesia e sottraendosi a qualsiasi
tipo di conformismo borghese. Crudeli appaiono i caratteri che il consumismo assume e
drammatiche le sue conseguenze come il cambiamento non solo dell’aspetto esteriore di un paese,
Pasolini rimpiange gli ambienti rurali della povera Italia contadina omaggiata nelle poesie friulane,
ma ciò che lo preoccupa maggiormente riguarda la profonda modifica in atto nell’animo umano ed
96
Incontrastato nel suo percorso intarsiato di coraggio, tra passioni e incomprensioni, Pasolini rappresenta un
modello di pensiero e di abnegazione per Ottieri, e dal punto di vista letterario Il poema osceno si struttura a specchio
con l’ultimo romanzo di Pasolini, Petrolio, quasi Ottieri volesse offrigli un omaggio estremo seguendo lo sviluppo e i
motivi che animano l’opera.
271
evidente in quella «rivoluzione antropologica» che Ottieri amplierà in «merda antropologica»,
scaturita dalla pubblicità e dalla televisione che hanno imposto nuovi bisogni e modelli unici di vita.
La Nuova Preistoria nasce per Pasolini da un progresso senza sviluppo che Ottieri fa risuonare in
alcuni versi del Poema osceno: «Canterò un preambolo: l’unico progresso possibile è la critica del
progresso. […] Dobbiamo mettere a punto una Critica del Progresso» (PO, pp. 79, 314). Visioni
funeste accompagnano le riflessioni di Pasolini, ben documentate nel periodo finale della sua vita,
da Salò agli articoli apparsi sul «Corriere della Sera», «Il Tempo», «Il Mondo», e riuniti nei due
volumi Scritti corsari e Lettere luterane dove egli constata un altro dopoguerra a seguito di quella
rivoluzione tecnocratica che ha distrutto l’Italia «esattamente come nel 1945».
Inoltre si ricorda l’ultimo Pasolini anche per la denuncia vigorosa e definitiva della politica
italiana rappresentata da quel Palazzo contro il quale egli si scagliò accusando la dilagante
immoralità cristallizzatasi nelle fondamenta dei partiti di governo. Pasolini arrivò a proporre un
Processo per i gerarchi della Democrazia Cristiana rei di aver fatto marcire il paese in nome della
corruzione, ma senza poter osservare con i propri occhi le fasi di quel Processo da lui stesso
auspicato perché la sua morte, avvenuta nel ’75, ha preceduto di quasi vent’anni i processi di
Tangentopoli. Vigeva, infatti, in Italia un sistema marcio che si autoalimentava in cui tutte le
aziende d’una qualche importanza erano sottoposte a una tassazione impropria, le tangenti, a favore
dei partiti; ma per poter elargire i fondi in nero, che gli stessi partiti pretendevano, era necessario
per le aziende falsificare i bilanci. Tutto questo era illegale ma divenne una “legge” vincolante della
politica e dell’economia italiana.
Un venticello tirava / di libertà. / Tutti agli arresti, / ai reami interiori, / alla preparazione della morte
propria / che non è che interna. […] Siamo innocenti! / Non sapevamo / che cosa ci preparavamo. / Al ladro,
al ladro. / Lo sospettavamo / ma avevamo pigrizia e paura. / Criticare l’oligarchia, / padrona dei soldi e del
sesso, era / pericoloso. […] I tuoi angeli, Milano, / son solo le top-modelle, / ultime delizie che restano /
galleggiando sulle merde. (PO, pp. 103, 127, 171)
Lo scandalo, letterario e personale, è stato un elemento costante della vita di Pasolini e di
molti suoi personaggi condannati a interpretare quelle novità indecenti contro le quali la società
rispondeva con processi, condanne e censure. Ottieri, attraverso le vicissitudini erotico-intellettuali
di Pietro Muojo, ne riprende il testimone, continuando con altri atteggiamenti quel percorso che
Pasolini, in merito alle condanne contro la corrotta politica italiana, aveva tracciato negli Scritti
corsari e nelle Lettere luterane.
Per il rapporto tra letteratura e sesso, «ora ho pene / e penna / maliziosamente / insieme»
(PO, p. 9), sarà Petrolio, citato numerose volte nel poema, il modello del Poema osceno: «Pasolini
dà coraggio ai giovani. Il protagonista di Petrolio non è mai osceno anche se scopa la nonna; la
272
verità non è mai oscena perché è sempre rivoluzionaria» (PO, pp. 8). Per omaggio al maestro,
Ottieri in un passo del Poema ricorda il «pratone della Casilina» descritto da Pasolini nell’appunto
55 di Petrolio in cui il protagonista Carlo si offre sessualmente a alcuni giovani ragazzi dietro i
montarozzi del prato, nelle alcove a cielo aperto: «Si fermano davanti a grandi terreni vuoti.
Scendono. Si incamminano per una marrana zozza ma pasoliniana. Come tutti i cercatori di alcove a
cielo aperto, camminano e camminano, nella ricerca di un luogo paradisiaco, che non esiste: ma
tutto lo sembra, per due corpi che tremano di libido» (PO, pp. 8, 201).
La presenza di Pasolini si scorge anche in altri passi del Poema osceno, a esempio quando
Ottieri cita la Divina Mimesis ponendo l’attenzione sugli stretti legami che possono scaturire, anche
involontariamente, tra diversi autori senza tuttavia l’esigenza di scrivere in modo identico
mantenendo ognuno la propria individualità. Qui si scorge in Ottieri una plausibile apologia per il
suo modo di fare letteratura: nutrito di massicce fondamenta culturali, dove spiccano le figure di
Dante e Pasolini, alcuni modelli affiorano, pur sempre con un’autonoma esecuzione originale, nelle
sue pagine imprimendone vivacità e acutezza non indifferenti. «La mia invidia per i classici e
contemporanei è lenita dalla consapevolezza che non ci posso fare niente. Non si scrive che come si
può scrivere, l’ispirazione, direi, non è frutto del volere. Impossibile, anche a un mimetico, scrivere
come un altro. Non c’è divina mimesis che tenga. (PO, p. 91)
In un altro passo del poema, Ottieri rende un altro affettuoso omaggio a Pasolini, definito un
«maestro» insieme a Dante, Gadda, Gramsci e Volponi, «gli ultimi maestri, / perché sono poeti del
coraggio, / rischiano la morte / come i giudici a Palermo» (PO, p. 272), modelli di vita che hanno
offerto la propria persona, attraverso vatie esperienze artistiche, per un alto ideale di giustizia e
moralità pagato a caro prezzo con la morte, la prigionia, l’esilio, processi e condanne ignominiose.
Pasolini è morto, / anche se della sua morte / non mi rassegnerò mai. / La sua morte / è più assurda
della mia. / Come è possibile che sia mortale / l’autore di opere immortali? […] Egli è incivile o civile, / data
l’enormità del suo cazzo / che adorava? / Può essere poeta civile / un poeta dal sesso assurdo? / Egli ha
imposto il suo cazzo / con l’armi della poesia civile. (PO, pp. 269-270)
Pasolini / non è morto. Mai / è morto. […] Come passa / dall’arte alla vita, dalla vita / all’arte, anche
se è passato / dalla vita alla morte. Come passa / da un film a un poema, da un poema / al Corriere della Sera,
pericolosa, / per lui fatale miscela. […] Ma tu non lo dimentichi mai: / ti chiedi sempre che scandita /
pazienza aveva con la povera Callas. / Che furore quando giustamente / difendeva la povera polizia. […]
Dov’è adesso? Dove egli / continua a trasumanar e organizzare? […] Egli è ora di certo accanto a Cristo / e
lavorano insieme. (COR, pp. 170-171)
Il punto cardine della “corrispondenza d’amorosi sensi” che Ottieri prova per Pasolini è nel
suo engagement civile, originale e al di fuori di qualsiasi legame politico, coadiuvato da una ragione
che gli ha permesso di analizzare in profondità la concretezza storica e sociale in continua
evoluzione. Egli ha offerto, agli occhi di Ottieri, il proprio corpo come un oggetto
273
contemporaneamente di azione e poesia, facendo scaturire una complessa opera letteraria che non
potrà essere cancellata dalla storia futura. Il «sesso» chiamato in causa riguarda l’uso che se ne fa:
Pasolini utilizza «l’enormità del suo cazzo», dove si staglia imperiosa l’immagine dell’immenso
pene ripreso da una scena del Fiore delle mille e una notte, per protestare contro l’omologazione
imperante che stava lentamente uccidendo la nuova gioventù. L’immagine del «cazzo», in Pasolini
e in Ottieri, si presenta come arma lirica infallibile e utilizzata per protestare contro una realtà
degenerata e omologante. Ottieri riprende più volte, nel corso del poema, tale poetica del cazzo,
constatata già nelle Guardie del corpo, insistendo qui sulla forza creatrice dell’eiaculazione che dà
forma alla propria poesia.
La mia angoscia ti esala / in culo. / Essa è la poetica dove le operosità del cazzo / sono raccontate /
dalle auto riflessività / del cazzo stesso. / Mi spiego: non vi è solo il cazzo, / ma anche il cazzo / che si
penetra. Il quale / rovente / serpeggia / per il tuo corpo bianco. […] La mia azione ubbidisce, / è causata /
solamente da cazzo. […] Per fortuna il dilemma / vien risolto dal cazzo. […] Oggi, oltre a quella di
letteratura, / c’è una scienza del cazzo. (PO, pp. 36, 37, 39, 44)
Il vecchio poeta Pietro Muojo tenta, in numerosi momenti del poema, di capire se esiste una
via di fuga da tale mondo perverso, insieme alla possibilità per l’uomo di tornare uomo. Da queste
riflessioni riaffiorano le battaglie culturali di Pasolini condotte attraverso quella commistione di
generi in cui il trionfo dei disvalori risulta tanto travolgente da non lasciare alcuna speranza per il
futuro: emblematico a questo proposito appare il testamento artistico lasciatoci da Pasolini con il
film Salò o le 120 giornate di Sodoma, dove predomina il senso apocalittico dell’umana violenza.
Una sera discutevamo sul fatto che la società iperconsumistica è interamente consumistica, non tratta
valori in sé, ma vende disvalori valorizzati dalla pubblicità. Anzi, preferisce i disvalori, così risulta meglio
che divengono valori solo con le arti del marketing, che è il valore. Vendendo se stessa e il modo ottimale di
comprare e vendere, la società realizza la sua autocoscienza, Narciso che si guarda nel video. L’uomo, la
società, per la via del peccato originale, vogliono il peggio. Quello che chiedono è ciò che fa male. […] Nel
consumismo di casa nostra scintillano paraossi e ossimori. L’uomo compra merci anche se non ne ha bisogno
e se non ha soldi. […] Questo capitalismo che ormai ci dobbiamo tenere, non può essere nemmeno
illuminato, cioè ragionevole? […] Gli elettrodomestici hanno cambiato la faccia del mondo. Pietro, siamo
capitalistici tutti e due, perché non si può non essere capitalistici. […] Il prodotto è la cellula della nostra
visione del mondo. […] I valori sono le merci, e le banche le nuove chiese. Le luci elettriche dei negozi sono
il nuovo Illuminismo. Le mille e una merce. Sistemi di merci, linee di cosmetici. Il neo-consumatore è di
nuovo alienato, perché non può comprare tutto, mentre lo vorrebbe. (PO, pp. 77, 81, 83, 84, 122, 204)
In tale contesto Ottieri concentra sul proprio paese, su quell’Italia che nel corso degli anni ha
trovato sempre più spazio nelle sue opere fino a diventare una co-protagonista nelle disavventure
dei personaggi malati, come gli ultimi due romanzi Cery e Una irata sensazione di peggioramento
potranno attestare. Il vecchio poeta Pietro Muojo ha deciso, dopo molte opere dedicate a se stesso e
alla propria malattia, di allargare gli orizzonti e di occuparsi anche dei fatti della sua nazione,
274
soprattutto dal punto di vista politico. Egli vuole dunque diventare un poeta civile raccogliendo la
soddisfazione di parenti e amici; tuttavia civile Ottieri lo è stato fin dall’inizio, dalle Memorie al
periodo industriale alla mondanità fino alla Storia del PSI, quindi l’aggettivo è ironicamente
indirizzato a chi non lo aveva ancora compreso. Come Pasolini che ammetteva «la morte non è nel
non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi», anche Ottieri soffre l’essere
incompreso: «Ora non capiscono / dove vado a parare. / Non dicono: che schifezza, / non mi è
piaciuto, / ma: non ho capito, / mi disorienti, dove vai a parare? / Non lo capisco più. / Che sia la
paura degli abissi?» (PO, p. 170).
