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Fabrizio Di Maio OTTIERO OTTIERI L’INDUSTRIA, LA CLINICA, LA POLITICA AVVERTENZA Per evitare un numero consistente di note a piè di pagina, le opere di Ottieri si citeranno all’interno del testo tra parentesi, con delle sigle e i corrispondenti numeri di pagina, che rimandano alle seguenti edizioni utilizzate (dopo il titolo viene indicato l’anno della prima pubblicazione): OTTIERI Ottiero, Memorie dell’incoscienza (1954), Bompiani, Milano 1967. (MI) OTTIERI Ottiero, Tempi stretti, Einaudi, Torino 1957. (TS) OTTIERI Ottiero, Donnarumma all’assalto (1959), Garzanti, Milano 2004. (DON) OTTIERI Ottiero, I venditori di Milano, Einaudi, Torino 1960. (VM) OTTIERI Ottiero, La linea gotica (1963), Guanda, Parma 2004. (LG) OTTIERI Ottiero, L’impagliatore di sedie, Bompiani, Milano 1964. (IMP) OTTIERI Ottiero, L’irrealtà quotidiana (1966), Guanda, Parma 2004. (IQ) OTTIERI Ottiero, I divini mondani (1968), Guanda, Parma 2006. (DM) OTTIERI Ottiero, Il pensiero perverso (1971), in Tutte le poesie, Marsilio, Milano 1986. (PP) OTTIERI Ottiero, Il campo di concentrazione, Bompiani, Milano 1972. (CC) OTTIERI Ottiero, Contessa, Bompiani, Milano 1976. (CON) OTTIERI Ottiero, La corda corta (1978), in Tutte le poesie, Marsilio, Milano 1986. (COR) OTTIERI Ottiero, Di chi è la colpa, Bompiani, Milano 1979. (COL) OTTIERI Ottiero, Il divertimento, Bompiani, Milano 1984. (DIV) OTTIERI Ottiero, Vi amo, Einaudi, Torino 1988. (AMO) OTTIERI Ottiero, L’infermiera di Pisa, Garzanti, Milano 1991. (IP) OTTIERI Ottiero, La questione meridionale, Edizioni della battaglia, Palermo 1992. (QM) OTTIERI Ottiero, Il palazzo e il pazzo, Garzanti, Milano 1993. (PAL) OTTIERI Ottiero, Storia del PSI nel centenario della nascita – Il padre, Guanda, Parma 1993. (PSI – PAD) OTTIERI Ottiero, La psicoterapeuta bellissima – Le guardie del corpo, Guanda, Parma 1994. (LPB – GC) OTTIERI Ottiero, Il diario del seduttore passivo, Giunti, Firenze 1995. (DSP) OTTIERI Ottiero, Il poema osceno, Longanesi, Milano 1996. (PO) OTTIERI Ottiero, De morte, Guanda, Parma 1997. (MOR) OTTIERI Ottiero, Una tragedia milanese, Guanda, Parma 1998. (TM) 2 OTTIERI Ottiero, Cery, Guanda, Parma 1999. (CERY) OTTIERI Ottiero, Una irata sensazione di peggioramento, Guanda, Parma 2002. (ISP) Ottiero, Le irrealtà quotidiane, a cura di Maria Ida Gaeta, Emanuela Minnai, Maria Pace Ottieri, Guanda, Parma 2004. [Gli atti del convegno svoltosi a Roma presso la Casa delle letterature il 2 e 3 marzo 2003 sono disponibili sul sito http://www.ottieroottieri.it/convegno.pdf. Nel testo, le citazioni degli atti saranno indicate tra parentesi e riferite al suddetto Convegno] OTTIERI OTTIERI Ottiero, Cronache dell’al di qua, a cura di Maria Pace Ottieri, Avagliano, Cava de’ Tirreni 2005. (CRO) Per le citazioni di quei testi che compaiono con frequenza ci si limiterà a menzionarle all’interno del testo in parentesi tonda con il titolo dell’opera e la pagina di rimando, facendo sempre riferimento all’edizione citata nella prima nota. Per gli studi, analisi, approfondimenti e statistiche nell’ambito tecnico-scientifico, psicoanalitico e psicologico, in rapporto alle malattie mentali, i testi principali di riferimento sono i seguenti: GALIMBERTI Umberto, Il dizionario di psicologia (1992), UTET, Torino 2006. DARLEY John, GLUCKSBERG Sam, KINCHLA Ronald (a cura di), Psicologia (1991), 2 voll., Il Mulino, Bologna 1993. DSM-III-R, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano 1988. ZOLI Serena, CASSANO Giovanni Battista, E liberaci dal male oscuro. Che cos’è la depressione e come se ne esce (1993), Longanesi, Milano 2006. L’epistolario, quasi completamente inedito di Ottieri, cui si fa riferimento nel testo, è raccolto, grazie all’accurato lavoro di reperimento eseguito dalla moglie Silvana Mauri e della figlia Maria Pace, presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia in ventisei cartelle, per due faldoni complessivi, dove sono suddivise in ordine alfabetico le lettere scritte e ricevute dallo scrittore dagli anni Quaranta fino al 2002. 3 INTRODUZIONE Ottiero Ottieri è stato un romanziere, saggista, poeta, sceneggiatore, drammaturgo, sociologo che attraverso un ampio corpus di opere pubblicate tra il 1954 e il 2002 ha espresso il suo eclettico pensiero e molteplici interessi culturali in tre aree tematiche, l’industria, la clinica e la politica, scandagliando in profondità uno stato di malessere privato e pubblico inscindibile tra l’uomo e la società, con un impegno intellettuale peculiare nel panorama della letteratura italiana del secondo Novecento. Ritenuto il pioniere della letteratura industriale con la tetralogia formata da Tempi stretti (1957), Donnarumma all’assalto (1959), I venditori di Milano (1960) e La linea gotica (1963), Ottieri fu il primo ad affrontare, dal punto di vista letterario, le problematiche concernenti la condizione degli operai italiani durante il miracolo economico sviluppatosi nel dopoguerra. Ottieri si era trasferito a Milano nel ’48 volendo farsi assumere in una fabbrica per partecipare attivamente, dopo aver studiato la condizione operaia sui libri di Marx e Simone Weil, a un processo storico determinante per l’Italia, quello dell’industrializzazione. Dalle esperienze dapprima come giornalista per l’Anonima Periodici Internazionali, che lo portano nel ’51 a dirigere la rivista mensile di divulgazione scientifica «La Scienza Illustrata», fino all’assunzione con l’incarico di selezionatore del personale nelle fabbriche Olivetti di Ivrea nel ’53 e di Pozzuoli due anni dopo, Ottieri ricava materia sufficiente per redigere romanzi ambientati nel mondo industriale. Ottieri ha aperto in questo modo la breccia sul rapporto tra letteratura e industria che si svilupperà negli anni Sessanta attraverso i lavori di Volponi, Parise, Bianciardi e Mastronardi, rimanendo per molto tempo imprigionato, suo malgrado, nell’etichetta di scrittore industriale per eccellenza, quando il seguito della sua produzione dimostrerà invece un percorso differente. E infatti a metà degli anni Sessanta, Ottieri, avvertendo la conclusione dell’esperienza industriale, cercò una nuova materia letteraria che potesse esplorare «gli spazi cosmici soggettivi che stanno nell’uomo e nella donna fra la disperazione e la ragione» (IS, p. 15), per indagare sia la malattia dell’anima che la ricorrenza di inquietudini comuni tra gli individui. Questa “speleologia” nei meandri del Male fu resa possibile grazie ai vari disturbi psichici che caratterizzarono la sua vita e considerati come l’essenza preminente della sua letteratura. È vero che dall’Irrealtà quotidiana (1966) all’ultimo romanzo Una irata sensazione di peggioramento (2002) le malattie mentali si presentano nelle sue opere in molteplici aspetti e con sintomi differenti quali la depressione, 4 sentimento d’irrealtà, depersonalizzazione, schizofrenia, alcolismo, angoscia, nausea, pazzia, allucinazioni, alienazione, diventando spesso le co-protagoniste accanto al personaggio autobiografico rinchiuso in un manicomio. Eppure erroneamente si è dato maggior risalto al caso clinico di un uomo che esprime la propria sofferenza mentale attraverso la scrittura, rispetto al caso letterario di un autore che per la sua originalità, complessità e unicità, rappresenta un’inusuale testimonianza letteraria nel secondo Novecento: «Scusi, posso essere un caso letterario, / invece di un caso clinico?» (PAL, p. 27). Nelle opere di Ottieri la malattia mentale parla, vive, soffre, agisce mentre lo scrittore prova a distenderla in prosa per spiegarla e farne risaltare la sofferenza dando voce al personale malessere psichico che si trasforma in gioco, invenzione, manipolazione infinita, contatto con persone e cose attraverso libri-pastiche, romanzi, poemi, poemetti, poesie, pseudo-sceneggiature, commedie teatrali. Ottieri riesce, per mezzo di numerosi alter ego, a somatizzare i vari disturbi mentali ponendosi come personaggio che si osserva e si racconta attraverso un’auto-vivisezione analitica di se stesso: «Scrivo unicamente per sopravvivere, scrivo per scrivere, per gettare un ponticello sopra l’abisso, per essere nella realtà e nello stesso tempo per estrarmi dalla realtà» (CC, p. 21). Per Ottieri la scrittura è una ragione di vita, o meglio l’unica vita possibile, un’autoanalisi riflessiva che scava nelle profondità della malattia, esponendolo di continuo alla stessa, per perlustrarla, scandagliarla fino a scioglierla in parole attraverso una debordante volontà espressiva che lo rese già nell’adolescenza un grafomane. Ottieri ha bisogno di scrivere per restare in vita e contemporaneamente necessita della malattia per capire il proprio io. L’«infezione psichica» (IQ, p. 178) è per lui l’unica essenza vitale senza la quale non sarebbe vissuto tanto a lungo; mentre le cure, i medicinali, gli sciroppi, le terapie, le lotte analitiche, l’alcool, si dimostrano nel tempo strumenti validi per condurre quest’introspezione nelle profondità della sua mente lucida e macerata. La depressione, il “cancro dell’anima”, non debilita l’ispirazione, anzi riesce a generare una scrittura che zampilla dalle zone inesplorate dell’animo umano e che solo una speleologia costante e senza remore può far risalire in superficie, sulla pagina, poiché lo scrivere non è un atto successivo allo studio del Male, bensì un procedimento simultaneo: «Il problema del vivere e dello scrivere ha pesato su tutta la mia vita. Non l’ho mai risolto, o scrivendo troppo o vivendo troppo (senza vivere)» (CC, p. 14). La letteratura di Ottieri, che sembra all’apparenza ripetitiva quando affronta il tema della malattia mentale, riesce a configurare in forme diverse la materia narrata grazie a un’analisi incessante sul Male di vivere che gli consente di proiettare tutto se stesso, uomo e scrittore, anima e corpo, verso nuovi orizzonti da esplorare: «Quanto più il suo Io si disgregava, tanto più egli esaltava la vita. Nel massimo della autodistruzione, egli esaltava e sospingeva, spingeva alla vita, pedagogicamente» (ISP, p. 56). In 5 questo progetto, scrivere del Male che è la sua vita, Ottieri è favorito dalla conformazione fisica del Male stesso, o meglio dal luogo del corpo in cui esso alberga, prospera, e si rigenera: il cervello. «Gli uomini hanno un cervello, organo fisico come tutti gli altri organi, che tuttavia può pensare anche alla metafisica» (ISP, p. 20). A questo si aggiunga che alcuni aditivi come il vino, la birra e gli alcolici a 360 gradi o anche le varie pasticche o sciroppi miracolosi, possono influenzare materialmente la scrittura, dilatando il cerchio maligno della creazione letteraria: chi è costui che scrive? Un malato, un depresso, un alcolizzato, un poeta, un tossicodipendente, un autore “minore”? La situazione, già ingarbugliata, si complica ulteriormente se quest’uomo è uno scrittore che, oltre ad analizzare il proprio Male, si fa portavoce nelle sue opere di un malessere pubblico, sociale e storico, tentando di afferrare con spasmodica voracità il Male del mondo: «Sono un’antenna scorticata / che riceve da tutto il mondo» (DSP, p. 87). Di clinica in clinica si svolgono le avventure dei personaggi malati, rinchiusi in una «prigione» (CC, p. 106), condannati all’«inferno» (CC, p. 15) o anche annullati in un “campo di concentrazione”. La clinica si presenta come un microcosmo con i suoi tempi spesso morti, le sue regole e le sue illusioni; dunque un locus poco amoenus in cui Ottieri fa riflettere poeticamente le proprie vicende autobiografiche come nel Campo di concentrazione, Contessa, La corda corta, I due amori, L’infermiera di Pisa, Cery, Una irata sensazione di peggioramento. Nell’analizzare il proprio Male, Ottieri rivolge una particolare attenzione alla psicoanalisi che accompagna il suo percorso letterario dall’incoscienza iniziale delle Memorie fino all’Irata sensazione, in cui si narra della vita quotidiana nelle cliniche tra depressi, alcolizzati e schizofrenici che s’interrogano intorno alla malattia, conoscenza, amore, morte, realtà, irrealtà. Così si descrive l’irrealtà univocamente, come una difesa contro il dovere maturo di rassegnarsi al finito; e poi come una rinuncia all’infinito, all’infinità possibilità, da parte di un uomo che si fa adulto e impara faticosamente l’esame di realtà. Senza ancora volerlo siamo scivolati in una interpretazione di tipo psicanalitico della irrealtà. (IQ, p. 28) La psicoanalisi, «il lavoro di analisi è un buco che si fa nel profondo, buco che viene continuamente ricoperto da detriti, che sono i sintomi» (CC, p. 18), è una componente essenziale della poetica di Ottieri il quale, fin dalla giovinezza, s’interessa proprio di psicanalisi intesa come strumento per analizzare gli spazi interni, soggettivi e ancora inesplorati dell’animo umano: «Il freudismo intende spiegare anche la scelta di se stesso. Analizzerà il mio arrivo alla psicoanalisi nel lontano 1940, tramite un amico. Quale amico? Perché le sue parole mi impressionarono? La psicoanalisi rincorre il suo a priori» (IQ, p. 183). «Ho cominciato presto a leggere Freud e ho avuto i primi contatti con un analista nel ’46, appena finita la guerra. Sono stato fra i primi in Italia» (CC, p. 91). Musatti, Zapparoli e Cassano sono alcuni psicoanalisti che lo hanno avuto in cura per molti 6 anni e con i quali egli ha lottato per contendere il primato dello scavo profondo nel suo animo. Gli studi di psicoanalisi e l’autodiagnosi hanno infatti condotto Ottieri a trasformarsi nel medico di se stesso, combattendo strenuamente con l’analista curante per contendergli il primato della terapia. Mediante l’esperienza del malessere psichico, partendo dalle proprie idiosincrasie mentre parla di sé, Ottieri scruta in modo viscerale il mondo esterno per comprendere il volto sfuggente della realtà; e per questo l’indagine minuziosa della sua sofferenza non gli ha mai fatto trascurare le situazioni storiche e culturali contemporanee. La malattia, intesa come uno strumento di conoscenza della realtà esterna e di se stessi, è dunque per Ottieri anche un passaggio obbligato per comprendere l’esistente insieme al Male che corrode la società. Dunque, oltre all’industria e alla clinica, Ottieri rivolge grande attenzione al tema politico; in ogni sua opera la cronaca è sempre attuale con una dettagliata trattazione della storia italiana dal fascismo delle Memorie dell’incoscienza (1954) alle elezioni politiche del 2001 dell’Irata sensazione di peggioramento (2002). Si potrebbe, infatti, ricostruire la storia italiana del Ventesimo secolo attraverso i suoi testi poiché essi si presentano come un documento letterario degli eventi accaduti in Italia dagli anni Quaranta al Duemila passando per il fascismo adolescenziale, la seconda guerra mondiale, la Resistenza, la ricostruzione, il boom economico, la rivolta contro i Padri, l’esaltazione sociomarxista, la delusione storica, l’illusione del socialismo, il Sessantotto, la corruzione della politica italiana, Tangentopoli, il crollo del sistema sovietico, l’ascesa di Berlusconi, la nascita della Seconda Repubblica. Con uno sguardo fortemente critico, lo scrittore osserva nel tempo i cambiamenti della società italiana, ne avverte le storture e non lesina attacchi, a volte anche feroci attraverso una scrittura dura, limpida, eccessiva e sorprendente, contro chi si è reso partecipe, riuscendovi nel corso dei decenni, del tracollo della politica italiana. Dopo l’incoscienza giovanile legata al fascismo, Ottieri diventa un «picchiatore di sinistra» (PO, p. 53), s’iscrive al PSI ma senza rinnovare la tessera per un bisogno di piena autonomia, mentre per alcuni anni collabora all’«Avanti!». E proprio al PSI Ottieri dedicherà la sua autobiografia politica con il poemetto Storia del PSI nel centenario della sua nascita, «aveva sempre ritenuto il politico tema di poesia» (ISP, p. 21), in cui ripercorre «la marcia d’avvicinamento alla condizione operaia di quell’operaista fanatico che era un piccolo agrario» (PSI, p. 12). Ottieri si lega idealmente al PSI dagli anni Quaranta fino al collasso del partito dopo Tangentopoli che equivalse a una crisi d’identità personale. Ottieri si ribella alla corruzione congenita del PSI e in primo piano pone il «Satrapo» Craxi, fautore in primis di una politica ottimista dedita alla pantagruelica abbuffata della derelitta amministrazione pubblica e in seguito sostenitore della scalata all’empireo politico dell’homo novus Berlusconi. Alla Storia del PSI segue un breve poemetto Il Padre sul complesso rapporto avuto col genitore, agrario e fascista con cui instaura una 7 battaglia incessante fin dall’adolescenza. La politica s’intreccia per Ottieri con l’inconscio, il sociale con l’individuale, il plus-dolore con il plus-valore, Freud con Marx: «Il filo che lega la psicoanalisi e il marxismo si ritrova sempre: la presa di coscienza, l’idea limite di libertà come superamento concreto (cioè economico nel marxismo ed emozionale nella psicologia analitica) della necessità» (LG, p. 34). La letteratura proposta da Ottieri, con i suoi personaggi allucinati in condizioni di vita dolorose ai margini della società, suscita riflessioni profonde che rilevano la straordinaria attualità delle stesse, anche quelle più lontane nel tempo. Tutto in Ottieri è immerso nel periodo storico affrontato anche quando in apparenza un suo romanzo sembra una trasposizione autobiografica del vissuto di chi non scrive con il mestiere ma con la vita: «La contemporaneità schiaccia come un blocco di piombo la narrazione o fiction, la cronaca si impone su qualsiasi storia. Il romanzo – posto che vi sia – viene frantumato e scavalcato dagli Annali. L’io narrante diviene un diarista di ciò che accade» (ISP, p. 53). La forma diaristica esprime la pulsione primaria degli eventi nel momento in cui accadono nella stretta quotidianità, catturando con le date e sviscerando giorno dopo giorno le situazioni a volte insostenibili della sua vita. Donnarumma all’assalto, La linea gotica, Il campo di concentrazione, Il diario del seduttore passivo sono in diverse forme dei veri e propri diari. L’autobiografia, non solo attraverso i diari, è evidente quando si constata che dai ricordi giovanili derivano Le memorie dell’incoscienza, dall’esperienza di Pozzuoli Donnarumma all’assalto, dal soggiorno a San Rossore L’infermiera di Pisa, dal ricovero nella Klinik am Zürichberg Il campo di concentrazione, dalla stagione mondana I Divini mondani, dai mesi trascorsi alle Betulle La corda corta, dalla “carcerazione domiciliare” Le guardie del corpo, dalla clausura di Via San Primo Il Poema osceno, dal ricovero all’ospedale di Losanna Cery, dalla terapia seguita a Padova con Gallimberti Una irata sensazione di peggioramento. La mia letteratura nasce sempre da scelte di vita, mai di letteratura. Forse per questo è così autobiografica e a tendenza figurativa. […] Troppa ironia. Ma siamo al tramonto dell’ironia. La poetica io non ce l’ho; è forse quella poetica desertica e clinica, calcificata, che mi ha sempre tenuto lontano dalle belle lettere? Le mie lettere non sono belle. (PO, pp. 61, 69) C’è autobiografia, senza dubbio, ma forse sarebbe meglio definirla antropologia, poiché Ottieri parla di sé attraverso la costruzione di numerosi alter ego, come Vittorio Lucioli nell’Irrealtà quotidiana, che vengono riconosciuti puntualmente dal lettore come dei simboli di cinquant’anni di storia d’Italia. L’istinto autobiografico, il valore salvifico della scrittura e le riflessioni sulla vita sono i motivi che puntellano la sua bio-letteratura: 8 L’attività che faccio adesso coinvolge talmente la vocazione di scrittore, quasi da sostituirla. Penso a volte di scrivere usando come carta e penna questo imparare, osservare, fare. Sono molto vicino a quelli che hanno smesso di scrivere per un agire rivoluzionario, per una modificazione diretta della realtà. E molto lontano. Basta un attimo di pausa, di allontanamento, perché subito l’esperienza si raccolga idealmente in un libro. (LG, p. 216) Partendo da tre tematiche eterogenee come l’industria, la clinica e la politica, collegate tra loro da un filo rosso di lucida coerenza individuabile nell’alienazione, fenomeno che Ottieri fa convergere in ambito letterario, lo scrittore riesce per osmosi a unire le differenti direttrici offrendo uno stimolo continuo durante la lettura. Ottieri, infatti, intreccia fittamente numerosi motivi che, nella continuità tra un libro e l’altro, formano il carattere essenziale della sua poetica, ovvero la ripresa, lo sviluppo e la rielaborazione di soggetti sempre aperti che non sembrano concludersi mai. Ottieri organizza in questo modo una “sinfonia” che si modifica nel corso degli anni e sempre pronta ad assimilare nuovi impulsi dalla letteratura e dalla società. La “sinfonia” orchestrata da Ottieri, infatti, si apre di continuo a nuove sollecitazioni trovando sulla pagina terreno fertile nel riadattamento di motivi affrontati nelle opere precedenti che si estendono in quelle successive. Una “sinfonia” aperta che non conosce conclusioni definitive e in cui gli elementi passano al libro successivo «come una sorta di vaso comunicante» (Paolo Mauri, in Convegno, p. 63) o come «un fiume ad andamento carsico» (Raffaele Manica, ivi , p. 54). Ma se è vero che questa “sinfonia” si sviluppa e si modifica nel tempo grazie alla sovrapposizione cronologica delle opere, è necessario riflettere sulla progettualità alla base del pensiero di Ottieri che trapela dall’epistolario giovanile, soprattutto nelle lettere dal carattere già romanzesco scritte a vent’anni e inviate, tra il ’43 e il ’50, a Vanni, Tullia, Dora, Francesca, Fabrizia, dove emergono la vocazione, la volontà, il desiderio, la necessità di essere uno scrittore che, a quel tempo, non aveva ancora pubblicato nulla. Eppure proprio in quelle lettere confessionali Ottieri dimostra sorprendenti qualità narrative, mentre dichiara in modo esplicito quali sarebbero state le tematiche delle sue opere future, l’industria, la malattia, la società e la politica, dimostrando dall’inizio una lucida coerenza che nel corso dei cinquant’anni di produzione, dal 1954 al 2002, si rivelerà implacabile nel condurre a termine quel progetto letterario scaturito nella prima giovinezza. La vocazione letteraria nel giovane Ottieri si congiunge con l’arte, lo studio, l’applicazione a volte anche ossessiva sui libri che lo conducono ad aggredire la letteratura con amore, ferocia, passione, devozione. La stessa scrittura di Ottieri, di conseguenza, fin dalle prime prove tende a essere aperta agli influssi di alcuni autori che guidano la sua formazione intellettuale e che lo stesso Ottieri, attraverso riprese, parodie e rifacimenti, richiamerà nei suoi scritti. Questo procedimento viene attuato anche nella sua maturità artistica nei confronti di numerosi scrittori, poeti, intellettuali, filosofi contemporanei e non, italiani, stranieri e classici, con i quali egli instaura un costruttivo e 9 costante dialogo culturale. Dal punto di vista letterario, intorno a Ottieri si avverte una certa densità di autori che accompagnano il suo viaggio come Foscolo, Leopardi, Gadda, Moravia, Alvaro, Piovene, Parise, Volponi, Bianciardi, Fortini, Gramsci, Vittorini, Calvino, Pavese, Manzoni, Sartre, Kafka, Catullo, Virgilio, Terenzio, Butor, Byron. Un’attenzione particolare Ottieri la rivolge a due poeti che egli considera suoi maestri e che influenzano la sua scrittura: Dante e Pasolini, soprattutto per lo sdegno morale e l’autonomia intellettuale con cui affrontarono le questioni sociali e politiche relative all’Italia. Altri scrittori non specificamente letterari, tuttavia determinanti per alcune scelte culturali, dalla sociologia alla psicoanalisi alla sociologia, sono Cartesio, Freud, Jung, Marx, Weil, Rupp, Perrotti, Bouvet. Ottieri tenta, dentro le sue opere, d’instaurare con loro un dialogo costruttivo, ci parla, si confronta, si sente stimolato dalle riprese che lui stesso propone procedendo poi in una via autonoma, così che la sua scrittura si delinea assai complessa per i numerosi riferimenti culturali che non possono essere trascurati. L’opera di Ottieri, complessa e sofferta, rappresenta un caso particolare nella letteratura del secondo Novecento perché la sua presenza si fa sentire in modo originale, sorprendente, a volte provocatorio e soprattutto mai banale, dove «scrivere è blobbare, acchiappare tutto con ironia, l’altra faccia della malinconia» (CRO, p. 188). Ottieri coglie nel profondo i sentimenti di malessere, le mode, i tic, le manie, gli slogans dell’attualità riversandoli sulla pagina con abilità, grazie a un intelligente dosaggio di sarcasmo e passione. Racconta storie non semplici come l’alienazione nella fabbrica e in clinica, la mercificazione dei rapporti umani, la sofferenza nella malattia, dando voce a ciò che spesso s’ignora o si evita semplicemente di dire. Riesce nel progetto spaziando in ambiti diversi tra loro anche con un’impensabile leggerezza che gli permette di sdrammatizzare le situazioni più penose, fino a sorridere a volte delle idiosincrasie dei malati, degli operai, dei padroni perché Ottieri va oltre la descrizione del dramma lasciando aperti spiragli a un’ironia che infrange la distanza tra l’opera e il lettore. Ottieri, di fatto, non si è mai atteggiato a “Primo Ministro” della sofferenza, affrontando la malattia con un autoironico spirito beffardo fino a liquidarne ogni patetismo per ricavare dal Male avvolgente, infinito, irreale, la propria vitalità letteraria: «Forse egli era uno degli inventori della ironia, ma era anche così autoriflesso che se ne rideva della ironia stessa. Faceva, coattamente, ironia della ironia» (ISP, p. 100). Si sta dentro un romanzo di Ottieri come davanti a uno specchio: ci si auto-osserva e auto-analizza senza inutili ipocrisie o la necessità di essere un depresso, un operaio o uno psicoterapeuta per capire e apprezzare il profondo senso delle opere. Nato nel ’24, Ottieri appartiene a quella generazione di scrittori come Pasolini, Volponi, Parise che, attraverso diverse espressioni artistiche, hanno tentato di descrivere la società italiana del dopoguerra, dal miracolo economico che stava trasformando le abitudini di vita di un paese 10 dalla cultura e mentalità contadina. Nell’analizzare se stesso, la società, i costumi e in particolare il male congenito nell’uomo moderno, Ottieri ha utilizzato la scrittura partendo da differenti direttrici, come gli studi letterari, psicologici e sociali tra cui marxismo e psicoanalisi; tuttavia più che una mescolanza di generi, Ottieri andò alla ricerca di uno spazio nuovo e sconosciuto, di un terreno d’analisi che nessun altro scrittore stava calcando per penetrare quelle zone della società e della psiche mai raggiunte prima. Ottieri, vittima del pensiero ambivalente che pensa tutto e il suo contrario, atteggiamento tipico del «bipolare rapido» (GC, p. 69), spinse le sperimentazioni letterarie al confine della tradizione ricorrendo anche a forme ibride quali la sceneggiatura da romanzo L’impagliatore di sedie, il saggio romanzato L’irrealtà quotidiana, il racconto in cadenza Le guardie del corpo, il prosimetron Il poema osceno, una pseudo-tragedia Una tragedia milanese. Ottieri è un autore “totale” che ha usato la scrittura in tutti i modi, dalla poesia alla prosa, dalla sceneggiatura cinematografica alla drammaturgia, dalla traduzione all’articolo di giornale, trattando argomenti complessi anche con sorprendente leggerezza fino all’estremo delle risorse possibili. Ottieri utilizza un tipo di scrittura trasparente che riesce a filtrare la drammaticità delle vicende attraverso uno schermo linguistico limpido e razionale che sembra tenere tutto sotto controllo grazie a un intelligente dosaggio d’ironia. Ottieri avverte una propria introversione linguistica mentre tenta di fermare sulla pagina il flusso di sensazioni che non stanno mai ferme, come il sentimento d’irrealtà semplicemente indescrivibile. La sua lingua, dinanzi a questa (ir)realtà sfuggevole, sceglie di non farsi afferrare, ma senza fratture, utilizzando in alternanza il gergo della fabbrica, della clinica, dei salotti nel periodo mondano, della politica in modo del tutto integrato al resto della narrazione. La lingua di Ottieri è media, senza dialetti, rinunciataria, in qualche modo rassegnata a non avere spazio o colori particolari, lingua che attraversa lo scrittore stesso vittima sacrificale della propria scrittura. Ho usato una lingua neutra, / una pagina che somiglia / alle pianure della luna senza storia. / Come per descrivere / l’industria, non usai un linguaggio / a livello industriale, / ma solo industriale, / per la disperazione non usai / linguaggio a livello di despair, / ma un linguaggio nudo / dei pensieri di despair. / S’aggiunse disperazione / a disperazione: non avevo / né dialetti né balzi / linguistici e verzure. / Pare che dovevo averli. / Il mio realismo era grigio. (PO, p. 143) A causa della disponibilità tragica a essere trafitto dalla realtà che viene tradotta in letteratura, l’inintegrabile Ottieri è una delle più intense testimonianze letterarie italiane del XX secolo. Inclassificabile e originale, affrancato da qualsiasi categoria o etichetta letteraria, Ottieri dimostra un coinvolgimento profondo e sofferto sulla materia da narrare, mostrando una particolare intransigenza soprattutto nei riguardi di se stesso. Quest’atteggiamento, ampiamente incompreso, ha condotto poi a osservare la sua presenza come inquietante e pericolosa all’interno dei meccanismi 11 feroci di una società consumistica che divora idee e sentimenti nuovi e che accetta malvolentieri le voci fuori dal coro: «Conosco le difese della società civile. / Quando io dico una delle mie gaffe, / che presuntuosamente considero / prefazioni della verità, / che è sempre rivoluzionaria, / do fastidio / più che se mentissi» (PAD, p. 75). I difficili rapporti vissuti dallo scrittore nei confronti dell’ambiente culturale italiano sono un motivo ricorrente nelle sue opere, poiché egli sentiva di aver dato più di quanto avesse ricevuto. Non è stato uno scrittore popolare, né di best-seller, e non avrebbe potuto esserlo a causa della materia letteraria da lui scelta, dal modo in cui l’ha proposta e dall’aver anticipato i tempi su argomenti scomodi: «Io sono sempre all’altezza dei tempi / ma non del mio tempo» (PAL, p. 24). Da qui il carattere engagé di una letteratura agonistica, feroce, vernacolare, sprezzante del Male e dei potenti del Palazzo, realistica e allucinatoria, ironica e depressa, non seducente come l’autore stesso la definiva eppure, o forse proprio per questo, indispensabile. 12 CAPITOLO PRIMO. L’INDUSTRIA I.1 La linea gotica Ottieri è considerato il precursore in Italia della letteratura industriale grazie alla tetralogia formata dai due romanzi Tempi stretti (1957) e Donnarumma all’assalto (1959), la commedia I venditori di Milano (1960) e il diario La linea gotica (1962). Il tema dell’industria nella letteratura italiana venne affrontato per la prima volta nei numeri 31 e 32 di «Nuovi argomenti» del 19581, e in modo più organico da Vittorini e Calvino che dedicarono il quarto numero del «Menabò», uscito nel ’61, al complesso rapporto tra letteratura e industria2. In quel numero, che ospitava una serie di racconti, poesie e saggi inediti di Vittorio Sereni, Luigi Davì, Giovanni Giudici, il direttore Vittorini auspicava per la letteratura italiana la capacità di produrre nuove opere traendo ispirazione dalla nascente realtà industriale. Alla letteratura sarebbe spettato dunque il compito di descrivere e analizzare il processo di trasformazione in atto nella società italiana con riferimento specifico alla cultura industriale. Da quel proposito teorico, tuttavia, non si stava sviluppando in Italia una letteratura propriamente industriale, per l’eccessiva penuria della materia trattata, l’evidente scarsità di titoli pubblicati e per la confusione con cui impropriamente si consideravano industriali quei romanzi che avevano sullo sfondo una fabbrica ma con atmosfere patetiche, popolari, ottocentesche, poco proletarie e senza lo scontro sociale con la realtà industriale. Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. Non si entra – e non si esce – facilmente. Chi può descriverlo? Quelli che ci stanno dentro possono darci dei documenti, ma non la loro elaborazione: a meno che non nascano degli operai o impiegati artisti, il che sembra piuttosto raro. Gli artisti che vivono fuori, come possono penetrare in un’industria? […] L’arte non nasce dall’inchiesta, ma dall’assimilazione. Anche per questo l’industria è inespressiva; è la sua caratteristica. (LG, p. 183) Opera basilare nel panorama della letteratura industriale italiana è La linea gotica, un diario pensato dapprima come Taccuino industriale che riassume dieci anni di vita di Ottieri, dal ’48 al ’58, e importante per comprendere il suo stato d’animo, le speranze, illusioni, amarezze nel 1 Usciranno sui numeri 31 e 32 dei due bimestri marzo-aprile e maggio-giugno di «Nuovi Argomenti» sia l’articolo di Giovanni Carocci, Inchiesta alla Fiat. Indagine su taluni aspetti della lotta di classe nel complesso Fiat, sia alcuni passi del futuro Taccuino industriale di Ottieri. 2 «Il Menabò» (1959-1967), a cura di Donatella Fiaccarini Marchi; presentazione di Italo Calvino, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1973. 13 decennio della ricostruzione e del miracolo italiano. Durante la stesura degli appunti per il suo diario, Ottieri stava elaborando i due romanzi industriali, Tempi stretti scritto tra il ’53 e il ’55 e Donnarumma tra il ’55 e il ’57, così che La linea gotica gli servì da serbatoio cui attingere per ricostruire le situazioni vissute e le persone incontrate, riscrivere i luoghi di lavoro, i dialoghi, fino ai pensieri più intimi dei personaggi. La simultaneità delle esperienze, di lavoro e di scrittura, lo conduce a copiare numerosi passi del diario trasformandoli in materia da romanzo con alcuni artifici come il cambiamento dei nomi, ma lasciando di fatto inalterata la sostanza. In una lettera inviata a Calvino nel gennaio del ’54, Ottieri spiega in modo esplicito l’importanza di quel diario che iniziò a scrivere a vent’anni e che sarà pubblicato nel ’62 col titolo La linea gotica: Caro Calvino, dal ’43 tengo una specie di Diario (una quindicina di quaderni). Dovrebbe esserci tutta l’evoluzione mia e di certa mia generazione dall’astratto estetismo e problematicismo dei vent’anni e dal velleitario fascismo, alla coscienza sociale di oggi, al socialismo. Contini ha trovato assai interessante l’ultimo quaderno dove ci sono osservazioni sulla vita industriale e di Milano. Si tratta di una parabola di dieci anni, la cui crisi centrale è soprattutto psicologica e poi politica. Il materiale è allo stato assolutamente grezzo, andrebbe interamente riscritto. Che cosa ne pensi (in via del tutto generale)? Non è un lavoro a carattere postumo. E poi, dopo Pavese? Per dartene un’idea, c’è una prima parte che è, appunto, mestiere di vivere, una seconda problemi di psicologia industriale (una specie di Condizione operaia della Weil, ma senza misticismo, senza angoscia etc., e fatte le debite proporzioni). L’interesse per il mondo industriale nacque in Ottieri alla fine degli anni Quaranta grazie alle opere di Marx e Simone Weil che lo stimolarono a osservare con i propri occhi la condizione proletaria letta soltanto sui libri. Per questo motivo, nell’aprile del ’47, Ottieri abbandona Roma e la prigionia della casa paterna per trasferirsi a Milano, città che dopo la fine della guerra, nell’avvio della ricostruzione, poteva offrire migliori possibilità di lavoro in una fabbrica anche per un giovane laureato. Il trasferimento fu tuttavia traumatico: da solo e senza conoscenze, Ottieri è costretto a vagare per la città alla ricerca di una camera da affittare a prezzi contenuti: l’affannosa tribolazione si concluderà in una disadorna pensione, una «cella del quartiere / caro agli artisti» (PSI, p. 62) al numero 2 di Via Pontaccio, nei pressi del Castello, in una zona negli anni Cinquanta frequentata soprattutto da prostitute, artisti e studenti squattrinati. «Peregrinazioni per Milano, dura, grigia, fatta solamente di strade, in cerca di lavoro e di una camera mobiliata. […] Finisco a vivere in una pensione per bohémiens, portato da una ragazza che nella stessa pensione ha tentato di suicidarsi» (LG, p. 24). All’inizio dell’avventura milanese Ottieri s’imbatte in attività poco remunerative che lo costringono a lavorare anche di notte scrivendo articoli per diverse riviste quali «Pesci Rossi», «Il pensiero critico» e «Omnibus»; ma in realtà egli vorrebbe uscire dal mondo chiuso degli interessi umanistici per un lavoro non letterario che gli permetta di addentrarsi in modo più concreto negli studi sociali e psicologici: «Non voglio lavorare in un giornale (neppure di partito), in una casa 14 editrice, nei regni della carta» (LG, p. 31). Ma con la laurea in Lettere le occupazioni che gli si offrono sono quelle umanistiche che vorrebbe evitare, come l’impiego da apprendista in cronaca al quotidiano socialdemocratico «L’Umanità». In questo periodo tribolato e senza certezze, mentre è assalito da molti dubbi se restare a Milano, Ottieri intraprende un intenso processo di maturazione politico-culturale corroborato da studi crociani, freudiani e marxisti che sfocerà nell’adesione al Partito Socialista, nella partecipazione politica all’interno delle sezioni di partito e nella conoscenza diretta del proletariato in fabbrica: «Frequento subito, in fretta, il Partito Socialista. Per ora di Milano non vedo altro che queste sedi politiche squallide, e immagini ideologiche» (LG, p. 22). Nello stesso periodo Ottieri inizia una terapia psicoanalitica con il Dottor Cesare Musatti3 ed entra a far parte del comitato di redazione della neonata rivista «Psiche» diretta dal Professor Nicola Perrotti, così che psicoanalisi e politica diventano gli strumenti principali che lo avviano verso una particolare Vita nova: «Facevo psicoanalisi con Musatti / che ritrovavo in sezione la sera. […] Questo accoppiamento Freud-Marx / l’ho vissuto come bisogno primario» (PAD, p. 62). Inoltre, sempre in quei mesi, Ottieri comincia a scrivere il suo romanzo d’esordio Memorie dell’incoscienza riesaminando la propria adesione al fascismo, dettata da infatuazioni adolescenziali per Mussolini il Padre della Patria attraverso l’imitazione di atteggiamenti paterni più che da solide convinzioni personali. Fondamentali per comprendere le sofferenze del primo soggiorno milanese sono le lettere inviate da marzo ad agosto del ’47 da Ottieri all’amica e confidente Fabrizia Baduel4 alla quale confida i propri disagi esistenziali. Dopo pochi mesi dal suo arrivo a Milano, Ottieri, che vi giunse per conoscere tangibilmente la condizione operaia, decide di cercare lavoro in una fabbrica spinto dalla necessità di partecipare, dall’interno, a un processo storico decisivo per l’Italia, quello dell’industrializzazione di un paese dall’animo atavicamente agrario, contadino. Carissima Fabrizia, sono a Milano da circa una settimana e la situazione è questa: assunto a «L’Umanità» come apprendista, in cronaca, gratis, almeno per i primi tempi. Poi si starà a vedere. Lavoro di notte etc. Difficoltà grosse a trovare una camera che non costi l’ira di Dio. Dubbi se restare a «L’Umanità», che però, essendo un quotidiano socialdemocratico, mi piace. Dubbi sull’avvenire in quantità impressionante. […] Sono stanco di questa confusione perpetua. […] Purtroppo la mia vita è poco lieta, gli 3 Della psicoanalisi freudiana Cesare Musatti (1897-1989) fu il leader indiscusso negli anni del dopoguerra, con il suo Trattato di psicoanalisi, pubblicato da Einaudi in due volumi nel ’49, che uscì quando non erano ancora disponibili le opere di Freud in italiano. 4 Si tratta di un amore giovanile di Ottieri. Fabrizia Baduel era una ragazza sua coetanea, studentessa di Scienze Politiche che viveva a Perugia in Via degli innamorati 2, dunque non molto distante da Chiusi dove il giovane scrittore soggiornava ogni estate. L’epistolario attesta una fitta corrispondenza (97 sono le lettere conservate) dal 23 giugno ’46 fino al 23 maggio ’50, ovvero poco dopo il matrimonio di Ottieri con Silvana Mauri avvenuto in aprile. Con Fabrizia, Ottieri instaura un rapporto basato su profondi sentimenti riuscendo a descriverle, in modo esplicito, i travagli interiori in un periodo importante della sua vita, dall’abbandono di Roma e della famiglia alla vita solitaria di Milano, dai primi lavori nell’editoria ai dubbi se proseguire una vita «d’esilio»; ma soprattutto Fabrizia è la prima confidente delle proprie sofferenze psichiche, alla quale Ottieri racconta le sedute dallo psicoanalista Musatti, i sintomi della depressione, le speranze di una pronta guarigione. 15 ultimi due o tre anni mi hanno scosso e logorato. […] Mi attirerebbe un lavoro extra-letterario, per conoscere gente nuova, piuttosto che i soliti dei giornali e delle riviste. […] La mia vita è una condizione estrema, d’esilio. Ho lucidissima davanti agli occhi la strada della rovina, tutti i giorni la tocco con mano e la conosco, l’ho sperimentata. […] La nausea che provo, tu sapessi, verso le cose vecchie della mia vita. […] Tu non appartieni al mio inferno. […] Per me la quiete (anche relativa) dell’anima è una meraviglia, una situazione quasi assurda. Sono disabituato alla quiete. […] I congegni del mondo ai miei occhi si sono un poco storti. La realtà da troppo tempo io la vedo con occhiali deformatori. […] Debbo di nuovo riprendere in mano me stesso e non considerarmi più in balia del demone. […] Mi sento stordito e leggermente depresso. Ho letto tutto il giorno. […] Sono convinto che solo attraverso di essi possiamo raggiungere l’altra classe, il proletariato e vivere finalmente questa esperienza che è nel cuore del nostro secolo e della nostra situazione interiore. Perciò il mio ideale adesso sarebbe entrare in una fabbrica, in una Società, in un’industria, dove avvicinare padroni e servi nella loro lotta quotidiana; un giornale, una casa editrice stanno all’estrema periferia della lotta: commentano, non agiscono. L’esperienza di quei mesi, della scoperta di Milano come una ricognizione in avanscoperta, fu fondamentale per le future scelte di Ottieri e non solo di vita: infatti il 2 febbraio del ’48 decide di trasferirsi definitivamente nel capoluogo lombardo per trovare lavoro in fabbrica, volendo concretizzare in prima persona le letture socio-industriali che lo avevano fino ad allora interessato. Una linea gotica, mentale, per me taglia a mezzo l’Italia. Ci vivo a cavallo. I dilemmi spirituali, dell’anima, si proiettano nella geografia. Una scelta interiore si camuffa da scelta di una città e non è nemmeno del tutto un camuffamento. Roma è il mio essere, Milano il mio dover essere. […] Ho lasciato il 2 febbraio, a 23 anni, Roma per Milano. Ho lasciato la letteratura, la casa agiata dei miei, la nevrosi di figlio unico. […] Il viaggio. Lo strappo, come tira al di là di Firenze. Solo, appoggiato con la testa sul tavolino dello scompartimento, dalla stazione scendo su una Milano nera dentro una malinconia nera. (LG, pp. 21-22) Ottieri riesce a ottenere un colloquio con Gino Martinoli, dirigente della Necchi, fratello di Paola moglie di Ariano Olivetti; ma l’assunzione non si concretizza. Dopo altri tentativi infruttuosi d’impiego nell’industria, Ottieri è costretto ad accettare, il 1 dicembre del ’48, l’assunzione presso l’Ufficio Stampa della Casa Editrice Mondadori, ufficio di cui è direttore Guido Lopez, evento che lo scrittore ricorda con amara rassegnazione in un paragrafo della Linea gotica: «Vengo assunto da una casa editrice con gli inizi dell’anno [’49]. Di nuovo carta, libri, società letteraria, cultura indiretta, quello che non volevo. Ma è l’unico lavoro che ho trovato, l’unico ritenuto adatto a un passato letterario. Altrove diffidano» (LG, p. 43). All’amica Fabrizia confida la singolare situazione nell’aver accettato un lavoro fino a quel momento evitato con accortezza, dovendo allontanarsi ancora una volta dal mondo operaio percepito ormai come una religione: «Carissima Fabrizia, il guaio grosso è che sono finito proprio nel mezzo del mondo letterario, e lo aborro. Non mi lamenterò mai abbastanza di questo scherzo del destino. Tiriamo avanti; a furia di prove ed esperimenti sto consumando la vita mia» (21 gennaio ’49). Dopo il divorzio dalla Mondadori, «una mattina non trovai la scrivania. / Seppi che è un modo usato di licenziare» (PAD, p. 67), Ottieri all’inizio del ’51 entra a far parte dell’Anonima Periodici Internazionali svolgendovi attività giornalistica, fino a dirigere la rivista mensile di 16 divulgazione scientifica «La Scienza Illustrata». Questo lavoro lo aiuterà a scoprire da vicino il mondo industriale, osservando con i propri occhi il problema del rapporto fra l’operaio e la macchina così come l’aveva studiato nelle opere di Marx e soprattutto nella Condizione operaia di Simone Weil: «Leggo La condizione operaia della Weil. La Weil, sì, è masochista; ma è onesta» (LG, p. 110). La condition ouvrière5 di Simone Weil gli servirà da modello sia biografico per farsi assumere in un’azienda, sia letterario per opere ambientate in fabbrica: «Dovevo capire, vedere con i miei occhi il problema del rapporto tra l’operaio e la macchina così come l’avevo letto in Marx. Sono stato una specie di piccola Simone Weil»6. Simone Weil era, all’inizio degli anni Trenta, un’insegnante di filosofia che si avvicinò agli ambienti sindacali e politici anarco-trotzkisti, e volendo sperimentare su se stessa la condizione operaia si fece assumere, come manovale, alle officine Renault dal 4 dicembre ’34 all’8 agosto ’35. Per ricordare questi otto mesi la Weil registrò su un diario le esperienze sofferte in fabbrica, insieme a lettere e a saggi che apparvero nel ’51 con il titolo La condition ouvrière presso Gallimard nella collana «Espoir» diretta da Albert Camus, con una prefazione di Albertine Thévenon (un’amica della Weil); già l’anno seguente l’opera fu tradotta in italiano da Franco Fortini per le Edizioni di Comunità del gruppo Olivetti. Eppure resisto. E non rimpiango mai di essermi lanciata in questa esperienza. Anzi, ogni volta che ci penso, me ne rallegro infinitamente. Ma, cosa curiosa, ci penso di rado. Ho una capacità di adattamento quasi illimitata che mi permette di dimenticare di essere una professoressa girovaga fra la classe operaia. (La condizione operaia, p. 123) La Weil racconta in modo dettagliato il lavoro quotidiano che si svolge all’interno della fabbrica, l’oppressione subita dagli operai, il loro supersfruttamento, la frantumazione del lavoro, il senso di schiavitù imperante, il penoso desiderio di libertà, l’abitudine alla sofferenza, l’alienazione, il malessere fisico e spirituale. Non avendo bisogno di lavorare in fabbrica, giacché la scrittrice era una professoressa proveniente da un’agiata famiglia di origine ebraica, la scelta di calarsi in una realtà così estrema ha reso la sua ricerca oggettiva e indipendente da qualsiasi coinvolgimento politico. Il 4 dicembre del ’34, Simone Weil fu assunta come operaia presso le officine della società elettrica Alsthom di Parigi fondata nel ’28 dall’unione dell’Alsasienne e della Thomson-Houston, grazie all’interessamento dell’amico Souvarine presso l’amministratore della società, l’ingegner Auguste Detœuf: «Ci sono arrivata solo per via di favori; uno dei miei migliori amici conosce l’amministratore delegato della Compagnia e gli ha spiegato il mio desiderio; l’altro ha capito» (La condizione operaia, p. 129). Dal lavoro manuale la Weil si aspettava un profondo contatto con la realtà proletaria e forse anche una comprensione più effettiva della questione sociale che la spinse a 5 6 WEIL Simone, La condizione operaia (1951), traduzione in italiano di Franco Fortini, SE, Milano 1994. Dall’intervista rilasciata a Lea Vergine in Gli ultimi eccentrici, Rizzoli, Milano 1990, pp. 231-237. 17 entrare in fabbrica, sforzandosi di superare la debilitazione del proprio fisico (era malata di tubercolosi) per non accettare un eventuale fallimento. Soltanto nel lavoro manuale, infatti, l’intellettuale scorgeva la sintesi di pensiero e azione che le avrebbe consentito di passare dal sogno alla realtà, costituendo dunque l’espressione più alta della condizione umana. In quei pochi mesi di impiego nella fabbrica, lo sguardo della Weil si proietta direttamente all’oggetto rappresentato, ossia la condizione operaia osservata senza alcun filtro, e ciò che emerge in primo piano è il senso di schiavitù causato dalla difficile presa di coscienza degli operai sulla propria condizione e dall’impossibile rivoluzione da attuare. Poiché il progresso è strettamente legato alla separazione pressoché totale tra lavoro e coscienza, essendo quest’ultima riservata ai gruppi dominanti, la distanza tra condizione proletaria e borghese appare, per la Weil, estrema; così che la classe operaia non si può manifestare come il soggetto rivoluzionario predicato dalle avanguardie intellettuali, bensì come un universo di oppressi in balia di una società malata dove alla borghesia è assegnato il compito dell’oppressore e all’operaio dell’oppresso. «Il problema, in questo momento, è quello di sapere se, nelle condizioni attuali, si può arrivare a far sì che nell’ambiente della fabbrica gli operai contino qualcosa e abbiano coscienza di contare qualcosa. […] La sola risorsa per non soffrire è quella di sprofondare nell’incoscienza» (La condizione operaia, pp. 153, 193). La logica nefasta di tale condizione si traduce in un’inevitabile ignoranza degli operai che viene riconosciuta, per comune accordo, come uno degli ostacoli a un’organizzazione più funzionale; d’altra parte averne consapevolezza comporterebbe un rischio per tutti, dai dirigenti agli operai stessi. Il non pensare si mostra dunque condizione necessaria per lavorare in modo efficace, estraniandosi dal proprio lavoro e divenendo l’operaio un automa che per conservare il posto agisce senza considerare i propri vincoli. Il problema quindi non consiste nella proprietà dei mezzi di produzione ma dal fatto che i lavoratori siano ridotti a pura funzione dell’apparato industriale. Il lavoro che si svolge dentro una fabbrica è inumano, alienante e soprattutto incomprensibile, giacché si evidenzia un vero mistero della fabbricazione quando l’operaio ignora l’uso di ogni singolo pezzo, il modo in cui si combina con gli altri, la successione delle operazioni compiute su di esso e l’uso conclusivo dell’insieme: «Sento d’esser preda di una grande macchina ignota. Non si sa a cosa serva il lavoro che si sta facendo, non si sa che cosa si farà domani, né se il salario sarà diminuito. Né se ci saranno licenziamenti» (La condizione operaia, p. 114). Alienante è la condizione dell’operaio che lotta per la sopravvivenza racimolando uno stipendio non adeguato, senza prospettive di miglioramento future, con il terrore della perdita del lavoro e l’incessante asservimento ai padroni. Weil osserva una produzione industriale di vite spezzate, dal risveglio all’alba, al lavoro in fabbrica, alla fatica, agli incidenti, alla nausea fino alla campanella delle sei che concede il ritorno a casa con le residue forze per dormire senza neanche la 18 cena, poiché per alcuni lo stipendio è troppo basso e non permette più di un pasto al giorno. Tuttavia la mattina successiva ci si ritrova di nuovo nel metrò in direzione della fabbrica, ripetendo senza senso i meccanismi di una vita-non vita, inumana, desolante. Ottieri ricorda spesso la scrittrice operaia Simone Weil quando analizza la condizione di schiavitù cui è soggiogato l’operaio-macchina osservato al lavoro negli ingranaggi spietati di qualsiasi fabbrica: «In tutte le altre forme di schiavitù, la schiavitù è nelle circostanze. Solo qui è trasferita nel lavoro stesso» (La condizione operaia, p. 108). «C’è ovunque uno stesso silenzio di persone che corrono dietro al tempo, e questa corsa costringe certamente alla schiavitù, ma mai come nel nostro stabilimento compare l’altra faccia di questa schiavitù necessaria: la dura dignità, la costruzione giornaliera di una via di libertà» (DON, p. 176). Finalmente nel ’53, dopo numerosi tentativi infruttuosi, Ottieri ottiene un impiego in una delle più importanti aziende italiane, la Olivetti, dopo un colloquio con l’ingegnere capo Adriano Olivetti il quale, presidente dal ’38 dell’azienda lasciatagli dal Padre Camillo, divenne in pochi anni un imprenditore di punta nel panorama industriale italiano del dopoguerra, proponendo delle novità che solo negli anni successivi sarebbero state comprese, come l’organizzazione decentrata del personale, la direzione per funzioni, lo sviluppo della rete commerciale, l’ambientalismo, il lavoro “a misura d’uomo”. La sua poliedrica personalità lo condusse in seguito a impegnarsi non solo nel campo strettamente industriale ma anche nei settori dell’urbanistica, dell’architettura, della cultura, divenendo un editore che, grazie a un vasto programma editoriale, pubblicò importanti opere in vari campi dal pensiero politico alla sociologia, dalla filosofia all’organizzazione del lavoro. Avendo maturato l’idea che nell’industria la cultura tecnico-ingegneristica doveva integrarsi con quella umanistica, l’ingegner Olivetti «colto e illuminato, di cultura raffinato e geniale» (IQ, p. 221), oltre a Ottieri fece confluire una colonia di intellettuali (Giudici, Fortini, Volponi, Sinisgalli, Pampaloni, Soavi, Bigiaretti) quali manager della sua azienda. Per Adriano Olivetti, intellettuali e letterati erano assolutamente necessari anche in un’industria a elevato contenuto tecnologico, poiché il loro contributo poteva favorire un progresso equilibrato dell’impresa evitando gli eccessi del tecnicismo. Gli intellettuali che lavorarono alla Olivetti non sono mai stati valutati come un lusso o un ornamento dell’alta direzione, bensì come fattori del tutto organici allo sviluppo aziendale in particolare in settori critici come la pubblicità e comunicazione, le relazioni con il personale, i servizi sociali. Mentre in altre società il letterato interveniva soprattutto nei rapporti aziendali verso l’esterno, lo stile Olivetti si denotava per l’attenzione verso l’interno, per cui il letterato doveva contribuire alla qualità delle relazioni con i dipendenti come anche della proposta culturale rivolta al mondo del lavoro. Questa sarà l’attività svolta da Ottieri, laureato in lettere e studioso di psicologia e sociologia, assunto alla Olivetti in qualità di addetto alla selezione del personale. 19 Olivetti avrà un grande rilievo nella vita di Ottieri che, considerandolo quasi un secondo padre, gli offre un ritratto commosso in alcuni versi del Padre, mentre in una pagina della Linea gotica ricorda il colloquio avuto con Olivetti, le frasi pronunciate, i suoi sguardi, l’affinità intellettuale: «L’altro mio Padre che mi ha salvato la vita / e l’arte, / è stato l’ingegner / Adriano Olivetti. […] Egli non era un mecenate, / ma un intellettuale, come quelli che amava e molto pagava» (PAD, p. 68). Colloquio con l’ingegner A. O. Quando gli ho detto come e perché voglio lavorare in una fabbrica, non ha sorriso vago; per la prima volta uno ha capito. Gli ho chiesto anche se non ritenesse un lusso, queste mansioni da Ufficio Personale; questi compiti non direttamente produttivi, ma tecnico-umani. No. Egli è sicuro, sicuro dal di dentro – l’ho visto – che non sono un lusso. Per la prima volta, ha calmato il mio senso di colpa, la mia oscura vergogna per il mio industrialismo. […] Mi lascerà fare tre mesi un periodo di tirocinio nella fabbrica. Mi guardava con occhi chiari, senza dubitare delle mie intenzioni, senza fare il processo della loro origine. Le accettava come una forza cui dare credito, usabile. Come una verità. (LG, p. 130-131) Il contratto di assunzione alla Olivetti venne firmato da Ottieri il 12 marzo del ’53 e come aveva compreso sia dal colloquio con l’ingegnere Olivetti, sia con il Capo del Personale Bruno Zecca ricordato nella Linea Gotica come il Dottor M., le sue mansioni all’interno dell’Ufficio del Personale e dell’Organizzazione riguardavano lo studio del fattore psicologico e umano nel settore commerciale: «Egregio Dottor Ottieri, facciamo riferimento alla lettera di assunzione a Lei indirizzata in data odierna per precisarLe che per la durata dello stage che Ella dovrà effettuare a Ivrea, Le corrisponderemo un concorso forfettario per spese di albergo di lire 50000 nette mensili» (12 marzo ’53). La soddisfazione per l’impiego si rivelerà purtroppo fugace poiché esattamente tre mesi dopo la firma del contratto, il 13 giugno, venne riscontrata a Ottieri una diagnosi di meningite tubercolare con conseguente ricovero d’urgenza presso la clinica fiorentina del Dottor Cocchi dove lo scrittore resterà per quattro mesi potendo uscire solo in ottobre inoltrato7. «Giugno. Malattia, all’improvviso. Quattro mesi in clinica a Firenze. Silenzio. […] Ottobre. Lo sapevo che il punto debole è stata sempre la testa» (LG, p. 133). Ottieri ricorderà quest’esperienza, fondamentale per la sua vita trattandosi del primo di numerosi ricoveri tra cliniche, ospedali, case di cura e manicomi, in alcuni paragrafi della Linea gotica relativi al ’53 e anche in una prosa narrativa nata dalla collaborazione con «Il Mondo» nella metà degli anni Cinquanta8 dal titolo suggestivo Sua maestà 7 In una lettera inviata all’ispettore dell’INPS alla fine del ricovero si traccia una cronistoria della malattia: «Il 13 giugno ’53 si riscontra una diagnosi di meningite tubercolare diagnosticata dal Prof. Pontano e dai Dottor Fatinelli e Perrotti. Il paziente fu trasportato d’urgenza dai propri familiari in autolettiga a Firenze, per ivi essere ricoverato presso la Clinica Casa di cura per bambini, Viale Mazzini 43, dal Prof. Cesare Cocchi, ove restò degente fino al 28 settembre ’53». 8 In OTTIERI Ottiero, Cronache dell’al di qua, a cura di Maria Pace Ottieri, Avagliano, Cava de’ Tirreni 2005. Si tratta di una raccolta di articoli scritti da Ottieri e apparsi sul quotidiano «Il Giorno» tra il ’64 e il ’73, con in più prose narrative uscite su «Il Mondo» nella metà degli anni Cinquanta, come Sua maestà l’encefalo, Le ragazze di 20 l’encefalo dove Ottieri descrive minuziosamente le terapie dolorose cui si sottoponeva ogni giorno tra «una puntura sottoccipitale (nella nuca) la mattina; tre, quattro iniezioni endomuscolari; una fleboclisi, specie di iniezione endovenosa a gocce della durata di 6-8 ore; una puntura lombare la sera; una diecina di pillole per bocca» (CRO, p. 119). Un ricordo dettagliato di quest’esperienza Ottieri lo riporterà anche in un passo di De morte scritto a distanza di quarant’anni dai fatti, dimostrando ancora il vivo ricordo della malattia: La meningite colpisce la testa e i centri nervosi, blocca la colonna vertebrale, quindi la persona intera, rendendola rigida, cieca e sorda. Ha l’aspetto di un male morale, perché attacca l’encefalo; la culla, più o meno, dei pensieri. Eppure non tocca specialmente gli intellettuali, quelli che hanno pensato troppo (o male). Preferisce i bambini, dagli organi più raffinati ancora deboli e innocenti. (LG, p. 134) A trent’anni ebbi una meningite. Rischiai la morte ma non me ne accorsi. […] La cura consisteva in quaranta iniezioni lombari, tutti i giorni, e venti sottoccipitali. La sottoccipitale si pratica così: l’operatore infilava un grosso e lungo ago nella nuca dell’utente, il quale stava in collo a una suora che lo abbrancava. L’ago cominciava a forare un tessuto fibroso e l’operatore cercava di non bucare il cervelletto adiacente. L’ago crocchiava; aspettavo che da un momento all’altro facesse capolino dal pomo di Adamo e mormoravo: «Ecce Homo, ecce Agnus Dei». (MOR, p. 80) Per tutto il periodo della malattia, comunque, l’ingegnere Olivetti gli spedisce ogni mese lo stipendio mostrando fiducia in una pronta guarigione e anche speranza di vederlo al lavoro come selezionatore del personale, avendo scorto nel giovane una predisposizione particolarmente favorevole per quel tipo di impiego che Ottieri riuscirà a svolgere a pieno regime solo all’inizio del ’54. I.2 Tempi stretti Ottieri compone in due anni, tra il ’53 e il ’55, Tempi stretti scaturito dalle letture delle opere di Marx e di Weil sul tema industriale, dal lavoro in fabbrica, dall’attività giornalistica presso la rivista scientifica «La Scienza Illustrata» che gli fa scoprire da vicino il mondo industriale, e soprattutto dall’esperienza di lavoro alla Olivetti presso la fabbrica di Ivrea: Caro Momigliano, l’esperienza di Ivrea per me è stata eccezionale. Erano anni, da quando nel ’48 lasciai Roma per Milano, che desideravo vivere in una fabbrica. Non sono stato minimamente deluso, forse data l’alta concentrazione di quella esperienza, di non aver avuto il tempo di entrare nella routine. Saintrop, La seduzione, I divini mondani. Per quanto riguarda Le ragazze di Saintrop, il titolo originare era Santropia ma «per ragioni di impaginazione» Mario Pannunzio, che dirigeva «Il Mondo», decise di cambiarlo spiegando a Ottieri che «l’articolo è molto bello, anzi uno dei più belli che abbiamo pubblicato negli ultimi anni» (1 dicembre ’58). 21 Comunque, rimane il fatto che non mi ero sbagliato quando avevo deciso si far confluire tutte le mie esperienze culturali nei problemi di un’industria settentrionale; e questo mi fa piacere. (Senza data, probabilmente del ’53) Avevo scoperto Marx. La conseguenza fu che non vivevo affatto i problemi della forma e del linguaggio, se non in modo inconsapevole. Tempi Stretti è un libro sommamente industriale di tipo naturalistico… Un libro faticosissimo, lavoratissimo, e scritto con i piedi, poi rivisto e corretto in una seconda edizione. 9 L’idea di scrivere un romanzo ambientato in una fabbrica aveva assorbito da molti anni, almeno dall’arrivo a Milano nel ’47, i pensieri di Ottieri il quale iniziò a registrare su un diario, che confluirà nella Linea gotica, le esperienze personali su quella realtà industriale che poteva osservare ogni giorno. La novità del tema, non soltanto letteraria ma anche di vita, spinse Ottieri a convogliare in esso ogni futura ispirazione e alcuni appunti del diario saranno pubblicati, su suggerimento di Calvino, in «Nuovi Argomenti» e in seguito nel quarto numero de «Il Menabò», nel ’61, come Taccuino industriale10. «Il Menabò», che doveva avere secondo il suo ideatore Vittorini i caratteri di una rivista e di una collana letteraria, uscì dal ’59 al ’67 in dieci numerivolumi monografici che presentavano testi letterari e saggi critici su un determinato argomento, realizzando una fusione ideale tra «Il Politecnico» e «I Gettoni» con la ripresa delle stesse esigenze letterarie, sociologiche e culturali che avevano ispirato quelle precedenti iniziative editoriali. In particolare «Il Menabò» registrò costantemente le tematiche più aggiornate della discussione critica e teorica, contribuendo a un processo di sprovincializzazione della cultura italiana anche grazie alla presenza di numerosi contributi di scrittori stranieri. Il problema più urgente da risolvere apparve a Ottieri la mancanza di un’origine della letteratura industriale in Italia, sebbene i confronti e i dibattiti sull’argomento si sviluppassero con energia, e tra questi la testimonianza del quarto numero del «Menabò» era la più significativa: «La narrativa di oggi non può ignorare lo stato civile, il mestiere, la geografia, la classe. È realistica, perché esiste in noi un desiderio necessario, cioè artistico, di scoperta […] degli altri» (LG, p. 37). Tuttavia nessuno scrittore prima di Ottieri aveva tentato di “tradurre” il tema industriale in un’opera letteraria giacché mancava un collegamento diretto tra chi scriveva, l’autore, e un mondo fino a allora sconosciuto. Ottieri comprendendo questo limite, grazie alla personale esperienza di lavoro in 9 Dalla Biografia di mio padre di Maria Pace Ottieri, in Cronache dell’al di qua, cit. p. 175. La prima edizione di Tempi stretti è del ’57 (nella collana I Gettoni), la seconda del ’64 (ne I Coralli), entrambe presso Einaudi. 10 Per comprendere la novità apportata dal quarto numero del «Menabò» su un tema così particolare, non solo nella letteratura italiana, Dionys Mascolo, reattore delle Edizioni Gallimard di Parigi, con il quale Ottieri entrerà in contatto per la traduzione in francese dell’Impagliatore di sedie, ammette sulla questione industriale un’ignoranza letteraria clamorosa all’interno della cultura francese degli anni Sessanta: «Je pense que toutes le discussions par le «Menabò» sur Littérature et industrie dont le public italien est averti, sont, au contraire, complètement ignorées en France. […] Il s’agit en effet d’un problème qui n’est nullement posé aux écrivains français». (21 dicembre ’64) 22 una fabbrica, tentò di ridurre tale frattura riportando sulla carta e in forma romanzata i motivi essenziali della condizione operaia. Se la narrativa e il cinema ci hanno dato poco sulla vita interna di una fabbrica, c’è anche una ragione pratica, che poi diventa una ragione teorica. Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. […] Dal dopoguerra ho cominciato a maturare la convinzione che la nostra cultura debba unirsi al movimento operaio; e non soltanto alla sua teorica, ma ai suoi fatti, cioè alla vita di fabbrica. Fin qui nulla di nuovo; se non, forse, la mia particolare attenzione agli aspetti narrativi. (LG, pp. 183-184) Ottieri decise dunque di varcare una soglia sconosciuta raccontando quello che ancora non esisteva nella letteratura italiana, ossia il tema industriale, ma prima di affrontarlo de visu, come uno «speleologo» (Stefano Mauri, in Convegno, p. 7) andò alla ricerca della poesia celata nelle fabbriche per estrapolarne le essenze primarie: «Cercavo con laboriosità tenace / il Metello milanese. / Non avrei potuto inventarmelo. / Cercavo la poesia nascosta / nei luoghi impoetici, / in certe stradine in mezzo alla Falck. / Volevo filmarle / con cinema attento / alle meraviglie squallide delle marane industriali» (PSI, p. 31). Nel cuore degli anni Cinquanta tra la ricostruzione del dopoguerra, il miracolo economico e un benessere collettivo offerto come liberale e democratico sulle schiene di milioni di operai per lo più meridionali che andarono a ingrossare la mano d’opera nelle industrie settentrionali, si decisero le sorti future del Paese con il nord industriale, il centro baronale, e il sud lasciato alle organizzazioni criminali molto più efficienti dello Stato centralizzato. Ottieri coglie quasi profeticamente i tratti di un nuovo Paese che stava allora nascendo in una tensione nevrotica e alienata: «Il feto del nostro oggi con tutti i segni di storia, di cronaca, di eredità chiaramente riconoscibili. I segni che allora pochi avrebbero colto a occhio nudo» (Furio Colombo nella prefazione a La linea gotica). Volevo scrivere un romanzo / che fosse come il Capitale. / Una storia / materialistica-storica. La scrissi. / Raccontare una storia / non serve a niente. / Una storia deve servire / a infiammare le meningi politiche. / Quel testo venne prosastico. Non v’era / poesia né tendenza nuova. / Pasolini lo vilipese. / La sinistra letteraria / lo trovò brutto. La / sinistra letteraria / voleva non testi industriali, / ma a livello industriale. / Era grave raccontare / la vita nelle fabbriche attuali / con una prosa da Zola. / Per massimo / di avanguardia nel contenuto / tenevo massima retroguardia di forma. (PSI, p. 21) Quando Calvino ebbe sotto gli occhi il manoscritto de Le schiene di vetro11, comprese dopo poche pagine che si trattava del romanzo industriale tanto atteso da lui e in particolare da Vittorini. Ottieri fu il primo a penetrare nel mondo automatizzato e nei meandri reconditi della fabbrica, svelando aspetti fino ad allora sconosciuti come i celebri tempi di lavorazione che si riducono 11 Titolo pensato in un primo tempo da Ottieri poiché con tale l’espressione s’indicava, nel gergo dell’industria, quei lavoratori lavativi «fragili e fiacchi» oppure i «compagni più vigili e riottosi» (TS, p. 135). «Spesso le schiene di vetro sono i buoni per il partito, i cattivi per il padrone» (LG, p. 213). 23 gradualmente rendendo l’operaio simile a una macchina. Ciò che emerge dal romanzo è l’analisi dettagliata dei meccanismi perversi di una moderna realtà tecnologica che trasforma i rapporti umani anche al di fuori dell’industria. Caro Ottieri, confermo quanto ebbi a dirti per telefono. Le schiene di vetro è un libro molto importante e atteso e utile, per la sua seria impostazione documentaria, e dove ti tieni fedele a essa anche molto felice letterariamente. Sei soprattutto riuscito, rappresentando tre stabilimenti diversi per livello economico e tecnico e per atteggiamento delle maestranze e dei dirigenti, a dare un quadro della situazione industriale italiana nella sua complessità e interrelazione. Le riunioni politiche e sindacali sono sempre un grosso scoglio a raccontarsi, e tu, mettendo in primo piano i socialisti anziché i comunisti, hai cercato di dare qualche pennellata inedita. […] Quel che pesa sul libro è la tristezza; che gli operai siano anche gente allegra e le fabbriche anche una via di libertà non si vede. […] Il titolo non mi piace granché. […] Lo mando a Vittorini e caldamente lo sollecito. (15 maggio ’56) E infatti Calvino non perderà tempo a inviare l’opera a Vittorini, il quale allora non nutriva per Ottieri una stima particolare dopo le vicissitudini strutturali delle Memorie. Calvino prende ancora una volta le difese di Ottieri tentando di smussare le parti più romanzate del testo per far emergere l’evidenza di un fatto incontestabile: per la prima volta nella letteratura italiana si entra dentro le fabbriche. Tale novità val più di un romanzo, sembrerebbe sentenziare Calvino. Caro Elio, ti mando il romanzo di Ottieri. So che l’autore non ti garba, ma questa è una cosa completamente diversa dalle Memorie dell’incoscienza. È un documentario di vita industriale, con tre aziende, di un diverso stadio di sviluppo tecnico, vista in tutti i loro aspetti più importanti e inediti, e sulla Milano squallida e periferica. Mi pare il primo che parla di queste cose con serietà e modestia documentaria e con vasta conoscenza diretta. Quel po’ d’intreccio di romanzo che c’è vale poco, ma serve a far muovere la macchina da presa e a rappresentare la complessità della situazione industriale o operaia italiana. Le parti psicologiche, erotiche e in genere tutte le parti più scritte sono dell’Ottieri che già conosciamo e disturbano un po’: ma il libro interessa per il resto, che è la sua più grande parte. Anche sulle riunioni politiche e sindacali riesce a rappresentare, evitando abbastanza gli scogli, e con l’espediente di mettere in primo piano i socialisti anziché i comunisti, cerca di dare qualche pennellata inedita. Mi pare che tra I Gettoni questa testimonianza sia molto utile e attesa, ancorché Ottieri sia scrittore di carne triste. (15 maggio ’56) Ma nonostante il favorevole appoggio di Calvino, Ottieri non è soddisfatto del proprio manoscritto. Il problema essenziale sembra essere non tanto il tema, che viene accolto con favore dai critici ai quali presenta il lavoro ancora in fieri, quanto la scrittura, le parti borghesi, l’approssimazione linguistica, gli errori tecnici evidenziati soprattutto da Pasolini, che disorientano il giovane scrittore il quale ha nello scarno curriculum un solo romanzo pubblicato, tra l’altro di poco successo12, mentre si sta addentrando in un sentiero irto di problematiche spinose come l’industria, il sindacato, la condizione operaia. 12 Ottieri si auto-definirà in Cery scrittore «bad-sellerista» (p. 121) perché, con l’eccezione di Donnarumma all’assalto, ogni sua opera, pur riscontrando consensi da parte della critica, venderà poco o nulla e le Memorie attestano in modo inequivocabile questa condanna. In una lettera inviata a Calvino il 21 aprile del ’56, Ottieri si lamenta dell’esiguo numero di copie vendute dalle sue Memorie: «Ricevo in questo momento il rendiconto – che non avevo 24 Caro Calvino, sono disorientato circa le eventuali correzioni da fare al libro. Vittorini mi disse che dovevo tagliare nette le parti borghesi, che però voleva prima un confronto. Ho chiesto il confronto a Pampaloni, il quale mi suggerisce di lasciarle perché fanno da luce-ombra al resto. Ho poi avuto una martellante lettera di Pasolini – è mio amico e gli ho mandato il manoscritto – piena di accuse sul piano tecnico, di errori segnati col lapis blu. Evidentemente mi ha voluto dare una lezione di mestiere, ci è riuscito e mi ha un poco avvilito… Pasolini sostiene che tutte le entrate dei personaggi nella prima parte erano sbagliate, enunciate e non rappresentate. […] Che vi è una certa approssimazione linguistica per cui il romanzo dovrebbe essere qua e là limato. (31 luglio ’56 da Champoluc) Il riferimento a Geno Pampaloni riguarda un carteggio avviato da Ottieri con il critico letterario che si dimostrava molto attento a quegli originali scritti ambientati nelle fabbriche. Il 14 settembre del ’56 Pampaloni gli scrive di non avere obiezioni per la pubblicazione del romanzo: «Molti auguri e con la speranza di vedere presto stampate Le schiene di vetro». Di quel momento di confusione e incertezza, Ottieri, dal ritiro di Champoluc dove è in vacanza con la moglie e la figlia, ne fa partecipe anche l’amica Rella (Clotilde Marghieri), evidenziando in primo piano il giudizio negativo di Pasolini, che lo influenzò notevolmente, e anche i dubbi se firmare il contratto con Einaudi. Cara Rella, non l’ho firmato ancora [il contratto]. Non mi piace. L’ingegner Olivetti sta leggendo il manoscritto. La risposta, alla riapertura dello stabilimento, la fine del mese. Ho avuto anche una mezza stroncatura da Pasolini, con consigli di rimetterci le mani. Sono quindi confuso, e voglio tornare a Milano per stringere le fila, se no quando esce? (18 agosto ’56) Le riflessioni di Pasolini suggestionarono molto la percezione di Ottieri sul romanzo da terminare, aumentando le sue insicurezze e influenzando anche le future correzioni. Ma ciò che risalta in modo sorprendente è la memoria storica di Ottieri per questa spiacevole esperienza che si ritrova, secondo l’idea della “sinfonia” e dell’opera aperta della sua letteratura, in un passo della Storia del PSI ben trentasei anni dopo la stroncatura pasoliniana, dove non sembra attenuarsi il profondo dolore da lui percepito dinanzi ai giudizi non certo lusinghieri su Tempi stretti: «Ei, il massimo / trait-d’-union fra cultura e lotta, / non voleva pubblicarlo. / Lo trovava / peggio del Gattopardo… / Era anche sgrammaticato / tanto io militavo pel contenuto, / sbeffeggiando la forma. / Mio suocero, padrone buono, / lo fece pubblicare / presso il gelido editore torinese» (PSI, p. 21). E anche per il titolo i dubbi non mancano: dalle iniziali Schiene di vetro, si passa alle Sirene fino alla scelta conclusiva di Tempi stretti a poche settimane dall’uscita del romanzo nelle librerie, fine estate ’57, dopo numerosi tentennamenti e incertezze, nella collana «I Gettoni» della Einaudi. avuto prima – che vergogna! Copie vendute: 775. Debbo alla Einaudi lire 12.800! Ci sarebbe proprio da scoraggiarsi!». «Quello che ho venduto di più è stato Donnarumma all’assalto, che parlando della fabbrica di Pozzuoli non parla dei miei mali» dall’intervista rilasciata ad Angelo Gaccione e presente nella rubrica Incontri in «Milano metropoli», maggio 2000, anno IV, numero 3, pag. 21. 25 Caro Calvino, sono incerto per il titolo: Le schiene di vetro mi piacerebbe e lo troverei esatto, anche originale, ma vedo che nessuno lontanamente lo capisce e che molti lo interpretano metaforicamente. Ho pensato ad altri titoli, […] come Le sirene, di una facile ambiguità, ma abbastanza gradevole. Temo però di mettere il carro davanti ai buoi. Cioè non vorrei preoccuparmi del titolo. (28 maggio ’57) Caro Calvino, mi prendete in contropiede. Ormai credevo che Le schiene di vetro andasse bene. Allora ho pensato – visto che Le Sirene è un ripiego – a Tempi stretti. (Inizio giugno ’57) Sul titolo si decise dunque per Tempi stretti poiché esso riusciva a condensare il problema essenziale del lavoro in fabbrica strutturato secondo periodi di esecuzione che si riducevano parallelamente al progresso tecnologico. L’operaio, oltre a non partecipare più al processo completo di fabbricazione del prodotto dovendo occuparsi solo di una parte di esso, si ritrova imprigionato nei tempi calcolati da un cronometrista che, come una spada di Damocle, imperversa sulla nuca o dietro le spalle dei lavoratori. In rapporto all’esecuzione da svolgere e alla macchina utilizzata, ogni operaio, nella frantumazione del lavoro ormai sminuzzato e parcellare, fa gesti sempre più piccoli e brevi, condannato a rispettare il tempo che implacabile si contrae in alcuni secondi di azione13. Per quanto concerne le descrizioni del disagio provato dagli operai per i tempi stretti, Ottieri risente fortemente della lezione di Simone Weil. Il cronometrista è spietato. […] Il tempo perduto fra un lavoro e l’altro dev’essere segnato sugli ordinativi (ma allora si corre il rischio di non eseguirli in tempo, soprattutto con i lavori minori) o è dedotto dalla paga. […] Non ce n’è molti che osino rimanere fuori tempo. (La condizione operaia, p. 20) Un giovane ingegnere mi parla della produzione dal punto di vista economico e dei tempi; qui è il senso ultimo della vita d’officina, lo Spirito Santo di fabbrica è nell’interdipendenza fra costo e tempo. […] Stabilito uno standard di qualità, tutto si riduce a tempo, velocità. Tempo puro, al polo contrario della invenzione, della riflessione. […] Scendo con un cronometrista al reparto, e appena l’operaio si accorge che ce l’ha dietro le spalle, rallenta il ritmo: 5’’6, 5’’6, 8’’; poi si riprende ma continua sui 7’’. Crisi di disinteresse e monotonia. […] Si parla anche dei tempi, e dell’allenatore. Chi è costui? Cosa fanno in Russia? […] La rivoluzione è compiuta quando gli operai desiderano loro i tempi stretti e l’operaio con il cronometrista alle spalle, accetta. […] I tempi sono serrati. Secondo il medico di fabbrica, ammalati gli arrivano in continuazione. (LG, pp. 112, 126, 221, 232) I capisquadra giravano per le macchine, le preparavano. Un cronometrista rilevava il tempo. […] A non sbagliare sono sei tempi. […] Sei tempi, sei tempi, sei tempi e il sesto e il primo si rincorrevano. […] Il tempo va vinto, non farsi vincere dal tempo. […] La macchina riduce il lavoro a tempo puro, sebbene anche le macchine siano più veloci. Il progresso è questo. […] Con il progresso, i tempi tendono a zero. […] Per questo, per celebrare l’inizio del nuovo anno, del 1950, del giubileo, un cronometrista, permeato a fondo dello spirito della direzione, tagliò i tempi alle presse. […] Vi fu uno sciopero alle presse. […] Su ognuno il 13 Per le nozioni di Capitale e interesse della scuola austriaca di Eugen von Böhm-Bawerk a inizio Novecento, e di Capitale e tempo secondo gli studi di John Hicks del ’73, la riduzione del tempo nei processi produttivi realizzati dall’impresa comporta un aumento delle merci collocabili sul mercato senza alcun aumento di stipendio per i lavoratori. Per la determinazione dei tempi riguardo ai movimenti elementari dell’uomo sul lavoro nel ’48 fu elaborato il sistema MTM (Methods-Time Measurement), che Ottieri probabilmente conosceva, attraverso il quale si stabilivano i tempi, dopo osservazioni dirette, delle prestazioni medie degli operai. 26 taglio dei tempi cade come una mala sorte non meritata, come una molla che si è faticato a caricare e di colpo torna lenta. (TS, pp. 51, 52, 64, 155, 232) Per condurre la narrazione sulla realtà industriale, inedita per la tradizione letteraria italiana, Ottieri sceglie una prospettiva imparziale, distaccata, senza schierarsi a favore di nessuna parte in causa tra gli operai, i sindacati, i padroni e i partiti politici; egli sceglie di raccontare i fatti in modo romanzato partendo dal proprio retaggio culturale ed esistenziale che ignorava il mondo operaio. Da questa visuale indipendente, aperta e non sottomessa ad alcuna logica di partito o di fazione, Ottieri può penetrare a fondo nel cuore della materia, ossia la crisi della classe operaia sconfitta dal boom economico e obbligata a omologarsi al modello culturale della borghesia capitalistica, facendo così naufragare non solo il sogno di un riscatto sociale ed etico-politico ma anche la prospettiva, sulla scorta del pensiero di Gramsci, dell’egemonia culturale del proletariato. «C’è una tristezza operaia dalla quale non si guarisce che con la partecipazione politica» (George Navel) è l’epigrafe del romanzo; tale illusione s’infrange dinanzi all’incombente crisi dell’ideologia comunista e del socialismo che non permise alla classe operaia di realizzare quella liberazione collettiva auspicata da decenni. Ottieri scalfisce e ridimensiona il mito del proletariato sempre cosciente del proprio ruolo di motore della Storia e pronto a rivendicare inviolabili diritti: la delusione che emerge dalle pagine del romanzo è di tipo post-resistenziale e si plasma nella dura lotta per la sopravvivenza quotidiana all’insegna del compromesso più che dello scontro sociale aperto o della rivoluzione. E dagli accordi sociali, economici, politici messi in atto con la classe borghese padronale e tecnocratica, il proletariato ne esce inevitabilmente sfiduciato, diviso, confuso, fino a rinnegare con il trascorrere del tempo, non più stretto ma mortificante, gli ideali passati. Il proletariato settentrionale imborghesisce. Ma l’imborghesimento è una prova, cui nessuno deve scappare. I partiti di sinistra aumentano di adesioni nel Sud, nel Nord si fermano o arretrano un poco. Dicono che dopo la Lambretta il colpo grosso al comunismo lo darà la 600. Col passar del tempo e il rafforzarsi dell’economia borghese, la sinistra rivoluzionaria corre il rischio della stagnazione e dell’usura. Ma il rischio va corso, per non compiacersi in eterno della miseria. Quando il proletariato tende a migliorare all’interno del sistema capitalistico, essendosi preparato per una rivoluzione che non viene, quando rinuncia al salto qualitativo e cerca l’aumento di salario: allora può venire una crisi profonda, rompersi la solidarietà, nascere la rivolta contro gli scioperi politici, etc. Allora, dobbiamo affrontare questa crisi, non fuggire a ritrovare gli stimoli rivoluzionari nelle aree depresse, a indignarci facilmente. […] Si sostiene che dal punto di vista padronale, non c’è nulla di strano o di nuovo nei ricatti: ma, qualche anno fa, i ricattati sarebbero usciti sbattendo la porta, sentendo la vendetta vicina. La crisi profonda del socialismo, è l’allontanamento indefinito dalla sua realizzazione, che molti, per anni, aspettavano di semestre in semestre. […] La via aziendale alla classe operaia è una via lunga; ma, alla fine, chiusa. O ci trovi, in fondo, il padrone; o, nel migliore dei casi, la tua stessa coscienza e la storia, che la sbarrano. (LG, pp. 217, 270, 291) 27 L’intreccio di Tempi stretti è scheletrico con una trama assai esile: il protagonista Giovanni Marini14 è un giovane trentenne che lavora nei quadri della direzione tecnica della Alessandri, un’azienda tipografica di Milano a carattere familiare senza Commissione Interna e sempre sull’orlo della liquidazione o della vendita. Conosce Emma «di corpo graziosa, la testa un po’ pesante, gli occhi marrone chiaro» (TS, p. 35), un’operaia venuta da Roma che vive nello stesso appartamento di Giovanni; tra loro la simpatia iniziale si trasforma in affetto e poi in amore senza tuttavia concludersi nel matrimonio sperato dalla ragazza. Giovanni è infatti attratto da un’altra donna, Teresa «bionda, giovane, morale» (TS, p. 33), alto-borghese amica di famiglia che si erge a sua protettrice ma con la quale egli riuscirà soltanto a portare avanti un mellifluo corteggiamento. L’interesse, o meglio la maturazione di Giovanni nel corso del romanzo convoglia sulla condizione operaia che può osservare da un punto di vista privilegiato: egli lavora nei piani alti della fabbrica essendo impiegato nella direzione tecnica. L’essenza della narrazione s’incentra sul mondo operaio dove si sviluppa, in un clima sempre più vigoroso e concitato, la vita nella fabbrica, o meglio nelle fabbriche giacché la scena del romanzo si sposta dalla Alessandri alla Zanini alla Smai, in una fase stagnante di sviluppo mentre si prospettano centinaia di licenziamenti. I problemi quotidiani vissuti all’interno dei tre stabilimenti, distinti per produzione, sono gli stessi: lavoro alienante, esaurimenti nervosi, incidenti, salari bassi, timore di licenziamenti, cottimo mal retribuito, tempi sempre più stretti, rivendicazioni sindacali, interessi politici, miopia dei padroni, scioperi, degradazioni d’impiego. Inoltre in ogni fabbrica, classico microcosmo dove si sa tutto di tutti, si constata una fauna di personaggi alquanto dubbi come spie, adulatori, ipocriti, delatori, e dove la solidarietà umana appare, nel migliore dei casi, estemporanea e isolata. Ottieri filtra nel protagonista del romanzo, Giovanni Marini, numerosi elementi autobiografici da correlare con alcune pagine della Linea gotica scritte durante la stesura di Tempi stretti. In primo luogo Giovanni lavora in un’azienda tipografica come Ottieri che è impiegato nella rivista «La scienza illustrata», ha gli stessi anni (trenta) dello scrittore, è impiegato in un reparto dirigenziale, non ha maturato alcuna esperienza di fabbrica prima di allora, ha origini toscane, non ha partecipato né alla Resistenza né alla guerra, si è trasferito a Milano alla fine degli anni Quaranta, ha lavorato per un giornale di sinistra, e nella sostanza è un borghese proprio come Ottieri. Nella direzione tecnica […] Giovanni era ancora un ragazzo. […] Ogni volta Giovanni ricordava il mangiare della Toscana, da cui era partito molti anni fa. […] Per circostanze del suo paese e della sua 14 Nel chiamare Giovanni il protagonista, in parte autobiografico, del romanzo, Ottieri rende omaggio a un giovane operaio conosciuto nel primo periodo dell’esperienza milanese: «Fui invitato da Giovanni, / il giovane / industriale massimo / della Lombardia. / Voleva scriver poesia. / Voleva entrare / in mondo letterario. / Io volevo in industriale. / Lo scambio riuscì male». (PSI, p. 31) 28 famiglia, e anche per l’età, Giovanni non aveva fatto né la Resistenza né la guerra; per questa ragione, per conoscere il nuovo mondo nato dalla guerra, era voluto uscire di casa appena finite le scuole, mentre una rivoluzione rallentata e rientrata scuoteva nel dopoguerra lui e il suo paese. Arrivato a Milano negli ultimi mesi del 1946, trovò da correggere le bozze in un giornale rosso, che in quegli anni aumentava la tiratura approfittando della moda socialista. Ma dopo aver imparato quel mestiere ed essersi messo in buona luce, non divenne, come tanti suoi colleghi, un giornalista. (TS, pp. 16, 26, 32) L’episodio dell’impiego di Giovanni presso un quotidiano di sinistra rinvia alla breve esperienza di Ottieri all’«Avanti!» dove, nel ’48, scrisse alcuni articoli; questo espediente, come molti altri nello sviluppo della narrazione, serve a Ottieri per costruire un intreccio di rimandi tra il romanzo e il diario autobiografico La linea gotica con cui le interrelazioni sono molteplici. In una pagina del ’49 si legge infatti dell’incontro con un dirigente di un’industria petrolifera per un impiego presso l’Ufficio Stampa; il colloquio sembra andar bene fin quando Ottieri non rivela il suo passato scabroso di articolista per l’«Avanti!» e da quel momento un gelo tombale cala sugli interlocutori mentre le poltrone sembrano distanziare fisicamente i due “avversari”. Dieci giorni dopo l’assunzione mi capita un’altra offerta concreta di lavoro. In un’industria petrolifera. Ufficio stampa. In un grande albergo a colloquio con il futuro capo, che mi riceve nella hall. (Avevo fatto domanda due anni fa, a Roma, e non me ne ricordavo nemmeno). Conversazione gentile fra le due poltrone, sento la buona disposizione nei miei confronti. Lui è nobile – o quasi – e lo sono anch’io. Ci intenderemo per forza. […] Attratto e respinto dalla laurea in lettere, e dall’odore di giornalismo, domanda dove ho scritto. Dico varie riviste letterarie, qualche racconto, un saggio… Due o tre articoli sull’Avanti! Si è rabbuiato, si stacca. Le poltrone si fanno lontanissime, il tavolino in mezzo diventa un macigno. «Noi», esclama, «ci troveremo fra non molto dalle parti opposte della barricata. È possibile, le domando, che nel frattempo lei venga a lavorare con me?». Così sovietico non mi ci ero mai sentito, così vicino all’urto. Tento di minimizzare i miei trascorsi. […] Rimprovera la mia vigliaccheria. No, non se l’aspettava. […] L’incontro si è trasformato in presentazione del cartello di sfida. […] «Non conosce forse, proprio lei, le intenzioni della Russia? Non sa quello che deve accadere fra pochi mesi, un anno? Ho comunque il piacere di averla conosciuta». (LG, pp. 44-45) La stessa scena Ottieri la ripresenterà in un passo di Tempi Stretti delegando a Giovanni il ruolo del giovane rampante laureato e ben qualificato, pronto a entrare in una grande azienda ma troppo ingenuo fino a svelare il proprio passato “sovversivo”. Giovanni è invitato da Teresa a una serata mondana per introdurre, da brava protettrice, il suo adepto nell’alta società. Tra gli invitati compare il marchese Prasca, uomo industriale molto influente che potrebbe assumere il giovane nella propria azienda. Ottieri non aveva rimosso l’esperienza così singolare vissuta pochi anni prima con il capo dell’industria petrolifera e ripropone al suo alter ego romanzato l’esito di colpo sfavorevole del colloquio, seguendo pedissequamente le varie tappe dell’incontro dalla conoscenza, all’apprezzamento, l’assunzione ormai raggiunta, lo scivolone nella rievocazione di un evento passato (un Congresso socialista) non proprio edificante agli occhi dell’interlocutore, l’inimicizia incipiente, l’imminente ostilità, le opposte barricate, la minimizzazione dei trascorsi, il cartello di sfida, il rimprovero della vigliaccheria, fino al «piacere di averla conosciuta». 