«Vorrei dare un colpo al sesso e uno alla nazione» (PO, p. 8) è la prima frase pronunciata
dal poeta nel Poema osceno, una sorta di titolo per un manifesto programmatico che incanala il suo
atteggiamento aggressivo nei confronti di «un’italietta» (PO, p. 246) e del sesso. Il poema osceno è
tempestato, soprattutto nella prima parte, di mirabolanti immagini sessuali che richiamano alla
memoria alcune scene erotiche presenti nell’Infermiera di Pisa, ma qui il tono si fa ancor più
disperato e aggressivo: non un’infermiera che respinge le avances dell’anziano degente, ma una
donna di servizio «la piccola signora di Lima, Samantah» con la quale egli elabora un nuovo
Kamasutra, improbabile e complicato, eccessivo e osceno (PO, pp. 9-26). Le posizioni descritte si
aggrovigliano tra loro e non lasciano spazio ad alcuna riflessione, mentre l’azione sessuale sembra
inarrestabile, senza inizio né fine, in una continua ricerca dello scandalo che valga come insegna
della personalissima rivoluzione che il poeta vuole condurre con un’intensità addirittura maggiore
rispetto al passato. Tutte le parti del corpo sono chiamate in causa in un ardimentoso tourbillon di
articolati coiti mentre sullo sfondo compare, sempre più nitida, l’immagine di un paese alla deriva,
un’imago mortis deprimente che fa da contraltare alle sorprendenti esecuzioni sessuali del poeta
intento a dare, tranchant, «un colpo al sesso e alla nazione». Il vecchio poeta, dopo molte delusioni,
disaccordi e amare indifferenze, immagina questo tipo di rivoluzione veicolata attraverso il sesso
estremo e non stereotipata in cui egli, nell’intimità della sua casa tra la camera da letto, la cucina, il
salotto, condanna senza appello, tra un coito e l’altro ma anche durante, una società che ai suoi
occhi non merita alcuna compassione. Grazie a quest’«orgia giuliva» (PO, p. 26) il poeta si
allontana definitivamente dal mondo reale proprio nel momento in cui vuole diventare civile,
costruendo un artefatto nuovo mondo ritmato da infiniti amplessi che sanciscono lo sgorgare, il
verbo che ricorre con più frequenza, impetuoso della rabbia nei confronti di una società che non lo
ha mai compreso relegandolo in un cantuccio. Ci si assume, in questo modo, la responsabilità di
uscire dalla storia, di essere extrastorici e fuori orario nei confronti di quel mondo borghese che si
può confutare con l’unico strumento a disposizione, la poesia estrema, allucinata e strutturata sul
sesso che non genera nulla se non la protesta intellettuale del poeta.
275
Il pube silenzioso gridava, / lo trapassavo. / Infernale cazzo / in invernale giugno, / quando lo stato si
squaglia / e ho paura. / Non voglio rivoluzionar, / organizzar, io voglio / amoreggiar / privo d’orario, voglio /
sistema che protegga, / pensier non vuole cazzo, vuole / libertà di ceto, libera etnia, / libertà di eros, / anche
Restaurazione, se favorisce / dissolutezza. Tradisco / gli ideali carnali. / Il porco è sempre fascista. […] Tu
sei la mia rivoluzione / privata e pubblica. […] Esigo principio di rivoluzione / che dia piacere, giustizia e
libertà. (PO, pp. 26, 27, 32)
Esaminando l’Italia Ottieri ricorda, all’inizio degli anni Novanta, l’avvento del partito della
pubblicità, Forza Italia, che ha incanalato tutti i malesseri che per molti decenni erano stati
schermati dai partiti tradizionali. Per Ottieri esiste un legame molto stretto tra l’antico PSI in cui
faceva capolino il giovane Mussolini e il moderno PSI eclissatosi dopo Tangentopoli con il suo
mentore Craxi in prima fila sul banco degli imputati, collegato al “nuovo che avanza” ovvero
Berlusconi.
Via dalla Lombardia, / maledetta terra, culla / di Mussolini, / Craxi e Berlusconi, / Capitale / del
capitalismo bestiale, / di un socialismo irreale / peggiore / di quello reale. […] Maledetta destra, / l’ironia è
finita. […] Lei, Lei, o Colui, è un Mussolini, / naturalmente rimodernato. / Tutto è uguale nella Storia, / ma
tutto è diverso. / Il secondo è un pagliaccio, / non duro, dalla schiena / politica di vetro. / Il terzo è una iena, /
mangia tutti i cadaveri / del Novecento. (PO, pp. 167-169)
Ottieri analizza le varie tappe che hanno portato al crollo del sistema politico, dal
dopoguerra fino alle elezioni del ’94, utilizzando la propria scrittura per redigere una cronaca, un
documento letterario che riassume cinquant’anni di storia italiana e dunque anche l’ultimo, per lui
insopportabile, decennio. L’atteggiamento che lo contraddistingue, in questa lunga e faticosa ricerca
eziologia dei momenti storico-politici che hanno permesso L’inconcepibile 1994, è quello di un
«intellettuale di sinistra» (LG, p. 22) molto critico nei confronti dei partiti di sinistra. Dunque in
Ottieri non traspare nessun pregiudizio che possa offuscare le proprie indagini, anzi la sua libertà
spirituale di scrittore incompreso e appartato gli ha permesso di svolgere delle riflessioni sempre
pungenti e legate alla stretta attualità. Tale procedimento è caratterizzato da una disponibilità tragica
che lo espone in prima persona a vivere e soffrire, con crescente passione, i malinconici regressi del
proprio paese. La natura civile e politica delle sue opere scaturisce da una propensione ad attirarsi la
«merda» che attraversa la società, oltre che l’animo e il corpo del poeta, vittima sacrificale della
propria scrittura. Ciò che emerge dal testo è un inconsolabile e perpetuo grido di dolore per il gran
disio mai realizzato.
Chi sono? / Nuova crisi d’identità / mia e dello Stato? / Ma quando, lo Stato e io, / possiamo saper
chi siamo? / […] Si spaccasse pure il paese; per me era meglio. L’angoscia pubblica è meno frustrante e
vergognosa della privata. Si può anche mostrare con orgoglio di esserne piegati. (Per tutta la vita avrei
giocherellato fra Paese e Io). […] Oggi vi è un esaurimento nervoso / civile e pubblico, / che provoca
276
esaurimento / nel privato. Mai tanto avviene / una confusione mentale / negli alti vertici dello Stato, /
corrispondente a quella / di un povero privatissimo isolato / schizoide. / Bref. Che fare? Intanto / la
disperazione civile che io canto / è una fastidiosa caricatura della / mia disperazione privata? […] Lo stato si
sfiducia. […] Io non avverto più l’anima del popolo. Il popolo tecnologico non ha più anima. (PO, pp. 56,
68, 175, 182)
Attraverso questa predisposizione tragica che consente al poeta di guardare la realtà dei fatti
impegnando la propria persona nella conseguente identità con lo Stato, la poesia fuoriesce da una
sofferenza che trova sulla pagina il terreno fertile per esprimersi al meglio. Sotto il suo sguardo
attento, l’Italia come entità morale sta perdendo qualsiasi connotato che possa ritenersi civile: «Qui
la Repubblica si squaglia, / nello smerdamento generale» (PO, p. 60). Il motivo della liquefazione
della Patria Ottieri lo avvertì già alla fine del secondo conflitto mondiale in una lettera del settembre
’43 all’amico Vanni: «In questa lacerazione, liquefazione della patria il cosmopolitismo che è
retaggio degli stati fortissimi, è la più amara ironia». L’inevitabile conseguenza è la «merda»97
accostata alla nuova politica italiana, «Non posso / tornare indietro / senza trovarvi ruscelli di
merda» (PO, p. 17) che, neofascista, leghista e pubblicitaria, stava accattivandosi le simpatie di
miglioni di italiani: «Questo lavaggio non è previsto. È illegale. Non vedete come Fini sta
appiccicato a Berlusconi? Questo non lo sopporto. Questa è merda antropologica. […] Qui non si
scherza. Dobbiamo prendere coscienza. […] Non più di classe ma di merda. La sinistra è attonita.
[…] Distonica» (PO, p. 97).
L’attualità politica delineata nel Poema osceno verte in particolare sulle trasformazioni
avvenute nella società italiana agli inizi degli anni Novanta, dallo scandalo di Tangentopoli al
cambiamento esistenziale del PCI, dalla dissoluzione dei partiti di governo DC e PSI alla comparsa
di nuove formazioni come Forza Italia e la Lega, alla trasmutazione dei post-fascisti dal Movimento
Sociale in Alleanza Nazionale. L’atto conclusivo di tale sarabanda saranno le elezioni del 27-28
marzo 1994, preannunciate nei versi dell’Inconcepibile 1994 che s’insinua nel poema, «ti leggo un
pezzettino del mio Poema osceno che ingloba L’inconcepibile 1994» (PO, p. 68), elezioni che
rappresentano per Ottieri un punto di non ritorno, non solo per la politica ma per l’intera società
italiana98. All’orizzonte si staglia l’alleanza di tre nuove e antiche forze politiche come i neofascisti,
i leghisti e Forza Italia che Ottieri osserva come un mostro a tre facce che ricorda «lo ’mperador del
doloroso regno» nel cuore della Giudecca: «Questa Destra tricuspide / ci ammazza moralmente. /
97
«Mascalzoni! Niente / giustizia fiscale, niente anti-trust, / succhiate la salute e la vecchiaia, / vergogna, sacco
di merda! […] L’Italia deve guarire anche se ogni giorno un sacco di merda, con un braccio ingessato, le propina
punture di veleno. […] Italiani, Forza, / avete disgustato gli italiani, / che venga Cesare / Borgia, non sacco di merda.
[…] Agli italiani piace fare la cura della merda. E quindi piace un ambulante di immagini ed effetti speciali. […]
Tromba stonata / e assordante, volgarità / insultante della Jena, / del sacco di Merda, / del servo, del ributtante. […] Nel
suo cervello c’è la merda» (PO, pp. 108, 142, 145, 191, 235, 316).
98
«Io non accetto che si pronunci il 1994. In quell’anno remoto non so che cosa potrà succedere dell’Italia e di
me. Qui si passa di spavento in spavento» (A Furio Colombo, 11 febbraio ’93).
277
Falange Armata, / Bestia, boia, P2. […] La Tricuspide / vuol cancellare la storia / e la memoria. /
Senza la storica memoria / la Grande Proletaria / non si muove affatto» (PO, pp. 235, 250). Ottieri
analizza questi nuovi agglomerati politici che assorbono un malessere latente nella società italiana,
ma senza disdegnare poi violenti attacchi anche contro i partiti della sinistra dopo il mutamento del
PCI e il dissolvimento del PSI.
Di ognuna di queste tre facce della Tricuspide, nel Poema lo scrittore passa in rassegna gli
elementi caratterizzanti. La Lega Nord è rappresentata dal suo ideatore Gianfranco Miglio il
«pensatore grosso, / delle tre Italie, fantasioso / ricostituente» (PO, p. 37), dal pittoresco leader
Umberto Bossi, il «boia» (PO, p. 53) e da Irene Pivetti che «in quello scranno di Montecitorio / è un
incubo nuovo» (PO, p. 228). C’è dolore misto a ironia nelle parole di Ottieri perché i leghisti
rappresentavano un movimento di protesta che trovava ampio risalto in una nuova forma di
battaglia politica nel condannare il corrotto sistema politico con il suo cuore pulsante a Roma
ladrona. Ottieri inviò nel giugno del ’97 una lettera in forma di articolo a Giancarlo Borsetti, allora
vicedirettore dell’«Unità» con alcune considerazioni sulla Lega Nord, non meno oscene e
difficilmente pubblicabili sul quotidiano.
Il leghismo è fascismo. È niente altro che un moncone di quel fascismo italiano perenne, individuato
da Gobetti – che ne fu ucciso – e realizzato alla grande da Mussolini. Avemmo poi il MSI, l’Uomo
Qualunque, AN e ora la Lega. Se il fascismo di Mussolini si coagulò con l’Impero, l’attuale si sostanzia con
le tasse. Padre che questo leghismo dia voce a un disagio reale, prima quello lombardo ora quello veneto. Ma
quale disagio? È per caso l’esistenziale malessere del benessere? No. Dipende dal mito nordico, ora
longobardo ora celtico ora serenissimo, dell’Esentone. […] Tale malessere è antidemocratico e
antiparlamentare, cioè fascista. Il fascismo cronico va combattuto con un antifascismo cronico, cioè perenne.
Il leghismo fascista si manifesta come disprezzo della Repubblica, del suo Presidente, del Parlamento e delle
sue Commissioni, da queste i leghisti entrano e escono al bisogno, come dal cesso. Data la familiarità coi
gabinetti, il loro linguaggio è familiare col cazzo e con la merda. La loro cretineria è gretta, colpevole,
ignorante, dà involontari colpi di maglio alla cultura, involontari perché non sanno quello che pensano. […]
Dalle camicie nere, alle brune, alle verdi. Naturale! La vera gente è variopinta, è scamiciata. Come sintomo
di fascismo cronico, non funzionale ma organico, con occhio sempre teso sul paramilitare, la Lega non deve
venir sottovalutata, anzi sopravvalutata. […] La Padania da farsa si trasforma in forza e alla forza non si
contrappone che una forza contraria e maggiore, la forza delle idee, la più auspicabile, ormai è spenta. (27
giugno ’97)
Il tono di Ottieri cambia, diventando più feroce, non appena si affrontano le problematiche
riguardanti gli altri due partiti della coalizione di destra: i neofascisti e i pubblicitari. Per i primi il
suo pensiero travalicava molti decenni, essendosi sviluppato in lui il distacco dall’adolescenza
fascista per approdare al più maturo socialismo, e soprattutto riscontrando un atteggiamento
anacronistico negli esponenti del Movimento Sociale. La novità scaturita dal congresso di Fiuggi
nel gennaio ’95, che portò alla costituzione di Alleanza Nazionale, attesta per Ottieri un ritorno
all’incoscienza che egli aveva vissuto e trascritto nelle Memorie giovanili. Dopo cinquant’anni i
278
neofascisti possono di nuovo partecipare alla politica italiana garantendosi dei ministeri e in futuro,
chissà, anche la presidenza di una camera.
«L’Italia ha una malattia cronica: il fascismo, e sovente vi si inserisce un’infiammazione. Allora il
fascismo è doppio. […] Il fascismo rientra, / fingendo, in Parlamento. […] Il popolo italiano / non è sovrano,
/ è incosciente, / nella immane / raccolta di merci / e di squadristi. […] Maledetta destra, / l’ironia è finita.
[…] L’atmosfera fascista è una nube nera che si aggira per l’Europa, foriera di grandinate» (PO, pp. 142,
166, 167, 168, 178).
Agli inizi degli anni Novanta il MSI si presentava rafforzato dopo gli stravolgimenti del
quadro politico derivati da Tangentopoli, potendo così entrare per la seconda volta al governo (la
prima fu nel ’60 nell’infelice esperimento del governo Tambroni), dopo aver raggiunto uno storico
13,4 % alle elezioni del ’94 che gli consentì di pretendere cinque ministri: Giuseppe Tatarella,
Altero Matteoli, Ariana Poli Bortone, Publio Fiori e Domenico Fisichella. Escluso per decenni dai
centri lottizzati del potere democristiano, il MSI-AN non portava, fosse merito suo o delle
circostanze, il marchio della corruzione contro la quale si era anzi battuto; e inoltre, nello
sfaldamento del centro e in particolare della DC, gli elettori si vedevano costretti, volenti o nolenti,
a rafforzare le ali. Gianfranco Fini, giovane segretario del MSI, aveva un disperato bisogno di uscire
dal ghetto in cui il partito era rimasto per troppo tempo; desiderio legittimo per chi, in quegli anni
torbidi, poteva mostrare una legittima patente d’incorruttibilità rispetto a quasi tutti gli altri partiti
del cosiddetto arco costituzionale. Dunque a Fini premeva d’affiancarsi a Berlusconi almeno quanto
a Berlusconi premeva di cattivarselo: un matrimonio per sdoganamento che tuttavia entrava in
aperto conflitto con l’altro alleato, Bossi, che detestava qualsiasi patina fascistoide dell’alleanza. La
ripulsa d’ogni avvicinamento al MSI era stata una costante, spesso venata d’ipocrisia, della vita
pubblica italiana e infrangere questo patto, l’antifascismo era scritto nella Carta costituzionale,
avrebbe garantito a chi avesse osato farlo un corollario di polemiche interminabili. Ma il momento
politico non ammetteva tentennamenti, quel matrimonio s’addaveva fare: la destra, da sempre
bollata come neofascista, e per alcuni aspetti lo era ancora, dopo aver subito la ghettizzazione
politica e culturale, vedeva per la prima volta la luce.
La terza e più inquietante faccia della Tricuspide è Forza Italia che nacque nell’estate del ’93
e a novembre già contava 800 clubs che Ottieri senza troppi tentennamenti vuole «alla forca» (PO,
p. 53), 1200 a dicembre che divennero in breve tempo quindicimila. Per la prima volta nella storia
di un paese occidentale, uno schieramento politico, destinato ad avere grande consenso e forte
influenza sugli avvenimenti futuri, nasceva come un prodotto industriale e veniva lanciato con una
seria e metodica operazione di marketing: «Ha fabbricato un nuovo partito in due mesi / di impegno
incivile. / Gli intellettuali con gli studenti / e gli invisibili operai – / così l’Occidente li ha schermati
279
– / si faranno vivi? / Sono adesso grigi, intontiti / dal vorticoso risucchio della Testa Rossa» (PO, p.
163). L’ideologia berlusconiana, una miscela di deformato liberalismo economico, di efficientismo
industriale, di populismo ottimista fino all’inverosimile, di anticomunismo viscerale, non era
davvero innovatrice giacché tutti i partiti dell’area moderata avevano in parte predicato per
cinquant’anni le stesse cose. Molto diverso, e qui si concentra l’attenzione di Ottieri, è il dinamismo
con cui questo messaggio veniva propagandato in modo vorticoso con la pubblicità attraverso
l’etere, i giornali, le riviste. Una tempesta elettromagnetica d’immagini e suoni in cui Berlusconi
non si stancava mai di ripetere, dal giorno della fatidica discesa in campo del 26 gennaio ’94, che il
suo ingresso in politica era stato determinato dalla volontà di scongiurare per l’Italia un regime
comunista. Da qui il grido disperato del poeta: «Sì, nemico mio, / aggiusta pure l’Italia, / io, o
idraulico o elettricista, / per alto ideologico dissenso, / te la rompo / sotto il naso» (PO, p. 164).
Il dilemma politico che ha accompagnato gli ultimi anni della vita di Ottieri ruotava intorno
agli stessi quesiti: Come è stato possibile? Perché ciò è avvenuto? Quale tipo di democrazia è quella
italiana? Come arrestare lo scempio? La risposta la darà lo stesso Ottieri attraverso le sue opere:
dall’Inconcepibile 1994 si passerà all’Irata sensazione di peggioramento del 2002, attraverso un
vortice incessante di nequizie, tradimenti, ridislocazioni, ribaltoni, immunità parlamentari,
riesumazioni di politici corrotti, processi bloccati, prescrizione come unica regola d’inefficiente
giustizia. Il sentimento di disastro incombente sull’Italia provato da Ottieri, dal punto di vista
sociale e politico, fu tutt’altro che Inconcepibile se si osserva con oggettività la storia:
«Gli italiani si cercano sempre un Cesare. Quello odierno vuole conquistare gli operai di Torino e i
nobili di Roma. Divarica la forbice al massimo. È ottimista. L’importante per lui è che i sudditi siano
ignoranti, come lui. Persino coloro che hanno fatto la terza media gli fanno paura. È abituato a servi sciocchi
d’ogni ceto. […] Il neo-duce è contronatura. È disomogeneo, è un aratro cieco» (PO, pp. 82, 152).
Ottieri mette in risalto gli inquietanti aspetti che hanno permesso l’ascesa di un complesso
personaggio come Berlusconi: in primo luogo la necessità secolare degli italiani di servire un Re, un
Imperatore, un Duce (italiano o straniero che sia) di turno, una figura forte e furba che si è fatta da
sé e che ottiene la maggioranza dei consensi. Per quanto riguarda l’ottimismo, esso si riallaccia alla
politica del PSI, definita nel cuore degli anni Ottanta ottimista sotto la guida del «Satrapo» Craxi.
Sul bisogno di avere sudditi ignoranti, il riferimento che fa Ottieri è provocatorio: “Sua Emittenza”
si laureò in giurisprudenza con una tesi, molto elogiata e anche premiata, dal titolo Il contratto di
pubblicità per inserzione dove si vede come già fosse forte la vocazione del giovane studente per
l’occupazione che lo impegnerà per tutta la vita: vendere. Vendere case, spot televisivi, sogni di
posti di lavoro, e anche la politica all’interno di un sistema capitalistico mercificato dall’orrore della
depravazione culturale e dall’omologazione sociale: «Colui non è che il re delle merci, per di più
280
elevato a trascendenza. Sembrava che varcassimo la palude merceologica, le sabbie mobili del giro
finanziario. Arriva uno che allarga la palude. Egli continua a ingigantire tutto ciò che volevamo
rimpicciolire. Peggiora il peggio» (PO, p. 152).
In attesa delle elezioni del 27-28 marzo ’94, gran parte del mondo politico e degli ambienti
intellettuali preferirono ridurre Berlusconi a simbolo della mediocrità infuriante, dimenticando però
che poteva contare su un enorme monopolio privato, profeta del popolo minuto plagiato
quotidianamente dagli imbonitori televisivi che si avviava, sic et naturaliter, a consegnarsi
all’imbonitore maximo (Berlusconi appunto) difensore integerrimo, tambur battente, dei diritti dei
singoli cittadini contro la protervia del Regime. Attraverso tale lubrificata macchinazione
autolesionistica, l’apparatchik della sinistra arzigogolò che i gusti e le simpatie di milioni di italiani,
da lì a poco chiamati ad esprimere un preferenza, incollati al televisore erano spregevoli e il loro
quoziente d’intelligenza infimo.