29 Solo nell’angolo, chissà che faceva, sotto una lampada dal largo paralume e l’altissimo fusto, un signore di mezza età fumava appartato, ma disinvolto. […] Era il marchese Prasca, direttore della Micromotori. […] «Noi abbiamo bisogno di giovani. Attraversiamo una crisi… per fortuna… di crescenza. I giovani ci interessano molto». […] «Quando potrebbe ritenersi libero dagli attuali impegni?» chiese il direttore. Dunque lo considerava un suo impiegato, usando già quel particolare tono di comando e di possesso. […] Giovanni decise di parlargli di sé: «Ho partecipato – raccontò – a un congresso di storia dell’industria. Ho letto dei libri; sono appassionato della materia». «Ah, si?», si risvegliò il direttore interessato. «Quali libri?». Giovanni ne citò alcuni, che parvero incontrare l’approvazione di Prasca. «Il congresso mi ha insegnato molte cose», proseguì Giovanni. «Si è tenuto due anni fa a Milano». Il direttore fu toccato da un impercettibile sospetto. «Quale congresso?». «Il cosiddetto congresso di aprile…». «Ma lei sa chi ha organizzato quel congresso?». «Lo so». […] «Allora siamo due nemici. […] Con le sue idee vorrebbe occuparsi di quel giornale di cui le parlavo? […] Adesso stiamo qui insieme. Fra non molto staremo uno da una parte, uno dall’altra della barricata. Con una guerra alle porte, vuole che la prenda con me, con una guerra interna o esterna, in cui ci combatteremo? La Russia…». […] «Per fortuna, marchese, questa guerra è lontana». […] «Mi meraviglio di come lei creda poco nella forza delle sue idee e che debba ricordargliela io. Sono lieto di averla conosciuta, prima che ci separi una linea che del resto non separerà noi soli, ma il mondo». […] «Io lavorerei molto volentieri nella sua azienda. […] La mia è una politica per modo di dire, marchese, io sono un tecnico…». Il direttore lo scrutò duro, meravigliato. Non questo si aspettava, bensì una replica degna del suo cartello di sfida. […] Si levò dalla poltrona e gli strinse la mano prima di raggiungere il salotto, come per l’ultima volta. (TS, pp. 90-95) Gli altri indizi autobiografici che Ottieri fa confluire nel protagonista di Tempi stretti riguardano anche eventi particolari della propria vita, e a volte le situazioni quotidiane si dimostrano più romanzate della stessa fantasia. Ad esempio, Ottieri ricorda in un paragrafo della Linea gotica un fatto accadutogli nel gennaio del ’51, ovvero di una passeggiata tra le foglie morte in un bosco alla periferia di Milano con la moglie: simile situazione la rivive Giovanni con Emma con la passeggiata, la ricerca di un luogo appartato, la difficoltà dell’amore forastico. Ottieri cambia tuttavia i ruoli: ad attendere nel romanzo è la ragazza Emma, e l’espediente della trasfigurazione in personaggi femminili di episodi della sua vita verrà utilizzato dallo scrittore in altre circostanze, emblematico sarà il caso di Elena Miuti la protagonista alter ego in Contessa. Appena la corriera fu in vista del bivio, non vidi nessuno all’appuntamento. Subito cominciai ad agitarmi, a sospettare di aver sbagliato giorno. […] Finalmente ci incontrammo, facemmo una passeggiata per il bosco, d’autunno, sulle foglie morte. […] Fu difficile. (LG, p. 60) Ella aspettava, la borsetta in mano, ritta vicino al muraglione di una grande chiesa moderna e tonda; tremava, dentro di sé: se per caso non aveva sbagliato appuntamento? […] Finalmente Giovanni traversò la spianata davanti alla chiesa. […] Camminarono verso destra, gli unici che sfidassero il freddo da quelle parti, che avessero l’idea di fare una passeggiata sotto il cielo settentrionale. […] Egli la trascinò giù sul prato. […] L’amore era stata una vampa di calore. (TS, pp. 105-109) Quando Giovanni entra in una sezione della Zanini, fabbrica che non contemplava discussioni politiche, Ottieri ricorda i suoi trascorsi «alla sezione socialista / della Pirelli Bicocca 30 nel ’48» (GC, p. 82) appena giunto a Milano, cui segue tuttavia un repentino distacco fino al non rinnovamento della tessera del PSI all’inizio del ’51. Non ho rinnovato la tessera del partito. Non per tradimento. Ma l’impegno di una iscrizione non regge quando non si fa, in qualche modo, vita di partito. La tessera è troppo comoda – o troppo pericolosa – standosene a casa: la tessera di un partito rivoluzionario. (LG, p. 59) Marini vi andò. Di rado aveva frequentato una sezione di fabbrica. Arrivando a Milano dopo la guerra, aveva frequentato le riunioni alla sezione socialista del suo quartiere. Poi si era stancato. […] La sezione socialista della Zanini era bizzarra. (TS, p. 135) Ottieri nel biennio ’57-’58 partecipa a molte riunioni sindacali, di partito e di sezione, tentando di comprendere, come uno speleologo che discende nelle profondità degli argomenti da trattare, la concreta situazione del proletariato di cui tanto, e spesso a sproposito, si parlava. In numerosi passi di Tempi stretti e nella parte conclusiva della Linea gotica Ottieri si propone come microfono delle discussioni riportandole con oggettività sulla pagina, con i propri pensieri a margine. Il quadro complessivo che risalta dalla lettura è impietoso nel migliore dei casi: beghe di partito, discussioni futili, problemi rimandati a tempo indeterminato, promesse non mantenute, liti interne, brusii che accompagnano come un tappeto musicale le assemblee, vittime (come Aldo Comolli nel romanzo) abbandonate al proprio destino per interessi di partito e di potere: «L’amore per il potere è più forte di quanto abbia mai creduto. Ricordarselo sempre, in ufficio e fuori» (LG, p. 275). In un altro passo del romanzo l’autobiografia emerge quando Giovanni viene inviato dall’ingegnere Alessandri a Torino dove resterà per una settimana a gestire gli interessi dell’azienda. Ottieri ricorda i viaggi effettuati da Milano a Torino nel febbraio del ’55 per la Olivetti, l’autostrada, i cartelli pubblicitari, il confronto tra le due città più industrializzate d’Italia. Giovanni fu inviato quel giorno in missione dall’ingegnere a Torino, da un’ora all’altra. Questa esplosione di fiducia lo inebriò, ed egli la scambiava per un’affermazione di libertà. Viaggiava senza pensieri per l’autostrada fra la siepe dei cartelloni pubblicitari, dicendosi: calze, liquori, lubrificanti, macchine utensili, pneumatici, sgranano il rosario delle merci. Ai lati scorrevano i prati verdi e piatti, macchiati da qualche spianata gialla, dagli acquitrini geometrici di risaia. (TS, p. 210) Alla vicina Torino guarda come alla guida. Città industriale pura, con la massima concentrazione industriale, non troppo inquinata da quel groviglio commercialistico che è il vero cuore di Milano. […] Quante volte si corre su e giù per l’autostrada Torino-Milano, come per un corridoio, tra due muri di pubblicità. Sembra alta sulla campagna, lunghissimo ponte. Niente sappiamo delle terre, dei paesi intorno. Ai suoi lati, invece che case, uomini e bestie, sfilano i ritratti delle merci. Calze, liquori, macchine utensili, bruciatori a nafta; dico fra me ogni volta il rosario della produzione, sacrificando come un automa al feticcio merceologico. (LG, pp. 198, 208) 31 Ottieri coglie l’occasione di questi viaggi per esporre le proprie riflessioni su un argomento che negli anni otterrà un ruolo predominante nella società e nella politica italiana: la pubblicità. Lavorando nel «mondo delle carte» e in seguito in un’azienda, Ottieri ha potuto verificare in prima persona il meccanismo complesso e allucinatorio che conduce allo sviluppo incessante del marketing. La pubblicità ai suoi occhi si configura alienante, subdola, feticista, divenendo nelle sue opere un leit-motiv negativo, il paradigma di una società perversa soprattutto quando è la parola a vendersi come una merce, a prostituirsi per il profitto e per gli interessi tecnocratici perdendo in questo modo il suo valore poetico e letterario. Più di tutto aliena la pubblicità. Importantissima, viene in coda al ciclo produttivo, e sembra che alla fabbricazione non abbia partecipato in nulla. […] Si dà fiato a una tromba che manda puro suono, rumore, che gonfia la maschera delle merci e del loro feticismo, coprendo di fumo una fiamma, appunto per questo fumo, invisibile. L’intelligenza applicata alla costruzione di prodotti altrui è meno alienata di quella che si applica alla lode, alla confezione di tali prodotti. La pubblicità sembra stimolante, perché fatta di trovate, di gusto. […] Le parole – per uno avvezzo alle parole – si contorcono di dolore a essere vendute, più dei gesti. (LG, pp. 47, 48) Affinché la narrazione «con una prosa da Zola» (PSI, p. 21) assumesse una sostanza credibile, Ottieri si sofferma spesso sulla descrizione delle ambientazioni e degli esterni, in particolare la periferia nord di Milano che conosce bene dove si respira «la grande necessità industriale» (TS, p. 25) con le sue profonde fratture, gli itinerari immutabili, l’alienazione urbana con abitazioni-lager diroccate in mezzo a stradoni senza orizzonte sotto un cielo eternamente grigio tra una fonderia, un’acciaieria, una tipografia. Ottieri dipinge dei quadretti di realtà industriale attraverso un’esposizione lucida, oggettiva, impietosa del deturpamento del paesaggio laddove le fabbriche annientavano progressivamente la campagna circostante. I moderni fabbricati e i quartieri dormitorio nella periferia milanese si sovrappongono agli antichi borghi con risultati nefasti, mentre l’atmosfera che sovrasta il nuovo ambiente urbano si colora di tinte fosche. Fra mezzogiorno e le due quel tratto di viale, alla periferia nord di Milano, lunghissimo e stretto, che si parte dalla strada esterna di circonvallazione e punta diritto fuori della città, era pieno degli operai di stabilimenti allineati su di esso. […] Tutto il viale è fiancheggiato da muri, da case altissime, da spazi vuoti, mentre gli si aprono intorno prospettive irregolari, o squarci di pianura o edifici incombenti. Si accavallano costruzioni nuove, vecchie e decrepite, come una catena di montagne scoscese, ammassate dall’uomo. […] Qui sta il confine fra la città e la campagna che frastagliato gira attorno a Milano, rientrando, allargandosi, in un’immensa necessità industriale, che sembra disordine, fino a che si placa nei campi padani a perdita d’occhio. (TS, pp. 24-25) Attraverso le accurate descrizioni della periferia milanese, Ottieri riflette sui progetti dei piani regolatori e sul processo di decentramento industriale che, dagli anni Cinquanta, proseguiva a ritmo sostenuto con la chiusura delle fabbriche e il loro trasferimento fuori dell’agglomerato urbano, creando così dei vuoti nel tessuto edilizio. Le cosiddette aree dismesse della grande 32 industria ammonteranno, nei decenni, a diversi milioni quadrati cui si devono aggiungere i buchi lasciati nei vecchi quartieri industriali dalle piccole officine che hanno cessato l’attività o si sono trasferite lungo le autostrade. Ottieri, intuendo l’importanza storico-sociale-urbanistica di queste trasformazioni, ricorda la fase iniziale, quella più confusa, miope, distruttrice del paesaggio. E tra i diversi agglomerati che sorsero nell’hinterland milanese, i quali formavano una cintura a intensa specializzazione industriale, Ottieri si sofferma spesso a descrivere Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, paradigma di una condizione estrema. Anche Sesto San Giovanni, Stalingrado, cittadella rossa, è Italia. È Lombardia e le tracce dello spirito ottocentesco, manzoniano, continuano negli angoli di verde, nascosti nel piccolo ventre sconosciuto e pittoresco del paese. […] La Sesto vecchia è ancora un luogo lombardo con l’acciottolato di sassi, le guide di pietra liscia per le ruote, cortili, palazzi gialli e grigi, vecchie vestite di nero e preti, chiese. Guardando il nord a sinistra, le è cresciuta accanto una Sesto nuova, agglomerato informe dell’ottocento a oggi, prolungamento violento della città, disarmonico, nato intorno a una ferrovia. (LG, p. 74) Non è terminata Milano, che comincia Sesto. La strada, di un lucido acciaio, sale, fa un’ampia curva, scavalca un ponte, si raddrizza e cala su Sesto: un paese, una città, un villaggio massiccio, non si capisce. […] Era una piazza scialba, senza volto. Bisogna inoltrarsi a destra, superando il taglio della ferrovia, per riscoprire la città vecchia, l’antico borgo lombardo. Dentro, esso aveva strade strette, tortuose, con l’acciottolato puntuto di sassi e le guide di pietra liscia per le ruote; vi si affacciano artigiani e botteghe da case ocra a due piani, rurali o una nobiltà paesana finita lontano. Ricompare una chiesa; passano vecchie vestite di nero e preti. […] Camminarono così, per la Sesto nuova: un caos, un prolungamento violento di Milano, nato a cavallo di una ferrovia.(TS, pp. 129-130) L’industrializzazione di Sesto San Giovanni avvenne, all’inizio del Novecento, per opera di imprenditori milanesi, tra i quali Breda, Camona, Marelli, Spadaccini, che portarono fuori dal capoluogo lombardo i propri stabilimenti per vari motivi: necessità di maggiori spazi per imprese più grandi e moderne rispetto a quelle di Milano, costi dei terreni più bassi, maggiore salubrità dell’aria per la lontananza da marcite e risaie che si trovano a sud della città, comodi e frequenti collegamenti con Milano grazie alla tramvia, un agevole collegamento con le regioni del centro Europa per mezzo dei treni soprattutto dopo l’apertura, nel 1882, del traforo del San Gottardo, buone fonti di energia dopo l’inaugurazione della centrale elettrica di Cassano D’Ada, disponibilità di uno scalo merci. Le società che iniziarono la loro attività a Sesto ebbero bisogno di molta manodopera e anche da questo punto di vista la vicinanza a Milano, oltre al fatto di essere attraversata da una ferrovia e da una tramvia, costituì un notevole vantaggio. Per l’attenzione rivolta ai dettagli nel riportare sulla pagina l’atmosfera industriale, Ottieri scrive una lettera a Michelangelo Antonioni accompagnandola con l’invio del romanzo affinché il regista potesse trovarvi degli spunti interessanti da tradurre eventualmente in un film. Caro Antonioni, l’argomento potrebbe interessarla. […] È un tema di fabbrica ancora tabù ma qualcuno mi ha detto che vi si ritrovano degli spunti cinematografici. […] Ho pensato a Lei. […] La sua 33 opera mi ha sempre colpito particolarmente; inoltre in una recensione, un critico ha scritto che vedeva un’affinità tra parti del mio libro e un suo film. (29 maggio ’58) Non meno importanti sono le correlazioni tra La linea gotica e Tempi stretti per le descrizioni proposte da Ottieri all’interno delle fabbriche, tra la denuncia di un dramma e il documento di un’esperienza vissuta personalmente, che confluiscono nel romanzo dove a emergere sono gli operai esclusi dal benessere seppur protagonisti del miracolo. Tra questi, Aldo Comolli interpreta nel romanzo la parabola malinconica dell’operaio specializzato che con l’esperienza raggiunge un posto di riguardo all’interno dell’azienda Zanini in cui lavora, per poi essere retrocesso a manovale per intemperanze sindacali, e licenziato dopo uno sciopero per dare l’esempio a tutti gli altri suoi colleghi, fino all’assunzione in un’altra fabbrica come fattorino. Ottieri riprende pedissequamente una vicenda osservata di persona, quella dell’operaio Molteni suo amico e ricordato in alcuni passi della Linea gotica, che per l’ideale di solidarietà nei confronti dei lavoratori licenziati in una fabbrica sorella, la Smai nel romanzo, getta nella lotta sindacale e politica la propria persona grazie all’autorità riconosciutagli nel campo delle rivendicazioni sindacali oltre che all’appoggio del partito che non lo avrebbe mai abbandonato. Molteni-Comolli invece salirà sull’altare dei martiri dimenticato da tutti, partito e sindacati, disilluso e afflitto dalla realtà incontrovertibile che si poggia su intrallazzi politici, compromessi, volgarità. Ottieri sceglie Molteni come exemplum di una condizione operaia disastrosa non tanto per il lavoro alienante da svolgere ogni giorno, quanto per l’ambiente che circonda i lavoratori posizionati tra l’incudine del padrone e il martello del partito che non lesina sacrifici di uomini, nel senso di lavoratori licenziati, quando necessario. Farà la sua vera carriera politica, itinerario spirituale, il giovane operaio Molteni, meccanico, con gli occhiali, serio, pensante, che dirige il gruppo giovanile della sezione. (LG, p. 59) Aldo era stato promosso, per la sua bravura; da un angolo oscuro dell’officina e dalle lavorazioni in serie Aldo era salito al reparto nobile dello stabilimento, all’attrezzaggio, studiando la sera, il sabato pomeriggio, la domenica. […] Aldo conosceva bene la differenza fra prima e adesso e ne sentiva una oscura gratitudine. E la rivoluzione, alla quale insieme a molti aveva creduto durante la Resistenza e il dopoguerra, in attesa della quale avevano vissuto, non era venuta. Fu rimandata. (TS, pp. 133-134) Comolli era il mio Metello. / Andavo ora a casa sua a cena. / A Comolli piaceva, anche a sua moglie, / più che argomentare la battaglia in Bicocca, / il rapporto coi cugini. (PSI, p. 32) Mentre «la Zanini stava ottenendo il premio di produzione, e la Smai era in sciopero» (TS, p. 213), Aldo, secondo i corretti principi di un’unitaria rivendicazione sindacale, propone di seguire i compagni in lotta per la difesa del posto di lavoro, alla Smai si prevedevano infatti cinquecento licenziamenti, indicendo, con il consenso della base e del partito, uno sciopero alla Zanini. La 34 risposta della direzione dell’azienda non si fece attendere e Aldo, «essendosi questa volta collocato sotto il tiro a zero dei cannoni della Zanini» (TS, p. 220), fu trasferito «per un periodo di tempo indeterminato» (TS, p. 219) in reparti di serie dove, a causa del rumore incessante delle macchine, si è impossibilitati a parlare. Quando c’è malumore tra gli impiegati o gli operai, la direzione agisce spesso seguendo un’efficace regola non scritta: cambia posto ai dipendenti sovversivi con la retrocessione di grado e l’emarginazione. «La direzione deliberò di non spostare il cronometrista, bensì di spostare gli operai, di avvicendare i posti per spegnere la miccia. I ribelli delle presse andavano sparpagliati e rieducati; il reparto rinnovato: vi avevano fatto il covo troppe schiene di vetro» (TS, p. 156). In seguito, l’inevitabile conseguenza sarà il licenziamento per Aldo e a nulla valsero le promesse del partito: «Tu, Comolli, capisci, c’è una ragione politica, tu la capisci, di principio…». «È tutta una questione politica», ripeté Aldo orgoglioso. «C’è una questione di principio che se si trascura… veniamo meno… all’azione sindacale, alla solidarietà… a tutto, insomma, a tutto». […] «Aldo, – disse il segretario – tu non ti troverai mai solo per tutta la vita. Te lo prometto io». «Te lo promette il partito», affermò burocratico il compagno della federazione, suggellando così gerarchicamente la decisione. Aldo era lucido d’occhi, rovinato e fiero. (TS, pp. 251-252) Ma solo l’intervento di Giovanni che rifiuta la propria promozione pur di far assumere l’amico Aldo, raro barlume di umanità in un contesto a dir poco sconfortante, gli offre l’occasione di trovare un impiego in un’altra azienda, la Alessandri, seppur retrocedendo da tecnico specializzato a fattorino. Il fattorino del secondo piano è un operaio meccanico licenziato per motivi politici. I fattorini dietro gli squallidi tavoli – uguali in tutte le aziende della città – con le parole incrociate e un giornale sportivo, al massimo la posta, davanti – consumano il tempo in attesa del campanello. Quanti ne ho visti. (LG, p. 63) Comolli […] essendo un fattorino […] non indossava la tuta, ma la divisa col berretto: questa fu una pena. […] Come meccanico aveva sperato di occuparsi dell’automobile dell’ingegnere, oppure della manutenzione del macchinario. […] Ma cosa pensava leggendo il giornale sportivo, riempiendo le parole incrociate? (TS, p. 294) Nel rendere manifesto l’occultato industriale, Ottieri fa emergere nel romanzo quelle storie proibite che, pur avvenendo con frequenza nelle fabbriche, sarebbero rimaste sepolte nella segretezza tra le macchine e gli uffici se non ci fosse stato l’occhio indagatore di uno speleologo che le avesse riportate alla luce. L’evento più drammatico Ottieri lo ricorda nel ’51 quando lavorava ancora per «La scienza illustrata», e si tratta del suicidio di Arnaldo F. trasformato in Tempi stretti nell’operaio Ambrosini. Ottieri indugia molto sui particolari curiosi, grotteschi, addirittura ironici della morte individuando, nella rassegnata accettazione dell’evento da parte dei colleghi, l’aspetto più malinconico; più delle motivazioni, si cercano ipotesi oscillanti tra il pettegolezzo e l’ipocrisia 35 del ricordo, mentre le immagini che restano impresse si riferiscono a un treno in ritardo. Il tono utilizzato dallo scrittore è oggettivo e senza partecipazione emotiva, così che la descrizione dell’episodio si struttura come un rendiconto giornalistico di cronaca nera. Tale modus operandi, con la semplice descrizione del luogo, dell’ora e dei protagonisti, si ritroverà altresì in Donnarumma all’assalto e nel Campo di concentrazione nelle pagine in cui Ottieri racconta i tentati suicidi avvenuti nella fabbrica di Pozzuoli o nella clinica di Zurigo. Fin dalle Memorie adolescenziali il suicidio è un motivo ricorrente nelle sue opere e nell’Irrealtà quotidiana viene analizzato in modo così minuzioso da divenire un fatto normale, un evento quasi inevitabile per chi lo compie, ma anche per chi lo osserva, come l’unica vera alternativa possibile a una «vita che non è degna di essere vissuta» (CC, p. 226). Entrando nello stabilimento tipografico dove impagino, il posto della prima monotype a destra è vuoto. Ci lavorava battendo freneticamente con le dita e liberando gli scatti della monotype – come una macchina da scrivere a mitraglia – Arnaldo F. che si è suicidato l’altro ieri venerdì. Atteso l’intervallo, a mezzogiorno e cinque minuti, è uscito dallo stabilimento in bicicletta con tutti gli altri. Era un giovane di trentaquattro anni, ammogliato, con una bambina di sei anni. Invece di pedalare verso casa per la colazione, è andato sulla linea ferroviaria, la Milano-Torino. Ha aspettato il direttissimo dell’una e venti in arrivo da Milano. […] Ha dovuto attendere, perché il treno viaggiava in ritardo. […] Viene fuori che aveva un’amante, la quale lo succhiava vivo, che non sapeva liberarsene. […] La mattina del venerdì fu visto spesso trattenersi al gabinetto per fumare. […] Era un operaio molto bravo. Di rado faceva sbagli. (LG, pp. 66-67) «Hai visto il posto vuoto?». «E dove?». «Il primo dei torni. Non hai visto che manca uno? Non ci vorrà andare nessuno». «Lo hanno licenziato? Che ha fatto?». «È morto». «Quanto era vecchio?». «Ma no, era Ambrosini. Si è ammazzato. […] Ieri, proprio a quest’ora. All’una e un quarto». «E come ha fatto?». «Ha aspettato il treno. – disse Anna naturale – E il treno era in ritardo». Chissà quanto ha dovuto aspettare, rifletté Emma. «Ora il caposquadra – fece Anna ironica – dice che era il più bravo di tutti, che proprio non si capisce com’è successo. […] Ma lo sanno tutti che aveva due donne. […] Ieri mattina è andato cinque volte al gabinetto. Credevano che fosse malato di stomaco. Poi è uscito in bicicletta a mezzogiorno». (TS, pp. 48-49) Nel romanzo, oltre a Emma, emerge un altro personaggio femminile che si distingue per alcune vicissitudini occorse durante l’orario di lavoro: si tratta dell’operaia Dell’Orto sulla quale Ottieri proietta caratteristiche di alcune lavoratrici osservate e ricordate sia durante l’impiego alla «Scienza illustrata» che alla Olivetti. Nel primo episodio, la Dell’Orto riceve dei fiori direttamente nello stabilimento, fatto davvero inusuale per un’operaia al lavoro, facendo scatenare le congetture più irriverenti, tra cui un amante segreto che la donna provvede a stemperare con la rivelazione del proprio compleanno: i fiori le furono portati dalla nipotina come regalo. Tuttavia nessuno sembra crederci. L’altro giorno era la sua festa; ebbe un quarto d’ora di permesso per ricevere in portineria la nipote. Ecco perché, appena tornata, appoggiò sul banco un mazzo di fiori chiusi dentro una scatola di cellophane. Saranno state le 18 e un quarto. Si aspettava la sirena. Ecco perché era così pettinata, come se la testa e il lavoro del parrucchiere si salvassero, alti, nell’officina. Pareva una signora che facendo il bagno tiene il capo 36 dritto fuori dalle onde. Solo le unghie la tradivano: avevano rimasugli di smalto rosso, affioranti dallo sporco dell’olio, luccicanti nel mare grigio dei pezzi. (LG, p. 217) Quella sera la Dell’Orto ebbe un permesso di dieci minuti per recarsi in portineria: ciò è sempre una novità. […] Tornò con un mazzo di fiori incartato nel cellophane e lo depose di fianco alla sua macchina. Solo lei poteva portare fiori in officina. Avvertì in giro: «Me l’ha portato la mia nipotina». Si agitava. Tutti sbirciavano verso di lei impaziente di uscire, ben pettinata, ondulata, lo smalto delle unghie affiorante sotto le macchie d’olio nelle piccole dita, davanti ai fiori. Aveva un appuntamento? Altro che nipotina! (TS, p. 80) La Dall’Orto è la protagonista inoltre dell’evento più piccante del romanzo, quando durante la pausa mensa viene sorpresa in un ufficio a scambiare effusioni sospette con l’operaio Sestetti (una scena simile Ottieri la ricorderà anche nei Venditori di Milano). A seguito della delazione di una guardia che li aveva colti sul fatto, l’uomo viene licenziato mentre la donna subisce, come castigo, la retrocessione alle presse. Una domanda tuttavia sorge lecita oltre la condanna, e Ottieri forse un po’ ironicamente se ne fa portavoce: se la fabbrica assorbe quasi tutta la giornata di operai e operaie, tra il lavoro in media di dieci o più ore e il viaggio andata e ritorno per arrivarci, dove come e quando si potrebbe fare sesso? Trovo un amico che racconta che fra l’una e le due, durante l’intervallo, gli operai e le operaie vanno a fare l’amore negli uffici vuoti. Per spregio. (LG, p. 195) Un giorno di febbraio, nell’intervallo della mensa una guardia pescò la Dell’Orto nel razionale ufficio dell’ingegner Bonacina – da questi lasciato in perfetto ordine, il tavolo sgombro, le sedie allineate – scompigliata e riversa in una poltrona sotto il bacio profondo di un uomo. […] La voce che certi operai per incoscienza o peggio per spregio dopo mensa usassero gli uffici vuoti per farci l’amore, già circolava. (TS, p. 158) In ultimo, Ottieri concede una malinconica standing ovation alla povera Dell’Orto che, in un momento di distrazione, si taglia un dito alle presse. L’evento sarà ricordato anche in alcuni versi del Padre evidenziando nuovamente la stretta correlazione tra un episodio osservato nella realtà e il ricordo scaturito che diventa materia da romanzo o poesia. Verso le undici e mezzo dal posto della Dell’Orto fu cacciato un urlo umano e più forte, più acuto dei colpi impastati delle presse e che sovrastò il rumore di tutto il salone. La Dell’Orto svenne ed Emma la vide giù per terra. Dopo qualche battito di esitazione le macchine del reparto si arrestarono una per una; e in quell’oasi di silenzio la Ratti si precipitò sopra la ragazza cauta che si era mozzata un dito e spargeva un ruscello di sangue. […] Il vicesegretario della sezione socialista proferì a mezza bocca, astioso ma solenne quasi soddisfatto: «Un altro infortunio. Troppo spesso il sangue su queste scale». Quindi proseguì sdegnato. (TS, pp. 166-167) L’ufficio pubblicità / di un’azienda metalmeccanica, / S. Pietro del proletariato, / è il luogo dove, a colori, / si svergogna il bianco e il nero / della fabbrica, non allegra, triste, / del rapporto non bello, misterioso, / uomo-macchina, / fra l’operazione e la pressa che, / se l’operaia si distrae, / le mozza un dito. (PAD, p. 67) 37 Il ricordo serve a Ottieri per illuminare quegli episodi eclissati nei meandri della fabbrica, i quali una volta sulla pagina rendono la narrazione più romanzata; espediente che Calvino, Vittorini e Pasolini gli rimproverarono unanimemente. Essendo un romanzo industriale, tuttavia, e Ottieri vi aveva a lungo riflettuto, quelle parti borghesi considerate inutili o anche dannose al contenuto dell’opera avrebbero potuto al contrario avvicinare meglio il lettore a un confronto più aperto e meno rarefatto con il testo. Inoltre Ottieri procedeva seguendo un percorso ben preciso: osservazione dal vivo, partecipazione, resoconto sul diario, estrapolazione degli episodi più interessanti, stesura dell’opera. Da questo procedimento si comprende in modo chiaro la quasi perfetta corrispondenza tra alcune pagine della Linea gotica con i passi simili del romanzo per quanto riguarda gli eventi curiosi, anomali, drammatici, sui quali egli indugia nei dettagli offrendo pertanto una narrazione realista del dato complessivo. Per riassumere gli aspetti eterogenei che formano, nel loro insieme, la struttura portante di qualsiasi fabbrica, Ottieri ritiene necessario caratterizzarne l’essenza con un’immagine rappresentativa ed efficace: il manicomio. In primo luogo per la forma architettonica siccome molto spesso una fabbrica sembra assumere i connotati di una clinica per le suddivisioni interne in varie zone, dai piani alti dirigenziali a quelli impiegatizi fino alle fucine infernali. E come in un manicomio gli operai vagano senza alcuno scopo apparente, alienati dal lavoro e dal prodotto cui partecipano in modo settoriale che scaturisce; le conseguenze più dirette sono sintomatologie classiche: follia, pazzia, esaurimenti nervosi, nevrosi, alienazione: «Pei manicomi grigi / erra il proletariato» (PSI, p. 34). A giudicare la fabbrica dall’ufficio delle assistenti sociali e dall’infermeria, la fabbrica sembra un manicomio. La follia industriale impazzisce. Si spendono cifre enormi per l’assistenza. […] Il medico racconta che ogni primavera si ha una crisi generale: esaurimenti nervosi di impiegati, operai, dirigenti; la casa di cura e il sanatorio senza più un posto libero. (LG, pp. 232-233) Vi furono parecchi crolli di uomini e donne. I medici prescrivevano montagne di scatole di iniezioni ricostituenti; dilagava l’èra degli esaurimenti nervosi, iniziata con la primavera. […] Nelle ore vuote anche qualche direttore scendeva in infermeria, inebriato ma reso perplesso dalla fatica industriale: per costruire prodotti, tutta questa ira di Dio? (TS, p. 296) Non appena uscito nelle librerie sul finir dell’estate del ’57, Tempi stretti riscosse un notevole consenso da parte della critica soprattutto tra coloro che attendevano da molti anni un romanzo che trattasse direttamente il tema del lavoro nelle fabbriche, ma meno dai lettori, un refrain per quasi tutte le pubblicazioni di Ottieri. Nell’epistolario di Ottieri si conservano numerosi interventi di rilievo come quelli del poeta Giovanni Giudici che si sofferma sulla necessità di una condivisione politica al fine di sopprimere la servile condizione degli operai. 38 Caro Ottieri, il valore documentario di cui tu stesso mi dicevi non mi sembra essere l’aspetto essenziale: piuttosto si potrebbe pensare che sia un aspetto limitativo della verità dei personaggi che, specie per quanto riguarda gli scorci politici, vengono necessariamente assunti in una luce, verbigrazia, emblematica, correndo il rischio – sempre provata in una narrazione sostenuta da forti interessi morali – di diventare prima simboli che personaggi. Assai bella in sé – per se stessa, per il loro vigore rappresentativo – le pagine sul lavoro degli utensili, i cottimi etc. […] È vero che «c’è una tristezza operaia dalla quale non si guarisce che non la partecipazione politica»: e in questa chiave la partecipazione politica diventa il motivo liberatore, collettivamente, di situazioni personali sofferenti di limiti esterni e interni. […] Mi dicesti che il romanzo si sarebbe chiamato Le schiene di vetro; sarebbe stato meno giornalistico e più aderente anche alla sostanza morale; forse, tuttavia, meno digeribile a prima vista dal lettore comune. (22 settembre ’57) Anna Garofano sottolinea il valore estetico del romanzo, fondamentale per aprire un capitolo di storia letteraria in cui la fabbrica possa essere rappresentata dall’interno, scendendo finalmente dalla «torre d’avorio» in cui si sollazza una parte della cultura italiana efficientemente cortigiana. Caro Ottieri, è un libro moderno, utile, interessante, consultivo e insieme un bel romanzo. Lei ci ha dato lo specchio della vita di fabbrica senza demagogia, ma con la necessaria durezza e severità. In molti punti ho ritrovato l’emozione de La condition ouvrière di Simone Weil. Il discorso ci potrebbe portare, adesso, alle relazioni che passano tra letteratura e industria e ai motivi che un vero scrittore può trarre da un ambiente di lavoro tanto diverso dagli ideali convenzionali, dagli esuli nella torre d’avorio. (21 ottobre ’57) Cui segue una risposta di Ottieri: Cara Garofano, per me è importantissimo quanto lei dice sui rapporti tra letteratura e industria, anzi, è la cosa più importante. Quasi mi basterebbe – indifferentemente dal valore letterario, che è discutibile, lo so – che il mio libro servisse ad avviare quel discorso di cui lei accenna nella Sua lettera; tanto tale discorso ci sta a cuore. (26 ottobre ’57) Anche Michele Prisco riconosce la novità apportata da Ottieri nel panorama letterario italiano coinvolgendo gli operai in modo realistico, anche se il romanzo non ha avuto molto successo come avrebbe meritato. Caro Ottieri, la lettura del tuo romanzo Tempi stretti mi ha appassionato molto […] soprattutto quando si trattava della scena delle fabbriche, dei dialoghi fra gli operai etc. Mi pare che dopo questo tuo libro io guardi diversamente gli operai intorno a me, che vedo per strada o nei treni. […] Il tuo libro mi sembra una cosa importante. […] Ma ho tuttavia il dubbio che il libro non abbia sfondato come veramente meritava. (27 novembre ’57) Infine Ottieri invia a Giulio Davico le bozze corrette di Tempi stretti per la seconda edizione che uscirà nel ’64 ancora per Einaudi, rimproverandosi di una scrittura insoddisfacente nella prima stesura che sembra aver corretto; anche se il valore essenziale del libro resta la denuncia sociale della condizione operaia che dal romanzo riesce a proiettarsi nella realtà. 39 Caro Davico, pur non avendo fatto nessun mutamento essenziale, vedrai che le correzioni sono parecchie: cioè ho fatto un indispensabile lavoro di ripulitura. Così com’era, il testo mi faceva venire la pelle d’oca. Mi dispiace non averci pensato prima: si poteva risparmiare qualche giro di bozze, ma purtroppo l’ispirazione alle varianti segue le bizzarre leggi dell’ispirazione. […] Sono abbastanza soddisfatto, in questo momento, dei Tempi stretti. Il romanzo è rimasto quello che è, di natura moralistica, populistica, sentimentalistica, ma la sua efficacia sociologica è sempre molto attuale (per esempio, alla Olivetti sono accadute ultimamente cose somigliantissime a vicende aziendali del libro). (11 settembre ’64) La coraggiosa scelta di Ottieri di ambientare il romanzo in una fabbrica riscuote notevole attenzione anche all’estero, soprattutto nelle Democrazie popolari satelliti dell’Unione Sovietica. Già pochi mesi dopo l’uscita del libro in Italia, a Mosca si richiedevano pubblicazioni proletarie e realiste per eventuali traduzioni: Tempi stretti entrerà nel novero tuttavia senza andare oltre il primo interessamento. Caro Strada, ieri a Torino, da Einaudi, Foa e Calvino mi hanno detto che il mio libro Tempi stretti è stato richiesto, e con una certa insistenza, dall’Unione Sovietica; e mi hanno fatto il Suo nome. Della cosa si occupano loro come casa editrice, ma siccome mi interessa molto e mi sta molto a cuore, mi permetto di scrivere a lei per quanto potesse fare. Non so se la richiesta russa è a titolo puramente informativo o se riguardi una eventuale traduzione; comunque in ambedue i casi (e soprattutto nel secondo!) io avrei piacere che l’iniziativa avesse un suo svolgimento. (3 febbraio ’58) Da Mosca, Strada parla della possibilità di una traduzione in lingua russa di Tempi stretti, anche se le direttive dei soviet per pubblicare un’opera straniera sono molto particolari. Caro Ottieri, vorrei consigliarne caldamente la traduzione ai consulenti editoriali sovietici che mi chiedevano i titoli delle ultime e più interessanti opere letterarie italiane. […] La relazione del consulente e dell’editore sovietico dovrebbe essere sostanzialmente positiva. Ma i canoni locali per giudicare della vivezza e attualità di un’opera letteraria non sempre collimano con quelli correnti da noi. Ed è naturale. (20 febbraio ’58) Tempi stretti verrà tradotto in bulgaro grazie al lavoro di Violetta Dascalova, studiosa di lingua e letteratura italiana, che seguendo il protocollo vigente allora in Bulgaria riuscì a far pubblicare l’opera senza molti contrattempi; anzi con una sorprendente tiratura di migliaia di copie e un compenso per Ottieri elevato in proporzione addirittura maggiore rispetto all’Italia. Egregio Signore, sono lieta di avvisarLa che ho tradotto in bulgaro il Suo Tempi stretti e l’ho consegnato alla nostra casa Editrice di Letterature straniere. Probabilmente Lei è informato che da noi le case Editrici sono nelle mani dello Stato e l’interprete non può trattare con gli autori prima di cominciare la traduzione. Insomma, Lei deve attendere la proposta da parte della casa Editrice sulla quale io non so scriverLe niente. (16 marzo ’62) Egregio Signore, la Direzione per la difesa dei diritti d’autore, Piazza Slavaikov 11, ha inviato nel giugno ’63, attraverso il Banco di Roma al Suo Editore Einaudi una somma di 318.730 lire italiane. […] Il Suo libro ha in Bulgaria una tiratura di 25000 copie. (25 settembre ’63) 40 Infine, si ricorda un intervento di Vlaimiro Cajoli all’editore Bompiani sulla ristampa di Tempi stretti alcuni anni dopo la prima apparizione del romanzo: Caro Valentino, Tempi stretti mi ha fortemente impressionato: è forse il solo libro che parli di vita operaia, riuscendo a interessare profondamente lettori borghesi (e scoglionati) come me. Quando ne avremo di più, dico di Ottieri e di libri come questo, capiremo e ameremo meglio. (26 novembre ’67) I.3 Donnarumma all’assalto Donnarumma all’assalto15, il terzo “tempo” industriale di Ottieri, scaturisce dall’importante esperienza vissuta a Pozzuoli come selezionatore del personale nella nuova fabbrica Olivetti, dopo che l’ingegner Adriano Olivetti, preoccupato per la malattia (meningite tubercolare) che colpì lo scrittore nel ’53, gli propose il trasferimento in un luogo più salubre rispetto a Ivrea e Milano, ovvero Pozzuoli dove la Olivetti aveva da poco costruito una fabbrica davanti al mare: «Così, di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto alla bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno» (DON, p. 117). Un gioiello di architettura rispettoso del paesaggio e con una rivoluzionaria per quei tempi politica del personale attenta a una proficua integrazione con la popolazione lavorativa, intesa nell’insieme di operai e delle loro famiglie. Lo stabilimento è sorto come un’officina, un reparto staccato dagli stabilimenti centrali. Piuttosto che allargare questi, nel nord, con un nuovo edificio, la costruzione è stata trasportata nel Mezzogiorno. Non è un capannone: l’architetto ha progettato una delle più belle fabbriche d’Europa, colorata, circondata da un giardino; e intorno a essa l’infermeria, la biblioteca, la mensa. Vi nasce un mondo unitario, caduto dall’alto nelle sue forme, ma per affondare nella terra e nello spirito di questo paese. (DON, p. 7) Adriano Olivetti, un / ingegnere che invece di / ristrutturare, strutturava, / costruì a Pozzuoli una / fabbrica sul mare, che / sembrava, fra le piante, un / albergo gentile. Olivetti, / l’unico vero ambientalista / italiano, credo ignorasse la / vita ecologica. (QM, p. 7) 15 Uno dei primi titoli pensati da Ottieri fu Una fabbrica sul mare che riproporrà anni dopo in Contessa per il romanzo scritto dal suo alter ego femminile Elena Miuti, ma Valentino Bompiani, editore dell’opera e «grande inventore di titoli» come lo definisce Ottieri ne Gli ultimi eccentrici (p. 234), pensò che sarebbe stato meglio indicare nel titolo il nome di un disoccupato senza qualifiche, Antonio Donnarumma, disposto a tutto pur di entrare nella luminosa fabbrica aperta nel suo paese (Pozzuoli) senza retaggio industriale: da cui appunto Donnarumma all’assalto. Per quanto riguarda i cambiamenti dei titoli, anche per L’impagliatore di seie Bompiani intervenne sostituendo l’originario La settimana corta voluto dall’autore: «È andata sempre così con i miei libri: metto un titolo e l’editore è certo, con quel titolo, di vendere una decina di copie. Padre che io abbia la tendenza a titoli non brutti, ma masochistici» (IMP, p. 7). E infine «Valentino Bompiani mi ha suggerito il titolo di Improvvisa la vita» ne Gli ultimi eccentrici, p. 234. 41 Faceva una politica del personale, […] faceva ambientalismo / quando non sapevamo che fosse. / Costrusse una fabbrica sul mare / davanti a cui i turisti si fermavano / credendo che fosse un grande albergo. (PAD, pp. 68-69) Volendo coniugare in una felice sintesi razionalismo e mediterraneità nel territorio flegreo di elevata qualità ambientale, Olivetti promosse e rese possibile un’idea sorprendente anche grazie alla collaborazione di Pietro Porcinai e Marcello Nizzoli che hanno creduto nel progetto e dato un contributo essenziale alla sua realizzazione. Una storia che ha le sue profonde radici negli anni Trenta durante i grandi dibattiti teorici per eventuali straordinarie fabbricazioni; ma soprattutto nel dopoguerra, durante la ricostruzione del paese dalle macerie del conflitto bellico, si progettarono su basi più avanzate le effettive esecuzioni di nuove idee. Erano anni di grandi speranze e di forte impegno civile e morale, anche se gran parte delle occasioni andarono perdute o disperse, e il territorio, quello napoletano in particolare, subì la violenza devastante delle “mani sulla città”. Costruire una fabbrica moderna si rivelava un’opportunità formidabile e nel ’51 l’architetto Luigi Cosenza accettò con convinzione ed entusiasmo, divenendo per lui una ragione di vita oltre che una sfida contro l’incultura che continuava a manifestarsi anche dopo la costruzione della fabbrica. Il tempo di realizzazione dell’edificio fu breve e i lavori si conclusero nel ’54, così che nell’aprile ’55 si svolse l’inaugurazione ufficiale della fabbrica con vista mare. Ottieri, il primo marzo del ’55, «Marzo – Lunedì. Sono entrato per la prima volta, all’improvviso, nel laboratorio psicotecnico» (DON, p. 9), con la moglie Silvana Mauri e la figlia Maria Pace si trasferisce a Pozzuoli dove ha inizio per lui un periodo molto intenso e felice, con la riscoperta del Sud di cui conserverà per tutta la vita una grande nostalgia. Si tratta, infatti, di una vera e propria riscoperta poiché Ottieri aveva conosciuto il sud, inteso nelle zone di Pozzuoli, Torre del Greco, Cava dei Tirreni e dintorni, alla fine degli anni Quaranta grazie alla conoscenza di un’amica di famiglia, la scrittrice Clotilde Marghieri che viene chiamata in modo familiare Rella nelle numerose lettere scambiate tra il ’44 e il ’60. Ottieri la incontra la prima volta nel ’43 nella casa romana della Marghieri svolgendo lezioni private di Italiano e Latino alla figlia Lucia: «Cara Rella, si ricorda del remoto autunno del ’43 quando venni in divisa a far lezione a Lucia? Beh, quattro anni fa! Una bella amicizia la nostra di cui vado fiero. E la ricordo sempre con molto affetto» (Marzo ’47). Lo scrittore instaura con Rella una profonda amicizia raccontandole, anche nei dettagli, alcuni eventi importanti della propria vita come la malattia, il desiderio di lasciare Roma e la famiglia, il trasferimento a Milano e le difficoltà di adattamento in una città poco amata, i lavori nell’ambito letterario, la conoscenza di Silvana Mauri, gli esiti positivi delle prime pubblicazioni, l’assunzione alla Olivetti e il periodo di stage a Ivrea, la nostalgia per il sud, i dubbi se restare a Pozzuoli o tornare a Milano, la difficile edizione di Donnarumma, la nascita del figlio 42 Alberto. Anche la Marghieri si confida intimamente a Ottieri e nelle lettere si rivela un rapporto di solidarietà nella solitudine esistenziale e nella depressione delle loro vite: Cara Rella, il mio peggior nemico è il tempo. Io non so mettere pace tra passato, presente e futuro. […] Bisogna abituarsi a star male, visto che non si può stare meglio. (Dicembre ’44) […] Il nostro errore (cioè, il nostro male) è l’aver scatenato il pensiero fino al punto di non saperlo trattenere più; esso si trasforma così in ossessione, e non è più pensiero. Qualsiasi uomo deve soggiacere al logorio del pensiero scatenato; non si tratta, come lei accenna, della sua natura femminile: anche un Ercole ne verrebbe schiacciato. (Luglio ’47) […] Noi produciamo sempre un destino difficile. (18 agosto ’56) Grazie alla conoscenza della Marghieri e ai frequenti soggiorni alla casa di Torre del Greco, Ottieri può visitare il sud e innamorarsene, così che quando Olivetti gli propone il trasferimento a Pozzuoli, Ottieri risponderà in modo positivo anche per il ricordo e l’affetto provato per quei luoghi: «Nel maggio [’54], partenza per Torre del Greco. Di nuovo, questo dolce affacciarsi sul sud. Per contrasto, faccio molte letture sulla psicologia operaia settentrionale» (LG, p. 171). In una lettera dell’ottobre ’54 lo scrittore confida alla Marghieri il progetto di trasferirsi a Pozzuoli e, nell’intento di trovare un’abitazione in affitto, per l’occasione vorrebbe farle visita con uno scalo a Torre il 5 novembre. La casa di Torre vivrà periodi tribolati per la complicata gestione di due abitazioni, insieme a quella di Roma, da parte della famiglia Marghieri, e dopo alcune titubanze la villa sul mare di Torre del Greco dovrà essere venduta, a metà degli anni Sessanta, con grande rammarico di Ottieri. Quando arriva a Pozzuoli, dunque, Ottieri non è inesperto dei luoghi e l’immersione nel sud gli permette di analizzare dal vivo due aspetti molto importanti: l’industrializzazione e la questione meridionale. Durante i nove mesi di permanenza nello stabilimento, da marzo a novembre del ’55, Ottieri registra su un diario quell’importante esperienza di vita e di lavoro evidenziando alcuni elementi che struttureranno Donnarumma, non a caso pensato e poi sviluppato in forma diaristica, quali lo squilibrio storico e sociale nel sud Italia durante l’industrializzazione forzata nel boom degli anni Cinquanta, il dramma dell’analfabetismo, il mutamento antropologico di chi abbandonava le terre per il miraggio della fabbrica, gli ingranaggi infallibili della psicotecnica16 che esamina un popolo intero. Lo spunto autobiografico e la necessità di esporre, come un sociologo, la condizione operaia del Mezzogiorno spingono Ottieri a scrivere un nuovo importante capitolo, dopo Tempi stretti, della letteratura industriale italiana. Tuttavia la pubblicazione di Donnarumma si rivelerà irta di ostacoli a causa dei troppi elementi che coincidevano tra il romanzo e la reale fabbrica Olivetti di 16 La psicotecnica, o psicologia applicata, può essere definita sinteticamente come «arte della mente», derivando dall’unione delle parole greche ψυχή, «anima», «mente» e τέχνη «arte». La psicologia applicata fa parte di un settore della psicologia che, servendosi delle elaborazioni approntate a livello teorico dai vari orientamenti e da diverse scuole psicologiche, nonché dai modelli di riferimento forniti da altre discipline, ricava tecniche e modalità operative per intervenire su problemi concreti, individuali o collettivi, che possono riguardare tutti gli aspetti del comportamento umano. 43 Pozzuoli, la quale, secondo le valutazioni del Direttore dello Stabilimento Rigo Innocenti, avrebbe avuto una pubblicità negativa da un’opera così veristica. Egregio Dottor Ottieri, desidero premetterle che il mio giudizio non è evidentemente un giudizio estetico in quanto che non ritengo di poterlo dare. Per quanto riguarda il punto di vista aziendale, a mio parere il lavoro non è pubblicabile poiché dà un quadro di un momento di un lavoro completamente isolato da qualsiasi altro fatto della vita aziendale, per cui mi sembra che ne risulti solamente la Sua angoscia nell’effettuare questo lavoro di selezione e lo smarrimento nelle persone selezionate. […] Un documento come il Suo potrebbe essere facilmente oggetto, a mio parere, di speculazione da qualunque persona che in malafede volesse attaccare la politica della nostra azienda. (22 aprile ’58) Caro Innocenti, ho scritto il libro per un motivo essenziale: la mia disposizione d’animo positiva rispetto al mondo di Pozzuoli, alla mia esperienza in esso; alla fabbrica e al paese. Una disposizione con radici profonde, di idee autobiografiche, che Lei in parte conosce, legata poi a una particolare nostalgia e gratitudine. Ho intrapreso il libro con quello che pensavo la garanzia di tale mio atteggiamento morale, verso lo Stabilimento e verso il sud (o più di una garanzia: un’adesione sentimentale). […] Intendevo portare un contributo positivo alle ragioni difficili, ma non misteriose, dello Stabilimento, giustificare perché, a esempio, di fronte a una marea di domande, si debba assumere poco e solo razionalmente. Se mai, rigettavo la colpa sulle deficienze dello Stato; e ponevo la vostra azienda nel punto più alto di coscienza e di responsabilità, di sforzo per il meglio. Il male che c’era lo dimostravo storico, non aziendale. […] Così volevo anche recare un contributo alla comprensione del Mezzogiorno in quanto credo che la Bassa Italia si difenda meglio accettandone certi difetti che nascondendoli. […] Ho dovuto puntare il libro invece che su una validità sociologica, su una efficacia artistica (riuscita o no). Affinché ne venisse fuori […] il dramma obbiettivo della selezione, dolorosa, colpa di nessuno, elemento necessario di ordine. Questo è il tema, il cuore del libro, o meglio, il suo centro unificatore, perché ce ne doveva essere uno. […] Ogni personaggio mi appariva un esempio denunciatore di tale pubblico problema, senza segreti perché la disoccupazione non è un segreto. […] Lo spirito con cui ho scritto il libro è stato di partecipare dal di dentro, di corresponsabilità totale alla materia di esso. Era uno spirito aziendale, nel senso migliore della parola. (28 aprile ’58) Dopo gli interventi di Bompiani, capo della casa editrice, e Olivetti, presidente della fabbrica, Ottieri renderà astratta la sua narrazione e, grazie ad alcune revisioni, l’edizione di Donnarumma potrà uscire depurata nei nomi dei luoghi, degli operai e dei dirigenti: la città di Pozzuoli, ad esempio, nel romanzo viene nominata Santa Maria. Adriano Olivetti alla fine gli diede il benestare, accompagnandolo con uno dei suoi gelidi sorrisi e la frase: «Lei rischia la carriera, io rischio uno sciopero». A conclusione della vicenda, il romanzo non influenzò alcuno sciopero alla Olivetti anzi gli fece in qualche modo pubblicità, mentre Donnarumma all’assalto diventerà col tempo un classico della letteratura italiana del dopoguerra: «Caro Ottieri, sono contento della buona notizia circa il Suo libro e condivido la Sua opinione sul rischio personale. […] Opportunamente Lei ha apportato delle variazioni di nomi e di luoghi che mi dice ed eviterà ogni connessione autobiografica nel lancio del libro» (Lettera di Rigo Innocenti, 7 aprile ’59). In alcuni passi estrapolati dalle lettere scambiate con Innocenti, emergono delle significative riflessioni di Ottieri riguardo alle radici profonde che lo legavano al sud e alla critica indirizzata allo Stato per le disuguaglianze sociali sviluppatesi durante il miracolo italiano. Tuttavia Ottieri, durante la stesura di Donnarumma, non s’imbatté soltanto in contrattempi dovuti alle condizioni idonee per 44 la pubblicazione, ma anche di narrazione tout court e il carteggio con Geno Pampaloni, il quale critica il manoscritto della prima redazione del romanzo Ragione e disperazione, rivela questo aspetto non certo secondario: Caro Ottieri, la vena narrativa è insabbiata e la vena saggistica manca di orgoglio intellettuale. […] Le sue pagine sono piene di materiale anche ottimo. Ma è un materiale, per dirlo in una parola, senza precisa vocazione. (29 marzo ’57) Caro Ottieri, il libro, come tale, non è certamente privo di interesse e di valore. Riesce a dare, sia pure con qualche soluzione di continuità, il clima di un ambiente, e soprattutto il dato psicologico del personaggio autobiografico. […] Il limite, che è interno a questo stesso valore, sta nell’incerto confine tra letteratura e documento, nella polivalenza, che è ambiguità, dei suoi contenuti. […] Lei dovrebbe ripassare questa materia in forma narrativa, abbandonando il filo della confessione, dichiarando un personaggio che, si sente, è pronto a vivere. (28 giugno ’58) Oltre tutte le difficoltà incontrate durante la stesura del romanzo per i problemi di opportunità e di scrittura, Ottieri dovette affrontare anche il distacco dalla casa editrice Einaudi con la quale aveva pubblicato le prime due opere Memorie dell’incoscienza e Tempi stretti. L’abbandono non fu indolore poiché Ottieri doveva per contratto pubblicare i futuri manoscritti, come Donnarumma, con la Einaudi mentre nel ’59 sarà Bompiani il suo nuovo e per i successivi anni unico editore. Il primo a conoscere l’intricata situazione fu Vittorini che spesso aveva criticato alcune scelte narrative di Ottieri sia nelle Memorie che in Tempi stretti; ma leggendo Il diario di Pozzuoli, un titolo pensato da Ottieri per il romanzo ancora in fieri, vi scorgeva la sorprendente abilità del giovane scrittore nell’affrontare una questione sociale determinante in quel periodo storico; e inoltre da buon profeta gli vaticina un grande successo all’Italia e all’estero pur esprimendo forte rammarico per la scelta di cambiare editore. Caro Ottieri, il tuo libro è uno dei più importanti degli ultimi anni. È rimasto, in esso, un residuo moralistico, una certa indulgenza di natura autobiografica, un bovarismo, sia pure molto aggiornato, da psicologo industriale; di questo ti libererai quando ti sarai convinto tu, da te stesso, che ciò cela la nitidezza della rappresentazione documentaria e artistica. Ma non è tale da nuocere sostanzialmente al libro. Invece questo libro può avere una importanza europea per la novità dell’argomento che tratta. Va molto più a fondo degli altri, e anzi scopre una zona di rapporti e di episodi non conosciuti nella vita del lavoro industriale e del popolo. Perciò non è meridionalistico nel senso che mi dà fastidio: la sua materia riguarda in generale i rapporti umani che si intersecano ed esplodono intorno alle collaborazioni e alle lotte del lavoro. […] È un libro che dovrà avere successo in Italia e all’estero, per la verità che dice, e a me dispiace molto che tu ti sia già impegnato con un altro editore per la sua pubblicazione, ma ti faccio i migliori auguri insieme a lui. (8 ottobre ’58) L’epistolario di Ottieri conserva sei importanti lettere scambiate con Giulio Einaudi tra l’11 e il 20 febbraio del ’59 e i toni non sono idilliaci tra invii di raccomandate intrise di accuse, minacce e spiegazioni. E negli stessi giorni di quel febbraio Ottieri ebbe anche una fitta corrispondenza con Calvino, spiegando a chi lo aveva presentato a Einaudi l’assoluta buona fede che lo spingeva verso 45 Bompiani, senza per questo ritenere la fuga come un tradimento nei suoi riguardi. La cronistoria e l’intreccio delle lettere propongono un retroscena particolare non solo della biografia di Ottieri ma anche di un certo clima culturale che animava le case editrici alla fine degli anni Cinquanta tra dubbi di programma, adattabilità delle opere nelle collane, scelta dei contenuti che potevano rendere e vendere meglio. Ottieri riassume, un po’ troppo ingenerosamente, il periodo delle sue due pubblicazioni einaudiane come un «calvario» dovuto in primo luogo alla lunga attesa per l’uscita di Tempi stretti. Caro Dottor Einaudi, io desideravo accertarmi che Lei fosse a conoscenza del fatto che il manoscritto del mio ultimo libro (allora con il titolo Diario di Pozzuoli) fu da me consegnato, ai primi del ’59 alla Sua Casa Editrice, affinché potesse esercitare il diritto di opinione su di esso entro i due mesi convenuti; e che fu da me ritirato soltanto dopo che Calvino mi ebbe spiegato di non essere in grado, né lui né altri, di poterlo leggere in quel periodo, per poi sottoporlo al Suo giudizio. In seguito ne parlai e lo feci leggere a Vittorini, il quale se ne interessò molto per la prossima rivista; ma sempre lo avvisai che avrei accettato l’offerta di Bompiani per la pubblicazione in volume. […] Sento l’opportunità di averla voluta preavvisare. Per evitare che Lei, ricevendo la notizia della pubblicazione del mio nuovo lavoro presso un altro editore, potesse sospettare un atto di ingratitudine in ciò che è stata soltanto la conseguenza dell’impossibilità, per la Sua Casa, di interessarsi tempestivamente al mio terzo libro. Questo sospetto mi sarebbe dispiaciuto moltissimo. (11 febbraio ’59) Caro Calvino, per troppe ragioni, formali e di fatto, io mi sono ritenuto sciolto dall’impegno in Einaudi, tacitamente; e mi sono ormai impegnato con Bompiani. […] Ti prego in amicizia, di voler comprendere e rispettare l’impegno che ho preso con Bompiani. […] Tu hai seguito tutto il calvario di Tempi stretti. Tu sai, in coscienza, che se mi sono rivolto a un altro editore, è perché la Einaudi (non potendo e non volendo fare altro) mi ha sempre tenuto ai margini della Sua attività, così ai margini che mi sono considerato fuori; che mi sono trovato, obbiettivamente, fuori. Ti saluto cordialmente. (12 febbraio ’59) Caro Ottieri, mi dispiace quello che scrivi. È molto doloroso per noi dopo aver pubblicato i tuoi primi libri dover rinunciare alle cose tue più mature. Particolarmente doloroso per me, che mi vanto d’averti tenuto a battesimo. Per quel tuo libro avevo un vero interesse, e non credo che l’attesa di un mese possa essere considerata un segno di disinteresse. Einaudi spera che tu non abbia ancora firmato il contratto con Bompiani e possiamo ancora avere il tuo libro. (13 febbraio ’59) Caro Dottor Einaudi, mi sono trovato quindi, editorialmente, libero e ho dovuto sollecitare l’attenzione di un altro editore, che me l’ha data. (15 febbraio ’59) Caro Calvino, io non ho mai dimenticato, e – che mai dimentico adesso – che il mio primo libro lo devo in un certo senso a te: che devo a te l’accettazione di slancio del secondo. […] Ma sullo sfondo di difficoltà obiettive della Einaudi – che so felicemente superate e sono lietissimo – si è determinato un particolare disinteresse nei miei confronti. […] Proprio in voi ho sentito man mano le maggiori riserve crescere sui miei interessi social-letterari. (16 febbraio ’59) Caro Ottieri, l’accordo che Lei ha sottoscritto con Bompiani contrasta con l’articolo 13 del contratto firmato per Tempi stretti. Tale articolo prevede un’opzione di due mesi sulle Sue due prossime opere, opzione che, nel caso di questo libro, Lei non ci ha dato la possibilità di esercitare, avendo ritirato il manoscritto dopo poco più di un mese che esso era nelle nostre mani. Stabilito questo punto, ne discende in ogni caso che Lei è tenuto a sottoporci in esame un altro Suo libro oltre quello in discussione. (Lettera – per raccomandata – di Einaudi a Ottieri, 16 febbraio ’59) Caro Dottor Einaudi, ricevo la raccomandata del 16 febbraio. Quanto all’articolo 13 del contratto per Tempi stretti, dovetti ritirare il mio nuovo manoscritto perché dopo più di un mese esso non era stato ancora 46 preso in considerazione dalla Sua Casa e perché mi fu detto che per un periodo indeterminato non ci sarebbe stato il tempo di leggerlo, tanto meno quindi di deciderne l’idoneità alla pubblicazione o la pubblicazione stessa. […] Per quanto riguarda lo spirito in cui avvenne la pubblicazione di Tempi stretti, mi è penoso ricordarle: gli infiniti rinvii della stessa, nonostante si riconoscesse che il libro aveva una sua stagione e una necessità di uscire subito; il fatto che Calvino mi abbia dovuto, a un certo momento, avvertire di cercarmi un altro editore, nella primavera del 1957 (il libro fu poi ripescato dalla Sua casa con vicende che comunque non mi tranquillizzavano sull’interessamento della Sua Casa verso l’opera e verso me); il rifiuto assoluto di considerare il passaggio di Tempi stretti dalla collana I Gettoni alla collana I Coralli, come ritenevo di poter chiedere dato l’esaurirsi della prima, e come poi diversi recensori ritennero che sarebbe stata opportuna; la redazione di un risvolto così insufficiente e dannoso che in un primo momento alcuni Suoi collaboratori decisero lo si dovesse mutare, decisione da Lei contrastata, e che io fui costretto a subire; l’essere stato il libro stampato con la data del 30 giugno per l’invio del premio Viareggio, anche senza distribuzione alle librerie; cosa che non fu fatta, con la conseguente impossibilità di una eventuale presentazione al premio Viareggio successivo. Per tutti questi motivi che si riferiscono esattamente alla validità del contratto e che inoltre riguardano l’intiero atteggiamento della Casa Editrice Einaudi nei miei confronti, sono dolorosamente stupito di vedere come si invochi proprio oggi un impegno contrattuale, dopo che mi si era ampiamente dichiarato e dimostrato di non volerne tenere conto, e che perciò è decaduto. (Lettera – per raccomandata – di Ottieri a Einaudi, 17 febbraio ’59) Caro Ottieri, sul piano personale permetta che Le esprima la mia gratitudine per avermi messo a conoscenza dei precedenti, che ignoravo, del suo secondo manoscritto. Ma pure la mia sorpresa nel non tenere in minimo conto la mia richiesta verbale di attendere una settimana al fine di farLe delle concrete proposte, nel Suo interesse, il che implicava una Sua attesa di pochi giorni prima di perfezionare un contratto, oggi non valido, con Bompiani. Adesso mi toccherà rispondere alla Sua raccomandata. Compito di cui vorrei ancora essere esonerato. Ché, tutte le buone ragioni che Lei elenca non Le consentivano di concludere un accordo con un altro editore senza prima esplicitamente ottenere il nostro consenso, o senza prima ottenere la scissione del contratto. (18 febbraio ’59) Caro Dottor Einaudi, le sono grato della Sua ultima lettera del 18, poiché non avrei mai pensato, mi creda, di dover slittare sul piano delle raccomandate o peggio. Il mio desiderio di comunicarLe personalmente di aver collocato il mio manoscritto presso un altro editore era il desiderio di confermarLe la mia riconoscenza per essere stato Lei il mio primo editore, anche se poi le esigenze della Sua Casa avevano indotto i Suoi collaboratori a orientarmi altrove. La Sua raccomandata del 16 (che davvero non mi attendevo, dopo l’incontro di definitivo chiarimento con il Dottor Foa a Milano) mi ha costretto alla replica del 17. […] Non potendo nutrire alcuna illusione di essere un autore gradito alla Sua Casa, ho dato l’assicurazione su esplicita richiesta e in perfetta buona fede, che il manoscritto era libero da ogni precedente impegno editoriale. Ora che ho firmato il contratto con Bompiani – ma comunque l’impegno morale con lui data da assai più tempo – mi trovo fra due fuochi: e non mi posso rimproverare che la discrezione avuta nel vietarmi di formare in qualsiasi modo una Sua decisione a me favorevole. (20 febbraio ’59) Ottieri pubblicherà Donnarumma all’assalto con Bompiani, contravvenendo all’articolo 13 del contratto firmato per Tempi stretti con Einaudi, ma una sorta di compromesso fu trovato dalle due case editrici per non incorrere nelle vie legali: lo scrittore pubblicherà nel ’60 I venditori di Milano, l’opera successiva a Donnarumma, con Einaudi salvando in parte l’articolo chiamato in causa nelle lettere. Con Einaudi Ottieri pubblicherà ancora negli anni Ottanta il romanzo I due amori (1983) e i poemetti di Vi amo (1988). Con Giulio Einaudi, anche dopo i problemi di pubblicazione di Donnarumma, Ottieri riuscì a mantenere un buon rapporto e nel ’63, quando nella casa editrice si pensava di ristampare Tempi stretti, Ottieri scrive: «Caro Einaudi, […] credo che Tempi stretti andrebbe riscritto tutto… Per cui è meglio non cambiare nemmeno una riga» (29 gennaio). L’ultima lettera presente nell’epistolario porta la data del 19 ottobre ’92 nella quale 47 Ottieri spiega le ragioni dell’invio di un «malloppo» di carte sulle quali voleva conoscere il giudizio del «Caro Giulio». E anche con Calvino la reciproca stima non risente del divorzio dalla casa editrice; anzi Calvino, il primo a credere nelle qualità narrative di Ottieri, sicuro che la sua maturità artistica avrebbe prodotto opere di grande valore, si rammaricava spesso per quell’abbandono: «Caro Ottieri, ho cominciato Donnarumma all’assalto con grande interesse, te ne scriverò appena l’avrò finito. Sento del grande successo e – pur mordendomi le pugna – ne godo» (28 luglio ’59). «Caro Ottieri, ho visto con grande piacere che la tua commedia [I venditori di Milano] sarà rappresentata a Roma. Contiamo di pubblicarla al più presto nella collana di teatro. Mandami subito il testo definitivo» (21 ottobre ’59). Appena uscito nelle librerie Donnarumma all’assalto ricevette un riscontro positivo sia dal pubblico che dalla critica divenendo nel tempo un classico della letteratura italiana ma imprigionando Ottieri nell’etichetta di scrittore industriale per eccellenza. Il protagonista alter ego di Ottieri nel romanzo è un Dottore che da una fabbrica del nord si trasferisce a Pozzuoli-Santa Maria per svolgere mansioni di Selezionatore del personale: Sono nato nel centro d’Italia e la giovinezza l’ho tutta trascorsa in paese di sole, diventando meridionale. Ma l’industria l’ho conosciuta nel nord e la caratteristica di essa rimane sempre quella d’essere grigia, se è un’industria vera. Le officine le ho sempre viste nere e senza spazio, come se la loro forza fosse proprio questa. (DON, p. 24) Egli deve dunque selezionare, grazie agli strumenti forniti dalla moderna psicotecnica, un centinaio di operai a fronte di quarantamila domande: «Qui giudichiamo un popolo intero. […] Non si seleziona, si screma. […] È più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che uno di Santa Maria attraverso l’esame psicotecnico» (DON, p. 20). La scientificità della psicotecnica all’inizio lascia stupefatto il selezionatore stesso, il quale vorrebbe parlare almeno per qualche minuto con tutti i candidati al fine salvaguardare l’aspetto umano che si cela dietro un rifiuto di assunzione. Visito il laboratorio psicotecnico fra uno stabilimento meccanico e uno tipografico. Ci trovo più problemi medici che problemi umani. […] Mira della psicotecnica è quella di scomporre gli uomini e misurarli. […] La psicotecnica può servire come mezzo ed è l’unica scienza dell’anima dell’uomo e, come scienza, si rinnega in continuazione, fluttua nel mare dei particolari e delle variabili. (LG, pp. 82, 196) Ma gli ingranaggi dell’azienda non permettono inutili perdite di tempo, e dopo un primo smarrimento il Dottore venuto dal nord si adegua alle esigenze del mestiere. I colloqui e gli esami psicotecnici alzano una rete protettiva, un vaglio tra noi e loro, tra la fabbrica e il paese; sono anche la nostra difesa dalla disoccupazione. […] Il selezionatore calma il suo rimorso per il 48 giudizio dell’uomo sull’uomo con questa fiducia di poter sbagliare nella contrattazione psicologica sempre meno; e con la coscienza che la selezione sia necessaria. Seleziona, perché assume. […] Le batterie si rinnovano e perfezionano continuamente, secondo metodologie sempre più aggiornate. Dietro ogni test – che sembra un giochetto – c’è un lavoro scientifico di dieci anni. (DON, pp. 37, 38, 187) Il mestiere di selezionatore si rivela molto particolare per alcune ragioni: in primo luogo si tratta di scegliere solo poche decine di operai che entreranno in fabbrica fra alcune migliaia di disoccupati attraverso metodi moderni e raffinati quali, oltre alle classiche interviste e colloqui, gli esami psicotecnici accompagnati da prove manuali che attestano la predisposizione a lavorare con i pirolini della O’Connor, le rotelle del Moede, il pantografo, il numerico, e tanti astrusi giochetti che imbrogliano le mani grosse e pesanti dei manovali e degli analfabeti. A un selezionatore il problema sociale appare subito complicato dalla mediocrità di molti candidati. […] La realtà del lavoro, della scelta – sempre produttivistica, privatistica – spinge il selezionatore, quasi sempre di provenienza socialistica, a divenire un aristocratico, e quindi in certo senso lo capovolge e lo tradisce. (LG, p. 187) Inoltre, nella fabbrica di Santa Maria, un sistema di nuove leggi tecnocratiche si stava sovrapponendo ad ataviche consuetudini non scritte, evidenziando enormi trasformazioni dei primitivi mondi della campagna rurale e della sottoccupazione suburbana che mal si conciliavano con le regole industriali venute dal nord basate sull’efficienza e la produzione in serie. La contraddizione emersa da questa collisione confermò, in modo inequivocabile, la mancanza di unità sociale dell’Italia da troppi secoli divisa in molteplici macroregioni per retaggio culturale, tradizioni, mentalità e industrializzazione: per il sud queste disfunzioni si riassumono nella «Questione meridionale» che Ottieri non vorrebbe trattare, limitandosi a lavorare nella fabbrica. Ma durante la stesura del romanzo inevitabilmente tale questione emerge con forza: «Ho fatto una prima ricognizione laggiù. Non voglio affogare nella questione meridionale, tanto meno nel folklore che la circonda. Altri lo possono fare meglio. La mia ancora è lo stabilimento, l’industria di origine settentrionale» (LG, p. 185). Solo nel ’92, circa quarant’anni dopo l’esperienza di Pozzuoli, Ottieri tratterà il tema sempre attuale in un poemetto dal titolo significativo La questione meridionale dove, oltre a ricordare alcuni aspetti del periodo trascorso a Pozzuoli, egli osserva con amarezza che tale questione ha perso il connotato meridionale divenendo negli anni, come lui stesso aveva anticipato, nazionale. Qui tutti hanno molto bisogno di lavoro, tutti. L’antico problema dei vostri bellissimi, ma disgraziati paesi… si trascina da secoli. La fabbrica aiuta, ma non può cancellare di colpo la storia… […] L’industrializzazione del mezzogiorno come fatto della questione meridionale, cioè della questione loro, li lascia indifferenti; li insospettisce. […] In questa zona industriale, l’industria vive arroccata, goccia nel mare 49 o nella sabbia di una civiltà di pescatori senza barche e di contadini senza terra. Nessun tessuto lega una fabbrica all’altra, non c’è proletariato. (DON, pp. 135, 151) Esemplare fu per questa terra senza proletariato il fenomeno delle cosiddette Cattedrali nel deserto, cioè insediamenti industriali favoriti da pingui incentivi statali e incapaci, per loro limiti intrinseci, di suscitare ulteriori iniziative economiche, culturali e sociali: «Il meridionale / non è, biologicamente, / industriale. / Sarà ottimo, industrioso, / auto-arrangiatore, ma non sa / costruire fabbriche, anzi, / quelle portate dal Nord / le tritura» (QM, p. 8). Milioni di persone si trasferirono, tra gli anni Cinquanta e Settanta, dalle regioni del sud nelle grandi città del nord Italia mentre si evidenziava in modo più esplicito una trasformazione della società meridionale, vittima non solo della secolare miseria quanto piuttosto dei cambiamenti dovuti allo scriteriato sviluppo industriale del paese. Ottieri riflette sul valore storico della «Questione meridionale», dovuta a secoli di latifondo e amministrazioni medievali delle terre che hanno depresso le regioni del sud con disastrose conseguenze sociali. Come ebbe modo di rilevare in una lettera inviata a Rigo Innocenti, Ottieri rigetta la responsabilità sulle carenze dello Stato tentando di salvaguardare l’umanità offesa di un intero popolo mediante un’immersione totale nei luoghi del vissuto quotidiano, dal paese alla fabbrica. La sua buona predisposizione nei riguardi del sud lo condanna a mostrarsi indulgente, a suo modo, nella narrazione: riproducendo in modo oggettivo la realtà dei fatti, Ottieri assolve gli analfabeti, i disoccupati, i violenti, i traffichini, i vari Donnarumma che osserva tutti i giorni poiché in loro, sommando tutti gli elementi storico-sociali, non c’è alcuna colpa. Torre ha sessantamila abitanti, il paesetto di Santa Maria quarantamila; in questa fascia costiera la popolazione è densa come nelle più dense province cinesi. Una simile zona dovrebbe essere tutta industriale per vivere, anche se gode la fama meno industriale del mondo. […] Proprio a essi, i disordinati, i liberi, gli istintivi per eccellenza, occorre una civiltà industriale, e potenzialmente l’hanno già creata. Senza volerlo, l’hanno creata, riproducendosi, come se la grande industrializzazione di Stato stesse per arrivare, come se l’ardimentoso capitale privato del nord smaniasse in cerca di nuovi serbatoi umani, come se l’emigrazione si spalancasse ormai per invadere i continenti. Ora qui si spreca una mano d’opera senza opera, una popolazione industriale senza industria. Questo è il dramma dei dintorni e della città, ricca di regge e povera in ogni suo buco, antica capitale depressa, nel dramma del mezzogiorno. (DON, pp. 164-165) I vari «come se» con cui Ottieri dissemina questo passo del romanzo condannano senza appello uno Stato inefficiente che durante il miracolo economico ha utilizzato la forza lavoro delle popolazioni meridionali per sviluppare l’unica industrializzazione realizzabile, quella del nord, abbandonando al proprio destino milioni di cittadini considerati scientemente di serie B, «come se» il Regno delle due Sicilie esistesse ancora: «Il Sud e il Nord si fanno / razzialmente la forca. In / mezzo, lo Stato è, per / definizione, un incapace» (QM, p. 8). E nel dramma della «Questione meridionale» la disoccupazione e l’analfabetismo appaiono per Ottieri due aspetti determinanti in cui egli evidenzia «una abitudine fissa, antica, di cercare lavoro più che di lavorare e […] una 50 abitudine alla disoccupazione così profonda che ha generato i suoi vizi e le sue difese naturali» (DON, p. 36). Anche in questo caso il valore dei termini utilizzati assumono un’importanza significativa: l’abitudine cui si fa riferimento è antropologica ma le origini vanno ricercate nella storia e nella politica. Oltre la colpa, si dovrebbe comprendere quale tipo di scelta in generale è stata concessa all’uomo del sud. La disoccupazione non unisce, ma sempre divide, tranne quando esplode. […] La disoccupazione cronica muta davvero la prospettiva della condizione alienata. L’alienazione vera, storica, qui a Santa Maria è la disoccupazione, la quale precede ogni problema industriale, pur essendo contemporanea di una civiltà industriale. (DON, pp. 151, 173) Per quanto concerne l’analfabetismo, anche in questo caso Ottieri analizza il problema da una prospettiva generale ponendo sullo stesso piano il paesano che non sa scrivere all’industriale che non può insegnargli nulla. L’analisi sociale diventa, nel romanzo, spietata oltre che aperta a ogni confronto storico-politico: «Gli analfabeti non sanno che la loro umiliazione è anche la nostra. Con tutta la nostra scienza e organizzazione aziendale, a loro quando brandiscono il lapis non abbiamo da insegnare o dare nulla. Il privilegio dello stabilimento va a pezzi contro di loro, contro la lontananza dello Stato, di cui siamo correi» (DON, p. 41). L’essere coimputati a tale scempio sociale comporta una conseguenza inevitabile e disastrosa, ovvero l’attestazione che un intero popolo è da considerarsi disoccupato e analfabeta, senza distinzioni geografiche o di lingua. In questo processo in cui l’imputato è lo Stato italiano, che Ottieri rappresenta dall’incoscienza del fascismo alla «merda antropologica» (PO, p. 97) di fine secolo, non ci saranno proscioglimenti miracolosi perché almeno in letteratura non esistono prescrizioni. I cinquant’anni di storia d’Italia che Ottieri vuole sviscerare da molteplici punti di vista, dall’industria alla società, dalla politica all’alienazione, non si racchiudono soltanto nella seconda metà del Novecento giacché le sue riflessioni partono da una più ampia prospettiva storica: «Parve che la maggiore / preoccupazione, necessaria / perché biologica, dell’Italia / fosse la Questione Meridionale. / Non vi erano primati regionali o condanne. / Ma se non si risolveva la / Questione Meridionale, la / Questione Meridionale / sarebbe diventata una / questione totale. / Oggi è totale» (QM, p. 5). Sulla «Questione meridionale» trattata da Ottieri in Donnarumma, dall’epistolario emergono due interventi significativi diametralmente opposti che evidenziano la complessa natura di un romanzo che metteva in primo piano problemi atavici di un Paese non ancora maturo. In una lettera inviata alla moglie di Ottieri, Silvana Mauri, il critico letterario Giancarlo Ferretti, che ha affrontato spesso nei suoi saggi i problemi del rapporto fra scrittore e società, dell’industria culturale e del mercato editoriale, afferma di essere deluso da Donnarumma: 51 In sostanza, francamente, mi ha un po’ deluso rispetto al primo, che continuo a ritenere uno dei più interessanti e vivi usciti in questi anni. Deluso non tanto perché si tratta di un saggio-diario in chiave ideologico-sentimentale, quanto piuttosto per la linea ideale su cui Ottieri si muove, esasperando quella sfiducia, amarezza e crisi individuale che già avvertiva in Tempi stretti. Un tale atteggiamento, mi pare, lo porta qui a darci un quadro assai parziale e limitato della Questione meridionale, accentuando d’altra parte quello stato di struggente tristezza. […] Ottieri è scrittore assai vivo e anche assai giovane; io lo ammiro molto, dopo Tempi stretti, per la tenacia con cui egli persegue la sua ricerca all’interno del mondo industriale. (7 luglio ’59) Al contrario Carlo Bernari, l’autore di Tre operai, che accompagnava la propria firma con l’indicazione «Noto scrittore napoletano», ringrazia Ottieri per aver esposto in forma romanzata il dramma della disoccupazione al sud, sperando che interventi del genere possano destare l’attenzione su condizioni di vita al limite della sopportazione, e interpretate bene solo da coloro che le vivono quotidianamente. Caro Ottieri, volevo scriverti da tempo il mio compiacimento per il tuo ultimo Donnarumma all’assalto; e volevo scrivertelo da napoletano, cioè a dire nella veste di chi è abbastanza consapevole dei problemi da te trattati e in buona parte risolti. Sono lieto di stringerti la mano e di congratularmi per il tuo bel libro che d’ora in avanti bisognerà tener presente in biblioteca ogni volta che ci muoveremo in quella direzione. (23 settembre ’59) Attraverso il lavoro industriale impiantato al sud, dunque, Ottieri analizza dal profondo un aspetto disastroso della moderna società italiana prendendolo tuttavia come paradigma di una condizione più generale attraverso l’asprezza del contrasto tra il progresso tecnico, secondo criteri rigorosi tipicamente settentrionali, e l’arretratezza culturale della civiltà contadina meridionale sullo sfondo di una popolazione fittissima, disoccupata, tragica e pittoresca. Eppure la fabbrica in questione, la Olivetti di Pozzuoli, appariva come un esempio positivo e equilibrato tra la produttività e il rispetto del paesaggio e dell’operaio; un’oasi filantropica nel deserto dove si costruiscono calcolatrici: «Del resto in questa azienda più democratica delle altre, le nostre mansioni psicologiche, umanitarie ci tengono vicino alle inquietudini degli operai» (DON, p. 156). Pur nell’attenzione agli aspetti umani dell’attività in fabbrica e nel rispetto dell’operaio inteso non soltanto nella sua funzione aziendale, anche nell’umanissima Pozzuoli emergono sia il lavoro in serie che il macchinismo industriale, vale a dire il lavoro monotono e ripetuto delle macchine cui si lega indissolubilmente il destino dell’operaio anch’egli scomposto e frammentato come l’oggetto da produrre. L’organizzazione scientifica, le fasi dell’accanito automatismo e la polverizzazione del lavoro conducono «allo svuotamento del pensiero e alla malsana fantasticheria» (DON, p. 171), o in altre parole all’alienazione industriale. Il tema cupo e catastrofico dell’alienazione marxista risuona nel fondo di tutte queste interpretazioni. Causata dal non possesso degli strumenti produttivi o dalla sola organizzazione scientifica e dalla 52 suddivisione del lavoro, insomma dovuta al capitalismo o problema anche di una società socialista, l’alienazione è il cancello di ferro che trattiene chi lavora, lo isola in una responsabilità così frazionata e lontana dagli ultimi scopi, da violare l’istinto, la volontà, l’intelligenza. (DON, p. 173) E come in Tempi stretti, anche in questo nuovo capitolo della realtà industriale, i tempi sono automatizzati nelle diverse fasi della produzione, e al ritmo di essi si plasma la vita dell’operaio tra proteste per le riduzioni degli intervalli della lavorazione e la prospettiva dell’aumento del tempo libero che Ottieri, a metà degli anni Sessanta, svilupperà nel jet set dei Divini mondani in un mondo del tutto opposto alla fabbrica. A nome dei compagni Di Meo si è lamentato che i tempi sono stretti, che aveva provato lui e ce la faceva a stento. […] Dall’affare delle multe siamo saliti ai passaggi di categoria e alle questioni dei tempi, che è ancora il cuore dei problemi di fabbrica. […] La sociologia si occupa del «tempo libero» e lo studia per pianificarlo, cioè per non renderlo più libero. (DON, pp. 51, 66, 172) Altri elementi significativi che emergono dalle pagine di Donnarumma entrano negli ingranaggi del lavoro industriale, nelle viscere della fabbrica, e riguardano, oltre alla questione meridionale di uno stabilimento aperto nel sud Italia, la condizione operaia con le proprie peculiarità quali il lavoro alienante, i tentativi di suicidio, gli incidenti occorsi, gli scioperi, l’aziendalismo. L’alienazione ideologica, che si esprime con il non possesso degli strumenti produttivi, è osservata nel lavoro corporeo degli operai ridotti a macchine che svolgono funzioni proprie dei futuri robot. Le immagini proposte da Ottieri, da lui osservate di persona per alcuni anni durante l’incarico svolto all’interno della fabbrica, ripropongono frammenti dei film Metropolis e Tempi Moderni che, anche se da prospettive differenti ed estremizzando in modo inverosimile le scene, hanno offerto uno spaccato inquietante del drammatico stato in cui erano costretti a lavorare gli operai. Proseguono a battere su chilometri di carta, fino all’esaurimento nervoso. Azionando avanti e indietro la leva delle due macchine con le due braccia, dalla mattina fino alla notte, come rematrici, si interrompono solo per premere i numeri della tastiera. Premono a memoria, con la punta delle sveltissime dita, e quindi tirano la leva. Premono e tirano. (DON, p. 155) E anche per i tentativi di suicidio i toni non sembrano variare dall’impassibile constatazione dei fatti. Chi tenta il suicidio nel romanzo non è tuttavia l’operaio che lavora all’interno della fabbrica, ma coloro che da essa vengono quotidianamente rifiutati, stazionando dinanzi l’entrata principale per strappare un colloquio volante con il Dottore alla ricerca di una miracolosa assunzione. Col passare del tempo, e dopo ripetuti rifiuti, si forma una piccola banda all’esterno dell’edificio capeggiata da Donnarumma Antonio, cui prendono parte i vari Dattilo, Accettura 53 Vincenzo, Giglio Giovanni, i quali tentano a turno di farsi investire dai dirigenti della fabbrica per dimostrare in modo drammatico la loro disperazione. Dal gruppo dei postulanti che ogni mattina sta fisso in portineria, oggi verso le due, quando tutti eravamo a mangiare, uno si è gettato sotto l’automobile del direttore. […] Uno dei manovali dell’impresa che ha costruito lo stabilimento, e che non sono stati assunti nello stabilimento alla fine dei lavori, si era gettato alle dieci contro l’automobile del direttore. Mezz’ora prima. Per questo i cancelli erano così sgombri. Questi incidenti ripuliscono provvisoriamente la portineria. (DON, pp. 66, 118) Nonostante il periodo positivo trascorso a Pozzuoli, e dopo soli nove mesi dell’assunzione, Ottieri decise di rassegnare le dimissioni nel novembre del ’55, e si trattò per lui di una scelta molto difficile: «Non si poteva vivere a Santa Maria per sempre?» (DON, p. 253). Adriano Olivetti gli offrì di restare a Pozzuoli promuovendolo a direttore del personale della fabbrica, ma per essere uno scrittore a tempo pieno Ottieri sentiva il bisogno di un lavoro meno stressante e part-time e quindi decise seppur a malincuore di tornare a Milano. Egregio Dottore, nell’occasione in cui Lei lascia Pozzuoli mi è grato esprimerLe, quale Direttore dello Stabilimento, il mio ringraziamento per l’opera da Lei svolta e per la sensibilità e intelligenza posta nella esplicazione del Suo lavoro. Le assicuro che sono molto spiacente che per ragioni indipendenti sia dalla nostra che dalla Sua volontà Ella abbia dovuto cessare di darci la Sua preziosa collaborazione. (Lettera di Rigo Innocenti, 12 novembre ’55) A Milano Ottieri spera di ottenere un lavoro che gli lasci più tempo per scrivere e ancora una volta Adriano Olivetti gli viene incontro offrendogli dapprima la promozione a capo del personale e poi la nomina a dirigente, ma Ottieri le rifiuta entrambe in quanto le considera privilegio eccessivo nei confronti di chi lavora a pieno tempo. Si accorderà infine per un contratto di consulenza a metà tempo per la selezione dei futuri dirigenti commerciali, impiego che Ottieri svolgerà solo per pochi anni rassegnando le definitive dimissioni a metà degli anni Sessanta per dedicarsi esclusivamente all’attività di scrittore. Donnarumma all’assalto è stata l’opera di Ottieri che ha riscontrato maggior successo dalle copie vendute alle diverse edizioni stampate, tra cui cinque ristampe della Bompiani e due della Garzanti, dalle numerosi traduzioni in lingue straniere ai tentativi di realizzarne un film, in particolare per l’interesse del regista Rossellini. Dall’epistolario di Ottieri emergono alcune lettere di traduttori che chiedono allo scrittore la possibilità di tradurre Donnarumma, e tra questi Herbert Herlitschka si propone per una versione in lingua tedesca: Caro Ottieri, quale consigliere letterario di alcuni editori tedeschi mi sono interessato del suo libro Donnarumma all’assalto, e con l’ufficio estero della casa editrice Bompiani ho concordato che tenterò di 54 collocare questa sua opera presso un editore tedesco. Perché questo libro mi ha molto interessato gradirei tradurlo io stesso. […] Quale traduttore rinomato posso garantirle una buona traduzione. (1 febbraio ’60) In seguito si propose anche Petr Dragoev, uno studioso bulgaro di letteratura italiana traduttore del Principe di Machiavelli, dei Promessi sposi, del Gattopardo e altre opere. In una lettera del 20 settembre ’62 Dragoev chiede a Ottieri la spedizione del libro via posta all’indirizzo Via Aleso Constantinov, 9 Sofia (V), anche con qualche domanda alquanto particolare, sperando di bissare il successo della collega Descalova che aveva tradotto in bulgaro Tempi stretti. Egregio Dottore, io m’interesso specialmente del Suo libro Donnarumma all’assalto, ma naturalmente vorrei leggere tutte le Sue opere. La prego pure di spedirmi qualche notizia biografica. Da noi, quando si fa proposta per la traduzione di qualche libro, è necessario di presentarlo con qualche parola. Naturalmente, la prima condizione è d’essere un autore progressista. Lei è membro del Partito Comunista o no? (20 settembre ’62) Tuttavia i tentativi di Herlitschka e di Dragoev non avranno buon esito e, a causa di alcuni impedimenti burocratici, gli abbozzi delle due traduzioni resteranno nei cassetti degli studiosi. Ma l’interesse per Donnarumma non scemava e dalla Spagna si propose, per le Ediciones Horizonte di Madrid, Jesús López Pacheco che confidò a Ottieri alcuni problemi di censura dovuti all’ottusità del Regime franchista. He escrito hace unos días a su eitor de Donnarumma all’assalto comunicandole la noticia de que ha sido autorizao por la censura española, con un lamentable corte. […] Respecto al lamentabilísimo corte que la censura española ha tenido a bien hacer en el texto (desde la pagina 206 hasta la 211, donde termina el passaje entre lo sicotecnico y el obrero Attanasio) no desespero aún de salvarlo. Una vez traucido el libro peiremos una revisíon a la censura y posiblemente logremos hacer que pase el fragmento limando levemente ciertas expreciones. (28 dicembre ’62) In una lettera successiva Pacheco rivela a Ottieri di aver terminato la traduzione del libro che ormai è pronto per le stampe e uscirà effettivamente pochi mesi dopo, ma prima di quest’ultimo passaggio gli chiede il significato di alcune espressioni particolari del testo e incomprensibili in spagnolo quali «saltafosso», «imbuto», «sfregare due dita», «scorticato», «celerini», «cantieriscuole del Ministro Romita» e altre. Oltre a ciò Pacheco vorrebbe informazioni sul film Donnarumma che Rossellini aveva intenzione di girare, e in ultimo propone a Ottieri il cambiamento del titolo del romanzo per la versione spagnola. Siccome Donnarumma è un cognome italiano meridionale che dice poco o niente al lettore spagnolo essendo allo stesso tempo per lui di una difficile pronuncia, si ha pensato in un nuovo titolo per il romanzo. Davvero non mi piace farlo, ma ci sono ragioni commerciali a imporcelo. Ho proposto agli editori El ojo de la aguja, cioè «La cruna dell’ago» in italiano. Capisco che non è granché, ma comunque ha il vantaggio di 55 suonare molto a tutti i lettori che hanno letto o sentito della Bibbia, e la Spagna è un paese molto cattolico. (13 marzo ’63) Le altre traduzioni di Donnarumma all’assalto sono in lingua inglese con il titolo The men at the gate, tradotto da I. M. Rawson e pubblicato nel ’62 per la Houghton Mifflin Company di Boston e per le edizioni Victor Gollancz di Londra, il cui risvolto di copertina proponeva: «This book is destinate to stand among the great classics of the literature on Southern Italy, half-way between the writings of Fortunato and Christ stopped at Eboli by Carlo Levi». La versione francese Les grilles du paradis, traduzione di Hélène Pasquier, Editions Stock di Parigi, esce nel ’63; dello stesso anno è l’edizione polacca Donnarumma atakuje grazie alla traduzione di Stanislaw Wawrzkowicz per il Panstwowy Institut Wydawniczy di Warszawa; mentre quella slovacca con titolo Dennik Psychologa sarà pubblicata nell’80 per le edizioni Tartan di Bratislava. Per una traduzione cinematografica di Donnarumma s’interessarono diversi registi dalla fine degli anni Cinquanta fino agli anni Settanta quando, dopo numerosi tentativi infruttuosi, si realizzò nel ’72 l’unico film tratto dal romanzo17. Il primo di molti registi a bussare alla porta di Ottieri fu Benedetto Benedetti che gli chiese, in una lettera del 25 luglio ’59, il prezzo dei diritti per girare Donnarumma: «Spero che nulla osti da parte sua se li ha già ceduti. Se non li avesse ceduti, è a lei che mi rivolgo». In seguito si propone anche Roberto Rossellini: Caro Ottieri, voglio dirle quanto amo il suo libro e spero di riuscire a realizzare il film. Non le nascondo che ci sono delle difficoltà ma io spero di superarle. È indispensabile ambientare il film a Pozzuoli e se gli Olivetti decidono di aiutarci sarà più facile realizzare questo progetto. Comunque io voglio farlo, con l’aiuto degli Olivetti o senza. Mi auguro d’incontrarci presto. (15 settembre ’60) Con Ugo Pirro emerge un importante scambio epistolare dal ’61 al ’63 attraverso il quale è possibile comprendere le numerose traversie che impedirono a Donnarumma di svilupparsi come film sotto la regia non solo di Rossellini ma anche di Comencini: il problema determinante fu il fallimento della Maxima Film, la società che aveva acquisito i diritti del romanzo. Caro Ottieri, non ho cessato d’interessarmi del tuo libro. Sto facendo quanto mi è possibile. Ho interessato anche altre persone, inoltre in questi giorni si è rifatto vivo anche Rossellini. (25 aprile ’61) Sono ormai due anni che corro dietro al tuo Donnarumma. […] I produttori temono le novità, essi sono quasi sempre degli autentici succhiatori di ruote altrui. Di preciso posso dirti questo: con Rossellini siamo ormai certi di poter concludere le trattative. […] La mia speranza è che il film si faccia in primavera. (27 novembre ’61) Caro Ottieri, finalmente il film Donnarumma sembra varato! La Maxima film ha acquistato da Rossellini e da me i diritti del libro e abbiamo fatto già il passaggio di proprietà dal notaio. Così pure Comencini ha firmato il contratto per la regia e io quella per la sceneggiatura. […] Così dopo tre anni di 17 Dopo molto tergiversare, Donnarumma all’assalto soltanto nel ’72 sarà tradotto su pellicola dal regista Marco Leto attraverso le interpretazioni di Gianni Garko, Milena Vukotic e Stefano Satta Flores. 56 insistenze, di arrabbiature, di lotte, di complicazioni di ogni genere, sono riuscito a varare questo film a cui tanto ho sempre tenuto. (16 ottobre ’62) La società (la Maxima film) proprietaria dei diritti è sull’orlo del fallimento. Il film viene comprato da un giovane cineasta Guida. Mi dispiace che Donnarumma non abbia ancora incontrato la sua suerte. Ma forse, ora che io non c’entro più, cambierà anche la suerte, sia del libro che mia. (1 giugno ’63) E proprio in quei mesi Ernesto Guida, il giovane regista romano cui fa riferimento Pirro, colpito dall’importante messaggio sociale che l’opera racchiude, contatta Ottieri per trasformare il romanzo in film: «Dottor Ottieri, ho letto il Donnarumma, e poi l’ho riletto. È così importante il problema che Lei pone, e soprattutto i napoletani sono spiegati in ciò che sentono e con tale chiarezza che mi sembra un peccato non darsi da fare come dannati per tradurlo in film. Vorrei battermi per realizzare Donnarumma». (5 aprile ’63) Ma non solo registi italiani pensarono a Donnarumma come un film; il cineasta americano Ethel Tyne di passaggio a Roma, dopo esser venuto a conoscenza del fallimento della Maxima Film, prende contatti con Ottieri per sapere lo status del romanzo e la possibilità di acquisizione dei diritti per girarne un film: «Dear Mr. Ottieri, we are back in Rome now, and have heard that Maxima Film is out of business. Again, I would like to know what the status is of your book… whether it now reverts to you, or whether someone else still has the rights». (Luglio ’63) I.4 I venditori di Milano I venditori di Milano18 è l’unica opera ufficialmente drammaturgia di Ottieri sebbene la visione teatrale sia confluita spesso in altre opere come L’infermiera di Pisa, La psicoterapeuta bellissima, Le guardie del corpo, Il poema osceno, Una tragedia milanese, dove le entrate in scena dei personaggi, le battute, i dialoghi e le scenografie sono pensate teatralmente, mentre le parti corali soprattutto nei poemetti s’intersecano a quell’ossessiva voce monologante tipica della sua poesia. Ottieri in questa commedia mette in scena un altro aspetto del mondo industriale dopo averne sviscerato gli ingranaggi nei testi precedenti. Nei Venditori di Milano l’attenzione è incentrata sui dirigenti osservati da un piano orizzontale e non più dal basso come accadeva in Tempi stretti o in Donnarumma. Anche in questo caso Ottieri trasferisce sulla pagina alcuni aspetti autobiografici della propria esistenza, poiché egli lavorò per alcuni anni nei piani alti della Olivetti 18 La commedia, dedicata a Elio Vittorini, fu rappresentata per la prima volta al teatro Gerolamo di Milano il 21 marzo del ’60 con la regia di Vittorio Puecher. 57 scorgendovi quotidianamente delle storture nell’ambito, in particolare, delle vendite e della pubblicità. La commedia pensata da Ottieri si confronta in modo diretto con il pubblico garantendo la solennità della rappresentazione: la cronaca dei fatti non si distanzia dalla realtà osservata con i propri occhi, anche se questa si snoda sul palcoscenico con l’arma dell’ironia che scivola immancabilmente sui personaggi rendendoli ridicoli. Il protagonista della commedia Lucio Davoli nella piramide dell’azienda è secondo solo al grande capo ovvero l’amministratore delegato, ricoprendo un ruolo di prestigio quale capo dell’ufficio vendite. Egli tra l’assillo del commercio e i dati mensili che sanciscono il successo o meno del lavoro, instaura con la signorina Ferrario, segretaria dell’A.D., una relazione segreta ma non troppo che desta il consueto scandalo negli uffici dell’azienda. L’evento piccante dei baci rubati durante le ore di lavoro si può considerare quasi un topos della letteratura industriale di Ottieri, il quale ricorda spesso, come in Tempi stretti e nella Linea gotica, tale situazione ai limiti della decenza che infervora le fantasie e le indiscrezioni di alcuni impiegati. Ferrario, c’è una denuncia contro di lei. Guardi, le dico subito, in questi casi io non so se siano da punire i denunciati o i denunciatori. […] Ferrario l’hanno vista nell’antibagno, più volte. […] Con chi non si sa. […] L’uomo non è stato visto, perché pare fosse nascosto dietro la porta. O è furbo, o il caso lo poneva lì. Mentre la ragazza appariva, inequivocabilmente. (VM, p. 36) I delatori occupano un ruolo importante nella fauna di qualsiasi ufficio; le loro occhiute interpretazioni dei singoli fatti permettono di svelare anche quei segreti che non possono sottrarsi alla verità in un microcosmo ricolmo di ipocrisie e abiezioni. Con un tono sempre oggettivo e distaccato, Ottieri mette in scena tutti quei personaggi, tradotti sul palco dalla realtà, che animano la quotidiana vita industriale: padroni, arrampicatori aziendali, servi, lacché, segretarie nevrotiche e attraenti, giovani invasati dal lavoro e con la prospettiva della carriera. L’insieme è dominato da un solo comandamento: vendere, motivo che si ripresenterà anche in Cery nei pensieri di Filippo Ciai, scrittore alter ego di Ottieri intento a ragionare su un romanzo che ha come protagonisti Gli imprenditori. Nella commedia, la ditta in questione è attiva nel ramo dei frigoriferi, che negli anni Sessanta entrano in molte case degli italiani oltrepassando il concetto di bene di consumo, e deve battere la sempiterna concorrenza a scadenze mensili più che annuali. Il linguaggio pubblicitario, oltre a caratterizzare le vendite, s’impone anche sulla vita privata degli impiegati che sul ricavo proiettano il benessere personale; così che il lavoro della giornata si rovescia inevitabilmente sul tempo libero quasi inesistente sia per il corpo che vegeta all’interno dell’ufficio ben oltre il classico orario di chiusura, sia sulla mente che non può districarsi dai meccanismi automatici del guadagno, non solo economico ma esistenziale. 58 Noi arriviamo nel 1965 sul taglio del crinale, per poi scendere, comodi. Nel 1965 almeno un terzo della concorrenza deve essere cauto. Che fa la concorrenza per tenere il fronte? Una guerra di posizione. Noi ora attacchiamo gli ultimi tornanti. La nostra è una economia in bicicletta, Davoli, si regge quando cammina. […] Mi aumenti il ’59 dell’otto e io le dirò che è un bell’aumento. Se no, l’avverto subito: i costi sono tali che chiudo in tre mesi. […] Ora abbassi lo sguardo a questo inverno, Davoli. Siamo all’inizio della primavera. Lei ha due compiti importanti davanti a sé: la campagna natalizia ’58-’59 e la Fiera del ’59. (VM, pp. 64-65) Quando nel secondo atto la scena si sposta dall’ufficio alla camera di Lucio Davoli, ufficiosamente malato di nervi o da stress lavorativo del Ventesimo secolo, l’azienda si trasferisce intorno al letto del degente. Da qui inizia una normale giornata feriale con il solito tran-tran: riunioni, discussioni, carrierismo incalzante, rendiconti, subdoli interventi. Il risultato è agghiacciante: Ottieri riesce a trasportare in una stanza da letto il linguaggio e l’atmosfera dell’ufficio inglobando in un’unica realtà, quella mercificata del consumo, l’alienazione dell’uomo moderno inevitabilmente industriale anche quando non vorrebbe esserlo. Ottieri apprezzava molto il teatro e avrebbe voluto comporre un numero maggiore di opere drammaturgiche, lo stesso desiderio irrealizzabile verterà anche per le sceneggiature cinematografiche, e questa sua particolare predisposizione venne ben compresa da alcuni registi teatrali come Gianfranco De Bosio e Flaminio Bollini che lo invitano, nel cuore degli anni Sessanta, a proseguire un lavoro drammaturgico solamente accennato; Marcello Aliprandi invece gli chiede la collaborazione per il programma del Teatro Belli di Roma. Caro Ottieri, ho letto con viva attenzione e particolare interesse la Sua commedia nella prima stesura [Amore e affari]. Sono stato sorpreso dall’abilità con la quale Lei usa il dialogo; debbo dirLe che raramente nella mia esperienza di lettore di commedie italiane mi sono imbattuto in dialoghi così efficienti. Sono convinto che Lei abbia le qualità e l’istinto per diventare un completo scrittore di teatro. Circa l’opportunità di rappresentare questa opera, ho qualche dubbio. Le nuoce l’insistenza sul tema fondamentale – rapporti d’azienda – che ritorna in tre atti vuoi in superficie vuoi in profondità senza assumere varietà di episodi e di imprevisti tali da giustificare la durata di tre atti. (Gianfranco De Bosio, 14 agosto ’59) Caro Ottieri, sono curioso di sapere se in questi ultimi mesi Lei ha ripensato al teatro e in quale modo; se ha ripreso in esame la Sua commedia Affari e sentimenti, oppure se si è accinto a scriverne un’altra. (Gianfranco De Bosio, 31 dicembre ’59) Caro Ottieri, ho letto con grave ritardo L’impagliatore di sedie e mi ha molto interessato, soprattutto (spero di non dispiacerti) le parti aziendali e quelle psichiatriche. […] Perché non scrivi ancora per il teatro? Io qualche volta, dopo l’edizione radiofonica, penso ancora ai Venditori di Milano che rimane, a mio avviso, tra le commedie più originali del teatro italiano recente. (Flaminio Bollini, 26 settembre ’65) Oltre ai Venditori di Milano, l’unica opera teatrale di Ottieri a esser pubblicata e poi rappresentata, si possono inoltre ricordare alcuni lavori precedenti che non hanno ottenuto la medesima fortuna, confermando tuttavia l’attenzione posta da Ottieri alla forma teatrale attraverso 59 cui veicolare le proprie visioni. Il regista e sceneggiatore Luciano Lucignani, ad esempio, quando alla fine degli anni Cinquanta lavora alla RAI dove si dedica al teatro grazie al diploma in regia ottenuto all’Accademia nazionale d’arte drammatica, chiede a Ottieri l’invio della commedia Se stesso: «Caro Ottieri, il comune amico Calvino mi segnala una sua commedia, che io molto volentieri leggerei. Vuole anche la cortesia di farmela avere? […] Calvino mi presenta il suo nome come se io ignorassi che lei è il fortunato autore di Donnarumma». (30 luglio ’59) Il critico letterario e dirigente RAI Angelo Guglielmi vorrebbe tradurre, negli anni Sessanta, alcune opere teatrali di Ottieri in versioni televisive; ma è necessario una nuova riscrittura da parte dell’autore per rendere più intelligibile una materia densa di significati. Caro Ottieri, abbiamo letto con vivo interesse le due opere teatrali da lei indicate, L’assemblea deserta e Se stesso. […] Riteniamo pertanto necessaria una diversa messa a fuoco, e vale a dire una elaborazione impegnata a rendere esplicito e diretto quanto nei suoi testi teatrali risulta affidato alla dilatazione e alla densità di un linguaggio scelto e selezionato. (23 ottobre ’62) 60 CAPITOLO SECONDO. LA CLINICA II.1 L’impagliatore di sedie Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, Ottieri, avvertendo la fine del «matrimonio tra letteratura e industria» (IMP, p. 5) che lo aveva occupato durante la stesura della tetralogia industriale, e dunque con la consapevolezza di aver chiuso un periodo significativo della propria esistenza, si dimette dall’incarico alla Olivetti, non scrive più opere ambientate in fabbrica e comprende che è necessario, «riprendendo alcuni fili del mio primo libro Memorie dell’incoscienza» (IMP, p. 6), analizzare à nouveau aspetti psicologici e sociali a lui congeniali. Nel ’62 Ottieri viene chiamato a Roma da Tonino Guerra per collaborare alla sceneggiatura de L’eclisse di Michelangelo Antonioni, film estremo e pessimistico incentrato sulla nevrosi che corrode esistenze e rapporti interpersonali; esperienza che spinge Ottieri a scrivere una sceneggiatura romanzata: L’impagliatore di sedie. Mi è capitato di lavorare con il più interessante regista italiano, uno dei migliori al mondo. Senza sua colpa, per la necessità obiettiva della struttura, ho provato i morsi della alienazione da sceneggiatura, una alienazione che non ha nulla da invidiare a quella classica dell’operaio moderno. […] Lo scopo principale di questa autoprefazione è avvertire che questo libro è una sceneggiatura cinematografica. E che, nello stesso tempo, non è una sceneggiatura cinematografica. […] Sono stato preso da smanie cinematografiche, dalla voglia di fare, proprio io, un film. […] Fare il regista? Sì, fare il regista. […] Scrivere una sceneggiatura per me.(IMP, pp. 9, 10) Dalla collaborazione alla sceneggiatura dell’Eclisse a Ottieri si richiederanno dalla Francia i diritti per farne una versione francese ancor prima dell’uscita nelle sale italiane del film. Ottieri dichiara quanto segue: Je soussigné Ottiero Ottieri, demeurant à Rome, Via Calabria 56, déclare avoir collaboré au scénario original intitulé L’éclipse et avoir autorisé la Société Paris Film Production dont le siège social est à Paris, 72 avenue des Champs Elysées, à produire et à exploiter un film tiré de cette œuvre. La présente autorisation est accordée pour la durée de la protection légale à compter de la sortie du film. Fait à Rome, le 7 août 1961. In Ottieri le visioni di eclissi e deserti esistenziali saranno presenti in molte opere, in particolare nel Campo di concentrazione, e derivano come visione cinematografica proprio dalla conoscenza diretta di Antonioni che aveva tentato di renderle concrete sulla pellicola con la 61 cosiddetta tetralogia dell’esistenza formata da L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962) e Deserto rosso (1964). Ha avuto una ben esatta intuizione, Antonioni, nel chiamare L’Eclisse il film i cui veri protagonisti sono l’irrealtà oggettiva, e non autopercepita, di lui e il sentimento d’irrealtà soggettivo, autopercepito, di lei. Questi fantasmatici protagonisti impediscono l’amore tra lui e lei, mettono legittimamente e filologicamente nel film il tema dell’alienazione non da salotto e una sorta di sviluppo in reificazione – cosificazione. (IQ, p. 40) Il deserto dell’esistenza malata è un’immagine che riassume lo stato di sfinimento dei personaggi depressi nelle opere di Ottieri, il quale si appoggia al Deserto rosso di Antonioni anche per la descrizione alienante degli ambienti industriali, e infatti l’alienazione causata dall’industrializzazione si manifesta soprattutto attraverso il paesaggio deprimente, grigio e fumoso, sommerso da ciminiere e serbatoi. Il regista per la prima volta, oltre all’uso della tinta peculiare di una pittura astratta che afferma la funzione psicologica del colore in un’estetica pittorica della fabbrica, si serve della musica elettronica per rendere l’atmosfera ancora più alienante, aleatoria. L’esperienza entusiasma Ottieri che non tarda a voler sperimentare una scrittura cinematografica pensando di ricavarne la sceneggiatura per un film: «Il cinema è stato ed è importantissimo. La mia vera ambizione sarebbe quella di riuscire a alternare il libro con la regia, come hanno fatto, sia pure con diversi valori, Pasolini e Bevilacqua. Io ho aspirato alla regia. Perché è un lavoro artistico fatto con gli altri, non solitario» (ne Gli ultimi eccentrici, p. 135). Il risultato sarà L’impagliatore di sedie, pubblicato nel ’64, in cui egli può applicare le nuove tendenze di un informale psicopatologico rimasto in parte assopito durante il periodo industriale. Il progetto letterario che anima Ottieri si sposta dunque, a metà degli anni Sessanta, dalla ricerca realistica a un realismo clinico dove poter esprimere «l’introspezionismo, il flusso associativo dei pensieri, l’interpretazione analitica e psicodinamica del loro contenuto, insomma un monologo interiore visto alla luce di una dottrina che tenta di classificarlo e spiegarlo» (IMP, p. 12). L’impagliatore di sedie, opera al confine tra romanzo e sceneggiatura, apre un percorso artistico, che si concluderà con l’Irata sensazione, in cui Ottieri scruta le diverse forme della malattia dell’anima, i sintomi ricorrenti comuni tra gli individui, le psicoterapie in atto per ricostruire l’irrealtà della depressione. Attraverso la narrazione di dieci giorni di vita quotidiana, compreso un week-end, Ottieri descrive nell’Impagliatore di sedie le idiosincrasie di alcuni personaggi tra i quali l’autobiografico Carlo Armani, la depressa segretaria Luciana anticipatrice per alcuni aspetti della Contessa, l’amante Teresa, il giovane Pino; ma su tutti emerge l’immagine dell’impagliatore di sedie, un ragazzo catatonico destinato al manicomio. Ottieri dissemina in quest’opera i motivi portanti della 62 sua futura produzione come gli esaurimenti nervosi, la vita alienante di Milano, l’introspezione psicoanalitica, il senso di vuoto che avvolge l’esistenza, l’amore impossibile, la mondanità fatua e allucinatoria con l’ironico auto-riferimento allo scrittore industriale Ramiero Ramieri che anticipa il Salottiero Salottieri del periodo mondano, i tarli che rodono il cervello, il collasso del tempo immobile, la visione dell’imbuto infernale, l’immagine funerea delle cliniche dall’aspetto innocuo di ville fuori città, la tendenza schizofrenica, l’orrore della mercificazione nella moderna società di massa, il pensiero della morte, l’angoscia del risveglio mattutino, gli stati di alienazione. Tutti aspetti che lo scrittore traduce in scrittura vivendoli quotidianamente in prima persona e che verranno in seguito approfonditi ne L’irrealtà quotidiana, I divini mondani, Il pensiero perverso, Il campo di concentrazione, Contessa, Il poema osceno, De Morte. La città-garage è più brutta e grigia possibile. […] Ho fatto tardi per l’esaurimento. […] Non è sempre il solito. Chi sta fuori si sbaglia. È sempre lo stesso ma cambia. Da due giorni quel senso… quel senso… che avevo nel cervello, è diventato un altro senso. […] Vorrei essere sempre da un’altra parte da dove sono. […] Questo senso mi dà… fastidio. O un brivido, al cervello. Ce l’ho sotto il cervello. […] Ho la sensazione che vorrei andare in un altro mondo. […] Quell’altro mondo è in questo Mondo. Ma anche fuori, sopra. […] È il tempo che mi dà… fastidio, sotto il cervello… la mattina, il pomeriggio, il dopocena. L’esaurimento è il tempo. […] Sono precipitata giù per un imbuto, lo so, ha le pareti lisce, dove non c’è dove appoggiarsi. Sto male. […] Non mi va di vivere domani, stasera, fra un’ora. È tutto chiuso. Le strade, i muri, i muri mi fanno orrore. Ho orrore della realtà, della città. […] Vai a cena con loro. Poi a chiacchierare in un salotto. I salotti, i salotti, sempre i salotti, che ci fai? Ci aspetti di andare a ballare. E, dopo, vai a ballare. […] Quella medesima notte, depresso scende, cautamente per non cadere, la scaletta buia e tortuosa di un night elegante, quasi un club. […] Naturalmente punta verso il bar, ma incontra subito uno dei pochi intellettuali notturni di Milano, forse l’unico, il quarantenne Ramiero Ramieri che esce dal gabinetto e che egli conosce, perché Ramieri è uno scrittore integrato nell’industria. […] Io sono schizofrenica. – Schizofrenica no. Un po’ schizoide. […] Noi abbiamo creato e veniamo continuamente ricreati da una civiltà di massa. È il nostro destino sociologico. […] La morte è più importante della vita. […] La mattina la fa tremare minuto per minuto e la immerge scorticata viva in un mare di sale. […] Si è incamminato circospetto verso il cancello di una grande villa; verso un giardino con altissime piante, anonime, verdi, piatte. […] L’alienato è tutto uomo e il rovescio vero dell’uomo. (IMP, pp. 25, 35, 36, 38, 90, 91, 109, 111, 112, 114, 126, 166, 184, 197, 201) Per questi motivi L’impagliatore di sedie è un exemplum per comprendere la modalità creatrice e progettuale di Ottieri, quella volontà esplicita di strutturare la propria poetica in un progetto letterario nel quale tutti i testi sono parte integrante di un insieme inscindibile. La sorprendente novità di un’opera inclassificabile come L’impagliatore di sedie, che presenta motivi quali l’alienazione mentale, esaurimenti nervosi, depressioni, ancora abbastanza vergini nella letteratura italiana a eccezione del Male oscuro di Giuseppe Berto pubblicato nello stesso anno dell’Impagliatore, non passò inosservata e alcuni critici letterari come Luigi Baldacci e Mario Pompilio lo riferirono direttamente all’autore: «Caro Ottieri, non ho capito poi perché L’impagliatore di sedie Le abbia procurato quei dolori a cui Lei accenna. Per me è stato veramente il Suo più bel libro, il Suo libro nuovo». (28 agosto ’64) 63 Caro Ottieri, il tuo Impagliatore di sedie è come un mondo d’acquario, ecco la mia sensazione, qualcosa che sta al di là di un vetro e io non riesco a toccare. […] Sei stato lo scopritore e l’antesignano d’una materia, quella dell’alienazione industriale, che adesso, in mano ai faciloni venuti dopo di te, è diventata finanche stucchevole: e capisco che, per tuo conto, tu voglia battere altre strade. […] La questione che ti resta soprattutto da risolvere, tu scrittore d’una generazione che ha trovato la sua ragione d’essere confrontandosi con la storia, è di chiarire meglio a te stesso i rapporti tra alienazione sociale e alienazione mentale. (19 giugno ’64) L’impagliatore di sedie verrà proposto anche alla selezione del Premio Campiello per il ’64 senza tuttavia raggiungere il riconoscimento finale, attestando comunque un notevole interesse per l’opera: «Gentile Dottor Ottieri, nella prima rosa delle opere figura anche il Suo libro L’impagliatore di sedie e pertanto Ella dovrebbe comunicarmi entro il 15 giugno p. v. se Le è gradito che la Sua opera partecipi al nostro Premio Campiello» (Vittorio Cossato, 3 giugno ’64). Interesse che travalica anche le frontiere italiane. Ottieri viene contattato infatti da Dionys Mascolo, un italo-francese reattore delle Edizioni Gallimard di Parigi che gli chiede, in una lettera del 21 dicembre ’64, di poter tradurre L’impagliatore di sedie: «Je peux vous dire simplement que j’ai écrit, au milieu du mois de novembre, à M. Javion pour lui demander s’il accepterait de traduire L’impagliatore di sedie». Il lavoro di traduzione si rivelerà più difficoltoso del previsto a causa di molteplici problemi, dalla scelta del traduttore ai cambiamenti ai vertici della casa editrice parigina. In una lettera del 24 ottobre ’67 Mascolo sembra confermare allo scrittore l’avvenuta traduzione ormai pronta per andare in stampa e con l’uscita prevista per la primavera del ’68. Ottieri fa confluire efficacemente i motivi de L’impagliatore di sedie nell’opera successiva L’irrealtà quotidiana che rappresenta nel percorso letterario di Ottieri un’opera determinante, una frattura in rapporto ai suoi romanzi precedenti relativi alla letteratura industriale, attestando l’inizio ufficiale dell’analisi approfondita sul Male, termine che riassume la malattia storica e psicologica vissuta in se stesso e nella società, che accompagnerà l’autore fino all’Irata sensazione conclusiva. II.2 L’irrealtà quotidiana L’irrealtà quotidiana è un saggio romanzato che vinse il Premio Viareggio del ’66 non senza obiezioni e polemiche da parte dei giurati a causa della sua difficile inclusione nella sezione riservata ai saggi. La difficoltà di classificazione è una caratteristica della scrittura di Ottieri che riguarda opere narrative e teoriche, prosa, versi, pamphlet, poemetti, satira menippea, diario confessione etc. Da qui l’inclassificabilità come elemento distintivo che lo ha reso scrittore, romanziere, poeta, drammaturgo, commediografo, sceneggiatore, sociologo, analista-analizzato, 64 acutamente problematico, complesso, mai banale e con il quale i conti restano sempre aperti. A tal proposito Dionys Mascolo, già conosciuto ai tempi della traduzione dell’Impagliatore di sedie, spiega a Ottieri l’impossibilità di tradurre in francese L’irrealtà quotidiana perché il testo, in Italia come in Francia, non è catalogabile: Monsieur Ottieri, quant a L’irrealtà quotidiana, la raison principale pour la quelle M. Gallimard a finalement décidé de renoncer au livre, c’est que, de l’avis de tous les lecteurs, le livre n’aurait pu trouver place dans aucune collection, ni de romans, ni d’essais. […] Je peux résumer leurs jugements, en disant qu’ils pensent que l’essai dans votre livre vient neutraliser le roman, et que l’élément romanesque affaiblit l’essai. Je dois ajouter, non pas pour vous faire plaisir, mais pour être véridique, que tous les lecteurs trouvent cependant l’ouvrage du plus haut intérêt. Mais tous ajoutent aussi que la multiplicité des thèmes risque d’égarer les lecteurs. Je dois dire aussi (vous savez que cela compte) que tous doutaient que le livre pût trouver en France un public suffisant. (24 ottobre ’67) Nell’Irrealtà quotidiana Ottieri ha radicalizzato le sue esperienze precedenti aprendo la breccia sul tema della malattia, mentre si chiudeva in modo definitivo la riflessione industriale elaborata nella tetralogia. Ma non si può trascurare che, anche nelle opere ambientate in fabbrica, il malessere esistenziale, la disperazione, il conflitto uomo-società erano già presenti, confluendo poi nella produzione successiva. In sintesi L’irrealtà quotidiana fa da trait d’union tra il tema industriale e quello clinico, senza alcuna frattura e con un passaggio del testimone ben riuscito, se non per le situazioni che cambiano; e la conclusione di questo processo sarà il punto di partenza per affrontare de visu il Male esistenziale. L’itinerario tracciato nell’Irrealtà quotidiana segue diversi percorsi: storico dal dopoguerra agli anni Sessanta, politico dal fascismo giovanile al socialismo, filosofico da Cartesio a Sartre, sociologico con l’analisi delle trasformazioni sociali avvenute in Italia, psicanalitico grazie all’interesse per gli studi di Freud, Perrotti, Bouvet, Gabel, letterario nei rapporti diretti con Moravia, Berto, Pavese e Volponi, artistico con riferimenti alla Pop-Art. Nella complessità di tale trattazione, Ottieri tenta di definire la natura del sentimento d’irrealtà, la sua struttura, la possibilità di descriverlo e il modo in cui esso influenza la percezione della vita quotidiana. L’irrealtà quotidiana ha struttura propriamente saggistica con quattro parti suddivise ciascuna in sei capitoli, a eccezione dell’ultima con cinque, che propone una storia romanzesca, quella di un nuovo alter ego dello scrittore, Vittorio Lucioli che riprende il suo secondo nome e il primo dei cognomi anagrafici della famiglia Ottieri, mediante un’indagine-confessione in cui le vicende private si sovrappongono a quelle pubbliche sullo sfondo di un’epoca che stava trasformando il volto della società italiana e non solo. Si tratta di un’autobiografia culturale che parte dal ’39, con l’inizio della seconda guerra mondiale, per arrivare alla metà degli anni Sessanta con quei conflitti sociali e politici pronti a esplodere nel ’68. L’irrealtà quotidiana è un’auto-analisi 65 letteraria, un’indagine viscerale condotta senza indulgenze, una confessione senza confessore in cui una vicenda privata è nello stesso tempo l’emblema di una storia comune, prettamente italiana, di quei decenni: dalla crisi del fascismo, alla Resistenza, al boom industriale, alla rivolta contro i Padri, all’infatuazione marxista, all’alienazione. Tappe forzate di una fase storica in cui il volto dell’Italia contadina e provinciale si stava trasformando troppo velocemente, caratterizzata da enormi distorsioni sociali che Pasolini definì con due espressioni: «mutamento antropologico» e «progresso come falso progresso». Lucioli è l’immagine di questa mutazione, della sofferenza esplicitata nel male spirituale, il sentimento d’irrealtà, lo specchio disperato e convulso di una realtà nemica. Ottieri realizza una trattazione ben documentata di quel periodo compenetrando le vicende personali con quelle sociali in un connubio inscindibile, senza tuttavia restare prigioniero della sua opera. Lucioli è uno scrittore nevrotico impiegato in un’industria, in eterna terapia e studioso di psicoanalisi, analizzatore nel lavoro per la selezione del personale e analizzato nella vita, paziente e medico insieme, che tenta di spiegare la propria poetica, in quanto scrittore, e nello stesso tempo la malattia che influenza la sua scrittura in un’opera fittizia, un’Autobiografia culturale pubblicata nel 1964 dalle Edizioni Della Ciaia, dal nome di un ramo genealogico della famiglia Ottieri, che in realtà è l’attuazione pratica, letteraria e autobiografica delle teorie studiate, analizzate, vissute dallo stesso Ottieri. Lucioli utilizza dunque la letteratura per indagare il proprio male e gli stati d’irrealtà vissuti dall’infanzia, al tempo del fascismo adolescenziale, fino al marxismo-freudismo dell’età matura. La malattia che condanna Lucioli è uno stato mentale indescrivibile che «sta all’incrocio fra io e mondo, io e sé, coscienza, percezione e conoscenza, dove s’incontrano tutte le filosofie del mondo» (IQ, p. 156), i cui sintomi si presentano come percezioni della propria essenza, irricordabile, senza immagini, pura astrazione, un pensiero senza visuale. Lucioli segue una terapia e, grazie agli studi giovanili di psicologia, s’interessa di psicanalisi freudiana e si autoanalizza contendendo all’analista il primato dello scavo profondo nel suo animo. Sono tre i motivi principali esaminati da Lucioli nella sua opera: la malattia, la cultura e l’arte. L’obiettivo dichiarato è quello di ripercorrere culturalmente il proprio passato attraverso un libro di memorie, l’Autobiografia culturale, analizzando con attenzione, lui scrittore, le fonti della propria poetica. Il contesto storico è quello dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, del boom economico e delle trasformazioni industriali, delle illusioni perdute e del “paese mancato”. L’arte e la scrittura sono connesse alla scienza, alla filosofia, alla politica, alla psicanalisi e Lucioli non può estraniarsi da questi rapporti: è necessario dunque ripensare alla natura dell’arte e relativizzare il problema delle poetiche per individuare il momento della verità che si trova tra il conscio e l’inconscio. La sua scrittura è legata alla psicoanalisi, alla lotta analitica tra medico e paziente, 66 all’agonismo che pone tutto in analisi fin dal rapporto con i Padri, necessariamente al plurale. Tra storia, politica, società, psicoanalisi, il sentimento d’irrealtà si sviluppò in Lucioli negli interstizi della «infezione psichica» (IQ, p.178) mentre la crisi storico-individuale viene vissuta, in quel determinato contesto socio-culturale, dallo scrittore che si sentiva un disadattato trafitto dagli strali dell’ansia, dell’angoscia, della depressione. La vocazione letteraria, morbosa, contestata, sofferta, si presentava dunque come un’esplosione-implosione di debordanti sensazioni di una malattia senza volto ma avvolgente che non si lasciava osservare e descrivere con facilità. Fin da piccolo Lucioli aveva sofferto d’ansia e di malinconie rapide, improvvise che stentava a giustificarsi, passando davanti a un giardinetto triste e magro tra due case, o suonando il campanello di casa sua per rientrare, nel momento stesso in cui appoggiava il dito sul vecchio, lungo, tremolante pulsante bianco. Erano soffi neri, pause cupe e sprofondanti, dovevano essere i primordi del sentimento d’irrealtà che un bambino poteva vivere soltanto come crisalidi di depressione. (IQ, p. 170) Come durante uno stato d’ipnosi, Lucioli regredisce alle fasi infantili riavvolgendo il nastro della sua esistenza: in principio fu il sentimento d’irrealtà, osservata sempre con il colore bianco mentre la depressione è nera, a determinare le prime percezioni del bambino e a modificare il suo sentirsi nel mondo. L’episodio cardine ricordato da Lucioli, il momento decisivo che ha segnato la sua vita, riguarda il suonare quel campanello di casa. Nell’intervista Non sono un malato ma un policlinico rilasciata a Serena Zoli in E liberaci dal male oscuro, Ottieri rielabora le esperienze contrassegnate dal Male e da una sintomatologia molto violenta non solo legata alla depressione ma anche agli attacchi di panico, ai disturbi ossessivi-compulsivi: «A cinque anni ho avuto il primo segno. Fu mentre rientravo a casa, suonai il campanello e fui preso da un fortissimo senso di struggimento. Violento e improvviso. Che cos’era? Oggi lo battezzo col nome alla moda “malinconia”. Lo ricordo in modo vivo, come un flash» (In E liberaci dal male oscuro, p. 425). La medesima circostanza verrà ricordata anche in alcuni versi della Corda corta e in un passo dell’Infermiera di Pisa: «Ricordi / di aver cominciato a non sopportarlo / a circa tre anni, / quando passavi dai Giardini alla casa / e premevi il campanello domestico, / con il cuore nero» (COR, pp. 130-131). «Premendo / il campanello bianco della scura / porta di casa in noce, / fui succhiato dal mulinello della melanconia. / Il cuore scese in basso» (IP, p. 27). Dopo aver posto le basi delle prime esperienze infantili, Lucioli riprende il cammino dell’analisi introspettiva che non lascia spazio a mitigazioni di alcun genere. Egli non fa sconti, non cerca scuse, non attenua le conseguenze della propria malattia: si auto-osserva come disteso sul lettino dell’analista o sul tavolo del chirurgo per sviscerare-asportare il Male psichico-fisico dalla propria anima-corpo. Impresa ardua che Ottieri conduce offrendo la scena principale a un alter ego 67 il quale spesso parla in terza persona per oggettivare con più precisione questo tipo di analisi impietosa. Lucioli era psicologicamente vigliacco. La sua si manifestava come nevrosi di debolezza, aggressività rientrata, autoriferimento, evasione non fantasticata, ma roditrice. Imitava per inesperienza di sé (se non astratta) e per identificazione con gli altri; soffrendo come capita a chi si vuole mettere nella vita di un altro: vive la impossibilità di una operazione simile, ritorna a un se stesso insufficiente, paralizzato dal fantasma di vivere la vita di un altro. (IQ, p. 173) Il concetto «vivere la vita di un altro» ovvero Identificarsi, tentativo pazzesco, quinto paragrafo della terza parte Rapporto gerarchico e rapporto paritetico dell’Irrealtà quotidiana, avrà una propria evoluzione poetica nel secondo poemetto della Corda corta intitolato Gli altri o le proiezioni invidiose in cui Ottieri, appena giunto nella clinica Kremlin-Bicêtre19 di Parigi dopo l’esperienza alle Betulle20, «sei passato da Appiano a Parigi, / da un pianeta a un castello, / quello di Bicêtre che fu prima / prigione di Sade, poi ospedale / per ogni male, ove si pratica ora / la cura del disgusto, in banlieue, / a Porte d’Italie» (COR, p. 147), riflette su quelle disfunzioni della propria personalità che dopo averlo trasformato in un Niente, lo costringono a essere un altro, cioè in ordine di apparizione Achille, L’uomo di Odogno, Moravia, Sante il nobile vaccaio, Antonioni, Abbao, Pasolini, Crispolti, Di Mauro. A tal proposito la vigliaccheria psicologica definita da Lucioli si può comprendere nei sintomi della depersonalizzazione al cui interno, secondo Ottieri, si agita il sentimento d’irrealtà. La persona come soggetto di relazioni è stata pensata, in ambito filosofico, in tre accezioni che si sono succedute storicamente: sostanza primaria capace di agire secondo libertà con conseguente coinvolgimento delle proprie azioni; autorelazione dell’individuo con se stesso secondo il modello cartesiano che identifica la persona con l’Io inteso come coscienza; relazione con il mondo conformemente all’ipotesi marxista che concepisce la persona come la risultante dei rapporti che l’uomo istituisce con la natura e con i propri simili. In ambito psicologico la persona è considerata come punto d’incontro, sempre dinamico, di fattori genetici e socio-ambientali responsabili dei costitutivi consci e inconsci di ciascun individuo. Rispetto al concetto d’individuo, quello di persona si distingue per il riconoscimento che viene dagli altri e questa interdipendenza psicologica è alla base anche dei processi di depersonalizzazione in cui l’individuo non percepisce più se stesso come presente nella vita quotidiana e come interagente con i propri simili. Il sentimento d’irrealtà 19 Le Centre Hospitalier Universitaire du Kremlin-Bicêtre si trova al 78, rue du Général Leclerc, 94275 Le Kremlin-Bicêtre, pochi chilometri a sud di Parigi. Ottieri soggiornò al Kremlin-Bicêtre alcuni mesi del ’75 per disintossicarsi dall’alcol sottoponendosi alla «cura del disgusto», esperienza tradotta poeticamente nella seconda parte della Corda corta dal titolo Il gusto del disgusto. 20 La Casa di Cura Le Betulle, ubicata in Viale Italia 36 ad Appiano Gentile (CO), fu ideata e costruita per volontà di un gruppo di medici psichiatri diretti dal Prof. Dott. Augusto Guida, e inaugurata il 3 aprile 1966. Ottieri trascorse alle Betulle un lungo periodo di degenza tra gennaio e luglio del ’74. 68 scaturisce, per Ottieri, proprio da queste avarie psichiche che provocano condizioni alienanti, apatiche, di vuoto, stati nevrotici con difficoltà a organizzare in modo congruo i propri pensieri. Lucioli rielabora la propria esistenza sotto la lente d’ingrandimento degli studi psicoanalitici condotti fin dall’adolescenza e l’autoritratto che emerge è impietoso: «Lucioli aveva un destino di solitario e quattro diavoli lo incalzarono nell’ingresso nella vita: la letteratura, il lavoro, gli studi non letterati, la vita affettiva. […] L’esistenza di Lucioli non è mai stata tranquilla, anzi, si potrebbe dire, è stata un inferno» (IQ, p. 175). L’inferno di Dante e la Commedia sono presenti nelle pagine di Ottieri attraverso citazioni e rifacimenti, ed è possibile immaginare il campanello bianco della sua infanzia come la selva oscura, mentre la malattia individuale e sociale post-bellica come metafora dell’ingresso all’inferno. Il riferimento sarà ancora più esplicito nel Campo di concentrazione dove l’esistenza del malato-condannato si svolgerà in un vero e proprio inferno: il manicomio. Dopo aver superato la porta di questo immaginario ingresso, Lucioli ripercorre le tappe della sua personale Vita Nova che inizia negli anni Quaranta, con una guida particolare, la psicoanalisi, il Virgilio di turno. La psicoanalisi, ossia «il lavoro di analisi è un buco che si fa nel profondo, buco che viene continuamente ricoperto da detriti, che sono i sintomi» (CC, p. 18), accompagna tutto il percorso letterario di Ottieri, il quale fin dall’adolescenza s’interessò di psicoanalisi come strumento per analizzare gli spazi interni, soggettivi e ancora inesplorati dell’animo umano. Ho cominciato presto a leggere Freud e ho avuto i primi contatti con un analista nel ’46, appena finita la guerra. Sono stato fra i primi in Italia. L’inconscio, l’inconscio tutta la vita. E anche adesso l’inconscio comanda. È lui che se vorrà mi manderà via dalla clinica. A me sembra di vivere, di essere tutto nella coscienza, e di cercare non l’inconscio ma l’incoscienza. (CC, p. 91) La terza parte dell’Irrealtà quotidiana, intitolata Rapporto gerarchico e rapporto paritetico, è dedicata alla conoscenza di Lucioli della psicoanalisi, e in particolare alle riflessioni sul freudismo, agli scontri con l’analista e «alla relazione di questa relazione con la metodologia della rappresentazione artistica» (IQ, p. 179). Lucioli iniziò la terapia mentre all’esterno impazzava il boom economico: per lui la crisi, che pochi anni prima era collettiva e storica, si stava trasformando in individuale e psicologica con un culminante esaurimento nervoso che coincideva con quello storico. Il sentimento d’irrealtà fu interpretato dall’analista come una: Estrema difesa, l’ultimo arroccamento difensivo contro l’accettazione della realtà, da parte di chi si vedeva erodere dall’analista tutto il proprio Sistema (di vita). L’analisi fu per Lucioli una lotta di Sistemi; il suo, il narcisistico, che gli pareva l’unico giusto e possibile ma che lo faceva stare insopportabilmente male, e il sistema nuovo, non narcisistico, prospettato dall’analista, che a Lucioli pareva per sé assurdo, ma che era l’unica alternativa concreta. […] Il sentimento d’irrealtà di Lucioli fu, appunto, una difesa dalla realtà e sostituì altri sintomi. (IQ, p. 179) 69 È un tipo di analisi particolare, agonistica, una vera e propria Lotta analitica, titolo del capitolo terzo, con la quale bisogna fare i conti per comprendere le peripezie di Lucioli, mentre le tensioni che si sviluppano tra medico e paziente hanno due ragioni determinanti: in primo luogo tutto è in analisi finché essa dura, e inoltre il paziente stesso studia psicologia. Dall’Irrealtà quotidiana al manicomio di Zurigo (Il campo di concentrazione), dalla casa di cura San Rossore di Pisa (L’infermiera di Pisa) alla clinica di Losanna (Cery), dal Pensiero perverso alle Guardie del corpo all’Irata sensazione, la letteratura di Ottieri è disseminata di analisi, psicoanalisi, cure disintossicanti, medici, infermieri e carcerieri. Gli analisti Musatti, Cassano, Zapparoli, Gallimberti si presentano sulla scena come gli antagonisti dello scrittore, e con essi s’instaura uno scontro senza quartiere per la supremazia nelle tecniche terapeutiche. Il confronto con questi numerosi Padri è sempre serrato ma l’impressione finale è che nessuno possa uscire vincitore dal perpetuo combattimento. Un elemento cardine di tale rapporto conflittuale è il silenzio che crea un muro invalicabile e imbarazzante per il paziente che nel riempire tale vuoto parla con poco costrutto senza ottenere alcuna risposta. È una tecnica usata in psicoanalisi e riscontrabile in Giada, La psicoterapeuta bellissima, che tace irresistibilmente mentre gli altri, pazienti e non, le parlano: Entra la bellissima Giada. GIADA: «Sono felice, mi hanno promossa agli psicotici». (Diceva e ripeteva psicotici come facesse un pompino). CHRISTIAN: «Ma chi sono questi psicotici?» Giada, sussiegosa, tace. GIADA: «Devono essere quelli che hanno una tale ansia che, per scrollarsela di dosso, corrono nudi per la via del Tritone e, ritornati in stanzetta, mangiano la propria cacca». Giada, sussiegosa, tace. (PB, p. 9) In questo breve frammento si nota il silenzio della terapeuta che lascia parlare senza intervenire nella discussione per fugare eventuali dubbi o chiarire le incomprensioni. Dialogo surreale in cui le malattie mentali sono trattate come argomento triviale fino a ridurre a macchiette sintomi penosi che attestano gravi regressioni, quali il delirio o la scatofagia. Anche Lucioli si trova ad affrontare un’analisi silenziosa in cui il terapeuta utilizza lo strumento del silenzio: Disse al medico che dovevano darsi del tu. Secondo la tecnica, il medico tacque. […] Sono affascinato da questo silenzio dell’analista neutrale, io che non reggo il silenzio. […] È la tragedia analitica del silenzio, il rimbalzare del paziente contro il muro fermo del medico. […] Dicono che intere sedute si svolgono nel silenzio completo dei due. A me non è capitato mai perché non reggo il silenzio, parlo e parlo, per riempire il vuoto. Ma l’analista tace. […] «Forse potrei cominciare l’analisi oggi». Tace. «Lei non ha nessun parere in proposito?» Tace. (IQ, p. 192) La lotta analitica, l’agonismo psicoanalitico che mette in contrasto il medico «Padre crudele» (IQ, p. 224) con il paziente, viene vissuto da Lucioli come una battaglia personale che gli permette, basandosi sulle proprie forze, di raggiungere risultati insospettabili: l’autoanalisi. Il 70 transfert, che designa la condizione emotiva della relazione del paziente nei confronti dell’analista, in questo caso si scioglierebbe, e nella partita a scacchi tra i due proprio il paziente avrebbe la mossa per lo scacco matto, il contro-transfert. Il rapporto allora non sarà più gerarchico, come prevede la psicoanalisi, bensì paritetico: e questa appare una vittoria sofferta ma ottenuta con merito dal paziente che finalmente si sente libero. Vittoria di fugace sollazzo, come si constaterà ben presto: E se diventassi analista io? Molti pazienti attraversano questa fase. Conquisterei il diritto di interpretare il mio analista, la interpretazione di lui che interpreta me che interpreto lui. […] L’analisi è l’arretrare, il ripercorrere. L’inconscio è il mio dubbio, la mia speranza, la mia rovina e il mio alibi. […] Interpreti pure che continuo a aver bisogno di un Padre come quando necessitavo di un duce. […] Ogni identificazione, ogni venire dell’analista verso, con, incontro a me, mi toglie speranza di guarire. Mi sembra che disinneschi la terapia (che castri il Padre?). […] E mentre Lucioli analizzava, forse l’analista, Padre crudele, pensava: si sappia chi è costui che giudica e manda dietro la sua scrivania… Eccolo lì il falso medico e perciò il falso paziente. Analizza gli altri per sfuggire sé, ma non si sfugge veramente, se appena lasciato solo, va al gabinetto a vomitare angoscia. (IQ, pp. 187, 190, 191, 224) Nello svolgimento di questo contrasto, Lucioli comprende che il suo pensiero ambivalente lo condannerà ancora una volta, mentre il proprio freudismo vissuto, deformato, non risolve affatto il transfert come lui vorrebbe. Alcuni aspetti del freudismo, causalistico, razionalistico, gerarchico e contenutistico, spingono poi Lucioli a considerare il paziente, lui stesso, quale un oggetto nelle mani del terapeuta che lo osserva come una res, un congegno meccanico. Ma l’uomo-oggetto non è certo una prerogativa soltanto psicoanalitica avendola riscontrata nel concetto di alienazione marxista. E inoltre Lucioli scopre un’altra applicazione effettiva dell’uomo-oggetto durante i colloqui di assunzione nei quali egli, addetto alle interviste per la selezione degli impiegati, è costretto a valutare i candidati con leggi tecnocratiche, con il tempo e le domande predeterminate. È questo un periodo fondamentale della vita di Lucioli-Ottieri, in cui egli personaggio-uomo, medicopaziente, tra Freud e Marx, analizza gli altri mentre viene analizzato, applicando su se stesso l’alternativa di ruoli, un leit motiv della sua poetica. Si è all’inizio degli anni Cinquanta, e Ottieri viene assunto dall’ingegner Ariano Olivetti con l’incarico di selezionatore del personale nella sede della nuova fabbrica di Pozzuoli. Il Lucioli analizzato-analizzatore trascorreva le sue giornate tra la fabbrica e lo studio dello psicoanalista cambiandosi di costume dal ruolo d’intervistatore a intervistato, per poi scrivere opere relative alla letteratura industriale dove si condensavano differenti elementi quali Freud, Marx, la fabbrica, la scrittura, la questione meridionale, lo stravolgimento sociale durante il boom economico in Italia. Si dovrebbe rifare la storia delle origini involontarie di quel che chiamano Letteratura e industria. È più interessante riferire le impressioni di Lucioli circa il periodo in cui fu un analizzato e in un certo senso un analizzatore. […] L’unico tempo e spazio che aveva per cambiarsi l’abito e l’animo era il breve tragitto nel 71 centro della città ingorgata; guidava meccanicamente e assisteva al cambio della guardia nel proprio cervello. (IQ, p. 221) Lucioli svolge due parti in commedia per non scegliere mai: questa è l’analisi del terapeuta. La professione di analista-selezionatore si accartoccia durante le sedute con lo psicologo ma non si liquefa: è la condanna del «bipolare rapido» (GC, p. 69) per il quale il meccanismo ossessivo del dramma della scelta non gli permette di dare la preferenza a una sola possibilità. L’autoanalisi celebrata in precedenza è in verità solo uno specchio per le allodole perché all’interno della struttura dell’opera e nelle viscere del protagonista si sta affrontando una questione ancora più rilevante, quella dell’essenza stessa del personaggio nella narrazione: Il paziente-medico (di se stesso) è il protagonista del dramma dell’autocoscienza, dell’insufficienza di questa. […] Ugualmente, il medico-paziente è il personaggio centrale dell’epoca, l’Amleto di oggi, il protagonista di un romanzo ontologico che forse qualcuno sta già scrivendo, in cui non si discutano le strutture del romanzo in sé ma si discutano di riflesso alla discussione sulle strutture di un uomo, appunto il medico-paziente, colui che sta fra la possibilità di dire l’ultima parola su se medesimo, cioè di mettere in crisi le proprie strutture contraddicendole tecnicamente e nel profondo. (IQ, pp. 222-223) Il nucleo della riflessione riguarda la natura e la conoscenza dell’essere come oggetto in sé attraverso l’analisi delle strutture dell’uomo in un periodo in cui lo strutturalismo, negli anni Sessanta, si presentava come la rivoluzione epistemologia del secolo. Le strutture di un uomo sono complesse a causa dei rapporti dinamici di fattori genetici e socio-ambientali mentre lo strutturalismo riconduce, nell’ambito di un’analisi rigorosa, anche quelle realtà spirituali come l’arte o lo studio sull’uomo. In Ottieri non c’è, e non ci sarà mai, il raggiungimento di un punto fermo, di un risultato privo di contestazioni; al contrario, il rovellarsi continuo e il dubbio martoriante lasciano aperte numerose analisi già in Lucioli, personaggio simbolo di una crisi irreversibile per tutti gli altri suoi colleghi condannati a stati d’irrealtà permanenti. Ciò che si ottiene alla fine è un ritratto impietoso e al confine del grottesco: Eccolo il super-ragionevole, mite, lucido, a volte dolce, a volte tagliente, ma sempre tutto in ordine di fronte al mondo: eccolo, da solo, posseduto dai demoni come una zitella meridionale tarantolata. È molto meno pazzo di un pazzo. Molto più nevrotico di un nevrotico, molto più savio di un sano e non è savio per niente; ma che è? Butto a mare la psicoanalisi e dico semplicemente: è un isterico! (IQ, p. 224) Gettata la maschera, la definizione «isterico» con tanto di punto esclamativo distoglierebbe l’attenzione dalla realtà di questo personaggio che sarà l’archetipo di tutti gli altri presentati da Ottieri nelle opere successive. Tra pazzia e ragione, malattia e analisi, ordine e demoni, l’uomo a mille dimensioni è frantumato nell’alternativa di ruoli mentre emette gli ultimi spasimi di un’esperienza che tuttavia lascia aperte nuove combinazioni (le più immediate Il pensiero perverso 72 e Il campo di concentrazione). Gli ultimi spasimi si riferiscono all’utopia psicologica che, seguendo il modello marxista di dissoluzione delle classi sociali, potrebbe cancellare ogni gerarchia psichica: il marxismo nella mente di Lucioli, da sociologico diventa antropologico addentrandosi poi nell’ambito della psicologia fino a distruggere tutte le gerarchie del mondo, tra cui quelle psichiche, al grido Nevrotici di tutto il mondo, unitevi! «Realizzata l’utopia psicologica, distrutte le gerarchie del mondo, resta da calare nel mondo l’utopia psicologica che distrugga le gerarchie psichiche. Qui viene il bello» (IQ, p. 225). La prima parte dell’Irrealtà quotidiana prende il titolo dal sentimento stesso e, nel corso dei sei capitoli, Ottieri tenta di analizzarlo nel profondo e da diverse prospettive sebbene esso si mostri difficilmente afferrabile. Già dal primo capitolo, La svolta a U, si delinea una causa determinante nello sviluppo di tale sentimento che è la scissione tra la mente e il corpo a causa del meccanismo ossessivo del dramma della scelta, tipico esempio di dualità vissuto da un «bipolare rapido» (GC, p. 69) come si autodefinisce Ottieri: «Il meccanismo (ossessivo) di questo vecchio dramma della scelta è semplice: appena si decide una via, si finisce per decidere anche la via opposta» (IQ, p. 9). Nelle prime pagine dell’Irrealtà quotidiana Ottieri utilizza alcuni termini per descrivere come il drammatico procedimento della non-scelta sia vissuto da chi lo prova, facendo riferimento ad altri registri linguistici o contesti letterari, con il risultato di una scrittura straniante ma efficace. Il linguaggio usato da Ottieri è spesso ambivalente e intriso di metafore, ossimori, con rimandi impliciti ad altri autori che rendono la sua scrittura aperta a diversi coinvolgimenti e densa di richiami letterari. Nel descrivere il conflitto perpetuo dell’inevitabile non-scelta che inchioda l’uomo ambivalente a una drammatica immobilità, Ottieri riprende delle espressioni dantesche estrapolate da alcuni canti dell’Inferno. Ne è un esempio la frase «Se io sono incerto fra due corni di un dilemma sul piano mentale» (IQ, p. 9) che rinvia ai due corni della «fiamma antica» di fraudolenta memoria: il riferimento è all’episodio di Ulisse e Diomede nel ventiseiesimo canto: «Lo maggior corno della fiamma antica / cominciò a crollarsi mormorando, / pur come quella cui vento affatica» (Inf., XXVI, 85-87). La fatica della scelta del bipolare rapido si coagula con la difficoltà della voce di Ulisse nel farsi strada attraverso la lingua di fuoco, mentre si scrolla come gli alberi al vento, del tutto simile all’ondeggiamento della non-scelta. Quest’eterno dramma esistenziale si svolge all’interno della mente del malato in cui si scontrano forze antitetiche che non riescono a prevalere tra loro: «Intanto nella mia testa avviene il cozzo, il subdolo ed estenuante confronto fra due immagini accostate come due carte da gioco aperte in una mano» (IQ, p. 9). Il cozzo rimanda allo scontro tra gli avari e i prodighi del secondo cerchio: «In etterno verranno a li due cozzi: / questi resurgeranno del sepulcro / col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi» (Inf., VII, 55-57). Il termine «cozzo», come il verbo «cozzare», caratterizza 73 per Dante l’aspetto bestiale dei dannati nelle loro azioni, mentre in Ottieri determina l’inumanità delle malattie mentali evidenziando l’evaporazione dell’aspetto fisico del malato. Un’ultima annotazione riguarda due termini, «lacerazione» e «zuffa», che avvengono durante il conflitto della non-scelta: «Non scegliere affatto; ovvero ritirarsi in un punto più alto sul terreno arato e martoriato del tira-e-molla, lì arroccarsi e riacquistare una unità che assiste alla lacerazione di un altro, e alla zuffa delle motivazioni immaginate» (IQ, p. 11). Uno scenario mentale che rinvia alla grottesca scena dei barattieri cui sono dedicati il ventunesimo e il ventiduesimo canto quando Dante, riparatosi dietro una roccia, osserva come i dannati della quinta bolgia, tra cui Ciampolo di Navarra, vengano ferocemente lacerati da «più di cento raffi» (Inf., XXII, 52) dei diavoli, con le carni dilaniate e strappate di continuo: «E Libicocco “Troppo avem sofferto”, / disse; e preseli ’l braccio col ronciglio, / sì che, stracciando, ne portò un lacerto» (Inf., XXII, 70-72). Fino alla beffa ordita dallo stesso Ciampolo, il quale riesce a sfuggire ai diavoli che si azzuffano tra loro in una delle scene più comiche di Malebolge e della cantica in generale: «Irato Calcabrina de la buffa, / volando dietro li tenne, invaghito / che quei campasse per aver la zuffa» (Inf., XXII, 133-135). I riferimenti impliciti ad alcune immagini riprese da Dante non stonano con l’analisi delle malattie mentali, piuttosto rendono vitale anche la morte, o meglio il senso di morte che aleggia nelle descrizioni di disastri psicologici o di cadute nell’imbuto infernale, come avverrà nella clinica del Campo di concentrazione. Nei primi paragrafi dell’Irrealtà quotidiana, l’attenzione è posta sulla mente che deve scegliere tra diverse possibilità ma che non vi riesce a causa del meccanismo ambivalente che la conduce in un vicolo cieco, per una strada senza uscita, provocando angoscia e stordimento con il progressivo distacco dal mondo con il quale già si erano persi i contatti. La mente crede di poter vagliare molteplici ipotesi (A, B, C, D…) ma, non potendo farlo, è costretta a cedere a infiniti compromessi con se stessa: La mente è in preda a opposti venti incontrollabili, che nascono e rinascono con una loro autonoma origine prepotente. […] Castellino di carte, che non la realtà, ma la mente stessa fa subito crollare accorgendosi di essere ancor peggio smembrata, […] allora la mente si risolve ad abdicare. […] La mente si dispera di se stessa, schiava di un meccanismo da cui non concepisce di uscire, anche se intravede oscuramente e astrattamente che la scelta non sprigionerà mai da quel meccanismo, che è il meccanismo puro della scelta, quindi il meccanismo della necessità imprescindibile di scegliere e quindi della non scelta. (IQ, pp. 10-11) Da questo conflitto perpetuo e improduttivo che si svolge all’interno della mente e conduce a una stasi catatonica, emerge il corpo con le sue prerogative: sul piano del comportamento, infatti, valgono in esso le leggi dello spazio e del tempo così che, a causa della propria fisicità, il corpo esige una scelta. Si apre dunque una tensione tra la mente e il corpo non facilmente definibile 74 poiché in una persona, che per comodità Ottieri definisce x, la lotta tra le immagini create dalla mente e la realtà fisicamente vissuta dal corpo che può – davvero? – dissociarsi dalla mente, converge in un conflitto senza regole, determinato da numerosi fattori psichici di notevole complessità che conducono la stessa persona x a vivere in un altro mondo: «La qualità della larghezza di divaricazione della mente rispetto al corpo e viceversa non è facilmente definibile. Si può anche definire alienazione. […] La cosiddetta capacità d’essere altrove non è completamente una forza né completamente una debolezza: è la lotta fra l’immagine e la realtà» (IQ, p. 12). Per superare l’impasse della tensione tra la mente e il corpo Ottieri propone due leggi, la prima è quella dello status quo (IQ, p. 13), cioè sul piano del comportamento la non-scelta è sempre una scelta, immaginando un malato di depressione che trascorre l’intera giornata immobile sul letto, come accadrà nel Campo di concentrazione. La mente non sa, o meglio non può scegliere, mentre il corpo resta incatenato a letto e «giace piuttosto che rischiare di scegliere davvero nel comportamento, […] così il corpo svanisce sotto l’invasione del cervello: tutto il corpo è una grande mente infilzata per la fronte al letto» (IQ, pp. 14-15). Ma non appena si percepisce un minimo movimento del corpo, tutto torna in questione con il conseguente disfacimento dell’idilliaco status quo. Ottieri individua allora la seconda legge che regola l’incertezza sul piano del comportamento: quando il corpo si muove una decisione c’è (IQ, p. 15). Il comportamento nasce dall’azione eseguita dal corpo che fa una scelta scavalcando, anche se per un solo istante, la mente e decretando la vittoria della libertà di scegliere. Effimera vittoria di Pirro, tuttavia, se la mente interviene poi a bloccare la scelta appena eseguita, così che si può immaginare il corpo della persona x che sull’autostrada compie una delirante svolta a U ripartendo assai pericolosamente contro mano: Dunque il corpo va verso A perché una frazione sufficiente di intenzione ce lo induce lungo una strada (statale o autostrada) della realtà, in basso; e in alto, all’altezza degli occhi e dietro essi, lungo il corridoio buio del cervello. Ma il flusso d’intenzione verso A lentamente rimatura per B dentro al corridoio del cervello e arretra, rifluisce, gira, fa una svolta a U proibitissima sull’autostrada e riparte contro un muro di aria solida. (IQ, p. 16) Le due leggi proposte da Ottieri, anche senza essere in contrapposizione tra loro, non superano però il blocco iniziale: la mente è libera di scegliere tra A, B, C, D…? La risposta è semplice: no. La mente non può scegliere perché interviene sempre l’eterna incertezza, la più prolifica creatrice d’immagini sostituendo la realtà con l’apparenza d’infinite altre realtà. Il dramma della scelta permette dunque la creazione di una particolare realtà schizofrenica, alienata, solitaria per quella persona x lasciata poco fa sull’autostrada in contromano. Chi è o cosa rappresenta la persona x? Un malato, lo scrittore, un pazzo, oppure un indifferente noi? Da quest’incertezza trionfante emerge il sentimento d’irrealtà, in quel sentiero «dove la realtà si biforca dal suo 75 contrario, che è l’irrealtà. Forse è questa la genesi dell’irrealtà» (IQ, p. 20). L’immagine del sentiero che si è biforcato, oltre a offrire notevoli riferimenti letterari da Calvino a Borges, spinge a intraprendere il percorso dell’irrealtà fino all’ultima pagina dell’Irata sensazione, in un viaggio che dura quarant’anni. Generato dalla Dea Incertezza, a seguito dell’irrisolto conflitto tra la mente e il corpo, come vorrebbe una lettura originale di una moderna battaglia allegorica, il sentimento d’irrealtà viene sviscerato da Ottieri nel secondo capitolo, Un fulmine lento, dove compare sulla scena F., altro alter ego dello scrittore, dirigente industriale che prova sentimenti d’irrealtà e «passa le sere tra salotti», pertanto un salottiero. F. ha lo stesso curriculum di Ottieri: selezionatore del personale e dirigente negli anni Cinquanta, è in piena stagione mondana nel decennio successivo tra feste, vernissage, locali notturni, cocktail, che verranno descritti nei Divini mondani. Ottieri osserva direttamente quella realtà particolare, ci vive dentro assecondando una nuova compulsione di tipo sociologico nei luoghi di villeggiatura alla moda, arrivando persino ad attribuirsi un soprannome ironico e amaro, Salottiero Salottieri, che non sfugge all’attenzione di Fortini che gli dedica un feroce epigramma: «Come eri meglio ieri / quando non eri noto / nuovo devoto al vuoto / Ottieri». I divini mondani attestano, dopo l’industria e la clinica, la particolare inclinazione di Ottieri nei riguardi della materia da narrare, estrapolando dal cuore di mondi così distanti ma per molti aspetti anche simili, quei malesseri sociali ed esistenziali che strutturano le sue opere. Anche della mondanità Ottieri ci offre un racconto che si svolge come una cronaca obiettiva dei fatti osservati da una posizione privilegiata: senza trama si succedono vorticosamente cocktails, pranzi in piedi, battute di caccia, defilés, viaggi, approcci e tentativi di seduzione continui. Il protagonista è Orazio, un play-boy industriale che produce sanitari e lussuosi bidet, intento a esportarli anche nei paesi anglosassoni. Entrò in uno dei salotti, dove si teneva il grande cocktail; vi era la padrona di casa che salutò. Al centro stava il gruppo di Pietro con una ragazza nuova. Orazio iniziò, cessò di colpo la conversazione brillante con il gruppo. […] Ella ansimò, ansimò più forte, scosse la testa di qua e di là sul cuscino, stese, piegò tragicamente le gambe. «Soffoco. Qui alla gola, Orazio, mi stringe la gola, l’anima. Dammi una medicina. Cado sotto il mondo». […] Esclamò Mildred piena di orrore con uno sforzo agonico. […] «Mi sfugge il mondo». […] «Questa vita che facciamo è dispersione». (DM, pp. 7, 51, 52, 73) F. parla di un preciso sentimento d’irrealtà volendo «esprimere proprio l’inesprimibile» (IQ, p. 21) e rendere concreto l’ineffabile: «Era la sensazione improvvisa che gli altri appartengano a un altro mondo, no, che me ne sto sopra e di fianco al mondo» (IQ, p. 23). Ma la sensazione provata è indicibile per sua stessa essenza e definizione. È una sorta d’estraniazione che si scontra con la coscienza, poiché quest’ultima mette gli argini e blocca la perdita della realtà e del sé ancorando la percezione al dato reale mentre il sentimento d’irrealtà è uno stato di non-coscienza, un disturbo, un vuoto, una cupa vertigine metafisica che silenziosamente, e all’apparenza con calma, distrugge il 76 mondo dall’interno creando un «altro mondo» (IQ, p. 25) ugualmente terreno. Torna con frequenza quest’ultima immagine connessa al sentimento d’irrealtà nello sviluppo di percezioni estranianti, alienate, che affondano chi le prova nell’involucro di un’esistenza parallela a quella reale anche laddove l’estraniazione diventa la realtà. Le soste, i ripensamenti, favoriscono l’irrealtà, che però non è semplicemente la solitudine e nemmeno, come hanno sospettato alcuni, l’astrazione dei filosofi, per lo stesso motivo per cui non è la coscienza, bensì è attigua alla coscienza. […] È un incrocio-ingorgo fra la perdita dell’ovvietà quotidiana concepita come verità e la medesima perdita concepita come catastrofe, da parte di uno il cui amore per il mondo è disfatto. […] È un intero sussulto agghiacciante dell’esistenza. […] Come direbbe Sartre, uno spasmo dell’Io. (IQ, pp. 25-26) Nell’esprimere l’inesprimibile, Ottieri argomenta nel dettaglio tutti i sintomi del sentimento estraniante ed emerge una considerazione primaria, quella della perdita. Ci si distacca dal mondo, si perdono i contatti con l’esterno quasi auto-annullandosi, si naviga a vista senza vedere nulla e, scomparsa qualsiasi parvenza di stella polare, si va alla deriva. È un abbandono esistenziale, senza punti cardinali, astratto e soffocante, dove spirano venti di bonaccia desertica che partono dalla terra del Male, dal profondo, dagli abissi della malattia come sabbie mobili mentali. F. sentiva un’irrealtà fosca, pesante come una grossa tenda sulla gola. Non mandava barriti d’angoscia, zitto cercava d’inghiottire il sentimento d’irrealtà dicendosi insieme che non poteva più passargli e che da lì a un momento gli sarebbe passato per forza. […] Alle spalle sembra non avere niente. […] Egli non ha più memoria, non possiede niente. Non ha che, davanti a lui, una misteriosa vaghezza di scopi personali e questo futuro generale verso cui l’avanguardia tecnocratica e scientifica lo spinge. […] È il dramma dell’essere altrove, in un sistema per il quale si è sempre Altrove, nell’Al di là, in cui si va verso un altro mondo. […] Il meccanismo del partire per raggiungere l’altrove, l’alibi o l’al di là. […] Evasione mentale. […] Si parte, e nel tempo di un istante ci si ricorda di non avere più mete. L’irrealtà sarebbe questa simultanea andata e ritorno. (IQ, pp. 25-27) Dallo spazio che si annulla al tempo che si scioglie, il passaggio è breve. Nel sentimento d’irrealtà il passato non esiste più, non si ha alcuna memoria, non si possiede nulla; dinanzi s’intravede solo un futuro generale d’avanguardia tecnologico-scientifica. I disturbi qui evidenziati rientrano nella categoria dei dissociativi, caratterizzati da alterazioni improvvise e temporanee della coscienza, del comportamento e dell’identità, comprendenti l’amnesia psicogena come perdita della memoria, parziale o totale, che si protrae per un periodo che va da qualche ora a qualche anno, la fuga psicogena cioè amnesia accompagnata da una fuga e la personalità multipla. No time no space, il sentimento d’irrealtà è vissuto come uno «stupore doloroso e nero» (IQ, p. 29) in cui si perdono i normali parametri percettivi per intuire una «buia verità» (IQ, p. 29) collassando dentro un buco nero, in una concentrazione di materia associata a un campo gravitazionale così intenso da far richiudere completamente lo spazio-tempo su se stesso. Ottieri parla di sobbalzo cerebrale, 77 ribaltamento, sotto-sopra, testa-coda per definire il modo in cui lo spazio-tempo s’incurva all’interno dell’irrealtà proprio come accade nella creazione di buchi neri. Essere altrove dentro un universo a sé, lontano dal mondo conosciuto e impossibile da descrivere: questa è in sintesi la prima percezione di tale sentimento che sancisce una netta spaccatura con la realtà, ma anche un forte senso d’inferiorità che l’uomo prova nell’irrealtà stessa. Questa condizione, al limite della sopportabilità, è individuata da Ottieri con alcuni efficaci ossimori quali fulmine lento e tuono silenzioso che non servono tuttavia a comprenderla meglio, mentre F. «si accanisce a vivisezionare l’irrealtà che gli sembra mentale (ed è istintuale) e che gli sfugge dalla mente. […] L’uomo è inferiore alla realtà, che pure è schifosissima» (IQ, p. 30). Le conseguenze dirette di questa drammatica condizione sono l’aumento della paura, lo scivolamento verso nevrosi e psicosi, l’inabissamento nella pazzia fino a raggiungere stati di schizofrenia come accade a Renée, la protagonista del Diario di una schizofrenica21 alla quale Ottieri dedica il terzo capitolo Renée e gli altri. F. non ha ancora raggiunto queste “maledette sponde” e naviga nella categoria psicopatologica della depersonalizzazione che è un altro tassello da porre al mosaico del sentimento d’irrealtà dopo quello dell’incertezza. Ottieri affronta questa tematica attraverso gli studi di quattro psicanalisti: Perrotti, Tomasi di Palma, Bouvet e Gabel22, analizzando esempi clinici di pazienti che hanno sofferto disturbi di depersonalizzazione, per commentarli lui stesso. Da questi studi emergono delle caratteristiche peculiari sullo stato di depersonalizzazione che, secondo Bouvet, cattura il sentimento d’irrealtà come l’impressione di non esistere, essere incoscienti, sentirsi morti e soprattutto di non poter spiegare tale stato d’alienazione. Per me vivere o morire è la stessa cosa… Non trovo le parole per esprimermi, per dire se è che non esisto… Per me non c’è più niente e non sono, io, più niente… Sono incosciente, ho perso coscienza… È impossibile descrivere questi stati. È abominevole e nello stesso tempo incomunicabile, ci vorrebbe un linguaggio speciale. È qualcosa di ordine cosmico, sarebbe necessario avere un linguaggio che corrisponda a un linguaggio di quest’ordine… Io sono il vuoto, sono l’inferno, non esisto… Sono morta… Si è tuttavia esseri umani, il mio universo è il vuoto… Ci sono e insieme non ci sono… Non abbiamo che il vuoto… Sono la morte, essere la morte è un modo d’essere immortali. (IQ, pp. 34-36) Una massiccia dose di sofferenza accompagna le descrizioni che i malati fanno della propria condizione in cui il senso di vuoto provato durante le crisi sancisce il definitivo distacco dal mondo reale. Ed è proprio in questa vertigine, nel vuoto che infrange il confine fra il malato e il mondo fino 21 SECHEHAYE Margherite, Diario di una schizofrenica (1955), Giunti, Firenze 2006. La presentazione del libro nella versione italiana con la traduzione di Franco Fortini, è del Dottor Cesare Musatti, il primo analista di Ottieri. 22 PERROTTI Nicola, La depersonalizzazione, in «Rivista di psicoanalisi», gennaio-aprile 1960, Editrice Universitaria, Udine 1960; TOMASI DI PALMA Alessandra, La spersonalizzazione, in «Rivista di psicoanalisi» gennaioaprile 1960, Editrice Universitaria, Udine 1960; BOUVET Michel, Dépersonnalisation et relation d’objet, P.U.F., Paris 1960; GABEL Jean, La fausse conscience, Edition de minuit, Paris 1962. Le date di pubblicazione di questi studi storicizzano le riflessioni teoriche e il successivo lavoro letterario di Ottieri. Tuttavia gli studi sulle malattie mentali, accompagnati dai progressi nella farmacologia, evolvono nel tempo e quindi alcune considerazioni, valide negli anni Sessanta, sono state superate nei decenni successivi. 78 a far combaciare il malato stesso con il vuoto, che si esprime magna cum voce il sentimento d’irrealtà assecondato dall’angoscia, la quale gioca un ruolo importante nei momenti di crisi giacché rimanda costantemente al rapporto con la realtà che sembrava perso. Inoltre le crisi più acute nel corso di nevrosi possono sfociare nei deliri di derealizzazione (la sensazione che il mondo sia irreale) provati anche da Renée, in cui il sentimento d’irrealtà s’immerge nella schizofrenia. Percezioni alterate, deliri, vistose allucinazioni, vaghezza delle associazioni caratterizzano la vita di Renée, malata di schizofrenia, sulla quale Ottieri si concentra nell’ultima parte del capitolo evidenziando nella ragazza, presa come exemplum, quello stadio di deliri allucinatori che conducono direttamente alla distruzione del mondo nella Welt-Untergang-Erlebnis (WUE), l’esperienza della fine del mondo, ovvero l’Apocalisse. Ottieri lesse con molto interesse il Diario di una schizofrenica la cui prima edizione fu del ’55, trovandovi le attestazioni dei propri sentimenti d’irrealtà raccontati con dolorosa commozione dalla protagonista del Diario. L’opera tuttavia appare con il nome della psicoanalista ginevrina Margherite Sechehaye che curò il caso della giovane Renée elaborando una nuova tecnica terapeutica, la realizzazione simbolica, al fine di trovare una guarigione ritenuta quasi impossibile a causa della drammatica condizione in cui versava la paziente sotto la continua minaccia della disgregazione del mondo e della sua stessa personalità. La schizofrenia è il più oscuro e problematico dei disturbi mentali, caratterizzato da deliri, allucinazioni, attività motrici disturbate e altri sintomi; e si presentava in Renée come una regressione alle fasi di sviluppo in cui la distinzione tra l’io e il mondo non si era ancora integralmente stabilizzata, così che alla terapeuta spettò il compito di attuare una comunicazione col paziente attraverso gli elementi rimasti integri della sua personalità e di: Far ripercorrere alla paziente quelle fasi stesse, correggendo il processo come storicamente si è determinato, in modo che – per il fatto che questa volta il processo si svolge senza quelle difficoltà che l’hanno in origine ostacolato – l’io del soggetto si ricostruisca in forma più solida e stabile e con rapporti normali verso la realtà. Sarebbe come a dire che si tratta di prendere questo individuo adulto, ridivenuto in un certo modo e per certi aspetti un bambino di pochi giorni, privo della coscienza di sé e incapace di riconoscere le cose, e portarlo a ripercorrere quell’evoluzione che i bambini normali percorrono nei primi mesi di vita. (Diario di una schizofrenica, dalla presentazione di Cesare Musatti, p. XXIII) Ottieri durante la lettura del Diario venne attratto dai passi in cui la paziente esprimeva il proprio sentimento d’irrealtà che servirà come base dell’Irrealtà quotidiana in cui trasferisce interi paragrafi. Ma lo studio e la conoscenza letteraria della schizofrenia permettono a Ottieri di comprendere che il proprio disturbo mentale è la depressione, non certo la schizofrenia, se non fosse per il sentimento d’irrealtà che avvicina le due malattie. Fin dall’età di cinque anni, analogia cronologica con il primo segno di depressione percepito da Ottieri, Renée soffriva di vari disturbi 79 quali angoscia, senso di prigionia, tensioni emotive, abbandono della realtà, paura, terrore, stati di WUE: Non riuscivo a rientrare nella realtà, e tutto rimaneva per me elettrico, meccanico e artificiale. […] L’irrealtà era aumentata e il vento aveva assunto per me un significato particolare. […] D’un tratto la Paura, la paura terribile, m’invase; non era la solita angoscia dell’irrealtà, ma una vera paura, quel che si sente all’avvicinarsi di un pericolo, di una disgrazia. […] Ero annullata dalla paura. […] Un po’ per volta confidai alle mie compagne che il mondo stava per esplodere, che bombardamenti aerei ci avrebbero annientati. […] In quel silenzio profondo, in quell’immobilità tesa, avevo l’impressione che qualche cosa di terribile stesse per accadere per rompere il silenzio e che uno sconvolgimento atroce dovesse sopravvenire. […] Mi sentivo proiettata al di fuori dal mondo e dalla vita, spettatrice di un film caotico che si svolgeva incessantemente davanti ai miei occhi e dalla cui partecipazione ero esclusa. Erano momenti atroci, il mio malessere era inesplicabile e, non avendo alcuna difesa, potevo solo sopportare e subire. (Diario di una schizofrenica, pp. 17, 18, 30, 62) Gli scatti reificanti uniti al senso d’inimicizia col mondo sprofondano Renée nell’irrealtà più oscura, dentro, oltre il buco nero, nerissimo, dal quale si esce solamente dopo l’Apocalisse; e proprio alla sua sorgente, nella primordiale purezza, si ritrova il sentimento d’irrealtà, individuato da F. come «perdita della funzione del reale […] senso di stranezza del reale […] sentimento di vuoto» (IQ, p. 45), delirio, metafora, ambiguità. Essendo una componente della depersonalizzazione, come avverte lo stesso Ottieri, tale sentimento necessita di un costante atteggiamento introspettivo che conduce l’uomo pensante, o meglio che si pensa o si percepisce, a sentirsi irreale: il sentimento d’irrealtà irrealizzerebbe il sé e il punto di partenza della riflessione filosofica di Ottieri è la Meditazione cartesiana del Cogito ergo sum che si trasforma nell’Angor ergo non sum fino a sciogliersi ne L’être et le néant23 di Sartre in cui la percezione del mondo come tale è nullificante «dal momento che il mondo appare come mondo, si pone come non essente che quello» (IQ, p. 46). Ancora una volta s’individua nel distacco dal mondo il momento essenziale del sentimento d’irrealtà che, unendosi indissolubilmente all’angoscia, trasforma la celebre espressione di Cartesio in Angor ergo non sum. Il filosofo francese rappresentava per Ottieri un esempio di rifiuto della dottrina imperante, il verbalismo scolastico, a favore della ricerca di un sapere fondato sul modello della conoscenza matematica; e in seguito per l’ambizione a una sintesi filosofica alternativa rispetto alla scolastica che fornisse un quadro sistematico altrettanto comprensivo e definitivo. Cartesio, attraverso il trattato metodologico Regulae ad directionem ingenii, tentò di rendere comprensibili problemi complessi evitando di dare risposte non conducibili a qualcosa di immediatamente intuitivo. Nel trattato Cartesio affrontava il problema dell’analisi della conoscenza attraverso una continua illuminazione intellettuale, costruendo un vero e proprio Sistema-mondo 23 SARTRE Jean-Paul, L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943. Ottieri possedeva una copia di questa edizione e sul frontespizio scrisse: «L’uomo è una passione inutile». Dell’opera studiò con particolare fervore l’introduzione e il primo capitolo L’origine de la négation. 80 sviluppato nei minimi particolari con la spiegazione di tutti i fenomeni rilevanti dell’universo, compresi quelli biologici. A causa di questa particolare predisposizione nello studio del mondo, Cartesio si presentava come un modello per le riflessioni teoriche di Ottieri e sarà proprio la massima del Cogito ergo sum a introdurre l’analisi filosofica del sentimento d’irrealtà: dal Sistemamondo cartesiano si arriverà al Sistema dell’irrealtà di Ottieri quasi per partenogenesi. Difatti la struttura dell’Irrealtà quotidiana rinvia direttamente al Discorso sul metodo di Cartesio nella forma di un’idealizzata autobiografia intellettuale che potesse fornire un’esposizione pressoché completa, e in tono divulgativo, della sua filosofia. Nella quarta parte del Discorso si trova l’affermazione della prima verità, ovvero dell’io pensante attraverso il Cogito ergo sum che è l’argomento centrale della seconda Meditazione. È il dubbio sistematico e radicale che insito nell’uomo rinnova e aggrava le percezioni sulla verità e sulla realtà della vita quotidiana fino a dubitare che non esista realmente nulla di ciò che si vede, come se la vita fosse un lungo sogno e che ci s’inganni sistematicamente anche quando si ritiene certa la verità di un teorema già dimostrato. Ottieri struttura il suo saggio romanzato partendo dalle argomentazioni cartesiane attraverso il dubbio sistematico, le riflessioni sull’esistenza, l’allucinante vita quotidiana, la ricerca della verità. Il punto di frattura, o meglio il momento in cui Ottieri si allontana dal filosofo francese, si concretizza proprio nel cogito: c’è qualcosa che per Cartesio, nell’esperienza del dubbio metafisico, si sottrae a esso ed è la certezza che io esisto poiché dubito con il pensiero. E l’aspetto attivo del pensiero umano è nella ricerca della verità, nell’abbandono di ogni certezza spontanea e di ogni sapere ricevuto, cioè i pregiudizi, fino a ricorrere a Dio per giustificare il passaggio al piano ontologico della verità. È evidente la biforcazione dei pensieri tra Cartesio e Ottieri partendo proprio dal dubbio: da una parte il cogito, dall’altra l’angor con conseguenze discordanti poiché in Ottieri l’introspezione e il pensarsi conducono all’irrealtà: «Si può anzi indulgere sull’ipotesi che l’uomo tenderebbe a divenire – o a sentirsi – irreale quando pensa o meglio si pensa (o si percepisce). Il sentimento d’irrealtà irrealizzerebbe il sé, e l’oggetto. La partenza diverrebbe Cogito ergo non sum» (IQ, p. 46). Ma poiché il sentimento d’irrealtà è legato all’angoscia più di qualsiasi altra percezione, l’angoscia stessa scavalca, annullandolo, il pensiero: «L’angoscia è angoscia di essere; difatti si dice, parallelamente a Cartesio, Angor ergo sum, anche se la parte sana del paziente che sta davvero male dell’Angor ergo sum se ne infischia» (IQ, p. 47). L’ultimo passaggio della staffetta chiama in causa uno dei fenomeni che caratterizzano il sentimento d’irrealtà, la depersonalizzazione che comporta la sensazione angosciosa di estraneità al proprio corpo, di non esistere, essere incoscienti e sentirsi morti: quindi Angor ergo non sum. Mi chiedo che cosa significhi non sum. Istituendo un rapporto tra Cogito ergo non sum e Angor ergo non sum, il primo può dirsi l’inizio di un’ambiguità, il secondo di una cosificazione. Il secondo perciò può 81 anche significare una concreta e non metaforica mancanza di essere, come mancanza di libertà emotiva e quindi di libertà in senso assoluto poiché non sopravvive una libertà dello spirito in una affettività coatta. (IQ, p. 48) Dopo aver posto le basi filosofiche del sentimento d’irrealtà, Ottieri argomenta il modo in cui si prova considerando le difficoltà a volte insormontabili di esprimere l’inesprimibile. Come spesso accade, lo scrittore non tergiversa sulle questioni da trattare e svela subito quale tipo di uomo sarà preso in esame. L’uomo è oscillante, volubile, ambivalente verso l’oggetto e verso se stesso; e notoriamente fatto in modo che pone l’essere e anche il non essere: il sentimento d’irrealtà è interpretabile come un’ambivalenza. L’uomo, o un certo tipo di uomo? Di preferenza (è naturale) l’uomo del tipo ambivalente. E chi è l’uomo del tipo ambivalente? È l’uomo narcisistico, di contro l’uomo genitalizzato (secondo la distinzione di Freud riguardante la relazione d’oggetto: immatura se ferma alla fase narcisistica, pre-edipica; matura se postedipica e genitalizzata). (IQ, pp. 49-50) Il narcisismo indica l’amore dell’individuo per la sua immagine come nel mito greco di Narciso, ed è stato analizzato da Freud nell’Introduzione al narcisismo del 1914 come un processo nel quale la libido disinveste gli oggetti esterni reinvestendo l’Io. Dopo la revisione del suo pensiero avvenuta tra il ’20 e il ’23, Freud introduce la nozione di Es e differenzia il narcisismo in primario, i cui prototipi sono la condizione intrauterina e il sonno, caratterizzato sia dalla mancanza di distinzione tra l’Io e l’Es che dalla penuria di rapporti oggettuali giacché tutta la libido è ripiegata sull’individuo; e secondario che coincide sostanzialmente con quello trattato nell’Introduzione, concepito come funzionale al processo di strutturazione dell’Io. Poiché il narcisismo implica pur sempre una relazione, il primario della condizione intrauterina fu contestato da molti psicologi tra cui Melanie Klein; al contrario, nella seconda metà del Novecento, esso venne rivalutato nell’ambito teorico della psicologia del Sé a opera soprattutto di Heinz Kohut che analizzò il disturbo narcisistico all’interno della società industriale dove si sperimenta di continuo la solitudine del bambino e il suo drammatico tentativo di autorealizzazione. È proprio su questo punto, narcisismo e società industriale, che s’innesta la riflessione teorica di Ottieri senza tuttavia tralasciare la Dépersonnalisation et relation d’objet di Bouvet per il quale la depersonalizzazione è una sospensione della libido dovuta alla perdita di un oggetto narcisistico, cogliendo l’origine dell’irrealtà proprio nel periodo pregenitale sempre riguardo all’oggetto e al suo possesso incondizionato e assoluto da cui dipende il mantenimento della strutturazione dell’Io. Il narcisismo porta a un’equidistanza dall’oggetto dinanzi al quale l’equilibrio tra vicinanza e distanza è ineccepibile: 82 È la legge del narcisismo istintuale il quale determina una ragione narcisistica, cioè un pensiero la cui legge sia l’equidistanza. Il pensiero equidistante è per eccellenza un pensiero incerto e ambivalente, impossibilitato a scegliere […] e la legge dell’equidistanza alita sempre nei sotterranei dell’inconscio sino ai fastigi della conoscenza teoretica. Fa scoppiare il dramma mentale e infine anche comportamentistico, della scelta di un oggetto e, contiguo, il sentimento d’irrealtà come non scelta dell’oggetto in sé: ossia della realtà. (IQ, p. 50) Nel pensiero narcisistico il non essere s’incarna nel non esistere che, coadiuvato dal vuoto del sentimento d’irrealtà, s’indurisce verso la scelta del suicidio che è la concretizzazione del non esistere. Ma quale scelta è questa, se l’uomo narcisistico non può scegliere per la legge dell’equidistanza? Come ci si può suicidare dopo aver compiuto una scelta? Ottieri descrive un uomo non dissimile dalla persona x che sta andando contromano in autostrada, o forse è la stessa, che cammina in sottile equilibrio su un altissimo cornicione di una casa. Pensa al suicidio ma non riesce ad attuarlo, e se non è in grado di sciogliere il dilemma tra la vita e la morte, che stanno davanti a lui come due oggetti perfettamente equidistanti, egli sta scegliendo la vita pur non volendo vivere: è la legge dello status quo, sul piano del comportamento la non-scelta è sempre una scelta: «Il dilemma non è tanto il vecchio essere o non essere, quanto la vertigine del capire che, nel dubbio fra essere e non essere, pur sempre si è. E tuttavia sembra effettivamente, anche, che non si è. Nell’esistere si sperimenta il non esistere» (IQ, p. 51). Essere e contemporaneamente non essere riflette la suprema incertezza, e il sentimento d’irrealtà cala gli ormeggi proprio in mezzo a tale equidistante ambiguità: si trova al centro tra la vita (l’essere) e la morte (non essere). Il sentimento d’irrealtà è accanitamente ambiguo. Esso è anche una difesa dalla realtà – così gli psicoanalisti lo vedono – quindi dalla realtà come suicidio e dal suicidio come realtà. Esso contemporaneamente evoca e tiene lontano il non esistere concreto. Un poco è una scarnificazione di sé e della realtà. (IQ, p. 52) Dopo l’elaborazione filosofica dell’Angor ergo non sum e la connotazione narcisistica, Ottieri prosegue l’analisi del sentimento d’irrealtà che s’incarna nella psicopatologia della depersonalizzazione attraverso due spinte: quella del linguaggio che risponde alle domande senza risposta «Si può esprimere?» o «Si può rappresentare?» e quella della connessione, o frattura, tra alienazione psicologica e sociologica. Il sentimento d’irrealtà non si può esprimere correttamente a causa delle sue prerogative e occorrerebbe un linguaggio speciale per: L’irrequietezza semantica che lo avvicina a molta arte contemporanea incerta tra metafora e delirio e tipica per esigere anzitutto linguaggi nuovi. […] La pop-art ha avuto molta eco proprio perché ha eccitato il nervo divisorio fra arte e non arte e fra realtà e irrealtà e ha dichiarato una nuova poetica della realtà. […] È simile a una poetica dell’irrealtà quotidiana. (IQ, pp. 53, 162) 83 Dell’arte contemporanea cui fa riferimento Ottieri, il movimento della Pop Art assume gran rilievo a causa della tecnica di rappresentazione che, proprio come il sentimento d’irrealtà, seleziona brandelli della realtà all’interno di un’intelaiatura concepita dal sentimento irrealistico. Il sentimento d’irrealtà è il banco di prova, sia scientifico che estetico, della rappresentazione artistica; di un’arte che camminando si sia trasferita dalla scoperta della realtà alla scoperta del rapporto con la realtà e con se stessa e quindi che, nel ragionamento, arrischia la propria morte: tappa riflessiva (irrealistica) succeduta a una tappa estroflessa (neorealistica, realistica). La pop-art ha avuto molta eco proprio perché ha eccitato il nervo divisorio fra arte e non arte e fra realtà e irrealtà e ha dichiarato una nuova poetica della realtà: invero, isola frammenti scelti della realtà, dentro una cornice inventata del sentimento irrealistico. È simile a una poetica dell’irrealtà quotidiana. Il muro di gabinetto di Dine è brutto e già kitsch: comunque, è realistico in quanto allucinatorio. L’ossessione del quotidiano sbalza l’oggetto a rimanere figurativamente tale, anzi tale e quale, né astratto né deformato, ma fuoriuscito dallo sfondo della percezione realistica con una ironia che è allucinazione. Nella allucinazione non vedo alterato l’oggetto, lo scorgo esattamente come è, ma dove e quando non c’è. È un caso di sentimento d’irrealtà quotidiana fatto progredire sino a un delirio artificiale. (IQ, pp. 162-163) Con la sua nuova poetica della realtà la Pop Art è dunque per Ottieri simile a una poetica dell’irrealtà quotidiana. Si tratta senza dubbio di un elogio per quegli artisti che, constatando la perdita del loro monopolio sull’immagine nella tecnocratica e consumistica società di massa, si applicarono ai linguaggi della moderna comunicazione visiva assumendo a base delle loro opere gli oggetti di consumo insieme alle immagini moltiplicate e stereotipate dei mass media, della pubblicità, dei fumetti, attraverso una figurazione che ricalcava, con diverse modalità critiche e inventive, il flusso freddo dell’immaginario nella moderna società urbana e mercificata che aveva già attuato una distanza estraniante tra l’uomo e i processi di massificazione e standardizzazione. La Pop Art attinse i propri soggetti dall’universo del quotidiano, in particolare quello metropolitano della società americana, fondando la propria intelligibilità sul fatto che gli elementi caratteristici delle loro opere erano assolutamente noti e riconoscibili, con immagini banali e quotidiane attraverso gli stessi procedimenti formativi dei mass media, dunque spersonalizzati, rigorosi, meccanici, moltiplicati su larga scala, ma svuotati della loro essenza dopo aver prelevato l’immagine dai normali circuiti dell’informazione di massa per presentarla in un altro contesto. Questo parallelismo del sistema Pop Art, ossia riprodursi artisticamente come una merce, riuscì a svelare il sentimento di vuoto e di assenza quotidiana percepibile nella società contemporanea: l’arte Pop volle dunque smascherare l’opacità del reale, svelarlo, portarlo alla luce attraverso la tecnica dello spaesamento con due procedimenti base: il raddoppiamento e la dislocazione. Come rivela Ottieri, la Pop Art «isola frammenti scelti della realtà, dentro una cornice inventata del sentimento irrealistico», riuscendo in questo modo a rappresentare un qualsiasi oggetto, anche il più banale estrapolato dalla vita quotidiana, allucinandolo sullo sfondo di un’impensabile percezione. Il sentimento d’irrealtà si presenta per Ottieri attraverso un procedimento simile, cioè mediante 84 l’estraniazione della quotidianità che concede allucinazioni continue di un oggetto comune. Tuttavia, nonostante la vicinanza con la Pop Art, Ottieri deve ammettere che il sentimento d’irrealtà evita la cattura di qualsiasi rappresentazione rimanendo astratto e sottraendosi furbescamente a ogni immagine. E solo in un secondo tempo si tenterà di coglierlo di sorpresa con uno stratagemma particolare, concretizzandolo da un punto di vista letterario attraverso il riferimento ad alcune opere di Moravia e Berto nelle quali il sentimento d’irrealtà, anche se con maschere diverse, si erge a protagonista connesso al fenomeno dell’alienazione. Se la rappresentazione del sentimento d’irrealtà si arresta, ma solo in apparenza, all’origine, emerge nell’Irrealtà quotidiana una questione molto complessa che chiama in causa il fenomeno dell’alienazione, analizzato da Ottieri da diverse prospettive. Già partendo dal termine tedesco Entfremdung, «alienazione», egli constata che Freud e Marx lo utilizzarono indifferentemente anche in ambiti diversi, «senza contare che l’Entfremdung di Marx è già la derivazione materialistica di un’altra Entfremdung, quella idealistica di Hegel» (IQ, p. 52). Per Ottieri si deve chiarire, in primo luogo, il significato profondo del termine e le differenze semantiche presenti nelle diverse alienazioni; a tal proposito Ricœur parlerà di «sovraccarico semantico che a forza di significare tanto rischia di non significare più nulla del tutto»24. «Le distinzioni vanno ricordate quando corre troppo l’abitudine di mescolare alienazione filosofica, economica, politica e psicologica in base a certe loro somiglianze e di pasticciare con una Alienazione Unica confusa» (IQ, p. 77). Dietro l’uso generico del termine per cui s’intende l’alienazione come divenire altro, l’essere o il sentirsi totalmente estraneo, alieno, la prima riflessione teorica su tale fenomeno è attribuibile a Campanella, il quale analizzò in un passo della Metaphysica il problema della conoscenza che l’uomo ha della realtà come una forza che lo estrania dalla realtà stessa: «Conoscere è alienarsi; alienarsi è impazzire, e perdere il proprio essere per acquistarne uno estraneo. Non è quindi un conoscere le cose per quello che sono, ma un diventar cosa e un’alienazione. Ma alienazione è follia, e quindi l’uomo impazzisce quando si trasforma in essere estraneo»25. Le riflessioni di Campanella mettono in luce un elemento essenziale della poetica di Ottieri: l’estraniazione dell’uomo dal mondo circostante e la sua relazione con le malattie mentali, stati d’irrealtà, schizofrenia: Si apre una tensione fra la mente e il corpo. […] La qualità della larghezza di divaricazione della mente rispetto al corpo e viceversa non è facilmente definibile. (Si può anche chiamare alienazione). La cosiddetta capacità d’essere altrove non è completamente una forza, né completamente una debolezza: è la lotta tra l’immagine e la realtà. (IQ, p. 12) 24 25 RICŒUR Paul, CAMPANELLA Aliénation, in Encycloepeia Universalis, Paris 1968. Tomaso, Metaphysica (1623), 3 voll., Zanichelli, Bologna 1967. 