Inoltre Berlusconi proponeva un nuovo modo di far politica con l’identificazione di uno sport,
il calcio, per scardinare l’ormai logoro sistema politico. Il calcio che «non è più uno sport, è una
commedia dell’arte. Gioisco all’idea che venga distrutto dal comico» (PO, p. 286) entra numerose
volte “a gamba tesa” nel Poema osceno99, ed è un caso particolare nella letteratura di Ottieri in
quanto lo sport, e il calcio in particolare, non appare quasi mai tra i suoi interessi100. «Tutti i mister
sono molto riflessivi. Capello è il più riflessivo di tutti. […] Noi non sappiamo come fermare il suo
imperialismo. Avanza. Capello agli Interni, il Trap agli Esteri, Sacchi alla Famiglia. Sarà un
governo di tecnici» (PO, pp. 133, 152). Ottieri gioca con l’arma dell’ironia tagliente per dimostrare
la coincidenza clamorosa tra il governo di uno stato democratico e la formazione di una squadra di
calcio. «Sarà un governo di tecnici» è una frase che i cittadini italiani ricordano fin dagli albori del
Regno d’Italia, trasformismo annesso, quindi sovrapporre l’immagine di tre tecnici, allenatori,
mister, a posti considerevoli come gli Interni o gli Esteri può apparire una normale consuetudine.
Oltre ai tecnici, nel novero dei ministri Ottieri immagina che Berlusconi possa inserire qualcuno di
famiglia come la seconda moglie Veronica Lario, «tornato da Palermo, / come saetta, / mette […] la
Lario alla Giustizia (PO, pp. 133), oppure una soubrette come Ambra Angiolini di Non è la Rai, «ha
99
Ottieri, che osservava a suo dire distrattamente i campionati del mondo di calcio svoltisi negli Stati Uniti
nell’estate del ’94, pochi mesi dopo le elezioni, riporta nel Poema osceno alcuni riferimenti alle partite disputate
dall’Italia con dovizie di particolari sulla tattica e sui giocatori: «Piazza la validissima / squadra (un poco sfortunata) / in
4-3-3. Poi cambia / in 5-3-2, scompagina così / il mister nemico. Ed anche / i suoi ragazzi / li fa divenire / nevrastenici.
[…] Signora, non vede che suo marito / è un Baggio? / Quale? / Roberto. / Ah, meno male. / Vedo male il povero Dino.
Giocherà Baresi?» (PO, pp. 398, 399).
100
Anche se c’è un particolare della vita di Ottieri che induce a pensare che lo sport, almeno in gioventù, lo
interessasse. Lo racconta nella Biografia di mio padre la figlia Maria Pace quando descrive il primo incontro dello
scrittore con Silvana Mauri, sua futura moglie: «Leggeva la Gazzetta dello Sport - ricorda Silvana - aveva l’aria
sperduta, mi disse che era solo, non conosceva nessuno. Lo invitai a cena da noi e l’indomani si presentò con i fiori»
(CRO, p. 174). Di passioni sportive, si ricorda in gioventù soprattutto il ciclismo; Ottieri seguiva con interesse il Giro
d’Italia apprezzando le gesta di Bartali.
281
offerto ad Ambra il Ministero della Famiglia» (PO, p. 152). Alcuni anni dopo, nel 2008, per il terzo
incarico di governo, Berlusconi offrirà un ministero proprio a una ex soubrette, l’onorevole Mara
Carfagna alle Pari opportunità, ma Ottieri non riuscì ad osservare con i propri occhi questa curiosa
situazione da lui prospettata quindici anni prima.
L’altra novità clamorosa apportata da Berlusconi con la sua «discesa in campo» si constata
nel connubio tra Potere politico e televisivo confluito in una sola persona che devastò gli equilibri
presenti all’interno dell’arco costituzionale. Da Telemilano in poi Berlusconi sparigliò la
concorrenza arruolando figure di spicco dell’etere come Mike Buongiorno, Pippo Baudo, Raffaella
Carrà. “Sua Emittenza” voleva comprare il meglio a qualsiasi prezzo facendo improvvisamente
lievitare i compensi e anche i costi della Rai che fino a quel momento gestiva da padrona assoluta la
kermesse televisiva. La volgarità dei programmi televisivi è posta al centro delle riflessioni di
Ottieri che, in molti punti del Poema osceno, critica una situazione intollerabile: con Non è la Rai in
testa, passando poi ai telegiornali di Emilio Fede, l’angoscia inchioda il vecchio poeta a un’attonita
partecipazione alla realtà deplorevole.
L’avanzante frantumazione delle immagini, alla tele, Italia 1 in testa, ci frantuma l’occhio e il
pensiero. Il consumismo non si sgretola. Ci sgretola. Ha ragione la mafia. Chi non spara, non mangia. Il
video spara. […] Non è la Rai / è il cavallo di Troia / del primo pomeriggio. / Ahi, il sesso vero, puro, / è a
destra ed è quotidiano. […] Berlusconi è il Mussolini di Rete Quattro. (PO, pp. 98, 151, 161, 169, 171).
Dopo aver tracciato il nuovo corso della storia italiana attraverso la ribellione sessuale,
assolutamente personale e oscena, concepita come unica possibilità di estraniazione da un
deprimente status quo, Ottieri non può tralasciare quella parte, ed è consistente, di opposizione
politica che inevitabilmente sta a sinistra. Dal fascismo adolescenziale, ricordato nelle Memorie, lo
scrittore diventa socialista anche grazie alla conoscenza diretta del mondo operaio nelle fabbriche
milanesi e alla lettura spirituale del marxismo: «Sono un intellettuale di sinistra, sono venuto qui per
esserlo, come uno va a frequentare una scuola di un’altra città. […] A Genova per il congresso del
PSI. Sono o non sono? Sono o non sono socialista?» (LG, pp. 22, 27). E come uomo di sinistra,
Ottieri non può sorvolare su quelle espressioni politiche che avrebbero dovuto fronteggiare
l’escalation inarrestabile di Berlusconi. Il tono è cupo, aspro, mentre affiora una straziante critica
verso quell’atteggiamento fallimentare dell’intellighenzia di sinistra che, nella narcosi di uno
spossante rinnovamento, non si accorse del pericolo che giungeva via etere.
«Sono un picchiatore di sinistra. / Non c’è che spengere la paura / a destra, con un cazzo portato a
sinistra. […] La sinistra piange troppo, ha il complesso dell’opposizione. […] La sinistra è un bisogno, non
può stare che a sinistra. […] Il mio impegno civile e duro / si ammolla / nella umida inconcepibilità / della
Sinistra al governo, / poiché la Sinistra / regna ma non governa. / Non ha trovato ancora / un grimaldello
fattivo / per l’autocritica politica. / Deve discolparsi / per i suoi amori / sovietici, il culto / di Stalin.
282
Autocritica. / Non posso / che essere a sinistra, / non posso avere dubbi, / è primario istinto» (PO, pp. 53, 79,
103, 230).
Sommando tutti i fattori politici e sociali, L’inconcepibile 1994 trova in Ottieri una sua logica
stringente: in altre parole sarebbe stato impossibile che non fosse accaduto. Eppure, ed è questo
l’aspetto davvero drammatico del Poema osceno, resta lo sbigottimento del vecchio poeta. Non
importa più il come ed il perché ciò sia accaduto, è lo stesso Ottieri che lo spiega con estrema
lucidità, ma conta soltanto che è accaduto e per di più in una forma così volgare: «Nella primavera
del ’93, / tutta tesa nella spasmodica, / fobica attesa del ’94, / molto si disse di vano. / Non ci si
aspettava davvero / il trionfo dei tre ladroni morali, / del dittatore panamense, / della macchietta
bauscia, / del redivivo, italico neonazista, / bieco dietro volto discreto» (PO, p. 231). Ottieri
constata, come riassunto emblematico del suo Poema osceno, che l’Italia è tendenzialmente di
destra, non democratica, comandata da una moderna dittatura televisiva, fondata sulla corruzione e
sulla criminalità organizzata, e monca nello spirito di una sinistra che non può essere né
opposizione né maggioranza.
Nella Seconda Repubblica nata a metà degli anni Novanta è davvero mutato qualcosa in
questo passaggio storico? «Per ora mi è impossibile scrivere giambi sulla seconda repubblica,
perché non so se c’è» (PO, p. 139). In effetti il terremoto provocato da Tangentopoli aveva
modificato le apparenze della politica italiana lasciandola tuttavia, lo si percepì nei mesi successivi,
invariata nelle sue fondamenta. I riciclaggi d’ogni genere furono all’ordine del giorno sotto il segno
del cambiamento, certo, ma che impietosamente facevano trionfare quella sorta di continuatismo
che avvelenava il contesto politico. Quasi tutti i protagonisti emergenti e superstiti avevano
ascendenze e aderenze nel Regime travolto dagli scandali, così che ai più attenti, ma non era
difficile capirlo, la Seconda Repubblica assomigliava tanto alla Prima da coagularsi in essa.
Il voler diventare un poeta civile, nel proposito che apre il Poema, si deve necessariamente
scontrare con questa realtà immutabile che si presenta di continuo sotto il suo sguardo: «Ogni anno
il peggio è peggiore. Vengono Governi che aumentano i disvalori e chiamano i valori
disvalorissimi, non convenienti in Città Convenienza. È la schiumetta schifosa della camorra, che
risale l’Italia fino a suturarsi con la mafia alpina» (PO, p. 77). Se il Parlamento è corrotto, poiché i
suoi seggi e poltrone sono occupati in alcuni casi da personaggi collusi con la criminalità
organizzata, le leggi che vengono licenziate da tale organo di Stato, si domanda Ottieri, come si
possono considerare se non una protesi, ben riuscita, della malavita? A rischio perenne e quotidiano
c’è la democrazia tout court: «E la democrazia esiste? / Non esiste. Troppo il pensiero democratico,
/ astemio, / colmo e maturo, è triste. / È tempo di generazioni, / migrazioni, marmellate,
283
neoalienazioni, / o italietta, nell’intervallo. […] La democrazia, per l’Italia, mi sembra platonica»
(PO, pp. 103, 320).
Il poema osceno è un’opera estrema sotto tanti aspetti e lo stesso autore ne era consapevole
durante la stesura così lunga e spossante di oltre cinquecento pagine. I riscontri favorevoli non
mancarono da parte di molti critici che scorsero il raggiungimento di una poetica sofferta,
complessa e armoniosa. Renzo Guidieri, ad esempio, scrive a Ottieri:
Stimatissimo Dottor Ottieri, desidero esprimerLe la mia più sincera gratitudine per avere scritto uno
dei libri più belli che io ricordi negli ultimi tempi (sto lottando per non dire negli ultimi vent’anni). Il suo
Poema osceno è un libro maestoso e ricco quanto il deposito alluvionale del Gange. Credo che Lei abbia
scritto uno dei pochissimi libri della nostra epoca, uno di quelli che solo gli scrittori veri vorrebbero scrivere.
Sono contento che lo abbia fatto lei. (1 marzo ’96)
Edoardo Albinati, comprendendo in pieno l’humour del poema, scrisse a Ottieri (il 5 marzo
’96): «Ecco il frutto nascosto, il figlio proibito. […] Mi viene voglia di gridare: Forza Ottiero!»,
mentre Pia Pera intravede nel testo una spiccata corrispondenza con il Petrolio pasoliniano:
Carissima silhouette di Hitchcock, ho appena finito di navigare per il tuo poema, dove ho trovato
pregi e difetti assai simili a quelli di un libro che ho amato moltissimo; Petrolio: sarà la materia, per la sua
natura smodata e, per l’appunto, ingovernabile, non so, ma i lampi di genio, e i versi che si ha voglia di
rileggere e ricordare, più che incastonati, galleggiano alla deriva, in attesa di qualcuno che li salvi, eppure
salvarli ha altrettanto poco senso, forse, che guarire, e insomma sono rimasta risucchiata nel gigantesco
paraosso che hai costruito, e alla fine mi è parso che, nonostante l’invettiva e la sofferenza civile e
l’istigazione all’impegno (!), la musa e lo spiritello dispettoso del poema siano altri. (16 aprile ’96)
Mario Luzi è invece attratto dal «flusso liberatorio» del poema:
Caro Ottieri, Il poema osceno ricapitola e espande tutte le ragioni della mia considerazione e della
mia simpatia per il suo lavoro. A parte il gusto per l’arguta dissacrazione, che non è poco, è l’infinito dicibile
flusso liberatorio e l’intrecciarsi dei vari pensamenti e infrapensieri che mi attrae. Un tipo di poesia altra che
acquista progressivamente nella lettura la sua forza di persuasione e di convincimento. (18 maggio ’96)
Ottieri, da bad-sellerista navigato, in una lettera inviata a Beppe Agosti il 12 settembre ’96
pubblicizza il poema in questo modo: «Le sconsiglio di leggere il mio libro, che sconsiglio a tutti.
Esso è: faticoso, ripetitivo, eccessivo e noiosissimo. Notoriamente io e i miei personaggi diciamo
ma non facciamo». Au contraire il libro venne letto anche da chi nel poema rappresentava suo
malgrado lo «smerdamento generale» del Paese, ovvero Oscar Luigi Scalfaro allora Presidente della
Repubblica italiana che conferì a Ottieri, attraverso un telegramma del 27 giugno ’96,
«l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana» che sarà consegnata
nelle mani dello scrittore il 5 settembre del ’96.
284
III.4 Una irata sensazione di peggioramento
Una irata sensazione di peggioramento rappresenta l’ultimo atto di un percorso letterario
che Ottieri ha ordito fin dalla prima esperienza delle Memorie. Il romanzo uscirà pochi mesi prima
della sua morte e ne sancisce, cronologicamente, il testamento letterario in cui emergono in modo
esplicito le ultime volontà di Ottieri, come se egli volesse riassumere, condensare, concludere,
anche con numerosi riferimenti alla morte incombente, una vicenda autobiografica iniziata
cinquant’anni prima. Si tratta di un romanzo-testamento che volutamente non si chiude, in cui
l’ultima pagina presenta una spezzatura strutturale nel dialogo interrotto tra due personaggi a
colloquio. Il vuoto che si apre dopo l’ultima frase potrebbe essere un ammiccamento di Ottieri nei
riguardi del lettore, un arrivederci più poetico di un definitivo addio dopo decenni di confronti,
analisi, rifacimenti, intrecci, confessioni interminabili. Ottieri lascia dunque in eredità una
“sinfonia” non conclusa, e non poteva essere altrimenti a causa del progetto letterario cui si dedicò
per tutta la vita.
Il titolo del romanzo venne scelto da Ottieri per un verso di una canzone ascoltata dal nipote
Leon figlio di Maria Pace: si tratta di Irata del gruppo CSI (ex CCCP) estrapolata dall’album La
linea gotica101 di ottieriana memoria: «Oggi è domenica, domani si muore / Oggi mi vesto di seta e
candore / […] Per un’irata sensazione di peggioramento / di cui non so parlare né so fare domande /
Di cui non so parlare né so fare domande». I versi «Oggi è domenica, domani si muore / Oggi mi
vesto di seta e candore» furono ripresi dalla poesia di Pasolini Oggi è domenica che fa parte delle
Poesie a Casarsa scritte in friulano e raccolte nella Nuova gioventù102. Per quanto concerne il verso
«Una irata sensazione di peggioramento», questo fu ripreso e leggermente modificato da una frase
estrapolata dal primo capitolo del romanzo Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio.103
Ottieri ricorda la scelta del titolo del suo ultimo romanzo in una lettera inviata al «grande
amico operaio anarchico di Porto Marghera» Ferruccio Brugnaro: «Caro Brugnaro, bellissime le tue
poesie [Non pugnalate la pace, inviate a Ottieri il 26 settembre 2001]. Come sempre è in sintonia
coi sentimenti di ogni giorno. Ho appena finito il libro che ho consegnato all’editore e che uscirà in
primavera. Si intitola Una irata sensazione di peggioramento. Un mio nipote [Leon] dice che è una
canzone: dovrò forse denunciarlo alla SIAE» (11 ottobre 2001). Brugnaro gli risponderà il 2
novembre 2001: «Speriamo di uscire presto da questi giorni orribili in cui sulle coscienze sta
calando un buio infernale» in riferimento agli ultimi sviluppi politici, ovvero i primi passi del
101
Linea Gotica dei CSI venne pubblicato nel gennaio del ’96 da Polygram.
PASOLINI Pier Paolo, La nuova gioventu: poesie friulane, 1941-1974, Einaudi, Torino 1975, p. 14. Nella
versione italiana: «Oggi è Domenica, / domani si muore, / oggi mi vesto / di seta e d’amore».
103
FENOGLIO Beppe, Il partigiano Johnny (1968), Einaudi, Torino 1994, p. 6: «Con una irosa sensazione di
peggioramento».
102
285
secondo governo Berlusconi cogliendo, senza ancora averlo letto, il nucleo tematico del romanzo di
Ottieri.
Il protagonista dell’Irata sensazione è un nuovo e ultimo alter ego di Ottieri, Pietro Mura,
scrittore alcolizzato cronico che «come alcolista, era un automa. […] Viveva solo per bere e il bere
scandiva le sue giornate» (ISP, p. 23), il quale decide in extrema ratio di rivolgersi a uno psichiatra
e tossicologo di Torino, Carlo Migliorini, immagine romanzata di Luigi Gallimberti104, per tentare
una nuova cura disintossicante dopo quelle passate, rivelatesi infruttuose. Il cognome del medico
stride volutamente con il titolo del romanzo nel conflitto tra miglioramento minimo e
peggioramento dilagante che trionferà, anche se ci si chiede da dove il peggioramento possa
scaturire: c’è stato un qualche miglioramento prima e nessuno se n’è accorto? Luigi Gallimberti
ricorda il giorno in cui la moglie di Ottieri, Silvana Mauri, lo incontrò per un appuntamento:
Era il 21 dicembre 1989 quando Silvana Ottieri, una signora gentile e disperata, mi implorò di
aiutare suo marito a farlo smettere di bere perché non sapeva più cosa fare. Venne nel mio ambulatorio e mi
consegnò una lettera a nome del professor Cassano di Pisa che recitava testualmente le seguenti parole: «Il
signor Ottiero Ottieri di anni sessantaquattro si è ricoverato nella nostra casa di cura nell’ottobre 1988. Al
momento dell’ammissione il quadro clinico era caratterizzato da iperansietà con agitazione psicomotoria,
iperventilazione, tremori, sudorazioni, nausea e vomito. Nelle ore precedenti il paziente aveva assunto
notevoli quantità di alcol. (Convegno, pp. 20-24)
All’inizio della terapia, Ottieri rivela a Gallimberti quando e perché, da astemio, iniziò a
bere verso la fine degli anni Sessanta, facendo riferimento alla difficoltà nel portare a termine un
libro che lo spinse ad assumere una quantità sempre maggiore di alcolici. Da allora in poi l’alcol,
come si è riscontrato in numerose circostanze, sarà una presenza assidua e inquietante nella vita e
nelle sue opere.
La mia storia con l’alcol è cominciata all’improvviso dopo i quarant’anni: non riuscivo a finire un
romanzo, mi sentivo ultra angosciato, e io che ero non astemio, ma astemissimo, ricorsi all’alcol come
anestetico. Mai più smesso. […] Allora il professor Cassano mi ha indirizzato dal Dottor Luigi Gallimberti
dell’ospedale di Padova che disponeva di un nuovo farmaco per la dipendenza alcolica. (in E liberaci dal
male oscuro, p. 429)
Ottieri riverbera in Pietro Mura frammenti della propria biografia, dalle origini toscane
all’infanzia a Roma, la fuga a Milano, l’impiego a Pozzuoli, le avventure da eterno playboy e
dongiovanni patologico, l’impegno politico, i disturbi psichici, la disgregazione di sé insieme
all’amore per la vita, lo scrivere, la senilità non accettata, la depressione infinita, la dipendenza
104
Luigi Gallimberti è psichiatra dalla formazione psicoanalitica e tossicologo medico. Dirige la tossicologia
clinica delle farmaco-dipendenze dell’Azienda ospedaliera Università di Padova, dove insegna tossicologia clinica e
psichiatria delle farmacodipendenze. È autore del libro Il bere oscuro (Bur), che, basandosi su innovative scoperte
scientifiche, spiega come e perché si può diventare tossicodipendenti e morire a causa dell’alcol. Ottieri nel romanzo
scriverà: «Migliorini stava scrivendo un libro, Il vero è oscuro» (ISP, p. 57).
286
alcolica, il sentimento della morte. Grazie a Pietro Mura, Ottieri esegue un viaggio a ritroso
attraverso tutte le tappe della sua vita di scrittore, dalle Memorie a Cery; un rewind di un’esistenza
dolorosa e nello stesso tempo intrisa di coraggio e di sfrontatezza nel raccontare, da una prospettiva
letteraria, ciò che in genere si è tentato di negare come la malattia mentale, l’alienazione degli
operai, il degrado sociale e politico. Ottieri, da scrittore abile a giocare sui rimandi, parodie e
rifacimenti, dissemina il testo di una nebulosa fitta di elementi, immagini e motivi che riassumono
una storia particolare e per certi versi inquietante. L’Irata sensazione si presenta dunque come un
angulus costruito con tenacia e lucidità dallo scrittore che voleva ritagliarsi uno spazio intimo e
riflessivo dove poter riflettere con rabbiosa saggezza sugli eventi passati e presenti della sua vita.
Con quest’ultimo romanzo Ottieri chiude il cerchio di un viaggio lunghissimo, ma senza mettere il
punto; infatti la conclusione, che non è tale, presenta tre puntini di sospensione al racconto: «Anche
se non ci pensi, non sposti di un centimetro il mistero…» (ISP, p. 184). Un epilogo che equivale a
un incipit.
In principio furono le Memorie dell’incoscienza, romanzo e cronaca del dopoguerra, filtrate
attraverso il primo alter ego dello scrittore, l’adolescente Lorenzo Bandini dilaniato
dall’impossibilità di partecipare concretamente alle vicende storiche e sentimentali della sua
giovane vita. L’incoscienza esistenziale e politica di quel periodo travagliato non perde vigore
nemmeno cinquant’anni dopo, e Ottieri la ricorda con passione emotiva che non diminuisce col
trascorrere dei decenni, dilatandosi anzi in odio:
Il Grande Somaro da Salò ragliava ormai troppo puledrescamente forte, nitriva, urlava come uno
stallone nell’estremo macello. […] L’idea forte della pazzia si distraeva, in Pietro, con l’odio. L’odio per
quei figuri in maschera che, volendo fare dell’Italia un Impero, l’avevano martoriata e rasa al suolo. Mi sta
bene che il fine giustifichi i mezzi. Ma non quando il fine è la fine. (ISP, p. 41)
Il Padre della patria che ha tradito avvolgeva i ricordi dello scrittore con l’altro Padre, quello
naturale, cui collegare l’infatuazione infantile per il fascismo che si trasformerà dopo il ’43 in
feroce antifascismo per poi raggiungere le più mature tendenze socialiste.