85 In seguito, il fenomeno riguardò soprattutto il linguaggio giuridico inteso come cessione, dono o vendita di ciò che si possiede a titolo di proprietà. Una lunga elaborazione teorica risale a Rousseau che nel Contratto sociale indica nella aliénation totale la cessione di sé con i propri diritti a tutta la comunità, condizione cui possono ridursi tutte le altre clausole del contratto sociale: l’alienazione si presenta così come l’atto di cessione positiva che istituisce la volontà generale. Hegel invece respinge la teoria contrattualistica della formazione dello Stato in cui l’alienazione si presenta come rapporto reciproco di cessione e scambio, individuando il soggetto della storia non negli individui ma nello spirito assoluto che si scinde e si moltiplica in processo di alienazione-estraniazione. Dalla Fenomenologia dello spirito emerge il significato di alienazione di spirito come rapporto deformato o rovesciato tra la prassi sociale dell’uomo e le istituzioni da lui create che vengono a contrapporsi al soggetto rendendolo, poiché parte ed espressione di esse, estraneo a se stesso. Nei Manoscritti economici-filosofici, Marx, attraverso la dialettica hegeliana della negatività come principio motore, riprende il significato di alienazione in senso storico-materialistico identificando nel lavoro materiale, presente nelle società capitalistiche, l’elemento suscettibile di essere oggettivamente alienato in quanto produttore di un mondo mercificato. Per Marx il mondo degli oggetti prodotti dall’uomo tende a costituirsi come autonomo di merci, la cui ragion d’essere non è più nel soddisfare i bisogni dei produttori ma quelli del capitale che si sviluppa secondo leggi proprie, trasformando i beni da valore d’uso a valore di scambio, per cui l’attività dell’uomo, in cui si esprime la sua vita, viene reificata ovvero tradotta in cosa, la res. Marx quindi imputa alla proprietà privata, di formazione economico-sociale capitalistica, la causa dominante dell’alienazione che si presenta in cinque forme: religiosa, filosofica, politica, sociale, economica, tutte riconducibili all’espropriazione del lavoratore da parte dei proprietari dei mezzi di produzione capitalistica. I rapporti di produzione sono quindi il fattore essenziale dell’alienazione che si può superare solo abolendo la proprietà privata. Feuerbach nell’Essenza del cristianesimo elabora un’interpretazione religiosa del fenomeno, osservando nella fede religiosa la forma principale di alienazione dell’uomo che, proiettando in un essere mitico le migliori facoltà e attribuendo a esso i propri poteri creativi, si estranea da se medesimo per rendersi schiavo delle proprie rappresentazioni. Nel Novecento si è continuato ad analizzare il fenomeno dell’alienazione seguendo in parte il pensiero marxista come perdita che un soggetto subisce per opera di varie forze sociali nella sfera sessuale, familiare, politica, economica. In Lukács, Storia e coscienza di classe, sono connessi al concetto d’alienazione quelli di reificazione, feticismo e falsa coscienza, stati distorti delle facoltà mentali conseguenti l’incapacità di pensare dialetticamente e di modellare le categorie mentali sull’esperienza. Psichiatri francesi 86 hanno poi sviluppato il pensiero di Lukács sui rapporti tra falsa coscienza e reificazione, tentando di trarre uno strumento esplicativo di vari stati psicopatologici, tra cui la schizofrenia. Gli effetti più evidenti dell’alienazione sono la separazione di fatto del pensiero o della pratica del soggetto dalla comprensione o dall’intervento attivo nei processi sociali e culturali dai quali dipende la sua esistenza e ai quali egli stesso contribuisce; vi è quindi uno scarto tra l’essere e la coscienza, un distacco tra l’essere per sé e la pratica collettiva in cui si è coinvolti; si parla in questi casi di dissociazione. L’alienazione inoltre accresce oggettivamente l’ostilità tra gli uomini poiché ciascuno percepisce l’altro come concorrente, avversario, nemico. Per Sartre, Critica della ragione dialettica, l’alienazione è originata dalla scarsità che induce gli uomini a entrare in conflitto, attraverso le guerre, per le risorse della terra. L’alienazione è dunque il prodotto ultimo della scarsità, in altre parole del fatto che la natura è ostile all’uomo, onde ciascuno si contrappone materialmente agli altri come concorrente e avversario. L’alienazione è esperienza di tale ostilità della materia, come pure dei rapporti sociali plasmati dall’uomo per combattere l’intrinseca indifferenza della natura. Ottieri si era molto interessato alle varie riflessioni sviluppatesi sul tema dell’alienazione e, partendo dalla prospettiva marxista, analizza gli aspetti più inquietanti della società industriale e capitalistica del Novecento in cui gli individui sono sottratti a loro stessi e immersi in un mondo mercificato, per giungere in seguito a un’analisi approfondita dell’alienazione psichiatrica. In ambito psichiatrico il termine alienazione di solito si accompagna all’aggettivo «mentale» e, oltre al significato generico di «follia», è utilizzato in due sensi specifici: innanzitutto nelle psiconevrosi ossessivo-coatte in cui si parla di alienazione del Sé quando il soggetto, nel tentativo di tenere lontane le proprie emozioni, le trasferisce fuori di sé vivendole come forze estranee; e in secondo luogo nelle schizofrenie dove certi organi o aree corporee, e talvolta il corpo intero, vengono alienati e quindi percepiti come se non appartenessero alla persona o come se fossero diversi da come sono. L’esito di questa alienazione è la depersonalizzazione, di cui il sentimento d’irrealtà è una componente. È necessario per Ottieri comprendere fin dall’inizio le differenze insite nei vari aspetti dell’alienazione e in quali forme essa si presenta, perché la sua principale caratteristica è la variabilità a livello economico, sociologico, politico e religioso, altrimenti le analisi sarebbero lacunose e perderebbero ben presto l’obiettivo, ovvero comprendere e esprimere il sentimento d’irrealtà: Riflettere poco sulla differenza fra alienazione psicologica e alienazione sociologica, e infischiarsi del loro rapporto, ha portato l’alienazionismo in salotto. Al contrario c’è l’obbligo di chiarire alienazione psicologica e psichiatrica rispetto a alienazione filosofica, politica e economica, oggi che la malattia mentale è vicina alla cultura e reciprocamente; e che mai l’alienazione più celebre, quella dell’operaio, si è tanto allargata all’universo. […] Ovvie distinzioni vanno ricordate quando corre troppo l’abitudine di mescolare 87 alienazione filosofica, economica, politica e psicologica in base a certe loro somiglianze e di pasticciare con una Alienazione Unica Confusa. (IQ, pp. 53, 76) In questo passo Ottieri prende in esame tre importanti motivi che disseminerà nelle sue opere: la co-presenza incessante di Marx e Freud, la malattia mentale come forma di cultura, e il Male dell’operaio nella società industriale. Marx e Freud, «questo accoppiamento l’ho vissuto come bisogno primario» (PAD, p. 62), le stelle fisse nella costellazione del Novecento, sono due modelli culturali che guidano costantemente le riflessioni di Ottieri, dall’industria alla clinica alla politica, senza tuttavia concretizzare alcun ideale salvifico in grado di arrestare la decadenza del mondo contemporaneo, perché Marx e Freud possono garantire solo una cultura e una metodologia letteraria, non una salvezza: Il filo che lega la psicoanalisi e il marxismo si ritrova sempre: la presa di coscienza, l’idea limite di libertà come superamento concreto (cioè economico nel marxismo ed emozionale nella psicologia analitica) della necessità. […] Molti della mia generazione percepivano degli ostacoli a raggiungere ciò che volevano, e sentivano che la tradizionale forza morale non serviva più. Questa maniera di sentire e di vivere ci ha avvicinati alla psicologia del profondo e al marxismo, cioè a quelle tecniche, più che ideologie, le quali mirano appunto alla rimozione, non moralistica, non idealistica, degli ostacoli, per il raggiungimento di una più grande libertà, di cui abbiamo le capacità potenziali. (LG, pp. 34, 103) Sulla malattia mentale come fenomeno di cultura è l’opera omnia di Ottieri che ne risponde, mentre all’alienazione dell’operaio, affrontata già nel periodo industriale, lo scrittore dedicherà il sesto capitolo della prima parte dell’Irrealtà quotidiana, dal titolo L’operaio pazzo, dove si sovrappongono le immagini del povero operaio in fabbrica e del ricco borghese ingenuamente libero consumatore di beni di consumo mentre: La scoperta sociologica più inflazionata negli ultimi anni non è stata la diagnosi di alienato al povero uomo che sembrava scegliesse di più, a colui che ingenuamente si credeva un libero, capriccioso consumatore di beni di consumo? È stato l’ultimo pilone per completare il Ponte dell’Alienazione che ora scavalca tutta l’umanità e non si vede su quale disalienazione si appoggi. (L’ultimo pilone è subdolo: interessatamente l’hanno infitto i persuasori occulti, spostando il baricentro del neocapitalismo da monte a valle, dalla fabbricazione alla distribuzione, per la maggior gloria del consumismo imperante). (IQ, p. 54) Che rapporto ha il sentimento d’irrealtà con il fenomeno dell’alienazione? O meglio, con quale alienazione in particolare? Poiché è un sentimento squisitamente individualistico, solipsistico ed estraneo a esperienze collettive, sopprime la realtà e gli uomini come un’alienità che cancella l’alterità. Eppure esso non ha mai origini univoche, vale a dire non solo psicologiche, giacché la realtà determina condizioni sociali e stati psichici particolari: «Al primo colpo d’occhio il sentimento d’irrealtà sembra la rete di confine fra alienazione in sede psicologica, che spesso ne è invasa, e alienazione sociologica dove l’infiltrazione del sentimento d’irrealtà sarebbe respinta da 88 una superficie liscia e oggettiva come la pietra» (IQ, p. 54). L’Entfremdung rimarrebbe ambivalente, marxiana e freudiana insieme, anche se resta da capire quale tipo di coinvolgimento, attivo o passivo, ne possa derivare. L’Entfremdung è un’«alienazione-a-qualcosa», un passivo rinunciare a se stessi per consegnarsi a un potere estraneo, quindi la vera alienazione, che ben si addice al modo in cui l’uomo subisce il sentimento d’irrealtà. Da distinguere sia dalla Verfremdung, «alienazione-da-qualcosa», estraniamento attivo e voluto dalla cosa; sia dalla Entäusserung, «l’oggettivazione», che «è la faccia ottimistica, assolutamente priva di sentimento d’irrealtà, dell’alienazione intesa come prassi, […] positiva perché dialettica non nello spirito ma nella realtà concreta, storico-materiale» (IQ, p. 55); sia dalla Verdinglung, «reificazione» o «cosificazione», in cui l’alienazione non riscattata si trasforma nella totale perdita del mondo comportando fenomeni psicotici quali la schizofrenia, oppure il «sentirsi divenire una cosa». Concludendo queste riflessioni Ottieri giunge a determinare, per quanto sia possibile almeno nella teoria, il sentimento d’irrealtà. Esso riguarda dunque un esito dell’alienazione psichiatrica, in altre parole la depersonalizzazione intesa come un processo psicologico in cui l’individuo non percepisce più se stesso come presente nella vita quotidiana e interagente con i propri simili. Ottieri analizza i tre aspetti della depersonalizzazione: autopsichica, quando si ha incertezza sulla propria entità personale avvertita come cambiata, estranea, irreale; somatopsichica che riguarda il proprio corpo; allopsichica, che combacia con l’Entfremdung, in cui il mondo esterno appare irreale. Questa condizione, caratterizzata anche da un vuoto emotivo e dall’apatia, si accompagna alla derealizzazione, o meglio la perdita progressiva del senso della realtà. In sintesi, il sentimento d’irrealtà si può intendere più generalmente come un’alienazione dell’esistenza che giunge fino alle Apocalissi, erodendo ogni istante di vita quotidiana poiché «l’irrealtà quotidiana è per l’appunto il contrario dell’ovvietà quotidiana, è la perdita di essa e dell’ovvio calore dell’esserci» (IQ, p. 59). Nella letteratura italiana il tema dell’alienazione s’impone in particolar modo negli anni Sessanta quando scrittori come Moravia, Piovene, Berto, Volponi, Parise, Mastronardi, Bianciardi, Del Buono, Malerba, Pasolini e Calvino tentarono di esplorare il vuoto e l’incomunicabilità della vita moderna, rappresentando una società in piena trasformazione tecnologica e immersa nell’assurda banalità di un’esistenza sempre più mercificata. Dal secondo dopoguerra vi è stata, infatti, una radicale trasfigurazione della struttura sociale italiana in seguito alla ricostruzione neocapitalistica che ha modificato il carattere, le abitudini, i comportamenti degli uomini. Sono gli anni del cosiddetto miracolo economico che, con la diffusione dei consumi di massa e l’elaborazione di nuovi modelli culturali, ha trasformato la vita quotidiana attraverso modelli di comportamento e desideri omogenei uniformati in funzione della produzione e del rapido consumo di mode e gusti. I rapporti di ciascuno con gli oggetti e con le persone si privava inevitabilmente di 89 umanità e valore, tendendo a svolgersi in modo automatico fuori della ragione, della coscienza e del sentimento, con drammatiche conseguenze quali l’incomunicabilità e l’alienazione in cui anche gli scrittori furono immersi. L’alienazione, da Ottieri studiata da ogni prospettiva, diventa nelle sue opere materia letteraria, vissuta o meglio sofferta dai personaggi alienati nella società come all’interno di un manicomio; il viaggio nella storia romanzata dell’Irrealtà quotidiana inizia proprio da questo presupposto, e il protagonista alter ego Vittorio Lucioli incarna il sentimento d’irrealtà connesso agli stati di alienazione. Un problema metodologico tuttavia si pone per Ottieri: dov’è la concretezza, la vicenda da raccontare, la realtà nel sentimento d’irrealtà? E come si può rappresentare l’alienazione? Ottieri comprende che per rendere “concreta” l’alienazione è necessario riprodurla nella scrittura, così che nel viaggio filosofico-psicanalitico-romanzato dell’Irrealtà quotidiana si analizzano i due romanzi Il male oscuro di Berto e La Noia di Moravia che esemplificano, da un punto di vista culturale e letterario, le riflessioni teoriche precedentemente espresse per i fenomeni di alienazione, depersonalizzazione, sentimento d’irrealtà, angoscia e depressione. Questi testi hanno date di pubblicazione significative, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, e vengono esaminate da Ottieri con l’ausilio del lavoro di psicologi contemporanei, tra i quali i soliti noti Perrotti, Bouvet, Tomasi di Palma, Gabel, permettendo all’Irrealtà quotidiana di realizzarsi culturalmente in quel periodo, anche se l’opera, col trascorrere degli anni, non sembra aver perso quel dirompente vigore né quella vitalità avvertita al tempo della prima pubblicazione del ’66. Berto nel Male oscuro26 racconta una nevrosi d’angoscia in cui per la prima volta nella letteratura italiana, a eccezione di alcuni lavori di Svevo e Pirandello, i temi dell’inconscio e della psicoanalisi sono affrontati con coraggio da uno scrittore che tenta di sviscerare le cause di una malattia mentale, la depressione, allora quasi sconosciuta e non facilmente diagnosticabile. Tra il corpo e la psiche s’innesta il viaggio intellettuale di Berto nel cuore del miracolo italiano e delle sue contraddizioni, vissuto da chi deforma la realtà a causa della propria sofferenza. Ed è questa la peculiarità del romanzo che interessa Ottieri: la malattia diventa uno strumento per analizzare senza intermediazioni la realtà e se stessi, mentre la scrittura può scandagliare i più reconditi processi psichici dell’uomo per renderli, almeno in parte, comprensibili sulla pagina. Il romanzo di Berto si struttura come un’auto-riflessione, un’auto-analisi dal ritmo incessante, liberando l’espressività della parola che descrive ciò che non può essere rappresentato come l’oscuro abisso della malattia mentale. Sono molteplici gli elementi che dal Male oscuro filtrano non solo nell’Irrealtà quotidiana 26 BERTO Giuseppe, Il male oscuro (1964), Rizzoli, Milano 1966. 90 ma anche nelle altre opere di Ottieri come Il campo di concentrazione, Il pensiero perverso, L’infermiera di Pisa. La differenza tra dolore e angoscia sembra perspicua in qualsiasi nevrotico. Ma nei depersonalizzati la difesa dal dolore prende quel tono estremo di attonimento, distacco, impallidimento di vita. […] La eco divulgativa di una simile diagnosi differenziale sta nel Male oscuro di Berto: sul finire del romanzo e della psicoterapia narrata, il protagonista scopre di non provare più angoscia, ma dolore al repentino tradimento della moglie: lo scopre la sera, e la mattina l’analista l’aveva dimesso giudicandolo guarito. (IQ, pp. 126127) Il male oscuro e L’irrealtà quotidiana sono pubblicate nel cuore degli anni Sessanta, 1964 e 1966, all’interno di un contesto letterario nebuloso e fitto di sperimentalismi, neoavanguardie, antinomie in cui autori come Moravia, Parise, Mastronardi, Bianciardi, Sciascia, Pasolini, Morante, stavano descrivendo il periodo contraddittorio del boom economico con i suoi stravolgimenti sociali. L’impronta data da Berto in tale prospettiva è determinata dalla malattia attraverso cui Ottieri struttura la propria poetica partendo anche dall’aspetto autobiografico del Male oscuro: Da quando Flaubert ha detto «Madame Bovary sono io» ognuno capisce che ogni scrittore è autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé, cioè quando si propone più scopertamente il tema dell’autobiografia, perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare dall’altra possono portarlo a una addirittura maliziosa deformazione di fatti e persone. (Male oscuro, p. 6) Berto apre il proprio romanzo con tre motivi che attirano l’attenzione di Ottieri: l’autobiografia, il narcisismo e la scrittura. Interessante è il rapporto dello scrittore con la sua opera, il proposito artistico quando egli avverte che «è la storia in un certo qual modo a scriversi da sola» (Male oscuro, p. 8), riflettendo implicitamente sul ruolo concesso a chi elabora sulla pagina la propria esistenza, in quella forma di bio-letteratura riscontrabile in Ottieri. L’elemento essenziale della vita è la malattia, oscura, dell’anima e del corpo, che disintegra l’Io provocando stati quotidiani d’esaurimento nervoso, angoscia, sofferenza, ansia, pazzia, alienazione. La spiegazione corretta alla quale arrivai per mezzo della psicanalisi apprendendo tra l’altro che il mio esaurimento si chiamava bellamente nevrosi da angoscia. […] Un bel disastro aveva combinato con quell’esaurimento nervoso che ogni tanto mi scaraventava di colpo nei regni del terrore e del pianto. (Male oscuro, pp. 155, 165) L’esaurimento nervoso di cui parla Berto riguarda un generico processo d’indebolimento dell’organismo che comporta una modificazione della struttura psicofisica dell’individuo dovuta al perdurare di situazioni fisicamente o psichicamente sfavorevoli, con riduzione del rendimento e dei fattori funzionali e organici. Si distinguono in genere due forme di esaurimento, fisico e psichico, mentre tra le cause vengono indicate frustrazioni, dispiaceri e preoccupazioni che, a lungo andare, 91 creano uno stato di tensione tale da indurre modificazioni fisico-chimiche delle cellule del sistema nervoso centrale in persone eccessivamente scrupolose o sovraccariche di lavoro e di responsabilità. Quella avvertita da Berto è una malattia complessa contraddistinta da una crescente disperazione che non permette un prossimo risanamento, «oscura e infinita… è qualcosa di più perverso che va al di là della fine, è lo smarrimento dell’eternità forse l’inferno oltre la vita» (Male oscuro, p. 224), che Ottieri espliciterà nell’inferno del Campo di concentrazione e nel Pensiero perverso. Il Male è vissuto in prima persona nel corpo e nell’anima, e dagli stati di crisi perenne in cui si perdono i contatti quotidiani con la realtà, le sensazioni di Entfremdung e di Welt-Untergang-Erlebnis vengono provate senza intermediazioni: «Mentre io per esempio sarei capace di sentire nel rumore lontano di un treno che pur resta il rumore lontano di un treno il presagio imminente della fine del mondo» (Male oscuro, p. 245). Per Berto l’origine del Male riguarda la lotta con il Padre, evidenziata già nella prima frase e ripresa in diversi passi del romanzo, come nell’arrivare tardi al suo funerale con i successivi sensi di colpa che caratterizzano l’oscura malattia dell’anima. La mia lotta col Padre mi sembra quanto basta varia e lunga da poter essere argomento di una storia. […] La volta che mio Padre morì, io arrivai, naturalmente, tardi, ossia quando l’avevano già bello e sistemato su uno dei cinque o sei tavoli di marmo della tavola mortuaria. […] Ancorché poi nell’inconscio mirassi a raggiungere risultati ancora nebulosi, oggi però del tutto lampanti e strettamente connessi con quel diffuso senso di colpa che, com’è fin troppo chiaro, si è sviluppato in me fuori di misura soprattutto grazie agli influssi paterni. […] Questo segnò l’inizio benché ancora lontano e recondito dell’oscura malattia che mi venne nell’anima, anzi diciamo senz’altro che è nata da lì questa brutta malattia. […] Poi una volta congedato s’era messo a vendere cappelli, ombrelli e berretti, che dopotutto per lui era una bella cosa, e poi aveva avuto una moglie affezionata e fedele, e figli non tutti venuti su male come me. (Male oscuro, pp. 9, 14, 15) Anche in Ottieri lo scontro con il Padre è uno dei motivi caratteristici degli sviluppi successivi della malattia, e il poemetto Il Padre mostra tale conflitto fin dai primi versi, con chiare analogie con la vicenda di Berto, come ad esempio il ritardo con cui egli si presenta alla morte del genitore insieme al sentimento di esser nati male: «La pugna con lui fu dura. […] Io, figlio mal riuscito. / Non poté neppure tanto avvilirsi / quando seppe che non sarei / venuto neppure a vederlo morire. / Nell’immensa casa non poté vedere / che giunsi per egoismo / due ore dopo» (PAD, pp. 49, 54). Berto e Ottieri intraprendono lo stesso rapporto conflittuale con la psicoanalisi e i medici sia nell’ambito dell’autonomia della loro letteratura, in equilibrio tra libertà d’espressione e fuorvianti interventi dell’analista, sia nella scelta della terapia da seguire. Si apre un nuovo interminabile conflitto con sullo sfondo l’onnipresente psicoanalisi, strumento di guarigione e nello stesso tempo di tortura, di aiuto intellettuale e di ampliamento della sofferenza. Oltre alla terapia psicoanalitica 92 non possono mancare i sogni, analizzati in varie riprese nel Male oscuro e presenti in molte opere di Ottieri. Comunque una volta che si è giunti alla decisione psicoanalitica si è fatto solo il primo passo perché subito dopo bisogna prendere altre decisioni particolareggiate, ossia se è preferibile un analista junghiano dalla psicologia complessa o un freudiano che propende piuttosto per il pansessualismo, e in quest’ultimo caso se è preferibile uno di scuola viennese o svizzera o inglese dato che da noi la scuola americana pare non venga contemplata. (Male oscuro, pp. 283-284) Inoltre ci sono altri punti di contatto che valorizzano l’importanza del Male oscuro nel percorso letterario di Ottieri, soprattutto nell’ambito delle argomentazioni psicologiche e filosofiche riguardanti la malattia. In un passo del romanzo, ad esempio, Berto accenna a una svolta a U che effettuerà la persona x nell’Irrealtà quotidiana: «Devo per forza proseguire poiché succede che nei tratti brutti non si può retrocedere né tantomeno eseguire la cosiddetta conversione a U ossia girarsi per tornarsene a casa» (Male oscuro, p. 257). «Dunque il corpo va verso A […] ma il flusso d’intenzione verso A lentamente rimatura per B dentro al corridoio del cervello e arretra, rifluisce, gira, fa una svolta a U proibitissima sull’autostrada e riparte contro un muro di aria solida» (IQ, p. 16). Diversa è l’atmosfera e l’intenzione di chi sta guidando: in Berto si ha la necessità di proseguire un viaggio, mentre in Ottieri un processo mentale germinato dal dramma della scelta non consente alcuna risoluzione accettabile. Non vi è in apparenza identità d’intenzioni, eppure l’immagine dell’inversione a U, incontrata nel romanzo di Berto, potrebbe aver indotto Ottieri per la rappresentazione fisica dell’eterno dramma della scelta. Un altro elemento rilevante è il letto: «Noi ammalati abbiamo qui il nostro letto che è il feticcio della malattia. Non ho voglia di scendere in città con un’infermiera per poi risalire qui al feticcio del letto» (CC, p. 71). «Ora sto a letto tutto il giorno con le mani sopra la pancia a sentire il mio cancro che rode e se per caso mi alzo e vado in giro faccio paura con i miei occhi spiritati appena appena addolciti dalla consapevolezza che sto andandomene nel modo più ingiusto che si possa immaginare» (Male oscuro, pp. 280-281). Il rapporto tra vita e scrittura è decisivo per l’uomo e scrittore Berto nel quale le due figure si coagulano nel romanzo come lui stesso ha evidenziato nell’incipit: è difficile vivere in quelle condizioni e anche lo scrivere riflette uno stato in cui il male si alimenta dalla scrittura stessa. Il medesimo interrogativo animava Ottieri durante l’elaborazione delle sue opere: che tipo di letteratura può nascere dalla malattia che influenza ogni percezione dell’esistenza? La risposta, mai definitiva, verrà ricercata attraverso una scrittura-specchio della malattia. Dato il capolavoro che mi restava da scrivere, nelle mie presenti condizioni per me era difficile non solo scrivere ma financo vivere. […] E non c’era mi pare scusa più bella della malattia, e ecco quindi il 93 semplice contegno per cui l’ambizione di scrivere un capolavoro alimentava il male. (Male oscuro, pp. 285, 364) Il problema del vivere e dello scrivere ha pesato su tutta la mia vita. Non l’ho mai risolto, o scrivendo troppo o vivendo troppo (senza scrivere). […] Sto attaccato allo scrivere come a un salvagente. […] Scrivo unicamente per sopravvivere, scrivo per vivere, per gettare un ponticello sopra l’abisso. (CC, pp. 14, 17, 21) L’altro incontro letterario di notevole importanza compiuto da Ottieri nell’Irrealtà quotidiana riguarda Moravia attraverso l’analisi morale e psicologica di Dino, protagonista del romanzo La Noia27, tormentato da un grave disagio esistenziale che lo porta ad avere rapporti indifferenti, estranei verso gli altri e gli oggetti. La sua esistenza è determinata da scelte tortuose, turbamenti interiori, rapporti difficili fino all’estraniazione dal mondo, all’aridità comunicativa e all’ostilità insuperabile verso cose e persone. La noia è una condizione psicologica caratterizzata da insoddisfazione, demotivazione, riluttanza all’azione e sentimento di vuoto, segnalata fin dalle trattazioni medievali con il nome di acedia da cui il celebre passo nel settimo canto dell’Inferno: «Fitti nel limo dicon: «Tristi fummo / ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, / portando dentro accidïoso fummo: / or ci attristiam ne la belletta negra» (Inf., VII, 121-124). La tristezza, tristitia è sinonimo di accidia nei testi teologici medievali, è la connotazione tipica degli accidiosi che, anche dinanzi alla luce del sole splendente sulla terra, preferirono il buio delle loro sensazioni e perciò sono condannati all’inazione totale, immersi nel fango sul fondo della palude melmosa senza alcuna possibilità di movimento. La noia che travaglia Dino si esprime fin dalla prima frase romanzo con una cessazione: «Ricordo benissimo come fu che cessai di dipingere» (Noia, p. 5), per poi svilupparsi in sintomi quali l’insufficienza nell’agire, l’inadeguatezza delle scelte, la scarsità provata nei confronti di una realtà non più comprensibile o assimilabile concretamente, specchio impietoso di un malessere oscuro: Mi accorsi che tutta la mia energia si era scaricata in quel gesto di distruzione. […] Il senso di catastrofe che mi stringeva alla gola mi aveva portato all’impotenza completa. […] La noia, per me, è propriamente una specie d’insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. […] È buio e vuoto, […] una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina. […] Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità della realtà, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza. […] Soffrivo di una specie di paralisi di tutte le mie facoltà, per cui, muto, apatico e ottuso, mi pareva di essere murato vivo dentro me stesso, come dentro una prigione ermetica e soffocante. […] La noia era in fondo mancanza di rapporti con le cose, mancanza di rapporti con me stesso. So che sono cose difficili a spiegarsi. […] La noia aveva corroso a fondo la mia vita con l’impossibilità pratica di stare con me stesso. (Noia, pp. 6, 7, 14, 19, 20) 27 MORAVIA Alberto, La noia (1960), Bompiani, Milano 2007. 94 Il senso d’estraneità e di assurdità della realtà circostante fa scaturire in Dino il sentimento di noia, difficilmente esprimibile e senza via d’uscita, con la consapevolezza di non aver più alcun rapporto con le persone e gli oggetti della vita quotidiana. Tendenze coercitive e irrazionali spingeranno poi il protagonista a ripetere determinati comportamenti (coazione a ripetere compulsione o costrizione) di cui egli stesso riconosce l’inutilità, ma la cui mancata esecuzione provoca angoscia, mostrando chiaramente il carattere ossessivo della sua nevrosi. Per superare questo stato di malessere quotidiano e recuperare il rapporto con la realtà, Dino sceglie la pittura: un’espressione artistica utile, come la scrittura in Ottieri, per riacquistare quella parte di sé che evapora a causa della malattia. Seguendo la vicenda di Dino, si comprende come egli sia, se non il fratello, comunque un parente molto stretto di F., di Lucioli e di altri personaggi ottieriani legati tra loro dagli stati d’alienazione vissuti drammaticamente nel rapporto con il mondo. La noia, la variante romanzesca del sentimento d’irrealtà secondo Ottieri, è il sintomo svelato dell’alienazione sofferta da Dino, che è nello stesso tempo di tipo economico e psicologico: Dino è un esempio vivo di sentimenti d’irrealtà a provenienza economica […] in cui si mescola la psicologia: l’irrealtà di Dino è provocata dai soldi non guadagnati che la madre gli elargisce ricattandolo affettivamente, con un miscuglio di privilegio sociale e di epidismo. […] Denuncia una situazione particolare che ha cause particolari. […] Il sentimento d’irrealtà storico prevale ora sulla ipotesi di un sentimento d’irrealtà eterno. (IQ, p. 65) La causa della noia sta nel feticismo borghese del denaro che comporta la derealizzazione e la reificazione non solo di Dino ma della società intera. Tale alienazione economica, «vi era un nesso indubitabile benché oscuro tra la noia e il denaro» (Noia, p. 13), regola i rapporti tra Dino e gli altri due personaggi importanti del romanzo: la madre e la sua ragazza Cecilia. Il «miscuglio di privilegio sociale e di epidismo» di cui parla Ottieri si riscontra nella condizione economica della famiglia di Dino che obbliga il ragazzo a essere ricco usufruendo di tutti i privilegi connessi anche senza volerlo: «Mi annoiavo perché ero ricco» (Noia, p. 13). È attraverso il denaro che Dino costruisce suo malgrado i suoi rapporti non solo con la madre, a causa dei continui prestiti di soldi, ma anche con Cecilia fino alla grottesca scena dell’amplesso con la ragazza ricoperta di banconote sul letto della madre. Con quest’ultima, possessiva e castratrice, si crea un rapporto di «epidismo» per cui la villa rappresenta il suo stesso utero provocando nel ragazzo «il solito sentimento di disagio e di ripugnanza. […] Un costernato orrore. Un orrore come chi si accinga a commettere un atto contro natura, quasi che, imboccando il viale, fossi in realtà rientrato nel ventre che mi aveva partorito. […] E adesso? Adesso che ci stavo in questo ventre non ne sarei mai più uscito» (Noia, pp. 24, 25, 35). La scena della colazione nel giorno del compleanno di Dino è paradigmatica; alle 95 pressanti domande del figlio sul patrimonio di famiglia, la madre non vuole rispondere alla presenza della cameriera e preme, sotto il tavolo, il piede del ragazzo per farlo tacere: Quel piede di mia madre sul mio m’ispirò addirittura un sentimento di disperazione. Dunque, lei mi premeva il piede come fanno gli innamorati fra di loro; soltanto che eravamo madre e figlio e il legame che ci univa non era l’amore bensì il denaro. D’altra parte io non potevo rifiutare questo legame, perché rifiutarlo avrebbe voluto dire rifiutare anche il legame di sangue che esso sottintendeva. (Noia, pp. 48-49) Anche con la ragazza Cecilia, è il denaro a regolare il rapporto con sentimenti di venalità, valutazioni mercificate delle persone, feticismo. Come la madre tenta, attraverso il denaro, di impadronirsi del figlio, così Dino si lega a Cecilia con la profusione di un numero sempre maggiore di banconote che, in una scena del romanzo, la ricoprono per tutto il corpo dove «il denaro si fa carne e sangue» (Noia, p. 315). La ragazza inoltre è il personaggio specchio di Dino; come in quest’ultimo si scorge un particolare complesso d’Edipo, in Cecilia non si celano sentimenti d’amore verso il Padre che si riassumono in psicoanalisi nel complesso di Elettra: «Quando io ero più giovane, avevo avuto una vera passione per mio Padre» (Noia, p. 89). La caratteristica determinante di Cecilia è l’inafferrabilità: figura di maniera, spesso astratta, dalle risposte meccaniche ed evasive, sempre sfuggente, non può essere agevolmente catturata neanche con il denaro. Da qui la gelosia di Dino che si esprimerà con appostamenti, scenate violente, sentimenti distorti, attese spasmodiche dinanzi al telefono o al portone di casa mentre Cecilia incontra altri uomini. Ne La noia, Moravia proietta il fenomeno dell’alienazione nel contesto dell’Italia neocapitalistica del boom economico degli anni Cinquanta, all’interno di una borghesia industriale che, come l’insieme della società, si stava radicalmente trasformando nell’arco di alcuni decenni. Nell’analizzarla Moravia combina motivi ricavati dall’esistenzialismo, dal marxismo e dalla psicanalisi28 attraverso cui l’assurdità del reale s’intreccia con la moderna condizione borghese, precisando in questo modo una causa storica ben precisa: il moderno capitalismo. Nel romanzo vi è la compresenza di Marx e Freud come elementi culturali, in un’analisi nello stesso tempo sociologica e psicanalitica della società attraverso le vicende di un particolare nucleo familiare. Ottieri legge in Moravia un esame dell’alienazione non solo come crisi del rapporto con la realtà ma soprattutto come fenomeno determinante del mondo contemporaneo, connessa al neocapitalismo che si è esteso su tutta la società con le sue degenerazioni politiche per cui 28 «Anche se Moravia non ha letto molto di Freud, la psicoanalisi è stata per lui un garante intellettuale, una conferma obbiettiva intellettuale per cui i rapporti tra gli uomini, e tra l’uomo e le cose, appaiono a un tratto in una prospettiva totalmente diversa e nuova. Per Fernandez, la psicoanalisi è stata per Moravia la scoperta di una nuova problematica. […] Sono tutti convinti dell’importanza tematica e rivoluzionaria della psicoanalisi nell’opera di Moravia. Quando in Italia si vuol parlare di letteratura psicoanalitica, il primo nome che si fa è sempre quello di Moravia». Dall’Introduzione di Michel David ne La Noia, cit. 96 «l’operaio di Ford è altrettanto alienato come il suddito di Stalin» (IQ, p. 61). Anche Bouvet aveva teorizzato la relazione oggettuale, ovvero il rapporto affettivo verso l’oggetto quale causa storica e individuale per cui la perdita di quel dato oggetto avrebbe prodotto il sentimento d’irrealtà. È la maledizione narcisistica che fa evaporare l’oggetto e l’uomo stesso che lo desidera; e pertanto, perduto l’oggetto, l’uomo prova il senso di vuoto sentendosi lui stesso quel vuoto prosciugato e sospeso, e «fra esso e la realtà scende il nero (o bianco) velario d’organza del sentimento d’irrealtà che dunque ha la sua storia. La strutturazione della libido lo comanda» (IQ, p. 71). Se prevale il sentimento d’irrealtà storico, Ottieri ne ricerca il casualismo nell’insieme delle cause e del loro intreccio in diverse forme: meccanicistico, astorico, unilienare senza tuttavia centrare l’obiettivo poiché ognuna di esse ha limiti strutturali. E tuttavia sono, come sempre, l’ambiguità e l’incomunicabilità di tale sentimento, anche se osservato storicamente, a non determinare una visione concreta della malattia esistenziale: «La morbosità nervosa e mentale è appunto un intrico di radici il cui misterioso affondare spesso è l’anima della malattia. Malattia è il non sapere mai tutte le cause, è il buio smarrimento del senso dei precedenti, della ragione o delle ragioni e dei legami chiari innocenti con la realtà» (IQ, p. 66). Questa malattia Ottieri la percepisce nella noia di Dino correlata al sentimento d’irrealtà di F., come se l’irrealtà potesse in un primo tempo sostituire l’angoscia e offrire un’estrema difesa dalla realtà nel complesso rapporto tra l’irrealtà, l’inimicizia col mondo e il delirio: «Gli autori psicanalisti hanno visto quasi tutti nella depersonalizzazione una finzione difensiva» (IQ, p. 68). In quest’atteggiamento difensivo, il sentimento d’irrealtà è simile al pensiero della morte, poiché entrambi si trovano oltre la vita ma necessariamente nella stessa e vissuti durante l’esistenza. E Dino, anche lui intrappolato nel dramma della scelta, non sa se continuare a vivere o suicidarsi: «Ogni tanto, tra queste frenesie della noia, mi domandavo se per caso non desiderassi morire; era una domanda ragionevole, visto che vivere mi dispiaceva tanto. Ma allora, con stupore, mi accorgevo che sebbene non mi piacesse vivere, non volevo neppure morire» (Noia, p. 22). II.3 Il pensiero perverso Il pensiero perverso, opera di ampio respiro strutturato in quarantuno poemetti, rappresenta l’esordio poetico di Ottieri e segue le prime esperienze letterarie dei romanzi, saggi e drammi. Da quel momento la poesia entra con forza nelle sue preferenze espressive superando nel complesso il 97 numero dei romanzi29, anche se Ottieri non è mai stato un poeta lirico, nel senso che la sua poesia nasce dallo sviluppo interno della prosa rispondendo al bisogno di ritmare le proprie riflessioni con pause, rimandi, ripetizioni e versificazioni peculiari della poesia. Non sopporto più le descrizioni, le lentezze della narrazione in prosa. Coi versi posso andare dritto al centro del problema e poi, altro vantaggio, la poesia è più vicina al procedimento mentale psicanalitico, quello che in linguaggio chic si chiama associazione involontaria e che detto terra terra suona: andar di palo in frasca. (CRO, p. 181) Lo stesso Ottieri preferisce definire il suo lavoro poetico come prosa ritmica che arriva sulla pagina senza mediazioni per trasformare la sofferenza psichica in occasione letteraria. Il rapporto del paziente-scrittore con la propria malattia è determinante in quanto lo scrivere rappresenta un modo per sopravvivere anche in condizioni disperate, facendo ritrovare al poeta quell’io sminuzzato e frammentato dopo vari mesi trascorsi in manicomio. La poesia di Ottieri nasce per un prodigio a causa della debolezza della prosa che è condannata a descrivere troppo e lentamente, mentre la forma poetica è più diretta e riesce a mettere in risalto senza intermediazioni i meccanismi involontari della mente: «La poesia è un’irruzione irrazionale, nasce senza che io lo premediti. Sono un narratore, tutti i miei libri di poesie nascono come per miracolo. O forse nascono da un fenomeno di estenuazione della prosa» (ne Gli ultimi eccentrici). È presente in questo passaggio il riferimento al procedimento della poesia involontaria adottato dai poeti surrealisti, anche se Ottieri si dissocia apertamente dalla loro dottrina, in particolar modo quando viene chiamata in causa la psicoanalisi: Non convince che lo stile monologante, e di palo in frasca di certi scrittori, puntualmente venga detto psicoanalitico. Fa il verso a un tono dell’analisi, l’associazione libera, ma l’analisi è più tragica: l’associazione libera è sempre minacciata dall’autocoscienza razionalizzatrice e difensiva del paziente, di rado è libera, spesso è programmata e sempre calamitata, come le maree dalla luna, dall’intervento interpretativo dell’analista ordinatore per eccellenza. (IQ, p. 198) L’associazione, in termini psicologici, riguarda la successione di pensieri che affiorano alla mente in modo spontaneo da un determinato elemento, oppure senza controllo in modo dissociato. Nell’ambito psicoanalitico si parla di libera associazione come della regola fondamentale, nel trattamento analitico, per la ricognizione dell’inconscio e l’interpretazione dei sogni, mentre il paziente dovrebbe rinunciare volontariamente alla censura cosciente per esprimere in libertà i suoi pensieri, sentimenti, speranze, angosce. L’esercizio della pratica associativa dimostrò tuttavia che le 29 Saranno ben tredici le opere scritte in versi: Il pensiero perverso (’71), La corda corta (’78), L’estinzione dello stato (’82), Versi adolescenziali (’86), Vi amo (’88), Il Padre (’90), L’infermiera di Pisa (’91), La questione meridionale (’92), Storia del PSI (’92), Il palazzo e il pazzo (’93), Le guardie del corpo (’94), Il diario del seduttore passivo (’95), Il poema osceno (’96) inteso nelle parti poetiche. I romanzi invece sono solamente undici. 98 libere associazioni non erano né libere né casuali poiché il paziente di solito metteva in relazione fatti ed elementi connessi all’immediata situazione terapeutica. Inoltre la libera associazione viene influenzata anche dalle resistenze che possono risultare indicative di ciò che il paziente vuole tacere o evitare di conoscere. Poiché il freudismo è secondo Ottieri razionalistico e gerarchico, solo la psicoanalisi poteva razionalizzare quei passaggi mentali che la poesia involontaria, scaturita da un’associazione veramente libera, rendeva concreti sulla pagina. Sì all’irrazionalità, no al filtro psicoanalitico, sembra ammonire lo scrittore, e di conseguenza le sue poesie cercano quello spazio di libertà vietato a turno sia dalla metrica che dalla riflessione. La poesia di Ottieri, mediante questo procedimento involontario, o surrealistico sui generis, riesce a entrare in contatto più diretto con la malattia dando voce al pensiero ossessivo e alla depressione che possono esprimersi direttamente sulla pagina senza mediazioni, superflue lentezze o metafore. All’interno della clinica, la scrittura corre su binari paralleli a quelli dell’analisi e scaturisce dalla necessità di tornare a vivere, o meglio di aggrapparsi fisicamente a un barlume di vita anche se impalpabile per ritrovare se stessi e ricostruire il proprio io disfatto, sminuzzato, alienato. La scrittura può quindi far reintegrare lo scrittore in sé ritrovando quell’io eroso dalla malattia, ma con l’orizzonte continuamente sfuocato e con il rischio di confondere la propria vita con la scrittura. Il pensiero perverso si rivela paradigmatico del modo di poetare di Ottieri: il pensiero stesso origina la frammentazione delle immagini che si distendono sulla pagina senza schemi fissi o modulazioni predefinite, in un vortice ossessivo privo di pause e in un versicolare caratterizzato da cadenze litaniche che a volte determinano un ingorgo comunicativo. Il pensiero perverso è la confessione poetica dello scrittore, vittima del proprio male e testimone oculare di una condizione insopportabile. Accompagnata da un’esperienza specializzata, tale confessione viene condotta in terza persona permettendogli un certo distacco da sé e, nello stesso tempo, una dichiarazione di neutralità nei confronti della materia narrata non facilmente esprimibile. Il pensiero di cui parla Ottieri è un’attività mentale che comprende diversi fenomeni come ragionare, fantasticare, ricordare, e che permette di essere in comunicazione con la realtà esterna, con se stessi e con gli altri, nonché di costruire ipotesi sul mondo e sul modo di pensarlo, e può deteriorarsi nel delirio o disorganizzarsi come nell’erompere delle emozioni. Nei versi Ottieri definisce il suo pensiero perverso, ossessivo, nero, infinito, devalorizzante, grossolano, sottile; aggettivi che rientrano nell’area dei disturbi del pensiero: Cerca di scrivere del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo / lasciatogli libero dal pensiero ossessivo. / Non lavora, non esce, non mangia, / all’infinito perfeziona la tessitura d’aria / con un’aderenza perfetta / schiacciata incollata alla cerebrale / spoletta. Schifiltosità disperata / verso ogni dolce contaminazione, / non guarda, non tosse, immobile e puro / sfuggendo la pena che avvampa / dopo il barlume di una distrazione. Se si accantona, se schiaccia / la molla del dubbio / essa scatta / più forte, il velo 99 opaco che era / nella scatola della testa / si indurisce, il dubbio marrone / scuro picchia da sinistra e da destra. (PP, p. 9) L’incipit del Pensiero perverso evidenzia alcuni elementi caratteristici tra cui la scrittura e la scelta della terza persona per narrare la personale esperienza della malattia; intanto tra vita e letteratura staziona il Male imperativo con cui bisognerà fare sempre i conti. Il tempo è davvero esiguo nel momento di libertà sempre agognata e mai realmente raggiunta, tuttavia eterno nella sofferenza, mentre l’immobilità determina la conditio sine qua non dello scrittore, statico nel proprio non-essere che in verità è un essere pieno ma solo nell’ingorgo della malattia. La distrazione appare in un bagliore, un lampo, e subito racchiusa nella concentrazione sul proprio male mentre il dubbio, attinente al dramma della scelta, è invece un congegno a scatto che fa rimbalzare i pensieri da una parte all’altra della mente senza requie. Altri motivi, quali il succedersi delle ore, il rapporto mente-cervello, il vuoto, i colori, il letto, la depressione, la psicoanalisi, avvicinano Il pensiero perverso al Campo di concentrazione, applicazione l’una poetica e l’altra romanzata delle teorie formulate nell’Irrealtà quotidiana. Il tempo e l’alternanza del giorno e della notte, nel corso dei quarantuno poemetti del Pensiero perverso, hanno le stesse caratteristiche che si riscontreranno nel Campo di concentrazione: l’incoscienza della notte è agognata come una quotidiana salvezza, tuttavia troppo labile e passeggera, mentre il giorno, con la luce, il risveglio e la coscienza di esserci, provocano angoscia e disperazione. Lo scorrere del tempo in tale succedersi di ore è lentissimo distillando e allungando la sofferenza che accompagna lo stato depressivo, mentre il pomeriggio è vissuto come un penoso infiacchimento di istanti fossilizzati dalle lancette dell’orologio, in particolar modo durante le prime ore pomeridiane. Fruga prevede cieca / nella visione storta / del mattino, / se sceglie si condanna, / la non scelta è dannata. […] Impegnata, tesa è la testa nella notte, / inutile il corpo, l’istinto morto, / e misterioso, il buio / istinto del cervello trivella / l’aria e il tempo. […] È vicino il mattino e più soffia vicino / più la spoletta urge s’avventa nella testa. […] Troppo corta è sempre la notte / per il pensiero ossessivo, di natura / infinito. […] Inganno che il dubbio ossessivo si calmi / la notte. / Dorme sì qualche volta. Rinviene / forte alla secca tapparella aperta. / Evita il risveglio, prolunga il sonno / come un elastico. […] Progredisce nel tempo il pomeriggio / doloroso e noioso come pura / consunzione del tempo; / aspetta – non può coglierla mai – / che l’occasione passi, se la lasci / alle spalle, il tempo / medica il dubbio. Ma il dubbio / rinasce dal tempo. Quel che è perdita / di tempo è per lui l’unico acquisto. (PP, pp. 10, 11, 14, 15) Indicativa l’aggettivazione utilizzata da Ottieri nel descrivere tali stati emotivi: «storta» è la visione del mattino che proietta il depresso a contatto della concreta realtà, altrove definita «rachitica», mentre la notte è «corta» in opposizione al pensiero perverso «infinito» legato indissolubilmente al dubbio già conosciuto nell’Irrealtà quotidiana come dramma della scelta. Ottieri rovescia in questo modo il motivo classico della brevità della vita e della fugacità della 100 giovinezza, cantato dal poeta greco Mimnermo e in seguito da Catullo, Orazio e Lorenzo il Magnifico, i quali invitavano senza troppa parsimonia a godere dei passeggeri momenti di felicità concessi all’uomo. Confrontando i versi di Ottieri con quelli del carme V di Catullo, si può osservare il ribaltamento completo del frenetico desiderio di vita evocato dal poeta latino per il quale la luce del giorno è breve mentre sopraggiunge l’amara consapevolezza della notte eterna. In Ottieri al contrario il giorno si dilata drammaticamente distillando il dolore in ogni attimo, mentre la notte che porta con sé la pace della coscienza è sempre troppo breve: «Soles uccidere et reire possunt: / nobis cum semel occidit brevis lux, / nox est perpetua una dormienda»30. In genere l’immagine della notte si staglia come sinonimo di morte e netta antitesi di vita, accentuata nei versi catulliani dai due aggettivi «perpetua» e «una» strettamente collegati per asindeto e dalla disposizione chiastica degli attributi e dei sostantivi «brevis lux» – «nox perpetua». Per Ottieri vale il contrario giacché proprio nella «nox» troppo corta si può auspicare una vita dignitosa, incosciente quanto si vuole, ma pur sempre l’unica forma di vita possibile. Il dubbio, descritto «marrone scuro» «velo opaco» «molla», perfora il cervello, coadiuvato in questo compito dallo stato depressivo che corre in suo aiuto per aumentarne il carico d’angoscia. La depressione / sotterra vivacissimo il dubbio, lo slarga, / l’ansia lo piglia per le due / corna e lo sbatte per lo spazio mentale / percotendo il vuoto pieno di segretissimi / lampi, di qualche cenere, di soffocato fuoco / del più acre pensiero umano. […] Un corno / del dilemma si drizza: ha vinto senza catarsi. (PP, p. 11) Torna con efficacia l’immagine del «corno del dilemma [che] si drizza» simile al «corno della fiamma antica» dei fraudolenti (Inf., XXVI, 85-87) già comparato con l’ondeggiamento della non-scelta del depresso descritto nell’Irrealtà quotidiana. Il perno intorno al quale ruota l’autoriflessione sul proprio stato psichico è il «vuoto», o meglio un «vuoto pieno» di dolore, vissuto come prosciugamento fisico e morale per chi si scopre impotente dinanzi alla malattia, simboleggiato dall’abisso che si spalanca ai suoi occhi. È proprio su questo vuoto che si gettano le fondamenta della sconfinata depressione, dell’angoscia infinita, sulla quale solo la scrittura può valere come distraente, anche se fallibile. «Talvolta si rifà viva l’arte: / un miscuglio di vivere e scrivere, / di fiume e mar / si intreccia / in uno statico estuario» (PP, p. 18). Quest’ultima immagine rappresenta quelle zone limacciose della psiche inesplorabili a occhio nudo ma che si possono esaminare attraverso la scrittura, più utile della psicoanalisi almeno in apparenza e tuttavia perdente come aveva già rilevato Lucioli: «Tempo di scegliere e di essere scelto; / la letteratura più non cura né cuore / né paura, rimovente si 30 CATULLO Gaio Valerio, Le poesie, Einaudi, Torino 1997, p. 18. 101 esplicita. (PP, p. 53). «La psicoanalisi ha monopolizzato le scoperte psicologiche che un tempo faceva la letteratura; secondo cui la letteratura privata del suo compito vero di pioniera della psicologia, è rimasta retrograda, ornamentale, consolatoria: disoccupata. Lo scrittore serio allora tacerebbe. Morte dell’arte» (IQ, p.160). Nel Pensiero perverso l’attenzione di Ottieri è posta sulle proprie modalità espressive: ad esempio, la poesia come associazione involontaria, surrealistica solo nell’idea non nell’attuazione, gli permette di svincolarsi dai legami della prosa per esprimersi con più libertà. È su questo concetto, continuamente agognato dal malato, che si fonda il principio di una poesia caratterizzata da spinte irrazionali non filtrate dalla riflessione, da immagini frammentate disunite tra loro, dall’utilizzo di termini che acquistano specifico valore all’interno del verso, dal ritmo incalzante a volte ossessivo che combacia con il pensiero perverso e da un vortice musicale di colori e sofferenza. Un narrare in versi che auspica la libertà di raccontarsi, esplicitato nei versi successivi come esempio dimostrativo di questo particolare modo di far poesia. Sempre, nell’apparente quiete convinta / si alza la paletta secca / della mental Riserva: / è il sistema, il sistema ossessivo. / Arduo spiegarlo se intender / non lo può chi non lo prova. / Occorre che l’estraneo muova / per una foresta senza foglia, / per uno scheletro fitto / (mai per un pensiero invitto!) / un folto radiografico intreccio / in cui lo scatto fisso rimanda / a un altro scatto, a uno ancora, / macchina coerente, camma, / tirantino, piagnone, sistema / binario, inferno meccanografico, / coerenza logica e orfica, / la più razionale e in ferro / disperazione possibile. / Morirà con riserva. (PP, p. 75) A prima lettura i versi della poesia sembrano caratterizzati da alcuni disturbi formali del pensiero tra i quali la cosiddetta fuga delle idee, cioè una profusione di idee incontrollate che fioriscono per via associativa a getto continuo; oppure la circostanzialità per cui il pensiero si perde in molti dettagli con facili passaggi ad altri argomenti; o anche la disgregazione, contraddistinta dalla perdita di controllo nel modo di percepire le impressioni, così che si pongono in primo piano certi particolari con conseguente frammentazione del campo dell’esperienza dovuta all’eliminazione di orientamenti superiori. Si noti come questi disturbi formali siano determinanti nella strutturazione della poesia surrealista e influenzino il versicolare di Ottieri, il quale tuttavia evita d’«andar di palo in frasca». Nella sostanza, sono proprio quei particolari che articolano, come frammenti di un mosaico, la costruzione poetica che si trae vantaggio in modo impressionistico di raggruppamenti cangianti fondati sul senso del dolore e sulla capacità evocativa. Il «sempre» che apre la poesia si riferisce a quella tendenza psichica, la coazione a ripetere, che spinge il soggetto malato a ripetere meccanicamente esperienze già vissute e legate nel caso specifico al confronto impari della Riserva che alza la paletta, come un vigile urbano, per fermare il timido tentativo della quiete che, in un barlume di fermezza cosciente, vorrebbe stanare un momento di pace. Ciò che non si spiega rientra nella difficoltà di esprimere l’inesprimibile e Ottieri 102 per chiarire la situazione fa entrare in scena un estraneo, che non è assalito da tale pensiero, in una boscaglia brulla: «Arduo spiegarlo se intender / non lo può chi non lo prova. / Occorre che / l’estraneo muova / per una foresta senza foglia, / per uno scheletro fitto» (PP, p. 75), chiaro richiamo al dantesco bosco degli alberi spogli dei suicidi nel secondo girone del settimo cerchio: «Non era ancor di là Nesso arrivato, / quando noi ci mettemmo per un bosco / che da neun sentiero era segnato. / Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco» (Inf., XIII, 1-6). In Ottieri è uno scheletro, immagine che si congiungerà all’anoressica del Campo di concentrazione, simbolo della negazione della vitalità dell’uomo insieme agli alberi stecchiti e ai suicidi, a essere folto in aperto ossimoro con la foresta spoglia: è il sorprendente gioco delle parti ordito da Ottieri che snatura di senso immagini comuni per caricarle di altre percezioni e significati, seguendo in questo modo la poetica della Pop Art. Nella seconda parte della poesia, predomina invece l’aspetto meccanicistico nell’analisi introspettiva del malato: «radiografico intreccio», «scatto», «macchina coerente», «camma», «sistema binario», «inferno meccanografico». Nell’unione degli elementi si tratta di un’osservazione interna senza scampo, non a caso attuata dal metodo di esame radiologico a scopo diagnostico con fotografie a raggi X che martellano il corpo del malato. Si parla di radiografie, eppure non c’è la minima traccia del corpo né delle sue parti costitutive, dunque l’analisi ancora una volta è indirizzata sull’anima, o ai brandelli che ne restano, del malato. La conclusione univoca, dopo un lavorio privo di contraddizioni in cui la macchina è coerente come la coerenza logica e la disperazione razionale, non può essere che la morte: «morirà con riserva». In altri passi del Pensiero perverso ritorna l’immagine radiografica che sviscera l’essenza del malato: «Nuotava nel fango denso, radiografiche / le radici dell’essere, sciupata / l’ovvietà del mondo. / Era la visione / del non mondo, dunque più larga» (PP, p. 39). Di radiografia in radiografia evapora dal tavolo operatorio non solo il corpo, non c’è mai stato, ma addirittura la realtà stessa che lascia il posto all’irrealtà determinata dal pensiero ossessivo, la depressione, che ha situato l’accampamento su quel perno già conosciuto: il vuoto. Solo qualche verso – gli scrive il poeta – / filtra dalla mia poltigliosa irrealtà. / Dalla sua gelatina ora non filtra che un sentimento perso. / Il pensiero perverso / sostituì l’irrealtà: / passò il dereismo attraverso il vuoto / prima di approdar / all’odierno perverso, / graticcio che copre il buco del vuoto, / occupazione, spirale. […] Non ride né / gli riesce la permanenza devalorizzante: / avida di valore la vita. Aspetta che passi la / colata di piombo / nel cervello. (PP, pp. 38, 40) Ciò che accomuna realtà e irrealtà si trova in uno stato imbolsito tra fango, poltiglia, gelatina: l’immobilità del tempo e del letto si determina maggiormente per un inabissarsi lento e quotidiano nelle sabbie mobili della depressione cronica, con le solite lastre di piombo posizionate 103 sul petto o conficcate nel cervello. Non esiste via d’uscita, se non il suicidio, anzi in alcuni casi la sentenza suona ironicamente crudele: condannato a vivere: «Il paziente non si uccide perché l’ossessivo / è condannato a restare vivo: / per la buona volontà dell’ossessione stessa / che non ammette un attimo / di non permanenza» (PP, p. 26). La depressione è la protagonista del Pensiero perverso, come anche nel Campo di concentrazione, e alcuni disturbi si presentano in forma poetica, soprattutto quelli dell’affettività con sentimenti improntati a una tristezza profonda, monotona e cupa che resiste alle sollecitazioni esteriori, cui si aggiunge una progressiva perdita d’interesse per la vita: È il rifiuto d’altri, / direi, forse negazione del sé, altra questione / nella vasta depressione che investe / l’area occidentale tutta. […] La depressione del mattino / non ha miraggi di riscatto, / si attesta ormai come una vita infinita. […] Si scatena il comportamento perverso. / Come un fischio negli occhi vibra la previsione, / la disperazione del momento perenne, / il sussulto, il folle punto dell’impossibilità / e della soluzione. […] La sofferenza eccede. / Rintrona la visione del mondo. / L’identità di sé s’è perduta per via / della mania e del terrore. / Dura oltre ogni umana paurosa / misura la paura, come un affogamento / della durata di sei giorni. […] Ei soffre il consueto / danno anancastico / di fronte al giovinetto / psicologo. (PP, pp. 16, 21, 23, 30, 99) Ottieri chiama in causa una tipica forma di depressione, quella anancastica accompagnata da tensione, angoscia, idee ossessive e paranoiche in individui la cui personalità premorbosa è di tipo rigido e ossessivo. L’ananacasmo è per l’appunto un’idea o comportamento ripetitivo e coatto presente in soggetti in cui dominano manifestazioni compulsivo-ossessive, e il pensiero perverso o dominante esprime palesemente tale stato emotivo. Altro disturbo riguarda l’abulia nel comportamento e l’inibizione del pensiero accompagnato dalla perdita d’iniziativa e progettualità. Si tratta di una perdita totale di se stessi e della propria identità senza prospettive di miglioramento future: il tempo si appiattisce, partendo dal mattino, in un’addizione perversa di ore vuote che bloccano qualsiasi tipo di azione. La sofferenza portata dalla depressione è incommensurabile e distrugge gli argini difensivi di una mente sottoposta al martirio quotidiano, così che l’attenzione viene concentrata solo sui temi melanconici rendendo difficoltose sia le associazioni mentali che le ideazioni. Quella che segue è una delirante scena di vita quotidiana: La paura fobica stringeva il pensiero / ossessivo a pensare la scelta e perché pensi siede / immobile pensando, unicamente, giorni: / anima viva non deve stargli intorno. / Si astiene dall’orrore della menoma azione: / il cerimoniale astenico non tollera / impercettibile distrazione, / la colpisce a sangue nel cervello. / Quindi si scatenava il moto ondoso, / pseudo libidinoso, che libidinizza, / l’ubiquità, l’essere qui mentre vorrebbe essere là; / e doveva moltiplicare le occasioni / nel coatto sistema della quantità. / Non lui decide non si fida di sé. / È la riserva mentale che da sola si drizza / (partorisce il doppio, il triplo, il tutto) / come una paletta della ratio / mossa dal relais e la strizza. / Ma qui ora perde tempo. S’alza, / telefona, va, s’aggira, beve, / nella coazione insaziabile. / Mobilità immovibile. (PP, pp. 28-29) 104 Il tratto patologico della paura, su quelle situazioni che si considerano spaventose, assume i tratti della fobia, del timore irrazionale per oggetti o specifiche situazioni che non dovrebbero provocare apprensione. La fobia è il tentativo di costruire una difesa contro la propria ansia allontanandone l’occasione di manifestarsi con un atteggiamento di rifiuto che tuttavia non fa che evocare continuamente il fantasma. Ottieri manifesta il diniego dell’occasione non solo con la solitudine ma anche con l’immobilità e l’inazione, senza peraltro superare la crisi. Anzi quel fantasma si aggira con sospetto nei reconditi meandri della sua mente scatenando «il moto ondoso», la tempesta nel cervello, in contrasto con la «mobilità immovibile» e l’«inazione» del depresso dovuta all’eterno dramma della scelta. Un altro fantasma è presente in questi versi: è il malato che vaga senza meta alla ricerca di qualcosa che non esiste senza alcun accenno di guarigione. Inevitabili, nei casi più gravi, la deriva nell’alcoolismo, la tendenza al suicidio e il desiderio di morte che accompagnano costantemente la sua vita. Allora solo l’alcool smussa / i sanguinolenti spigoli del dubbio, / i sussulti del corno trascurato. […] Unicamente l’alcool libera il petto / e la mente, privilegiate sedi / del tubo e del piombo, della nuvolaglia / che non caglia, della gramigna ossessiva / germinante come il germe solitario. / Alcool semiconvinta liberazione breve / catarsi ripetitiva ossessiva della sistemazione ossessiva, / giacché notoriamente il sadicissimo / super-io è solubile in alcool, / verso il nirvana. (PP, pp. 36, 44) All’alcolismo Ottieri dedicherà grande spazio nelle sue opere fino agli ultimi romanzi Cery e Una irata sensazione di peggioramento. Tra le motivazioni psicologiche sofferte dallo scrittore, sono da considerare incentivi che facilitano l’alcolismo gli stati di tensione, le difficoltà nelle relazioni umane, i sentimenti d’insicurezza, l’incapacità di affermazione personale. Nei versi precedenti si nota un uso delle assonanze tra «nuvolaglia» e «caglia» e nel trittico «gramigna» «germinante» «germe» nell’indicare con termini dispregiativi la condizione del depresso in ausilio del quale interviene l’alcool, liberatore inutile, però, essendo il malato evaporato da sé. Dal Poisson soluble di Bréton si passa al «super-io solubile» di Ottieri, con buona pace della psicoanalisi freudiana. Un altro aspetto notevole delle poesie di Ottieri, presente anche nella produzione in prosa, è la connotazione psicologica riguardo ai significati emotivi e simbolici derivanti dall’uso dei colori. Nonostante le differenti interpretazioni che si riscontrano nelle varie culture ed epoche storiche, i colori rappresentano in ogni area geografica e a ogni livello di conoscenza uno dei riferimenti più espressivi della lettura simbolica del mondo esteriore e interiore. Per ciascuna cultura e per qualsiasi individuo ogni colore assume un certo significato ed esercita un determinato effetto connesso a immagini, contenuti, figurazioni che il soggetto percepisce. Il colore prevalente nel percorso 105 letterario di Ottieri è il nero che caratterizza la depressione, oltre al buio, la notte, il pensiero, il decesso, l’inferno, dato dall’assenza totale di luce e perciò associato all’oscurità, al mondo delle ombre, alla morte. Tesa è la testa nella notte, / inutile il corpo, l’istinto morto, / e misterioso, il buio / istinto del cervello trivella / l’aria e il tempo. […] Il tempo che come il dubbio / pompa il pensiero nero. […] Lo acceca in un’ansia nera. […] Ombra umida, cupa, gelosa è l’istinto. […] Vedere il mondo ridotto / a una luna vicinissima al naso / ritagliata e nera. […] La nevrosi mondana è una femmina narcisa / e ossessiva che sostituisce il sentimento / chiaro e nero. (PP, pp. 10, 29, 39, 50) Le poesie rinvengono di moda dopo la paura enorme, il rivolgimento del cielo e della terra e la disperazione nera. Non vi è altro aggettivo alla disperazione che: nera. […] Non so bene che cosa scrivere sulla disperazione, posso dire soltanto che essa è nera. Colora di nero il mondo e lo restringe ad un imbuto nel cui punto più stretto sta il disperato. […] So che il cielo s’offusca, un mattone si schiaccia nel petto, il circuito dei pensieri è nero-grigio. Ognuno potrebbe elencare i propri neri pensieri. (CC, pp. 9, 23, 60) In opposizione al nero, il bianco, scaturito dalla fusione di tutti i colori dello spettro, non contiene alcuna dominanza che lo faccia propendere verso qualche colorazione ed è considerato in generale simbolo della purezza, innocenza e castità. Per Ottieri invece bianca è l’irrealtà, l’opposto della realtà viva e piena di colori, quindi se possibile più atroce del colore nero. Se la depressione imprigiona il malato in un abisso infernale dove prevale il nero delle sensazioni, il bianco è la negazione assoluta di qualsiasi percezione della realtà e dunque anche del possibile male che pur nella sua atrocità è “vitale”. Il bianco è per Ottieri il nulla divenuto materia astratta, un prosciugamento effettivo dei sensi che non possono più toccare la realtà: si attesta, in questo modo, il distacco non rimarginabile tra il malato e il mondo circostante. Il bianco si caratterizza non per una fusione ma per negazioni e non retrocede al principio delle cose ma le scavalca verso la morte. Disseccamento, disidratazione, aridità, smarrimento sono le connotazioni principali del bianco, che sta lì a estirpare qualsiasi barlume di vitalità. Vede il bianco, la sua irrealtà è sicuramente bianca; vede recidivamente la luce abbagliante, il nitido liscio della materia. […] L’angoscia si dissecca e nell’aria arida che lascia si forma la membrana della irrealtà, bianchissima, disidratata, paurosa in ogni affetto. […] Perché non do tutto il bianco, tutto bianco? Perché non posso atteggiarmi interamente al bianco, essere bianco. Perché non posso atteggiarmi interamente al bianco? Perché per uno scrittore il bianco è il male. E dal male si rifugge non problematicamente, si cerca di dominarlo, e giudicarlo, conglobarlo dall’alto di un rapporto gerarchico. Così il bianco è incorniciato, sottomesso dal nero. (IQ, pp. 42, 68, 255) È l’umano che si smarrisce nella cameretta abbagliata dal sole con l’ansia mia bianca e il via-vai ininterrotto dell’agitato. […] La monotonia della mattina si alza davanti a me come un altissimo muro bianco, compatto, sempre uguale, percorso da fessure che sono sempre le stesse e che conosco a memoria. (CC, pp. 56, 96) 106 Il colore grigio, invece, caratterizzerà la domenica crepuscolare di Ottieri: «È una domenica grigia, triste oltre la morte. La realtà in cui sono immerso mi ripugna. È una domenica grigissima, di pioggia» (CC, p. 21), annullando la luce del giorno per avvicinarsi alla morte. Anche in un passo del Pensiero perverso il temporale inevitabilmente è grigio e l’atmosfera si discioglie senz’altri colori: «Nella paura il temporale è grigio, / non sprizza un litigio, / si passeggia in tondo nel cortile / servile, si deambula nell’oceanico / senso del mondo. […] È marcio. Ha compiuto / la vita. Dolore grigiastro senza colore, / abitudine, stremata sofferenza / divenuta cieca per i troppi bagliori» (PP, pp. 22, 87). Tra tante oscurità, emergono anche tinte più chiare e delicate quali l’azzurro e il verde: «E ciò lo smunge, ottunde / a ilari pensieri campestri / di viaggio, a sguardi d’orizzonti, / a contemplazione di monti / azzurrini, soste in verzura» (PP, p. 17). La contemplazione di monti lontani, con un labile richiamo al manzoniano Addio ai monti, si lega al motivo del viaggio, fatto sorprendente per chi è suo malgrado inchiodato a letto, e al ristoro in un insieme di piante verdi, la «verzura», termine arcaico che rimanda all’inclinazione umanistico-rinascimentale per le descrizioni di boschetti e fiumi ristoratori come «il mover de le frondi e di verzure» di Ariosto. I pensieri campestri puntellano questo quadretto quasi idilliaco, un unicum stridente nelle poesie di Ottieri, accresciuto dall’aggettivo «ilare», giulivo buonumore, davvero di un altro pianeta rapportato all’universo di sofferenza vissuto nella clinica. Eppure tutto ciò rientra in un gioco poetico ben strutturato se si considerano con attenzione i due versi iniziali che indicano rispettivamente svuotamento (smungere) e privazione (ottundere) e il seguito della poesia chiarirà quest’inclinazione: «Preme la pera / nel cranio occupato come un cesso. / Peccato, andava questa volta / lunghesso un fiume virgiliano, / un mare mitico. Nulla / della natura o dell’arte / gl’importa. La pera solo» (PP, p. 17). Le illusioni bucoliche, con un vago richiamo virgiliano, di pastori, campi lussureggianti, fiumiciattoli sinuosi, nature incontaminate, si scontrano con l’immagine deforme e grottesca del pensiero perverso che occupa il cervello trasformandolo in una volgare toilette. Crollano a questo punto le speranze di un rinsavimento delegato all’arte, poiché il valore assoluto della depressione non consente fughe in nessun luogo. Il riferimento a Virgilio è solo uno dei numerosi rimandi letterari presenti nel Pensiero perverso. Oltre agli auto-riferimenti che Ottieri fa delle proprie opere, c’è Leopardi: «Pigro? Ma egli salta / su come un augelletto / al primo lucore dell’aurora se il risveglio / non è lavoro mortale. / Se il risveglio è gioia. / Ma mortale è il rebus» (PP, p. 20). «Lucore» è termine letterario che connota un’attenuazione della luce dell’alba, mentre l’«augelletto», diminutivo arcaico di augello dal provenzale auzel, rinvia all’«odo augelli far festa» di Leopardi, e inoltre ci sono evidenti contaminazioni di pessimismo cosmico, come il risveglio mortale, in un confronto serrato con 107 alcuni versi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: «È la vita mortale. / Nasce l’uomo a fatica, / ed è rischio di morte il nascimento. / Prova pena e tormento / per prima cosa. […] Forse in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale»31. Il Canto notturno genuinamente poetico del pastore errante sviluppa una solenne meditazione sui grandi temi leopardiani quali il senso oscuro dell’esistere, l’estraneità remota e incomprensibile della natura, l’ontologica necessità della sofferenza, il dolore cosmico e il senso tragico d’esser vivi. Ottieri s’inserisce nella riflessione sul dolore primogenito della tormentata coscienza dell’uomo che inizia dalla nascita per terminare con la morte, concretizzando tuttavia il pessimismo in una malattia, la depressione. Dolore certamente cosmico ma che ha un nome e una diagnosi rapportandosi esclusivamente agli uomini con l’affrancamento degli animali, esclusi dalle considerazioni di Ottieri ma controparte fondamentale nel canto del pastore. In altri versi del Pensiero perverso affiorerà anche il riferimento a un altro elemento essenziale della poetica leopardiana: il rimpianto della giovinezza, periodo in cui era possibile gioire della felicità, mai davvero vissuta, rappresentato nelle drammatiche vicende di Silvia nel canto omonimo e di Nerina nelle Ricordanze. Simili percezioni sono provate dal malato imbalsamato nell’eterna e ossessiva coazione a ripetere in una sorta di reiterazione senza pausa di azioni e pensieri immodificabili, in cui s’inserisce l’immagine della primavera, la giovinezza, che non è concessa al malato condannato all’ergastolo nella clinica: «Dimenticata per la coazione / che abbellisce l’azione di sinistra spinta, / la tinta del dosaggio, l’assaggio, il maggio / del paziente che non venne» (PP, p. 27). «Di quel vago avvenir che in mente avevi. / Era il maggio odoroso: e tu solevi / così menare il giorno. […] Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, / da chiuso morbo combattuta e vinta, / perivi, o tenerella. E non vedevi / il fior degli anni tuoi»32. «Se torna maggio, e ramoscelli e suoni / van gli amanti recando alle fanciulle, / dico: Nerina mia, per te non torna / primavera giammai, non torna amore»33. Silvia e Nerina personificano il motivo della morte precoce, delle speranze perdute, della giovinezza spezzata dal Male su cui fa perno il sentimento del tempo passato in perfetta simbiosi per Ottieri con la condizione del depresso, non ancora morto ma nemmeno in vita. Esperienze esistenziali che collimano nella visione di un futuro chiuso, impermeabile, in cui la forza evocativa è delineata dal dolore per la felicità mai raggiungibile. Anche D’Annunzio della Sera fiesolana è richiamato nei versi di Ottieri: «Ha dinanzi l’insano / vagolar del pomeriggio, / e la sera non fiesolana, / la sera che sbrana» (PP, p. 21). «Fresche le mie parole ne la sera / ti sien come il fruscio che fan le foglie / del gelso ne la man di 31 LEOPARDI Giacomo, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1829), in Poesie e prose vol. I, Meridiani Mondadori, Milano 1988, pp. 84-88. 32 LEOPARDI Giacomo, A Silvia (1828), in Poesie e prose vol. I, cit., pp. 77-78. 33 LEOPARDI Giacomo, Le ricordanze (1829), in Poesie e prose vol. I, cit., pp. 79-83. 108 chi le coglie / silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta / su l’alta scala che s’annera / contro il fusto che s’inargenta / con le sue rame spoglie / mentre la Luna è prossima alle soglie»34. Ottieri rovescia l’atmosfera placida e simbolica della poesia di D’Annunzio in cui viene decritto, in tre quadri diversi, l’approssimarsi della sera con la fine del pomeriggio, il tramonto, l’inizio della notte. Il richiamo c’è ma per negazione: non parole fresche né la delicatezza del gelso né il fusto che splende né il silenzio, ma uno squilibrato errare del pomeriggio verso una sera che annienta. Ottieri sceglie un modello poetico per rendere più trasparente il contrasto col proprio modo di versicolare e il D’Annunzio delle Laudi fa al caso suo. I toni della poesia dannunziana, tra pioggia musicale e divine creature alate, stazionano per contrasto ben lontano dalle atmosfere lugubri delle cliniche. In un passo del Pensiero Perverso vi è anche un riferimento a Boccaccio attraverso l’immagine della «lieta brigata» di giovanetti che, per sfuggire al contagio della peste del 1348, si rifugiarono in una villa di campagna come è ricordato nell’incipit del Decamerone: «Lo shock, la medicina, la fonda psico- / analisi, il movimento, / la quiete, l’ozio, solitudine e liete / brigate, letteratura e vita» (PP, p. 26). Ottieri fa collimare il senso della letteratura, come unica ancora di salvezza dalla desolata atmosfera cittadina all’interno della clinica, con le poesie che aggrappano il poeta alla realtà ma senza riuscirci pienamente. Novelle per salvarsi dalla peste, e poesie per sopravvivere alla depressione; ma nella villa i giovani trascorsero il tempo tra banchetti, canti, danze e piacevoli racconti, mentre nella clinica è la sofferenza che caratterizza il periodo di degenza e le poesie descrivono questa condizione disperata. L’immagine del letto, feticcio della malattia accostato a una tomba, richiama direttamente l’apertura dei Sepolcri di Foscolo: «Una volta uscito dall’urna / senza cipressi e pianto, / urna del letto dove giace vivo / schivo non schivo» (PP, p. 72). «All’ombra dei cipressi e dentro l’urne / confortate di pianto è forse il sonno / della morte men duro?»35. La tomba-letto del depresso non può lasciare alcuna memoria ai posteri in primo luogo perché non è ancora morto, anche se a volte sembra esserlo, e inoltre perché non ha alcun valore da trasmettere. Il suo monumento è assolutamente inutile, scoperchiato come quello di un eretico cui si negano i cipressi e le lacrime, dove l’ossimoro «giace vivo» connota un’esistenza immobile e miserevole. Da qui il contrasto con l’idea foscoliana di sepolcro simbolo di affetti domestici che stabilisce tra vivi e defunti quella «corrispondenza d’amorosi sensi» del tutto negata ai malati di Ottieri, non per mancanza di premure dei familiari ma a causa dello stato di malessere cosmico che non consente loro neppure un minimo sollievo. L’«urna senza cipressi» di Ottieri indica un sepolcro eretto fuori dei cimiteri e nel poema foscolinano quest’immagine rinvia all’affronto subito da Parini: «A lui non ombra pose / tra le sue mura la città, lasciva / d’evirati cantori allettatrice, / non pietra, non parola» (vv. 72-75). Non 34 35 D’ANNUNZIO Gabriele, La sera fiesolana (1899), in Alcyone, in Poesie, Garzanti, FOSCOLO Niccolò Ugo, Dei Sepolcri (1807), Mondadori, Milano 1987, p. 145. 109 Milano 1984, p. 347. casuale l’avvicinamento a Parini, anch’egli poeta emarginato da una società dissoluta e impudica, di cui Milano città dal «cielo finto» (ISP, p. 31) ne era l’emblema, che non riconosce il valore educativo della poesia preferendogli poetucoli senza nerbo. Un ultimo riferimento riguarda il Manzoni del Cinque maggio nell’epigrafe lapidaria piena di contrasto tra l’ei, pronome che indica per antonomasia Napoleone e il depresso in Ottieri, e il fu che ne determina la scomparsa o l’immobilità: «Ei giaceva, più che ricco di singulti, / con abbondanza di cerebrali / spasimi e flutti. […] Ei giacque a lungo» (PP, pp. 85-86). «Ei fu. Siccome immobile, / dato il mortal sospiro, / stette la spoglia immemore / orba di tanto spiro»36. La condizione del morto undead, tipica del depresso grave, è immaginata da Ottieri nello stare immobile sul letto affossato da una rilevante quantità di malesseri: «ricco», «abbondanza» e «a lungo» sottolineano lo stato d’animo sul quale pianti convulsi e dolori acuti confluiscono indisturbati. L’«immemore» manzoniano, nel confronto, rappresenta una situazione più vivibile: la fissità della morte dissolve il malessere di sentirsi disintegrato e ancora in vita, che altrimenti sarebbe infinito. II.4 Il campo di concentrazione Ottieri ha sempre rifiutato la simbiosi tra letteratura e malattia e a chi gli poneva delle domande in merito rispondeva ironicamente che era «roba da americani»; eppure la sua poetica ruota attorno ai rapporti tra la malattia mentale e lo scrivere che incessantemente conserva l’impronta dei frequenti stati psichici alterati. Si potrebbe definire quella di Ottieri una letteratura malata, anche se è necessario riflettere sull’avversità dello scrittore, sempre attento a non restare inchiodato nelle etichette letterarie, a questa definizione. La malattia è una delle tematiche prevalenti nel percorso letterario di Ottieri e nel Campo di concentrazione diventa essa stessa personaggio, con la quale è possibile esplorare i meandri della sofferenza umana, del Male congenito nell’uomo e dei turbamenti della psiche. Ottieri finisce a volte per annullarsi nella malattia che prende possesso di tutta la realtà, filtrandola nella sua mente, con la conseguente creazione di un altro mondo con le proprie regole, leggi, divieti, affetti e sentimenti paralleli al mondo normale. 36 MANZONI Alessandro, Il cinque maggio (1848), in Tutte le opere, Giunti Barbera, Firenze 1967, p. 20. 110 La depressione e l’ansietà mi impediscono di produrre. Non sarò mai più un grande. […] Quale sorte avranno le mie poesie qui sul comodino? Non oso nemmeno chiedermelo. Potrò un giorno finire di correggerle o sono già superate? Mi stupisce curiosamente tornare a scrivere: come un bambino fa gli esercizi per il maestro. […] L’analista vuole che torni uno scrittore. Una parte di me non lo vuole. Ho paura, a essere integro. Anche adesso scrivo con paura, sempre pensando di cessare da un momento all’altro. (CC, pp. 11, 13, 14) Nel Campo di concentrazione Ottieri racconta l’esperienza vissuta durante il ricovero alla Klinik am Zürichberg di Zurigo37. La malattia mentale sofferta dallo scrittore per lunghi periodi della sua vita è la depressione, «il cancro dell’anima», spesso «sottodiagnosticata», «sottotrattata», «mal-trattata» nel corso dei secoli, «un vero e proprio scandalo della medicina»38. La depressione clinica è uno stato duraturo dell’umore che influenza il sonno, le abitudini alimentari e impedisce a chi ne soffre di provare piacere e di vivere un’esistenza serena. Dalle persone depresse emergono delle espressioni metaforiche nel descrivere la propria condizione, paragonandola a uno stato di oscurità e di appesantimento. I malati gravi hanno in genere un’immagine di loro stessi molto negativa fino all’orrore, una pulsione sessuale bassa, possono soffrire d’insonnia o avere un accresciuto bisogno di dormire, sfuggono i contatti sociali e pensano fortemente al suicidio. Il depresso è totalmente assorto nella propria sofferenza che il suo cervello spesso prova un’intolleranza per tutto ciò che è vitale, dinamico, rumoroso e luminoso. Passate tre settimane in clinica (durante le quali è stato inconcepibile scrivere). Ricordarsi di dire che la sera, stando meglio, ho gli stessi problemi di scelta che a casa. Raccontarli all’analista. […] Una via l’altra. La ridda delle donne vagheggiate. Ritorno come prima. Le poesie rinvengono di moda dopo la paura enorme, il rivolgimento del cielo e della terra (nelle prime tre settimane) e la disperazione nera. Non vi è altro aggettivo alla disperazione che: nera. Come usavo, non mi muovo piuttosto che scegliere. (CC, p. 9) Già nell’apertura, Ottieri rileva i motivi essenziali che strutturano il suo romanzo quali il tempo (le iniziali tre settimane), il luogo (la clinica-prigione), la scrittura (il comporre poesie), la psicanalisi (l’analista e i problemi di scelta già alla base dell’Irrealtà quotidiana), l’amore (la «ridda delle donne vagheggiate») e soprattutto la depressione («disperazione nera»). Partendo proprio da quest’ultima, la protagonista del romanzo, Ottieri dissemina sulla pagina le impressioni avute durante il ricovero: Il tempo si rischiara, la grande depressione si solleva lentamente a decimi di millimetro. Si sta attaccati alle più scarne origini, dormire, mangiare, lavarsi, vestirsi. Si sta a un centimetro dal suicidio. Sospiro cercando aria come un sommergibile affondato che finisce le sue riserve. È mezzogiorno, è il pranzo 37 Si tratta della Klinik am Zürichberg, clinica privata di psichiatria e psicoterapia di Zurigo che si trova alla Dolderstrasse numero 107, all’incrocio tra l’Aurorastrasse e Pilatusstrasse. 38 Le espressioni citate appartengono al Dottor Giovanni Battista Cassano, professore ordinario di psichiatria e direttore del Dipartimento di Psichiatria, Neurologia, Farmacologia e Biologia dell’Università di Pisa, e sono state estrapolate dal libro E liberaci dal male oscuro. 111 buio senza appetito, cui l’anima non partecipa, fugge altrove. […] Mi sento strano sconvolto irreale. […] Il mondo mi ruota intorno alla testa. […] Ho terrore. Tramortito, allucinato, rivoltato come una fodera. Mi rifugio nel letto. (CC, pp. 24-25) I sintomi descritti mostrano alcune sensazioni tipiche di uno stato depressivo: ad esempio, la malattia opprime non solo la mente ma anche il corpo del malato con un forte senso di pesantezza che spesso lo immobilizza a letto. Le azioni si riducono ai minimi termini, basilari, come se agisse un primitivo uomo moderno che lotta per la sopravvivenza quotidiana. Fuori della caverna però non ci sono animali feroci da cui difendersi ma le proprie angosce, le bestie del diavolo, che spingono il depresso grave sull’orlo dell’abisso alla ricerca del suicidio. Il climax «strano – sconvolto – irreale», cui segue il trittico «tramortito – allucinato – rivoltato», offre un’immagine eloquente dello stato depressivo del malato: i contatti con la realtà diventano labili, inconsistenti, mentre si abbandona progressivamente il mondo reale per immergersi, con sommessa e soffusa atrocità, in un’altra esistenza che ha i suoi ritmi, regole e prerogative, e dove l’uomo cessa di essere tale per diventare qualcos’altro disumanizzandosi giorno dopo giorno: «Vista dal di dentro, superata la paura, la malattia mentale è disumana» (CC, p. 71). L’altro, il diverso, l’alieno sono termini che si riferiscono ai malati gravi che hanno perso i contatti con la realtà esterna, e inoltre delineano quella zona irreale, l’altrove, quel nuovo mondo che la depressione costruisce all’interno della mente, del cuore, dell’animo del malato: «La malattia, superata o tamponata è diventata una vita. […] La depressione è tutto il dolore possibile riunitosi in una pianura unica dove non sorgono alberi. Stasera non mi sento depresso per la clinica ma per la vita. Questo non è un episodio dell’esistenza, ma questa è l’esistenza» (CC, pp. 53, 216). Questa nuova esistenza sembra nascere per partenogenesi dalla prima vita e si caratterizza per alcuni elementi imprescindibili: il dolore, la sofferenza, il colore nero, la pesantezza fisica e mentale, la spossatezza, la solitudine, l’orrore del proprio corpo e della vita quotidiana, la sensazione di sentirsi irreale, vuoto, sminuzzato, smembrato. Ma dove sorgono questi stati di malessere infinito e come si sviluppano all’interno del corpo o nella mente del depresso? Ambiente e genetica, cultura e natura: sono innumerevoli i fattori che concorrono a costituire un individuo e una contrapposizione netta tra questi termini sarà impropria nell’analizzare qualsiasi malattia mentale, anche dal punto di vista letterario. Più si va approfondendo lo studio sul piano neurobiologico, maggiore appare l’importanza delle caratteristiche funzionali delle strutture nervose: il cervello umano è un organo complesso e difficile da esplorare, può avere deficit funzionali dalla nascita, subire traumi o lesioni nelle fasi precoci dello sviluppo, presentare un processo involutivo di deterioramento senile, essere danneggiato da sostanze tossiche cui viene esposto come alcool, fumo, gas inquinanti etc. Ma soprattutto può mostrare disfunzioni interpretate come stranezze o bizzarrie o tratti caratteriali che, seppur lievi e modeste, sono in grado di influenzare le scelte di ciascun individuo: la malattia 112 mentale rappresenta in questo senso la più seria minaccia per la libertà dell’uomo. Fin dal primo romanzo il concetto di libertà è chiamato in causa durante l’occupazione nazi-fascista dell’Italia su uno sfondo politico e sociale in cui l’adolescente scrittore, che nelle Memorie veste i panni di Lorenzo Bandini, vive sotto il segno dell’incoscienza psicologica i traumatici eventi della storia tra un amore non corrisposto e una colpevole ignoranza della realtà. In seguito, nella Tetralogia industriale, la libertà è cercata all’interno delle fabbriche dove i Padroni, ricchi industriali e imprenditori che detengono le chiavi dello sviluppo economico italiano durante il famigerato boom, sottomettono gli operai condannati a partecipare al miracolo del paese. Come Dante che «libertà va cercando», anche Ottieri nel suo personale esilio mentale cerca la libertà nei meandri della malattia ossessiva e all’interno dei meccanismi corrotti di una società in perpetuo declino, oppure «nell’alcool e nel far tardi la sera» (CC, p. 13) del periodo mondano, ma senza mai trovarla concretamente. «Immane, inutile, inesistente libertà. Libera schiavitù. Schiava libertà. Prigionieri della clinica e di se stessi. Quando uscirò da questa bilancia?» (CC, p. 109). Sentirsi prigioniero è uno degli aspetti caratteristici dello stato depressivo, e nel tentativo di fuggire da questo carcere o lager la scrittura aiuta il paziente Ottieri a trovare la libertà dalla malattia e da quella parte della propria persona che lo opprime, con l’obiettivo di recuperare l’indipendenza perduta. Ottieri, nel descrivere la propria malattia nel Campo di concentrazione, utilizza con frequenza metafore atmosferiche che associano la depressione a dense nuvole nero-grigie trasportate da venti (i pensieri neri) che di mattina (il risveglio della coscienza) si addensano nel cielo (il cervello del malato), in procinto di scatenare forti temporali (contrassegni della disperazione) che si abbattono sulla terra (il petto tramortito, schiacciato). Le descrizioni coincidono per gli elementi ricorrenti: il cielo, completamente ricoperto da nuvole nere, combacia con la mente del malato che, dopo aver ripreso coscienza al momento del risveglio, si sente oppresso dai foschi pensieri della depressione. La giornata inizia allora sotto l’insegna del colore nero senza alcuna ipotesi di luce e con il sole quale labile ricordo, mentre l’oscurità si distende per tutto l’orizzonte: questa cappa umidiccia, melmosa, opprimente scende poco alla volta e inesorabilmente sulla terra, ovvero il petto dello scrittore oppresso da un masso pesantissimo, avvertito anche come una pietra, una roccia, un mattone, che non gli permette alcun movimento: «La sofferenza del primo mese è stata la depressione, unita alla clausura, all’estraneità, alla mancanza d’alcool. Non so bene come spiegarla. È una roccia senza spacchi. È un masso» (CC, p. 34). È difficile se non impossibile, dunque, alzarsi dal letto e iniziare la giornata caratterizzata dal male fisico e psichico che avvolge la realtà, il corpo malato. Il depresso percepisce nel proprio petto il luogo per eccellenza dove la depressione molla gli ormeggi e affonda al suo interno, smembrando ogni forma di quiete come qualsiasi barlume di disperata felicità: 113 La depressione non è in fondo che l’abbassamento del livello del petto, una sua rientranza. Il dolore depressivo è metafisico, ma anche strettamente domestico. Si può sovente raggiungere un’acme depressiva nella stanza da bagno. L’abbassamento del petto si accompagna a un concatenamento di circoli viziosi del pensiero. La depressione può essere indefinitamente definita. È orgogliosa e umile. Si fa vittoriosa e vuole essere vinta. (CC, p. 170) Al senso di oppressione segue, inevitabile, quello della caduta in basso nell’abisso scavato dalla disperazione senza possibilità di aggrapparsi a qualche appiglio per salvarsi. In quei momenti, che a parte rare eccezioni sono la regola di vita, non trovano diritto di cittadinanza né le illusioni, né le speranze di un risanamento. Si vive, o meglio si muore alla giornata con l’ipotesi del suicidio quale unica uscita di sicurezza consolatoria e salvifica: «La depressione rode piano piano le radici della vita, le toglie il perché. La depressione è logica: la catena dei pensieri che si conclude con la mancanza di una motivazione alla vita è il tipo razionale. Il suicidio è la conclusione logica della depressione» (CC, p. 169). Qui si propaga il dolore fisico e autentico del malato che non riesce a compiere alcun tipo di movimento, sentendo in sé questo peso intollerabile come una zavorra impossibile da allontanare, con la conseguenza che le azioni si rallentano mentre il respirare diventa un’attività mostruosa. Le ore che seguono il risveglio aumentano il senso di malessere, gonfiando a dismisura il «pallone» della disperazione che, già verso mezzogiorno, è in procinto di scoppiare dilaniando il corpo del depresso. La sera stessa, l’indomani mattina il cielo s’offusca, un mattone si schiaccia nel petto, il circuito dei pensieri è grigio-nero. E sempre in agguato sta la disperazione: quando si abbandona la giostra dei pensieri e tutti i pensieri precipitano in una direzione esatta, monovalente. La disperazione è la caduta diritta e unica di tutto. È una discesa ripidissima e rettilinea verso cui si concentrano i neri pensieri dapprima turbinanti, abbandonando, in un certo senso, il turbinio. […] Lentamente le inevitabili nuvole della depressione hanno cominciato a oscurare, a imbrogliare il mio cielo – il petto e la mente – come fosse impossibile che rimanga limpido, insidiato da un vento misterioso e inesorabile che soffia ogni mattina. […] Ieri mattina ho scritto poco e male, dopo un buon risveglio; verso le dieci si addensa sul cielo precariamente sereno la nuvolaglia ansioso-depressiva. […] Man mano che il giorno sale l’angoscia rischia di gonfiarsi, e occupare il cielo, come un palloncino che nella primissima mattina sia stato gonfio, un concetto di gomma. Diviene poi un grosso pallone variegato e teso, turgido, ripieno di un gas ammorbante che scuote e aizza le serpi del cervello. […] Dopo una rara e nuova felicità mattutina mi si comincia a lievitare sul petto una lieve depressione, senza motivo, come un cielo troppo terso che non regga la propria limpidezza e si offuschi di se stessa. […] Mi sono svegliato sereno, quasi felice, per il ricordo della sera precedente. Quindi un velo di nuvolaglia ha ricoperto il blu del petto. Ho avuto, forse per la prima volta nella mia vita, il senso di una depressione senza causa, anzi con causa euforizzante, una depressione endogena. […] La depressione è un oscuramento di tutto il cielo, che va dai bottoni dei pantaloni all’orizzonte, passando per il pasto imminente, per il pomeriggio, per la serata, per l’indomani. La depressione ha cadenze e nello stesso tempo è priva di storia. Ha la sua cronaca è vissuta come eterna. Dilata lo spazio e il tempo. Dà la paura di vivere, strettamente apparentata con la morte. Tiene l’esistenza in bilico, mettendola continuamente in causa, togliendole valore. […] Stamattina lievi nuvole appannano il mio petto svegliatosi sereno. È difficile far durare la serenità. Andrebbe fissata con una colla. […] Intenderei guardare dall’alto il continuo temporale che è la mia vita. Temporale che non può placarsi presto. È alto (profondo): occorre dominarlo da più alto 114 ancora. […] Dopo un buon risveglio mattutino, le nuvole sono tornate nel cielo sereno spinte dall’inevitabile vento. (CC, pp. 60, 94, 151, 153, 177, 178, 180, 183, 225, 241) Le immagini che Ottieri delinea nel romanzo rinviano alla visione di un’eclisse quotidiana: il cielo fin dalla mattina è scuro, pieno di nuvole nere, in cui predomina il senso notturno della vita o quel che ne resta. Non c’è mai il sole ma non si scorge neppure la luna che in letteratura interviene a lenire le sofferenze dei poeti, poiché la realtà descritta da Ottieri è altra, differente da quella conosciuta e lontana dalle percezioni normali. È il deserto dell’esistenza, il vuoto che diventa cosmico, il nulla estraniante, un assorbimento, un prosciugamento dell’essere dilaniato dalla depressione che come «un reattore succhia all’indietro tutte le forze, le assorbe nel processo pensatorio infinito» (CC, p. 36). Nelle opere di Ottieri il tempo è un motivo ricorrente che modifica le sue caratteristiche in relazione ai diversi luoghi in cui si presenta: è stretto nella fabbrica, libero nei salotti dei Divini mondani, inesistente nelle cliniche dove ossessiona i pazienti con l’interminabile scansione di malessere sofferta ogni attimo. Il tempo all’interno del manicomio è un distillatore di sofferenza che scandisce il Male a singole gocce tra il risveglio, la barba, il vestirsi, la colazione, il the, il pranzo etc. Attività quasi impossibili per il paziente depresso che vorrebbe evadere dalla prigione per avventurarsi in città dove il tempo esiste concretamente. Il concetto di tempo malato e sofferente si ripresenta in tutte le esperienze biografico-letterarie che Ottieri ambienta nelle cliniche cui si lega l’ossessiva domanda senza risposta: per quanto tempo si resterà rinchiusi lì dentro? Per quanto tempo sarà così? Per mesi? Anni? Ho terrore. […] La domanda quando guarirò è considerata la più bambinesca e ritenuta simbolo di malattia grave. Il tempo, il tempo dovrebbe essere, insieme all’analisi, il grande curatore. Il tempo non esiste più e siamo ossessionati dal tempo. Che cosa ho davanti oggi alle 15 meno dieci? Il the delle 15 e un quarto, lo spazio massiccio dalla fine del the alla cena delle 18. (CC, pp. 25, 45) La depressione è definita in modo inquietante “malattia del tempo” poiché la dimensione temporale vi è compromessa e sparisce il senso del futuro. Si arresta infatti nell’esperienza di molti depressi il divenire temporale, bloccandosi la cognizione soggettiva del tempo che passa con la conseguente perdita della capacità di proiettarsi verso il futuro. Il tempo che non cura la malattia ma anzi la dilata per tutto il ricovero ha una doppia valenza all’interno della clinica poiché è inesistente e nello stesso tempo massiccio: esiste nel concreto ma sfugge, opprime lo scrittore ma non si lascia afferrare. A questo tempo infinito, inesistente e perduto, Ottieri tenta fin dai primi giorni d’internamento di opporre resistenza afferrandolo con le date, i giorni, i mesi e persino i minuti, senza tuttavia raggiungere l’obiettivo. È normale, del resto, che lo scrittore tenti di agguantare il tempo immobilizzandolo nelle date, «ho fame di date. Ma non si fissano date. Questa fame è forse 115 un segno della malattia» (CC, p. 216), perché Il campo di concentrazione è un diario, come afferma lo stesso Ottieri: «Sono destinato a passare il ferragosto da solo, accompagnato da questo diario, che certe volte mi nausea, senza nuove amicizie» (CC, p. 136). Per quanto riguarda il motivo del dolore esistenziale espresso e strutturato nella forma diaristica, Ottieri avvertiva molte convergenze nei confronti di Pavese riscontrabili nel Diario (1935-1950) conosciuto anche come Mestiere di vivere39 che, iniziato il 6 ottobre ’35 e chiuso il 18 agosto ’50 pochi giorni prima del suicidio del 27 agosto, sarà analizzato da Ottieri soprattutto in Contessa. Pavese scrive con ostinata tensione analitica nella tormentosa indagine di se stesso e dei rapporti con gli altri, avvertendo il sentimento di essere altrove che non gli permise di realizzare il suo impegno intellettuale come avrebbe desiderato. Per Ottieri l’immagine di Pavese, non solo scrittore, è stata molto significativa per il suo essere tragicamente in una realtà percepita come estranea e con la quale non riuscì mai a conciliarsi. La vita di Pavese che filtra dalle sue opere si dissolve in una continua analisi introspettiva e nei rapporti con gli altri attraverso il Male angoscioso, nel costante e drammatico scavo interiore fino al suicidio. Ottieri lo ricorda in diverse opere, dalla Linea gotica all’Irrealtà quotidiana al Campo di concentrazione a Contessa, quando il Diario di Pavese appare come modello di vita infelice. «Letto il Diario di Pavese. Chi soffre come Pavese, cioè in modo nevrotico, non desidera che il piacere, e subito» (LG, p. 102). «Il male è il tempo malato, una malattia del tempo. Come nel Diario di Pavese, il tempo, insidioso, si rivolta contro l’uomo: mi diventa il nemico peggiore e chiaramente l’essenza del dolore è il tempo ammalato» (IQ, p. 107). «Ho raccontato loro delle idee suicide di Caterina e del Diario di Pavese» (CC, p. 186). «Elena confessò di non ricordare nel Diario di Pavese il minimo accenno a un desiderio di terapia» (CON, p. 50). Il mestiere di vivere, che rappresenta un’esistenza solitaria e tormentata da un senso di vuoto e d’isolamento, è un’esperienza che Ottieri sentirà molto vicina. Come anche la consapevolezza della negatività che pesa incessantemente sull’uomo, l’orrore della sopravvivenza, la lacerazione interiore, il bisogno di socialità, la vana ricerca di una memoria felice, l’attenzione alla problematica sociale e psicologica. La forma diaristica in Ottieri è predominante soprattutto all’inizio della sua produzione; egli ripete spesso di aver in testa una storia ma anche di non riuscire a esprimerla in modo sinfonico, riassorbendo il contenuto in una forma più schematica, elementare del diario: «Avevo molte idee originali e esperienze, ma non avevo la trama, la trama! Fobia della mia giovinezza. (Finivo sempre per scrivere un diario)» (CERY, p. 45). Di colpo durante il the delle 15 e un quarto mi sento meglio. Sto discretamente dalle 15 e trequarti a adesso, ore 19. […] Sono le 19 e 30 del 27 giugno 1970 e scrivo sul mio letto. […] Che farò oggi? Prima o 39 PAVESE Cesare, Il mestiere di vivere. Diario (1935-1950) (1952), Einaudi, Torino 2008. 116 poi dovrò alzarmi. Sono le 9 e 30. […] È freddo, i termosifoni sono accesi il 17 luglio, piove. […] Pur di lasciar la clinica sono disposto a tutto. Almeno adesso, ore 13 e 30 del 21 luglio 1970. […] Sono le 14 e 20. Alle 14 e 30 c’è il cambio delle infermiere. […] Ora l’angoscia dura, un po’ attenuata. Sono le 14 e dieci. […] Sono le 17 e dieci. Cosa aspetto? La cena. […] È l’una e quaranta di sabato 29 agosto. […] È oggi il 6 di settembre. Sono ancora malato dopo tre mesi esatti di clinica. […] È il 4 di marzo. […] Oggi è l’8 marzo. […] Ancora analisi del 9 marzo. […] Sabato 13 marzo, deserto, primavera. […] 21 marzo: adesso non sono più capace d’andare via. […] 28 marzo. La paura, la paura. Mi sento irreale e cangiante come un sogno. Secondo l’analista la mia sensazione d’irrealtà dipende dalla mancanza di relazione. Non so decidermi d’andare a casa. (CC, pp. 12, 14, 19, 44, 71, 89, 92, 196, 201, 202, 221, 234, 261, 265, 266) Con l’ausilio delle date ricavate dalle pagine del romanzo-diario, è possibile delineare con precisione l’arco cronologico di degenza vissuto all’interno della clinica di Zurigo dallo scrittorepaziente Ottieri: la prima data è quella del 27 giugno ’70 mentre l’ultima è del 28 marzo dell’anno successivo. Sono dunque dieci i mesi raccontati nel diario ma soltanto cinque quelli nominati: giugno, luglio, agosto, settembre del ’70 e marzo del ’71. Dunque la stagione autunnale, come quella invernale, viene con accortezza eliminata, così che dalla fine di agosto si passa direttamente alla primavera successiva. Se si accetta il principio di Ottieri secondo cui si può scrivere solo nei momenti di minore depressione, allora il periodo del ricovero che va dal settembre ’70 al febbraio ’71 è stato il più difficile e non ne rimane alcuna traccia. A tal proposito giova ricordare che è notevole l’influsso esercitato dalle stagioni sull’andamento umorale del malato; una forma molto diffusa riguarda l’episodio depressivo ad andamento stagionale scatenato solitamente dalle due stagioni di passaggio, la primavera e l’autunno. Per quanto concerne la stagionalità del malessere che aumenta e diminuisce, la spiegazione viene da molto lontano e vede l’uomo inserito in pieno nella natura e nei suoi cicli: il mutamento sconvolgente, che in primavera investe la natura e tutti gli esseri viventi, tocca anche l’uomo. Infatti per gli uomini come per gli animali il risveglio è provocato e sostenuto da una tempesta di eventi neurobiologici che interessano aree differenti del cervello, oltre al fatto che in primavera entra in circolo una quantità straordinaria di neurotrasmettitori, di sostanze eccitanti che hanno un effetto droga, come delle stimolazioni intense che squilibrano lo stato precedente. Chi è predisposto alla depressione non regge l’urto, non supera questo squilibrio improvviso e dopo ogni euforia-eccitamento si fa avanti una nuova depressione come malattia dei ritmi biologici. La depressione stagionale sembra rappresentare un residuo ancestrale di ritmi stagionali che hanno avuto un importante significato per la sopravvivenza della specie. Nel mondo contemporaneo, tuttavia, tali ritmi persistono in un ambiente dove siffatte risposte alle variazioni stagionali non sono più richieste: la società moderna, infatti, esige livelli stabili di funzionamento, senza intermittenze, nell’arco dei dodici mesi. Il tempo fisico e massiccio è rappresentato all’interno della clinica dalle lancette dell’orologio che sembrano muoversi a fatica, come fossero di pietra, impigliate nella sofferenza del luogo, plasmando un tempo eterno (siccome immobile) e perciò inesistente, inafferrabile. Il 117 momento peggiore si rende concreto al risveglio mattutino quando il depresso vede la giornata dinanzi a sé come un lago immobile, insuperabile, una melmosa palude che lo riempie d’angoscia. Appare un’impresa impossibile arrivare alla sera, si prova una solitudine eterna e orrore per tutto ciò che sta intorno: «Sfioro di nuovo la disperazione. L’ambivalenza acuta mi accompagna sempre per mano nella zona della disperazione. Nella disperazione si esalta la solitudine, si contano i minuti, si ha orrore della sedia, della poltrona, della donna delle pulizie, e del mondo. Si ha orrore soprattutto della stanza da bagno dove comincia la giornata della coscienza» (CC, p. 103). I momenti della giornata dalla fatica spaventosa di radersi fino alla cena che non arriva mai, «primo pensiero del mattino: la vita – o la mia vita? – così com’è – o in generale, comunque la vita che io so procurarmi, non è degna di essere vissuta» (CC, p. 226), sono percepiti dallo scrittore come tappe forzate di un percorso doloroso da cui non si può fuggire. Il senso di nausea, noia e dolore che caratterizza il periodo di degenza è legato a questo concetto di tempo che non passa e che rende le giornate uguali tra loro, inevitabilmente vuote di qualsiasi speranza di guarigione eppure ricolme di pensieri negativi. La necessità di stare male è avvertita dallo scrittore come una condizione fatale all’interno della clinica-prigione che non offre possibilità di fuga, tranne il suicidio, e dove il tempo sembra allearsi alla sofferenza inchiodandosi al muro dell’eternità. La clinica, l’analisi e il tempo, che dovrebbero in teoria aiutare il paziente a uscire dallo stato depressivo, finiscono per coalizzarsi con la malattia creando un mondo a parte, un vero campo di concentrazione simile all’inferno in cui il corpo del malato-dannato è ridotto allo stato primordiale, perdendo progressivamente le fattezze umane per diventare qualcos’altro. Guardo sempre l’orologio e il tempo non passa mai. […] Chissà se questa infinità di tempo è tempo perduto. […] La giornata vuota ma piena come un lungo viaggio del pensiero e dell’emozione. […] Che domani io non stia troppo male. Sempre questa paura dell’indomani, ogni oggi. […] Spesso, mentre il tempo non passa mai, guardo l’orologio affinché il tempo non passi. Voglio che manchi il più possibile alla cena, che lo spazio fra il the e la cena sia eterno e io non debba affrontare di nuovo la tavola silenziosa e allucinata. Voglio ora che non venga la sera, il sonno, poiché porta le angosce di domattina. (CC, pp. 11, 16, 47) Una caratteristica rilevante della depressione è il lento trascorrere delle ore, un’altra prova della disfunzione diencefalica, fino al blocco dell’orologio che marca il tempo interno e arresta il fluire degli istanti in cui ogni esperienza si solidifica in un presente immobile che dilaga nell’infinito senza avvenire. Nella percezione del depresso, il tempo presente diventa eterno e in esso la sofferenza immutabile con l’inevitabile conseguenza che la sua volontà ne risulta paralizzata e senza alcuna possibilità di decidere o agire poiché tutto è fermo e bloccato, i pensieri come le azioni. Il tempo vissuto in questo modo dal paziente, oltre a distillare la sofferenza, trasforma la realtà circostante modificandola nella forma e nella sostanza, e mentre la realtà si alleggerisce e si assottiglia fino a usurarsi, il Male si dilata all’interno della mente del depresso inglobando ogni 118 pensiero. In quei momenti impalpabili ed eterni, che formano l’intero periodo di degenza, ma non solo, la realtà lascia il passo all’irrealtà quotidiana che a sua volta si solidifica costruendo un muro invalicabile, coerente con lo stato di prigionia della clinica. Poco è concesso al paziente per alleviare il dolore, e in particolare non si può stabilire una data di uscita dalla clinica; dall’idea di una permanenza settimanale si passa ben presto a considerare il tempo con lo scorrere dei mesi e degli anni transitando dalla Montagna alla Clinica incantata. Qui s’intravede l’aspetto purgatoriale dei pazienti-dannati: non più, o meglio non solo si trovano nei cerchi infernali ma anche nelle cornici del Purgatorio dove il tempo esiste concretamente e, nella purificazione mentale, viene sofferto a ogni istante con la misura degli anni. L’analista ha parlato stamani di spostarmi di letto, col tempo. È sempre il tempo lungo che domina questa avventura, mentre la sofferenza ha sempre più fretta. […] Qui regna il tempo e qualsiasi scatto di relais è disciolto nella giornata sempiterna, tutta prevedibile, e tutta inattesa. […] La lunghezza della giornata in clinica usura la realtà, la assottiglia e l’irrealtà si fa più densa, spessa. […] Mi hanno lavato il cervello al punto di considerare il tempo come lo considerano qui: con la misura degli anni. […] Il tempo dura mesi e la giornata viene vissuta attimo per attimo. (CC, pp. 56, 107, 124, 144, 145) Il tempo gioca anche altri ruoli nella depressione: le diverse ore della giornata, come alcune stagioni dell’anno, esercitano un’influenza scatenante sulla sensibilità del malato. Il fenomeno dell’alternanza diurna, altro aspetto tipico della malattia, indica una disfunzione diencefalica e consente al depresso di stare peggio di mattina e meglio verso la sera. Si ritiene che queste variazioni circadiane della sintomatologia siano sottese da oscillazioni della concentrazione ematica, e quindi cerebrale, di alcuni ormoni. Ma come trascorrono i pazienti questo tempo inesistente e massiccio dentro la clinica? Anche se c’è un comune denominatore, la malattia mentale che in forme e gradi diversi influenza la loro degenza, i malati trovano differenti modi per passare la giornata tra il ping-pong, l’atelier di pittura, la dependance, la piscina, le passeggiate, le uscite in città, il cinema etc. Ottieri tuttavia evita queste attività a causa del suo stato depressivo che a mala pena gli consente di alzarsi dal letto, non lasciandogli altri spiragli che la scrittura: «È davvero una giornata terribile. Girano vecchi, aspiranti suicidi, schizofrenici, disperati. […] Sono le 13 e tre quarti. Manca molto alla notte. Non so assolutamente che fare. L’unica cosa è scrivere di non saper che fare» (CC, pp. 24, 68). Tra i giorni della settimana quello che più si avvicina al malessere dello stato depressivo è la domenica, di solito vuota, grigia, interminabile, solitaria che stringe con un nodo d’angoscia la gola dello scrittore. È una domenica crepuscolare, emblema di un’esistenza malata vissuta ogni giorno, in cui il tarlo tragico scava nell’anima e nelle cose seppellendo il paziente in un’eterna immobilità dolorosa. Il repertorio crepuscolare nelle descrizioni mette in risalto malati, infermiere, solitudine, giardini chiusi, pioggerella incessante, mentre gli elementi che circondano questa realtà in agonia, le 119 situazioni, gli oggetti, come anche le storie di quotidiano squallore, diventano i correlativi allegorici di una condizione esistenziale emarginata, capace tuttavia di cogliere, grazie a una poetica sofferente e introflessa, alcuni caratteri essenziali dell’uomo novecentesco come la pena, la negatività, la nausea, il negativo. Ottieri riprende dalla poetica crepuscolare il tono dimesso delle descrizioni oltre alla tetra mestizia di non aver nulla da dire e da fare: «io di nuovo agogno la sera, le luci accese, un crepuscolo. […] Preferisco il crepuscolo alla notte del no e al giorno del sì» (CC, p. 145). A Ottieri si possono accostare i massimi poeti crepuscolari come Gozzano, Corradini e Moretti con il quale vi sono evidenti analogie nel descrivere la dimessa atmosfera domenicale, come un normale giorno di pioggia: Un’altra giornata totalmente vuota. Starò male per forza. Sto eseguendo un lavoro di dolore. Il mestiere, qui dentro è la sofferenza. Sono un impiegato dell’infelicità. […] Fra un’ora al massimo debbo alzarmi. È una domenica grigia, triste oltre la morte. La realtà in cui sono immerso mi ripugna. […] È una domenica grigissima, di pioggia, sembra che nella piccola clinica non ci sia nessuno, che tutti siano scomparsi. Non si sente una voce. […] Domenica. Male. […] È brutto tempo, è domenica, sono solo. (CC, pp. 15, 21, 23, 79, 153) Io sento in me la stanchezza del giorno domenicale; / del giorno un po’ lacrimoso / che dà i pensieri più tetri / e fa cercare oltre i vetri / ignote vie di riposo. […] E intanto di fuori / continua a piangere il cielo, / e continua a stendere un velo / grigio sugli ultimi fiori, […] che questo grigio v’asconda / per sempre agli occhi mortali / o vi faccia tutte eguali / questa tristezza profonda!40 Il colore grigio che qualifica la domenica crepuscolare cancella la luminosità del giorno connotando negativamente lo scorrere delle ore, inevitabilmente tristi e più vicine alla visione della morte che a un barlume di vita. La pioggia sembra essere una fedele ancella di tale giornata grigia e vuota, caricando l’atmosfera di un senso allucinato di malessere e isolamento, come se il tempo si fermasse per condannare il poeta a vagare ramingo per la clinica o la città sperduta. Il motivo della pioggia, sempre caratterizzata dal colore grigio, dalla tristezza e dalla solitudine, congiunge alcuni versi delle poesie di Moretti con immagini estrapolate dal Campo di concentrazione. C’è un temporale, piove, alle cinque credo di non poter andare in giardino a veder passare la signora dei sogni. Ne sono contento. L’ideale del depresso è una malattia fisica che lo costringa a letto, una mancanza di vita intorno a lui, un divieto. […] Naturalmente non amo il bel tempo, bensì la pioggia che chiude, rallenta, impedisce. […] È freddo, i termosifoni sono accesi il 17 luglio, piove. Ho un desiderio forte di persone normali. Ora la malattia non mi affascina. (CC, pp. 47, 71) Piove. È mercoledì. Sono a Cesena. […] Batte la pioggia il grigio borgo, […] io sono triste. E forse / triste è per te la pioggia cittadina. […] Guardi le cose intorno. Piove. S’avvicina / l’ombra grigiastra. Suona l’ora. È tardi.41 40 MORETTI Marino, La domenica della pioggerella, da Poesie scritte con il lapis (1910), in Crepuscolari, a cura di Francesco Grisi, Newton Compton, Roma 1995, p. 93. 41 MORETTI Marino, Cesena, da Il giardino dei frutti (1915), in Moretti in verso e in prosa, Meridiani Mondadori, Milano 1991, p. 42. 120 Lo scrittore ha già trascorso alcune settimane in clinica e la sua condizione non sembra trarne giovamento, anzi il nero della disperazione non gli offre molte speranze. La clinica del ricovero è la «clinica X. di O. dove si applica la psicoterapia individuale a nevrotici e psicotici e tossicomani tutti insieme» (CC, p. 14), che agli occhi dello scrittore ha l’aspetto di un luogo chiuso da cui non si può uscire, simile a un carcere, assumendo anche altre forme nel corso del romanzo, quali «manicomio» (p. 22), «convento» (p. 113) o «prigione» (p. 106). L’immagine che ricorre con più frequenza è tuttavia quella dell’inferno, anzi «peggiore dell’inferno» (p. 15), «che si restringe a un imbuto nel cui punto più stretto sta il disperato» (p. 23), in cui non ci si può «immaginare in quale girone ci si trovi» (p. 26) e dove il paziente-condannato «non può prevedere come continuerò a passare attraverso il basso inferno. C’è una perplessità nel dolore: non sa alcune volte da quale lato gettarsi. Certo, sono molto stanco dell’inferno e continuo a sognare una giornata di gioia» (p. 126). L’inferno è il luogo per eccellenza dove sono condannati i peccatori, anche se per i malati mentali non è ancora stato predisposto nessun cerchio particolare; eppure il depresso ci si sente lo stesso, all’inferno, perché la clinica è un luogo recintato da dove è impossibile andar via, diviso in settori e con un denominatore comune per tutti: la sofferenza. Molti depressi si sentono dannati e definiscono la loro malattia come un inferno, un baratro oscuro, in cui si avverte il senso di smarrimento e dove tutto è buio, nero, spento, avendo perso i valori e gli ideali che prima li guidavano: «La scatenata perfidia della depressione conduce al fatto che dalla clinica non si può uscire, né vi si può rientrare. Il dentro e il fuori si macellano a vicenda» (CC, p. 46). «Dava una mancia all’infermiere Caronte, / che teneva sempre una cicca gialla in bocca, / perché ti portasse con la valigia al tuo girone» (COR, p. 146). Ottieri descrive la clinica facendo riferimento anche al «campo di concentrazione» (CC, pp. 16 e 165) che, strutturato come un cerchio infernale, oltre a dare il titolo al romanzo mette in luce l’aspetto più drammatico del periodo di ricovero per depressione, quello di un lager invalicabile in cui l’uomo mostra le proprie debolezze fisiche e mentali senza alcuna possibilità di sopravvivere e dove il nero dell’animo, della sofferenza, della speranza, è il colore predominante: Questo è un campo di concentrazione. […] Non so bene cosa scrivere sulla disperazione, posso dire soltanto che essa è nera. Colora di nero il mondo e lo restringe a un imbuto nel cui punto più stretto sta il disperato. È una defecazione incompibile dello spirito. […] Questo campo di concentrazione non vuole evitare distrazioni? (CC, pp. 16, 23, 165) L’immagine dell’imbuto rinvia alla struttura dell’inferno dantesco ricolmo di nera disperazione, dove l’oscurità dei luoghi si condensa nelle anime dei dannati come nelle menti dei depressi che vi scorgono soltanto un futuro carico di dolore. Infatti la «selva oscura» nella prima 121 terzina dell’Inferno si può intendere come uno stato depressivo; Ottieri percepisce quest’attinenza quando, nell’ultimo dei nove poemetti di Vi amo, richiama alla mente Dante paragonando la sua discesa negli inferi all’esistenza sofferente di un depresso. Anche l’Alighieri / prima di scendere e ascendere / si ritrovò in una selva oscura. / Valicare le mura della selva / occupa forse tutta la vita, / è un processo che a fasi alterne / dura fino al decesso. / Nei casi gravi si svolge / fra la camera da letto e il cesso, / nei casi leggeri accompagna / al tavolino e al tornio, / o in giro per il largo mondo. (AMO, p. 63) Nelle operette Di chi è la colpa Ottieri immaginerà una sua personale e letteraria discesa agli inferi nel nono dialogo Che fai stasera? dove Dante e Virgilio discutono di malattie mentali, psicoanalisi, terapie, letteratura, suicidio, pazzia; si tratta di una summa medievale e allucinata della poetica e della vita di Ottieri. Dante: «Io mi trovo per una selva oscura non soltanto nel mezzo del cammin della mia vita, ma ogni due anni circa, o tutte le sere». Virgilio: «Lo smarrimento della diritta via è sempre della stessa specie?» Dante: «Sempre uguale e sempre diverso». […] Dante: «Fai la psicoanalisi? Anche io conosco la psicoanalisi. È nata nel Duecento ma ora, nel Trecento, ha la sua esplosione massima». Virgilio: «Cosa intendi per esplosione?» Dante: «Una bipolarità» […] Virgilio. «Credi ancora molto nel terapeuta?» Dante: «Credo nella terapia. […] Divento pazzo. Porto con me, come Cristo tutti i dolori del mondo. C’è distruzione nella mia follia?» (COL, pp. 143-151) Ottieri gioca anche sulla doppia valenza del termine «concentrazione» richiamandone il senso figurato di un’insistente meditazione, spesso riferita al tema della follia, come se fosse una necessità del depresso la riflessione continua sul proprio stato per affrontare meglio la malattia. La conseguenza paradossale di questo procedimento, che estende la concentrazione ai limiti massimi di sopportazione umana fino alla distrazione, si avrà con il dialogo Il campo di distrazione in Di chi è la colpa (pp. 37-56). Tuttavia non è nella concentrazione che germoglia la speranza di salvezza poiché il meditare su se stesso, la cosiddetta riflessione interna, corrode con più ferocia la mente del malato influenzando l’attività del corpo. La concentrazione sul proprio essere, l’auto-riflessione, conduce lo scrittore depresso a distaccarsi dalla realtà verso l’estraniazione e a catapultare l’immagine di sé al di fuori del mondo, in quelle zone d’irrealtà quotidiana dove si perdono i contatti concreti con la realtà circostante fino a raggiungere stati di alienazione totale: È la concentrazione della follia che dà l’antipatia della realtà, della irrealtà. Se non fossimo concentrati, saremmo più attraenti… Ma è necessaria ogni sorta di concentrazione, dei corpi e della mente, è necessaria. […] Il rapporto tra distrazione e concentrazione, qui, non è chiaro. Invitano alla concentrazione ma considerano migliorato uno che sa distrarsi. […] Ho sempre avuto orrore per l’azione non preceduta, non partorita da una riflessione intensa. E la riflessione intensa è divenuta il cancro che divora il mio cervello, ha cominciato a divorare il mio corpo. (CC, pp. 75, 119, 162) 122 L’atmosfera lugubre della clinica del Campo di concentrazione su cui cala spesso un silenzio tombale grava sui pazienti che, con le loro figure senza volto, formano nell’insieme un corteo spettrale e angoscioso in cui risaltano stati d’animo deformati dell’individuo ridotto a ombra di se stesso. La stessa atmosfera allucinata è presente in alcuni dipinti di Edvard Munch, e in particolare Sera sul viale Karl Johan (1892), L’Urlo (1893) e Angoscia (1894), nei quali il pittore norvegese coglie i momenti d’ansia solitaria e il dolore dell’individuo dinanzi al cosmo allargato a dimensione universale dove gli uomini, con gli occhi sbarrati e allucinati, diventano fantasmi di loro stessi senza alcuna possibilità di fuggire dalla loro condizione alienata. Per Munch dipingere equivaleva a un’operazione introspettiva, a un lavoro di ricerca nel proprio animo, al recupero delle ansie sofferte per tutta la vita, così che la sua pittura diventa un esame di coscienza nel tentativo di comprendere il rapporto con la vita e in particolar modo con la morte: «Attraverso la mia arte ho cercato di vedere chiaro nella mia relazione con il mondo. Può essere chiamato anche egoismo. Tuttavia ho sempre pensato e sentito che la mia arte poteva aiutare altri sulla via della ricerca della verità»42. Stessa motivazione è riscontrabile in Ottieri, per il quale la scrittura è uno strumento di conoscenza di sé e della realtà esterna, ma ci sono altre analogie significative che accomunano il loro percorso artistico. Ad esempio, per Munch un inedito orizzonte culturale si stava aprendo sul finire dell’Ottocento quando alcuni letterati e artisti erano in procinto di elaborare una nuova poetica che esprimesse i turbamenti e le ansie della società in evoluzione. Munch, esegeta dell’Espressionismo, portò alle estreme conseguenze questo processo con le sue opere che pur partendo dalla vicenda biografica assumevano valore universale. Fin dai primi dipinti, anche se con uno stile ancora impressionista, già si scorgeva l’intenzione di indagare la psiche e di sottoporre la persona a uno svisceramento interiore per scandagliare il Male insito nell’uomo, tanto che la sua pittura sembrava in molti casi assumere una profondità interiore che preludeva alla scoperta psicoanalitica dell’inconscio. Oltre al percorso artistico, sono le vicende biografiche di Munch e Ottieri che collimano in modo a volte sorprendente: Munch soffrì di depressione, anche se non in una forma patologica, ebbe un difficile rapporto con il Padre, soffrì di alcolismo e nel 1908 fu ricoverato a seguito di un severo crollo nervoso trascorrendo otto mesi in una clinica di Copenaghen dove continuò a lavorare nella propria stanza trasformata in atelier, come la camera-scrittoio di Ottieri nel manicomio di Zurigo. La vicenda esistenziale del pittore fu pervasa dal dolore e dall’angoscia di vivere che influenzarono i suoi dipinti, nell’insieme da considerare come un diario per immagini in cui gli elementi autobiografici si elevano a raffigurare il destino doloroso dell’intera umanità. Munch, come farà anche Ottieri, ha costruito un sistema nel quale le opere più importanti si coagulano in 42 MUNCH Edvard, ne I classici dell’arte – Il Novecento, RCS Quotidiani, Rizzoli-Skira, Milano 2004, p. 66. 123 una sequenza unitaria e dove il significato di ogni dipinto risulta accresciuto dalla vicinanza degli altri. Una sorta di opera aperta che cresce, si sviluppa e si modifica nel corso degli anni, sempre pronta ad assorbire i nuovi impulsi, desideri e tormenti dell’artista. Simile è il procedimento nel lavoro di Ottieri che costruisce il suo sistema attraverso scritti legati tra loro da tematiche e motivi che s’intrecciano in una ben strutturata “sinfonia”. Un altro tratto in comune è l’ostracismo che una parte della critica e del pubblico ha rivolto alla loro opera considerata anarchica, disturbata, oscena, scandalosa, irriverente, in poche parole da evitare. Infine, entrambi si sono occupati di motivi industriali: Munch nel 1908 iniziò una serie di dipinti ispirati al mondo operaio nelle fabbriche, mentre Ottieri è considerato il capostipite della letteratura industriale in Italia. Nella sua stagione più alta, sul finire dell’Ottocento, Munch realizzò alcuni capolavori destinati ad assurgere a emblemi del suo immaginario e da lui stesso riuniti nel ciclo Fregio della vita, composto da dipinti apparentati per il loro contenuto che «una volta appesi insieme, mi sembrò che improvvisamente una stessa nota musicale li unisse. Non avevano più nulla a che vedere con quello che erano stati fino a allora. Ne risultava una vera “sinfonia”» (Munch, p. 15). Il tema centrale dell’Angoscia di vivere, sezione che comprende L’Urlo, è l’alienazione dell’uomo moderno e il suo tormento esistenziale. L’artista stesso ricorda con queste parole l’origine del dipinto: Camminavo lungo la strada con due amici – quando il sole tramontò. I cieli diventarono improvvisamente rosso sangue e percepii un brivido di tristezza. Un dolore lancinante al petto. Mi fermai – mi appoggiai al parapetto, in preda a una stanchezza mortale. Lingue di fiamma come sangue coprivano il fiordo neroblu e la città. I miei amici continuarono a camminare – e io fui lasciato tremante di paura. E sentii un immenso urlo infinito attraversare la natura. (Munch, p. 84) È un grido sovrannaturale, inumano e immobile, silenzioso, strozzato, ricolmo di paura e disperazione che si materializza e deforma ogni oggetto circostante, mentre l’Essere universale si sente sempre più solo in un mondo ormai estraneo e a lui ostile. L’Urlo, manifesto dell’angoscia esistenziale e della disperazione metafisica dell’uomo moderno, irrompe in alcuni passi del Campo di concentrazione: Tutta la mia vita è ora aperta, spalancata come un bosco raso al suolo, finché l’ansia e la depressione non abbuiano tutto, e non rimane allora che uno stretto buco nella terra da cui fischia un urlo di dolore muto, uno statico soffio di fumo acre. […] Senza che nulla accada dal di fuori, all’interno dell’uomo si svolgono questi fenomeni vaporosi, tra il petto e la mente. (CC, p. 167) L’angoscia, l’ansia, la depressione rompono l’equilibrio dell’uomo a contatto con la natura, mentre quest’ultima ondeggia paurosamente quasi sul punto di essere risucchiata da un vortice devastatore. Tutto ciò accade nel silenzio terrificante dentro l’animo di quella creatura che si volta in primo piano, sbarra gli occhi e porta le mani alle orecchie per non udire un urlo che è al 124 contempo suo e del mondo circostante. Questa creatura diventa il simbolo di ogni essere umano senza sesso, etnia o età, ridotto ai minimi termini tanto che il corpo stesso ondeggia rappresentando quell’uomo sminuzzato, frammentato e sofferente che gravita nella letteratura d’inizio Novecento ed emblema della poetica di Ottieri. L’urlo alla Munch è presente in un altro passaggio del Campo di concentrazione quando una paziente, malata di depressione, grida la propria disperazione facendo atterrire Ottieri che, paralizzato dalla paura, non riesce a uscire dal proprio letto: La pazza – chissà se è pazza – con la vestaglia rossa mi atterrì la sera del suo arrivo. Solo adesso sono capace di scriverne. Dopo poco il suo arrivo eccitato, in cui aveva, tutta dipinta, stretto le mani di tutti, dalla sua camera si levò un urlo da folle (la camera davanti alla mia). Ero inchiodato al letto. Non ho visto. […] La scena si è subito chiusa, mentre io giacevo nel letto in preda alla paralisi dalla testa ai piedi, lungo tutte le gambe, i polpacci. (CC, p. 27) In questo passo emergono due elementi ricorrenti nella pittura di Munch: il colore rosso e la camera con la malattia o la morte sempre presenti all’interno. Il rosso, oltre a caratterizzare i cieli allucinati dell’Urlo e di Angoscia, si trova in altri dipinti: è ad esempio il colore della vestaglia della piccola Sophie, la protagonista de La madre morta e la bambina (1899), la cui figura sembra bloccata nel tempo con lo sguardo sbarrato verso l’osservatore mentre porta le mani alle orecchie. È lo stesso gesto della creatura dell’Urlo, quel tentare una difesa estrema contro il dolore del mondo esprimendo la propria disperazione per la madre morta. Il silenzio opprimente che pesa sul resto della stanza si spezza di colpo nell’azione di Sophie e il rosso vivo della sua vestaglia sembra trasformarsi in un suono che rimbomba nel vuoto della camera, alludendo non solo al nulla della morte ma dell’esistenza in generale. L’altro motivo, quello della camera, è presente in diversi quadri di Munch come Il Mattino (1884), Pubertà (1893), Notte a Saint-Cloud (1893), Il giorno dopo (1895), La madre morta e la bambina (1899). Ne La morte della stanza della malata (1893) la morte prende possesso della scena mentre i personaggi sono immersi in un alienato stato di prostrazione e solitudine che, nella lugubre atmosfera della stanza, li chiude nel proprio immobile e muto cordoglio per la morte della piccola Sophie. La camera nei romanzi di Ottieri rappresenta un ambito angusto e angoscioso in cui la malattia si presenta in modo inquietante condannando il paziente a fossilizzarsi nel letto senza alcuna possibilità di fuga. All’interno della camera, in una clinica come nella propria casa, lo scrittore imprigionato nella sua depressione, osservato e custodito da medici e infermieri (Le guardie del corpo), trascorre il tempo tra l’angoscia e gli attacchi di panico nell’attesa di una salvezza sempre più remota. L’immagine della morte entra con insistenza nelle camere di Ottieri ed è percepita a volte da un sentimento di liberazione dal Male opprimente. Anzi molto spesso, durante 125 le crisi depressive più cupe, si guarda al suicidio come una ragionevole risoluzione per abbandonare definitivamente una realtà troppo dolorosa. È a questa morte in faccia, che il suicidio viene preferito. In questo caso della morte addosso è legittimo dire che ci si suicida per paura della morte e che il suicidio fa meno paura della morte. In questo caso il male che tiene lontani dal suicidio, ci sbatte a strattoni contro il suicidio e forza l’immaturità narcisistica verso una maturità ribaltata. Perché il suicidio è, rispetto all’idea di suicidio, una maturazione genitalizzata. (IQ, p. 108) E quando dalle cliniche-prigioni andar via è impossibile, ai pazienti non restano che le soluzioni più drastiche: una di queste è gettarsi dalla finestra: «La finestra non mi serve per fare venire la luce e per aprirla, ma per buttarmici di sotto» (IMP, p. 166). «La terza settimana non si vide / poiché a casa si era lanciato / dalla finestra ammaccando l’asfalto. / Non lo aveva salvato / né farmaco né linguaggio» (COR, p. 124). È stata nella saletta seduta come una statua la schizofrenica che prima di venire qui si è gettata dalla finestra. Sono, siamo noiosi. […] La schizofrenica che si è buttata dalla finestra mi ha detto ieri sera che è felice. La felicità c’è anche qui, randagia, astratta. […] La depressione rode piano piano le radici della vita, le toglie il perché. La depressione è logica: la catena dei pensieri che si conclude con la mancanza di una motivazione alla vita è il tipo razionale. Il suicidio è la conclusione logica della depressione. Deve sì combattere con l’istinto di conservazione; qualche volta lo vince. Quando? L’altro ieri la paziente graziosa, che ride sempre, la madre ventenne felice d’essere qui, si è buttata dalla finestra. (CC, pp. 130, 156, 169) Il motivo del suicidio è presente fin dal primo romanzo di Ottieri, Memorie dell’incoscienza, in cui il protagonista Lorenzo non riuscendo a sopportare una deficitaria realtà storica per l’occupazione nazi-fascista di Roma, e sentimentale per l’amore non corrisposto di Katja, pensa di uccidersi. Di suicidio si tratta anche nel romanzo industriale Donnarumma all’assalto quando il dramma colpisce i disperati disoccupati del sud Italia che cercano, non trovandolo, un lavoro per affrancarsi dalla miseria. Spesso il suicidio si presenta al depresso come l’unica idea consolante, una sorta di uscita di sicurezza preferibile alla malattia. La depressione comporta un tipo di dolore che non ha eguali tra le varie sofferenze cui l’uomo è sottoposto; intenso dolore fisico e mentale, spesso avvertito come eterno oltre le possibilità di resistenza umane. Dinanzi al malato si spalanca un panorama desertico senza luce né segno di vita dove tutto, dall’interno, si spenge così intensamente che l’istinto di conservazione viene meno, la spinta verso la vita si affievolisce, il legame con i sentimenti si dissolve. L’idea della morte è dunque un sintomo basilare della depressione quando si vive come una malattia non curabile. Oltre ai suicidi definitivi e improvvisi, ci sono molti suicidi lenti, i più frequenti, che consistono col lasciar perdere la propria vita giorno dopo giorno ricercando la morte con la droga o l’alcool. 126 Il ricovero, la malattia, il sentimento d’irrealtà provato all’interno della clinica conducono lo scrittore ad avvertire spesso un forte senso di estraniazione nei confronti del luogo circostante che appare, in modo grottesco, di vacanza mentre l’unico panorama possibile è quello di una piccola stanza adibita a farmacia proprio davanti alla sua camera: Estraniato pomeriggio. Tutto è strano qui, tra il carcere e la villeggiatura. […] Le infermiere aprono e chiudono continuamente la porta della farmacia, perché è regola chiuderla anche se si allontanano un istante – per tema che qualche paziente (io, per esempio) si getti a fare una scorpacciata di pillole. Questo è il panorama che io godo quando sto sul mio letto perché è davanti alla porta sempre aperta che dà sull’amena saletta. Questo è l’unico panorama che ho visto dalle tredici alle ventuno, durante le prime tre settimane quando stavo disteso sul letto in preda ai pensieri orridi. (CC, pp. 13, 88) In tale ambiente, il riferimento alla villeggiatura e al panorama da osservare rende ancora più crudele il ricovero forzato del paziente che può solo fantasticare sulle medicine della farmacia a pochi metri dal suo letto. In questo microcosmo che è la clinica, il letto è luogo indispensabile di tutti i ricoveri, un atollo fisso, stabile e determinato, una certezza (forse l’unica) per il degente che vi passa gran parte del tempo dal momento del risveglio fino alla notte, oppresso da una lastra di piombo poggiata sul petto che gli impedisce qualsiasi tipo di movimento. Vero e proprio «feticcio della malattia» (CC, p. 71), il letto diventa una protesi del corpo e dell’animo del malato che lo percepisce come un nido dal quale è quasi impossibile distaccarsi, come già appurato in un passo dell’Impagliatore di sedie: «Sarebbe voluta restare a letto per sempre. […] Il mattino la spaventa» (IMP, p. 183). Tuttavia nei momenti di minor pressione, quando il malessere si allevia, lo scrittore può registrare la propria esperienza su carta, quasi documentando il proprio stato psichico fino ad autoanalizzarsi. La scrittura diventa quindi necessaria per sopravvivere e salvare quella parte di sé ancora indipendente e non sopraffatta dalla malattia. Ottieri utilizza alcune metafore nel tracciare gli elementi fondamentali del carattere salvifico della propria scrittura: essa è un «salvagente» al quale egli sta «attaccato come un naufrago in mezzo a un mare immenso, calmo sì, ma da cui non si vede alcuna riva. Un mare bianco. Appena lascio il salvagente, affogo» (CC, p. 17). Questa sensazione rinvia al «naufragar m’è dolce in questo mare», fondamentale esperienza estetica di Leopardi implicitamente presente nella mente di Ottieri con continui rifacimenti d’immagini e sensazioni. In questo caso, si riprende il motivo del naufragare che Leopardi ha espresso attraverso un’esperienza sensistica in cui l’immaginazione si distaccava dal reale per sprofondarsi nel nulla infinito mentre il pensiero del poeta s’immerge oltre l’esplorazione delle sensazioni umane e terrene: «E sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo. […] Così tra questa / immensità s’annega il 127 pensier mio: / e il naufragar m’è dolce in questo mare»43. Il lavorio del pensiero permette di varcare il confine tra il reale e l’immaginario, ma se per Leopardi quest’abbandono metafisico può rappresentare un istante d’inebriante dolcezza, in Ottieri la meditazione malata fa affondare il depresso nell’abisso di strazianti ossessioni. Il rifacimento, o meglio la parodia dei versi dell’Infinito, è presente nella descrizione che Ottieri fa della propria camera da dove l’unico panorama plausibile sembra essere la stanzetta delle medicine. L’«estraniato pomeriggio» in cui «tutto è strano» rinvia all’atmosfera metafisica dell’«ermo colle», mentre le percezioni visive si stagliano sulla soglia della porta e sulla siepe leopardiana «che tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude». Il paziente Ottieri non può vedere altro dalla sua camera che è la cella di una prigione simile alla stanza di Recanati per Leopardi, e l’unica sensazione udibile è rappresentata dall’aprirsi e chiudersi della porta della «farmacia» che, come lo stormire del vento sulle foglie, rinvia a un altro mondo distinto dall’illusorio benessere delle medicine nell’attimo di smarrimento in una pace superiore. Dalle Betulle della Corda corta, s’intravede (per difetto) un altro possibile infinito: «Nei limpidi giorni / vediamo oltre le betulle, la Grigna, / il Resegone e, più vicino, gatti, / cespugli, erbe, rododendri, azalee. / La porta della hall non è chiusa; spalancata / è l’immaginazione protetta, sovrapensiero, / e la non necessaria fuga» (COR, p. 126). In un altro passo del romanzo, Ottieri descrive una domenica pomeriggio trascorsa nel giardino della clinica rilevando una quiete assoluta che rinvia a quella «profondissima» dell’idillio leopardiano: una sorta di pausa dal dolore, d’interruzione momentanea della sofferenza che può coincidere, in Leopardi come in Ottieri, nel nulla, nell’immaginazione suprema, nell’estasi, nella regressione infantile, nell’incoscienza, nel sonno. Lo stato di dolorosa prigionia sofferto in modo individuale è assunto a emblema della più generale condizione umana assillata dal male e dalla noia, in cui all’individuo privato del piacere e gettato in un mondo negativo non resta che sognare una realtà altra, come può avvenire durante il sonno, momento sublime dell’esistenza in quanto allontana il Male dalla mente e dal corpo degli uomini offrendo gli unici momenti di pace: In ciascun punto della vita, anche nell’atto di maggior piacere, anche nei sogni, l’uomo o il vivente è in istato di desiderio, e quindi non v’ha un solo momento nella vita (eccetto quelli di totale assopimento e sospensione dell’esercizio de’ sensi e di quello del pensiero, da qualunque cagione essa venga) nel quale l’individuo non sia in istato di pena.44 Ottieri riesce ad annullare il dolore della depressione e assopire il male di vivere solo durante il sonno che avvicina l’uomo alla morte, alla pace eterna dove l’annullamento totale dei sensi concede l’unica possibile salvezza: «La notte dormo anch’io e non posso godere con la 43 44 LEOPARDI Giacomo, L’Infinito (1819), in Poesie e prose, vol. I, cit., p. 49. LEOPARDI Giacomo, Commento all’Operetta morale Dialogo di Torquato (1824), in Poesie e prose, vol. II, Meridiani Mondadori, Milano 1988, p. 1310. 128 Tasso e del suo genio familiare coscienza la pace dell’incoscienza» (CC, p. 57). Si tratta dunque dell’agognata notte dell’incoscienza in cui l’uomo regredisce allo stato infantile per assaporare la dolcezza del nonessere senza contatti con il mondo tangibile, immergendosi in quella realtà altra che si avvicina alla morte e che fa sprofondare ogni cosa nell’oblio. Al risveglio invece appartengono, oltre alla coscienza, elementi negativi quali i pensieri, primi nemici della giornata appena iniziata, e osservati dal paziente come un esercito che avanza inarrestabile fino al letto del malato per opprimerlo con armi invincibili. Le contrapposizioni tra coscienza e incoscienza, tra il giorno e la notte, tra la veglia e il sonno, tra il male e la quiete, presenti in tutta la degenza, sono spesso ricordate durante le analisi a cui Ottieri si sottopone: Del mio concepire la realtà come madre archetipica. Del mio preferire la vita dell’incoscienza (la notte) a quella della coscienza (il giorno). […] Il mio risveglio è un lento, faticosissimo, dolorosissimo districarsi dall’incoscienza e un immediato snudare la spada contro la schiera dei pensieri chiari e nemici che avanza col giorno. Avanzano questi pensieri in formazione obliqua, prima l’uno, poi l’altro, poi tutti insieme, fino a che, completamente risvegliato, a metà scalata dal pendio alto del mattino, formano un plotone compatto e confuso dentro cui rumina un’ansia cupa, che lega le gambe e le braccia. […] Mi vogliono far diventare maturo ragionevole guarito e io voglio rimanere un bambino che vive la notte e oblitera il giorno, affascinato dall’incoscienza, tirato indietro la mattina da corde che lo riportano verso la notte trascorsa. Un bambino che non si sdipana mai dalla unica dolcezza del sonno e non accetta una nuova giornata. Che cosa gli dà questa nuova giornata se non il dolore? (CC, pp. 56, 59, 148) All’interno della clinica, la scrittura diventa per il paziente uno strumento di sopravvivenza fisica non tanto per avere un miglior contatto con la realtà, sempre fucina di dolore, ma per restare legato a quel barlume di esistenza materiale che s’intravede a stento. Tra vivere e scrivere Ottieri sceglie la seconda via perché non è possibile percorrerle entrambe; inoltre nella prima si scorgono solo binari morti, anche se lo scrittore non sceglierà mai in modo risolutivo in quanto il problema della scelta gli impedisce di prendere una decisione congrua tra le varie opzioni che si presentano in ogni situazione ambivalente. Tuttavia, durante il ricovero nel Campo di concentrazione, tra il tutto e il nulla e tra il vivere e lo scrivere, Ottieri propende senza dubbio per il nulla e la scrittura, con la speranza di immergersi nel sonno del pensiero ed evitare in questo modo la realtà. Si può anche notare come al concetto del sonno si leghi quello dei sogni, con le frequenti apparizioni della Signora dei sogni che spesso passeggia nel giardino della clinica, e quindi dell’inconscio con l’incoscienza strettamente legata al nulla e alla scrittura, attraverso un procedimento tipico in Ottieri che condensa in poche righe motivi che si ritrovano, si ampliano, si modificano nelle sue opere anche a distanza di decenni. È caratteristico inoltre l’accenno autoreferenziale alle opere scritte in precedenza e nate da particolari condizioni di vita, come si è osservato correlando L’irrealtà quotidiana al Padre. Nel passo seguente, estrapolato dal Campo di concentrazione, Ottieri richiama alla memoria il periodo di Donnarumma e dei Divini mondani: 129 Ho fondato la Letteratura industriale e con l’ultimo libretto ho aperto la strada di una possibile moda. […] Stanotte ho sognato di tornare al mio vecchio lavoro d’ufficio. […] Forse è un libro quello che sto scrivendo. Vorrei, se mai, scrivere ancora un libro sui mondani: con la storia autobiografica di uno che vi si perde dentro. Non conosco un altro mondano, eccetto quello che ho già descritto, così bene da viverlo come protagonista. E io non so inventare. (CC, pp. 41, 224) La chiosa «io non so inventare» mette in luce una caratteristica peculiare della sua scrittura, ossia lo spunto autobiografico che serve da stimolo per raccontare le esperienze vissute. Inoltre, è proprio attraverso il filtro della letteratura che lo scrittore riesce ad analizzare meglio la sua vita mettendo in risalto, grazie alla memoria, quei momenti trascorsi dentro l’involucro buio della depressione e difficili da descrivere: Io sono distante dalla vita ma desidero la vita. Quali giorni ho passato qui nelle prime due settimane. È che non potevo scrivere e adesso non li ricordo, sono un’unica sofferenza uguale. Tali giorni mentre si vivono non si possono scrivere, quando si sono vissuti non si possono ricordare. Perciò è difficile offrire una descrizione della disperazione. Forse impossibile. Se ne può dare soltanto una eco, quando è passata. Durante la crisi si è muti, oppure il lamento è lungi dal poter essere fissato su carta, è labile, è caleidoscopico, è molle, agghiacciato, non può essere raccontato. (CC, p. 20) Il sentimento di vuoto, di abbandono, di assopimento della ragione e dei sensi si lega in Ottieri alla scrittura che, paragonabile al sonno, diventa un mezzo per estraniarsi dalla realtà sofferente e placare il malessere quotidiano. Sono gonfio d’ansia. Non voglio smettere di scrivere altrimenti piombo in una vita che mi ripugna. È sempre la legge del tutto o del nulla, la mia legge. O tutto vivere o tutto scrivere. Dovrei fare una passeggiata ma non me la sento. Non voglio alzarmi, voglio continuare infinitamente a scrivere, evitando di radermi, di mangiare, evitando la realtà. Dio, e se d’un tratto non trovo più nulla da scrivere, devo risvegliarmi da questo sonno, staccarmi da questo steccato puro contro la disperazione (per ora non sto scrivendo di nulla) e affrontare la stanza da bagno, lo stare ritto, l’incubo del pasto di mezzogiorno. (CC, p. 18) Ottieri registra la propria esperienza su carta come se stesse analizzando il proprio stato psichico fino all’auto-analisi, così che la scrittura diventa necessaria per sopravvivere, presentandosi come un «salvagente» al quale lo scrittore sta «attaccato come un naufrago in mezzo a un mare immenso, calmo sì, ma da cui non si vede alcuna riva. Un mare bianco. Appena lascio il salvagente, affogo» (CC, p. 17). Riguardo al valore salvifico della scrittura, Ottieri utilizza altre due metafore che sono la roccia per lo scalatore e il cornicione per l’operaio, e in entrambe le situazioni l’atmosfera circostante è così carica di angoscia che l’intervento della scrittura, come unica possibilità di sopravvivenza, appare quasi obbligatorio: «Sto attaccato allo scrivere come un rocciatore ansioso su un appiglio marcio. […] Sto attaccato allo scrivere astratto come sta attaccato a un cornicione l’operaio che è scivolato giù dal tetto» (CC, p. 18). Nel primo caso, la caratteristica 130 del rocciatore è l’ansietà, un tratto tipico del depresso, mentre la roccia su cui basa la propria salvezza è marcia quindi pronta a cedere sotto il suo peso; nel secondo, l’operaio è già scivolato dal tetto e sta sospeso su un cornicione che sporge nel vuoto. Se si riprende anche la prima immagine, quella del naufrago con il salvagente, si può constatare che le tre metafore sono caratterizzate dal movimento del cadere giù e che gli appigli per salvarsi sono molto labili, quasi inconsistenti: in senso figurato è la depressione che fa sprofondare lo scrittore nel vuoto. Come è del resto impalpabile lo scrivere astratto che nasce da questo generale stato di malessere e di afflizione: «Non scrivo più da una settimana. Ora scrivo soltanto per disperazione. Scrivo per disperazione perché non ho altra alternativa di vita» (CC, p. 227). La scrittura, pur nascendo dalla depressione, ha valore salvifico; ma quali sono gli argomenti che può trattare? Del nulla, risponde Ottieri, e qui il cerchio sembrerebbe chiudersi: la vita è un orrore e la depressione fa precipitare il malato nel vuoto dove la scrittura è l’unico strumento per sopravvivere e non impazzire completamente; tuttavia la scrittura parlerà proprio di questo vuoto, del nulla, della malattia che allontana il paziente dalla realtà: Non so assolutamente che fare. L’unica cosa è scrivere di non saper che fare. Non ho in mente nessun libro nuovo. Scrivo del nulla. Non ho appigli. Sto sospeso in aria, con l’aria che manca. […] Quello che sto scrivendo non posso fare a meno di scriverlo. Devo fissare questo nulla. Nelle prime tre settimane il nulla era troppo pieno di disperazione. Diminuita la disperazione, prende forza il lavoro. Non ho altro lavoro che scrivere, scrivere anche del non scrivere. Procedo con la penna come procedevo con il pensiero. (CC, pp. 68-69) A questo punto emerge una caratteristica essenziale della poetica di Ottieri, ben evidente non solo nel Campo di concentrazione: la scrittura si proietta in quelle zone inesplorate della mente umana dove, a causa della malattia mentale, i legami con la realtà sono rescissi mentre l’unica vita rimasta sembra soltanto quella psichica tuttavia malata, sofferente, estraniata. La malattia mentale crea dunque l’unica realtà possibile che è anche il nulla vissuto all’interno della clinica dove la scrittura si erge a ultimo baluardo di sopravvivenza per lo scrittore-paziente. Ciò nonostante la scrittura, che nasce dalla malattia e parla della stessa esplorandone i meandri più nascosti e dimenticati, riporta alla luce (sulla pagina) tutto quello che difficilmente si può esprimere a parole: depressioni, sofferenze, ossessioni, dolori etc. Il binomio scrittura salvifica-disperata non si scioglie in Ottieri, anzi diventa un elemento distintivo della sua letteratura che non può dare alcun ristoro dalla malattia, e quando s’intravede una labile salvezza essa è solo apparente: Rimango qui e scrivo, di nulla. Lo scrivere filtra l’angoscia, la depura dalla confusione mentale, almeno. E forse questo scritto sarà un documento. È letteratura? Non ho mai scritto in questo modo evitando totalmente lo stile. Scrivo unicamente per sopravvivere, per gettare un ponticello sopra l’abisso, per essere nella realtà e nello stesso tempo per estrarmi dalla realtà. Scrivo solo per spremere sulla pagina una goccia di soddisfazione, di pausa (e invece sto ugualmente, grigiamente male stamani). Scrivo per salvarmi. […] La letteratura vince tutto? La specie di letteratura che sto facendo è pagata troppo cara. E forse si sta esaurendo: 131 allora non resterebbero che il suicidio o il vero romanzo. […] Non scrivo da una settimana, ora scrivo soltanto per disperazione. Scrivo per disperazione perché non ho altra alternativa di vita. […] Scrivo sempre senza la speranza che la letteratura mi renda felice. (CC, pp. 21, 162, 227) La malattia riesce dunque a farsi scrittura e a parlare di sé attraverso il paziente-scrittore, l’apparente personaggio principale, ma in verità è la malattia la reale protagonista del Campo di concentrazione e l’affermazione precedente «o tutto vivere o tutto scrivere» si può leggere in un’ottica diversa: il binomio non è in contrasto definitivo perché la malattia, attraverso la scrittura, racconta l’unica esistenza possibile (dentro una prigione) permessa al depresso, simbolo universale dell’uomo moderno. Descrivere una giornata di relativo benessere, si può tentare. È la giornata nera, la quale sempre ripete il suo varco incompatibile tra vivere (soffrire) e scrivere, che è difficile da scrivere. […] Non ho voglia di lavorare alle poesie. Mi fissa troppo qui, mi concentra qui dentro, mentre la mia mente, pur altamente concentrata in questo campo di concentrazione, deve rimanere libera all’altrove distraibile. Scrivere quello che sto scrivendo ora mi permette in qualche modo di non scrivere ma soltanto di registrare dei pensieri, quasi gli stessi pensieri che penso. Lo scarto fra pensiero ossessivo e pensiero scritto è il più possibile ridotto, anche se la registrazione dà un’idea lontana della realtà pensosa. Questo scritto non è scritto in senso letterario. Credo che la clinica non lasci fare letteratura, creazione. Frantuma tutto con il male. Questa scrittura assomiglia, mi sembra, a quella epistolare, e tende ad appoggiarsi a luoghi comuni. Manca di impennate linguistiche. Siamo, con la depressione, anche agli albori di un contenutismo, di un realismo elementare, che non si accende di splendore stilistico nemmeno quando è sua intenzione descrivere orrori. (CC, pp. 37, 44, 45) In questo passo del romanzo Ottieri espone l’aspetto nucleare del rapporto tra letteratura e malattia, o meglio quale tipo di letteratura può nascere all’interno di una clinica. Nel presentarlo egli gioca su diversi contrasti che si possono delineare attraverso sei coppie d’opposizioni: clinicaletteratura, prigione-libertà, campo di concentrazione-altrove, registrazione-scrittura creativa, pensiero ossessivo-pensiero scritto, contenutismo-estetismo. Il risultato di queste antinomie arriverebbe però a negare un presupposto fondante della poetica di Ottieri, ovvero il rapporto tra clinica e letteratura, poiché come egli stesso afferma esplicitamente «creo che la clinica non lasci fare letteratura, creazione». La creazione, all’interno della clinica-prigione-campo di concentrazione, è negata a causa del Male che frantuma qualsiasi tentativo di fare letteratura; di conseguenza non solo il personaggio-uomo (depresso) è frantumato ma anche la stessa creazione letteraria, così che la malattia impedisce allo scrittore di essere tale per trasformarlo sic et simpliciter in un registratore di dolore. Ottieri, durante la permanenza in manicomio, sente che la depressione ha la forza di rinviare la scrittura a uno stadio primitivo, individuato negli «albori del contenutismo» e nel «realismo elementare», avvicinabile a un tipo di scrittura infantile influenzata dalla malattia. La conseguenza più immediata è che lo scrittore si percepisce senza fantasia e che, 132 dentro la clinica, egli può solo comporre un’opera documentaria dallo stile approssimativo e con tendenza epistolare. L’analista insiste nel distinguere l’illusione dalla fantasia, apprezza quest’ultima e gli piacerebbe che la prossima volta io uscissi dal documentario per creare un’opera esclusivamente fantastica. Fino ad adesso ho ripetuto tante volte di essere uno scrittore senza fantasia. Secondo l’analista un serbatoio del mio inconscio è ripieno di fantasia non venuta alla coscienza. Reagisco nel mio solito modo: esiste l’inconscio? (CC, p. 240) Il termine inconscio trova impiego come aggettivo per qualificare i contenuti non presenti alla coscienza, e come sostantivo per indicare una zona dello stato psichico. Questo concetto è centrale in tutte le psicologie del profondo per le quali i contenuti della coscienza non sono originari ma derivati da processi che, sfuggendo alla coscienza e a essa antecedenti, sono detti appunto inconsci. Per Ottieri l’inconscio, anche filtrato dagli studi psicoanalitici, è stato un motivo che ha caratterizzato non solo i periodi trascorsi nelle cliniche ma una vita intera: «L’inconscio, l’inconscio tutta la vita. E anche adesso l’inconscio comanda. È lui che se vorrà mi manderà via dalla clinica. A me sembra di vivere, di essere tutto nella coscienza, e di cercare non l’inconscio ma l’incoscienza» (CC, p. 91). L’inconscio nella teoria psicoanalitica è considerato da due punti di vista, descrittivo e topico. Nel primo uso, inconscio è un aggettivo che si riferisce a tutti quei contenuti psichici che non compaiono nell’orizzonte della coscienza, mentre nel secondo s’intende l’inconscio come un luogo dell’apparato psichico dove si trovano tutti quei contenuti cui è stato rifiutato l’accesso al sistema conscio tramite la rimozione. Nel periodo di degenza descritto nel Campo di concentrazione, molti sono i riferimenti diretti alla psicanalisi e Ottieri si presenta nella tripla veste di paziente, scrittore e studioso della materia: egli è in analisi ma si auto-analizza conoscendo gli strumenti della psicanalisi con i suoi pregi e limiti, dopo averla studiata, vissuta, sviscerata. Ancor prima di entrare nella clinica di Zurigo, infatti, lo scrittore aveva seguito per alcuni anni un’analisi freudiana senza tuttavia ottenere sensibili miglioramenti: Anche la Dottoressa è del parere che io debba innanzitutto diventare più sicuro di me e ciò con l’analisi, e ciò attraverso mesi, anni. Farò l’analisi tutta la vita, oramai. […] Che cosa mi farà mutare? L’analisi. Ma ne ho già mancata una, freudiana, di tre anni più due anni. Riuscirà la nuova analisi a fare di me un capo e non un suiveur? (CC, p. 142) Il campo di concentrazione è l’attuazione letteraria delle teorie psicanalitiche, nel senso che il paziente, tentando di curare i propri disturbi psichici, applica su se stesso, studiandole e offrendone poi un resoconto dettagliato, i metodi della psicanalisi. Nel corso del processo terapeutico, la psicanalisi prevede l’uso di diverse tecniche come, ad esempio, l’associazione libera 133 che incoraggia il paziente a esprimere qualunque pensiero anche se illogico, irrilevante o imbarazzante. La finalità di tale procedimento è che, eliminando il giudizio e l’interpretazione dell’intelletto, la persona aggiri le difese dell’io e faccia luce sulle radici inconsce dei suoi problemi. Ottieri concretizza questa tecnica con la stesura di poesie, confluite nel Pensiero perverso, che, seguendo un processo automatico, gettano su carta i pensieri non bloccati dalle difese dell’io. Un’altra tecnica riguarda l’interpretazione dei sogni usata dai terapisti di orientamento psicoanalitico per rendere conscio l’inconscio, individuando i significati nascosti o i meccanismi di difesa rilevati dalle azioni e dalle affermazioni del paziente; i sogni rappresentano dunque degli indizi rimarchevoli che mettono in luce la vera natura dei problemi. Secondo Freud il contenuto dei sogni ha due livelli: uno manifesto determinato dagli avvenimenti espliciti e concreti del sogno, l’altro latente che rinvia a un significato nascosto e simbolico. I sogni di Ottieri raccontati nel Campo di concentrazione sono tre, accompagnati dalle riflessioni dell’analista che, con l’ausilio del paziente stesso, tenta di rilevare gli elementi più significativi anche se dalle parole dello scrittore filtra una certa sfiducia: «Sono sempre restio a prendere in considerazione i sogni. Li scrivevo e analizzavo venti anni fa, quando cominciai la mia prima analisi. Occuparmi dei sogni oggi mi dà l’impressione di ricominciare tutto da capo, di essere tornato alle scuole elementari, che tutto il mio lavoro freudiano non sia servito a niente» (CC, p. 74). La psicoanalisi attribuisce al sogno un significato psicologico rintracciabile attraverso l’interpretazione, compiendo all’inverso il cammino intrapreso dal lavorio del sogno che trasforma il contenuto latente in manifesto, e che dunque non è creativo bensì trasformativo mediante quattro operazioni: condensazione, spostamento, rappresentazione, elaborazione secondaria. L’interpretazione del sogno è considerata da Freud l’analisi principale che può condurre alla conoscenza dell’inconscio nella vita psichica, in quanto fa retrocedere il sogno dal contenuto manifesto al significato latente cui conducono le libere associazioni del sognatore e la conoscenza del simbolismo onirico. Il medico che ebbe in cura Ottieri durante il ricovero alla Klinik am Zürichberg fu Philippe Rupp al quale lo scrittore, appena rientrato a Milano, invia una lettera: Caro Dottore, il nostro rapporto, così amichevole, è morso alla base dall’essere lei stato per un anno il mio padrone, dall’averla io vissuta anche come padrone. […] Il pensiero, a questo punto morto, va al bere. Ma mi sta accadendo qualcosa a proposito del bere (almeno nei momenti di non crisi): mi disgusta, non mi dà la minima euforia e mi dà il massimo di sensi di colpa. Stamattina mi sembra di essere fermato, d’essere formata una solitaria follia, rotta dall’ora alla settimana con lei, però schiacciata da una massa d’ora di treno e da quelle strane ore in clinica di cui godo la pace perché so di potermene andare anche dopo mezz’ora. […] La mia vita è ancora grigia, la pubblicazione del mio libro troppo lontana, la vibrazione euforica del primo mattino in cui adesso mi sveglio si spegne sugli spalti delle 11 e 12 nell’attesa del pasto. Questa vita non è degna di me. Un anno di clinica a Zürichberg mi ha reso cerebralmente scheletrico. Lei deve aiutarmi a vivere con sentimento fuori della clinica. (Lettera non datata, probabilmente dell’autunno ’71) 134 Con questa lettera Ottieri collega, dal punto di vista letterario, Il campo di concentrazione a Contessa, il romanzo successivo non ancora pensato e che sarà pubblicato ben quattro anni dopo; il riferimento all’abbandono della clinica di Zurigo ma con l’obbligatoria visita settimanale, e dunque l’angoscioso viaggio in treno Milano-Zurigo, sarà infatti il motivo conduttore di Contessa in cui Elena Miuti, la protagonista alter ego femminile di Ottieri, ripercorre in forma romanzata alcune vicende vissute dallo scrittore dal soggiorno a Pozzuoli, alla scrittura di Donnarumma, ai ricoveri, alla terapia settimanale. Inoltre in alcuni passi della lettera Ottieri riprende degli elementi che hanno contraddistinto Il campo di concentrazione come il sentirsi uno scheletro nell’anima, il rapporto di dipendenza con gli alcolici, l’esistenza che come tale non è degna di essere vissuta, evidenziando la comunione d’intenti tra vita e letteratura imprescindibile nella sua poetica. Un interessante commento al romanzo lo offre Ferruccio Foelkel in una lettera inviata a Silvana Mauri il 23 febbraio del ’72, pochi giorni dopo l’uscita nelle librerie del Campo di concentrazione: Cara Silvana, sul Campo di concentrazione posso davvero dire di godere e partecipare di un libro straordinario, a me mitteleuropeo e con abbondante sangue ebraico profondamente vicino. […] Opera così desueta nella letteratura italiana, un’opera che – forse – non verrà capita e apprezzata. Penso che sia superiore a Donnarumma, e comunque alle altre opere di Ottiero. (23 febbraio ’72) II.5 Contessa Come un assassino è solito tornare sul luogo del delitto, così per un paziente è logico rientrare nella clinica dove ha trascorso un periodo, in parte lungo e critico, di degenza. In Contessa Ottieri racconta il ritorno in quella Klinik am Zürichberg che nel Campo di concentrazione è stata descritta come un lager. Tuttavia per la Contessa Elena Miuti, il primo alter ego femminile dello scrittore, le circostanze sembrano migliori. La Contessa non è ricoverata nella clinica dove entra e esce quando vuole dovendo saltuariamente seguire una psicoterapia; la clinica non appare più un campo di concentrazione in quanto le sue porte sono state schiuse da immaginarie forze di liberazione che, pur scarcerando il paziente dal lager, lasciarono intatta la struttura del manicomio dove pazienti, medici, infermieri, continuano a vivere all’interno. Elena si trova sospesa in questa nuova condizione: libera dalla prigionia ma non del tutto poiché la terapia le impone di rientrare nella clinica almeno una volta alla settimana. 135 In Contessa Ottieri pone un altro importante tassello sul processo formativo del personaggio malato, che è lui stesso attraverso numerose controfigure maschili e femminili, in un’originale Weltanschauung che attraversa il mondo clinico di cui nell’Irrealtà quotidiana si posero le fondamenta teoriche; il paziente finalmente matura, prende coscienza di sé e delle proprie sofferenze fino a diventare un analista. Il doppio ruolo del personaggio, paziente e analista nello stesso tempo, al centro delle lotte analitiche intraprese da Lucioli nell’Irrealtà quotidiana, si realizza nella figura di Elena, psicosociologa e depressa, analizzante e analizzata, paziente alcolizzata, mondana e scrittrice, che riunisce in sé le diverse parti del personaggio disgregatesi nel Campo di concentrazione. «Elena prese un taxi per circa la duecentesima volta e salì in collina. Appena uscita dal taxi davanti alla clinica udì il grido non nuovo, riconoscibile come una voce, intervallato da ululi, della sua amica Heidi certamente legata» (CON, p. 37). L’urlo è la prima attestazione della presenza umana percepibile all’interno della clinica, ed è esemplare che Ottieri si soffermi su questo elemento per introdurre la scena. L’urlo raccapricciante, gridato o muto, adottato a emblema della sofferenza umana che dà il benvenuto nella clinica è quello di Heidi, una conoscente di Elena, sul cui viso si sovrappongono sfumature di colori che vanno dal tenue al tetro, quasi applicazioni pittoriche del Male che devasta l’esteriorità, oltre che il profondo psichico, di un essere umano. Rivide il solito volto di bionda chiarissima appena rosato, pieno di efelidi, ma ora di un unico colore rosso bruno, e devastato dal grido intermittente all’estremo dell’ugula umana e della disperazione umana creata da qualche Dio. […] «C’è la disperazione del malato e la disperazione del medico. Io per disperazione intendo gli urli o l’urlo muto a letto o il tarantolamento per terra. Il medico, anche disperato, lavora. La disperazione del malato porta spesso al suicidio». (CON, pp. 38, 101) Nel rapporto con la «clinica K.» di Zurigo, Elena è sia psicosociologa che paziente, libera (ma non troppo) di entrare e uscire a suo piacimento: «Ora Elena che come ambulatoriale non aveva più la chiave della porticina della K. attendeva che le aprissero. La raggiunse un Dottore con la chiave» (CON, p. 38). Questa particolare visione della clinica influenza anche la percezione dei degenti che arrivano a considerare la clinica stessa migliore della propria abitazione e del mondo esterno, addirittura simile a un accogliente luogo di villeggiatura. La conseguenza sorprendente è che molti pazienti insistono per non uscire più dalla clinica dove sembra abbiano trovato un insospettabile equilibrio nel vivere seppur non del tutto risanato; e infatti, escludendo la clinica, ci sono poche alternative plausibili per ricrearsi un’esistenza soddisfacente. Si preferisce allora oscillare tra la malattia e la guarigione ma sempre all’interno della clinica, così che anche se si raggiungesse uno stato di relativo benessere, questo non implicherebbe un rimettersi in gioco all’esterno con altre regole, leggi e pratiche difficili da maîtriser. La clinica appare accogliente, i 136 suoi ambienti caldi, familiari, con un ritmo codificato dalle consuetudini e con poche varianti: la malattia e la cura, facendosi quotidiane e ripetitive, possono garantire al paziente uno stato di regolarità esistenziale invidiabile. Da questa concezione, la clinica è osservata come un hotel, uno chalet di campagna, un ritrovo di vecchi amici. Molti restavano alla K., guariti, perché non sapevano dove andare e non resistevano soli. Oppure andavano e poi tornavano. I medici avevano da combattere con quelli che tentavano ogni giorno la fuga e con quelli che dovevano cacciare via. […] Fu contenta di rientrare nel caldo del camerone delle sue giovanissime compagne, tre, quattro, sei volte mancate suicide, graziose, pulite; delle sue vecchie che aspettavano la morte, delle mature abbandonate alla K., incistate alla K. […] Per un momento la clinica pareva un animato chalet di campagna. […] Ella avrebbe voluto rimanere alla K. Ma non poteva più vivere alla K. Il Dottore le aveva proibito di dormirci anche solo una notte, in un letto libero, tanto temeva quel male che si chiama ospedalizzazione. […] Un’idea rifolgorò Elena: voglio tornare nella clinica, non voglio più bere un goccio, voglio farci l’amore. […] Conosceva la sua stanza non lieta. Non fu legata poiché non ve ne era bisogno. […] Elena faceva ormai parte della casa e sapeva che in quella casa per la guarigione occorreva l’intera coscienza. (CON, pp. 43, 45, 208, 209, 210, 218) Nella clinica in questione, la K. di Zurigo, si applica la psicoterapia junghiana, ovvero la psicologia analitica: «Lei si ricordi che sta eseguendo un’analisi junghiana. In essa l’analista è meno neutrale e può ammollirsi e farsi cascare le braccia come l’analizzato» (CON, p. 212). La psicologia del profondo elaborata da Jung si staccò da una precedente adesione al pensiero di Freud con l’opera Simboli della trasformazione (1912) nella quale Jung prospetta una lettura dell’energia psichica, la libido, non più limitata alle sole manifestazioni pulsionali come aveva ritenuto Freud, ma estesa anche alle espressioni culturali con finalità creative. A Jung interessa il processo d’individuazione che richiede il riconoscimento e l’accettazione delle funzioni inferiori della personalità, rimaste indifferenziate e arcaiche, per una loro integrazione nella dinamica dell’individuo psicologicamente maturo. Elena, come altri personaggi ottieriani, segue anche la terapia junghiana, non semplice e snervante per il paziente, che richiede numerose sedute per un tempo imprecisato: «Appena seduti, poltrona davanti a poltrona. […] Fauteuil-fauteuil la settimana dopo Elena tacque» (CON, pp. 41, 104). Analisi basata anche sul silenzio, elemento ricorrente nelle terapie “subite” dai pazienti: «Il Dottore fu molto interessato ma tacque sempre. […] Anche il Dottore taceva. […] Il Dottore disse: “Non so”. Passò qualche minuto: taceva sempre. Elena disse: “Non ha niente da dirmi?” Il Dottore tacque ancora» (CON, pp. 41, 104, 207). Anche l’elemento onirico occupa un ruolo importante nella terapia, ma alle insistenti domande del medico riguardo ai sogni fatti, Elena risponde spesso con fastidio affermando di non credere molto all’interpretazione dei sogni, come anche il prigioniero del Campo di concentrazione aveva evidenziato: «Sono sempre restio a prendere in considerazione i sogni» (CC, p. 74). «Io non credo più all’interpretazione dei sogni. […] Il problema, ripeto, è che non credo all’interpretazione dei sogni, al linguaggio dell’inconscio. […] Lei con questi sogni mi fa diventare di ricotta. I sogni 137 servono al Dottore analista come l’analisi delle urine al medico» (CON, pp. 41, 68, 134). La psicologia analitica definisce il sogno un’autorappresentazione spontanea della situazione attuale dell’inconscio espressa in forma simbolica, concezione che contrasta con la formula freudiana in quanto rinuncia a dare una formulazione precisa del senso del sogno; e pur affermando che questo è una rappresentazione simbolica di un contenuto inconscio, non giunge a considerare i suoi contenuti come soddisfazione di desideri. Ma i sogni servono all’analista come «le urine al medico» poiché essi possono essere letti, oltre che con il metodo causale, anche con quello prospettico o costruttivo, consentendo di leggervi le linee di sviluppo di un processo psichico a partire dalle potenzialità che nei sogni si manifestano come non ancora realizzate. E per attuare questo tipo di analisi, è necessario rinunciare a una simbologia onirica valida per tutti e fare riferimento al contesto biografico e psicologico del sognatore: per questo motivo il medico insiste continuamente sui sogni facendo diventare di «ricotta» la povera Elena, aggredita nel profondo da ogni angolazione, in quanto i particolari dei sogni diventano importanti se rapportati alle sfumature di significato che emergono attraverso le associazioni fatte dal paziente. Un’altra analogia riscontrabile con l’esperienza vissuta nel Campo di concentrazione si rileva nel concetto del tempo, malato, pietrificato, sofferto da Elena che vi scorge solo un’interminabile fucina di disperazione. La coscienza del tempo esperita da un depresso annulla l’esistenza del presente che non può avere nulla tra il non più del passato e il non ancora del futuro. Un malato psichico, come Elena, restando chiuso nella pura attualità del presente senza memoria del passato e senza proiezione nel futuro, si dimostra incapace di dar senso alla propria esistenza e al mondo. Il depresso si ritrova allora imprigionato nella retentio, ovvero l’atto intenzionale per cui si costituisce un passato vuoto mentre il presente diventa il tempo dell’incessante lamento e il futuro si dischiude come un involucro pieno di vacue intenzioni. Per questi motivi la depressione è interpretata come una destrutturazione della temporalità in cui il valore del tempo si annulla in un’assenza totale di possibilità. Eppure i colloqui che si svolgono settimanalmente tra Elena e il Dottore evidenziano, in modo maligno, un aspetto essenziale della terapia: il tempo, che è disperazione per il malato, si rende necessario per la cura e, fatto ancor più grave, non è possibile determinarlo nella durata. La terapia ha dunque bisogno di un tempo aperto, lungo, per mettere in opera una cura adeguata; tuttavia si tratta di un aspetto che il depresso vuole evitare poiché una dilatazione eccessiva del tempo aumenterebbe la sofferenza riducendo qualsiasi fiducia nel metodo di cura: «Lo spazio si accorcia, il tempo si allunga nella disperazione senza tempo» (CON, p. 56). I vari dialoghi che si svolgono di frequente tra Elena e il medico attestano la necessità del tempo cui corrisponde la non accettazione dello stesso. 