Il fascismo aveva fatto in tempo a insegnargli l’irrazionale logica della presa di potere. In famiglia il
suo Padre-padrone era troppo di un nero acceso e bastonatore, perché egli non divenisse di un rosso acceso e
bombarolo. Da allora egli odiava, caso mai in segreto, anche l’ombra di un padrone. […] Il padrone è la
discarica dei doveri, quando uno troppo ami i diritti. Il padrone è il faro. È così amato e disiato che gli
italiani hanno prima voluto, poi sopportato il fascismo. (ISP, pp. 30, 171)
Dal punto di vista sociale io sono sempre stato un uomo di sinistra, lo rimango. Sono sempre stato
contrario a ogni forma di padronato, di capeggiare. Il capo, l’amministratore delegato, sono sempre state
figure che ho al massimo preso in giro. (In «Milano Metropoli»)
287
Nella cronologia a ritroso che Ottieri plasma nell’Irata sensazione, un posto di rilievo è
occupato da Milano città dove ha vissuto per più di cinquant’anni dopo la fuga da Roma. Milano
rappresenta la dissoluzione di ogni umanità e comprensione, il trionfo dell’Italia ciarliera e
populistica, della pubblicità trionfante, dei partiti costruiti col marketing. Milano «Città
convenienza» (PO, p. 77) plastificata e sudicia il cui cielo è inesistente, finto o nella migliore delle
ipotesi grigio, a specchio di una realtà che presenta i volti di Craxi, Berlusconi e Bossi che
governano una città che ha venduto l’anima al demonio del commercio, schiava dell’unica divinità
realmente funzionale, il Dio Denaro, in cui lo stridore delle ferraglie economico-tecnologiche
confluiscono su un’anima derelitta e silenziosa.
Non esiste in nessuna parte del mondo un cielo finto come quello di Milano. […] L’aria stagna della
città di Milano, ammutolita dall’unica anima che aveva, l’anima del commercio, era perforata, percossa dal
suo unico strillo, a tecnologia sempre più avanzata: il silenzio del volto umano. […] Scristianizzato avrebbe
ritrovato persino un Dio, l’indiscutibile Dio Soldo. Si può vivere senza Dio, ma non senza soldi. Questo è
Dogma. […] Il cielo di Milano è grigio, notoriamente, come il fumo di Londra, e varia dalla cartapesta, alla
carta igienica, alla carta asciugante, alla carta copiativa, alla carta carbone. […] Solo uno nato a Milano
sopporta, non s’accorge del cielo di Milano. […] Pietro costruì un nuovo teorema: solo i nevrotici, i bipolari
non tollerano il cielo di Milano e forse nemmeno la sua terra di puro asfalto. (ISP, pp. 31, 38, 45, 55, 79)
Nell’Irata sensazione di peggioramento Ottieri rielabora delle situazioni rimaste in sospeso
o che comunque richiedevano altre puntualizzazioni, sempre attese in una poetica aperta e per
volontà dello scrittore non conclusa. Il tema politico entra con prepotenza nelle pagine di
quest’ultimo romanzo in cui Ottieri dà voce a un disagio che ha radici molto remote nei riguardi
della società italiana e della condizione riprovevole del proprio Paese. Di invettive poetico-politiche
Ottieri aveva disseminato le opere precedenti, Storia del PSI e Il poema osceno, ma nell’Irata
sensazione il tono si fa ancor più cupo perché oltre alla constatazione del degrado travolgente della
politica italiana, nello scrittore si aggiunge il proprio stato psicofisico che lo sta avvicinando
consapevolmente alla morte. Fisicamente spossato da decenni di terapie e ricoveri nelle cliniche,
stanco nella continua ricerca di una guarigione sempre illusoria, lo scrittore giunge alla soglia degli
ottant’anni a stilare i conti con se stesso. Con lo sguardo rivolto all’indietro, Pietro analizza gli
eventi passati facendoli confluire nel presente che, a sua volta, apre piccoli spiragli verso un breve
futuro caratterizzato dalla morte: «In più Mura metteva in campo la sicurezza di una morte
anagrafica imminente e desiderata» (ISP, p. 73). Tale aspetto evidenzia con maggiore schiettezza il
valore testamentario del romanzo nel quale convergono alcune riflessioni già elaborate da Ottieri
nel De morte, un saggio narrativo del ’97 strutturato in due parti in cui il motivo della morte era
predominante:
288
«La specie umana è l’unica che sappia di dover morire» dice Voltaire. La morte si dichiara un
privilegio dell’uomo. […] È Morte l’alto premio della Vita. […] Io sono, appunto, intimo con la morte. Non
me ne vanto, familiarizzo con essa, sono suo cugino. (MOR, pp. 22, 25)
Una cosa nuova squarciò le tenebre umane: la morte. Pietro cominciò a riflettere su questo evento
degli eventi umani, che nella vita affonda pungiglioni velenosi, anche se vengono rimossi, specie in una
civiltà che ha fatto del futuro e dell’immortalità il suo fine. (ISP, p. 58)
L’epigrafe posta per introdurre De morte è dedicata «All’amico Luigi Gallimberti che mi ha
traghettato e spinto a preferire la verità», unendo idealmente le tematiche affrontate nello sviluppo
romanzesco dell’Irata sensazione dove il Dottore è trasferito nel personaggio di Carlo Migliorini.
Nel De morte Ottieri condensa i propri pensieri, oltre agli studi sull’argomento, in vari ambiti da
quello religioso al clinico, psicoanalitico, culturale, antropologico, osservando da vicino la morte
anagrafica che tuttavia già da molti anni lo sovrastava in qualità di depresso cronico che, come
appurato nel Campo di concentrazione, trascorre la propria vita in un inferno, in uno stato di morte
apparente: «Il pensiero della morte è un sintomo tipico del pensiero della depressione, ma il senso
della morte è più indispensabile al senso della vita» (MOR, p. 11).
Se le riflessioni nel Poema osceno si consideravano estreme, definitive oltre che oscene, con
il sopraggiungere di una fine imminente, l’ultimo impegno si dilata a sviscerare con le residue forze
rimaste una realtà pietosa. Il percorso di Ottieri nell’ambito politico raggiunge il suo apice e
conclusione proprio nell’Irata sensazione dove egli compie una “autopsia” letteraria sul cadavere
della Repubblica italiana circoscrivendo un ragionamento iniziato nelle Memorie dove, per motivi
storici ben definiti, si era già esaminata la morte di un’altra Italia, quella fascista e adolescenziale.
Nell’Irata sensazione Ottieri pone l’attenzione sulla dissoluzione del PSI, la crisi irreversibile della
sinistra italiana, Tangentopoli, l’avanzata impetuosa del partito pubblicitario Forza Italia guidato da
Berlusconi, senza disdegnare le tumultuose durezze della Lega. Niente di nuovo nei contenuti,
eppure è nel modo di proporli l’essenza dell’opera: la proiezione dell’Irata sensazione è riflessa
all’indietro, a differenza dei testi precedenti nei quali la rabbia e lo sdegno dello scrittore si
coagulavano in una visione futuribile seppure senza speranza; mentre qui è il passato che viene
sviscerato in ogni momento storico, politico e personale al fine di razionalizzare un presente
insopportabile insieme a un futuro che non può esistere a causa del decesso, parallelo e
contemporaneo, dello scrittore e del Paese. L’unica costante riguarda lo stretto legame che Ottieri
conserva con l’attualità, dimostrando anche in quest’ultimo romanzo la consueta predisposizione a
non tralasciare la realtà storica nel corso di una narrazione autobiografica.
Non sto rischiando io questo libro perché dimostrazione non solo della necessità di narrare la
contemporaneità, ma anche la attualità? […] La passione di bilancio di Pietro – fisiologica a fine Millennio –
289
si affaccia sullo scacco matto. La sua passione letteraria per l’attualità si sporge troppo. […] Chi veramente
soffre questa esagerata affezione di Pietro per l’attualismo? (ISP, pp. 112, 117, 118)
Alla celebrazione del funerale, un personaggio si eleva tonitruante su un Paese intero: è il
«Cavaliere azzurro» che con un esercito ben addestrato e al seguito un plotone variegato di
televisioni, marketing, pubblicità, lacchè di Regime, ha conquistato la politica italiana già in quel
famoso Inconcepibile 1994 e non sembra che l’esperienza debba concludersi nell’arco di pochi
mesi:
Un Cavaliere azzurro scese in campo di brutto e conquistò l’Italia, senza altre armi che tre divisioni e
era a cavallo d’un semplice ronzinante. Impiegò meno tempo di Carlo Magno, ma come lui mise nei massimi
posti di tutto il povero paese suoi vassalli che generarono vassallini o squadre di «bravi». La televisione
privata si appropriò anche della televisione pubblica. […] Al re della televisione privata cadeva in mano il
frutto maturo della televisione pubblica, e alle sue tre televisioni ne aggiungeva altre tre. Con sei televisioni
il potere oggi ne aggiungeva altre tre. Con sei televisioni il potere oggi è assicurato per sempre e non lascia il
minimo pericoloso spiraglio di libertà. (ISP, p. 70)
La conseguenza diretta fu l’esaltazione perversa di un Parlamento che per molti anni
licenziò, attraverso la maggioranza della cosiddetta Casa delle Libertà: «Diffidiamo, nella città in
cui s’incentra il Polo delle Libertà, d’ogni annuncio di libertà» (ISP, p. 156), leggi anticostituzionali
salvavita e ad personam che si sommavano in ogni ordine del giorno per un unico fine, ossia la
protezione con rafforzamento del Potere. Agli occhi di Ottieri lo Stato si trasformò in un’azienda,
un mercato dove si commercia la democrazia tra una compravendita irregolare e misure permissive
all’illecito sfrenato, unitamente a abusi edilizi, condoni, collusioni con le organizzazioni criminali,
distruzione paesaggistica, dissesto delle opere pubbliche, annichilimento della ricerca scientifica,
leggi liberticide a danno della laicità dello Stato, processi che inevitabilmente muoiono per la
prescrizione del reato.
Il re del mercato era il Presidente del Consiglio, cioè dello Stato. La vetero-conflittualità fra Stato e
Mercato andava in frantumi, lo Stato era un Mercato. Già il grande statista Craxi aveva preannunciato e
praticato nei fatti il Partito mercantile. […] L’Italia non se ne pente, perché ha lasciato eredi, soprattutto Uno,
corruttore di fama. I partiti sono un business, di costruzione, e di vendita e lui li ha commercializzati,
superbo, sprezzante, con mussoliniana bocca, ghigno beffardo, sputando e sputtanando la legge. Egli era al di
sopra di qualsiasi legge e della morte. Ha finalmente commercializzato la politica, rendendola, come una
merce, valore d’uso e valore di scambio. Ha reso le sezioni di partito punti di vendita. Egli ha accumulato
potere, coi suoi effetti collaterali, le donne, bisogno impellente, imperioso di ricompensare i fedeli minimo
con ministeri. (ISP, pp. 110, 158)
Gli elementi messi in evidenza da Ottieri non si distanziano dalle riflessioni già espresse nel
Poema osceno quali il Potere mediatico, poltrone e ministeri agli amici, estinzione della reale
libertà di stampa, mercificazione della politica, eppure Otteiri avverte la necessità di puntualizzare
290
gli accadimenti recenti perché il disastro storico-sociale che si stava abbattendo sulla Repubblica
italiana, uscita già malconcia dal ciclone Tangentopoli, era davvero un unicum nelle democrazie
occidentali: «Il ricatto, l’imbroglio, anche, meglio, l’imbroglio come invenzione originale,
l’arroganza delle famiglie, lo scippo reale e simbolico, la prepotenza, la volgarità e la scemenza
incosciente, sostenuta da una ignoranza che pesa come un analfabetismo, dilagano sotto la coperta
blu di Macherio che ne è l’alfiere. (ISP, p. 180)
Giuseppe Pontiggia, in una lettera inviata a Ottieri pochi giorni dopo l’uscita nelle librerie
dell’Irata sensazione, evidenzia questo fondamentale aspetto dell’engagement civile dello scrittore:
Caro Ottieri, mi ha molto colpito, nel tuo romanzo, la violenza lucida con cui il caos esistenziale
rivela il degrado civile. Ci vogliono coraggio, invenzione, energie, linguaggio giocato in tanti registri,
insofferenza radicale per tutte le forme di dissimulazione e di menzogne. E tu sei riuscito a nobilitare ancora
una volta, e in forme nuove, queste risorse. (19 giugno 2002)
Quando non esiste più la vera libertà nella società in cui si vive, il poeta altro strumento non
ha che la propria opera dove poter effondere quell’essenza di autonomia intellettuale unita a una
protesta poetica, tuttavia ineseguibile nella realtà dei fatti ma proprio per questo più alta, energica e
sognatrice. Cosa rimane in un paese “dittatorialmente” dominato dalla pubblicità televisiva e da un
partito-marketing se non sognare? «Il sogno è più della vita» (ISP, p. 67).
Da una lussuosa villa lombarda, dove più villeggiare si lavora, da valli, convalli, laghi, piane venne
giù una marea merdosa che inondò tutta l’Italia. La guidava un Cavaliere nero o azzurro, in arcione a una
miriade di televisori, dominò le piazze e si infilò in tutte le case degli italiani, quasi simultaneamente. Il
prodotto che vendeva e che molto era amato era il Potere in sé. (ISP, p. 148)
Ottieri compara a un’invasione di barbari la discesa in campo di “Sua Emittenza” sull’Italia
ancora intorpidita dopo le gozzoviglie post-tangentizie. Da quel famigerato Inconcepibile 1994 non
esisterà nella politica italiana una contrapposizione dialettica realmente politica tra i vari partiti
poiché, nella realtà dei fatti, questi si sono liquefatti. Crollate le due forze maggiori del parlamento
come la DC e il PCI, e mentre nostalgie e rimpianti si quietarono in vista degli auspicabili a
rieccoli, il polverone di energie da sinistra a destra cercò di riunirsi in un unico agglomerato che
potesse garantire l’equilibrio tra amici sulle poltrone di Camera e Senato. Il Partito Unico si è
formato, con leggerezza, grazie all’impegno dei solerti e sempiterni burattinai e burattini di regime
che fingendo di azzuffarsi quotidianamente tra le porte socchiuse di curiosi spettacoli televisivi,
hanno costruito un Palazzo ben fortificato anche con graziose merlature da dove a turno i dimoranti
urlano in modo sguaiato per non dire machiavellicamente nulla.
291
Essi si rimboccano le maniche, cacciano le mani nel ventre della terra e s’arrangiano direttamente
con le piccole unghie, gridando; quello che conta è il risultato. Noi badiamo ai fatti. Impeiscono di parlare,
costringendo a tenere sempre la bocca aperta, dove infilano ferri, pieni di odio da scoppiare. Astuzia volpina,
violenza lionesca. (ISP, p. 154)
Dunque le riflessioni di Ottieri investono l’intero arco costituzionale di cui il Presidente del
Consiglio occupa lo scranno più alto, ma per comprendere davvero gli sviluppi politici che hanno
puntellato questa realtà sfavorevole è necessario analizzare anche quella parte del Sistema che,
almeno su basi teoriche, avrebbe dovuto opporsi a Berlusconi divenendone in breve tempo un
volenteroso connivente e strenuo difensore del Potere acquisito: «Sto affrontando il problema del
Potere» (ISP, p. 60). Se la forza principale di Berlusconi consisteva in una supremazia mediatica
senza ostacoli, per quale motivo i governi di centrosinistra, durante i cinque anni di governo dal
1996 al 2000, non hanno mai approvato una legge sul conflitto d’interessi per limitare tale anomalia
italiana? Ottieri, che si autodefinisce un «picchiatore di sinistra» (PO, p. 53) , comprende che dietro
l’avanzata inarrestabile del «Cavaliere nero o azzurro» (ISP, p. 148) si staglia la scelleratezza dei
partiti di sinistra condannati biologicamente all’opposizione e dilaniati da querelles intestine atte
soltanto a polverizzare energie:
A sentir parlare di destra e sinistra, Pietro regolarmente si accendeva, si incazzava, tanto la sua mania
politica era esasperata, esasperante, entrava in ogni pietanza, non spezia, veleno. […] Il fronte rosso (ma
quale?) lo considera un alieno, però nel giusto. […] È il colmo! Essendo da lungo tempo di sinistra, Pietro ha
da lunghissimo tempo pensato il Concetto di sinistra, e tutti questi piccoli pensieri si raggruppavano in un
gomitolo duro contrario alla sinistra, per lo meno alla sua possibilità di essere partito di governo. Un amico
più anziano, psicoanalista e socialista alla vecchia maniera – il maestro ideale per lui – , gli aveva insegnato
che la sinistra ha un tale Complesso di Opposizione da tremare psicologicamente alla sola idea di divenire
Maggioranza. (ISP, pp. 85, 100, 111)
Per Ottieri la Storia è finita: «È oggi la più grande rivoluzione della storia. È morta la storia.
La nostra storia è il futuro. Il futuro del futuro» (ISP, p. 143). Da questi stravolgimenti tecnici, la
Storia può essere facilmente riscritta con un lapis di sangue sgorgato dalle numerose pugnalate
inferte alla schiena dello Stato. Riabilitare sembra la parola d’ordine o il diktat del Nuovo che
avanza; e chi meglio del «Satrapo» Craxi, l’uomo della provvidenza per Berlusconi nei momenti
più opportuni, può esser preso ad esempio dalla cattiva magistratura italiana che condanna gli
innocenti? «La riabilitazione di Craxi ci ha inferto il colpo mortale per mano della Restaurazione,
così esagerata, così “ineluttabile”. […] Bettino Craxi, grande statista de li mortacci loro» (ISP, pp.
126, 157).
È un vero e proprio Repubblicidio quello in atto, e i colpevoli si trovano a ogni latitudine
parlamentare, sociale, politica. Di chi è la colpa? Si chiedeva qualche anno prima Ottieri; ora la
risposta potrebbe apparire banale, retorica, inconcludente: tutti sono colpevoli, dall’elettore al
292
politico, dal Primo Ministro al Capo dello Stato, dal Nuovo che avanza ai partiti di sinistra, dallo
scrittore al telespettatore. Da qui il peggioramento, non più ironico del titolo, travolgente, immenso,
definito: l’Italia è morta.
Peggioramento della sua nazione, questo peggioramento del paese è tale da travolgere tutto. […]
L’Italia è una Repubblica sfondata da Berlusconi – come recita il primo articolo della nuova costituzione.
[…] Mentre lo Stato, e figuriamoci il senso dello stato, si squaglia come un bel gelato imponente, invendibile
(la cultura non è economica, quindi deve sparire a favore non dell’antiromanzo, bensì dell’anticultura), al
cosiddetto Presidente del Consiglio non resta che impiccarsi. […] «Il mio male è l’Italia». La frase lapidaria
non fu presa tanto sul serio, in tempi divenuti poco risorgimentali e molto scherzosi, quizzistici, pubblicitari.
[…] 1 dicembre 1999. Altissimi uccelli dall’ampia apertura alare volano alti su quel che rimane di una
Repubblica sconquassata dall’estremismo dei moderati. (ISP, pp. 52, 149, 152)
293
BIBLIOGRAFIA
AFFINATI Edoardo,
Ottiero Ottieri, uno scrittore nuovo, in «Nuovi Argomenti», 4, luglio-settembre 1995, pp.
113-119
AJELLO
Nello, Lo scrittore e il potere, Laterza, Bari 1974, p. 83
ALBINATI Edoardo,
Ottiero Ottieri, Vi amo, in «Nuovi Argomenti», aprile-giugno 1989
AMOROSO Giuseppe, Ottiero Ottieri, in La realtà e il sogno. Narratori italiani del Novecento, a cura di G.
Mariani e P. Petrucciani, Lucarini, Roma 1987, vol. II, pp. 471-482
BALDACCI Luigi,
Ottieri racconta i giorni di uno schizofrenico, in «Epoca», n. 1130, 28 maggio 1972, p. 148
BARBERI SQUAROTTI Giorgio, Ottieri, i libri non insegnano a vivere, in «La Stampa», 9 gennaio 1988
BERTO
Giuseppe, Il male oscuro (1964), Rizzoli, Milano 1966
BERTONE
Giorgio, Ottiero Ottieri, uno scrittore in fabbrica, in «Il Secolo XIX», 26 luglio 2002
BOCELLI Armando,
BOUVET
Ottieri e il romanzo, in «Il Mondo», 6 ottobre 1959
Michel, Dépersonnalisation et relation d’objet, P.U.F., Paris 1960
CAMON
Ferdinando, Il mestiere di scrittore, Garzanti, Milano 1973
CAMON
Ferdinando, Visita a un altro inferno: la clinica, in «Il Giorno», 19 giugno 1983
CAMPANELLA Tomaso,
CARIFI Roberto,
CATULLO
Metaphysica (1623), 3 voll., Zanichelli, Bologna 1967
Padre partito che porti nevrosi, in «L’Unità», 15 novembre 1993
Gaio Valerio, Le poesie, Einaudi, Torino 1997
CERETTA Omar, Dalla fabbrica al salotto mondano. L’effimero Olimpo dei semidei ottieriani, in «Studi
novecenteschi», 62-63, giugno-dicembre 2002, pp. 277-307
CORTI
Maria, Orgasmi d’amore e di noia, in «La Repubblica», 2 giugno 1983
D’ANNUNZIO
Gabriele, La sera fiesolana (1899), in Alcyone, in Poesie, Garzanti, Milano 1984
DE MICHELIS Cesare, I tre tempi della poesia di Ottieri, in Ottiero Ottieri, Tutte le poesie (Il pensiero
perverso, La corda corta, L’estinzione dello stato, Versi adolescenziali), Marsilio, Milano 1986
DE MONTICELLI Roberto, I venditori di Milano, in «Il Giorno», 22 marzo 1960
FENOGLIO
Beppe, Il partigiano Johnny (1968), Einaudi, Torino 1994
FERRATA Giansiro, Ottieri e le esperienze di fabbrica: è insuperabile la Linea gotica?, in «Rinascita», 22
dicembre 1962
FERRERO Ernesto,
La città sul divano dello psicoanalista, in «La Stampa», 4 maggio 1979
294
FERRETTI Gian Carlo,
FERRONI Giulio,
Il distacco dal male, in «L’Unità», 15 maggio 1978
Ottieri, l’ultimo assalto, in «L’Unità», 26 luglio 2002
FIACCARINI MARCHI Donatella, «Il Menabò» (1959-1967), presentazione di Italo Calvino, Edizioni
dell’Ateneo, Roma 1973
FOSCOLO
Niccolò Ugo, Dei Sepolcri (1807), Mondadori, Milano 1987
FOSCOLO
Niccolò Ugo, Prose politiche e letterarie dal 1811 al 1816, Le Monnier, Firenze 1933
GABEL Jean,
GACCIONE
La fausse conscience, Edition de minuit, Paris 1962
Angelo, Intervista ad Ottiero Ottieri, in «Milano metropoli», maggio 2000, anno IV, numero 3,
pag. 21
GALATERIA Daria,
Ottiero Ottieri, in Mestieri di scrittori, Sellerio, Palermo 2007
GIUDICI Giovanni,
Possono guardare la morte gli occhi della vita?, in «L’Unità», 21 maggio 1997
GRAMIGNA Giuliano,
La malattia diventa scrittura, in «Il Corriere della Sera», 6 maggio 1979
GRAMIGNA Giuliano,
Un caso clinico che fa tremare, in «Il Corriere della Sera», 23 giugno 2002
GUGLIELMI Angelo,
IADANZA
Ottieri, genio nello scacco, in «L’Unità», 20 luglio 2001
Giuseppe, L’esperienza meridionalistica di Ottieri, prefazione di Geno Pampaloni, Bulzoni, Roma
1976
LEOPARDI Giacomo,
Poesie e prose, 2 voll., Meridiani Mondadori, Milano 1988
Raffaele, Ottieri, vicissitudini della vita e delle forme, in Exit Novecento, Gaffi, Roma 2007, pp.