138 «Per lei non è una questione di star bene o di star male, di guarire o di continuare così all’infinito; ma di diventare la psicanalista di se stessa». Lo avvertì come una condanna. «Quando?» aveva chiesto. «Non si può dire. Col tempo». […] «Non lo capisco». «Col tempo». «Quanto tempo?» «Si vedrà». […] «Questo mi pare incredibile». «Perché incredibile?» domandò il Dottore. «Non l’ho ancora capito». «Col tempo». «Quanto tempo?» «Molti anni». […] «Non tollero, poi, la lotta contro il dolore, peggiore del dolore». «Col tempo». «Ma durante il tempo c’è la disperazione». «La disperazione c’è sempre. Il tempo è la disperazione», disse insolitamente il Dottore. […] «Allora qual è il nocciolo, per non dire la causa?» «Nel suo essere inconscia». «Ancora». «Un po’ meno di prima». «E quando non sarò più inconscia?». «Col tempo». «Quanto tempo»? «Vedremo». (CON, pp. 110, 167, 172, 181, 188) A causa di una terapia troppo lunga e faticosa, durante la quale Elena è condannata a soffrire l’immobilità atroce del tempo oltre ad aver il cervello fiaccato delle interpretazioni dei sogni che il medico di continuo le propone, la Contessa decide di provare una terapia del tutto differente rispetto a quella junghiana di Zurigo. In chiusura del romanzo la donna si rivolge allora alla clinica Schwarzen di Vienna dove si attuano terapie esclusivamente farmacologiche con applicazioni terapeutiche di sostanze chimiche sulle funzioni psichiche. La clinica era una villa antica circondata da una foresta ai margini della città, fuori della città ma non tanto che non vi fosse una birreria di fronte al cancello. Entrò e bevve due birre. Era quasi felice. […] La città era adesso tagliata fuori dal mondo moderno, come tagliata fuori era lei, la clinica, un territorio moderno, vivissimo, morto, racchiuso, senza confini. (CON, pp. 191, 193) Con questa scelta Elena anticipa le vicende che Ottieri narrerà nell’Infermiera di Pisa dove il depresso alter ego dell’autore, ricoverato nella clinica di San Rossore, segue l’orientamento psicoterapico della psicobiologia dopo aver sperimentato gli insuccessi delle terapie freudiane e junghiane in cui «per la guarigione occorreva l’intera coscienza» (CON, p. 218). Il metodo di cura, per i tempi rivoluzionario, consisteva in una terapia farmacologica, e non dunque psicoanalitica, che avrebbe riguardato non più l’anima ma il corpo, non la parola ma la chimica. La psicofarmacologia è una scienza nata agli inizi degli anni Cinquanta con l’introduzione della cloropromazina da parte di Jean Delay e Pierre Deniker che necessita di molti ambiti disciplinari come la genetica, la biochimica, la neurofisiologia, la psicofisiologia per attuare un processo d’integrazione fisico nel cervello del malato più che provvedere alla cura della sua anima. Dopo alcuni decenni di successo incondizionato, si comprese che gli psicofarmaci avevano un’azione più sintomatica che causale, nel senso che l’andamento del disturbo psichico risultava modificato più nelle sue manifestazioni esteriori che nelle dinamiche profonde e il caso di Elena si mostrerà emblematico. Durante la prima fase della terapia chimica il paziente si sente guarito, riacquista forza non solo fisica ma morale, ritiene di aver superato il periodo più buio della propria disperazione e ha fiducia nel futuro: «Io sono completamente guarita. Né alcool né angoscia. Basta un mese alla clinica Schwarzen di Vienna. L’indomani mattina telefonò alla clinica Schwarzen e fissò una camera. […] Elena era 139 assurdamente felice come mai delle proprie gambe che nessuno ora vedeva. Non desiderava uscire di clinica» (CON, pp. 190, 196). Quando però le dosi dei farmaci diminuiscono a causa delle inevitabili assuefazioni, accade spesso che il paziente perda la sicurezza poco prima conquistata soffrendo la “zavorra farmacologia”, con conseguenze drammatiche nei casi più disperati come una maggiore depressione o anche tentativi di suicidio. Elena rientra in questa classe. Il vino riempiva Elena come una spugna. Cominciò a sentirlo nelle gambe gonfie. Fu la protezione delle gambe a spingerla a Zurigo. Arrivò sola, di sera, gonfia di whisky che aveva bevuto in treno per fronteggiare il terrore. […] Andò in bagno. Vide una After Shave Lotion, lasciata da un paziente, e se ne bevve una metà. Vide una lametta da barba lasciata da un paziente, sporca, per incuria non elvetica dalla Schwester del mattino. Si tagliò leggermente la vena interna del polso sinistro. Sentì il bruciore schifoso nello stomaco della After Shave Lotion, vide il sangue uscire dalla vena. (CON, p. 218) Oltre a essere psicosociologa, Elena è anche una depressa alcolizzata che soffre di «depressione endogena» (CON, p. 24), ovvero di una forma che insorge senza cause apparenti per cui si suppone che venga da dentro senza poter specificare la natura della sua formazione. Questo tipo di depressione è intesa come la forma classica conosciuta fin dall’antichità sotto la denominazione di malinconia, di cui si distinguono forme periodiche a decorso monopolare con fasi solo depressive, e forme cicliche con decorso bipolare che alterna alla fase depressiva quella maniacale. La depressione endogena prevede oscillazioni durante la giornata, con risveglio precoce nel primo mattino e il manifestarsi d’idee deliranti su diverse sensazioni quali colpa, rovina, incurabilità che scaturiscono dal senso di oppressione e angustia nella zona toracica. Un referto della Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Pisa recita per la paziente Elena Miuti: «Il protocollo rivela una struttura disarmonica, scarsamente conflittuale, riportabile piuttosto a un difetto di controllo e di integrazione alla vita istintivo-affettiva e difficoltà di adattamento» (CON, p. 26). Per Elena la forma di depressione endogena prevede nel risveglio uno dei momenti più difficili della giornata in cui la coscienza della vita appare più drammatica di una possibile visione della morte. Per superare questo blocco quotidiano la donna ricorre necesse est all’alcol per continuare a vivere: da qui la depressione si lega indissolubilmente all’alcolismo, concretizzando quel circolo vizioso del male che viene alleviato da un’intossicazione. Svegliandosi nel pomeriggio ebbe di nuovo l’ora agonica. Le avevano detto che nella depressione endogena, l’ora agonica al risveglio è naturale. Bisogna lasciarla sciogliere per superare, con dolorosissima incertezza, il crinale dalla parte della morte, e iniziare il declivio dalla parte della vita, movendosi piano piano a passettini con il massimo dell’ansia. È in questo lasso che spesso si impara a bere un whisky a digiuno per affrettare lo scioglimento dell’agonia convinta, logica, dura, inattaccabile dagli sciroppi lusinghieri della vita. […] L’ora agonica seguiva sempre il medesimo itinerario. Elena la scioglieva prima con il vino nudo a digiuno, aspettando che questo vino la riportasse sul dorsante della vita, fuori dal vischio lucido e pastoso dei sogni. (CON, pp. 24, 63) 140 L’ebbrezza alcolica, di cui si serve Elena per iniziare la giornata, si collega a una psicosi esogena passeggera marcata dalla quantità di alcol ingerito e dalla tolleranza del soggetto depresso. Nella prima fase dell’aumento del tasso alcolico nel sangue si riscontra un certo restringimento del campo della coscienza insieme a fenomeni di disinibizione con umore euforico, aumento dell’impulsività e della facilità di comunicazione, indebolimento della critica. L’ulteriore aumento dell’intossicazione tuttavia comporta un effetto narcotico e, nella fase depressiva che segue, una progressiva paralisi delle funzioni nervose centrali. Elena lotta da molti anni contro questa condizione apparentemente irrisolvibile; la depressione e il conseguente uso di alcolici le impediscono infatti un corretto svolgimento della propria esistenza. L’alcool arriva a occupare l’intero orizzonte delle sue percezioni e, in mancanza di meglio, Elena trova sollievo nei dopobarba; molti anni dopo Filippo Ciai soffrirà in Cery delle medesime sofferenze. Questa era una vita fatta per bere. Elena sapeva fino alla nausea che se l’alcool distrugge, prima fa rifiorire e sembra guarire dal suo stesso male. […] Ma qual è in pratica la vita di una irreversibile etilista spacciata? […] Un’etilista che, chiusa in clinica, per mancanza d’alcool beveva i dopo-barba degli uomini. […] Andò in bagno. Vide una After Shave Lotion, lasciata da un paziente, e se ne bevve una metà. (CON, pp. 63, 64, 218) Non avevo forse il diritto di profumarmi? Ne bevvi tre grandi sorsate. Mi sentì subito meglio anche se la colonia non è propriamente gentile al palato, alla gola. Raschia. […] Niente di strano. Un depresso ha crisi depressive, si dà all’alcol, sfiora il suicidio o si suicida. […] Non sono matto perché sono alcolizzato. Curo la follia con l’alcol. È a nasconderlo che mi vergogno. (CERY, pp. 21, 98, 117) Nel campionario dei malesseri sofferti da Elena, Ottieri ne evidenzia due che interessano aspetti della sessualità femminile: la frigidità e il vaginismo. Poiché l’orgasmo è continuamente bloccato da uno stallo mentale, la donna in tutto il romanzo non riesce ad avere rapporti sessuali soddisfacenti con i diversi amanti che tentano di recarle piacere. La frigidità, detta anche anafrodisia, si riferisce infatti all’incapacità della donna di raggiungere l’eccitazione nel coito. Se non di natura organica, questa inadeguatezza non si considera una malattia bensì un sintomo di conflitti nevrotici sottostanti che possono rinviare a numerose cause: rifiuto della propria identità sessuale, omosessualità latente, legami edipici non risolti, sentimenti di colpa nei confronti del piacere carnale, reminiscenze di esperienze negative, sentimenti d’insicurezza, disgusto per comportamenti erotici deludenti. Elena è sposata ma il marito e il figlio sono distanti non solo nel suo pensiero ma anche fisicamente: il primo vive in America mentre il secondo in un college europeo e non vengono mai nominati nel corso del romanzo, quasi la donna volesse farli evaporare nei ricordi: «Non si è ancora accorta che lei non chiama mai suo marito e suo figlio con i loro nomi. Eppure un nome lo avranno» (CON, p. 140). Elena tenta di sopperire a questa mancanza attraverso avventure amorose con 141 numerosi amanti (Pietro, Giorgio, Peter, Quint, Arnold, Giulio) senza mai trovare un pieno, ma nemmeno parziale, godimento. La frigidità comporta una totale anestesia sessuale relativa a diverse forme tra cui insensibilità vaginale con rispondenza limitata alla zona clitoridea, interruzione dell’eccitazione, oppure angoscia, tensione, insonnia, depressione subito dopo l’orgasmo. Elena sembra condensare tutti questi aspetti nell’arco dei suoi rapporti. Elena cade all’indietro sull’origliere, imperlata, sfinita, stanca, non di piacere. «Non sei venuta, vero?» disse Giorgio. «No». «E perché?». «E perché mi domandi sempre “E perché?”». «Perché non mi ami». «No, non lo sai…». Subito Elena si alzò per lavarsi e bere un whisky. […] Elena non gridava in proporzione, taceva, distesa sul pavimento. Mandò un balzo clitorideo allora che egli con un dito volle avere la prova dell’umido. Questo balzo fece scoppiare il siluro calabrese che si afflosciò nella donna. «Sei venuta?» chiese di fretta lui che l’aveva penetrata fino alla gola. «Io non vengo mai» disse Elena. «Ora vai». […] Arnold era molto eccitato. Trafficava con la mia camicetta, con il reggipetto e così stando vicino al mio petto sentiva meglio l’ansia cardiaca che mi sbatteva e mi immobilizzava. Avrei avuto bisogno di raccontargli i motivi del mio stato, ma ero contratta da non poter parlare. […] Io sentivo che stando alcuni giorni con lui avrei forse raggiunta quella confidenza non contratta da cui nasce l’orgasmo. […] Io ripetei «No» con tutto il mio cervello. «No» dissi «questa felicità non mi basta». Egli ammutolì, abbandonò la sua asta vestita alla mia mano che d’un tratto si ritrasse. Egli non ebbe così eiaculazione. (CON, pp. 30, 62, 117, 118, 170) Per il medico che segue Elena nella terapia, la sua frigidità si deve analizzare come un problema di relazione dovuto alla distanza che separa la donna dal marito e dal figlio; e una volta ricongiuntasi Elena con loro, la depressione (intesa dunque non endogena) e l’alcolismo apparirebbero come disfunzioni dell’umore non irrisolvibili. Le figure del marito e del figlio, così lontane e importanti per una corretta guarigione, ritornano spesso nelle indicazioni del terapeuta che intravede in loro i personaggi più indicati per ristabilire l’equilibrio psichico di Elena. Durante l’analisi Elena afferma, infatti, che la frigidità iniziò con il primo adulterio in quanto nei rapporti con il marito tale sintomo nevrotico non si era mai presentato. Secondo il medico, fin dalle prime sedute, avrebbe dovuto guidare se stessa; raggiungere il marito; la frigidità non era un problema sessuale ma di relazione, avrebbe dovuto ricongiungersi con il marito e con il figlio; non bere perché la depressione passa e non altera la personalità: l’alcool, come la schizofrenia, altera la personalità. […] «È una lettera che lei manda a se stessa e che la fa ricadere nell’inconscio, il problema di suo marito e di suo figlio. Non è vero?» «È vero». «Sembra che non sia vero». […] «Io non sono mai stata frigida con mio marito. Mi sono scoperta frigida al primo adulterio». (CON, pp. 42, 77) L’altro problema di cui soffre Elena è il vaginismo, contrazione spasmodica e dolorosa del muscolo della vagina che impedisce la penetrazione del pene. In assenza di una causa organica, i motivi vanno ricercati a livello psicologico dove il rifiuto del rapporto sessuale si esprime a livello somatico, oltre che con un’inibizione dell’eccitazione, anche con un comportamento volto ad assicurare la salvaguardia di tale inibizione. Giorgio, l’amante più importante di Elena, patisce i problemi sessuali della donna e tenta di comprenderli meglio studiandone i vari sintomi sui libri di 142 psichiatria che Elena, come psicosociologa, possiede in casa. L’articolo che lo interessa maggiormente è quello delle Funzioni sessuali nella donna e loro alterazioni, dove, oltre alla frigidità e alla disparemia, un’attenzione particolare viene posta al vaginismo: «Il vaginismo è uno spasmo involontario dei muscoli vaginali. Così il vaginismo può essere paragonato alla eiaculatio praecox o alla eiaculatio ritardata… Poiché i fattori psicologici che portano alla frigidità possono bloccare la funzionalità ovarica, questi sintomi non sono bloccati dalla libido bloccata, ma piuttosto da una mancanza di libido». Triste, Giorgio si avviò all’ufficio pensando di leggere più cose sull’argomento. (CON, p. 32) Elena tuttavia non è l’unica eroina ottieriana a soffrire di vaginismo poiché il problema sarà patito anche da un’altra protagonista femminile della sofferenza, Clara de Il divertimento che per molti aspetti assomiglia a Elena da potersi considerare una sorella letteraria. Entrambe sono donne sui quarant’anni, alcolizzate e abbandonate dai rispettivi mariti, che osservano svanire la loro bellezza tra storie d’amore senza futuro nell’irresistibile desiderio di trovare un uomo giusto senza tuttavia poterlo amare davvero. Appena a casa di Clara il ragazzo si spogliò e la spogliò. La trascinò sul letto e prese a leccarla. La leccava con una naturale sapienza, dalla bocca ai piedi. Ella gemeva, impazziva. […] Clara diventava sempre più pazza ed era felice che non la penetrasse; avrebbe dovuto confessare il suo vaginismo. Passavano le ore e il ragazzo non si stancava di baciarla ovunque e di leccarla tutta, davanti e di dietro. Muggivano tutti e due. All’alba egli la penetrò. Clara diede un grido di dolore che il ragazzo scambiò per un urlo di gioia. Poi il ragazzo si rivestì, le disse addio. (DIV, p. 110) Tra le diverse forme di alienazioni vissute da Elena, la solitudine appare come una condizione psicologica inevitabile, quasi una sintesi dei problemi sessuali e relazionali che la donna non è in grado di affrontare da sola né con il terapeuta. La solitudine nasce, infatti, dalla mancanza di significativi rapporti interpersonali e dalla discrepanza tra le relazioni umane che Elena desidera avere con quelle che effettivamente porta avanti nel corso del romanzo, le quali possono essere insoddisfacenti per la loro natura, numero, o incapacità di stabilizzarle. Ci vide l’apparire di una frangia della sua follia nascosta. Ma questo sentimento fu compresso da un altro vecchio: la propria solitudine. […] La solitudine desertica induce alla lotta per procurarsi la compagnia e non lascia spazio al mistero della vita. La solitudine voluta, placata, malinconica, mancante di tensione verso un altro induce quella sensazione che per tutta la vita, via via negli anni, aveva chiamato senso del margine, senso oceanico, senso d’irrealtà, dereismo, devalorizzazione, senso del mistero. (CON, pp. 45, 130) Nonostante le molteplici occasioni mondane in cui è invitata, gli incontri erotici con gli amanti, le conoscenze furtive durante i cocktails, o forse proprio per questo, Elena insegue disperatamente una parvenza di vita normale con affetti e sensazioni concrete ma senza percepire un’essenza vitale diversa dalla solitudine. Il suo essere Contessa, aristocratica nell’alterità, 143 distaccata dagli uomini perché incapace ad amare, assai abile invece a soffrire per il terrore di sentirsi inadeguata e poi abbandonata, la costringe a isolarsi dal mondo trovando l’unico rifugio accogliente nella malattia. Di solitudini Elena ne esperisce diverse forme: c’è un senso in cui essa è un dato invalicabile dell’esistenza che non permette alla donna di uscire dal suo mondo e dal modo di percepire il reale, rimarcando l’invalicabilità della propria coscienza. Esiste anche una solitudine che favorisce esperienze di senso ulteriore a quello comunemente condiviso; in questo caso la malattia aiuta la protagonista a trovarsi spesso oltre la realtà effettiva. Infine la solitudine può derivare dalla percezione del mondo come ostile, negativo o indifferente, che induce la donna a rifugiarsi in sé finché non sopraggiunge anche il disgusto della propria persona, successivo al distacco dell’esistenza che non riesce a conferire altro senso se non la prigionia della propria individualità. Nemmeno lei sapeva come la guarigione della clinica si sfilacciasse giorno per giorno nella solitudine della sua casa, fra i suoi oggetti. Dava la colpa alle telefonate, agli inviti, che in fondo le facevano piacere; ma ella riteneva di conoscere una ragione più profonda nel preferire la solitudine della clinica, specie di Vienna, alla solitudine della casa di Milano: le occasioni, e tornava l’ansia delle occasioni, ferma, fissa, ormai da tempo. Era sicura a Vienna di non aver occasioni, aveva troppe occasioni a Milano. La mancanza delle occasioni le toglieva la noia, l’ansia, il privilegio e la paura. (CON, p. 199) Eppure esiste per Elena una solitudine migliore di quella consueta: si tratta dell’isolamento percepito nella clinica-prigione da cui scaturisce paradossalmente il valore positivo del lager dove la necessità del vivere appartati, in estrema solitudine e senza contatti esterni, annulla le scelte e le occasioni rendendo alla fine giustizia alla donna. Una vita sola è possibile, giusta o sbagliata che sia, serena o tormentata, quieta o drammatica. Il segreto sta nella possibilità, o meglio nel non averla per non stare male. La disperazione e la schizofrenia sono l’approdo più diretto dei sintomi provati dalla protagonista. Per quanto riguarda la disperazione, essa è un sentimento che accompagna Elena nella convinta persuasione di una sconfitta esistenziale, inevitabile e irreparabile, causata dall’incapacità di sopportare rifiuti, negazioni, abbandoni, e derivata da una limitata soglia di tolleranza alla frustrazione del desiderio o alla sopportazione del dolore: «Io nel giardinetto pativo una contrazione d’anima infrangibile. Scoppiavo disperatamente senza mai scoppiare» (CON, p. 112). La disperazione che implode si riferisce anche al rapporto della donna con se stessa che, a causa della sua finitezza, non riesce mai a essere all’altezza delle proprie possibilità. La schizofrenia cui Elena fa riferimento riguarda le sensazioni provate da Renée nell’Irrealtà quotidiana: «Non è come se provassi il vuoto; io sono il vuoto» (IQ, p. 35). «Come ho letto che diceva una pazza: “Non sono nel vuoto, sono il vuoto”. […] La schizofrenia vista da vicino è il mistero del mistero della vita» (CON, pp. 121, 136). Elena utilizza quest’espressione legata alla schizofrenia poiché tale sentimento si 144 staglia in alcune pagine del romanzo accompagnando le traversie esistenziali della protagonista insieme a spifferi e soffi terrificanti che si coagulano nell’incomprensibile spasimo dell’esistenza. Aveva un sintomo fisso, uno spiffero anche di un capello, il soffio del mistero della vita. Per un attimo di tempo la portava via come una brezza triste. […] Nella relazione tesa con gli altri, non avvertiva il soffio del mistero della vita. […] Tornando sola, quando fu nel punto più basso della concavità solitaria, ferma davanti al portone di casa, ebbe un soffio di mistero della vita e la necessità, questa volta, di fermarlo. (CON, pp. 11, 15, 130) Poiché Elena soffre di depressione endogena, è interessante rilevare il collegamento che lei stessa compie con la schizofrenia in quanto la forma depressiva, in alcuni casi particolari, può sovrapporsi alla sintomatologia schizofrenica o sostituirsi a essa come forma intermedia tra due classi: in questo caso si parla di sindrome marginale che sfugge a un’attribuzione precisa. Per tutte queste forme e sintomatologie si tratta di entità cliniche di difficile isolamento che presentano un’eziologia multideterminata anche per la presenza in profondità di conflitti psicotici mascherati in superficie da meccanismi di difesa di tipo nevrotico. Giova ricordare a tal proposito le definizioni che Ottieri, con molta ironia, tracciava nel proprio quadro clinico attraverso le quali si comprendono i personali disturbi attribuiti ai suoi personaggi: Non sono un malato ma un policlinico… Un congresso medico da solo. […] Modestamente la mia vita è stata un calvario. […] Quanto all’esperienza del male, io ho sempre avuto una sintomatologia molto violenta: non è che io fossi solo depresso, ma depresso agitato. […] Poi non mi sono limitato alla depressione, io. Conosco gli attacchi di panico, il DOC. […] Avuto anche quello. Alla fine, dopo essere arrivato completamente astemio fino ai quaranta, pure l’alcolismo. […] Io sono legato al primato della sofferenza. Io batto tutti. […] Io conosco tutte le cliniche d’Europa, sono stato ricoverato ovunque, potrei scrivere una guida come quella dell’Espresso per i ristoranti. (in E liberaci dal male oscuro, pp. 424-430) Elena si presenta nel romanzo anche come una scrittrice dimostrando una spiccata attitudine per lo studio interiore dell’individuo, soprattutto se malato, grazie ai decennali approfondimenti negli ambiti della psicologia, psichiatria e dell’analisi terapeutica che lei stessa ha vissuto, o meglio sofferto, in prima persona: «Ho sempre sostenuto che valeva di più il giro intorno al cervello di uno schizofrenico che il giro del mondo» (CON, p. 56). Elena viene ammessa dai Dottori della clinica K. durante i colloqui con altri pazienti considerandola come una praticante; inoltre prende parte alle discussioni e indica a volte le possibili terapie da seguire con lucidità e fermezza quando si tratta di altri malati, mentre con se stessa non dimostra il medesimo equilibrio. L’analista che la segue tende, infatti, a considerare quest’aspetto come preminente: Elena non potrà mai essere una brava psicoterapeuta se prima non risolve i propri disturbi mentali, e nello sviluppo del romanzo si delinea con forza tale condizione: la donna viene ammessa nei consulti più come una educata habituée della clinica che in qualità di analista. 145 Ma non solo di psiche la protagonista sembra interessarsi, poiché è sul versante della sociologia che i suoi lavori riscuotono un discreto successo. Nella prima scena del romanzo Ottieri focalizza un avvenimento importante: Elena non prende il solito treno che da Milano la porta a Zurigo per la terapia, bensì «un supertreno per Roma delle otto meno cinque» (CON, p. 7) che la condurrà fino a Napoli per partecipare a un dibattito, organizzato dalla Rai, sulla trasposizione televisiva di un suo precedente romanzo, La fabbrica sul mare, in altre parole Donnarumma all’assalto intendendo i riferimenti autobiografici dell’autore. Anche in questo caso, dopo Zurigo sul versante clinico, Ottieri concede a Elena un altro ritorno al passato, in quel meridione dove visse e ambientò uno dei suoi più fortunati romanzi: «Quando abitava a Bagnoli [le luci] le veniva a vedere tutte le sere, quindi fuggiva perché nessuna città, a causa della miseria, era più triste di Napoli la notte» (CON, p. 13). Il romanzo-documentario La fabbrica sul mare è la «storia di un Capo Personale donna, psicosociologa e bella, che doveva scegliere scientificamente cento operai su quarantamila domande per una nuova e snella fabbrica costruita a Pozzuoli, librata su un giardino» (CON, p. 14). Il testo viene trasportato su pellicola ma nella versione televisiva alcuni elementi divergono dal testo: ad esempio il selezionatore del personale è un uomo affascinante che, oltre alle valutazioni del personale, trova il tempo per avventure erotico-galanti che nel libro non c’erano. Piccole differenze imposte dal gusto del pubblico che tende ad apprezzare tali diversioni, mentre la scelta del sesso del selezionatore fa scaturire una riflessione sui già allora deformati meccanismi del cosiddetto auditel. Elena rivide se stessa impersonata da un uomo (il libro era autobiografico), attore virile e attraente alla prima prova impegnata. […] Coloro che tengono le sorti dello spettacolo l’avevano voluto trasportare da decine di disimpegni western all’impegno sociale, per premiarlo. Inoltre qualche deputato, spostato a destra, avrà preteso che anche in un’industria d’avanguardia, romantica, sul mare, il ruolo di sceglitrice, smistatrice, controllatrice di 40 mila uomini, non si poteva per il video affidare a una femmina, come nella realtà. (CON, pp. 14-15) La reazione dell’assemblea alla visione del telefilm non è positiva. Si critica Elena perché, lei milanese, interpreta la disoccupazione e le disfunzioni sociali dell’Italia meridionale da una prospettiva prettamente antropologica, criticando gli uomini del sud senza un’adeguata riflessione: «Voi, signora, o signorina, avete portato uno spettacolo, chiamiamolo così, che lede il nostro sud in tutto il mondo» (CON, p. 15). Dopo numerose e aspre disapprovazioni, la psicosociologa scrittrice tenta di chiarire le sue posizioni in merito alla questione meridionale e alle responsabilità politiche, chiedendo in primo luogo se qualcuno avesse letto il libro. Alla risposta negativa dell’intero uditorio, Elena coglie un aspetto decisivo del problema, oltre la storia, la politica, la società o l’antropologia: si tratta del «complesso d’inferiorità» che cresce come un sintomo senza all’apparenza arrestarsi mai: 146 Mi fate diventare razzista perché voi siete razzisti. Ora mi prendo una pausa e vado al bar. Il vostro complesso d’inferiorità negli ultimi anni è diventato obeso. […] Il vostro complesso d’inferiorità invece di diminuire cresce, come un bambù. Lo vedo crescere come un bambù, decine di centimetri al giorno. Il vostro complesso d’inferiorità sta al livello di guardia. Questo ho il dovere di riferirlo al nord e al sud, dove che sia, pur con tutte le sue giustificazioni storiche. […] Vi esorto non alla storia ma all’attualità. Il vostro complesso d’inferiorità non ve lo sbatto in faccia, se voi non mi sbattete in faccia quello che certamente chiamerete il mio complesso di superiorità. Ho solo scritto un libro che, insieme ad altri, vi ha più aiutato e giustificato al mondo. Voi sapete che si tratta dello scontro fra industria settentrionale ricca e agricoltura e pesca povere. (CON, pp. 19-20) Con l’escamotage del telefilm ripreso dal romanzo, e del dibattito nella sede Rai di Napoli, Ottieri attraverso la Contessa può chiarire alcune incomprensioni rimaste in sospeso dopo la pubblicazione di Donnarumma all’assalto. «Ho solo scritto un libro» ammonisce Elena che giustifica la condizione degli operai nel sud in un contesto storico-sociale molto particolare, quello del boom economico in un’Italia scossa da scandali avvilenti, degradi urbanistici e congiunture economiche (il contro-boom). Sulle distorsioni sociali scaturite dal miracolo economico Ottieri intervenne non solo con i suoi romanzi industriali che avevano una prospettiva ben definita; in un articolo scritto nel dicembre del ’51 e inviato, con lo pseudonimo di Vittorio Marchi, al direttore dell’«Europeo», Ottieri analizza il falso ottimismo di moda in Italia quale specchio per le allodole di una crisi già incombente. Caro Direttore, l’Italia oltre ad aver perso la guerra, ha perso anche il dopoguerra: le cose lo dimostrano tutti i giorni. Basta viaggiare in terza classe. Il treno Venezia-Milano, ad esempio, di domenica 9 dicembre di sera, era un treno da guerra perduta e perduta di recente, un treno come quelli della NapoliRoma via Cassino del 1944 o ’45. […] Si vorrebbe oggi che tutti gli italiani fossero ottimisti, per paura della loro coscienza e del loro pessimismo. […] Ci vuole il coraggio necessario per capire e affrontare dal basso le strutture di una società e i loro dilemmi, per capire la differenza sostanziale che corre fra quelli che debbono essere pessimisti, e fra quelli che possono essere ottimisti e vogliono che tutti lo siano. (Dicembre ’51) Solo una lettura superficiale del romanzo (La fabbrica sul mare-Donnarumma) potrebbe far pensare a una critica di Ottieri nei confronti del sud, poiché la concreta forza dell’opera s’insinua nella denuncia e nella partecipazione attiva di uno scrittore engagé dinanzi a una realtà sbagliata. Il sud torna in auge anche in altre pagine di Contessa quando Elena «ricordava come fremeva che la mattinata dei test finisse perché sarebbe voluta andare subito a Capri, a Mare-Moda» (CON, p. 26). Capri è un luogo importante nella vita e nella letteratura di Ottieri; per quest’ultimo aspetto l’isola sarà l’approdo del viaggio di nozze di Giada e Tomaso nella Psicoterapeuta bellissima tra orge pseudo-intellettuali, mondanità, attenzione per l’ambiente e un romanzo da scrivere: Siamo in viaggio di nozze al Quisisana di Capri, nell’esplosione della primavera. […] La partouze si svolge non solo a livello sessuale, ma anche verbale. […] C’è, a Capri, rispetto per l’ambiente? […] Il suo 147 sguardo è attratto da uno smilzo romanzo che s’intitola: Delitto a Capri. S’immerge nella appassionante lettura. […] A Capri il rispetto dell’ambiente va rispettato più che in ogni altro luogo del mondo. (PB, pp. 11, 14, 16, 19) Qualche anno prima di morire, Ottiero volle tornare a Capri con la moglie. C’era stato tanti anni prima. Aveva desiderio di rivederla. Prese una camera in un grande albergo e non ne uscì mai se non per ripartire. Andai a trovarlo, teneva la finestra aperta, ascoltava i suoni del mondo esterno, senza poterlo raggiungere. Le gambe gli si erano bloccate. Ma come ti è passato per la mente di venire proprio qui, dove non si può fare a meno di camminare, gli dissi. Ne avevo voglia, mi rispose. Quando giunse il giorno della partenza, si fece dare un passaggio da uno di quei veicoli elettrici che usano i trasportatori dell’isola. Andò via insieme alle sue valigie. Capì che Capri era cambiata, glielo dicevano tutti, ma lui dovette venire ad annusare. Fu uno dei suoi splendidi capricci. (Silvio Perrella in CRO, p. 14) La difficoltà di deambulazione è sofferta anche da Elena che in un passo di Contessa esprime l’orrore del fare movimento senza scopo, seguendo un principio celebre di Ottieri che era solito prendere «un taxi per andare dal salotto alla cucina». Tutti le dicevano che doveva fare del moto per rimanere giovane. Ella voleva a ogni costo rimanere giovane e rifiutava il passare del tempo: ma le faceva schifo il moto in se stesso, sia nelle foreste, nei centri eleganti delle città, nelle periferie, per i campi. Per farlo doveva appoggiarsi a una persona di fresco amata, nuova, o alla ricerca dell’alcool. Piuttosto del moto restava a letto. (CON, p. 42) Nella pagina iniziale di Contessa si evidenzia come il romanzo La fabbrica sul mare avesse ricevuto un discreto successo fino alla rappresentazione televisiva45 e al successivo incontrointervista alla Rai di Napoli. Elena è una scrittrice che ha dovuto abbandonare le velleità universitarie di un’improbabile carriera come docente a causa dei suoi disturbi psichici, senza tuttavia rinunciare allo studio della letteratura nemmeno nei periodi più difficili della malattia, anzi lo scrivere, come già appurato per il recluso nel lager di Zurigo, si presenta quale «salvagente» per continuare a vivere. Elena è concentrata su un saggio dal titolo provvisorio Che cosa sarebbe accaduto se Cesare Pavese si fosse curato? che riguarda Pavese, il suo male di vivere, il suicidio, la coerenza nel togliersi la vita, lo scrivere che nasceva da uno stato mentale infelice. Il rapporto di Elena con la letteratura è molto particolare: la donna non riesce a leggere nessun libro perché è distratta e della letteratura sembra interessarsi davvero poco. Non legge nemmeno i quotidiani o le riviste tralasciando del tutto i romanzi ma non per superiorità o alterigia, semplicemente perché non le interessano e non riesce a concentrarsi. Ella aveva troppi libri e non riusciva a concentrarsi su nessuno. Non riusciva a concentrarsi nell’oggettivazione di un libro o di un pensiero fuori di lei, perché doveva e poteva pensare solo di se stessa. […] In quel periodo non leggeva. Pensava, come se leggesse sempre lo stesso libro del suo cervello. […] 45 Anche in questo caso Ottieri riesce a filtrare, attraverso la sua Contessa, esperienze realmente vissute: il romanzo di Elena, La fabbrica sul mare, riflette la vicenda di Donnarumma all’assalto, scritto nel ’59 e trasformato in un film nel ’72. 148 Annoiata da queste vecchie riflessioni e definizioni, non potendo tuffarsi nella lettura di un appassionante romanzo o di un saggio illuminante, restava a letto, fumava molto. […] Ella non aveva letto gli ultimi studi su Pavese, poiché non poteva leggere. (CON, pp. 10, 24, 25, 51) Nelle azioni di Elena filtra l’atteggiamento di Ottieri nei riguardi della letteratura. Anche lui non leggeva quasi nulla e in numerose circostanze, ricavate dalle sue opere o da alcune interviste rilasciate, egli ricordava che, dopo aver letto moltissimo durante l’adolescenza, in seguito la lettura non lo sollecitava affatto. Ottiero Ottieri era uno scrittore, non c’è dubbio; però non rassomigliava a nessuno degli scrittori che mi è capitato di conoscere. Della letteratura gli importava poco, e quando parlava di libri ne parlava quasi distrattamente. A lui stavano a cuore le idee: le idee più dei libri. […] Era raro che in lui scattasse un vero interesse per uno scrittore. Parlava più volentieri con la filippina che lavorava in casa, per non dire dei tanti medici che è stato costretto a conoscere. (Silvio Perrella in CRO, p. 7) Per quanto riguarda lo scrivere, la situazione per Elena non è migliore rispetto alla lettura. Il suo comporre nasce da un travaglio faticoso e poco lineare che deve fare i conti con realtà non favorevoli come i periodi di depressione che bloccano la creazione letteraria. Il prodotto che affannosamente emerge sulla pagina risente di un forte autobiografismo in quanto Elena può scrivere solo di se stessa, concetto corrispondente alla bio-letteratura di Ottieri. Ugualmente parve a lei d’un tratto di nutrire mille idee sul suo argomento e di poter cominciare a scrivere subito, dopo mesi e mesi di silenzio. Tremava. […] Elena alzò la penna dalla pagina. Scriveva, come sempre, come di se stessa. […] Pensò che se scriveva non poteva scrivere che di se stessa, e che non era una psico-sociologa malata ma una malata psico-sociologa. (CON, pp. 51, 64) La ripresa nella scrittura affiora per Elena dopo mesi di silenzio ed è quello che accade a Ottieri che dalla pubblicazione del Campo di concentrazione nel ’72, impiega quattro anni prima di licenziare Contessa nel ’76. Questo è l’intervallo di tempo più ampio della sua carriera letteraria eguagliato solo in un’altra circostanza, dai quattro anni trascorsi dai poemetti Di chi è la colpa pubblicati nel ’79, al romanzo I due amori dell’83. La produzione di Ottieri è stata molto sostanziosa, più di trenta opere che attraversano cinquant’anni di attività, e ciò è dovuto alla «graforrea» (ISP, p. 166) con cui scriveva. Amava scrivere rapidamente, la materia della vita la mitragliava sulla pagina e passava oltre. Ho finito un nuovo libro, ti diceva, e ne sto scrivendo un altro. Ma quando scriveva? E quando leggeva? È difficile dirlo, perché il luogo dal quale prendeva vita e forza la sua scrittura era un luogo segreto e buio, anche quando potevi guardare un suo taccuino e anche quando ti sembrava possibile una spiegazione critica. (Silvio Perrella in CRO, p. 7) 149 Efficaci i termini usati nel delineare il profilo di Ottieri scrittore: il verbo «mitragliare» condensa l’attività frenetica e in apparenza incontrollata nel riversare sulla pagina idee e sofferenze in modo diretto senza filtri o intermediazioni inutili, come già evidenziato nel Pensiero perverso. Inoltre la corrispondenza dei diversi testi si denota non solo da un punto di vista cronologico ma anche tematico, come dimostra l’intrecciarsi di motivi che si sovrappongono incessantemente nelle sue opere. Infine, la profusione di testi che senza tregua assalgono gli editori provoca spesso dei problemi di pubblicazione come accadrà a Filippo Ciai in Cery. Telefonai al Grande editore per un mio piccolo libro di poesie, egli mi disse quasi infuriato che non ne capiva nulla e che, se insistevo, dovevo mandarlo al Direttore editoriale. Così feci. Invitai a colazione il Direttore editoriale, uomo distinto e piacevole che però del mio libro tacque completamente. […] Dopo tre anni il libretto uscì. Andò bene, ma io, durante l’attesa, avevo scritto per ingannare il tempo, un altro libretto. Quando lo annunciai al Direttore, ribatté che io producevo più di quanto qualsiasi editore potesse pubblicare. (CERY, p. 96) In Elena si riscontrano sentimenti quali il terrore, lo spavento e la paura dinanzi alla pagina bianca che rimane vergine nonostante le idee che opprimono la sua mente incapace di produrre una sola riga. Il rapporto fisico con il foglio, la scrivania e la penna, diventa inquietante: i mezzi d’espressione si presentano come ostili assistenti alla creazione letteraria. Nei momenti di minor pressione, tuttavia, la scrittura si dimostra salvifica offrendo un raro barlume di felicità in una vita disperata, e anche in questo caso si possono comparare le medesime traversie vissute dal prigioniero nel Campo di concentrazione, come l’attaccarsi alla scrittura per evitare una morte certa, o anche la corrispondenza tra vivere e scrivere. Il libro che stava scrivendo, ora le faceva paura. Piena di idee, l’appoggiare il pennino sulla carta, cioè il concreto, le dava un blocco panico. […] Io portavo dentro di me la gioia dell’aver scritto bene, che non si spengeva con la realtà della sera, che rendeva più brillanti le luci della sera e l’addormento era fiero, dolce, gettato in un continuo. […] Scriveva con una difficoltà particolare. Nel cominciare. Il passaggio dal vivere allo scrivere avveniva con spavento, lo rimandava; ella si allontanava dalla scrivania, si riavvicinava. Esitava sofferente. Scrivendo, la sua fantasia doveva concentrarsi e di questo imbuto ella aveva paura. (CON, pp. 204, 207, 210) Il Dottore che analizza Elena è molto interessato a quest’aspetto peculiare rilevando tuttavia che l’essere una scrittrice può portare, nel corso dell’analisi terapeutica, una distorsione nel rapporto medico-paziente quando, nel raccontare le proprie sofferenze, la donna utilizza le stesse come materia da romanzo. Se da una parte il racconto romanzato può apparire interessante all’ascolto, la vera finalità della terapia, la guarigione, sfuggirebbe a entrambi. La Contessa si dimostra cosciente di questo fatto non negando comunque quella propulsione inconscia nel ricercare una poesia assoluta che avvolge, in un unico tratto, la vita con la scrittura. Stare male significa per Elena anche 150 la possibilità di raccontarlo, altrimenti la malattia, la letteratura, la terapia, la vita, non avrebbero alcun senso né di essere vissute e tanto meno narrate. «Passeremo alcune sedute a raccontarci il trauma. Forse mi annoierò di meno perché lei è una pessima scienziata, ma una buona narratrice». […] «Ma con questo tipo di analisi in cui lei mi racconta un romanzo e io mi limito, per ora, a ascoltarlo, non facciamo le parti giuste». […] «Ah, sì. Mi scusi, ho qualche versificazione repressa. Qualche volta mi sembra che noi due facciamo del teatro. Del buon teatro». (CON, pp. 145, 161, 165) L’immagine del teatro, espressa qui dalla Contessa, ritorna anche nell’Infermiera di Pisa dove la stanza della clinica si trasforma in un palcoscenico in cui il paziente, i medici e le infermiere sembrano interpretare ognuno un ruolo quasi riverberando atmosfere comiche proprie della Commedia dell’arte: «Facevamo intellettuale teatro. / Troppo poche volte ho agito con il ventre. / Stasera sono disperato. […] Per i chirurghi il vecchio / recitava una parte. / Lo chiamavano l’habitué» (IP, pp. 54, 66). Il libro che Elena con tanta difficoltà sta tentando di scrivere, «lavoro che ora le sembrava una trovata, esaurita tutta nel titolo» (CON, p. 42), ha come argomento i pensieri sul suicidio che hanno caratterizzato la vita di Pavese ed espressi nelle pagine de Il mestiere di vivere46. Ottieri collega le vicende di Elena al prigioniero del lager di Zurigo attraverso il Diario che letto, analizzato e studiato in diverse circostanze (nella Linea gotica, L’irrealtà quotidiana, Il campo di concentrazione, Contessa), si presenta come un’opera determinante nella comprensione del Male che influenza una vita intera. Le attenzioni rivolte da Elena per quest’opera si concentrano sulla depressione come malattia storica, sulle medicine che erano in uso durante la vita di Pavese e su quelle sperimentate solo dopo la sua morte che forse avrebbero potuto salvarlo. Da questo presupposto Elena immagina una cura possibile ma non più attuabile sulla mente dello scrittore. Il Male che serpeggia nelle pagine del Diario mostra una vita sbagliata, sofferente, inadatta a confrontarsi con il mondo per un forte senso d’impotenza non solo sessuale che ha tormentato Pavese nei rapporti con le donne fino a evidenziare una trasparente misoginia, ma anche esistenziale nel non esser mai riuscito a integrarsi nei freddi meccanismi di una società a suoi occhi meschina. Il suicidio compiuto da Pavese in una stanza dell’albergo Roma di Torino, nella notte tra il 26-27 agosto del ’50, fece grande clamore per la natura del suicida, scrittore celebre e vincitore nel giugno precedente del premio Strega per La bella estate. Mentre le ipotesi in merito si sovrapposero tra delusione amorosa, crisi ideologica, impasse creativa, il suicidio non fu certo una sorpresa per Pavese in quanto l’estrema alternativa alla vita era stata pensata da molti anni e architettata proprio nelle pagine del Diario più che in qualsiasi altra opera. La tentazione del suicidio si faceva sempre 46 PAVESE Cesare, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950 (1952), cit. 151 più lucida con il passare del tempo e quando la disperazione toccò il suo apogeo allo scrittore non rimase che mettere in pratica l’idea corteggiata per tutta la vita. Attraverso le pagine del Diario si comprende che per Pavese la patologia sottesa al suicidio rinviava a sfondi depressivi, e in particolare alle depressioni endogene rispetto a quelle nevrotiche e reattive. Nella predisposizione al suicidio si è riconosciuto il ruolo importante ricoperto dall’isolamento interumano, strettamente legato alla perdita di significato e di senso della propria vita, evidente nell’esperienza dello scrittore. Nel Mestiere di vivere le motivazioni del suicidio sono affrontate da molteplici prospettive e, in ultima analisi, il togliersi la vita si evidenzierebbe come un gesto eroico, l’affermazione della dignità dell’uomo davanti al destino quale prova definitiva di vitalità e volontà. Seguendo la cronologia dei riferimenti al suicidio presenti nel Diario, tale scelta è presente all’inizio con dei freni, «il suicidio… non consumerò mai» [10 aprile ’36] (MV, p. 32), ma dal gennaio ’46 si presenta tra le soluzioni più auspicabili e fattibili, a rilevare il vuoto che sottostava ai rapporti interpersonali e all’attività di scrittore di successo. Il suicidio ha rappresentato una protesta nei confronti di una frustrazione che non riusciva più a sopportare, con l’intento d’indurre negli altri sentimenti di colpa e di solidarietà; mentre a livello sociologico, il tipo di suicidio in cui incorre Pavese si definisce egoistico in quanto egli non sentendosi integrato in modo consono nella società fu costretto a fare affidamento unicamente alle sue risorse personali. Elena va oltre tali questioni: la sua attenzione, o meglio il suo studio è incentrato su un altro aspetto, davvero rilevante per Ottieri, che si è spesso trascurato riguardo alle interpretazioni sul suicidio di Pavese, ovvero «se si fosse curato che cosa gli sarebbe successo?» (CON, p. 41). Il lavoro di Elena prenderebbe dunque un taglio più clinico che esistenziale o letterario individuando nei farmaci, e soprattutto nella loro mancanza, uno dei motivi della morte prematura di Pavese, evitabile se alcune terapie, a base di «Largactil» ad esempio, fossero state intraprese solo qualche anno prima. Attraverso tale analisi condotta da Elena su uno scrittore suicida, Ottieri vuole evidenziare un errore fondamentale nella trattazione dei disturbi depressivi, quello dell’incomprensione e ignoranza che per molti secoli, e ancora nel Ventesimo, hanno accompagnato lo studio delle forme depressive erroneamente considerate solo manifestazioni di malinconia e di scarsa volontà d’animo. Anche il cervello dunque, e non soltanto l’animo o le circostanze della vita, può influenzare gli stati depressivi come già rilevarono le riflessioni del Professor Cassano a margine del Campo di concentrazione. A Pavese mancò una terapia in grado di sviscerare le problematiche esistenziali da lui ritenute insuperabili e che lo accompagnarono per tutta la vita senza intravedere alcuna possibilità di miglioramento. Ottieri percepisce l’esperienza di Pavese, come uomo e letterato, molto vicina alla propria evidenziando tuttavia una differenza sostanziale 152 relativa all’atto di suicidarsi: forse Ottieri non arrivò mai al suicidio anche grazie alle terapie e ai farmaci contro i quali continuamente lottava, mentre Pavese non poté usufruire di tale possibilità. Elena confessò di non ricordare nel Diario di Pavese il minimo accenno a un desiderio di terapia. […] Il Largactil è nato nel 1952, il Toffranil, il suo derivato, nel 1954. Cesare Pavese è morto nell’agosto del 1950. Nel Mestiere di vivere si parla di frequente di due, tre, o più attacchi d’asma al giorno che Pavese curava con la pipa. Si ha motivo di credere che questi attacchi d’asma fossero attacchi d’ansia. La prima domanda è: come, durante il fascismo, durante la seconda guerra mondiale, nel primo dopoguerra si curava la sindrome ansioso-depressiva? […] Non aveva alcuna voglia di scrivere su Cesare Pavese. L’argomento la interessava unicamente come preparazione della mente al suicidio. È il tedio universale disperato che fa pensare al suicidio o una contrarietà personale. Non sapeva. […] Se Cesare Pavese si fosse curato forse non si sarebbe ucciso così presto. Ma avrebbe avuto una vita cruda, crudele. […] Non riusciva a lavorare sull’ipotesi di un Pavese curato, guarito. (CON, pp. 50, 51, 57, 58, 63) La mancanza di una terapia e l’incomprensione della malattia sofferta da Pavese lo hanno condotto al suicidio. Eppure, e qui si entra nel secondo aspetto della questione, proprio tale deficienza clinica ha permesso allo scrittore di non soffrire più togliendosi appunto la vita. Sembra un circolo vizioso, tuttavia le riflessioni di Elena si articolano con lucida chiarezza: una terapia avrebbe forse impedito il suicidio, ma il continuare a vivere sarebbe stato più atroce della morte liberatoria. Riguardo al concetto di libertà nel suicidio, la psichiatria ha rilevato come sia problematico individuare nel suicidio una reale capacità di libera decisione, ossia di una libertà nella scelta intesa non astrattamente bensì immersa nel contesto di una prassi e di una indagine clinica. Ed è proprio quello che Elena vuole comprendere studiando però i sintomi di un uomo già deceduto mediante un’autopsia dell’anima che possa individuare una possibile cura: «Si concentrò sulla cura adatta per Pavese, sulla cura adatta per un morto» (CON, p. 76). A questo proposito è interessante rilevare come Pavese, ancora in vita, si sentisse già esanime: «In fondo, tu scrivi per essere come morto, per parlare fuori del tempo, per farti a tutti ricordo» [10 aprile 1949] (MV, p. 367). In ultima analisi il suicidio è stato «coerente», e su questo aggettivo Elena costruisce il proprio lavoro: la coerenza si mostra come l’elemento base della drammatica vicenda poiché Pavese non aveva alternative possibili se non quella d’interrompere la vita in modo logico e necessario: «Ho lavorato al libro Pavese-Coerenza, cominciando a sostenere la logicità e necessità del suicidio in alcune circostanze. […] Scrisse una serie di paragrafi su Pavese. Il primo appunto fu: Non amando la vita è coerentissimo togliersela» (CON, pp. 104, 143). Da quest’ultimo aspetto si può risalire alla questione del rapporto tra Pavese e Ottieri in merito al suicidio messo in pratica o meno, con l’evidenza di una difformità sostanziale: Ottieri non si tolse la vita pur auspicandolo per molti suoi alter ego perché, a differenza di Pavese, nel profondo amava e molto la vita. Nell’Irrealtà quotidiana, nel capitolo Il tempo ammalato della seconda parte La psicoanalisi e l’utopia psicologica, Ottieri riflette sulla natura del suicidio connesso al 153 sentimento d’irrealtà: il suicidio possiede una necessità e una logicità narcisistiche che lo rendono un perfezionamento supremo e concreto della coscienza dell’uomo, da non confondere con l’idea del suicidio che si staglia come una perfetta equidistanza narcisistica dalla vita ed «è più una rivelazione e intuizione terminale che una vera scelta» (IQ, p. 103). Il suicidio in sé è materiale, comportamentistico, più vicino a una scelta rispetto all’idea, anche se non si può sapere con precisione se tale scelta sia volontaria: «Quando il mio simile, quando io stesso, superiamo (vogliamo superare? Siamo costretti a superare?) il male del suicidio per porlo in opera, non è cosa conoscibile» (IQ, p. 104). Il tempo è un elemento determinante nell’analisi della gestazione del suicidio in quanto lo stato depressivo è solito incatenare il tempo che rende tangibile il Male il quale, a sua volta, si palesa come una malattia del tempo. Come nel Diario di Pavese, il tempo, insidioso, si rivolta contro l’uomo: mi diventa il nemico peggiore e chiaramente l’essenza del dolore è il tempo ammalato. Questo stesso dolore che può allontanarmi dal suicidio perché non voglio attraversarne l’ultimo pezzo di tempo desertico – può proiettarmi agli occhi interni l’idea del suicidio. L’idea del suicidio si disegna sullo schermo come impossibilità di tollerare l’abbozzo del domani e le concrete ore di oggi. (IQ, p. 107) Anche Pavese oscilla, a suo modo, tra il suicidio e l’idea dello stesso. Il Male di vivere è come un filtro che costringe il potenziale suicida a continuare l’esistenza covando continuamente l’idea ma senza l’atto. Se il motivo del suicidio percorre l’intero Diario fin dalle prime pagine, è senza dubbio nella parte finale, quella riguardante gli ultimi mesi di vita tra luglio e agosto ’50, che Pavese propende per l’atto concreto in quanto, riprendendo la citazione di Ottieri, appare evidente l’«impossibilità di tollerare l’abbozzo del domani». «Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono» [17 agosto 1950]. «Basta un po’ di coraggio. Più il dolore è determinato e preciso, più l’istinto della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio. Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più» [18 agosto 1950]. (MV, p. 400) Con queste ultime frasi lapidarie del 18 agosto termina il Diario e si possono rilevare delle coincidenze con alcune percezioni espresse da Ottieri nel suo ultimo romanzo Una irata sensazione di peggioramento, testamento letterario in cui lo scrittore rielabora i punti cardini della sua poetica. Si tratta di un’opera di assoluto rilievo dalla quale è possibile estrapolare i pensieri definitivi di Ottieri sui temi affrontati in cinquant’anni di letteratura: «Per la sua opera e per le sue sventure Pietro era detto profondo conoscitore della psiche umana (anzi degli “abissi” della psiche umana); inoltre era nominato come scrittore di quegli abissi, fino… Fino a seccare. Insomma non poteva, non doveva più scriverne» (ISP, p. 133). E infatti non ne scrisse più. La fine della letteratura 154 coincide per entrambi con la fine della vita, con o senza suicidio. Pavese non dice «non vivrò più» ma «non scriverò più», e Ottieri è interessato al valore estetico della sua opera rispetto agli anni che gli restano da vivere i quali, senza la letteratura, sarebbero inutili. Pavese si suiciderà otto giorni dopo aver scritto l’ultima pagina del Diario concretizzando l’atto, il gesto, ed escludendo per necessità le parole che lo avrebbero rinviato soltanto all’idea del suicidio. Quando «la morte in faccia» (IQ, p. 108), cioè la prosecuzione di una vita dolorosa arrivata ai limiti estremi, appare più orrenda della morte concreta, allora proprio in quel punto il suicidio viene preferito: «In questo caso della morte addosso è legittimo dire che ci si suicida per paura della morte e che il suicidio fa meno paura della morte» (IQ, p. 108). A questo punto, a suicidio avvenuto, mentre ancora il cadavere è caldo, non si deve secondo Ottieri ricercare le cause che hanno portato al compimento dell’atto poiché: Le forze, le quali provocano il coraggio del vero suicidio, rimangono misteriose e diverse da quelle, analizzabili, dell’idea del suicidio. […] Parlo di un suicidio non stoico, non romano né da comandante di nave che affonda. Con il suicidio non riteniamo di salvare il nostro onore. Ma vivendo; non perché si consideri il suicidio una viltà di fronte al coraggio del vivere: tutto il contrario, vivere può essere una immatura viltà. (IQ, p. 109) La morte è l’esito perseguito da Pavese durante il corso di un’intera vita anche se maggiormente considerato negli ultimi anni, accampandosi nel Diario come una realtà non più rimandabile. La tentazione della morte, che subisce nel tempo variazioni d’intensità, sentita vicina o ricacciata lontano, emerge con insistenza e in forme più nette verso la fine, dagli stati di prostrazione fisica che rendono precaria qualsiasi essenza vitale a una visione «archetipo ancestrale» [13 maggio ’50] (MV, p. 396) della morte stessa. Un altro elemento di convergenza tra il Diario e la poetica di Ottieri si può individuare nel progetto letterario di Pavese che, mediante una pianificazione ben definita, tende a costruire l’opera come potenzialmente unitaria in cui riemergono pensieri, situazioni, idee, ossessioni che si sovrappongono nel corso degli anni e si distendono sulla pagina con nuova linfa derivata dall’esperienza personale di chi scrive. Il Mestiere di vivere è un diario costruito con accuratezza tale che il tempo della vita e della scrittura progressivamente coincide per interrompersi solo al momento della morte dell’autore. Anche Ottieri struttura la propria “sinfonia” secondo questo progetto, in una sorta di opera omnia che si accresce con il passare del tempo insieme alla pubblicazione di testi che, come singoli elementi, s’incastrano tra loro in un grande mosaico. L’interesse di questo giornale sarebbe il ripullulare imprevisto di pensieri, di stati concettuali, che di per sé, meccanicamente, segna i grandi filoni della tua vita interna. È l’originalità di queste pagine: lasciare che la costruzione si faccia da sé. C’è una fiducia metafisica in questo sperare che la successione psicologica dei suoi pensieri si configuri a costruzione. [22 febbraio 1940] (MV, p. 175) 155 Il procedimento di scrittura del Diario di Pavese sembra configurarsi come un modello per Ottieri, riscontrabile nella struttura diaristica di molte sue opere e dal rincorrersi e rinnovarsi di pensieri e situazioni che si plasmano in tempi diversi e molteplici risorse espressive. Gli stati concettuali di cui parla Pavese si alimentano nel loro «ripullulare» e salgono alla mente all’improvviso per esser approfonditi e depositati sulla pagina, confrontandosi in seguito con le loro precedenti apparizioni grazie allo sviluppo di una struttura immanente, diacronica, e con una costruzione in continuo divenire che si evolve nel tempo e puntualizzata dai fatti della storia, privata e pubblica. Per Pavese si tratta di «un’opera di costruzione sempre fatta d’istantanee illuminazioni – momenti metafisici – che vengono après coup saldate, cioè chiarite unificabili» [27 febbraio 1940] (MV, p. 179). La natura letteraria di questo tipo di costruzione rinvia all’idea di un Canzoniere che coagula vita e letteratura, pensieri e poesia, erigendo un’opera omnia che sia anche il riassunto di un’intera esistenza. Poiché immagino che nessuna mia ricerca possa perdersi e il progresso consista in un sempre più comprensivo macinare esperienza, gettando le nuove sulle vecchie. [19 ottobre 1935]. La nuova opera comincerà soltanto alla fine del dolore. Per ora non posso che almanaccare estetica, il problema dell’unità, e studiare domande per finire il dolore. […] Resta, di rintracciare in un gruppo di poesie le sottili, e quasi sempre segrete, corrispondenze di argomento (materiale unità) e di illuminazione (unità spirituale). [17 febbraio 1936] (MV, pp. 14, 26, 27) Questa scrittura coagulante che scaturisce per entrambi dal dolore esistenziale ha «un’origine autobiografica del pensiero raccontato nelle tue poesie, va parallela con l’origine autobiografica del romanzo oggettivo» [31 dicembre 1937] (MV, p. 72). I sentimenti provati da alcuni personaggi ottieriani combaciano con quelli espressi da Pavese nel Diario, soprattutto quando si auto-analizzano sviscerando gli angoli più reconditi del loro animo e individuano nei diversi aspetti del Male di vivere l’essenza dello stare al mondo. Che, in sostanza, si riassume nel sentirsi prigionieri della malattia e impossibilitati a vivere liberamente. È atroce questa sofferenza. [28 febbraio 1936]. Bisogna aver sentito la mania dell’autodistruzione. [24 aprile 1936]. Si scopre così che nella vita quasi tutto è passatempo, onde il proposito che formerebbe il prigioniero di vivere, se uscirà, come l’eremita, succhiando il suo passatempo, cavandone tutto il midollo. [28 dicembre 1936] (MV, pp. 30, 35, 46) Questo Male che nasce in Pavese dal tempo dell’infanzia converge in Lucioli mentre suona il campanello bianco di casa, primo avvertimento e simbolo del Male che lo accompagnerà per tutta la vita: «Fin da piccolo Lucioli aveva sofferto d’ansia e di malinconie rapide […] suonando il campanello di casa sua per rientrare, nel momento stesso in cui appoggiava il dito sul vecchio, 156 lungo, tremolante pulsante bianco» (IQ, p. 170). Pavese individua nel periodo dell’infanzia il momento decisivo in cui nasce il sentimento del Male; pertanto si deve risalire ai primi anni della vita per comprendere lo stato sofferente dell’adulto. Il concetto che si evidenzia con forza è l’irreparabile necessità di soffrire: Tutti gli uomini hanno un cancro che li rode, un escremento giornaliero, un male a scadenza: la loro insoddisfazione; il punto di scontro tra il loro essere reale, scheletrico, e l’infinita complessità della vita. E tutti prima o poi se ne accorgono. Di ciascuno bisognerà indagare, immaginare il lento accorgersi o il fulmineo intuire. Quasi tutti – Padre – rintracciano nell’infanzia i segni dell’orrore adulto. Indagare questo vivaio di retrospettive scoperte, di sbigottimenti, questo loro angoscioso ritrovarsi prefigurati in gesti e parole irreparabili dall’infanzia. [26 novembre 1937] (MV, p. 59) Il valore dell’infanzia, chiamata spesso in causa da Ottieri e Pavese come momento originario del Male, emerge nel dramma del bambino indifeso e dipendente per un periodo maggiore rispetto agli altri mammiferi. Questo spiega perché i tratti caratteristici del comportamento e della personalità dell’adulto dipendono in gran parte dagli eventi e dalle influenze dell’infanzia, caratterizzata dallo sviluppo dell’organismo modellato dalla maturazione e dall’apprendimento. Decisivi sono poi la deprivazione ambientale nel primo periodo di vita quando la carenza di stimolazioni si ripercuote nei processi di apprendimento nell’età adulta, oltre all’arricchimento (sempre ambientale) che determina sia una migliore capacità di comprensione, sia un aumento delle dimensioni del cervello. L’accresciuta stimolazione non può tuttavia produrre un’accelerazione nello sviluppo prima che il bambino non abbia raggiunto un adeguato stato di maturazione. Alcune circostanze biografiche, relative all’infanzia dei due scrittori, permettono di tracciare alcune disfunzioni della crescita evidenti nei disturbi del comportamento e nelle psicosi infantili tra cui la depressione anaclitica. Ottieri e Pavese sono anche, e soprattutto, degli scrittori che hanno utilizzato la letteratura non solo per esprimere le proprie sofferenze ma anche per viverci dentro, per organizzare una sorta di vita parallela non certo inferiore a quella reale, ma anzi più profonda e tangibile. Entrambi avvertivano fortemente lo sdoppiamento, o anche la speculiarità fra la propria esistenza e la narrazione, offrendo la possibilità a degli alter ego letterari di vivere più concretamente dei loro autori. Pavese parla, a questo proposito, dell’«arte di guardare in faccia la gente, compresi noi stessi, come fossero personaggi di una nostra novella» [9 ottobre 1938] (MV, p. 121). Chi alla fine del Diario si suicida, non sarà l’uomo, bensì il personaggio Pavese, personaggio-scrittore che ha voluto chiudere in modo dignitoso la cronaca diaristica imponendosi come protagonista della propria narrazione. Pavese insiste spesso sull’interazione tra vita e letteratura e sul valore difensivo di quest’ultima nel senso che «la letteratura è una difesa contro le offese della vita» [10 novembre 1938] (MV, p. 135). Se la letteratura assume per Ottieri e Pavese valori così alti, superando per 157 alcuni aspetti la vita stessa, si condensano accanto a loro una schiera di altri autori con i quali è possibile istituire serrati confronti intellettuali, allargando le proprie esperienze in un più vasto panorama letterario: Pavese attinge a una ben selezionata biblioteca in cui emergono i nomi di Baudelaire, Leopardi, Dante, Vico, Pirandello, Svevo, Montaigne, Bacon, Proust, Lee Masters. Anche se arriva un momento, per Ottieri e Pavese, in cui la letteratura, o meglio il leggere non interessa più e si evita di addentrarsi in nuovi romanzi; questo blocco si avverte con la conclusione della giovinezza, quando invece si leggeva con voracità. Il tempo sembra aver annullato il piacere della lettura ed evidenziato un ripiegamento interiore che non permette di provare empatia per altri sentimenti letterari. Tra i segni che mi avvertono esser finita la giovinezza, massimo è l’accorgermi che la letteratura non mi interessa più veramente. Voglio dire che non apro più i libri con quella viva e ansiosa speranza di cose spirituali che, malgrado tutto, un tempo sentivo. Leggo e vorrei leggere sempre più, ma non ricevo ormai come un tempo le varie esperienze con entusiasmo, non le fondo più in un sereno tumulto prepoetico. [13 sett. 1936] (MV, p. 43) Nell’analisi comparativa degli aspetti che avvicinano il Diario di Pavese all’opera di Ottieri, la poesia è intesa come un eccellente strumento espressivo, migliore anche del romanzo, per manifestare le proprie sofferenze. L’irruzione irrazionale della poesia, delineata da Ottieri nel Pensiero perverso, è analizzata da Pavese nelle prime pagine del Mestiere di vivere dove le date iniziali dell’ottobre ’35 sono caratterizzate da attente riflessioni proprio sul modo di scrivere poesie in cui egli esamina le precedenti composizioni poetiche relative a Lavorare stanca, pubblicato nel ’36 per le edizioni di «Solaria». Più feconda la ricerca, da tempo concepita, di nuove cose da dire e quindi nuove forme da foggiare. Poiché la tensione alla poesia è data al suo inizio dall’ansia di realtà spirituali ignote, presentite come possibili. […] La poesia viene alla luce tentandola e non prospettandola. [6 ottobre 1935] In poesia non è tutto prevedibile e componendo si scelgono talvolta forme non per ragione veduta ma a istinto; e si crea, senza sapere con definitiva chiarezza come. [10 ottobre 1935] (MV, pp. 7, 8, 10) Anche sulla poesia surrealista Ottieri e Pavese convergono in un punto essenziale distanziandosi da tale movimento in quanto produttore di testi culturali artificiosi e lontani rispetto alla naturalità e istintività delle rispettive elaborazioni. Pavese analizza l’opera di Marcel Raymond De Baudelaire au Surréalisme il 10 febbraio ’41 (MV, p. 218 e sgg.), evidenziandone i limiti poetici, ma più in generale egli non riusciva a acclimatarsi negli orizzonti delle nuove poetiche degli anni Venti-Trenta, dal surrealismo al dadaismo al futurismo all’ermetismo. Anche Ottieri non amava molto le avanguardie e del surrealismo non lo convinceva che «lo stile monologante, e di palo in frasca di certi scrittori, puntualmente venga detto psicoanalitico» (IQ, p. 198). 158 Riguardo al tema dell’amore, esso è presente nel Diario connotandosi di un’evidente misoginia scaturita dall’impossibilità di Pavese di stabilire una relazione duratura con qualsiasi donna conosciuta con la quale il processo d’invaghimento seguiva in ogni circostanza le medesime tappe: sentimenti profondi in parte corrisposti, illusione di un futuro concretizzabile nel matrimonio, échec sessuale e intellettuale, abbandono, rabbia, invettive vernacolari dopo il definitivo distacco. La letteratura si propone allora come sostituto o compenso per le frustrazioni prodotte dal sentimento non ricambiato. L’amore è presente in quasi tutte le opere di Ottieri e osservato da numerosi punti di vista, dalle donne vagheggiate alle infatuazioni per le infermiere o per le pazienti delle cliniche fino al confronto tra l’amore coniugale (necessario) e concubino (auspicato). Tuttavia sono le tonalità espressive a tracciare una manifesta divergenza tra i due scrittori: alla misoginia di Pavese, Ottieri fa corrispondere una frequente ironia da Don Giovanni in clinica o playboy mondano, così che alle delusioni d’amore del primo cui fanno seguito le inevitabili disperazioni per le ripetute delusioni, i personaggi maschili di Ottieri rispondono con uno struggimento positivo, nel senso che a ogni rifiuto segue una sempre maggiore attività di conquista. Semmai delle similitudini si possono riscontrare paragonando la disperazione di Pavese con le figure femminili di Ottieri condannate nella maggior parte dei casi a soffrire amori infelici, matrimoni sbagliati, fallimenti ripetitivi e solitudini esasperanti che spesso conducono a stati depressivi o all’alcolismo: i casi più vividi sono quelli di Elena e di Clara, la protagonista del Divertimento. Attraverso questi personaggi può corrispondere l’infelice sentimento d’amore descritto da Pavese, anche se cambia il risvolto della medaglia: in Ottieri a soffrire veramente sono solo le donne perché gli uomini sembrano divertirsi nell’essere lasciati o nel veder respinte le proprie avances. Con l’eccezione del prigioniero del Campo di concentrazione che soffre profondamente per qualsiasi rapporto vivendo forse l’esperienza letteraria più angosciosa dal punto di vista psichiatrico, tutti gli eroi ottieriani sono degli amanti propositivi che vivono l’amore con ironia dongiovannesca. Alle donne sue alter ego invece Ottieri concede il puro dolore d’amore che si presenta in forme femminili come il vaginismo o la frigidità, una sofferenza avvicinabile a quella misoginia provata da Pavese. Elena riflette al femminile il disagio di vivere e di amare provato da Pavese nel Diario, opera su cui non a caso sta lavorando per scrivere un saggio sul valore della coerenza nel suicidio. Sono molti gli elementi in comune tra la personalità dell’alter ego femminile di Ottieri e l’esperienza dello scrittore torinese. In primo luogo la solitudine: Elena è una donna sola nonostante la sua bellezza e le frequenti richieste di compagnia tra cocktails e feste, retaggio del periodo mondano, che si concludono sempre in rapporti sessuali insoddisfacenti. La solitudine soprattutto l’attanaglia durante i periodi festivi e, come accadeva nel Campo di concentrazione, anche lei soffre di sintomi quali Christmas blues quando le feste, natalizie in particolare perché molto lunghe e coincidenti con la stagione 159 invernale, possono amplificare gli stati depressivi con asfissianti vuoti esistenziali: «All’orizzonte, le Feste. Come i week-end, sono la gioia e il sostentamento morale dei normali lavoratori. Ma sono lo spavento dei disturbati oziosi. […] Elena si svegliò con la pesantezza nel petto sentendo che la sua felicità umana, nell’orrendo Natale mercificato, era finita» (CON, pp. 205, 216). Dopo le numerose correlazioni fin qui evidenziate tra il Diario di Pavese e il collegamento letterario proposto da Ottieri in Contessa, si constata una divergenza non meno importante relativa ai riferimenti dell’attualità storico-politica che sono assenti nel Diario, mentre in Ottieri la cronaca anche all’interno dei manicomi è sempre attuale. L’aspetto che più colpisce durante la lettura del Diario è la netta chiusura in se stesso condotta da Pavese che esclude riferimenti troppo espliciti e contingenti alla realtà, mentre gli anni di inizio e chiusura del Diario sono storicamente emblematici: 1935 e 1950. I tragici fatti che intervengono direttamente ad aumentare inquietudini personali, come ad esempio il carcere e il confino, vengono taciuti da Pavese come anche la guerra civile in Spagna, la conquista dell’Etiopia, le leggi razziali, il Patto d’acciaio, l’entrata in guerra dell’Italia, l’armistizio, la liberazione, le bombe atomiche, la divisione del mondo in due blocchi, la ricostruzione post bellica. Poco o quasi nulla filtra nelle pagine del Diario di eventi così significativi per la storia contemporanea, non solo dell’Italia, e a questo proposito si è parlato di claustrofilia nell’atteggiamento di Pavese. Intesa come un bisogno patologico di essere confinati in luoghi chiusi e protetti, la claustrofilia esprime una forte tendenza all’isolamento dalla realtà e si osserva di frequente nei casi di nevrosi ossessiva. La politica, in questo modo, anche attraverso le determinazioni storiche e ideologiche in guerra tra loro, non entra nel Diario, rimanendo ai margini della vita e dell’arte. Elena, studiando in profondità i testi, ritiene che Pavese avesse avuto paura non solo delle donne ma anche del Partito Comunista che lo considerava un compagno non in grado di esercitare quei doveri necessari alle incombenze storiche. Ottieri in alcuni versi della Storia del PSI rende omaggio a Pavese che partecipò attivamente alla lotta politica subendo la prigionia e il confino durante la liberazione partigiana dell’Italia, per poi iscriversi al PCI e collaborare a «L’Unità» sul finire della guerra: «Aggiunse che Pavese oltre che delle donne aveva paura del Partito Comunista; aveva paura che lo considerassero un cattivo compagno; certo, un uomo afflitto, come si diceva da eiaculazione precoce, non poteva essere un Capo» (CON, p. 58). «Raccontando la sua personale / sessuale tragedia, Pavese si lamentava: / Dicono (in ambito PCI) / che P. non è un buon compagno. / Ed egli aveva scritto / Il compagno, pubblicato a Torino» (PSI, p. 28). Il verso «P. non è un buon compagno» Ottieri lo ricalca da una frase del Diario di Pavese che presumibilmente venne pronunciata da parte di qualche compagno del PCI: «“P. non è un buon compagno”… Discorsi d’intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che più ti stanno a cuore. [15 febbraio 1950] (MV, p. 389). 160 I riferimenti all’attualità storica, politica e sociale sono solidamente presenti nella letteratura di Ottieri e questo aspetto lo distanzia dal Diario di Pavese nei confronti del quale, come si è notato, si riscontra un fervido dialogo intellettuale, atteggiamento ricorrente in Ottieri che parla attraverso le sue opere con altri autori. In Contessa, la scena principale è occupata dalla protagonista Elena, eppure sullo sfondo si stagliano le preoccupazioni dello scrittore per l’Italia in un periodo di crisi e recessione. Elena prospetta per l’Italia una psicoterapia, ritenuta necessaria a causa della mancanza di carattere che impedisce agli italiani di sentirsi un popolo e alla nazione di essere democratica. Ottieri individua lo snodo centrale dell’atavico problema che affligge l’Italia proprio nell’impossibilità storica di costruirsi un carattere, a causa della mescolanza deleteria di determinati fattori quali divisioni interne, dominio straniero, sentimenti mai assopiti di servitù, corruzione dilagante, leggi liberticide, che hanno reso l’Italia un unicum nel panorama europeo occidentale. Una celebre invettiva di Dante, Purg. VI, 76-78, ripresa anche nella Corda corta, servirà a Elena per collegare diversi periodi storici accomunati da una sorta di tenebra sociale, individuando nella ripetitività degli eventi negativi la constatazione dell’impossibile salvezza dell’Italia. «Ahi» pensò «serva Italia di dolore ostello – nave senza nocchiero in gran tempesta – non donna di popoli, ma bordello». […] Gettate le basi o per una società della droga o per una guerra civile. State reimmergendo l’Italia nell’inconscio collettivo. Un gigantesco sforzo di coscienza sarà necessario alla nazione perché non regredisca alle sue fasi anteriori. Ahi, serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di province ma bordello. (CON, pp. 22, 158) Dopo due giorni progettavi / calmo a tavolino un’inchiesta / circa le sorte oggi, nello stracciato paese, / nella tempesta senza nocchiero. (COR, p. 138) In questa denuncia rivolta all’Italia, la voce personale di Dante prende il sopravvento esprimendo la sua grande passione politica e morale attraverso la quale l’indignazione si scaglia contro l’ingiustizia presente in una società corrotta e nei riguardi delle istituzioni in cui credeva fermamente. La metafora della «nave» è un topos classico, già presente in Platone e Aristotele, e Dante la riprende parlando della necessità di un unico imperatore (in Convivio IV, IV 5) che possa garantire la pace nel mondo; ma per attuare questo progetto costui deve stare da solo sulla plancia di comando. L’Italia, non più signora delle nazioni dopo il crollo dell’Impero romano, si ritrova a essere considerata una squallida meretrice che governa la cosa pubblica non secondo diritto ma per sopraffazioni e corruttele. In più, l’essere un «doloroso ospizio» rimanda all’immagine di un manicomio, per cui Ottieri non tergiversa nel propugnare all’Italia una terapia favorita dal fatto che il paese stesso è il paziente e contemporaneamente la clinica in cui s’intraprende la cura. Ma prima un’enorme psicoanalisi collettiva dovrebbe salvare l’Italia dai suoi pericoli del carattere: essere un paese dell’America del Sud, un teatro di guerre altrui, una colonia, un basso impero e un Medioevo, la cancellazione del Risorgimento. A lei conveniva un regime di destra e parteggiava per un 161 regime di sinistra. […] Erano sempre d’accordo che l’Italia avrebbe dovuto fare una certa cura di rafforzamento dell’Io analoga a quella di Elena, una cura per calmare la psicosi e i mostri, provenienti dalle tenebre dell’inconscio sociale. Un enorme psicoanalista si sarebbe dovuto mettere fauteuil-fauteuil con l’Italia. (CON, pp. 89, 131) Considerando l’Italia un individuo, se si vuole attuare una plausibile terapia psicoanalitica secondo i precetti di Elena, la prima operazione da svolgere riguarda l’analisi del carattere come motivo determinante del paziente. Il carattere è la configurazione in parte permanente di un individuo cui ricondurre gli aspetti abituali e tipici del suo comportamento che appaiono tra loro integrati sia nel senso intrapsichico sia in quello interpersonale. Tale analisi conduce a riflettere sulle origini dell’assenza del carattere; e se lo sguardo d’insieme si proietta nel collettivo, inevitabile quando l’oggetto di studio è uno Stato, l’inconscio sociale rimanda al concetto proposto da Jung per il quale i contenuti di esso non sono mai stati nella coscienza, e dunque non acquisiti individualmente, ma devono la loro esistenza all’ereditarietà, mentre il contenuto dell’inconscio collettivo è formato in generale da archetipi. Il problema essenziale è dunque la mancanza di carattere che condanna gli italiani a essere un popolo a metà, mai veramente libero, unito, cosciente della propria storia, rispettoso delle leggi che provengono da un Potere detestato, incompreso e nella migliore ipotesi avvertito come nemico. Gli eventi storici dovranno per necessità essere analizzati attraverso questo filtro, altrimenti risulterebbero incomprensibili e forieri di contraddizioni e compromessi. Attraverso questa visione peculiare di Elena, Ottieri osserva con attenzione alcuni eventi che accadono in Italia nel periodo storico in cui si sviluppa la vicenda della Contessa. Ci si trova nel cuore degli anni Settanta in una fase complessa per i ferventi dibattiti etici che porteranno il Parlamento a licenziare le leggi sul divorzio e sull’aborto, per il tentativo del compromesso storico tra la DC e il PCI, per il terrorismo extrapolitico con le deflagrazioni degli anni di piombo. Le pagine di Ottieri sono intrise di eventi storici pur partendo dalla reclusione in un manicomio, poiché lo sguardo sul presente non si annulla, anzi le osservazioni che scaturiscono da stati di sofferenza e alienazione permettono al lettore di partecipare, anche a distanza di molti decenni, a quegli avvenimenti sociali che seguono tale prospettiva. Inoltre Ottieri commentava le trasformazioni in atto nella società italiana con articoli scritti a metà degli anni Sessanta per «Il Giorno» e raccolti nel volume Cronache dell’al di qua che riscossero grande attenzione da parte dei lettori, tra i quali spicca Mariano Rumor allora segretario della Democrazia Cristiana: Egregio Dottore, mi rivolgo direttamente a Lei, non tanto nella mia qualità di Segretario della DC, ma come cittadino preoccupato per un problema che è diventato grave, non soltanto in Italia. Lei occupa un posto non indifferente nella nostra società; svolge il Suo lavoro con preparazione, segue la stampa, si dimostra informato sui problemi più importanti del mondo d’oggi; ha le Sue idee precise su molti argomenti. Eppure, chi come me dedica tutte le sue energie alla politica, si rende conto che oggi c’è un fossato che divide il mondo politico da molti dei cittadini più preparati. Ho avuto altre volte l’onore di chiederLe il voto 162 per il mio partito. Ma oggi sento il dovere di dirLe che abbiamo bisogno di qualche cosa di più, abbiamo bisogno di una Sua partecipazione ai nostri problemi, in modo critico e costruttivo. Come? Troveremo insieme i modi. Perché? Per costruire meglio uno Stato degno dei suoi cittadini. Credo che l’epoca dei partiti che organizzavano e guidavano le masse sia finita. Deve nascere l’epoca dei cittadini che guidano i partiti. Posso contare sulla Sua collaborazione? In questo caso mi permetterei di scriverLe ancora. Suo, Mariano Rumor. (Aprile ’68) In Contessa, tra i diversi riferimenti all’attualità politica e sociale dell’Italia, Ottieri chiama in causa per tre volte i capelloni che proprio negli anni Settanta, non solo in Italia, facevano la loro apparizione come simbolo della protesta giovanile contro il conformismo della società borghese rappresentata da quei Padri che stavano perdendo la propria autorità. L’unico grido, nella silenziosa terra svizzera, era una ridda di musica pop che urlava iteratamene dai nastri di un giovane capellone circondato da altri capelloni. Non fumavano erba perché alla festa partecipavano quasi tutti i Dottori e le schwester. […] Elena prendeva la sera il treno che da Stoccarda porta a Reggio Calabria (poi in Sicilia). Vi erano intorno a questo treno capelloni nordici, capelloni meridionali, emigranti spagnoli e italiani. Gli emigranti italiani erano i più subumani. […] Elena vide un capellone col berretto rosso, un capostazione. (CON, pp. 47, 73, 92) Il tono utilizzato da Ottieri nel descrivere questi capelloni rifugge da qualsiasi forma di condanna, come invece era comune a quel tempo da parte degli inquisitori dell’ordine, della morale e dei costumi. Ottieri è solito condannare i potenti, i politici corrotti, le disfunzioni della democrazia italiana, ma per i giovani, capelloni e meno, non si riscontrano nelle sue opere parole di critica o di biasimo. In un articolo apparso su «Il Giorno» il 26 settembre ’65, dal titolo La capellona si sente umiliata, raccolto in Cronache dell’al di qua con una piccola variante La capellona si sente musulmana, Ottieri descrive le prime visioni dei capelloni importati dall’America: Pare che a Roma siano scesi i capelloni, cioè i ribelli incruenti, miti e senza una lira che protestano contro l’attuale società meccanica, sedendosi su una gradinata, non facendo niente, nemmeno parlando. Evidentemente non si annoiano tanto in questa sospensione di ogni attività oggettivante, in questa specie di sciopero della vita. Le donne li accompagnano. (CRO, p. 73) Ottieri osserva i capelloni con simpatheia scorgendo in loro comunque dei figli, nei confronti dei quali gli occhi di un Padre, e Ottieri lo era diventato dopo esser stato anch’egli un figlio a suo modo ribelle, tentano di scorgere un punto di contatto tra generazioni distanti. Proprio a questo aspetto Ottieri dedicherà il primo poemetto di Vi amo in cui analizza il rapporto Padri-figli mettendo in risalto la contiguità delle esperienze, per cui anche i Padri sono stati figli ribelli e gli attuali figli diventeranno a loro volta Padri di nuovi figli e così via: «Fra noi c’è, con amore e lotta, / un reciproco illuso / desiderio di perfezione. […] Voi non tollerate / che perdiamo al casinò della vita, / vi diamo fastidio / coi nostri eterni problemi, / i temi di chi è giunto / all’orlo della vecchiezza / ed è infantile, / ricerca in voi la giovinezza» (AMO, p. 3). Nel conflitto generazionale tra Padri e 163 figli, Ottieri individua nell’affievolirsi della potenza fisica, morale e autoritaria dei primi il sintomo della debolezza che sopravanza con il tempo, mentre ai figli è concessa la possibilità di partecipare attivamente alle vicende della storia grazie alla loro esuberante giovinezza. I figli dunque tenderebbero a eliminare mentalmente i padri ingombranti, ormai vecchi impotenti e considerati dei relitti della società, mentre questi ultimi reclamano il posto che spetta loro per esperienza e volontà di sopportazione. Ottieri inoltre si assume la responsabilità della propria assenza, causa malattia, nei confronti dei figli che tuttavia perseguono l’incessante rivoluzione generazionale contro i relativi Padri. Ma ciò che viene richiesta da Ottieri, oltrepassando i contrasti, le incomprensioni e le inevitabili distanze, è la pietà per colui che, per diverse ragioni, non ha avuto il tempo di diventare Padre. E non siamo eletti da nessuno, / discendiamo dai letti / della nostra progenie / ex figli anche noi. / Nessuno ci protegge, / i nostri genitori sono morti. […] Andiamo avanti perché amiamo la vita / e voi, ingrati, / che non capite la sofferenza / procurataci dai vostri armati giudizi. […] La vostra giovanile rivoluzione / è stata quella contro di noi. […] Peggioriamo col tempo, / saggi non diveniamo. […] Eterno fanciullino / devo rimanere / più che Padre e uomo. (AMO, pp. 3-9) Ottieri supera il conflitto di generazioni ponendosi ai margini della questione, lui ancora «fanciullino» nonostante sia divenuto Padre. Egli chiede dunque, sulla soglia della vecchiaia, di poter esser compreso dai figli e considerato un loro pari, a differenza degli adulti, dei padri e dei medici che hanno impiegato numerosi lustri per renderlo maturo tuttavia senza riuscirci. Ma l’eterna immaturità che lo scrittore dimostra nella vita e nella letteratura è una forma di protesta, la più rivoluzionaria possibile che si possa attuare, e perciò egli chiede ai figli di integrarlo nel loro gruppo: «Abbiate pietà, figli, per colui / cui manca il tempo per diventare Padre, / colui che non può rinascere, / segnato dal destino» (AMO, p. 9). Il tempo che manca è il motivo ricorrente che rende invidiosi e impotenti i padri nei confronti dei figli e in Ottieri questo aspetto si concretizza nella convinzione dell’inevitabile peggioramento delle condizioni di vita, quando lo spazio che conduce alla morte si assottiglia escludendo di conseguenza i genitori dalla contesa. Ottieri si sente colpevole, «sono stato è vero molto assente, / demente di me, non di voi, / lontano d’anima e di corpo» (AMO, p. 5) di non aver potuto partecipare al miglioramento collettivo di uno Stato miope che non poté evitare il terrorismo né l’assassinio del segretario della DC Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, evento emblematico della debolezza atavica di una politica impotente. La cerimonia funebre senza salma, con gli onori di Stato e vili lacrime profuse da chi sacrificò la vita del segretario democristiano in nome di un’improbabile fermezza, ufficializzò non solo la morte di Moro quanto dell’Italia stessa. Il terrorismo e i cosiddetti anni di piombo furono infatti una diretta conseguenza dell’insofferenza serpeggiante nel Paese, mentre la politique politicienne italiana 164 tentava di arginare l’urto con compromessi di varia natura nel ristabilire l’ordine con il rigore e la forza: «Indignazione contro il Partito comunista divenuto subdolamente più destro della Democrazia Cristiana. […] Quel che è sicuro, è che adesso in Italia ci si ammazza molto» (CON, pp. 105, 161). II.6 Quattro poemetti: L’infermiera di Pisa, Il palazzo e il pazzo, Le guardie del corpo, Il diario del seduttore passivo Nel viaggio esplorativo nei meandri della depressione, Ottieri compose nella prima metà degli anni Novanta quattro poemetti L’infermiera di Pisa (1991), Il palazzo e il pazzo (1993), Le guardie del corpo (1994) e Il diario del seduttore passivo (1995) che, analizzati nell’insieme, si strutturano come quattro atti di un unico psicodramma esistenziale dai risvolti teatrali e con i personaggi ben definiti: il protagonista è lo scrittore alcolizzato e depresso in perpetuo conflitto con i Dottori acerrimi antagonisti che lo curano, mentre le azioni si svolgono nelle camere degli ospedali o nelle stanze dove viene rinchiuso il «pazzo»; le storie poi si arricchiscono delle entrate in scena dei familiari, dei ricordi che riaffiorano della propria adolescenza, della disperante condizione d’alcolista cronico etc. Pisa ha rappresentato per la vita e la scrittura di Ottieri una tappa significativa, poiché vi è ubicata la clinica San Rossore47 dove lo scrittore ha trascorso un lungo periodo di degenza dal quale maturò L’infermiera di Pisa48, opera in versi dall’aspetto teatrale, dove prende forma in modo fantasioso e grottesco l’infatuazione per un’infermiera pisana, passione impossibile da realizzare tra auto-denigrazione e senile vanità dongiovannesca. La teatralità49 del poema si riscontra nella rappresentazione dei personaggi e nelle situazioni, nel modo di entrare in scena e nei dialoghi, 47 La Casa di cura privata San Rossore si trova a Pisa in Viale delle Cascine 152, adiacente all’Aurelia e poco distante dalla pineta di San Rossore. Vicina al centro storico, dalle stanze della clinica si possono scorgere tratti della torre e della Piazza dei miracoli. Legata all’Università di Pisa, con le Facoltà di Medicina e Chirurgia, si avvalse negli anni di medici di chiara fama, tra i quali, durante la degenza di Ottieri, i Professori Giovanni Battista Cassano, Giulio Perugi e Valter Mignani. 48 L’infermiera di Pisa fu pubblicato dalla casa editrice Garzanti nel ’91, e Ottieri ebbe una corrispondenza epistolare con Ernesto Ferrero, allora direttore editoriale, che il 4 maggio del ’90, quando ancora il poema non era completato, gli invia questa lettera: «Caro Ottieri, agli inizi del ’91 vorremmo invece aprire una serie – ovviamente migliorata – della collana di poesia, ed è in quella sede che vorremmo ospitare il libro. Se Lei è d’accordo, nei prossimi giorni Le farò avere un contratto, la cui parte economica sarà per forza di cose quasi inesistente. D’altra parte quello della poesia è un piacere o un lusso che gli autori coltivano non certo per scopi di lucro». 49 La logica teatrale struttura la maggior parte dei componimenti poetici di Ottieri, dalla commedia I venditori di Milano (unica opera ufficialmente drammaturgica) all’Infermiera di Pisa, da Il palazzo e il pazzo alla Psicoterapeuta bellissima, dalle Guardie del corpo al Diario del seduttore passivo, dal Poema osceno a Una tragedia milanese, le parti corali s’intersecano a quell’ossessiva voce monologante tipica della sua poesia. 165 mentre la scenografia è ridotta ai minimi termini, una stanza, un letto, una tendina: «“Lei è un istrione” sorride Perugi / “assai bellino. Ha recitato / per tant’anni l’Amleto, ora tocca a Re Lear”. / Vorrebbe che noi fossimo / spettatori plaudenti. / Siamo medici che curano. […] Facevamo intellettuale teatro. […] Per i chirurghi il vecchio / recitava una parte. / Lo chiamavano l’habitué» (IP, pp. 28, 54, 66). Il protagonista di questo dramma o commedia è lo scrittore che interpreta, secondo i medici, la parte di Amleto e di Re Lear, figure shakespeariane con le quali egli sente un certo feeling autodefinendosi «Amleto» (IP, p. 16) e assecondando l’eterno problema dell’essere e non essere che nella clinica di Pisa diventa «ben-essere o non ben-essere… Lo risolvo il problema?» (IP, p. 21), fino a avere gli stessi occhi dell’eroe tragico: «Come Amleto vedea il Padre» (IP, p. 66). Amleto, torturato da dubbi e irresolutezze che si alternavano a slanci emotivi e azioni decise, rappresenta per Ottieri il simbolo universale del dramma della scelta; mentre Re Lear che muore di dolore ripudiato dalle figlie, privato di tutto e sull’orlo della follia, si rivela una figura esemplare. Amleto è stato già chiamato in causa da Ottieri circa trent’anni prima dell’esperienza pisana, nel sesto capitolo della terza parte dell’Irrealtà quotidiana, in merito al confronto-scontro tra il paziente e l’analista in quell’alternativa di ruoli che rappresenta il fulcro dell’incessante lotta analitica condotta con fervore, durante qualsiasi terapia, dai personaggi ottieriani: «Il pazientemedico (di se stesso) è il protagonista del dramma dell’autocoscienza, dell’insufficienza di questa. […] Ugualmente, il medico-paziente è il personaggio centrale dell’epoca, l’Amleto di oggi, il protagonista di un romanzo ontologico che forse qualcuno sta già scrivendo» (IQ, p. 222). Lo scrittore, l’Amleto di ieri e oggi ormai anziano, si è rifugiato nella clinica di Pisa per tentare una nuova terapia di concezione americana, la psicobiologia fondata sulla chimica e sul corpo, condotta dallo psichiatra Cassano50 e i suoi collaboratori che interpretano sul palco di San Rossore la parte degli antagonisti. L’infermiera, sempre sfuggente e restia a qualsiasi tentativo di seduzione, è la figura femminile amata di un sentimento irrealizzabile dal protagonista. Intorno a queste tre figure, il paziente, il medico e l’infermiera, si svolgono le situazioni tipiche di qualsiasi clinica già riscontrate nel Campo di concentrazione di Zurigo: il dolore della malattia, la speranza di una guarigione, il conforto dei medici, le ossessioni e i pensieri perversi del malato. Quest’ultimo propende per una costante auto-denigrazione, definendosi «vecchio babbeo», «porco senile», «gradasso delle cliniche», «bambinone», «coi cernecchi e la pancia», «donnaiolo senza capelli e con la gola da gallinaccio», in particolar modo quando tenta degli approcci, puntualmente infruttuosi, con l’infermiera. Si noti che il «babbeo» e il «bambinone» appaiano ciascuno per tre volte nel 50 Giovanni Battista Cassano è professore ordinario di psichiatria e direttore del Dipartimento di Psichiatria, Neurologia, Farmacologia e Biologia dell’Università di Pisa. È stato coautore, insieme a Serena Zoli, del libro E liberaci dal male oscuro, cit. Il Professor Cassano ricorda, in un biglietto inviato il 18 febbraio ’94, il periodo trascorso da Ottieri nella clinica di Pisa con un aggettivo che qualifica lo scrittore: «All’indimenticabile Ottieri di Pisa». 166 poema, e che tutte le attestazioni grottescamente ingiuriose siano presenti soprattutto nella prima parte dell’opera (da p. 7 a p. 38), e assenti nelle pagine conclusive. Come spesso accade, lo scrittore racconta la drammatica esperienza vissuta all’interno della clinica oscillando tra la prima e la terza persona per il bisogno d’estraniazione e oggettività nei confronti della materia da narrare, ovvero il proprio malessere. Il suo stato psico-fisico è mortificante: le cure precedenti, tra cui la psicoanalisi studiata o per meglio dire subita dagli anni Quaranta e intesa come terapia all’europea fondata sulla parola e sull’anima, non hanno portato alcun miglioramento. La novità allora viene dall’altra parte dell’oceano e prevede un metodo di cura rivoluzionario per i tempi: non più l’anima ma il corpo, non la parola ma la chimica. Il Professor Cassano si fa interprete di questo nuovo procedimento e il paziente instaura con lui, come sua consuetudine, una nuova battaglia analitica per capire come e quando sarà possibile sconfiggere la malattia. Lo charme acuto o tondo di Cassano / lo riprendeva per mano. / Bello, intelligente, cocciuto, / era Cassano, / tenaci e acuti i suoi seguaci, / di onniscienza americana, / self-confidence e performance. / La clinica era di destra. / L’imperialismo americano / l’aveva infilzata, / la voleva anzi comprare. […] Sublimare! Replicava al progetto / l’organicista antifreudiano Cassano, / l’americano. Buttata via dalla porta, / rientrava la psicologia dalla finestra. / Ma inutile e imbelle è l’analitica psicologia, / la psicobiologia di Giovanni Cassano / è armata come una crociata: / chi vince? (IP, pp. 7-8) Ottieri chiama in causa direttamente la psicobiologia: si tratta dell’orientamento psicoterapico ideato da Adolf Meyer che, partendo da una concezione dell’uomo come unità indivisibile, propone un trattamento capace di integrare lo psichico con il biologico, in cui centrale è il concetto d’integrazione che può essere raggiunto a livello fisico, chimico, fisiologico e psicologico. Attraverso analisi e sintesi distributive, il malessere viene dapprima scomposto ai vari livelli di mancata integrazione e poi ricomposto secondo vie corrette. Reintegrare l’anima con il corpo, lo psichico col biologico, la cui irreparabile scissione è stata descritta con sofferenza nell’Irrealtà quotidiana, rappresenta senza dubbio un momento storico, una sorta di anno zero impensabile qualche tempo prima: «Biologico sposalizio / fra anima e corpo. / Finalmente! Dopo tanto dibattito» (IP, p. 31). Il perno sul quale ruota l’indagine dei medici, e la conseguente terapia, è l’umore: «Tre erano gli addetti / all’impazzita lancetta dell’umore, / disturbo da curare / senza che avvenga / la penosa mutazione dell’Io» (IP, p. 10). L’umore, o gradazione di base dell’affettività, si riferisce all’umore di fondo come caratteristica costante del carattere con i tratti di durevolezza e relativa indipendenza dalle situazioni e dagli stimoli ambientali. Da questo si distingue lo stato d’umore che varia per lo stesso soggetto in base all’equilibrio somato-biologico, ai pensieri, alle situazioni esistenziali vissute. Il tono dell’umore, che occupa tutta la gamma che va dalla gioia alla tristezza, 167 influenza l’attività intellettiva, volitiva, comportamentale, nonché le funzioni vegetative e somatiche. Interpretato psicoanaliticamente come una scarica libidica graduale che protegge l’Io da un’esplosione incontrollata, l’umore assume tratti patologici quando oscilla oltre le soglie compatibili con l’importanza della situazione di gratificazione o di frustrazione vissuta dall’individuo. Le forme più impressionanti di oscillazione dell’umore si manifestano nelle depressioni e negli stati maniacali, e questo si riscontra in modo trasparente nella clinica di Pisa. A Pisa si solve prima l’umore, / poscia, di buon umore, il problema. / Disturbo dell’umore è la follia. / In Pisa si lavora attorno all’umore, / alle più friabili lancette / e mutevoli del mondo. / Sei tutto, umore, / bilancino del mondo. […] Da chi dipende l’umore? / Dall’alchimia americana, / dal modo di prendere / le lotte e l’amore. / Tale è il Verbo della / Biologica Psichiatria. (IP, p. 20) I tre medici che hanno in cura lo scrittore sono il già citato Cassano, il grande capo, «bello, intelligente, cocciuto», «il Fulgido Dottore», «il barone del farmaco», «il terapeuta rivoluzionario», «falco», «aquila», «toscano e americano ma nell’animo napoletano», «positivista, trasformista, mago»; Valter Mignani «l’angelico e fermo» e Giulio Perugi «il teoretico e realista»51. Costoro studiano le oscillazioni dell’umore e tentano spesso di spiegare al paziente la finalità della nuova terapia che prevede l’uso di farmaci antidepressivi in grado di stabilizzare l’umore. Troppo semplice e banale risuona tale affermazione per il paziente che ha sofferto negli anni una malattia non facilmente identificabile: «Noi mutiamo l’umore / con cui sono pensati i pensieri. […] È l’effetto Cassano. Sott’esso / per l’ennesima volta / punta tutto sulle molecole: / psicobiologico anch’egli» (IP, p. 23). L’utilizzo considerevole di psicofarmaci trova all’inizio delle resistenze da parte di chi è stato devoto, ma pur sempre lottando, alla psicoanalisi; da qui l’ironia a volte tagliente con cui Ottieri descrive Cassano e il suo metodo. La psicofarmacologia, scienza nata negli anni Cinquanta, è un ramo della farmacologia che studia, su base sperimentale e a scopo terapeutico, l’azione delle sostanze chimiche sulle funzioni psichiche e ha bisogno dell’apporto di molti ambiti disciplinari, come la genetica, la biochimica, la neurofisiologia, la psicofisiologia, per un graduale processo d’integrazione. Da quest’aspetto clinico e insieme farmacologico s’innesta una problematica determinante nel percorso culturale di Ottieri, ovvero la disgregazione del personaggio il quale può giovarsi di tale terapia per reintegrarsi combinando la fusione di vita e letteratura in una pagina vivente di bio-letteratura. In un verso dell’Infermiera di Pisa, il paziente arriva persino a 51 Valter Mignani e Giulio Perugi, specializzati in psichiatria, hanno lavorato presso l’Università di Pisa in collaborazione con Cassano, ponendo particolare attenzione alla psicofarmacologia clinica attraverso lo sviluppo di progetti di ricerca su vari aspetti dei disturbi dell’umore, dallo stato misto alla mania, alla depressione atipica, ai disturbi d’ansia e di bipolarità. 