MANICA
213-218
MANZONI Alessandro,
MARABINI Claudio,
Il cinque maggio (1848), in Tutte le opere, Giunti Barbera, Firenze 1967
Ottieri, la scrittura tra industria e nevrosi, in «Il Giorno», 3 marzo 2004
MAURI Silvana, Ritratto di una scrittrice involontaria, Nottetempo Edizioni, Roma 2006
MAURO
Walter, Un documento di vita italiana, in «Il Paese», 24 ottobre 1957
MILANO
Paolo, L’autobiografia e la cronaca, in «L’Espresso», 22 dicembre 1962
MILANO
Paolo, Hilarotragoedia e romanzo filmico, in «L’Espresso», 12 luglio 1964
MONTANELLI Indro,
MORAVIA
Storia d’Italia (1993-1997), RCS Quotidiani, Milano 2004
Alberto, La noia (1960), Bompiani, Milano 2007
Marino, La domenica della pioggerella, da Poesie scritte con il lapis (1910), in Crepuscolari,
Newton Compton, Roma 1995
MORETTI
MORETTI Marino, Cesena, da Il giardino dei frutti (1915), in Moretti in verso e in prosa, Meridiani
Mondadori, Milano 1991
295
MUNCH
Edvard, ne I classici dell’arte – Il Novecento, RCS Quotidiani, Rizzoli-Skira, Milano 2004
NESI Cristina, L’utopia della fabbrica: Ottieri interprete del sogno industriale, in «Griseldaonline», n. IX
2009-2010. http://www.griseldaonline.it/percorsi/verita-e-immaginazione/nesi.htm
ONOFRI Massimo,
Ottiero all’assalto, in «Diario della Settimana», 20-26 febbraio 2003
OTTIERI Ottiero,
Cery, Guanda, Parma 1999
OTTIERI Ottiero,
Contessa, Bompiani, Milano 1976
OTTIERI Ottiero,
Cronache dell’al di qua, a cura di Maria Pace Ottieri, Avagliano, Cava de’ Tirreni 2005
OTTIERI Ottiero,
De morte, Guanda, Parma 1997
OTTIERI Ottiero,
Di chi è la colpa, Bompiani, Milano 1979
OTTIERI Ottiero,
Donnarumma all’assalto (1959), Garzanti, Milano 2004
OTTIERI Ottiero,
I divini mondani (1968), Guanda, Parma 2006
OTTIERI Ottiero,
Il campo di concentrazione, Bompiani, Milano 1972
OTTIERI Ottiero,
Il diario del seduttore passivo, Giunti, Firenze 1995
OTTIERI Ottiero,
Il divertimento, Bompiani, Milano 1984
OTTIERI Ottiero,
Il palazzo e il pazzo, Garzanti, Milano 1993
OTTIERI Ottiero,
Il pensiero perverso (1971), in Tutte le poesie, Marsilio, Milano 1986
OTTIERI Ottiero,
Il poema osceno, Longanesi, Milano 1996
OTTIERI Ottiero,
I venditori di Milano, Einaudi, Torino 1960
OTTIERI Ottiero,
La corda corta (1978), in Tutte le poesie, Marsilio, Milano 1986
OTTIERI Ottiero,
La linea gotica (1963), Guanda, Parma 2004
OTTIERI Ottiero,
La psicoterapeuta bellissima – Le guardie del corpo, Guanda, Parma 1994
OTTIERI Ottiero,
La questione meridionale, Edizioni della battaglia, Palermo 1992
OTTIERI Ottiero, Le irrealtà quotidiane, a cura di Maria Ida Gaeta, Emanuela Minnai, Maria Pace Ottieri,
Guanda, Parma 2004
OTTIERI Ottiero,
L’impagliatore di sedie, Bompiani, Milano 1964
OTTIERI Ottiero,
L’infermiera di Pisa, Garzanti, Milano 1991
OTTIERI Ottiero,
L’irrealtà quotidiana (1966), Guanda, Parma 2004
OTTIERI
Ottiero, Memorie dell’incoscienza (1954), Bompiani, Milano 196
OTTIERI
Ottiero, Opere scelte, Meridiani Mondadori, Milano 2009
296
OTTIERI Ottiero,
Storia del PSI nel centenario della nascita – Il padre, Guanda, Parma 1993
OTTIERI Ottiero,
Tempi stretti, Einaudi, Torino 1957
OTTIERI Ottiero,
Una irata sensazione di peggioramento, Guanda, Parma 2002
OTTIERI Ottiero,
Una tragedia milanese, Guanda, Parma 1998
OTTIERI Ottiero,
Vi amo, Einaudi, Torino 1988
PAMPALONI Geno,
Il laico Ottieri, in «Il Corriere della Sera», 2 marzo 2002
PAMPALONI Geno,
L’irrealtà quotidiana, in «Il Resto del Carlino», 19 luglio 1966
PAMPALONI Geno,
Una medaglia al malore, in «Il Giornale», 17 novembre 1991
PARINI Giuseppe,
La caduta (1775), in Il giorno - le odi, BUR, Milano 1978
PASOLINI Pier
Paolo, La nuova gioventù: poesie friulane, 1941-1974, Einaudi, Torino 1975
PASOLINI Pier
Paolo, Lettere 1940-1954, Einaudi, Torino 1986
PASOLINI Pier
Paolo, Satura, Il pensiero perverso, la beltà, in «Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1971
PAVESE
Cesare, Il mestiere di vivere. Diario (1935-1950) (1952), Einaudi, Torino 2008
PEDULLÀ
Walter, Il socialismo senz’anima val bene una satira, in «Il Messaggero», 6 marzo 1994
PEDULLÀ
Walter, Ottiero Ottieri, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di N. Borsellino e W.
PERRELLA Silvio,
La vita è un ossimoro, in «L’Indice», Giugno 1996
PERRELLA Silvio,
Quella domanda senza risposta, in «Il Corriere del Mezzogiorno», 3 marzo 1999
Nicola, La depersonalizzazione, in «Rivista di psicoanalisi», gennaio-aprile 1960, Editrice
Universitaria, Udine 1960
PERROTTI
PETRARCA Francesco,
Il canzoniere (1375), Feltrinelli, Milano 1998
PETRONIO Giuseppe, Ottiero Ottieri, in Dizionario enciclopedico della letteratura italiana, Laterza, BariRoma 1967, p. 202
PLACIDO
Beniamino, Ottiero Ottieri fra gli operai meridionali, in «La Repubblica», 4 aprile 2004
RABONI Giovanni,
Interiors di Ottieri, in «La Stampa - Tuttolibri», 21 aprile 1979
Giovanni, Ottiero Ottieri, in Storia della letteratura contemporanea (1940-1965), diretta da G.
Manacorda, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 8876-7
RABONI
RICŒUR
Paul, Aliénation, in Encycloepeia Universalis, Paris 1968
SALINARI Carlo,
Donnarumma all’assalto, in «Il Contemporaneo», luglio 1959
SALINARI Carlo,
L’industria divorzia dalla letteratura, in «Vie Nuove», 6 agosto 1964
297
SALINARI Carlo, Ottieri e il romanzo industriale, in Preludio e fine del realismo in Italia, Morano, Napoli
1967, pp. 347-353
SARTRE
Jean-Paul, L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943
SECHEHAYE
Margherite, Diario di una schizofrenica (1955), Giunti, Firenze 2006
Enzo, La malattia come libertà. L’ultimo romanzo di Ottiero Ottieri, in «La Repubblica-Cultura»,
25 agosto 1999
SICILIANO
SOLDATI Mario,
Divini mondani e giovin signore, in «Il Giorno», 23 ottobre 1968
SPAGNOLETTI Giacinto,
TIAN
Memorie dell’incoscienza, in «La Gazzetta di Parma», 2 ottobre 1954
Renzo, Un esordio, in «Il Messaggero», 21 maggio 1954
TOMAIUOLO
Saverio, Ottiero Ottieri: il poeta osceno, Liguori, Napoli 1998
TOMASI DI PALMA Alessandra, La spersonalizzazione, in «Rivista di psicoanalisi» gennaio-aprile 1960,
Editrice Universitaria, Udine 1960
VERGINE
Lea, Gli ultimi eccentrici, Rizzoli, Milano 1990, pp. 231-237
VIRDIA Ferdinando,
Donnarumma all’assalto, in «La Fiera Letteraria», 26 luglio 1959
WEIL Simone, La condizione operaia (1951), SE, Milano 1994
ZANZOTTO Andrea,
Ottieri all’assalto della psiche, in «Il Corriere della Sera», 24 marzo 1995
ZANZOTTO Andrea,
Squillante esordio in versi. Il pensiero perverso, in «Avanti», 6 giugno 1971
Serena e CASSANO Giovanni, E liberaci dal male oscuro: Che cos’è la depressione e come se ne esce
(1993), Longanesi, Milano 2006, pp. 424-430
ZOLI
298
INDICE
2
Avvertenza
4
Introduzione
CAPITOLO PRIMO. L’INDUSTRIA
13
21
41
57
I. 1
I. 2
I. 3
I. 4
La linea gotica
Tempi stretti
Donnarumma all’assalto
I venditori di Milano
CAPITOLO SECONDO. LA CLINICA
61
64
97
110
135
165
II. 1
II. 2
II. 3
II. 4
II. 5
II. 6
209
II. 7
L’impagliatore di sedie
L’irrealtà quotidiana
Il pensiero perverso
Il campo di concentrazione
Contessa
Quattro poemetti: L’infermiera di Pisa, Il palazzo e il pazzo, Le guardie del corpo, Il diario
del seduttore passivo
Cery
CAPITOLO TERZO. LA POLITICA
227
261
270
285
III. 1
III. 2
III. 3
III. 4
Memorie dell’incoscienza
Storia del PSI nel centenario della nascita
Il poema osceno
Una irata sensazione di peggioramento
294
Bibliografia
299
Indice
299