168 rimpiangere le antiche benzodiapezine52, più umane rispetto ai nuovi farmaci, poiché riuscivano a diminuire i livelli di ansia nevrotica reattiva agli avvenimenti e legata a fenomeni depressivi: «La rottura con le benzodiapezine / è statunitense. […] Ridatemi le mie benzodiapezine. / Non voglio più soffrire come una bestia / crisi d’astinenza. / L’umore per voi sta bene se mi astengo / da tutto, tranne che dal sale. / Ma la vita è sciocca» (IP, pp. 35, 41). Tuttavia queste non avevano alcun effetto terapeutico sul disturbo dei processi cognitivi e percettivi e, se assunte per lunghi periodi e a dosi elevate, potevano dare assuefazione e causare crisi di astinenza. Anche per questo motivo, i medici americani spingono per un diverso trattamento, quello a base di sali di litio53: Esiste un sale / detto di litio che è miracoloso / come la pietra filosofale. / O l’ennesima beffa? / Quando è nel setting del verbo, / vuole il sale, / nel sale, il verbo, / cervello rotto dalle antinomie. […] Io do adesione critica / alla psicobiologia, / io mi affido al sale, / però mi lasci dubitare, / ho dubitato fin dalla culla. (IP, pp. 12, 26) Sebbene non appartengano propriamente ai farmaci psicoanalettici, i sali di litio hanno avuto una larga diffusione per le sindromi depressivo-maniacali in quanto ne diminuiscono la gravità e aumentano gli intervalli di benessere fino a raggiungere una stabilizzazione duratura del tono dell’umore. Ed è proprio questo il percorso terapeutico tracciato dal famigerato, per il paziente, trittico americano. Anche il linguaggio usato dai medici risponde agli echi statunitensi, «il trittico dunque parla inglese. […] Pareva che i mali s’adeguassero agli angloamericani» (IP, p. 31) e lo scrittore lo sottolinea con accurata ironia grazie al susseguirsi di termini tecnici come sleepdeprivation, social phobia, free floating anxiety, panic-attack, swing, self-confidence, performance, light-therapy, ai quali per contrasto Ottieri fa risaltare un linguaggio spiccatamente aulico con parole quali «frale», «volea», «sentiere», «aura» con un voluto effetto stridente. Oltre che titubante e scettico, il paziente si mostra rigido nel concedere fede incondizionata alla novità che si sperimenta sul suo corpo, o sarebbe meglio dire cervello, arrivando a chiedere una penosa quanto inutile «questione di fiducia» (IP, p. 40) a un parlamento fantoccio, schermo di un inflessibile potere autoritario personificato dal Dottor Cassano, restio a perdite di tempo. Il valore del tempo è importante a qualsiasi latitudine, da Zurigo a Pisa e in ogni altra clinica, e per Ottieri il tempo non sembra essere galantuomo. Imprigionato in un presente invivibile, senza prospettive 52 Le benzodiapezine appartengono alla famiglia dei farmaci psicolettici che producono rilassamento e depressione dell’attività psichica, e più precisamente al gruppo dei timolettici, depressori degli affetti, che a loro volta si distinguono in neurolettici che svolgono un’attività antipsicotica e in tranquillanti che diminuiscono i livelli d’ansia in tutte le sue forme. Le benzodiapezine fanno parte di quest’ultimo sottogruppo di tranquillanti o sedativi ansiolitici che riducono l’ansietà patologica, la tensione e l’agitazione. 53 I sali di litio appartengono alla famiglia dei farmaci psicoanalettici che stimolano l’attività psichica e si distinguono in timoanalettici o antidepressivi, quando la loro azione investe gli affetti, e in nooanalettici o neurostimolanti, per lo stato di vigilanza. I sali di litio appartengono al primo gruppo, dei timoanalettici che agiscono sul tono dell’umore e tendono a elevare, sulle espressioni del pensiero, un effetto nei diversi casi ansiolitico o stimolante. 169 rassicuranti per il futuro, il paziente oscilla il proprio malessere appeso alle lancette di piombo dell’orologio che solidificano lo scorrere delle ore. La clinica diventa un microcosmo con le proprie leggi, fazioni, lotte, lavori, amori, illusioni e con una sua Storia specifica, riuscendo lo scrittore ancora una volta a non dimenticare la realtà storico-sociale del mondo esterno anche quando si trova imprigionato per lunghi periodi in un luogo chiuso. La clinica è sempre legata alla realtà contingente e a Ottieri non sfugge nulla, lucido nel sapere ciò che avviene oltre la sua stanza, perspicace pur nella malattia nel comprendere come sta evolvendo il mondo. Dalla crisi dei paesi socialisti in un anno emblematico come il 1991 (L’infermiera di Pisa viene composto mentre è in atto la disgregazione dell’Unione Sovietica) all’alba del disfacimento del PSI (del ’92 sarà la Storia del PSI), da Solidarność alla corruzione dilagante in Italia, dal capitalismo occidentale al ricordo di Musatti e del binomio marxismopsicoanalisi che non lo abbandona mai. Attraverso la clinica, la società, la storia e la politica, in quei decenni di crisi, libertà è una delle parole chiave della poetica di Ottieri dall’oppressore nazifascista nelle Memorie agli ingranaggi alienanti dell’industria, dal Male che imprigiona alla corruzione politica. «Aveva fatto della clinica un mondo, / del mondo una clinica. / Libertà va cercando ch’è sì cara, / libertà va cercando. / Libertà da tutto» (IP, p. 17). Il calco del verso dantesco «Or ti piaccia gradir la sua venuta: / libertà va cercando ch’è si cara, / come sa chi per lei vita rifiuta»54 (Purg., I, 70-72) è significativo poiché si delega a Dante un ruolo di rilievo non solo dal punto di vista letterario, le immagini e le cadenze della Commedia emergono di continuo nella scrittura di Ottieri, ma soprattutto per la sua figura storica di uomo sdegnoso, simbolo della libertà intellettuale che non si piega dinanzi alla corruzione dilagante, pagando in prima persona con l’esilio le sue drammatiche scelte di vita. E non a caso, per una sorta di metempsicosi, Ottieri si reincarna in Dante quando in un verso del poemetto si autodefinisce «ghibellin fuggiasco»55 (IP, p. 26) mettendo in risalto il valore dell’inevitabile fuga da una situazione non più sostenibile che può condurre al suicidio o all’esilio56. Ottieri segue Dante sulla via dell’esilio ma a modo suo, di clinica in clinica, aspramente critico con la società del Ventesimo secolo non dissimile per corruzione e indegnità morale a quella medievale ferocemente condannata nella Commedia. Sono sette i richiami che Ottieri compie nei confronti di Dante confermando l’importanza letteraria e intellettuale del poeta fiorentino, soprattutto come guida morale: «Distinguere il velle dal posse / è metafisica cima / o abisso del profondo. / Solo Dante avrebbe voluto e saputo» (IP, p. 29). 54 Si tratta di Catone l’Uticense che si tolse la vita per non cadere sotto la tirannia di Cesare. La sua drammatica vicenda è narrata nella Farsaglia di Lucano dalla quale deriva la conoscenza di Dante che dà al gesto del suicidio un valore simbolico, venerando in Catone una grande virtù morale. 55 Dal v. 174 dei Sepolcri di Foscolo. Nonostante Dante fosse guelfo di parte bianca, per le tesi anticurialiste espresse nella Monarchia e nella Commedia, gran parte del Risorgimento italiano lo interpretò ghibellino. 56 Il motivo dell’esilio fisico, politico, mentale è fortemente radicato nel pensiero di Ottieri che in una lettera del 20 maggio ’47 scrive all’amica Fabrizia Baduel: «La mia vita è una condizione estrema, d’esilio». 170 Ottieri inserisce nell’Infermiera di Pisa alcuni versi che sono altrettanti calchi danteschi come ad esempio «aspro, torvo e cupo sentiere» (IP, p. 23) per descrivere la condizione del malato in clinica da cui può uscire attraverso le nuove terapie come la psicobiologia, anche se Ottieri non nasconde la propria diffidenza. «Le psicologie dinamiche / braccano il malato, / non hanno pietà del suo soffrire, / accrescono l’angoscia / per farne uscire con un salasso / il riveder le stelle» (IP, p. 76). Gli ultimi versi dell’Inferno (XXXIV, 136-139) sono caratterizzati da un evidente cambiamento di tono rispetto all’intera cantica; il linguaggio è più leggero, i termini utilizzati rinviano a dolci visioni, al cielo stellato e soprattutto alla chiarità di un mondo che sembrava perduto per sempre. In Ottieri l’atmosfera è agli antipodi come se per un malato l’inferno non si dovesse mai abbandonare: senza tregua né pietà, la sofferenza aumenta insieme all’angoscia, e se un’uscita s’intravede essa è impraticabile. Si è sempre dentro l’inferno. «Ora gliela togliamo, diceva / il Barone del farmaco al disperato lamento / di colui cui morde l’angoscia» (IP, p. 10). Il «colui» è riferito al paziente, mentre l’immagine dell’angoscia che «morde» per il valore espressivo del verbo rimanda a due versi di Dante che Ottieri congiunge: «L’angoscia che tu hai / forse ti tira fuor de la mia mente» (Inf., VI, 44-45) e «Fé sembiante / d’omo cui altra cura stringa e morda / che quella di colui che li è davante» (Inf., IX, 102-103). La prima citazione riguarda il goloso Ciacco la cui afflizione fisica e morale non permette al poeta di riconoscerlo; mentre nella seconda si staglia l’immagine dell’Angelo che giunge in aiuto a Dante e Virgilio dinanzi alla porta della Città di Dite nel suo atteggiamento aureo e superiore per l’alta cura che lo attende in cielo. Il paziente esprime le medesime sofferenze dei dannati infernali con il suo miserabile lamento che spesso nell’aurea tetra risuona tra eterni sospiri e patimenti. «Più la vedeva e più ci voleva fuggire, / via dalla sacra piana / giacente sulla sabbia / fra Arno e Serchio, / lasciare la città ampia e silente / dove la torre pendente, cadente, / fa da pendant alla Spina, / non chiese ma oggetti / preziosi deposti» (IP, p. 16). Ottieri immagina di fuggire dalla clinica con l’infermiera per vagare attraverso le strade di Pisa. L’indicazione geografica della città «fra Arno e Serchio» è un altro esplicito riferimento a Dante che si era occupato di Pisa in toni poco lusinghieri: «Ahi Pisa, vituperio de le genti / del bel paese là dove ’l sì suona, / poi che i vicini a te punir son lenti, / muovasi la Capraia e la Gorgona, / e faccian siepe a Arno in su la foce, / sì ch’elli anneghi in te ogne persona!» (Inf., XXXIII, 79-84). È il canto di Ugolino e l’invettiva violenta prorompe dall’animo di Dante, come solitamente avviene, con durezza e intensità. Il «Serchio» è il fiume di Lucca le cui acque, dopo un percorso di circa cento chilometri, raggiungono il mare sulla costa tirrenica in località Migliarino nella provincia di Pisa; fiume che Dante cita nel canto dei barattieri immersi nella pece: «Ecco un degli anzïan di Santa Zita! […] Qui non ha loco il Santo Volto! / Qui si nuota altrimenti che nel Serchio!» (Inf., XXI, 38-49). Nel descrivere alcuni 171 particolari della città Ottieri si sofferma sui monumenti più importanti; in primo luogo la Torre e la Chiesa di Santa Spina il cui nome deriva da una reliquia della corona di spine di Cristo portata da un pellegrino pisano di ritorno dalla Terrasanta. Al suo interno si trovano importanti opere come il tabernacolo di Stagio Stagi, la Madonna della Rosa di Nino e Andrea Pisano e l’altare marmoreo di Girolamo da Carrara. Un altro richiamo a Dante si riscontra nella figura di Cassano immaginato in modo fortemente ironico come un novello Omero, in quell’atteggiamento tipico del malato che diffida della nuova terapia e combatte il medico con le uniche armi a sua disposizione, la poesia: «Accorreva dal terzo piano / Cassano come un falco, / aquila / che sopra agli altri com’aquila vola» (IP, p. 32). «Cos’ì vid’ i’ adunar la bella scola / di quel segnor de l’altissimo canto / che sovra li altri com’aquila vola» (Inf., IV, 94-96). Omero è il maggior rappresentante della poesia epica che da lui ha avuto origine, mentre «la bella scola» rappresenta quel piccolo gruppo di poeti ammirati da Dante nel Limbo quali suoi prediletti maestri. Qui Ottieri accomuna ironicamente Cassano a Omero e «la bella scola» ai suoi collaboratori. Alla fine del poemetto c’è anche un riferimento agli adulatori attraverso la figura di un noto conduttore televisivo asservito al «Presidente», un’anticipazione delle critiche politiche che Ottieri condurrà nelle opere successive, dal Poema osceno all’Irata sensazione, in cui egli osserva con rabbia e delusione la decadenza progressiva della società italiana sotto i colpi magmatici della televisione: «Accendere la tv, / beccare il sopravvissuto Buongiorno / che loda se stesso e il Presidente / in una sbroda volgare e sciocca / degna di questo magnifico e progressivo / canale privato. / Guarda canale cinque» (IP, p. 74). In questo magma si ritrovano gli stessi odori nauseabondi della seconda bolgia infernale dove sguazzano gli adulatori immersi nello sterco nei confronti dei quali Dante prova un forte disprezzo. Viene rappresentata un’umanità meschina e il tono della descrizione si adegua nel tratteggiare, con crudo realismo, quella sorta di distacco morale che caratterizzerà il rapporto di Dante con i dannati di Malebolge. Le rime che qualificano la seconda parte del XVIII canto dell’Inferno (vv. 103-108 e 113-117), tra cui si ricordano «scuffa», «muffa», «zuffa» e «Lucca», «zucca», «stucca», accompagnate da un colorito di abietta volgarità come «sterco», «privadi», «merda», «lordo», «gordo», «brutti», «pinghe», riescono a dipingere con precisione l’atmosfera circostante: è un vero e proprio mondo di «merda», ricolmo di lusingatori e adulatori a ogni crocicchio, lestissimi a inginocchiarsi dinanzi al potente di turno. Da Dante, passando per Machiavelli, Foscolo, Pasolini, fino a Ottieri il richiamo a un rinnovamento morale per l’Italia resterà lettera morta. Nel classico per Ottieri gioco di richiami letterari, oltre a Dante sono presenti nell’Infermiera di Pisa anche altri poeti come Foscolo, Leopardi e Manzoni. Del primo ritroviamo 172 calchi evidenti oltre al «ghibellin fuggiasco» in un omaggio Alla Sera: «Forse perché della fatal quiete / tu sei l’imago, a me si cara vieni, / o sera. / Egli aveva sempre ritenuto / che lo spirito guerrier che rugge / entro il Foscolo, fosse ansia. / Voleva chiederlo / al professore di italiano alla Normale. / L’ombre, il crepuscolo, la notte / sono amici del bipolare, / che annaspa la mattina» (IP, p. 67), Ottieri è attratto dalla profonda inclinazione depressiva del sonetto Alla sera in cui Foscolo condensa, con potente forza lirica, alcuni aspetti essenziali della sua poetica: la natura tempestosa specchio dell’animo irrequieto, un ardore ruggente di passioni, un angoscioso desiderio di morte e soprattutto la mitizzazione della sera, da lui adorata perché simile alla morte immagine della pace eterna. La notte come prefigurazione della morte celebra inoltre quel particolare viaggio intellettuale verso il nulla che sfocia in uno strenuo conforto della pace serale nell’incoscienza dei sensi, motivo che Ottieri collega al sonno leopardiano. L’omaggio poetico nella ripresa dei primi tre versi del sonetto Alla sera determina la riflessione di Ottieri sulle percezioni avute da Foscolo nel comporre il sonetto quali il nulla infinito, il tempo colpevole che fugge, lo struggimento provato dal poeta, l’oscurità della notte. La figura di Foscolo esule, malato, in costante opposizione politica e mai piegatosi al potere dominante, si presentava come un modello per Ottieri che vedeva nella sua personalità l’emblema di un poeta profondamente engagé. Anche Manzoni rientra nell’effetto di rimandi poetici presenti nel poemetto. È interessante notare che quando Ottieri compone i suoi versi prosaici dimostra una grande conoscenza dei più importanti poeti della letteratura italiana come Dante, Foscolo, Manzoni, Leopardi con i quali instaura un coinvolgente rapporto intellettuale. Ciò è dovuto alla conoscenza che egli ebbe di questi autori studiati e amati fin dal tempo del liceo; la lettura delle loro opere restò impressa nella sua mente anche in età adulta e durante la composizione delle proprie poesie i richiami, parodie o rifacimenti dei modelli giovanili emergono con naturalezza: «Premendo / il campanello bianco della scura / porta di casa in noce, / fui succhiato dal mulinello della melanconia. / Il cuore scese in basso. / Mille volte poi / risorsi e giacqui» (IP, p. 27). Paragonarsi al Napoleone del Cinque Maggio, per il «risorsi e giacqui», è senza dubbio un azzardo amplificato dal momento che precede il cadere. Se infatti Napoleone «lui folgorante» cade dopo numerosi trionfi, Ottieri crolla nel semplice atto di premere il campanello di casa, evento già ricordato nell’Irrealtà quotidiana che segnerà ad libitum la sua vita psichica. Qualora ce ne fosse ancora bisogno, Ottieri ci vuol ricordare che tutto ruota intorno alla malattia; ma si tratta del Male assoluto e dunque la sofferenza che ne consegue può prevedere, senza eccessive disarmonie, anche il sentirsi un nuovo Napoleone, un moderno condottiero della depressione. Ma oltre la letteratura e la malattia, se esiste una speranza di rinnovamento psichico e sociale questa passa per un’evoluzione di pensiero che possa condurre alla realizzazione di una società 173 migliore. Il socialismo, che si proponeva di eliminare i contrasti più stridenti tra le classi sociali, appare agli occhi di Ottieri quale auspicabile ideale rivoluzionario. Da qui la conoscenza del marxismo, la partecipazione politica, la speranza del compimento della libertà agognata; ma la Storia sembra dare allo scrittore dei riscontri negativi. La crisi del marxismo si avverte già nel primo dopoguerra per poi sfociare nell’implosione degli stati socialisti alla fine degli anni Ottanta, cui segue il disfacimento politico di alcuni partiti europei tra cui il PSI. Allo scrittore non rimane allora che tentare una rivoluzione par soi-même non più politica bensì sentimentale immaginando allora un nuovo socialismo, questa volta fondato sugli affetti che rimpiazzi quello politico non più credibile; e nello stesso tempo egli si sente come la Polonia, riconoscimento importante per il primo paese, tra quelli socialisti dell’Europa dell’Est, a eleggere un governo non comunista57: «Questa volta faccio / la sentimental rivoluzione, / rovescio di sana pianta la prassi. / Fondo un neosocialismo! […] S’era per urgente bisogno / spostato all’Ovest come la Polonia» (IP, pp. 25, 31). Lo scontro Est-Ovest, non solo d’ideologie e politiche differenti nel dualismo comunismocapitalismo, URSS-USA, è vissuto da Ottieri soprattutto da un punto di vista psichiatrico. La nuova terapia farmacologica cui si sottopone nella clinica di San Rossore giunge proprio dall’America e il Dottor Cassano, che lo ha in cura, è uno degli adepti. Venne dall’America la DEP / malattia mentale unificata. / Venne ricca di sigle / che piacevano all’imperialismo / che aveva sempre fretta. […] Bush portava quattrini, / Cassano speranza / e fede nella possibilità del bene. / Potenza del West / e delle sue parole. […] Insofferente agli Usa tuttavia / permaneva il matto / anche se l’Est gli dava / non pochi pensieri. Più forti del matto / permanevano gli Usa / e l’economia pianificata / pareva proprio essere sbagliata. (IP, pp. 30, 31, 33) Come reagisce il poeta a queste trasformazioni sociali, al periodo di crisi incombente, al crollo delle illusioni, ai piani quinquennali ormai abbandonati mentre è imprigionato nella clinica? Con l’unica voce non ancora dissolta: la poesia. Nei versi si fa luce il pensiero di Ottieri che non vuole cedere passivamente al decadimento generale, innalzando con lucidità e senza ipocrisie un grido alla gioia che assume un nobile valore rivoluzionario non appena la parola viene concessa ai poeti. Questo è l’ultimo stadio della rivoluzione, utopico certo ma auspicabile: la voce disperata del poeta. In tale condizione si sedimenta la vita di Ottieri, poeta malato nella definizione più immediata ed erronea, poiché è soprattutto la figura dell’intellettuale anticonformista che rispecchia fedelmente la vita di chi non si piegò mai alla volgarità politica e culturale del proprio paese. 57 Dal 22 settembre ’80, data in cui venne costituito il sindacato professionale indipendente autogestito Solidarność, al giugno ’89, in cui ebbero luogo le prime elezioni semilibere con la netta vittoria proprio di Solidarność, la Polonia visse una fase di profonde mutazioni politico-sociali attraverso scioperi, manifestazioni, referendum e repressioni fino all’elezione, a seguito della prima consultazione democratica avvenuta in un paese del Patto di Varsavia, di Tadeusz Mazowiecki (luglio ’89), primo ministro intellettuale e cattolico esponente di Solidarność. 174 Negava l’evidenza, / la destra evoluzione del mondo / affettato dai potenti, / voleva ancora ire / nella piana della giustizia / (oimé, sognatore), / nascondersi nel covo degli innocenti / senza servi. / Quando i potenti e i pre-potenti / logorroici la finiranno di sparlare / e la voce dei poeti / tornerà a farsi seria sentire / (prima, beffarda), inaudito / echeggerà il suo grido alla gioia. / Sapeva che anticapitalisti pervicaci / consideravano la sua malattia / una rivolta schiacciata, / confinata nelle cliniche. / Non si inorgogliva. Era incerto. (IP, pp. 19-20) I versi propongono alcuni contrasti significativi: sproloqui logorroici-parole poetiche, potenti-anticapitalisti, servitù-innocenza. Al cospetto di tali conflitti il poeta nega l’evidenza non accettando la realtà dei fatti, come la svolta a destra che è l’immagine del trionfo capitalistico contro la crisi dei paesi socialisti nell’involuzione, più che nell’evoluzione, della società moderna. Chi non acconsente ai mutamenti politici effettivi è un illuso sognatore che tenta di ritrovare l’umanità perduta nella giustizia e nell’innocenza. I termini per Ottieri si caricano di un denso significato e come per libertà, qui innocenza riporta idealmente a quello stato primitivo di purezza perduto nella società contemporanea seguendo un mito che attraversava il pensiero occidentale da Rousseau a Pasolini, ovvero quello del buon selvaggio secondo cui originariamente l’uomo era un animale buono e pacifico che in seguito è stato corrotto dalla società e dallo sviluppo tecnologico. Mentre il rifiuto netto e feroce del servilismo lo avvicina sempre più a Dante, alla fine sarà esclusivamente la voce dei poeti, al plurale, a indicare la strada per il sospirato rinnovamento umano ben oltre la politica, gli interessi di bottega, la corruzione. Purezza e innocenza in quella voce di un poeta fanciullo, l’unico in grado di estrapolare un sussulto, un grido, dopo i vari urli di dolore nei manicomi, questa volta di gioia. Dalla gioia alla tristezza, tuttavia, il passo è breve e Ottieri non perde tempo nel dare risalto a questo movimento. Gli ostinati oppositori al sistema capitalistico, cioè coloro che dovrebbero interpretarlo meglio, relegano la sua poetica all’interno delle cliniche. A chi può dunque rivolgersi Ottieri? Non ai medici, a quanto sembra, poiché loro agiscono su un piano diverso, molto più oggettivo e in apparenza distaccato. Questo atteggiamento ferisce lo scrittore che si sente troppo spesso abbandonato a letto senza il conforto di una terapia che tenga in conto anche l’anima. Elemosina allora una parola, una consolazione, un momento d’intimità umana più che clinica e non la subitanea fuga, mentre si partecipa alla festa, ossia al banchetto del suo cervello che si compie durante l’analisi. Fermati, Cassano? ’scolta, capito? / Fermati, vieni spesso / ma ti trattieni un lampo. / Non parliamo, Cassano, / di quando vieni col codazzo. […] Io ti capisco, Cassano, è la tua festa. / Ma io che ho l’anima pesta / ti avverto, grande medico, vieni solo. […] Devo una volta per sempre / dirti dettagliatamente / chi sono e come fui. / Io so che mi puoi ascoltare, / deliberatamente non fuggire. (IP, pp. 45-46) E allora il personaggio malato arriva a rimpiangere le ore di psicoanalisi in cui, seppur nella lotta, c’era empatia tra medico e paziente e soprattutto si parlava. Non parole ma fatti, o anche più 175 banalmente non psicoanalisi ma chimica, gli risponde a Pisa l’americano Cassano determinato a seguire senza tentennamenti la sua terapia, subita dunque dal paziente ma con l’onore delle armi. Ponendo l’attenzione sul protagonista, il poeta malato, è necessario comprendere per quale disturbo sia stato rinchiuso in clinica. Sui sintomi non si hanno sorprese trattandosi di depressione accompagnata dai ben conosciuti stati d’irrealtà quotidiana: bipolarità, ipocondria, paranoia, alcolismo: «Non sono un malato ma un policlinico» (in E liberaci dal male oscuro). Nella DEP c’è sempre l’Euforia / pel bipolare. Bipolare, / guardati da essa! /Ha sapore d’acciaio. […] «Lei pensa a tutto e al contrario di tutto». […] I professori / con le loro disperazioni e speranze / sulla di lui centenaria mania / e ipocondria / gli procuravano paranoia e noia. […] L’ossessione è fuori dalla storia. / Dalle atemporali ossessioni / era assediato. (IP, pp. 12, 13, 22, 23) Da questo breve campionario di malesseri, Ottieri mette in primo piano l’Euforia, in maiuscolo come un personaggio da tragedia greca, stato emotivo caratterizzato da allegria, esuberanza e felicità in corrispondenza di un evento positivo e gratificante. Accompagnata da un eccitamento psicomotorio, l’euforia può assumere un significato patologico quando la risonanza emotiva è sproporzionata ai dati della realtà, come accade nella mania secolare per lo scrittore. Inoltre essa si caratterizza per una condizione psicologica qualificata da una fuga dispersiva d’iniziative e idee che prorompono oltre ogni contesto biografico cui il soggetto si rapporta in modo assolutamente acritico. Il disturbo bipolare, dal suo canto, aggiunge ai sintomi depressivi un comportamento maniacale alternando periodi di profondo scoramento ad altri in cui si dimostra energico e esuberante. La durata dei cicli di malattia e delle fasi di compenso è variabile e i quadri con cui si presenta sono numerosi perché i sintomi mutano da un estremo all’altro dell’umore per qualità, numero e intensità. L’ipocondria, detta anche patofobia, aggiunge a questo quadro complesso una preoccupazione immotivata per le proprie condizioni di salute, accompagnata da disturbi fisici e stati d’angoscia, imponendo al malato un ritiro della libido dal mondo esterno con concentrazione della stessa su di sé e sull’organo interessato. La paranoia è un altro tassello del mosaico e si precisa come una psicosi caratterizzata da un delirio incentrato sulla persecuzione, grandezza o gelosia. La personalità paranoica presenta tratti di diffidenza, sospettosità, riservatezza, rigore, ma questi contrastano con l’estrema lucidità della coscienza e con la perfetta conservazione della memoria falsata solo dal contenuto delirante, insieme a una logica supportata da una dialettica impeccabile a cui si aggiunge un contegno esteriore ordinato e una condotta corretta. L’ossessione, infine, «assedia» il depresso e non a caso Ottieri ha utilizzato proprio questo termine che deriva dal latino obsidere, propriamente assediare, bloccare, occupare, per descrivere la condizione di chi è ostacolato dal bisogno insopprimibile di compiere determinati atti o di astenersi da altri, o è costretto a trattenersi con pensieri o idee particolari che non è in grado di evitare, ripetendo 176 indefinitamente questo obbligo coercitivo. Le ossessioni includono idee, pensieri, ragionamenti spesso percorsi dal dubbio e dall’interrogazione, immagini, sentimenti, ricordi o impulsi che, senza un nesso ricollegabile a uno stimolo esterno, si propongono in modo iterativo e automatico contro la volontà del soggetto. Durante il ricovero in clinica, oltre alla decennale lotta analitica tra il paziente e il medico, c’è un altro conflitto che assume notevole importanza e riguarda quello in atto tra realtà e fantasia che si svolge all’interno della mente di Ottieri. La fantasia s’era scrollata dal reale / e garriva. / La realtà ammainava. / Prudentemente Cassano / sollevava i lembi di cotesta bandiera. […] «Lei è il più grande esempio» fece Mignani / «del guasto delle interpretazioni permanenti. / Lei non conosce più la verità, / solo la sua ombra cipressina». […] È davvero il sogno / più della vita? / No, è un’alienazione che logora il cervello / e le mani. / Ormai il vecchio era tediato / e reso moribondo dai fantasmi, / dall’annaspare per l’aere. […] Egli era diventato, / sempre nella tropicale / immaginazione, / un professore della Normale. / Insegnava teoria della personalità. […] Vicino a te s’acquieta / l’irrequieta anima mia. / Forse s’acquieta col fantasma. / Ma il fantasma / dieci volte al giorno / cangia. (IP, pp. 13, 28, 40, 63) Fantasia, cui fa riferimento Ottieri, è un termine usato in psicologia in due accezioni: come attività immaginativa alla base di ogni processo creativo, e come fantasma cioè espressione di risonanza psicoanalitica connessa a quella condizione in cui si realizza l’appagamento di desideri inconsci. Il fantasma è un prodotto illusorio che non resiste al confronto con la realtà e tende a soddisfare i desideri per via fittizia nei rapporti con il mondo esterno che impone al soggetto il principio di realtà. I fantasmi possono essere consci come nel caso dei sogni diurni, o inconsci dove il riferimento è al nucleo originario del sogno e, secondo Freud, tutta la vita di un soggetto, comprese le sue condotte che sembrano lontane dall’attività immaginativa, è modellata e strutturata da una fantasmatica inconscia. La fantasticheria, day dream o sogno diurno, risponde all’esigenza di una legittimazione esistenziale ed esprime un desiderio del presente che corre a una piacevole esperienza passata per riviverla con l’idea di una realizzazione futura. In genere i sogni a occhi aperti prosperano tanto più rigogliosi quanto più il reale ammonisce alla moderazione, e Ottieri si fa interprete dello scontro in atto tra la realtà, che sembra abbandonata, e la fantasia nella quale riversare i fantasmi assai mutevoli e soprattutto erotici. Nell’Infermiera di Pisa sono descritti, anche con minuzia di particolari, vari amplessi scaturiti dalla fantasia dello scrittore e rivolti non soltanto all’infermiera, la «grande favorita» (IP, p. 39), ma anche ad altre donne. Attendeva che l’infermiera di Pisa / slacciasse il grembiule, / aprisse la veste, / scoprisse i misteriosi seni, / forieri di misteriose terre. […] Non intendeva sublimare / nella fantasia l’infermiera di Pisa, / guardarla, guardarla, guardarla / da ogni lato, / portarne l’immagine nella stanzetta, / appiccicata agli occhi del cervello / che in pratica era distante / anni-luce dalle mani. (IP, pp. 17, 74) 177 Oltre al gesto nell’immaginazione comune di slacciare il grembiule per osservare gli inevitabilmente «misteriosi seni», è determinante l’indicazione spazio-temporale della distanza «anni-luce» che determina la differenza effettiva tra la realtà, l’infermiera è lì con la sua divisa, e la fantasia con l’apertura impossibile della veste. Tutto il poema ruota su questo perno: l’immaginazione infinita e la pratica negata di un desiderio, sempre lo stesso, inappagato. Il gioco letterario di Ottieri si caratterizza per alcuni topoi volutamente comuni della letteratura erotica: in una clinica un anziano degente, dongiovanni in pensione, ha un’infatuazione per una giovane infermiera. Fin qui nulla di male, ma come viene descritta l’infermiera? La divisa aumenta le fantasie erotiche sia per il motivo dell’uniforme che le dà un aspetto di comando, sia per il desiderio di immaginare quello che si nasconde dietro il grembiule. Tuttavia le connotazioni fisiche che caratterizzano la donna sono tutt’altro che sensuali, e fin dall’inizio l’ironia di Ottieri sagacemente indirizza verso una particolare interpretazione del testo, l’infermiera è bruttina: «Corri per la corsia come un colpo / di fucile, scandito dal tacchettio, / o alto stelo leggermente curvo» (IP, p. 7). Gli elementi vengono disposti con una logica teatrale fin dall’entrata in scena del personaggio femminile che corre per la corsia, e sarebbe un atteggiamento normale per una qualsiasi infermiera; eppure quel determinato tipo di corsa è sgradevole, improvviso e soprattutto reso fastidioso dalla serie fitta di piccoli colpi secchi prodotti dai tacchi alti il cui rumore è davvero molesto per chi suo malgrado lo percepisce, ossia il paziente immobilizzato a letto. Già dalle prime indicazioni affiorano alcuni elementi interessanti: oltre al contrasto corsa-immobilità, l’insieme delle parti comporta una visione sgraziata della donna, alta, magra e anche un po’ curva: l’infermiera è goffa, quasi caricaturale e non certo bella58 come dimostreranno le descrizioni successive. Gli bastava vederla, ignara, curvarsi, / albero dinoccolato, ossuto e molle, / libellula. […] In questo setting di Pisa, / c’era la lunga infermiera di Pisa, […] alto stelo […] snodata pianta […] dinoccolato stelo. […] Non avea petto, né pancia, né sedere, / piallata sciacquava nella veste blu, / albero fronzuto solo di ricci neri, / d’occhi, di naso e di bocca. […] Lunga infermiera / dinoccolata a volte come un burattino, / o libellula. […] L’ancheggiante ci sarebbe mai / andata con lui? […] Era crudo il molle stelo. […] Alto stelo scorrente in corsia. […] Sempre svelta, estroversa nell’azione. […] Un’anguilla, […] giovanissima ragazza, […] giovane sposa. / Leggermente curva […] col suo magro e casto / culetto a segreti scatti. […] Era un alto stelo. (IP, pp. 9, 10, 11, 14, 15, 16, 18, 39, 44, 45, 56) Ottieri attinge a piene mani dal mondo vegetale e animale per descrivere l’infermiera, e il ritratto complessivo appare poco allettante. È la scelta dei particolari spesso ripetitivi che sorprende, come lo «stelo» iniziale ripetuto per ben sei volte che caratterizza l’infermiera e tra i vari aggettivi «dinoccolato» ricopre, senza dubbio, un ruolo caratteristico nel sottolineare l’andatura dondolante, «ancheggiante» e snodata dell’infermiera aumentando, qualora ce ne fosse bisogno, il suo generale 58 Eppure Vincenzo Loriga è costretto ad ammettere in una lettera inviata il 23 ottobre ’91 allo stesso Ottieri: «Deliziosa la tua Infermiera di Pisa, a tutti gli effetti; un altro po’, me ne invaghivo anch’io». 178 aspetto spiacevole. «Stelo», «pianta», «albero» rappresentano il trittico descrittivo derivato dall’ambito vegetale, ma ogni attributo a loro legato è sgradevole. «Libellula» e «anguilla» rappresentano invece due recuperi dal mondo animale, entrambi usati in modo figurato per caratterizzare una persona che, con agilità non disgiunta da una certa grazia, sguscia o fugge via facilmente. Infine l’immagine del «burattino» si riferisce a movimenti sgraziati poiché la donna si muove a scatti e senza armonia. Sebbene il ritratto complessivo dell’infermiera sia strutturato con caricature e forti negazioni, l’infermiera non è bella ma forse proprio per questo lo scrittore ne è attratto. Per quanto concerne il suo carattere, si tratta di una «giovanissima ragazza» (IP, p. 39) e «giovane sposa» (IP, p. 44) che alla fine del poema regredisce nella mente del paziente a «bimba» (IP, p. 71), dedita completamente al lavoro senza tentennamenti e per questo corre spesso tra le corsie e le stanze. Parla poco nel complesso e appare restia alle avances e alle battute dello scrittore mostrando di conseguenza un cuore di pietra: Non ha altro da pensare / questo vecchietto? / È squisito / e sempre parla a voce bassa. […] Al signore posso fare mille clisteri, / non una carezza. / Era crudo il molle stelo, / s’ignorava come avesse abbandoni, / che cosa miagolasse nell’amore. / Nel lavoro era lieta, / estroversa e veloce. / Correva a testa bassa / dalla guardiola al fondo, / dal fondo alla guardiola. (IP, p. 18) Le parti della tragicommedia sono ben delineate e non possono sovrapporsi: da una parte l’infermiera che svolge il proprio lavoro e dall’altra il paziente che deve guarire. Clisteri sì, amore no. E allora lo scrittore si prende una personalissima rivincita nel fantasticare un rapporto con un’altra donna dalle caratteristiche opposte, quasi una donna-schermo con la quale si possa agire attivamente: «Come un colpo / di fucile traversò la ruminazione del vecchio / l’idea dell’amante di Roma, / bionda. / Avea le cosce lunghe, / i seni a coppa. / Una terrificante libidine / lanciava il paziente / al ricordo di colei che nuda / faceva il ponte all’indietro. / Le ficcava il membro da retro» (IP, pp. 20-21). Il motivo del colpo di fucile torna con l’approssimarsi delle figure femminili sulla scena, quasi a voler indicare il carattere improvviso, ma anche spaventoso, dei rapporti con le donne. La figura di quest’amante di Roma, o meglio la sua fantasticheria giacché si tratta pur sempre di un’idea riportata volutamente in corsivo, è l’altra faccia della medaglia sessuale rispetto alla bruna e piatta infermiera in divisa: essa è bionda con cosce lunghe e seni formosi, nuda e posseduta «da retro». Ovviamente si tratta di una fantasia notturna che si dissolve ai primi bagliori del risveglio, all’alba, quando la coscienza della realtà non permette ulteriori divagazioni a eccezione dei day dreams sempre bene accolti. La bruna e la bionda sono tuttavia solamente due figure tra le tante che affollano la mente dell’anziano scrittore, in quella ricorrente «ridda delle 179 donne vagheggiate» (CC, p. 9) osservata già nel Campo di concentrazione e attentamente studiata dai medici. Cassano dall’alto trono / del suo sacerdozio: «Non ti farai mica, / ora che sei quasi a cavallo, / scompensare dalle donne?» / «Professore, tutta la mia vita / è travagliata a morte dalle donne». […] Lui sempre smaniato di donne, / fin da ragazzino / era vissuto tra uomini. […] Faceva intanto attenzione delirante / a uno degli ultimi suoi lanci dello sperma. / Tutte le donne che avea nel cervello / componevano una leggiadra, dannata / ghirlanda: poteva pur immaginare / uno scroscio di sperma nel ficheto. (IP, pp. 47, 49, 62) La selva dei sessi femminili accoglie tutte le fantasie erotiche dello scrittore fino all’allucinazione sessuale con immagini che prefigurano le scorribande amatorie del successivo Poema osceno. Tutte le scene di sesso elaborate nella clinica di Pisa vedono protagoniste molte donne ma non l’infermiera, sognata d’un amore impossibile, che filtra il desiderio dell’anziano degente con fantasticherie sessuali che hanno un target ben preciso. Si scinde dunque il desiderio d’amore con la fantasia erotica, e quest’ultima diventa tanto più intensa verso altre donne quanto aumenta la ritrosia dell’infermiera nei suoi confronti. Un inno al sesso libero che non contempla alcuna procreazione; non c’è più tempo e non avrebbe alcun senso, e allora ogni alternativa al concepimento è ben contemplata. L’esplodere ripetuto del pene con lo sperma accusatore rappresenta, nelle fantasie dello scrittore immobilizzato a letto, un ultimo tentativo di rivincita per stare ancora nel mondo a modo suo, esprimendo i propri sentimenti in una forma aggressiva e nello stesso tempo innocente. Quello sperma che inonda il petto e le cosce delle numerose donne fantasticate si trasforma quasi per incanto in inchiostro che trova sulla pagina la finalizzazione di un rapporto fertile: la poesia solipsistica e rivoluzionaria. Accostandosi a lei, / esplodeva di desiderio. […] S’era proposto / di sodomizzarla, / cercando tutti i fori / che non facessero nascere un bambino. / Ella non volle. / Le propose di mettere il pene / fra i seni ch’ella con le mani / dovea predisporre a pareti. […] Poté infilare sereno / il pene gonfio da scoppiare, / che scoppiò. / Il liquido / inondò alla vergine la gola. […] Nella pensione / il pene si rigonfiò. / Glielo mise fra le cosce. […] Per struggimento, / voleva cacciarle il pene in bocca. / Non lo permise. (IP, pp. 69, 70, 73) Si sogna dunque il possesso fisico di diverse donne, in qualsiasi luogo e in qualunque posizione, in una rivisitazione personale del Kamasutra che consente l’aggiunta di nuove avventure con infermiere, modelle, commesse, Miss Italia, attrici, bionde, brune, alte, basse, vergini o sposate, capelli lunghi o corti, vestite o nude; nel campionario senile non ne manca nessuna e «egli immaginò col pirla / di possederle tutte» (IP, p. 55), mentre i suoi medici e psichiatri vanno a nozze con tutto questo materiale. Cassano si oppone alle fantasticherie erotiche dell’anziano degente il quale prende spunto per un’inversione improvvisa di tendenza auspicando, dopo tanti sogni a occhi aperti, un gesto definitivo e coraggioso per un’esibizione d’assoluto rilievo: «Voglio con atletico 180 cazzo / penetrare una stupida fica. […] Ma basta col verbo: / poniamo mano / alla performance» (IP, p. 51). Breve momento di sollazzo toccando la realtà che tuttavia non concede nulla se non le illusioni. E allora si torna a capofitto nei sogni allungando a dismisura il circolo vizioso della volpe e l’uva. Le donne rappresentano un topos della letteratura di Ottieri in quanto, dalle Memorie fino all’Irata sensazione, le figure femminili si ritagliano degli spazi significativi all’interno delle sue opere. Katja, Elena, Rita, Caterina, Tullia, Giada, Samantha, Lotte, Fraulein Müller nascondono molteplici e variegati aspetti della donna quale moglie, sorella, cugina, amante, alcolizzata, depressa, psicoterapeuta, drogata, infermiera… Tutto un universo che esplode intensamente nelle fantasticherie dello scrittore il quale vuole conoscere le sue donne in modo approfondito attraverso la poesia e il sesso, fantasticando su una nuova Città delle donne che Ottieri, novello Dottor Katzone di felliniana memoria, rielabora in uno psicotico Mondo delle donne. E sebbene il vaneggiamento sessuale spinga lo scrittore a fantasticare su altre figure femminili, a Pisa è senza dubbio l’infermiera che si arroga il titolo di «Grande favorita» (IP, p. 39), il cui carattere è oggetto di esame da parte di Ottieri che non si arresta alla sua descrizione fisica peraltro non esaltante, tentando di analizzare le profondità umorali della giovane sposa e bimba, reale e nello stesso tempo sognata, emblema del mitigarsi della sofferenza e inchiodata in un eterno presente. Solo l’infermiera di Pisa / sembra non avere antitesi, / o tutto il reale. […] Il pazzo all’alba si sentiva sommerso / da terapie e ideologie, / l’infermiera di Pisa era la sola cosa / per cui fare pazzie. […] L’infermiera di Pisa era soltanto un sogno. […] La bimba non viveva d’attesa, / si comportava come chi vive nel presente. / Viveva d’un presente ben fermo / e scandito tra futuro e passato. / Sapeva che amava l’infermiera / perché era il simbolo / dell’attenuarsi / della sofferenza. (IP, pp. 12, 36, 49, 60, 71) Con l’infermiera l’anziano degente, oltre al sesso, immagina di fuggire dalla clinica. Il motivo della fuga, ossessivo nel Campo di concentrazione, ritorna con forza a Pisa anche se in questa circostanza si tratta di evadere con qualcuno, tra l’altro con un rappresentante della clinica stessa, verso la libertà. E cambia anche la prospettiva: se a Zurigo il tentativo d’evasione era stato puro, assoluto e percepito come un ultimo anelito di sopravvivenza, qui a Pisa si annacqua per la presenza dell’infermiera che, nelle fantasie dello scrittore, lo dovrebbe accompagnare oltre l’uscita verso un mirabolante futuro. Ma non accadrà nulla di tutto ciò: si resta dentro la clinica e si continua a fantasticare dal suo interno. Voglio fuggire e giacere / con l’infermiera di Pisa, / nel vero. […] «No» smaniò il pazzo / «io non mi sposto da San Rossore! / Non cerco altr’orma. Semmai / fuggo nella foresta / con l’infermiera di Pisa». […] Nausea. Paura. / Sorta di orrore, tremore / della mente, no, del corpo. / Arrancamento pel selciato. / Bisogno di fuga. (IP, pp. 24, 25, 32) 181 Oltre ai motivi della fuga e della pazzia, classici nell’universo della clinica, Ottieri indugia su altri elementi aprendo un nuovo capitolo di storia letteraria, propriamente ariostesco, quando si sofferma a rivivere in parte le gesta di Orlando, come lui furioso, pazzo, in fuga, follemente innamorato e alla ricerca del proprio desiderio inappagato. Non come Amleto, come Orlando / attendeva che l’infermiera di Pisa / slacciasse il grembiule, / aprisse la veste, / scoprisse i misteriosi seni, / forieri di misteriose terre. […] Parve un po’ quietato / l’Orlando furioso inibito. / Ora in terra di Pisa i suoi Dottori / lascian gli strazi e vanno a insegnare / le forme dell’inumano dolore alla Normale. (IP, pp. 17, 50) L’ironia di Ariosto tendeva a dissolvere il mondo cavalleresco svuotando di valore la tradizione medievale attraverso la rielaborazione del carattere di finzione e la riduzione dei modelli eroici a pura invenzione narrativa. Il procedimento compiuto da Ottieri è simile: anche lui svuota di senso la materia narrata andando oltre il Male, si fa beffe dei medici mettendoli in ridicolo e sogna fughe d’amore con l’infermiera; ma soprattutto si ritrova quell’ironia dissacrante tipica in Ariosto, per cui gli infedeli sono i Dottori, Angelica è l’infermiera, le guerre analitiche sul campo sono quotidiane, e senza sosta si attraversano boschi e labirinti mentali nell’ininterrotta ricerca, tra fughe e raggiungimenti, del desiderio che illude ovvero la guarigione. Oltre ad Amleto e Orlando, risaltano nel poema altre due figure con le quali Ottieri sente un forte legame sempre in relazione allo stato in cui si trova, immobilizzato a letto dentro una clinica. Il primo riferimento riguarda San Sebastiano: «L’ossessione è fuori dalla storia. / Dalle atemporali ossessioni / era assediato. Per lenire le piaghe / di questo San Sebastiano / consiglia un farmaco Cassano» (IP, p. 23). Il San Sebastiano rimuginato da Ottieri è quello del Mantegna59 per l’immagine drammatica il cui volto si contrae in una smorfia di dolore mentre il corpo viene percorso dalla tensione drammatica. Il segno di Mantegna nel dipingere San Sebastiano è duro, secco e spigoloso, con tratti netti e precisi per ogni particolare del martire dalle rughe del volto ai rilievi delle ossa e dei muscoli, alle pieghe contorte del panneggio che cinge i fianchi. Il carattere energico e monumentale del quadro è rilevato inoltre dagli elementi architettonici che caratterizzano lo sfondo quali una colonna romana, un capitello riccamente lavorato e dei ruderi di un edificio antico. Questo San Sebastiano è immobile e incatenato alla colonna in posizione verticale, colpito da numerose frecce che ne aumentano la sofferenza ripresa da Ottieri il quale, inchiodato a letto orizzontalmente e senza possibilità di fuga, sente gli strali della malattia che lo dilaniano ogni giorno. I busti dei due arcieri nel dipinto, con reminiscenze di Van der Weyden, trasmigrano nel 59 Si fa qui riferimento al San Sebastiano del Louvre, dipinto dal Mantegna nel 1480. La tragica vicenda del martire interessò fortemente la sensibilità del pittore che dedicherà tre quadri a questo tema: oltre al dipinto già citato, c’è un San Sebastiano del 1470 che si trova al Kunsthistorisches Museum di Vienna e un altro del 1490 conservato al Ca’ d’Oro di Venezia. 182 poemetto attraverso le figure dei medici che infieriscono con i continui farmaci, simili a «frecce», sul corpo quasi esanime del paziente: «L’amante di Roma / sta sempre in agguato, / lenta a rientrare in faretra. […] Sono un famoso / antico ossesso. Ci vuole un esorcismo. / La tua medicina svizzera / non intacca le frecce» (IP, pp. 21, 48). L’altra immagine cara a Ottieri riguarda un personaggio mitologico: Tantalo, il semidio che per aver offeso gli dei fu costretto a subire l’eterno supplizio consistente nel non poter bere né mangiare nonostante egli fosse copiosamente circondato da cibo e acqua. Inoltre un grosso macigno incombeva sopra la sua testa con la minaccia di schiacciarlo, facendolo vivere in una condizione di terrore perenne. Il masso opprimente, il desiderio eternamente inappagato, la paura quotidiana avvicinano le esperienze di Tantalo a Ottieri, il quale avverte il bisogno primario nella fantasia dell’infermiera, vitale come il cibo e l’acqua: «Tantalico supplizio. / Meglio che finisse il turno, / per immaginare in solitudine / la grande favorita» (IP, p. 39). Anzi Ottieri va oltre il mito: il supplizio è atroce nella realtà, in quanto il possesso fisico della donna è impossibile, quindi preferisce l’assenza per concretizzarne il raggiungimento in quella zona della mente in cui tutto è realizzabile, applicazione pratica di un day dream. In quest’opera dall’aspetto teatrale, dopo aver analizzato gli antagonisti, i medici e il personaggio femminile dell’infermiera, è necessario soffermarsi sul protagonista principale, lo scrittore rinchiuso in clinica. Come spesso accade, Ottieri non tergiversa sulla propria condizione descrivendola in modo crudele fino a fornire al lettore un lucido autoritratto che prende forma nei diversi passi del poemetto. Sono un famoso / antico ossesso. Ci vuole un esorcismo. […] Sono un lucidissimo pazzo. / Ho sofferto sofferenze inaudite. […] Ora era antico. / Avrebbe conquistato / la sua celebrale e folle senilità / una modella in pelliccia? […] Relitto d’uomo. […] Si dichiara ferrovecchio. […] Egli è pazzo. / Vuol essere pazzo, / tiene la follia come un cibo fra i denti, / perché il buon senso / glielo vuole strappare. (IP, pp. 48, 49, 51, 53) Il vecchio poeta, che ha trascorso un’intera vita a combattere il Male e i medici curanti, giunto alle battute conclusive della propria vicenda, personale e letteraria, non si lascia investire passivamente dai sintomi dell’invecchiamento, tra cui la solitudine e la depressione, elaborando un suo mondo a parte, edificato dalle fantasticherie erotiche talvolta deliranti che emergono come pura ribellione. A tal proposito, in una lettera giovanile scritta a Fabrizia Baduel l’8 giugno ’49, Ottieri scrive: «io sono sempre abbastanza pazzo, ma un pazzo vivo e non un morto. Mi chiedo dove andrò a finire». 183 Conclusasi l’esperienza di Pisa senza alcun riscontro favorevole per il paziente, giacché la terapia americana del «Nobile Cassano» (PAL, p. 80) non sembrava aver sortito gli effetti sperati, Ottieri il Conte pazzo esce dalla clinica e si rifugia nel passato delle Memorie ambientando il poemetto Il palazzo e il pazzo, il secondo atto dello psicodramma esistenziale, nel Palazzo di Chiusi a cui sostituisce il solito nome di Belverde, paese amato e odiato fin dall’adolescenza. E come per L’infermiera di Pisa, anche qui Ottieri segue una certa logica teatrale nel far entrare in scena i personaggi secondo lo sviluppo narrativo: «Conte, lei è soprattutto / un teatrante. / Ho letto dei libri. / Pare che il teatro / sia un volto tipico del disturbo, / un modo non di orchestrarlo, / ma di fuggire la guarigione» (PAL, p. 111). Mentre sullo sfondo emergono con vivacità le immagini di Chiusi, dei luoghi frequentati, degli abitanti, delle inclinazioni politiche intrise di amarcord e affetto da parte dello scrittore che spesso si era sentito un corpo estraneo nel Palazzo a causa dell’atmosfera opprimente che avvertiva nella famiglia, «avevo una bisnonna, una nonna, una zia / originali. / Io sono originale / da parte di madre e padre» (PAL, p. 114) e della mentalità non proprio aperta del paese: «Che pensa lei, che pensa il paese / del conte figlio del conte?» (PAL, p. 28). La considerazione dei paesani verso il reprobo, lo scrittore alcolizzato, il metropolitano che disdegnava l’origine agraria non fu negli anni molto positiva: non si comprendevano bene le originalità di Ottieri, la sua scrittura e gli atteggiamenti mondani. Niente di nuovo dalle Memorie nonostante i decenni trascorsi: «Tutto il paese mi considera / un verme. / Io invece voglio / essere per acclamazione sindaco» (PAL, p. 47). A Chiusi Ottieri trascorse le estati durante l’adolescenza, mentre negli ultimi anni ritrovò proprio nel Palazzo un luogo di quiete relativa, oscillando tra sentimenti contrastanti per il paese a cui si sentiva legato per le origini del padre che, come i suoi antenati era di Chiusi mentre la madre di Cetona, un paese vicino. Non ho con cotesta landa, / un bel rapporto. […] Il primo modo di sciogliere / il nodo Belverde / è andarci a vivere. […] Belverde! / Tutt’e due siamo rossi, / disfattisti, / civili, depressi. / Non siamo più agrari, / ma nemmeno terziari. […] Belverde è Cuba. / Il Conte di Belverde / preferisce morire che intraprendere. (PAL, pp. 11, 93, 109, 110) Nonostante la comunanza di sentimenti depressi, Ottieri non riuscirà mai ad abbandonare Milano, città davvero odiata, per Chiusi dove regnavano una confusione di idee politiche già presenti nelle Memorie, e un’evidente gracilità intellettuale che non permettevano allo scrittore di integrarsi nel paese. Il paese è fortemente politicizzato. / Vi regnano il Fascio e la Catechesi, / e l’Imbarazzo dell’area marxiana. […] Siete, siamo / estremisti e disfattisti, / apocalittici e utopisti. / Sognatori e depressi. / Io te lo dico perché il caso Belverde / è il caso mio. […] Lo sai perché la striscia rossa / di Siena è rossa? / Perché è povera. / Belverde è il paese più povero / della striscia rossa, / di questo sud del centro. (PAL, pp. 7, 32, 33) 184 Anche se il tema principale del poemetto è la pazzia, non mancano neanche in quest’opera, scritta nel ’93, i riferimenti agli sconvolgimenti storici di quel periodo soprattutto con il crollo del socialismo dopo la dissoluzione dell’URSS. Emerge in alcuni versi la responsabilità dell’intellettuale di sinistra che avrebbe dovuto spiegare coram populo cosa stava accadendo a un’ideologia alla quale si era creduto per decenni. Non sei, non eri… / Un famoso compagno? / Famoso…! / Compagno, abbiamo preso / un bel colpo in testa. / Perché non si sapeva meglio / che l’Est era un disastro? / Voi intellettuali organici / dovevate saperlo. / Ho sempre sostenuto che la classe operaia / non deve fidarsi / degli intellettuali. / Essi, al momento buono, si squagliano. / È la disgregazione. / È la rifondazione. / Insomma che cosa dicono, / che cosa fanno ora, / gli intellettuali di sinistra? / Ancora una volta conviene / tacere. (PAL, p. 29) Sull’ingenuità di una parte intellighenzia di sinistra, Ottieri aveva rivelato le proprie perplessità già nel ’49 in una lettera inviata a Fabrizia Baduel: «Non fidarsi degli intellettuali di sinistra (e quindi di me stesso) è il mio motto. Malraux è finito segretario di De Gaulle. Qui, delle due l’una. O si è per e con la classe lavoratrice, o si finisce coi generali e gli arciduchi (o ci si limita a bisticciare in famiglia, ipotesi quest’ultima la più probabile)» (24 maggio ’49). Anche se nella Storia del PSI, e in parte anche nel Padre, Ottieri tenterà di analizzare le cause politiche, economiche e sociali che hanno portato al crollo degli Stati socialisti, nel Palazzo e il pazzo una riflessione dolorosa è incentrata sul marxismo, uno degli elementi cardini della sua formazione culturale fin dagli anni Quaranta. Si potrebbe dire la fine di un sogno anche se, in realtà, già nel periodo industriale Ottieri aveva avvertito l’impossibilità di una realizzazione concreta del marxismo in qualsiasi tessuto sociale. Il marxismo non è solo / una fantasiosa diagnosi / e terapia del mondo, / era un modo per fare della miseria una scienza. […] L’orrido mito marxiano non termina / che con il termine della povertà mondiale. / Allora la televisione potrà tutto. / Per ora ancora, / agli umili un’utopia extra è necessaria. […] Sussistono il sentimento della morte / e la morte reale, / come il socialismo. […] Compagni, / il sistema social-comunista, / di cui gli intellettuali di sinistra / italiani sono stati, / con discorsi, saggi, poesie, romanzi, / fautori sfegatati / per cinquant’anni, / ha dimostrato di rendere i poveri / più poveri. / Il suo unico scopo / è quello di rendere i poveri / meno poveri, / mentre pare che ciò avvenga meglio col sistema / il cui unico scopo / è quello di rendere i ricchi più ricchi. (PAL, pp. 34, 37, 56) Parlando di Marx non può mancare anche un riferimento a Freud per quest’accoppiamento vissuto da Ottieri «come bisogno primario» (PAD, p. 62). E in pochi versi l’autore riesce a condensare l’essenza delle due culture in modo epigrammatico e tagliente: «Lasciamo Freud, torniamo a Marx. […] La lotta di classe / non l’ha inventata Marx, / ma la divisione in classi. / La libido / non l’ha inventata Freud, / ma le difficoltà del cazzo» (PAL, p. 35). 185 Ottieri fin dai primi versi mette in chiaro i punti cardini del poemetto: il protagonista è uno scrittore depresso e alcolizzato che si aggira come un pazzo nell’antico Palazzo; e come solitamente accade, quando Ottieri parla di sé non fa sconti. L’autoritratto che emerge dalle pagine è impietoso: con una certa insistenza egli pone l’attenzione sui vari disturbi mentali che da decenni lo rinchiudevano in prigioni poco dorate, le cliniche, e i ricordi rinviano alla Klinik am Zürichberg nonostante siano passati molti anni da quell’esperienza: «Diceva sottovoce a Zurigo / per un anno, Vedremo, / lo psicologo del profondo. […] Non ce la faccio più a Zurigo. / Vedremo. / Questa clinica per casi disperati / mi dispera. / Non tollero il week-end sul Dolder» (PAL, pp. 73, 76). E neanche la permanenza nella clinica San Rossore di Pisa, la cui immagine è sempre vivida, ha potuto migliorare la condizione psichica dello scrittore. Come se ci fosse ancora qualcosa in sospeso o non raccontato nell’Infermiera di Pisa, nei ricordi del paziente da poco dimesso e ormai pazzo riaffiorano le atmosfere dell’ospedale, le frasi dei medici Mignani e Perugi, la lotta analitica terminata senza vincitori, e soprattutto si eleva la figura del Dottor Cassano nemico privato numero uno: Decolpevolizziamo la depressione, / non l’alcolismo, / dice Mignani in San Rossore. […] L’uomo è geloso e poligamo, / dice sereno Perugi a Pisa. / Ma egli aggiunge / che è questione di umore. […] Ma lei, Dottor Perugi, / mi considera pazzo / nel senso / che si intende per le strade del mondo? […] Lei è pazzo, disse Mignani, / se non altro / perché beve come un pazzo. […] Il nobile Cassano / mi considera un matto ameno. […] Io temo (io voglio) dover tornare / nella troppo amata Pisa, / dal nobile Cassano. (PAL, pp. 21, 40, 79, 80) Tra le varie cliniche, manicomi, ospedali in cui Ottieri ha soggiornato, la clinica San Rossore di Pisa resterà senza dubbio, tra dolore e nostalgia, ben fissata nella sua memoria senza dimenticare le terapie seguite. Del resto la clinica, e i medici lo compresero da subito, appare allo scrittore come l’unico luogo, almeno dal punto di vista letterario, in cui poter vivere e da cui non si vorrebbe mai uscire: Ho soprattutto combinato / di infilarmi a ripetizione / nei ricoveri. Mi pareva / movimento, invenzione, / spostamento, distrazione e amenità, divertimento, svago, / cadenza, alternativa. […] Lei considera l’ospedale / come il casino, / l’unico luogo di piacere, / una casa di svaghi. […] È che solo la follia giustifica / il mio inanellare clinica a clinica / per trovare / sollievo. (PAL, pp. 42, 79, 80) Il protagonista ricomincia da capo il viaggio verso la guarigione senza una meta precisa e la forza d’animo necessaria. Con tuttavia una buona base di partenza, ovvero la follia che, in disuso nel linguaggio scientifico, è ben presente in quello letterario, sociologico e antropologico dove nel corso dei secoli ha subito rimandi in campi di varia significazione, dalla «divina follia» di Platone alla «follia morbosa» psichiatrica, dalla linea interpretativa illuministica di Diderot che attribuisce 186 la follia al corpo, a quella romantica secondo cui la follia è interpretata come il fondo dello spirito umano che è compito della ragione regolare (Schelling). Nel Novecento, Jaspers, spostando il registro della lettura psichiatrica dalla spiegazione alla comprensione, ha stabilito che la follia in sé è incomprensibile; impostazione seguita dall’analisi esistenziale di Binswanger e dalla psichiatria sociale in cui si precisa che la follia non è una finzione, ma la presenza della malattia mentale non può essere dedotta da alcun esame clinico, rimanendo quindi un’ipotesi: «la follia è un mistero» (PAL, p. 46). Lo scrittore si considera dunque pazzo60 nonostante il parere contrario del Dottor Cassano che, infatti, non gli ha rilasciato il tanto agognato certificato di pazzia, ma la maschera della pazzia è uno stratagemma ordito da Ottieri attraverso cui esprimere la propria irritazione nell’essere considerato soltanto uno scrittore malato: «Il mondo lo preferiva demente. […] Scusi, posso essere un caso letterario, / invece di un caso clinico?» (PAL, pp. 14, 27). I pazzi vanno assecondati e allora, si domanda Ottieri in questo gioco letterario, come si può leggere un poemetto scritto da un autore ufficialmente pazzo? Ritenendolo savio e ragionevole. Un procedimento simile Ottieri lo porrà in atto nel Poema osceno quando per descrivere le degenerazioni della politica italiana, pur raccontando oscenità, darà alla luce un testo in realtà pudico nonostante le apparenze. Inoltre, dal trono della pazzia egli può osservare una convergenza sul piano del malessere da parte di coloro che fingono di vivere serenamente sviluppando una personale teoria, a mo’ di piccola rivincita sull’intera società, che prevede l’intreccio indissolubile tra depressione privata e pubblica, motivo espresso fin dai tempi delle Memorie e che si ripresenterà anche nell’Irata sensazione: «Nobile Cassano, / ti faranno Presidente. / La psichiatria entra al Quirinale e cura / la depressione nazionale. / La gestione nazionale / passa alla psichiatria. […] La depressione pubblica / e quella privata si intrecciano. / Non te lo dice un ideologo, / ma uno scorticato vivo, scarsamente / abbiente» (PAL, pp. 27, 33). «Con lui la psichiatria è entrata al Quirinale: la psicologia del profondo e la politica hanno cominciato i lavori, comparandosi» (ISP, p. 159). La depressione nazionale cui fa riferimento Ottieri prende l’aire non solo dalle proprie riflessioni quanto soprattutto dallo stato di degrado che la società italiana stava vivendo durante i processi di Tangentopoli e i paralleli disastri politici, tematiche approfondite nella Storia del PSI e nel Poema osceno. Nel Palazzo e il pazzo l’Italia viene osservata con pochi sguardi eloquenti: nel primo caso si tratta di una prostituta, che si chiama appunto «Italia», attesa spasmodicamente dal giovane Ottieri in un bordello; mentre nel secondo è il sentimento di schiavitù che gravita sul Paese a turbare le speranze sulla difficile libertà da conquistare: «Volevo immaginare che ogni prostituta / si innamorasse di me. / Una si chiamava 60 «Io sono un pazzo? Sono un pazzo nazionale, noto dal Nord fino al profondo Sud. E nemmeno me ne sono accorto… Può un pazzo sapere che è pazzo? E se lo sa bene e gliel’hanno detto e diagnosticato, gli hanno precisato la specie oggettiva della sua pazzia, che cambia? Pazzo rimane» (ISP, p. 38). 187 Italia, / bruna, alta, / Italia, Italia, Italia, / alla nuova alcova. […] Mettiamo nella vita / la morte. / Siamo sempre stati regolati / da Qualcuno. / Quando non c’è più Nessuno, / cadiamo nella Confusione» (PAL, pp. 24, 33). Ottieri prosegue l’analisi della propria condizione psico-fisica senza alibi, non dimenticando però che allo specchio si può osservare l’intera società; e quindi il pazzo, ancor meno poeta e narratore del solito, si espone come semplice portavoce di un dramma esistenziale che pur partendo dal privato è fondamentalmente comune a tutti. Ne uscivo con il down. / Ahi, rapida bipolarità, / anzi istantanea. […] La parola bipolare / è divenuta famosa nell’Alta Milano. […] Nella mania e nella malinconia / io sono implacabile. / È questa la mia vitalità. / Il depresso è molto vitale. […] Pare che nelle vostre / carte segrete vi sia / una diagnosi di psicosi / maniaco-depressiva. / Lei ha un disturbo / bipolare aggravato. (PAL, pp. 25, 26, 79) Questi i sintomi, mentre le cause vengono ricercate dai medici, dottori, professori, psichiatri, psicologi che hanno banchettato con il cervello dello scrittore che candidamente affermava: «La fossa delle serpi era / dentro la mia testa» (PAL, p. 86). Tra gli indizi più probanti risalta alla lettura una vecchia ma sempre attuale conoscenza nelle opere di Ottieri: l’alcool, compagno fedelissimo e motivo ricorrente della depressione dal Campo di concentrazione all’ultima frontiera dell’Irata sensazione. La dipsomania lo obbliga a bere quantità di alcolici sempre maggiore, «il tossico che dovrebbe / smussare i picchi, esaspera / la malinconia e la mania» (PAL, p. 50) con gli stessi inconvenienti: moltiplicare l’alcool tra l’urina prorompente e la «merda liquida calduccia» (CERY, p. 15) senza soluzione di continuità, sotto lo sguardo avvilito di medici e familiari. Ottieri riesce in pochi versi a condensare il vedemecum del perfetto alcolista, dal bar di prima mattina all’aumento del dosaggio, alla disperazione dell’astinenza, al pensiero dominante, «si pensa che mi interessi tanto / di suicidio e rivoluzione / non per via di attualismo / ma di birra» (PAL, p. 36), fino alla spiegazione delle cause. S’inizia a bere alle prime luci dell’alba, mentre la città dorme, per sciogliere il pesante groviglio presentatosi non appena la coscienza illumina lo stato depressivo; tuttavia il senso di esaltazione evapora ben presto sotto i colpi della dipendenza che non permette nessuna guarigione: «La mattina presto l’alcole / ha doppia euforia e onnipotenza, / presto diventa un massacro. / Ne chiedo un’altra. […] Mi svegliai prestissimo, corsi / al baretto delle corriere. / Alle 7 bevvi tre birre» (PAL, pp. 41, 60). È necessario l’aumento delle dosi al fine di assaporare la giusta soddisfazione di sentirsi ancora vivi; ma anche in questo caso, il buon umore sarà obbligato a lasciare il posto all’assunzione di altre bevande. L’ebbrezza alcolica così ricercata si manifesta come una psicosi esogena passeggera, marcata dalla quantità di alcol ingerito e dalla tolleranza del soggetto. Nella prima fase dell’aumento del tasso alcolico nel sangue, si riscontra un certo restringimento nel campo della coscienza oltre che fenomeni di disinibizione con umore di solito 188 euforico, aumento dell’impulsività, della facilità di comunicazione e indebolimento della critica: «Gli fu portata una prima / birra media. / Poi una seconda. / Il conte divenne / di buon umore» (PAL, p. 15). Tuttavia l’ulteriore aumento dell’intossicazione comporta un effetto narcotico e, nella fase depressiva che segue, una progressiva paralisi delle funzioni nervose centrali. E quando durante un qualsiasi ricovero l’assunzione di alcolici è proibita, scatta nel tossicomane la necessità impellente di bere (dall’alcol denaturato all’eau de toilette come accade per la Contessa o per Filippo Ciai in Cery) affinché si possa ristabilire l’equilibrio perduto. In quei frangenti l’alcolizzato si dà al bere improvvisamente e in modo compulsivo finché l’insorgere della tossicosi non gli impedisce l’ulteriore assunzione di alcol, mentre i danni organici cominciano a manifestarsi con la debilitazione degli impulsi, la labilità emotiva, la debolezza critica, oltre a un restringimento della cerchia degli interessi e una marcata diminuzione dell’attenzione e della memoria. Le chiesi come un dannato, / compulsivo, ossessivo, bipolare in preda / a un crisi di panico, maniacodepressivo, / un bicchiere solo di vino. […] Un bicchiere, un solo bicchiere, / un bicchiere mi porti, Dottoressa, subito, / subitissimo un bicchiere. […] La depressione agitata era più forte / della morte, / e della vergogna: / bramavo la calma / procurata da una damigiana. […] L’alcol non è / né malattia né vizio; poiché fa morire / è una scelta di vita. […] Io non concepisco / la realtà senza birra. (PAL, pp. 44, 45, 46, 49, 68) Nei quadri psicopatologici dell’alcolismo s’inseriscono complicazioni spesso a decorso cronico di ordine neurologico e psicologico, tra cui il delirium tremens che Ottieri ricerca con bramosia come se fosse la conferma della raggiunta ebbrezza. Eccolo, mi dissi, il tremens. / Era lui? / O non era lui? / Cercavo, come sempre, / l’ebbrezza, ma non la trovavo. / Mi arrabbiavo col tossico, / volevo avere / sicurezza d’ebbrezza. […] Non so ancora / cosa sia questo tremens. […] Deliravo? Era comodo delirio pensare / che avessi il tremens, / che deliravo il delirio? (PAL, pp. 48-49) Il delirium tremens viene così chiamato in riferimento all’evidente aumento del tremore a cui segue la scena delirante inaugurata spesso da turbe della percezione prevalentemente notturne e associate a un sentimento crescente d’inquietudine e da allucinazioni visive che hanno per oggetto piccoli animali per lo più numerosi e in movimento; e non mancano allucinazioni tattili o acustiche elementari come rumori, fischi o musica. Dalla porta allungò il naso un mostro, / come una gru da ristrutturazione. […] Io non sapevo / se lo vedevo / o se c’era. / Sapevo che non c’era / ma lo vedevo. / Mi voltavo e rivoltavo. / Voltato mi sentivo il mostro alla schiena, / mi voltavo per vederlo almeno in viso. / Mi voltavo, mi rivoltavo. / Eran le immagini della punizione. / La vergogna non ha tregua. / Arriverà la proboscide a sfiorarmi? (PAL, p. 20) 189 Lo stato d’animo del malato varia dall’angoscia a un certo livello di euforia, ma in genere il paziente è docile e con uno scarso grado di aggressività. Al contrario, con l’aggravarsi del quadro si fa evidente l’obnubilamento della coscienza e l’agitazione psicomotoria, così che le allucinazioni diventano più stabili e il soggetto cerca di difendersi o ripararsi in qualche modo. Non mancano, nei casi più gravi, segni fisiologici come la febbre e la sudorazione marcata con tendenza al collasso circolatorio, mentre la prognosi si fa più grave se compaiono crisi epilettiche, e infausta se il delirium tremens non viene tempestivamente curato. Per quanto riguarda l’eziologia, le cause dell’alcolismo che si presentano negli atteggiamenti del poeta si riferiscono a diversi ambiti disciplinari, dalla biologia alla genetica, dalla sociologia alla psicologia, dall’antropologia alla psicoanalisi. In primo luogo, l’appetenza: le bevande alcoliche prevalgono sulle altre per il loro affetto euforizzante e per il momentaneo sollievo che danno all’angoscia. Per quanto concerne invece la costituzione biologica, essa comporta una variazione del rapporto tolleranza-assuefazione-dipendenza che domina tutta l’eziologia della condotta dell’alcolizzato. Infine, per le motivazioni psicologiche, sembrano essere per il pazzo incentivi che facilitano l’alcolismo gli stati di tensione, le difficoltà nelle relazioni umane, i sentimenti di insicurezza, l’incapacità di affermazione personale, il bisogno di gratificazione. Per le teorie psicoanalitiche si tratta di una regressione allo stadio orale della libido e quindi una specie di attività erotica sostitutiva: «Ora pare che io beva non tanto / secondo l’accezione tradizionale, / per riempire il vuoto o smussare un’anxiety, / ma perché ho il panic-attack. / Esso è una specialità del nobile Cassano / quindi mia. Bevo per anestetizzare / le angosce dovute alla crescita / necessaria per divenire uomo» (PAL, p. 74). Lo scrittore è dunque un pazzo alcolizzato che vaga per le stanze del Palazzo. Ma come passa le giornate oltre a bere in casa e nei bar? Non fa molto altro; fantastica tuttavia grazie alla forza espressiva del suo pensiero perverso che lo riporta di colpo sulla “retta” via rappresentata dalle donne immaginate nelle proprie fantasticherie. Qui a Belverde sono stanchissimo / di questo problema: / appena penso a una donna, / ne penso anche un’altra. […] Non vorrei mai / che una delle due, o tutt’e due, / pensasse a me e a un altro. […] È gioia / amar solo la bionda, / amar solo la bruna, / impazzir solo per la bruna. […] In questo momento / ho la bruna in testa / e preferisco la bionda. (PAL, pp. 39, 40, 54, 56) Il problema atavico dei suoi numerosi alter ego ossessionati dalle donne è la difficile conquista cui si lega in modo inscindibile la paura del rifiuto: «Così il dongiovanni tremebondo / poteva continuare / senza il bisogno / della terrificante conquista, / dove ci si imbatte nel No che scardina, / nella manina ritratta. / Passavo così attraverso una serie / di sì tetri. / Ne uscivo con il down» (PAL, p. 25). Viene spesso ripresa da Ottieri per auto-descriversi nei momenti topici del 190 corteggiamento l’immagine di Don Giovanni che, come personaggio assurto a simbolo della libertà sessuale, dell’infedeltà, dell’amore come impresa della seduzione senza passione e dell’amore non individualizzato, preferisce alla profondità del rapporto l’intensità del momento. Dal punto di vista psicoanalitico, Don Giovanni è stato considerato come l’espressione di una ipersessualità motivata dall’esigenza di contrastare sentimenti di inferiorità attraverso continue dimostrazioni di successi erotici. Un’altra interpretazione vuole che Don Giovanni non sembri realmente essere interessato alla donna ma la utilizzi come strumento di soddisfazione dei propri bisogni narcisistici, e la sua ipersessualità sia solo una difesa contro tendenze omosessuali inconsce: è quello che verrà appurato nelle pagine di Cery a proposito dell’omosessualità latente riscontrata nel personaggio Filippo Ciai. Assillato dai ricordi, Ottieri, tralasciando il Padre a cui dedicherà il poemetto omonimo, delinea nel poemetto una rappresentazione della propria famiglia dai nonni alla madre, dalla cugina alla figlia. «Il nonno era stato / sindaco di Belverde. […] Con mia moglie dormivamo / nella stanza di Lucrezia e Quintilio. […] Mi gettai sul letto / ove morì mio nonno, e ingravidò la nonna, / amplesso / difficile da immaginare» (PAL, pp. 38, 39, 61). Nella figura materna, Ottieri ricorda il suo carattere mite, anodino, malinconico, depresso: «La pazzia di stemma e di amore / perse mia madre / insieme alla bellezza / e alla optalidomania. […] Mia madre, la scema, / nata per essere beffata, / e che più si difendeva più era demente» (PAL, pp. 50, 92). Della cugina Elena, un altro ritorno dalle Memorie anche se in quel caso si trattava della sorella di Lorenzo, contessa alcolizzata, Ottieri ricorda la follia, la malinconia depressa e il continuo scambio di opinioni sulla scrittura e sulla vita. La mia bella cugina / era ingrassata di sedere / per i farmaci e la vita. […] Elena, inseguo / l’umore lineare. […] Tu, Elena, hai l’orgoglio / di nascondere la tua follia, / prodotta forse dall’orgoglio, / il tuo Ceto non la prevede, / anzi, non la permette. […] Elena, tu, la più bella fra le belle, tu sei grassa, / malinconica e lenta, / molto la follia e la sua terapia / incide / sul culo, sul portamento, / sull’occhio, cade su esso / una tendina. (PAL, pp. 49, 50, 51, 53) Della figlia Maria Pace lo scrittore concede il primo ritratto nel Palazzo e il pazzo individuando quei tratti che maggiormente risaltavano ai suoi occhi, dalla «cattiveria stupida» (PAL, p. 57) a quella sorta di tirannia svelata in seguito nelle Guardie del corpo, quando la figlia si presenta sulla scena come una nuova antagonista, oltre ai medici curanti, del suo alcolismo fino a diventare l’ereditaria del Palazzo insieme al fratello Alberto, il secondo figlio di Ottieri: «Oi, che mia figlia non paghi / la mia sofferenza psichiatrica. / Con quella mente, / ella esibisce la cattiveria stupida / poiché non ha altr’arma. / Io temo che sia contro-aggressiva / per disperazione tappata di somigliarmi. […] Ella ama l’Africa / poiché è, come me, / un’antropologa di deboli e di poveri» (PAL, p. 57). Ottieri riassume in pochi versi, quasi in forma di epigramma, l’attività di giornalista e 191 scrittrice di Maria Pace, di cui egli era molto orgoglioso. Il riferimento all’Africa è dovuto all’ambientazione del primo romanzo della figlia, Amore nero, storia di un viaggio in moto nel cuore del continente africano fino all’Alto Volta: «Mi occupavo degli operai / di Sesto Marelli, / mia figlia si occupa del profondo Congo» (PAL, p. 67). La «spietata figlia» (GC, p. 135) combatte contro la condizione di alcolizzato cronico del Padre finendo per essere considerata, per la fedeltà alla causa, «la più ostinata nemica / della mia bottiglia» (GC, p. 141). Diversi stratagemmi tenterà Maria Pace per contenere la dipsomania del Padre, uno dei quali per arguzia e finezza viene ricordato alla fine del poemetto: Ci sono tre birre allineate / dentro un cassettone, / come in soffitta le trappole. / M’avvento con inaudita / bramosia. / Sento scendere un liquido pesante, / che riempie. / Rutti su rutti, non l’aurora / della contentezza breve. / Sono mitridatizzato? / La soluzione dell’enigma si sposa / all’ingorgo gastroenterico. / Sulla scatoletta c’è scritto: / Analcolica. Mia figlia / mi ha fatto un tiro. (PAL, p. 113) I figli Maria Pace e Alberto saranno gli ereditari del Palazzo e lo scrittore indugia spesso su questa inevitabile conclusione con rammarico misto a ironia: «Viene il momento / che non vado più a palazzo / né vestito né con le mutande, / ma i figli. / A babbo morto / e a cimitero chiuso, / tocca a loro il palazzo. / Tocca a loro tutto, / compresi i diritti d’autore, / che non sono un cazzo» (PAL, p. 58). L’ironia amara tocca uno degli aspetti più malinconici dell’attività letteraria di Ottieri, ovvero la conferma di esser stato uno scrittore «bad-sellerista» (CERY, p. 121), condizione che lo amareggiava dalle poche copie vendute delle Memorie fino all’Irata sensazione: «Sono povero, non ho soldi. / Guadagno coi libri / 500 lire al mese» (PAL, p. 111). La povertà, o presunta tale di Ottieri che era comunque di origine aristocratica, scaturisce dalle enormi spese dovute alle medicine e ai ricoveri continui che sovrastavano i magri guadagni provenienti dalle vendite: «Costa di psicofarmaci, / dalle 500 alle 700 mila al dì. / Si dice: 20 milioni al mese. / Coi libri guadagna 50.000 al trimestre» (PAL, p. 97). Che tipo di scrittura ha condotto Ottieri a vendere poco e, nonostante i numerosi studi a lui dedicati, a non trovare uno spazio di primo piano nella storia della letteratura italiana? Questo poemetto gli permette di tirare le somme riguardo una produzione di opere cospicua e originale nei temi trattati… ma non per il pubblico: «Io non sono / un poeta maledetto. / La mia vita è maledetta, / ma la scrittura è tardo-borghese. […] Sono un uomo senza fantasia, / autobiografico perso. / Lo scoramento, lo struggimento / minavano la mia vita. […] Più che un poeta sono un sinergico / dello psicologico mercato» (PAL, pp. 8, 75, 94). Quando la legge numero 180 del 13 maggio ’78, attraverso i suoi undici articoli, impose alle regioni il trasferimento delle funzioni in materia si assistenza ospedaliera psichiatrica e, soprattutto, l’adozione di tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere, legge che confluì nella numero 192 833 del 23 dicembre ’78 con la quale veniva istituito il Servizio Sanitario Nazionale, per l’eterno degente sembravano finalmente aprirsi le porte della clinica-prigione. Nelle Guardie del corpo61, poemetto scritto nel ’94 e pubblicato insieme alla Psicoterapeuta bellissima, si racconta quest’esperienza particolare, del malato non più in prigione come a Zurigo o a Pisa ma libero. Ed è proprio nel concetto di libertà tanto agognato che si sviluppa quest’opera, attraverso la descrizione di uno stato di relativa schiavitù, poiché, sebbene non in clinica ma nella sua stessa casa, il malato è seguito ventiquattro ore al giorno da medici personali, Le guardie del corpo, che non lo lasciano solo nemmeno un istante per il timore di un’ennesima ricaduta nell’alcool. Braccato a vista, lo scrittore si scaglia contro lo psichiatra Zapparoli62, il Capo dell’Organizzazione, un nuovo nemico di una lunga lista reiterando ramanzine già sperimentate con Cassano, «di qui il solito straziante burlesco: ma dietro di esso vi sono cose serie» (GC, p. 56). Cosa c’è dietro? Una classica storia ottieriana con i soliti volti noti: il malato, il Dottore, gli infermieri, le fantasie erotiche… Eppure la novità è tanto evidente quanto significativa: si esce obtorto collo dalle cliniche per respirare un po’ di libertà: «Ahi Giancarlo, / vuoi evitar la prigione, / ma come la tua morsa stringe / ai domiciliari arresti» (GC, p. 58). Cambiano i medici, le terapie, i luoghi, ma l’unica costante sembra essere lo scrittore che protesta contro una situazione infinitamente triste. Non si guarisce mai, questa è la realtà dei fatti e non ci sono psicoanalisi, manicomi o benzodiapezine che tengano dinanzi alla forza coriacea di un malato impavido e, a suo modo, coraggioso. Alla fine, tra auto-ironia e autodenigrazione, nel confronto fanciullesco tra guardie e ladri, si simpatizza inevitabilmente per chi perde sempre, e Ottieri riesce pur con tutti i suoi tic e idiosincrasie a essere un eroe moderno: «Ma Giancarlo, […] m’hai ficcato / nella tua Organizzazione, / di cui troppo / ti compiaci. / Da analista sei diventato Capo, / da detective di Inconscio, / Guardasigilli. […] Ahi Giancarlo, / vuoi evitar la prigione, / ma come la tua morsa stringe / ai domiciliari arresti» (GC, pp. 57-58). Il protagonista di questo nuovo capitolo del viaggio attraverso la malattia è, ancora una volta, lo scrittore sofferente che non esita a definirsi l’«alieno» in diversi passi del poema dove per trentasei volte compaiono termini come «alieno», «alienato» e «alienazione» spesso auto-referenti che mettono in luce, con un’insistenza maggiore rispetto alle altre opere, il carattere di estraneità vissuto dallo scrittore per il mondo circostante. Quale mondo? È lecito interrogarsi: quello esterno o interno alla clinica? Scovare la differenza è una questione di lana caprina. Il mondo in sé, e il conseguente stare in tale mondo, si presenta definitivamente come un enorme campo di concentrazione, ovvero una clinica-prigione dalla quale non si può fuggire. Lo stato di alienazione, 61 «Le Guardie del corpo è una delle cose più belle, divertenti e commoventi che ho letto da… non so quando. È pieno zeppo di cose (passami la volgarità) profonde, sì, profonde, al di là di ogni ironia con cui tu le vuoi velare o farle passare per boutades». (Lettera di Edoardo Albinati a Ottieri, 7 ottobre ’94) 62 Giancarlo Zapparoli, psichiatra e docente di Psicologia presso l’Università degli Studi di Milano dal ’51 al ’67, dal ’63 fu membro ordinario della Società psicoanalitica italiana. 193 processo in cui il soggetto diventa estraneo a sé, di origine filosofica che viene anche impiegato come sinonimo di follia, si carica di un’accezione positiva nelle profondità della poetica di Ottieri: «Questo cielo / lo vorrei sbudellare / per fuoriuscire dall’altra parte del mondo» (GC, p. 106). Il cielo così immaginato63, pur sigillando uno stato di malessere eterno con la sua volta celeste e infinita ma ermeticamente chiusa, può essere squarciato o addirittura “sbudellato” dal sofferente che grazie all’alienazione è in grado di andare oltre, dall’altra parte del mondo per cercare la libertà sempre negata. Da questo punto di vista, il termine alienazione acquista un significato psichiatrico ulteriore rispetto ai due comuni sensi specifici64: l’«alieno» cui fa riferimento Ottieri è davvero un alieno imprigionato sulla terra che appartiene a un altro pianeta dove vorrebbe ritornare. Il «fuoriuscire» comporta la realizzazione della fuga immaginata per anni e preparata nei minimi dettagli: s’intende dunque una fuga verso l’aldilà per ritrovare la propria essenza. L’alienazione, dopo numerosi studi e analisi concettuali, si carica di un’accezione positiva in quanto si è estranei a se stessi, agli altri e al mondo circostante perché non potrebbe essere altrimenti. Ottieri si sofferma spesso, nello sviluppo delle Guardie del corpo, a delineare un ritratto di sé tangibile e veritiero partendo proprio dal vedersi alieno attraverso uno schietto autoritratto: Sono un border-line. […] Egli era brutto / ma la sua disperazione / non riusciva mai a spengere / il lumino dell’illusione. […] Eppure sappiamo / che tu nel far soldi / non sei famoso. / Sei più famoso per / otturarne / le pattumiere dei reparti. […] Maniaco depressivo, / bipolare rapido. […] Con tanta psichiatria / non so se questo sdoppiamento sia / la famosa schizofrenia. / Con tanta psichiatria / non ho mai capito che sia / la schizofrenia. / Forse perché sono schizofrenico. […] Passa dalla claustro- / all’agora-fobia / come dalla neuro alla psico / e viceversa. / Ha combattuto tre guerre / d’indipendenza, / tre conflitti per il potere nel mondo, / si ritrova costretto / su monotona monorotaia. (GC, pp. 61, 63, 65, 67, 69, 70, 127) Ottieri fa emergere delle disfunzioni psichiche ben precise. Innanzitutto per borderline s’intende la sindrome marginale intermedia tra due classi che sfugge a un’attribuzione precisa in quanto l’isolamento delle entità cliniche dipende o dall’impossibilità di includerle nei quadri nosologici classici, o dalla presenza di un’eziologia multideterminata, o infine dall’esistenza in profondità di conflitti psicotici mascherati in superficie da meccanismi di difesa di tipo nevrotico. Borderline, o anche schizofrenia pseudonevrotica, è una forma marginale collocata tra schizofrenia e nevrosi in cui il quadro clinico presenta in superficie uno stato d’ansia accompagnato da astenia e inerzia nei confronti di attività e talvolta da timori ipocondriaci. In profondità si ritrovano i tratti 63 Un procedimento simile, del ribaltamento del cielo e conseguente fuoriuscita dal mondo, Ottieri lo riscontrò già nell’Impagliatore di sedie: «Non c’è fretta. È sentirsi buttati fuori dal mondo, girare così svelti che… esco fuori dalla realtà, ci monto sopra, sulla realtà. Il passo della realtà, del tempo, non lo tengo, lo scavalco, perché è troppo lento… Oppure vado io più lenta. Il tempo è una cosa strana, estranea… troppo… densa» (IMP, p. 188). 64 Innanzitutto nelle psiconevrosi ossessivo-coatte dove si parla di alienazione del Sé, quando il soggetto, nel tentativo di tenere lontane le proprie emozioni, le trasferisce fuori di sé vivendole come forze estranee. In secondo luogo, nelle schizofrenie, dove certi organi o aree corporee, e talvolta il corpo intero, vengono alienati e quindi percepiti come non appartenenti alla persona o diversi da come sono. L’esito di questa alienazione è la depersonalizzazione. 194 tipici della schizofrenia con rigidità affettiva, difficoltà nei rapporti interpersonali, distacco dalla realtà e ritiro in se stessi: sintomi attestati in tutti i periodi di degenza, dentro e fuori le cliniche, vissuti dallo scrittore e per questo non sorprendenti. Particolare attenzione inoltre merita il riferimento diretto alla schizofrenia, esaminata nell’Irrealtà quotidiana nel terzo capitolo della prima parte in merito a Renée. Un tratto considerato tipico della schizofrenia è la Spaltung, la «dissociazione» in parti reciprocamente indipendenti della vita psichica riscontrabili nella disgregazione del personaggio e nello sdoppiamento all’interno del percorso letterario e intellettuale di Ottieri. Ma ci sono altri elementi che inducono a considerare Ottieri, sempre dalla proiezione letteraria, «forse uno schizofrenico» nei suoi scritti. L’autismo, ad esempio, è un tratto di tale psicosi endogena e si esprime in un distacco nei confronti della realtà con ripiegamento su se stesso e predominio della vita interiore popolata da produzioni fantastiche incontrollate, come gli ossessivi day dreams riscontrati a Pisa. I disturbi dell’affettività riguardano, invece, il senso di un’inadeguatezza affettiva rispetto alla situazione o di una coesistenza di sentimenti o atteggiamenti contrastanti, come il vagheggiamento per le donne connesso all’affetto per la moglie. I disturbi della personalità, a loro volta, sono caratterizzati dalla perdita della coscienza della propria identità, dei limiti dell’Io e, in alcuni casi, del corpo che mal si percepisce come distinto dal mondo esterno. Infine anche le allucinazioni, i deliri e i disturbi del linguaggio, presenti nelle opere di Ottieri, sono sintomi che qualificano la schizofrenia, e quando parlò di Renée e gli altri forse lo scrittore già immaginava di essere uno inter pares. «C’è la fantasia e c’è la realtà» (GC, p. 58) ripetono con insistenza i medici che curano il paziente-personaggio Ottieri il quale scorge l’essenza primaria del suo lavorio intellettuale e letterario proprio nello sviscerare tale espressione. Incarnando in sé il fenomeno dell’alienazione con tutti i suoi crismi, lo scrittore tenta di rovesciare la percezione oggettiva del confronto fantasiarealtà, prodotto illusorio il primo che non resiste a paragone con il secondo. Tuttavia, non appena ci si estranea in modo totale da se stessi, la realtà, almeno quella esterna, uscirà sempre sconfitta nelle quotidiane battaglie condotte dai fantasmi o dalle fantasticherie mentali. La fantasia e la realtà non saranno allora in opposizione soprattutto quando si considera la realtà psichica, l’unica plausibile nella mente di un alienato intesa come effettività interna fatta di desideri, immagini, pensieri, fantasie e sentimenti, distinta da quella esterna costituita da cose e persone. Conferire realtà all’interiorità significa riconoscere che le espressioni di quest’ultima agiscono sul soggetto nello stesso modo degli stimoli provenienti dalla materialità esterna. Dunque nel mondo delle nevrosi la realtà psichica è quella determinante, più concreta di quella materiale non solo perché fantasie e immagini ne influenzano la percezione ma anche perché sia la realtà sensibile (il mondo della materia) sia quella intelligibile (il mondo dello spirito) sono accessibili solo tramite le immagini 195 prodotte dalla realtà psichica. Dalle riflessioni perverse di Ottieri sembra dissolversi non solo l’esame di realtà che, attribuito al sistema della coscienza inibente l’investimento del desiderio, non permette al sistema percettivo di essere sopraffatto dalle eccitazioni interne, ma anche il principio di realtà che regola il funzionamento della psiche la cui comparsa avviene con lo sviluppo delle funzioni coscienti quali l’attenzione, il giudizio, la memoria, il pensiero. La psicoanalisi, questa volta messa in atto tra le mura domestiche, dovrà tentare di sciogliere l’enigma esistenziale dello scrittore sotto ogni aspetto, dal conflitto psichico al sogno, all’inconscio, alla teoria delle pulsioni, ai meccanismi di difesa. Le guardie del corpo guidate da Zapparoli lavorano per questo obiettivo e si comportano come etichetta freudiana impone: col silenzio terapeutico presente nell’Irrealtà quotidiana, nel Campo di concentrazione, nella Psicoterapeuta bellissima e nei dialoghi Roberto o la corpoanalisi e Che fai stasera? (COL, pp. 125-140 e pp. 141152). Nelle Guardie del corpo s’innesca uno scontro quotidiano tra gli analisti che utilizzano il silenzio durante le sedute e il paziente che invece ripudia quei momenti non accettandone la terapia. Stava trangugiando il sadismo / del silenzio freudiano. […] Gli psicoanalisti continuano a far soffrire / per una guarigione da non dire. […] La guardia della psiche e del corpo / godeva a non aprire bocca. […] L’analista è analista / solo perché tace (anche di sé). / Il silenzio freudiano nasce / dal fallimento dei Consiglieri etici / e degli Amici guaritori. […] Voi, guardie freudiane silenti, / come, dietro il lettino una volta, / il vostro organizzatore, / state qui per farmi ricordare / minuto per minuto / la mia sventura. […] Anche io ho paura del silenzio. (GC, pp. 59, 60, 104, 109, 136) Nell’accezione speculativa il silenzio è la condizione dell’inesprimibile oltre quello che può esser detto o descritto e segna il limite della comprensione di fronte a quella che Jaspers chiama «l’indecifrabilità di tutti i segni del mondo». Indecifrabile è, ma solo in apparenza, il delitto di cui si macchia il paziente, colpevole appunto del «delitto di pazzia» (GC, p. 84) e per questo condannato ai «domiciliari arresti» (GC, p. 58). Le esperienze letterarie tracciate da Ottieri nei diversi campi di concentrazione collimano con alcune argomentazioni filosofiche riguardo al sentirsi inevitabilmente colpevoli nelle condizioni depresse più gravi, con annessi il dramma della scelta e la dissoluzione del tempo. Il «delitto di pazzia» comporta una condanna per direttissima al carcere, la clinica, che può tuttavia essere tramutata nei «domiciliari arresti». In altre parole, si è eternamente colpevoli senza alcuna possibilità di ricorrere in appello o di auspicare la prescrizione del reato. La colpa è un termine di provenienza giuridica impiegato per indicare l’infrazione involontaria di una norma, mentre il delitto suppone che l’infrazione sia volontaria. In ambito filosofico la colpa è intesa come condizione ontologica dell’esistenza umana, e se l’uomo può essere imputato di colpa, vuol dire che la possibilità di essere colpevole appartiene alla sua essenza. Considerata insieme all’angoscia come espressione ontologica della condizione umana, la colpa, connessa al sentimento di separazione da un’unità originaria, si attiva ogni volta che il soggetto abbandona una certa forma di sicurezza con il 196 dubbio di non poterla più ritrovare. L’orientamento fenomenologico della psichiatria ha colto, nell’esperienza della colpa, uno dei motivi della depressione endogena per cui, in base alla sensazione di chiusura al futuro che si elabora nel passato in cui la colpa presunta o reale è stata commessa, si delinea un tempo di sofferenza assoluto. Nelle Guardie del corpo il protagonista soffre, a causa del suo stato psichico, una particolare forma d’irritazione dovuta alla decennale condanna in prigionia, clinica o arresti domiciliari, mentre le guardie del corpo alle sue spalle ventiquattro ore al giorno sembrano degli aguzzini che lo privano della libertà da tempo agognata. Per ribellarsi il poeta utilizza un lessico scurrile che trova giustificazioni nella drammatica condizione in cui egli è condannato a vivere. Io non voglio essere la mente, ma il cazzo. […] Lei ha un’intelligenza imbecille / e un accidentato cazzo. / Difficile / renderli tutti e due pervii. […] Il tuo cazzo è troppo ambivalente. […] Eppure, cosa, / mente e cazzo / possono combinare insieme! […] Alla ben nota potenza del suo visus / si stava sostituendo la macchina, / sempre sottintesa, non sempre tesa, / del cazzo. […] Quante volte fra l’ideologia del pazzo / e il suo cazzo / c’è contrasto. […] Io mi uccido pur di trovare / una condotta normale. / Signore, stiamo facendo / un lavoro duro. / Pensai: Guardia del cazzo, / ma quale lavoro. (GC, pp. 72, 77, 82, 100, 109, 116, 125, 131, 136) Già, quale lavoro? Domanda più che lecita da parte di chi sta lottando da molti anni con tutti i medici che lo hanno in cura. In questa sarabanda di «cazzi» Ottieri unisce l’immagine dell’organo sessuale con la mente in un rapporto attinente alla psicologia sessuale che studia gli aspetti psichici soggettivi e comportamentali connessi all’insorgenza, alla maturazione e al declino della sessualità. Già nell’Infermiera di Pisa si era avvertita la fase calante, e qui prosegue il declino nell’ambito sessuale anche se accompagnato da un’irrefrenabile fantasticheria che spinge il personaggio a immaginare eiaculazioni mirabolanti. Eppure la sua sessualità è traballante e ambigua, non certo le qualità migliori per avventurarsi in approcci erotici con infermiere o modelle di turno, e infatti si ammaina la bandiera proprio quando si dovrebbero con fierezza affrontare prove d’amour fou. Tuttavia ciò non impedisce anzi aumenta la fantasia verso quella farneticazione erotica, riscontrata a Pisa ed essenziale nel futuro Poema Osceno, che si concretizza nel «ficheto» pisano e qui «foresta incantata»: «S’era promesso, invece del compito di guardarle / tutte, / quello di chiavarne una, / foriera di altre. / Chiavato un albero, / tutta la foresta incantata si discioglie. / Ahi, davvero, come / il suo disturbo è polarizzato sul sesso!» (GC, p. 85). Le nuove prospettive allora si chiamano Brasile e Rio de Janeiro, e c’è abbastanza materiale in attesa dello scoppio della libido che puntualmente arriverà: «L’idea sessuale di Rio / sopravviveva alla sopravvivenza, / tormentava nel letto, / in salotto. / Mi vedevo cavalcare l’immensa / città, scendere alle spiagge / oceaniche» (GC, p. 99). Oltre al disturbo sessuale, riaffiora ancora una volta il grave problema dell’alcolismo che accompagnerà anche gli ultimi lavori da Cery all’Irata sensazione. Nelle Guardie del corpo 197 vengono fortificate le basi della condizione di dipendenza, determinata dall’assunzione di bevande alcoliche, che si definisce cronica quando esprime uno stato patologico dovuto a una eccessiva assunzione di alcool prolungata nel tempo; acuta se relativa alla semplice ubriachezza dove l’intossicazione alcolica e le modificazioni dell’attività di coscienza e di comportamento sono episodiche e occasionali. Durante la lettura del poemetto si comprende ben presto che per Ottieri si tratta di etilismo cronico, e a causa di questa patologia le Guardie del corpo non lo lasciano libero nemmeno un istante. La lotta ora non è più analitica ma si sposta molto prosaicamente sul numero di bicchieri che il paziente dovrebbe (non) bere durante la giornata. Dallo zero iniziale, dopo numerose peripezie, si riesce a conseguirne un numero sempre maggiore fino al raggiungimento insperato di qualche ora di libertà che lo scrittore utilizza per visitare i bar del quartiere: «Non mi facevano bere una goccia. / Poiché una goccia porta alla morte / io vivevo la miglior sorte, / a casa. […] Avevo un disturbo che metteva in gioco / la sopravvivenza. […] L’alcool è l’unica sostanza che molce / le orrende sofferenze della mente» (GC, pp. 60, 67, 131). In ordine al sistema nervoso l’alcool agisce come un depressore e un narcotico e, con l’aumento delle dosi, si registrano disturbi visivi, riduzione del campo dell’attenzione e della coscienza, rallentamento nel tempo di reazione agli stimoli, scoordinazione motoria, quindi torpore, sonno e in casi estremi coma. In genere le bevande alcoliche hanno prevalso sulle altre per il loro effetto tonico ed euforizzante e per il momento di sollievo che danno all’angoscia, come già osservato nelle avventure del «pazzo». Tuttavia qualunque sia il grado di tolleranza, l’individuo può giungere più o meno rapidamente a uno stato di dipendenza che si manifesta con l’impossibilità di astenersi dal consumo di bevande perché subentrano sintomi fisici come la sete, oppure con la perdita di libertà per cui il soggetto è incapace di trattenersi fino a che non ha raggiunto lo stato di ebbrezza. Telefonai a Giancarlo. Disse / che dalle otto alle dodici ero libero, / che tra la Scilla del coma / e la Cariddi dell’astinenza / si dovevano trovare / meccanismi autoregolatori. / Subito al mattino, come Moravia, / mi posi a scrivere. Scrissi / con la velocità di un pendolino. Mi inceppai. / Per riavviarmi corsi / a bere due rossi in piazza Cavour / al bar di destra, poi due al bar di sinistra, / poi due in via Ennio Quirino Visconti, / poi due in piazza della Libertà, / due in via Larga: qui dissero / che non avean lo sfuso. Comprai una bottiglia. / La nascosi in armadio. / La vide quel pomeriggio stesso / un Dottorino freudiano. (GC, p. 66) Per quanto riguarda il decorso della tossicomania alcolica rapportato all’esperienza che Ottieri fa riemergere in varie occasioni letterarie dal Campo di concentrazione al Pensiero perverso, dalla Contessa alla Corda corta, dall’Infermiera di Pisa al Palazzo e il pazzo, dalle Guardie del corpo al Poema osceno, da Cery all’Irata sensazione, le diverse forme di alcolismo prendono sempre avvio dal cosiddetto «bere sintomatico» che consiste nel ricorrere all’alcool per lenire i molteplici disagi psichici e somatici sofferti. Si determina in questo modo un circolo vizioso quando il malessere comporta angoscia e il sollievo è rappresentato dall’alcool che, in quanto temporaneo, 198 ne richiede nuova assunzione generando un disagio secondario con nuova angoscia. Per uscire da questo tourbillon di spossatezze, le Guardie del corpo gli consigliano candidamente di spostare le sue attenzioni dalla bottiglia alle donne, forse inconsapevoli di aprire le danze di un’originale ma sempiterna contesa tra le fantasie erotiche e l’impossibilità di realizzarle. «Sono un border-line, / avendo un comportamento perverso, / preferendo alla figa la birra. […] È ora / che lei si consoli con la passera. / O proprio lo vuole / prendere nel culo?» (GC, p. 61). Nelle Guardie del corpo Ottieri si sofferma a considerare «Le due città» della sua vita: Roma e Milano. Ottieri nacque a Roma nel ’24 e poco più che ventenne si trasferì, nel ’47, a Milano dove iniziò l’analisi terapeutica con Musatti mentre frequenta la sede del PSI, per poi ritrovarsi quarant’anni dopo in una sezione degli Alcolisti Anonimi: «A Milano / dalla sezione socialista / della Pirelli Bicocca nel ’48 / è passato nel ’90 / alla sezione AA di Bonvesin de la riva: / prima lottava solo / con gli operai contro il padrone, / ora con il gruppo / solo contro l’alcole» (GC, p. 82). Psicoanalisi e politica iniziarono negli anni Quaranta a fondersi nelle riflessioni letterarie di Ottieri divenendo elementi imprescindibili della sua poetica. Se Roma è la città della nascita, e quindi della non scelta, Milano rappresenta invece un particolare «dover essere» (LG, p. 22) in un luogo che, da quel che risulta dagli scritti e dai suoi pensieri, non ha mai davvero amato65. Il colore che accompagna le descrizioni di Milano è il nero, mentre le sensazioni più frequenti sono il disagio e la sofferenza nello stare in una città che Ottieri considerava «morta» (COL, p. 97). Già nell’Infermiera di Pisa Ottieri si era lanciato in un’invettiva che ricalcava alcuni versi di Dante (Inf., XXXIII, 7981): «Ahi, Milano, vituperio delle genti, / dove si celebra il padrone / per quattordici ore. […] Città senza cielo, / terrore d’ansia e di suoni, / l’ambascia corre sul filo, / travolge i giovani e il vecchio, gonfi / scoppianti, ubbidienti ai fendenti» (IP, pp. 9-10). L’attitudine critica di Ottieri prende il sopravvento grazie alla commozione, unita alla passione civile, che gli tormenta l’animo di fronte alle ingiustizie quotidiane e alla decadenza delle istituzioni gestite da un Potere corrotto. Milano è in balia di grossolani usurpatori devoti al potere della pubblicità e della televisione, mentre si affossa nei cittadini l’ideale di libertà che sarebbe dovuto provenire da un governo democratico. Milano è una «città senza cielo» (IP, p. 10) o dal cielo finto come descritta a più riprese in Una tragedia milanese dove il lavoro stabilisce i ritmi della vita in una città «fangosa […] concava piena di edifici grigi, priva di paesaggio, di fiume, di idee» (TM, pp. 9 e 17). Tra fango e denaro emerge un altro aspetto non secondario nelle riflessioni di Ottieri, ossia figure femminili che abbelliscono a loro modo il contesto degradato: «Milano è la città delle belle donne, / ma tutte incanalate e nascoste / nei profondi solchi / della borghesia potente» (GC, p. 62). Roma risponde con la stessa 65 Ottieri scriverà persino una «lettera aperta» al Sindaco di Milano definendo la città lombarda come «la più brutta del mondo. Non lo è per ragioni fatali, ma perché i milanesi la vogliono orribile». 199 moneta, dispiegando sul tavolo immagini di donne attraenti che confondono ancor di più le idee e le fantasie dello scrittore: Le belle donne di Roma / pare che facili navighino sull’onde / di una società senza classi, / divisa in belli e brutti, / a portata di mano, / come i pesci negli atolli. […] Quella Roma ricolma / di attrici, annunciatrici, conduttrici, / amanti bionde / degli industriali di Milano. […] L’alieno sarebbe stato capace, / mentre si preparava il ritorno a Milano, / di volgere il piè verso Roma. / Nella clinica a Roma, / come in un albergo / venivano le idee, le ideologie / e idiosincrasie di Milano. (GC, pp. 62, 65, 83, 145) Il confronto tra le due città mette in risalto le caratteristiche principali delle stesse: da una parte la città veloce, industriale, dedita all’economia e al commercio, dall’altra la città imbolsita dalla storia millenaria e pietrificata in monumenti che ne danno un significato eccelso e contraddittorio: Così, comportamentalmente, agiscono i due / nel risveglio della città-macchina, / della città cantiere / della città boutique, / della città liscia e snella, a confronto / della città grossa, di Roma, / dove enormi e pesanti / sono i monumenti; / nella città che produce / e vende a piacere, a dovere, / nella gioia, nell’obbligo / del libero mercato / autotreni e pannolini. (GC, p. 87) Poiché antica e affrancata dalle attività del libero mercato, Roma mantiene agli occhi di Ottieri un aspetto ancora primitivo dove è possibile realizzare anche i desideri più reconditi, come quello di fare il regista. E dove, se non a Roma, in quella città raccontata da Fellini e Pasolini tra la Dolce vita e Accattone, si potrebbe girare un film pieno di emozione e colore? Un nuovo valzer di fantasie apre le danze della sua immaginazione che non disdegna l’entrata in scena di belle e giovanissime attrici pronte ad assecondare le sue fantasie erotiche. Ottieri gira mentalmente un film il cui successo è assicurato. Vai a Roma, combini subito un film. / I rotocalchi sono subito pieni di articoli / che spiegano / come lo scrittorello delle cliniche / sia diventato il grande cineasta / dell’amore delle metropoli. […] La prima attrice innamorata di te. […] S’innamora di te la giovane madre / della giovanissima prima attrice. […] Il film ha un successo inaudito. / Ti si aprono tutti i mercati. […] Da una clinica non potevo / telefonare a Fellini. / C’erano belle donne / e non sapevo verso quale puntare. (GC, pp. 102, 145) Per telefono Ottieri e Fellini tentavano spesso di sentirsi o meglio di rincorrersi. Il 23 febbraio ’84, Fellini scrisse infatti a Ottieri: «Caro Ottiero, ho provato a chiamarti a Milano, ma era eternamente occupato. Eccoti quindi il mio numero, o meglio i miei numeri: quello di casa […], quello di Cinecittà […], e infine quello del mio studio […]. Ho un altro paio di numeri in Vaticano, ma lì non posso essere disturbato, e puoi capirne le ragioni». Anche nelle Guardie del corpo Ottieri gioca con la letteratura riprendendo alcuni celebri versi di poeti italiani con i quali instaura proficue correlazioni piene di rimandi anche provocatori. 200 In un passo del poemetto, ad esempio, Ottieri è vittima di una caduta occorsagli durante una passeggiata per i vicoli di Belverde (Chiusi): «Decisi / di fare svelto, battendo le guardie appresso, / il giro del paese. / Alla prima del Corso / discesina scivolai e cadi. […] Ora ero alieno, vigilato e zoppo. / Tutto il paese di mio Padre / e di avi gotici / aveva visto il fin de race / cadere. / La letteratura è piena / di alcolisti zoppi» (GC, p. 70). Il tono, i termini utilizzati e l’atmosfera rinviano alla Caduta di Parini: «Me spinto ne la iniqua / stagione, infermo il piede, / tra il fango e tra l’obliqua / furia de’ carri la città gir vede; / e per avverso sasso / mal fra gli altri sorgente, / o per lubrico passo, / lungo il cammino stramazzar sovente»66. Nel cuore dell’inverno e sul far del tramonto, su un terreno reso viscido dalla pioggia tra lo sfrecciare incrociato delle carrozze, Parini descrive la propria rovinosa caduta. Ma oltre al fatto in sé, quello che accomuna le due vicende è l’idealizzazione che emerge dai versi e che Ottieri accoglie pienamente, connessa alla rivendicazione del diritto della poesia e del poeta a essere ascoltato, in quanto portavoce di valori civili, dal più ampio pubblico possibile. Ma se questo manca, e così sembra essere avvenuto a Parini e a Ottieri, anche in contesti storico-sociali molto diversi, la frustrazione per i meriti e diritti misconosciuti si converte e si sublima in una sorta di risentito arroccamento: «E se i duri mortali / a lui voltano il tergo, / ei si fa, contro a i mali, / de la costanza sua scudo e usbergo» (La caduta, vv. 93-96). Il ruolo dell’intellettuale all’interno della società e la funzione civilizzatrice della poesia sono dei pilastri nella poetica di Ottieri, il quale avvertiva questo senso di engagement, di partecipazione attiva al senso civico della sua letteratura. In questa prospettiva, oltre i già citati Parini e Foscolo, la figura di Pasolini si presentava con veemenza, intrisa di quel coraggio intellettuale foriero delle dure reprimende al Potere e al Palazzo che emergono dalle pagine degli Scritti corsari e Lettere luterane. A più riprese Ottieri ha reso omaggio al poeta bolognese con riferimenti diretti alle sue opere, considerandolo una delle espressioni poetiche più alte della letteratura italiana del Novecento, e in un verso delle Guardie del corpo si fa riferimento a Petrolio, l’ultimo romanzo di Pasolini pubblicato postumo, che servirà da modello per il Poema osceno: «Non tollero più il dolore. / Lo annego in qualsivoglia / sostanza, vino o profumo, / alcool o Petrolio» (GC, p. 104). «Pasolini dà coraggio ai giovani. Il protagonista di Petrolio non è mai osceno anche se scopa la nonna; la verità non è mai oscena perché è sempre rivoluzionaria» (PO, p. 8). Leopardi, altro poeta molto amato da Ottieri, è presente nel poemetto con l’«immortale affanno» riferito al dolore della coscienza, alla condizione dell’uomo gettato nella vita e costretto a un desolato tormento che comincia dal giorno della nascita per terminare con la morte. È il male universale, riflesso di quel pessimismo cosmico che Ottieri incarna nella condizione alienata del 66 PARINI Giuseppe, La caduta (1775), in Il giorno - le odi, BUR, Milano 1978, p. 264. 201 depresso, simbolo universale dell’uomo moderno: «Giancarlo, come permetti / che i tuoi uomini considerino / l’immortale affanno / cosa benvenuta e allegra, / e che il nostro motto sol sia / Angor ergo sum?» (GC, p. 58). In questi versi si riscontrano la parodia di una preghiera cattolica «è cosa buona e giusta» trasformata in «cosa benvenuta e allegra» riferita al dolore cosmico, e un autocitazione dell’«Angor ergo sum» analizzato nell’Irrealtà quotidiana, la quale a sua volta trova spazio nel poemetto: «Avevo una volta un soffio al cervello, / che chiamai / sentimento d’irrealtà» (GC, p. 137). Un altro riferimento letterario presente nelle Guardie del corpo riguarda il verso iniziale della tragedia Il conte di Carmagnola di Manzoni, in cui la prima strofa è costruita su un parallelismo accurato che serve a dare il senso scenico di un eguale spiegarsi di forze nell’avvio dello scontro tra i due eserciti che si fronteggiano. Al contrario, nel poema di Ottieri non c’è nessuna guerra in corso se non nel suo cervello ambivalente, e si combatte solo per la ristrutturazione di due case confinanti, in un parallelismo a specchio, mentre non squilla una tromba ma un telefono: «La mia casa è un cantiere. […] È inabitabile / intanto che la rendiamo più bella, / colpi di grande martello / percuotono mura e abitanti. / Risponde a destra uno squillo di telefono, / la casa di fronte è percossa / da analoghi martelli, perforata / da trapani omologhi» (GC, p. 112). Petrarca è l’ultimo rimando letterario presente nel poemetto: «Ella m’avea / ben rimesso al mio ruolo / mentre ella impavida rimaneva al suo. / Quand’io era in parte altr’uom da quel ch’i sono, / non dissi alla mia sposa / il mio pensiero vero: / quali e quante donne / m’erano state madri; / ch’io non potevo andare che con mamme, / vecchio, per altro, da manuale, percorso» (GC, p. 93). Ottieri vuole sottolineare la diversità della propria persona rispetto al tempo passato, ma senza alcun possibile ravvedimento, inutile oramai, mentre Petrarca evidenzia almeno la plausibilità di una indulgenza: «Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono / di quei sospiri ond’io nutriva ’l core / in su ’l mio primo giovanile errore, / quand’io era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono; / del vario stile, in ch’io piango e ragiono / fra le vane speranze e ’l van dolore, / ove sia chi per prova intenda amore, / spero trovar pietà non che perdono»67. Il sonetto di Petrarca apre il Canzoniere e ha una duplice funzione strutturale, letteraria-sentimentale e ideologica in quanto doveva unificare la raccolta per apparire come la storia organica di un’anima in pena che, pur partendo da numerosi peccati giovanili, era approdata a un amaro pentimento della vita passata. Se tra i due il punto di partenza è lo stesso, cambia la prospettiva futura per una sorta di conversione auspicabile per Petrarca e inattuabile in Ottieri. 67 PETRARCA Francesco, Il canzoniere (1375), Feltrinelli, Milano, 1998, p. 55. 202 Il Diario del seduttore passivo è composto da cinque poemetti: Monica Dreyfus, Lo psicoterapeuta perfetto malgrado lui, Sotto il martello della rivalità e autostima, Le filippine, Il seduttore passivo e già dal titolo Ottieri svela gli elementi principali dell’opera: si tratta di un diario scritto da un dongiovanni sconfitto da uno stato psicofisico non più tollerabile. La materia narrata non si distanzia molto dalle opere precedenti e l’io autobiografico espone il proprio male in modo romanzato con degli alter ego che prendono il suo posto tra la depressione, l’alcolismo cronico, i medici curanti, il vortice di donne nel cervello, la pazienza della moglie e dei figli, l’incomprensione del mondo letterario. Nulla di nuovo, eppure Ottieri riesce ogni volta a districarsi nei meandri della sofferenza con prospettive diverse, unendo tasselli di un puzzle che di opera in opera assume forme più comprensibili, come se scrivere della propria malattia fosse l’unico modo per spiegala a tutti, anche a se stesso. Debbo scrivere, intanto, la mattina. / Deve? È convinto / che per la letteratura italiana / un alcolizzato della sua età sia indispensabile? […] Ormai ero / un vecchio scrittor che si ripete, / avendo tagliato il ponte levatoio. […] Lei è piuttosto il Dante / delle Rime Petrose. […] Il vino non l’aiuta a scrivere. / L’aiuta a stare presto / zitto per sempre. / Perugi in Pisa: Ho letto / tutti i suoi libri. / Gli scritti col vino sono pessimi. […] Dottore! Stanotte / ho avuto l’ennesima prova / che senza vino / non scrivo un cartellino! […] Si considera uno scrittore fallito? / Forse. Sono comunque / uno scrittore minore. […] Il tuo autobiografismo è prolisso. […] Ma io sono un poeta. / Altro mestiere / mi porta via tempo. […] Ora non era più noioso, / anzi brillante, / scrittore perfino scriveva. / Lo sciroppo dà fiato alle trombe / e alle trombette. […] Stava troppo male / e nemmeno scriveva. / Che cosa è mai / scrittore che non scrive? (DSP, pp. 14, 16, 18, 20, 58, 74, 76, 93, 105) Il connubio malattia-scrittura si evidenzia in alcuni versi del poemetto quando Ottieri ricorda il passaggio dalla Garzanti che non vuole pubblicare il Diario, alla casa editrice Giunti invece favorevole: la conclusione della trattativa porta alla pubblicazione dell’opera e di conseguenza il pagamento di una parte della retta per il soggiorno alla Métairie68; ma per chiudere il conto sarà necessario vendere un terreno, gli dirà la moglie: «Ho lasciato / il mio Editore cattivo, / per uno che mi vuole bene. / Mi ha già fatto / il contratto per / Seduzione Morale, / romanzo epistolare, / con esso il conto / di Maiterie onoro. (DSP, p. 58) Nel primo dei cinque poemetti che formano il Diario del seduttore passivo, dal titolo Monica Dreyfus in onore di un’infermiera, Ottieri narra del soggiorno trascorso nella clinica Métairie di Nyon, «nel reparto alcologico detto Jura» (DSP, p. 7), per curare la propria tossicomania dovuta all’alcool. Ancora una volta torna la Svizzera nel percorso umano e letterario di Ottieri: «Montammo con mia moglie / sul treno della disperazione, / quello che va da Ginevra a Milano, / da Milano a Domo, / da Domo a Losanna. / Gli italiani credono ancora / che in Svizzera si guarisca meglio» (DSP, p. 60). La Métairie rappresenta per Ottieri la seconda tappa del tour della Svizzera 68 La Clinique La Métairie si trova all’Avenue de Bois de Bougy CH-1260 Nyon in Svizzera. Ottieri nel poema rovescia la prima é del nome col dittongo ai che in francese si pronunciano allo stesso modo. 203 (la prima fu la Klinik am Zürichberg del Campo di concentrazione e di Contessa, la terza sarà la clinica psichiatrica Cery di Losanna) all’interno di un più esteso tour de force europeo cui si sottopone lo scrittore per cercare una guarigione, se non definitiva almeno auspicabile: «Tutta la Maiterie s’accorse / che non facevo nulla. […] Sono alla Maiterie nella torretta chic, / separata dal corpo del manicomio elegante, / torretta riservata al know-how. […] Ahi, Maiterie, galera lussuosa e ampia / di behavior crudele e non dichiarato» (DSP, pp. 11, 23, 31). Il soggiorno alla Métairie assomiglia molto alle precedenti esperienze vissute e trascritte nelle cliniche, dalle terapie da seguire al confronto-scontro con i medici, dalla classica girandola di donne fantasticate al tempo malato, dal rifiuto categorico dell’atelier che «nel pensier rinnova la paura» (DSP, p. 13) all’orrore per la riunione di gruppo «un Sinerio… Corte d’Assise d’Appello» (DSP, p. 56), dagli scompensi psicofisici dovuti all’astinenza alcolica, sempre molto passeggera, alle avventure per soddisfare il bisogno d’alcol, dalle visite e telefonate attese della moglie «sposa infinita […] lume della mia vita» (DSP, pp. 25, 60) all’apprensione costante dei figli. C’erano belle donne / che avrei voluto possedere ratto / e fuggire. Anche se ho la figa, / sono sempre in fuga. […] Cercando nella terapia / la lussuria, conobbi la giovanissima / Dreyfus dalle calze nere, / non essendo la mia geografia / fatta di ricoveri bensì, in essi, / di donne. […] Perché, si domanda, / questa mania delle donne / questo guardarle in modo indecente? / Ma egli è pazzo. È inaffidabile, estroso, / il suo cazzo. […] Era la Dreyfus. Di nuovo / a una ragazzina / veniva affidato il favo / del lunatic-asylum. (DSP, pp. 15, 22, 24, 56) Tra tutte queste donne desiderate Ottieri sogna addirittura una ragazza che abbia lo stesso profilo di Dante coniugando un’ossessione giovanile, ossia il poeta amato, con un invasamento più maturo come le donne: «Ahi, quante volte / obliai la mia sposa infinita. / Qui in Maiterie prediligo / una ragazza lunga / col profilo dell’Alighieri, / piccoli seni, / un’aria non insana, / anzi soave, scrupolosa, / presa da pensieri / regolari» (DSP, p. 25). Il tempo, anche in questo ricovero, oscilla senza certezze tra passato, presente e futuro, anche se dopo le riflessioni proposte nell’Irrealtà quotidiana e nel Campo di concentrazione, si comprende che per il depresso cronico il tempo non esiste, o almeno non quello conosciuto abitualmente. Si ripetono al paziente in modo ossessivo le stesse domande che non possono avere risposta. Lei / è nel passato, / nel futuro o nel presente? / Nel presente. […] Chiese / se ero nel presente, nel passato o nel futuro. / Non ho futuro. […] Lei è un signore inquieto, vive / nel presente, nel passato / o nel futuro? / E lei? […] Tu non hai passato. / Potentissimo ora, in te, / è il futuro, / ti togli da te stesso / il tappetino del presente / da sotto i piedi. (DSP, pp. 12, 13, 29, 79) Tra le oscillazioni del tempo, tuttavia, dal passato riaffiora un ricordo alla mente dello scrittore, importante perché riguarda un episodio della prima adolescenza che si conficcò 204 profondamente nella sua memoria e che a distanza di molti anni risulta indelebile: si tratta di un ballo. Uno psicotico adolescente / una domenica pomeriggio ai Parioli / andava verso il salotto T. H., / dove fra teens nobilissimi / si imparava a danzare. / Un martello pneumatico, / per strada, / martellava la sua gola nera. / Agognava un terremoto, una catastrofe, / pur di non andare. / E andava. / Non riusciva a danzare / e intrattenere le dame. / Una lo invitò due volte, / due volte lo abbandonò. […] Ma l’ansia prestazionale e la socialphobie / Legavan allo psicotico le labbra e i piedi. (DSP, pp. 8-9) Poi c’era la «scuoletta di ballo» a darmi angosce sovrumane. Noi siamo toscani, ma stavamo a Roma. Mia madre voleva introdurmi in un buon ambiente, anzi nel migliore di tutti. Dovevo prepararmi alla scalata mondana. Come si faceva? Ogni domenica c’era una riunione di bambini nella casa di un nobile diverso, a turno, e lì un maestro inglese ci insegnava il ballo. Avrò avuto dodici-tredici anni e al momento di andare alla «scuoletta» venivo assalito da crisi di angoscia terribili. Eppure io, playboy antemarcia, avrei voluto andarci perché riconoscevo che le ragazzine più belle erano là. Eppure non riesco a immaginare angosce più terribili di quelle che provavo allora. Ma già, io sono legato al primato della sofferenza. Io batto tutti. (in E liberaci dal male oscuro, p. 425) A questo stato di confusione esistenziale si aggiunge la necessaria assunzione di alcol giornaliera, senza la quale il paziente non potrebbe vivere: «Lei di qualcosa si deve nutrire, / non dell’alcol e benzodiapezine» (DSP, p. 16). Come appurato nel Palazzo e il pazzo, già dalla prima mattina il bisogno impellente di bere sovrastava qualsiasi cura o terapia, spingendo il tossicomane a soddisfare tale necessità attraverso avventure picaresche che saranno ancora più evidenti in Cery. Un risultato, almeno parziale, il paziente lo ottiene: l’allucinosi alcolica. Feci una scappata al mattino alle 7 / nel bar di fronte. / Ci bevvi tre bianchini / che servivano a correggere / la catastrofe / del risveglio, / o hangover. / Incosciente! Gridava lo psichiatra. / Lei è solo un incosciente. / Il tossico gli faceva orrore. / Ahimè, a me / non faceva orrore per niente. / Uscivo la mattina alle sette / dall’ospedale polispecialistico, / di corsa, facendo frenare i tir di colpo, / a trangugiare di seguito / cinque bianchini / messi in fila sul banco. / Pare che al ritorno vomitai nell’atrio, / non ricordavo, non ricordo. […] Mi riprese alla Maiterie, nel vuoto, / un mattino l’allucinosi. (DSP, pp. 39, 40) Percezione senza oggetto con caratteri di fisicità e spazialità come l’allucinazione ma senza i tratti tipici, l’allucinosi si evidenzia per la trasformazione fantastica della realtà, la direzione autocentrica del soggetto che interpreta ogni fenomeno come riferito a lui soltanto, e l’inaccessibilità del vaglio critico. Si hanno diversi tipi di allucinosi: acuta se insorge a seguito di intossicazioni o traumi senza comportare perdita di lucidità o indebolimento delle facoltà intellettive; alcolica cronica per prolungato abuso di alcol; oppure tattile cronica con sensazione di piccoli oggetti, liquidi, insetti che molestano la pelle. E quando per evitare rischi ancora maggiori alla salute, i medici gli sottraggono la materia prima, l’alcol, il tossicomane ricorre ad alternative non meno gustose come l’acqua di colonia, stratagemma che vale per tutte le stagioni (Contessa, Il palazzo e il pazzo e Cery): «Se non hai vino, / pensi all’alcole con cui / l’infermiera ti strofina il 205 sedere. / Il profumo, donna, non lo metti / dietro il lobo del piacere / ma lo trinchi. L’acqua di Colonia / è prelibata bevanda» (DSP, p. 50). Il Tour de force, tuttavia senza un traguardo da raggiungere, si struttura nel tempo come un vagare inquieto e allucinato per le cliniche d’Europa passando attraverso varie terapie, medici, medicinali. Ma se la strada è lunga e non si vede la fine, o forse proprio per questo, l’unico barlume di salvezza si scorge nel passaggio ossessivo tra i vari manicomi che Ottieri definisce «clinichismo»; così che alle vittorie di tappa del tour segue inevitabile, e con un certo compiacimento, la supremazia della pena. Esasperato, Cassano, lo invia a Padova / da un alcologo coraggioso. / Così corro da Milano a Pisa, / da Pisa a Padova, / da Padova a Milano. / Ho bruciato l’Europa. […] Tu bevi e ti curi, / ti curi e bevi. […] Ti disintossichi a Pisa sapendo / che ti intossicherai a Milano. / Poi Pisa. Milano poi. / Ma il totale è in rosso. […] Mi salvavo col clinichismo, / che è passaggio / da una clinica all’altra. (DSP, pp. 18, 22, 39) A ogni città una clinica, a ogni clinica un medico, a ogni medico una terapia in un viaggio che non avrà mai fine. Dietro ogni nome una città, una terapia, una lotta infinita: «La sua vita è un giallo / psicologico» (DSP, p. 85). Dalle diverse cliniche di Milano oppure dagli arresti domiciliari imposti da Zapparoli alla celebre San Rossore di Pisa del «Nobile Cassano», un’altra città viene visitata da Ottieri: è Padova, dove lavora lo psichiatra e tossicologo Luigi Gallimberti, il Dottor Carlo Migliorini nell’Irata sensazione di peggioramento. Coloro che vanno / da Giancarlo / divengon borderline, / da Giovanni Battista / depressi, / da Luigi, bramosi. / Il malato è mimetico, / ha il male / che il terapeuta vuole. / No. È il terapeuta / che cura la malattia / che il malato vuole. […] Tre ne aveva. / Chi, ora, sceglieva? / I tre sono collegati da un ponte / che solo il paziente sente; / i tre sono rivali; / la terapia nasce da esperienza / ma soprattutto da ideologia; / il paziente è costretto / a triangolare. (DSP, pp. 79, 117) Non mi dica di scegliere tra Zapparoli, Cassano, Gallimberti. Poggio su tutti e tre. Ormai non sono più ambivalente, ma trivalente. (in E liberaci dal male oscuro, p. 430) Astutamente Ottieri supera l’impasse del conflitto tra medico e paziente divenendo egli stesso da malato tossicomane a psicoterapeuta: seppur bislacca all’apparenza, tale trasformazione si rese necessaria nel tempo. Già nell’Irrealtà quotidiana lo scrittore oscillava tra i due ruoli di analizzato e analizzatore, scoprendo in seguito che non esisteva persona più adatta di lui a mettere le mani nel proprio cervello. L’importanza di essere uno Psicoterapeuta perfetto malgrado lui, come recita il titolo del secondo poemetto del Diario, svela una realtà dei fatti ormai inconfutabile: il medico che vuole curare lo scrittore deve prima confrontarsi con un collega di pari livello per studi e impostazione scientifica: lo scrittore stesso! 206 Ora lei / chiaramente si disvela / come psicotico, / divenuto psicoterapeuta / di territorio. / Da qui lei passerà / alla terapia della nuova cronicità. / È sempre interessante notare / questo scatto di carriera. […] Lei è un chiaro psicoterapeuta / di territorio o presidio, / che sostituisce il prete di parrocchia. […] Tu sei un poeta / che sa fare solo / lo psicoterapeuta, / cioè il prete, / sei un sacerdote canoro. […] Meravigliosa è la psicoterapia / perché è per te / l’unica relazione possibile, / e la relazione tenta / di addomesticare i demoni, / la morte e il pensiero / che si osserva. (DSP, pp. 66, 76, 77, 79) Lo psicoterapeuta perfetto malgrado lui è strutturato in forma teatrale con diversi personaggi che irrompono sulla scena come Io, il Supervisore, l’Indiana, il Portiere, la Peruviana, la Sorella, l’Infermiera in pensione, la Modella, Michele. Sebbene sia breve e non un componimento cardine, questo poemetto, posizionato come secondo tempo del Diario, rappresenta un momento importante della produzione di Ottieri poiché in esso si compiono le prove generali per il successivo e monumentale Poema osceno, composto subito dopo il Diario e che tra l’altro all’inizio viene rifiutato dall’editore perché troppo osceno: «Alzò il telefono; era l’editore / che disse: il tuo testo è troppo / autobiografico e prolisso! / Pubblicarlo / non le conviene. / Per Lei lo dico! / Ci son troppe sconcezze» (DSP, p. 115). Tra Lo psicoterapeuta perfetto malgrado lui e Il poema osceno confluiscono alcune similitudini come la forma teatrale con cui i personaggi entrano in scena, senza didascalie, per parlare dello scrittore, Io psicoterapeuta e Pietro osceno; inoltre collimano alcuni argomenti trattati come le manie, idiosincrasie, follie, delusioni, malattie, i suoi ricordi, le riflessioni sulla letteratura e la politica, sul ruolo del poeta nella società e sulla poesia cortigiana. Su quest’ultimo aspetto spiccano dei versi che efficacemente riassumono secoli di cortigianeria della cultura italiana, motivo che avvicina Ottieri ad alcune riflessioni di Indro Montanelli con il quale, tra l’altro, si ricorda un dialogo in una Stanza del «Corriere della sera» dove il giornalista invitò lo scrittore a dargli del «Voi».69 Un poeta / è sempre un poeta di corte / cioè un magnaccia. / È la corte / che sponsorizza / il poeta. / La corte deve solo / trovare un buon poeta. / E può cacciar via il poeta / in favore / di uno migliore. / Per questo / il poeta è un esule. (DSP, p. 83) La cultura italiana è nata nel Palazzo e alla mensa del Principe, laico o ecclesiastico che fosse, e non poteva essere altrimenti, visto che il Principe era, in un Paese di analfabeti e quindi senza pubblico mercato, il suo unico committente. 70 Il risultato che scaturisce dai continui confronti avviati nello Psicoterapeuta perfetto offre un’immagine complessa e sofferente di quel personaggio che è chiamato Io, cocciuto fino all’inverosimile nel crogiolarsi nella malattia che lo assedia da decenni, sempre attento a ricercarne le cause, le origini, gli sviluppi: «Tu continuamente rechi / prove della tua pazzia / o indizi. Conosci 69 «Caro Ottiero, Grazie di avermi procurato un giorno di riposo occupando tu la mia stanza. Ma perché mi dai del lei? Visto che facciamo parte della stessa nomenclatura, e visto il colore della vernice con cui vuoi tingerla, diamoci del voi». Caro Ottiero Ottieri, diamoci del voi, «Il Corriere della Sera», 7 luglio 1996, p. 33. 70 MONTANELLI Indro, Storia d’Italia (1993-1997), cit., p. 540. 207 tutte le definizioni / della pazzia e della tua pazzia. / Ma non si capisce / se vuoi o non vuoi essere pazzo. / Anche qui sei incerto!» (DSP, p. 75), In questo poemetto Ottieri ricorda inoltre circostanze particolari della sua vita, interessanti dal punto di vista letterario poiché non verranno ricordate in altre opere, condizione dunque specifica alla luce dei continui rimandi a intreccio con cui lo scrittore gioca in modo insistito. Il primo di questi riferimenti è alla matematica che, odiata nel periodo scolastico, Ottieri riesce a possederla nella fantasia: «Sono laureato in matematica. / Creo che la psicologia / sia una trigonometria / dei bisogni» (DSP, p. 67). Ho avuto episodi gravissimi per la matematica. Ero il primo della classe, ma in matematica no. Se il giorno dopo c’era il compito in classe di matematica, la sera avevo delle crisi che allora venivano chiamate isteriche. Così alle dieci e mezzo di sera tutta la famiglia era disperata intorno a me che gridavo. Che fare? Chi chiamare? Finché trovarono un ragioniere disposto a venire anche alle dieci di sera. L’equazione me la faceva lui. (in E liberaci dal male oscuro, p. 425) L’altro rimando è per gli «orridi giardini»71 adiacenti il rifugio di Via San Primo, ultima residenza milanese di Ottieri, dove qualche volta viene trasportato di peso per fare una passeggiata non affatto desiderata. Non a caso si ricorderà in un passo successivo del testo: «il resto lo spendeva in taxi. / In taxi andava / dal tabaccaio» (DSP, p. 118), che richiama l’«io prenderei un taxi per andare dal salotto alla cucina». I Giardini sono la rogna scarsa / della città opima, / ex-europea, perplessa. […] I manuali scrivono / che uno dei sintomi della follia / è non uscire mai. […] Questo è il rognoso manto / che ricopre una zona verde / che non è verde. Vi è un lago che non è un lago. / L’annesso Museo / di Storia Naturale / è una tomba da scoperchiare, / pantegane balzano dai prati. / Il Planetario accanto è una fogna / di angosce ingorgate. DSP, pp. 78, 81) Nel terzo poemetto del Diario, dal titolo Sotto il martello della rivalità e autostima, Ottieri ambienta la scena a Chiusi, ricollegandosi in questo modo al precedente Palazzo e il pazzo, attraverso un alter ego Filippo Sanzio cui si contrappone la moglie qui trasformata in Ippolita Bisanzio. Ottieri costruisce un piccolo quadretto di famiglia inserendovi anche figli e parenti in un’atmosfera opprimente per il luogo, cioè il Palazzo di quel paese (Chiusi) «senz’anime […] vuoto» (DSP, p. 89) e la disperazione incessante che va dalla depressione alla «tenebrosa WUE» (DSP, p. 89) già vissuta da Renée nell’Irrealtà quotidiana. Anche in questo caso nessuna salvezza sembra a portata di mano, ma sempre per volontà, masochistica e benefica, dello scrittore che necessita del Male per vivere e dunque scrivere: senza il Male si sentirebbe, infatti, morto e non potrebbe più lottare con i medici o concepire nemmeno un verso: «Da una parte speri / da loro una 71 Si tratta dei Giardini Pubblici Indro Montanelli che si estendono tra Corso Venezia, i Bastioni di Porta Venezia, Via Manin e Via Palestro, e che hanno una superficie di 172.000 metri quadri. 208 guarigione / o il sollievo; / dall’altra cerchi / con tutti i mezzi di rendere la guarigione / impossibile, / per continuare a misurarsi con loro» (DSP, p. 100). Eppure, nonostante lo smarrimento esistenziale ormai consuetudinario, si presenta nella vita di Ottieri, e quindi nella sua letteratura, una novità che ha un nome stampato sui flaconi: Alcover72, invenzione di Gallimberti: «Un portentoso sciroppo. Ora è anche in vendita, si chiama Alcover. Quando non posso fare a meno di bere, bevo quello. Vado a Padova ogni quindici giorni dal Dottor Gallimberti, alcologo» (in E liberaci dal male oscuro, p. 430). Non sostengono inter-azioni / che attraverso lo sciroppo, / con esso sopraffanno / nei salotti e nelle arti e mestieri, / lasciamo stare le alcove. […] Solo sciroppo può liberar dai ceppi / la sua voce solitaria strozzata / dalla legge ferrigna / dell’Ap-Up-profitto. […] Il down da sciroppo fu terribile / una volta, allorché assunse / in treno due misurini furtivi assieme. […] Annegava vivo. / Lettiga! Gridava l’internista / ignaro di questa patavina pappa reale. […] L’unità di misura di Filippo / era ora l’overdose. […] Lo sciroppo determina umore / ma umore determina sciroppo, / in reciprocità biologica, / come, dal psicoastenico dubbioso, / il farmaco per scegliere / è, prima, scelto. (DSP, pp. 90, 92, 96, 106, 109) Sull’evoluzione del rapporto paziente-sciroppo, Ottieri rinvia le conclusioni nell’ultimo romanzo, Una irata sensazione di peggioramento, dove verranno narrate le avventure del suo ultimo alter ego Pietro Mura, alcolizzato e depresso, uno dei molteplici protagonisti del lungo viaggio intorno al Male, tra l’industria, la clinica, la società e la politica, iniziato quasi mezzo secolo prima al tempo delle Memorie. Gli ultimi due brevi poemetti del Diario sono delle istantanee scattate in pochi versi in cui lo scrittore ricorda con benevolenza le Filippine, sempre più presenti in Italia e in casa Ottieri in particolare, simbolo di una commistione non proprio compiuta tra oriente e occidente nella moderna società globalizzata; e il Seduttore passivo, ovvero lui stesso, considerato poeta (in)civile in un paese, da Chiusi all’Italia, destinato a una prossima scomparsa. II.7 Cery Cery è la storia del ricovero in una clinica di Losanna73 asettica e ben organizzata come vuole il costume della Confederazione, in cui l’io protagonista, Ottieri nei panni alcolizzati dello scrittore Filippo Ciai, tenta ma senza crederci di disintossicarsi dall’alcol. Il romanzo è anche un 72 L’Alcover è un coadiuvante utilizzato in diverse terapie per il controllo della sindrome di astinenza da alcol etilico, nella fase iniziale del trattamento multimodale della dipendenza alcolica, nel trattamento prolungato della dipendenza alcolica resistente ad altri presidi terapeutici in coesistenza di altre patologie aggravate dall’assunzione di alcol etilico. In caso di sovradosaggio il farmaco svolge essenzialmente un’azione depressiva sul sistema nervoso centrale con possibile stato confusionale e difficoltà respiratoria. 73 Costruito nel 1873, l’ospedale di Cery si trova al numero 1008 di Prilly, un quartiere di Losanna. 209 ritorno al passato, in quella Svizzera già conosciuta ai tempi del Campo di concentrazione dove il prigioniero rinchiuso nella Klinik am Zürichberg lottava con la depressione cronica, mentre qui a Losanna il tono cambia, facendosi più leggero, tragicomico, perché gli anni passano e l’esperienza della malattia ha rafforzato le difese immunitarie dello scrittore. Dal lager di Zurigo alla villa di Losanna sono trascorsi, infatti, quasi trent’anni e il tempo impiegato nella lotta contro il Male ha caratterizzato in modo rilevante, tra angosce, deliri, fantasticheria e ironia, una parte consistente della letteratura di Ottieri. Come viene vissuto l’alcolismo da chi lo soffre in prima persona e lo racconta in un romanzo? Il protagonista Filippo Ciai parla spesso di craving, bramosia, contro cui non c’è nessun rimedio che lo possa placare se non una maggiore assunzione d’alcol. Ottieri pone l’attenzione sulla dipendenza che si manifesta come impossibilità di astenersi dal consumo di bevande o perché subentrano sintomi fisici come la sete, oppure per la perdita di libertà per cui il soggetto, dopo il primo bicchiere, è incapace di trattenersi fino al raggiungimento dello stato di ebbrezza. Il soggetto stesso ricorre regolarmente agli alcolici per affrontare le difficoltà della propria esistenza, ma qui si forma un circolo vizioso in quanto l’uso di alcol provoca complicazioni che vengono affrontate facendo ricorso all’alcol medesimo. Contribuisce alla dipendenza alcolica l’assuefazione dell’organismo che richiede dosi sempre più elevate per produrre gli effetti psichici desiderati, manifestando disturbi dopo la sottrazione del tossico: «Disperavo. Ma non rinunciavo. Nulla placa il craving, se non fiotti e fiotti di alcol, che chiedono strillando nuovi fiotti. Il mio craving era al suo massimo livello, quando l’uomo può uccidere per una scatola di birra» (CERY, p. 21). Il craving riguarda la necessità impellente di bere, e per il protagonista può trattarsi perfino di acqua di colonia dal momento che gli alcolici sono di norma vietati nella clinica disintossicante74. Filippo Ciai va allora alla ricerca delle bottigliette distribuite nelle diverse camere ma senza soddisfare in pieno le proprie impellenze, per poi acquistare un’intera bottiglia di Jean Marie Farina: «Non avevo forse il diritto di profumarmi? Ne bevvi tre grandi sorsate. Mi sentì subito meglio anche se la colonia non è propriamente gentile al palato, alla gola. Raschia» (CERY, p. 21). La scena potrebbe essere drammatica se non ci fosse il tono ironico da tragicommedia nel descrivere le peripezie grottesche di un alcolizzato che deve bere alcolici di qualunque tipo fino a apprezzare, in mancanza di meglio, l’alcol denaturato a 90° con qualche cubetto di ghiaccio oppure l’eau de toilette. La dipsomania senza freni conduce inoltre l’alcolista a ingurgitare enormi quantità di liquidi, alcolici o meno, con delle conseguenze fisiche deplorevoli come, oltre alle alterazioni del comportamento, numerosi danni organici quali gastrite, disappetenza, colite, diarrea e affezioni al fegato. 74 Alla voce Accueil du patient, la clinica di Cery indica alcune regole da seguire durante il percorso terapeutico che Ottieri puntualmente farà infrangere al suo alter ego Filippo Ciai, dall’assunzione di alcol e di medicinali, al programma terapeutico da seguire, ai rapporti sessuali all’interno della clinica. 210 Corsi via a precipizio, mi infilai in un bar nuovissimo e lucente. «Un gin tonic» dissi. «Un altro». Stavo positivamente saziando il craving (la bramosia) quando sentii merda liquida scendere calduccia lungo la gamba e sotto il calzone immacolato, aderendo all’interno di questo calzone, quindi alle calze, alle scarpe fiammanti. Ci sarebbe voluto un tappo. (CERY, p. 15) Le vicende narrate in Cery sembrano a volte riverberare atmosfere da romanzo picaresco in cui l’eroe vagabondo o ladro, qui alcolizzato elegante, passa numerose peripezie solo per bere un goccio e poi sfangarla sotto lo sguardo attento di barman, medici e infermieri, forgiando un’immagine rovesciata dell’uomo serio, moderno, capitalista, imprenditore, titolo di un futuro romanzo che Filippo Ciai vorrebbe scrivere. Se osservata sotto la lente dell’ironia che Ottieri non disdegna mai, la sua ultima letteratura appare dunque furfantesca pur narrando storie drammatiche. È la quotidianità insozzata, come spesso la definisce Ottieri, che emerge in superficie senza lasciare immacolato nessuno, alcolista o arrivista che sia, e nel gioco particolare delle parti alla fine non comprende nemmeno chi sia veramente pazzo. L’alcool serve come un’auto-cura, un tentativo di soffocare l’angoscia altrimenti insuperabile, un modo particolare di stare nel mondo, di reagire al Male imperante. Non vi è alcun accenno di eroicità nel percorso intrapreso ma neanche di condanna: Ottieri si consente una descrizione equidistante del proprio stato, certamente deplorevole ma senza inutili malignità o eccessive sofferenze come invece accadeva a Zurigo. Chi riesce a contrastare l’angoscia se dopo vari decenni nessuna cura è stata in grado di fornire un seppur plausibile strumento di difesa? Per Filippo Ciai l’alcol ha questa prerogativa rappresentando comunque una vita anche se malata. Nelle pagine finali del romanzo, dopo la clinica, le cure disintossicanti, gli scivolamenti nell’alcol, il coma, le riprese, il protagonista si ritrova per un’ora di libertà a passeggiare nel centro cittadino nei pressi della stazione nell’attesa di un treno da prendere, convinto ormai dell’inevitabile (!) guarigione. Il tono dell’ultima avventura ricalca le precedenti, del tutto simile alle pagine iniziali, chiudendo il cerchio su una storia che rappresenta una semplice tappa di un tour, ovvero della volontà dello scrittore molto fluttuante: Due giorni dopo, il giorno della partenza, ordii uno stratagemma. Invece delle quindici, presi un treno delle diciotto. Avevo così il tempo per rivisitare Ouchy. Sedetti al bar di Byron. Mi guardavo intorno, scopersi un cartello: Champagne. Prima coppa 10. Seconda coppa 8. Terza coppa : e così via digradando nel prezzo fino all’omaggio. Gustai moltissimo l’omaggio. Lo champagne era buonissimo. Sentivo insieme l’attualità e il fato. (CERY, p. 144) Tra un bicchiere e l’altro, anche a Cery le donne rappresentano una materia inesauribile che s’innesta in modo costante nello sviluppo di qualsiasi narrazione condotta da Ottieri. È quel turbinio di donne immaginate che si rinnova in ogni opera e che ha aperto le danze con Katja del primo 211 romanzo, seguita da una schiera di numerose altre figure femminili che tempestano la mente dello scrittore sempiterno dongiovanni infantile. A Cery Filippo Ciai instaura dei rapporti con venti donne tentando con alcune anche un approccio più determinato. In ordine di apparizione tra infermiere, pazienti e amiche: la moglie, l’infermiera Betti, Frau Lotte Firz, l’infermiera Martine, l’infermiera Odile, una biondina, la Dottoranda Maud, una psicologa junghiana, un’amica, un’infermiera siciliana, Fraulein Müller, la direttrice dell’atelier, la gallerista Tatia, l’amica alcolizzata Antinea, la studentessa di psichiatria Francesca, l’infermiera Assunta Calì, Silhouette, l’adetta dell’ufficio stampa, la critica letteraria Aurora, e infine la Vecchia paziente. Una vera e propria Clinica delle donne parafrasando La città delle donne di Fellini ricordata già al tempo di Pisa. A Cery Filippo Ciai si perde in amori impossibili soprattutto verso due colleghe alcoliste, Frau Lotte Firz e Fraulein Müller, anche se l’interesse per le infermiere non sembra scemare, ma dopo l’esperienza di Pisa l’espediente stupisce poco. In questa nuova girandola di donne, il problema eterno è quello della scelta mentre la delusione, anch’essa sconfinata, si evidenzia nel non esser mai stato eletto quale oggetto d’amorose corrispondenze: «Temevo il rifiuto, la casta Confederazione, il rischio osceno di esser voluto bene e non sapevo chi scegliere quale oggetto d’amore. […] Non venivo scelto proprio da nessuno. E essere scelto è la mia sola occasione. L’altra deve osare, io non oso» (CERY, p. 19), Degli amori che nascono all’interno delle cliniche si delinea la loro improbabile realizzazione, e di questo ne è consapevole anche il protagonista. Ma proprio nell’impossibilità germina la voglia di fantasticare confidando nel non possumus, imposto dalla vita stessa, che permette solo di architettare fantasie non realizzabili e forse per questo più vere. Filippo Ciai conosce bene le regole del gioco e s’innamora a modo suo, sapendo che nel concreto esistono esclusivamente le fantasticherie quotidiane e allora, ancor prima di entrare in clinica, egli è convinto d’invaghirsi a priori di qualche donna, paziente o infermiera che sia. Per lui, scrittore, si tratta di abbozzare un romanzo su un episodio della vita che lo vedrà protagonista, ma la storia nella sua mente inizia ancor prima dell’evento reale. Egli sa bene che s’innamorerà di qualcuna, che l’amore sarà irrealizzabile, che alla fine del romanzo non cambierà nulla e che la fantasia avrà la meglio sulla realtà. Sa e ha le prove. È l’altrove, l’altra vita, quella della fantasia e dei day dreams tangibili più della realtà stessa, a presentarsi più vera, e allora è davvero importante realizzare una qualsiasi idea per sentirla effettiva? No, risponde Filippo Ciai. Io morivo d’ansia d’attesa. Suonò finalmente il dîner. Entrai in sala da pranzo come se mi gettassi d’inverno in una piscina gelata o, peggio, in una piscina vuota. La vidi immediatamente. Era bellissima e tosta, bella ma altera. Era il faro che squarciava la cupa, dura ombra del manicomio di Losanna. Mi misero al tavolino accanto a Lei. […] A cena mi trovai faccia a faccia con la signora Firz, la dea. Era di origine 212 zurighese e alcolista come me. Appariva qualcosa di teutonico, tracce di muscoli nella sua ferma venustà. Ma il volto era wagneriano. […] La rividi più bella e meno altera. Scappai. (CERY, pp. 9, 12, 126) In quel «La vidi immediatamente» Ottieri rivela in modo esplicito il suo gioco letterario: Frau Lotte Firz ci doveva essere per forza, il corsivo lo evidenzia bene, e d’immediato c’è solo l’apparente sorpresa del lettore sprovveduto perché la presenza della donna si attesta per lo scrittore ancor prima della sua visione concreta, sapendo già di trovarla e di scorgerla altezzosa. Quale migliore aggettivo per costruire una storia d’amore impossibile con questa donna? E che sia sposata verrà detto in un secondo tempo ma ovviamente ha meno valore dell’essere «altera», improntata a maestà, dignità, fierezza. «La rividi più bella e meno altera» è anche l’epigrafe che apre Cery rafforzando l’importanza della prima quartina del sonetto CCCII del Canzoniere di Petrarca75 che Ottieri riutilizza anche durante la descrizione di un incontro tra il suo alter ego Filippo Ciai e Lotte, con inoltre il riferimento a un romanzo di Gadda in cui: In mezzo alla sua prosa straordinaria cita un grande poeta del Trecento, come se un aereo si levasse in volo da un altro aereo, come qui: Levommi il mio pensier in parte ov’era / quella ch’io cerco, e non ritrovo, in terra: / ivi, fra lor che ‘l terzo cerchio serra, / la rividi più bella e meno altera. C’è un ponte aereo che allaccia il poeta a Gadda, nessuno riesce a trarne il filo principiante. (CERY, p. 36) Ottieri gioca con la letteratura italiana nelle incessanti riprese, rifacimenti e parodie di altri poeti o scrittori che caratterizzano la sua scrittura, e in questo passo di Cery interessa il recupero dell’immagine di Laura per confrontarla con Lotte. Il sonetto CCCII si trova nella seconda parte del Canzoniere, in morte di Laura, quando Petrarca sale sulle ali della fantasia per rivedere la donna amata, bella e affettuosa come mai lo fu in vita. In questo modo il poeta riesce a consolare con immaginazioni sentimentali il proprio dolore, creandosi nel sogno una personale realtà di amore eterno. Tra le vicende di Petrarca-Laura e Filippo Ciai-Lotte sono tuttavia manifeste le divergenze: i primi si sono conosciuti e amati in vita, di un sentimento contrastato e poi sublimato dalla morte della donna, mentre i secondi non sanno nulla delle rispettive esistenze; quindi è esclusivamente la fantasticheria a legare le due situazioni. Come detto in precedenza, e Ottieri qui ci offre una conferma inequivocabile, lo scrittore già ama a modo suo e la donna esiste già ancor prima di essere vista, perché ella è Laura, Charlotte, Beatrice sempre, anche a rischio di non incontrarla mai. Non a caso Ottieri richiama gli archetipi junghiani per spiegare questo particolare modo di vivere e amare anche diverse donne contemporaneamente: Pimpinellavo dunque tra Firz e Müller. Nulla di strano. Continuavo a tenermi fra i due archetipi: la giovanissima e la matura. Erano istinti, non pensieri, non scelte. La prima è un mio ideale costante. È 75 PETRARCA Francesco, Il canzoniere, cit., p. 189. 213 irraggiungibile, nella realtà. Tenacissima, nell’immaginazione. La seconda è più realistica, più adeguata a me (ma io sono adeguato?). (CERY, p. 34) Il sorprendente verbo «pimpinellavo» non è una novità avendolo già riscontrato nelle Guardie del corpo, «La biondina e la vicina / s’alternavano nella testa, / pimpinellando» (GC, p. 83), ma ciò che colpisce è la facilità dello scrittore nell’avvicinare termini colloquiali a riflessioni profonde sul proprio stato psichico. Considerazioni che rinviano alla psicologia analitica di Jung e in particolare ad alcune figure dell’inconscio come gli archetipi. Per Jung l’inconscio non contiene solo tracce di esperienze vissute dimenticate o rimosse, ma anche uno strato più profondo dove è depositato il patrimonio psicologico dell’umanità chiamato inconscio collettivo il cui contenuto è formato essenzialmente da archetipi, ovvero l’esistenza nella psiche di forme determinate che sembrano essere presenti sempre e dovunque. Gli archetipi sono forme a priori di apprendimento, disposizioni a vivere un’esperienza in un modo piuttosto che in un altro, fattori di organizzazione che esistono a priori alla stregua dei modelli funzionali innati costituenti nel loro insieme la natura umana e il cui innatismo o apriorismo è l’elemento strutturale che non contraddice l’ereditarietà, cioè le esperienze accumulate nell’ascendenza genealogica. L’istinto, non la scelta, di Ottieri rientra dunque, per la descrizione della psiche, nel modello immaginale di Jung rispetto al tipo concettuale di Freud. Filippo Ciai, in quanto scrittore, vive le sue storie d’amore romanzate come un novello «vecchio Werther» (CERY, p. 44) che sviluppa il rapporto attraverso le lettere scritte e mai spedite alle amanti della stanza accanto, riverberando in modo ironico quegli aloni di amore ottocentesco sentimentalmente drammatici e irrealizzabili. Non a caso Lotte è il diminutivo della Charlotte S. goethiana, e il protagonista intreccia con la donna un rapporto che esalta le loro affinità spirituali, nel bere, mentre c’è sempre un Alberto di troppo, in questo caso si tratta del marito di Lotte che minaccia il divorzio a causa dell’alcol. Filippo Ciai instaura con la donna, durante il soggiorno a Cery, una relazione basata sulla volontà di non bere più, sulla forza d’animo che rende consapevoli e maturi i pazienti e sull’affinità intellettuale: «Continuai a scrivere lettere a persone che mi stavano a dieci, venti metri di distanza. Ero la talpa buona di Cery. Tanto non spedivo nulla, mi tenevo le lettere nascoste, per me. Non le stracciavo, erano celate. Come un tesoro sepolto in fondo al mare» (CERY, p. 42). Oltre a Lotte, l’altra donna amata è la signorina Müller, emblema del male d’amore che affligge non solo l’animo ma anche il corpo raggrinzito della stessa, tuttavia giovane e affascinante costretta sulla sedia a rotelle per un male d’amore: sarà inevitabile che il protagonista si debba innamorare anche di questa eroina disperata. Nell’altalena di sentimenti che sospinge Filippo Ciai verso le donne amate, trova spazio anche Catullo, poeta novus dell’amore intimistico che si oppose alla morale dominante del mos maiorum emarginandosi dalla vita civica per cercare l’otium 214 letterario. Ottieri riprende il motivo del bene velle rapportato all’amore in una sublime contraddizione del cuore umano, anche se il tono rispetto al carme del poeta latino è molto più drammatico come si può notare dal confronto serrato che il protagonista avvia con un’amica che gli vuole bene ma senza amarlo: «Nel primo pomeriggio entrò d’improvviso una mia amica. Le chiesi subito: “Mi ami?” “Ti voglio bene” rispose sicura. “Come, non mi ami?” “Non ti amo, ma ti voglio bene” […] Le volevo strappare la passione, non la benevolenza. “Ti voglio bene” ripeté, cocciuta» (CERY, pp. 18), Nel carme LXXII di Catullo, subentrano invece nell’animo del poeta l’amara certezza dell’abbandono e la consapevolezza della volubilità della donna teneramente amata con lo stesso affetto di un padre per la figlia. Dalla poesia emergono nuove predisposizioni sentimentali, come la capacità di esaminare con mente lucida i propri affetti senza lasciarsi sconvolgere dalle emozioni con la conseguente trasformazione dell’amore in semplice motivo di stima: «Nunc te cognovi: quare etsi inpensius uror, / multo mi tamen est vilior et levior. / Qui potis es? Inquis. Quod amantem iniuria talis / cogit amare magis, se bene velle minus»76. Il tono è delicato, quasi rassegnato ma sereno; mentre nel romanzo è palese la tensione psichica provata dall’egotico protagonista che vuole essere amato da una sua amica, senza tuttavia riuscirci. Ottieri, rispetto al poeta latino, rovescia completamente la situazione a suo sfavore: se infatti Catullo esprime lo stato d’animo di chi ha aperto gli occhi dinanzi alla dura realtà, Filippo Ciai resta incatenato alle proprie elucubrazioni d’amore non-sense mentre è la donna a maturare il sentimento d’amicizia in un maturo bene velle, condizione impossibile da sostenere per l’infantile uomo. Simili dissonanze sentimentali furono già sofferte da Elena, «Tu mi vuoi bene e io ti amo. È la peggior sofferenza del mondo» (CON, p. 143), fino alla blasfemia di Pavese analizzata dalla Contessa: «E mi dice questo dopo il 13 agosto. E non le viene da piangere. E mi vuol bene! – Porco Dio!» (MV, p. 68). Cery è un romanzo che pone una particolare attenzione ai problemi legati all’alcolismo, eppure Ottieri non dimentica le diverse tematiche legate al male di vivere che hanno contraddistinto la vita e la sua letteratura. Il soggiorno nella clinica di Losanna rispecchia in parte l’esperienza di Zurigo attraverso lo scorrere del tempo con la distillazione d’angoscia e di stati d’irrealtà quotidiana che opprimono l’animo e il corpo dello scrittore, eterno prigioniero di un’esistenza sbagliata. E la clinica viene vissuta, ancora una volta, come un carcere il cui edificio dall’esterno appare una prigione anonima, inquietante, sebbene il tono che avvolge Cery sia senza dubbio meno drammatico delle precedenti reclusioni. All’interno della clinica, il soggiorno è regolato secondo i ritmi di un comune “penitenziario”, con i suoi tempi e regolamenti ferrei, e l’esempio più eclatante riguarda l’atelier, luogo per eccellenza detestato dallo scrittore come già accade nel Campo di concentrazione, in Contessa e nel Diario del seduttore passivo: 76 CATULLO, cit., p. 344. 215 Le 13 e 30 era il termine massimo per recarmi all’orrido atelier, mio assoluto dovere. Se non mi recavo all’atelier rompevo tutte le regole elvetiche, e non era cosa da poco. […] L’atelier è un luogo dove si deve fare esattamente quello che non si vuol fare. (CERY, pp. 37-38) Per distrarsi dall’idea di essere una vittima della civiltà occidentale e quindi di avere l’obbligo di trasferirsi in altre civiltà – trasferimento cui la pigrizia non era pronta – Elena scese in atelier. Era una specie di cantina ingombra di cartoni, tele, colori, scarabocchi, quadri psicologici che esprimevano e liberavano l’inconscio. (CON, p. 148) Vada nel pomeriggio / all’atelier e fisiò. / Forse a fisiò, all’atelier giammai! / Troppi buchi in questa Confederazione / ho praticato nel cuoio! / Troppi borsellini ho costrutto / intinti nella merda / dell’angoscia marrone! / Il pensier rinnova la paura. (DSP, p. 13) Nella clinica-prigione il Male si distende diligentemente sul malato che avverte con disperazione le conseguenze nefaste nei diversi organi del proprio corpo, senza che la distinzione tra anima e corpo sia sostanziale. La difficoltà di vivere viene esplicitata nella malattia che, in alcuni casi, si può interpretare come un processo patologico difensivo in cui il malato si rifugia per proteggersi dal mondo esterno. Tale processo è studiato dalla psicosomatica, una branca della medicina che si occupa di disturbi organici che, senza avere alla base una lesione anatomica o un difetto funzionale, sono ricondotti a un’origine psicologica. L’uomo è un essere unitario in cui la malattia si manifesta a livello organico come sintomo mentre a livello psicologico come disagio. Adottando questo punto di vista, la medicina psicosomatica ribalta lo schema eziologico classico, per il quale la lesione dell’organo era causa della disfunzione e a sua volta origine della malattia, nello schema secondo cui il mantenersi di uno stress funzionale, che ha la sua genesi nella vita quotidiana dell’individuo in lotta per l’esistenza, genera quella disfunzione dell’organo quale causa della lesione e dunque principio della malattia. In Ottieri le circostanze della vita quotidiana comportano diverse disfunzioni sempre in momenti particolari quali uscire dalla propria camera, entrare nell’atelier, rapportarsi con gli altri. Gli stress psicosociali aumentano poi l’incidenza dei disturbi dell’immagine corporea manifestandosi attraverso disordini somatici che colpiscono parti e funzioni del corpo investite di significati simbolici consci e inconsci, influenzando l’atteggiamento del soggetto verso il proprio corpo. Durante la prigionia a Cery, lo scrittore pone l’attenzione sulle disfunzioni avvertite sul petto, stomaco e cervello che si disintegrano insieme al corpo. Nella poetica della disintegrazione, la vicenda di Filippo Ciai si sovrappone a quella vissuta da Antoine Roquentin nel suo essere di troppo ricolmo di angoscia e di Nausea sofferta nel Campo di concentrazione che rappresenta l’essenza della vita umana. In alcuni passi di Cery emerge un altro aspetto del romanzo di Sartre, ovvero le atmosfere domenicali sublimate nei tristi boulevards durante le passeggiate che si caricano di un’intonazione lugubre e allucinata, mentre la folla assume i connotati di una marcia 216 spettrale. La passeggiata domenicale rivela in questo modo la sua doppia natura dell’alienazione e dello spaesamento dell’individuo, e collega direttamente la Nausea alla triste domenica crepuscolare del Campo di concentrazione e ad alcuni quadri di Munch come Sera sul viale Karl Johan (1892) e Angoscia (1894), in cui le passeggiate della borghesia di Cristiania (Oslo) sono raffigurate come cortei funebri in cui il dolore dell’individuo di fronte al cosmo si allarga a una dimensione universale, comune per ogni essere umano. Munch mostra, come se fossero riflesse, persone che passeggiano tranquillamente; eppure la sua doppia vista ne coglie l’angoscia e lo svuotamento esistenziale. Mi ero sgonfiato. Era sgonfio e malato di pallore anche il boulevard. Ma la domenica era finita. Dei week-end non aspettavo che la fine, come se il lunedì riportasse la felicità. […] La domenica mattina ero terrorizzato, stavo con gli occhi spalancati verso la finestra. […] Restavo bloccato. Riuscii a tirarmi fuori dal panico. Mi diedi a pensare: quanto il reale, la domenica mattina, senza nulla da fare tutto il pomeriggio, guardando giù nell’abisso pomeridiano e serale, provocava il mio malessere? Quanto esso era un sintomo soggettivo della mia malattia? Che avrebbe fatto un normale, in cima alla domenica? (CERY, pp. 59, 90) Ho capito che era domenica. […] Nei quartieri periferici, tra le interminabili mura delle fabbriche, lunghe file nere si son messe in marcia e avanzano lentamente verso il centro della città. […] Ben presto, in silenzio, le nere colonne invaderanno quelle vie che fanno la morte. […] In via Tournebride non bisogna aver fretta: le famiglie camminano lentamente. […] Erano circa le tre; sentivo il pomeriggio per tutto il mio corpo appesantito. Non il mio pomeriggio, il loro: quello che centomila bouvillesi stavano per vivere in comune. […] Per loro qualcosa era morto. La domenica aveva consumato la sua breve giovinezza. […] Il sole era chiaro e diafano. La sua luce sfiorava appena i corpi, senza dar loro ombre né rilievo: i visi e le mani facevano macchie d’olio pallido. […] Dietro di me, nella città, nelle grandi vie dritte, ai fredi chiarori dei lampioni, agonizzava un formidabile avvenimento sociale: era la fine della domenica. (Nausea, pp. 63-84) Vedevo tutte le persone dietro le loro maschere, sorridenti e flemmatiche, volti tranquilli, vedevo attraverso di essi e c’era sofferenza in tutti loro, cadaveri smorti, frettolosi e affaccendati, correvano in giro lungo una via tortuosa, il termine era la tomba. (Munch p. 98) Anche in Cery affiorano numerosi riferimenti a opere di altri scrittori, oltre ai già citati Petrarca e Sartre, quali Gadda, Dante, Parise, Byron, Foscolo, Pasolini, Piovene, Moravia. È il classico tourbillon letterario in cui Ottieri dimostra una grande maestria nelle fini citazioni e negli intelligenti rifacimenti che spaziano dalla cultura classica alla letteratura italiana ed europea dell’Ottocento fino ad autori contemporanei. Tra questi Ottieri invoca Gadda come musa ispiratrice ricordando l’incipit dell’Iliade di Omero: «Cantami, o Gaddus, del funesto ateliero la penosa istoria» (CERY, p. 38), e poi gli rende un omaggio letterario imitando in un’intera pagina di Cery lo stile di Gadda con suo linguaggio raffinato, fondamentalmente polifonico, in cui si condensano le più svariate sostanze lessicali tra i calchi diretti del parlato quotidiano ed elementi volgari, tecnicosettoriali, dialettali, gergali, forme desuete ricavate dalla letteratura dialettale, oppure letterarie e preziose, arcaismi colti illustri e raffinati, termini tecnici con un effetto angoscioso di incontrollabilità degli oggetti catalogati. La lingua è condannata, nonostante questi tentativi, a 217 registrare l’inafferrabilità del reale sempre più aggrovigliato ed inestricabile in un pastiche che è nello stesso tempo groviglio, intrico, ginepraio. Ed è quello che accade nel capolavoro di Gadda, in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, un “pasticcio” di lingua e contenuto costruito con una polifonia senza centro, che ha fortemente impressionato Ottieri: «a me Gadda mi avvolge, mi sconvolge, mi muta, non posso non imitarlo anche nel parlare» (CERY, p. 36). Ottieri si prodiga nell’imitare Gadda ed il risultato è sorprendentemente efficace: La direttrice dell’atelier era un’arpia. Perfida, sfrontata, punitiva. Cantami o Gadda, de la direttrice arpia l’ira funesta, ch’era arpia anche in nel volto, che non era brutto, ma peggio, arpiesco bellino, cutigno, con du ciondoli di capegli niri niri a’ lati, funesti vitigni, arpieschi, accutumati, avvinghiati serpigni viperini. I’ mi giacevo nella mi’ an-goscia nera. Non potevo, non potevo – non possumus – bucare i buchi con la maligna pinza in nel non macerato cuoio, ciò è duro, durissimo cuoio, per costruire un borsellino de’ meglio, a grand’arte compiuto e campito, con tutta la mi’ energia misurante-calcolatore, ciò è meccanico – disperato. «Ciai! Oggi tocca a lei la preparazione del tè e il risciacquamento del vasel-lame!». Ahhh! Vuol stilettarmi. L’anima sbuzzarmi. (CERY, p. 39) Ottieri descrive il disagio provato per l’obbligo di lavorare nell’atelier, con la sua «arpiesca» direttrice, in un procedimento lessicale che rispecchia lo stile di Gadda nella cura dei dettagli minuziosi, ossessivi e maniacali con i quali si forgiano descrizioni grottesche tra cui spicca la direttrice «arpia», termine quest’ultimo impiegato cinque volte in poche righe per dare all’immagine una vivida forza: il volto «arpiesco» e i capelli «arpieschi» delineano infatti un ritratto brutto e senza alternative. Il tutto abbellito da numerosi neologismi come «cutigno» che rinvia alla cute, «accutumati», «serpigni» da serpe che, legati a «viperini» per i capelli, rimandano all’immagine della Gorgone, mostro femminile della mitologia classica, anguicrinito e dallo sguardo terrificante. Inoltre si rileva, in questo passo, la presenza di forme dialettali siciliane come «capegli niri niri», romane «du» per due, toscane nelle forme sincopate «mi’», «de’» e «i’». Oltre a ciò Ottieri lega tra loro termini appartenenti a diversi ambiti, come il verbo «sbuzzare» che significa propriamente «sventrare un animale» e che, per estensione, rinvia ad espressioni di truculenta brutalità, ma il contrasto con l’oggetto destinato ad essere sbudellato, l’eterea «anima», rende un effetto straniante. Nel testo vi è anche il riferimento alla formula utilizzata da Pio IX che nel «non possumus» condannava le «usurpazioni» piemontesi del 1860, cioè l’unificazione dell’Italia e l’annessione delle Romagne al Regno piemontese. In Cery tuttavia l’attenzione maggiore Ottieri la pone su se stesso in quanto scrittore in cura per disintossicarsi che osserva il proprio modo di scrivere, le difficoltà di pubblicare un certo tipo di letteratura, e in generale l’incessante lavorio intellettuale che fa germinare le sue opere. Filippo Ciai è in procinto di comporre un nuovo romanzo dall’emblematico titolo Gli imprenditori sui nuovi padroni di fine millennio, ma avverte un impedimento nella struttura della trama. Ottieri riesce ad 218 analizzare, con il solito impeto irrequieto, la propria letteratura in un momento importante della carriera, essendo infatti Cery il penultimo romanzo dopo trenta opere già pubblicate. La trama è stata fin dalla giovinezza un problema insormontabile, come del resto l’intreccio, un ammasso nero inestricabile dinanzi al quale la sua precoce vocazione letteraria si scontrava per poi divincolarsi a strutturare l’ennesimo diario: «Mi spostai a sinistra, verso il quaderno dell’opera Gli imprenditori. Avevo molte idee originali e esperienze, ma non avevo la trama. La trama, la trama! Fobia della mia giovinezza. (Finivo sempre per scrivere un diario). L’intreccio era sempre una nube nera in cui si annidava una tempesta» (CERY, p. 45). Ottieri ammette quale fatica dello scrivere lo abbia accompagnato per tutta la vita: egli soffre come una partoriente e il disagio fisico viene ampliato da uno struggimento mentale che non lascia scampo. La vocazione è una brutta bestia che non può essere accudita e s’impossessa dello scrittore che deve trovare in sé le forze per tradurla saggiamente su carta. Ma il procedimento non è automatico né tanto meno facile da attuare con l’esperienza, e la scelta convergerà sull’esigenza di narrare ma senza appagamento, e dopo tante opere pubblicate che hanno spaziato dal romanzo, al saggio romanzato, al dramma, alla poesia, Ottieri si considera uno scrittore «infelice» (CERY, p. 121). L’ammissione, anche se filtrata attraverso l’alter ego Filippo Ciai, non rappresenta certo una sorpresa poiché i suoi scritti, fin dal primo romanzo Memorie dell’incoscienza, amplificano in modo progressivo il dramma esistenziale riverberato sull’anima mettendo in scena delle creature, fantasmi di una mente sofferente, originali e inclassificabili nella storia letteraria non solo italiana ma anche europea. Avevo ricevuto un telegramma dal mio editore: «Tu non concedi nulla al lettore». Come, come in pratica, potevo concedere? Che cosa concedevo? Veramente avrei voluto che il lettore e l’editore mi concedessero qualcosa, cioè soldi e grande attenzione. […] Mi torturavo per concedere, così che non avrei potuto concedere che la mia tortuosa tortura, cioè una amenissima concessione. Avrei concesso un contenuto e una forma non concedibili, perché la coscienza non conviene mai. (CERY, p. 80) Sul verbo «concedere» si riflettono alcuni aspetti della letteratura di Ottieri il quale soffriva per non essere considerato uno scrittore popolare a causa degli argomenti trattati nelle sue opere, tra cui l’alienazione nelle fabbriche, le irrealtà quotidiane, le malattie mentali vissute nei manicomi, le critiche violente alla politica. Inoltre la struttura particolare spesso inclassificabile con cui ha progettato i diversi lavori ne aumenta il disagio: romanzi diaristici, saggi romanzati, poesie in forma di prosa, poemetti discorsivi, pseudo-sceneggiature, trageie non teatrali. È senza dubbio una lettura difficile quella che s’intraprende dinanzi a ogni nuovo titolo di Ottieri poiché, oltre ai contenuti alquanto articolati, emergono numerosi riferimenti culturali, letterari, filosofici, politici. Nell’intervento di chiusura delle due giornate del convegno Le irrealtà quotidiane svoltosi a Roma 219 nella Casa delle Letterature il 2 e 3 marzo 2003, la moglie di Ottieri, Silvana Mauri, conferma il pensiero del marito: Ottiero non si sentiva un perdente come letterato. Soffriva di terribili angosce, le cliniche, si è detto, lo laceravano nel cuore, […] ma si sentiva perdente solo perché non era uno scrittore popolare, quello che lo avviliva era vendere 500 copie e non 40.000. […] Ottiero ha ricevuto moltissime lettere di depressi che si riconoscevano, capivano che cosa avevano. Beh, questo l’ha reso felice, ricevere non dai critici, ma dai depressi, da tutta Italia, persino dall’estero, perché per esempio non è stato poco recensito. Lui ha avuto grandi critici, migliaia di recensioni, voleva essere uno scrittore popolare e questo non lo è stato. (Convegno, p. 73) Non uno scrittore di successo per i motivi appena ricordati, ma originale che ha illuminato con la sua opera delle tematiche complesse come l’industria, la clinica e la politica rimaste nell’ombra della storia della letteratura italiana, o solo parzialmente affrontate da altri autori senza comunque quella full immersion che solo Ottieri ha potuto vantare vivendo in prima linea, seppur recluso, nei tre ambiti presi in esame. Si parla della letteratura di Ottieri come inclassificabile e a volte, soprattutto per le poesie, incomprensibile: Telefonai al Grande editore per un mio piccolo libro di poesie, egli mi disse quasi infuriato che non ne capiva nulla e che, se insistevo, dovevo mandarlo al Direttore editoriale. Così feci. Invitai a colazione il Direttore editoriale, uomo distinto e piacevole che però del mio libro tacque completamente. […] Dopo tre anni il libretto uscì. Andò bene, ma io, durante l’attesa, avevo scritto per ingannare il tempo, un altro libretto. Quando lo annunciai al Direttore, ribatté che io producevo più di quanto qualsiasi editore potesse pubblicare. […] «No, no» disse, «è troppo autobiografico, prolisso, smisurato. Guarda, no». Post hoc, propter hoc. Cominciai a avvelenarmi con troppe medicine che avevo con me. (CERY, pp. 96-97) Qualsiasi editore vorrebbe pubblicare opere di successo, per guadagni immediati e sicuri. Cosa può garantire Ottieri? Non certo un best seller e dunque si comprendono facilmente le subitanee difficoltà incontrate a ogni nuova proposta. Eppure quando si leggono i nomi delle case editrici che hanno pubblicato le sue opere nel corso di cinquant’anni, i riscontri sono soddisfacenti: Einaudi, Bompiani, Marsilio, Garzanti, Guanda, Giunti, Longanesi. Il problema incessante è stato quello di non poter mai pubblicare un best seller, anzi addirittura Ottieri arriva a considerarsi uno «scrittore più cerebrale che celebre», un «bad-sellerista»77 che è un ottima etichetta per presentarsi all’editore proponendo un nuovo lavoro. Sempre è usato l’intrattenimento. Meglio una bolla di sapone che la noia. A chi dispiace passare un’ora piacevole (e magari «nutritiva per lo spirito»)? Ma la separazione ormai è drastica a priori: o la 77 «Perché io sono stato lunghi anni malato, e quindi ho parlato molto della mia malattia, cercando di vedere in essa anche un centro che potremmo chiamarlo clinico-filosofico, e cioè quando il dolore diventa un fatto centrale della vita. Ma questi sono affari miei: non è che io esiga che altri facciano altrettanto per fare della buona letteratura». «E gli editori come vivono questa insistenza?». «Ah, la vivono malissimo e dicono: Basta, piantala con la malattia e parla di cose allegre. Possibile che tu un bel romanzetto rosa non sia in grado di scriverlo?» (In «Milano metropoli») 220 letteratura da best seller o letteratura di ricerca. La prima si vende, la seconda no. Scegliete e non piangete. Io vi do il dato. Ripresi il mio mitra e mi rimisi a sparare. […] Non scrivevo niente di fiction. Scrissi unicamente realtà, né di ricerca né di best seller. […] Volevo provare a saltare dal mondo della ricerca al mondo del best seller. Così mi avevano detto che si dividevano i libri e gli autori. Il giudizio mi sembrava un po’ schematico e un po’ razzista. Tanto più che l’autore veniva concepito a priori come appartenente al best seller o alla ricerca, qualunque libro egli facesse. La cosa era impressionante. È che io non concepivo nemmeno come avrei potuto immaginare un libro di intrattenimento. Con quale riga avrei dovuto incominciare? […] Io, scrittore senza fantasia, che ha sempre voluto scrivere senza fare lo scrittore, che non piaccio agli italianisti e sono un bad-sellerista, scrittore più che altro pratico e «infelice», difficile che non ha mai «lavorato sul linguaggio» e invece di cantare ragiona. (CERY, pp. 46, 69, 80, 121) Filippo Ciai è uno scrittore e come tale sta lavorando a un nuovo romanzo dal titolo Gli imprenditori, lavoro che va a rilento a causa delle lettere che invia quotidianamente alle due donne amate in clinica, Frau Lotte Firz e Fraulein Müller. Perché questo titolo e quale argomento viene trattato? Durante la gestazione del romanzo lo scrittore pensa che gli imprenditori debbano trovarsi spesso in conflitto con lo Stato a causa delle diverse finalità che li caratterizzano, e il tema sembra accattivante. Il problema si porrà in seguito, quando gli imprenditori saranno lo Stato. Più che a un romanzo, Filippo Ciai pensa a un poema e inizia a strutturarne i primi canti invocando la musa affinché possa insinuargli l’ispirazione, lui scrittore con poca fantasia, per delineare una figura d’imprenditore modello devoto al Mercato e al dio Denaro che abbatte tutti i suoi nemici senza pietà, dal concorrente all’operaio. Con Cery si arriva alle battute conclusive di una vita esagerata per la malattia coinvolgente e per la brillantezza dello scrittore nel tramutarla in letteratura; e poiché sta finendo il secolo, insieme alla sua vita, lo sguardo si rivolge inevitabilmente al passato. Il periodo mondano di Ottieri esplose a metà degli anni Sessanta tra feste e locali chic rispondendo a una nuova compulsione che lo spinse a legarsi agli altri ma sotto il segno della fatuità. Dopo tanti anni lo scrittore fa un resoconto di quella stagione, impressa nel romanzo breve I divini mondani, grazie alla confessione aperta e senza filtri di Cery: egli era un maniaco, un pazzo, ma non un mondano nel senso specifico del termine, quindi il divertimento non albergava in lui, anzi le feste aumentavano il suo disagio psichico trasformandosi in sopportazione infinita fino al momento in cui interruppe quel particolare stile di vita. Nello specifico, l’universo dei mondani non è molto diverso da quello comune in quanto c’è l’horror vacui che li unisce all’irrealtà quotidiana, come affermò in un’intervista rilasciata a Ferdinando Camon: «Dietro il mondo luccicante e fastoso della mondanità, si nasconde il classico pericolo del vuoto, in tutto simile alla processione del sentimento d’irrealtà».78 Ottieri richiama poi alla mente anche Pasolini ma è un ricordo particolare, non letterario, indirizzato agli aspetti intimi del poeta che marcarono la sua vita, e soprattutto ai rapporti con la gretta società italiana del dopoguerra. Ottieri senza alcun moralismo ricorda Pasolini 78 CAMON Ferdinando, Il mestiere di scrittore, Garzanti, Milano 1973. 221 esclusivamente per la sua omosessualità, da lui incompresa ma non condannata, con il filtro dello sguardo della madre e della moglie attratte au contraire dagli omosessuali. «Lei» mi domandò di colpo, «ha conosciuti molti omosessuali? Sua madre, sua moglie, frequentavano, frequentano, amano frequentare omosessuali?». «A caterve» risposi. «Mia madre non si innamorava che di pederasti. Il primo amore di mia moglie è stato Pasolini. La nostra casa pullula di omosessuali. Di ogni razza e tipo. […] Del resto, non era omosessuale anche Freud? Solo il freudismo riesce a trovare, sotto i più svariati sintomi, l’omosessualità. Essa è per me come l’unghia che riga il vetro. Io capisco tutto, l’omosessualità non la capisco. È per me un buio inconcepibile, richiede un cervello, un cuore, un clitoride, un cazzo che non sono capace di concepire». (CERY, p. 22) Eppure, a modo suo, Ottieri lo poteva concepire se pochi anni prima strutturò un’opera così imponente come il Poema osceno dove il protagonista è un maturo poeta che ama non solo le donne ma anche i ragazzi, un’opera scandalosa che rispecchia in parte il Petrolio di Pasolini. «Ma quando con un altro amico ci lasciavamo dopo molti conversari e io tornavo a casa con mia moglie, e lui andava a battere alla stazione, alle marane, tutte le notti, io sentivo un taglio netto e secco, una distanza fra noi che coinvolgeva tutta la nostra amicizia, tutte le nostre idee. Sentivo una diversità fondante». Fui drastico come non mai: «Io non capivo, non capivo». «Esiste dunque un’eccezione al suo homo sum. Sua mare li amava?». «Non si innamorava che di loro». […] «E sua moglie?». «Il suo primo amore è stato un omosessuale famoso». […] «La sua vita è sempre stata circondata da omosessuali?». «Sì. Per questo ho la mania delle donne?» (CERY, pp. 74-75) La moglie Silvana Mauri nel suo libro-diario Ritratto di una scrittrice involontaria (diviso in tre parti: Ricordi, lettere e sogni; Diario eitoriale ’44-’45; Ritratti e conversazioni) testimonia l’esperienza della guerra osservata dalle stanze della casa editrice Bompiani, le fughe di Vittorini, gli andirivieni di Antonio Banfi, i corpi fucilati per la strada, il 25 aprile. E soprattutto emergono, nel corso degli anni, ricordi, lettere, sogni, ritratti, conversazioni, il matrimonio con Ottieri, l’arrivo alla Bompiani, i contatti diretti con gran parte della cultura del secondo Novecento che a Milano, specie nell’immediato dopoguerra, ha avuto il suo fulcro innovatore79. I due accenni espliciti al primo amore della moglie nei confronti di Pasolini rinviano a un articolato rapporto intellettuale sviluppatosi tra i due, o meglio tre, ma senza dimenticare che lo stesso Ottieri considerava Pasolini un «maestro» (PO, p. 272). Ricorda Silvana Mauri: Me lo portò a casa mio fratello Fabio, sedicenne, avendolo conosciuto nella reazione di una rivista giovanile, «Il Setaccio», a Bologna, dove la famiglia Pasolini e la mia si erano stabilite provvisoriamente e, in fondo, per caso. […] Mi parve bellissimo con la sua faccia sulla quale i tratti slavi, romagnoli, ebrei, avevano composto linee uniche, una maschera irripetibile. […] Come è accaduto che io, ragazza borghese, 79 Silvana Mauri (Roma 1920 – Milano 2006), figlia di Umberto Mauri, futuro presidente delle «Messaggerie Italiane» e nipote di Valentino Bompiani, nella cui casa editrice lavorò fin dai tempi del liceo, sposò Ottieri nell’aprile del ’50 a Lerici, dopo essersi conosciuti la prima volta a Roma la sera del Referendum del ’46 in casa di amici comuni. Di Silvana Mauri è stato pubblicato nel 2006 il libro Ritratto di una scrittrice involontaria, edito da Nottetempo e a cura di Rodolfo Montuoro, in cui sono raccolte, tra le altre, lettere alla madre, al padre e a Ottieri. 222 senza radici paesane, eterosessuale, e lui allora, tutto pervaso e raccolto di poesia casarsese, materna, inesperto del mondo, impaurito da ciò che non conosceva, tutto compunto del suo interno ignoto, con la sua mente forte, geniale, studente diligente, omosessuale, ci siamo inseguiti per tutta la vita, scritti, raccontati, raggiunti, quando appena era possibile e dentro la sua vita che sempre più si separava dalla mia? […] Era onnivoro: di facce, di gesti, di paesaggi, di odori, del passato, del presente, di letteratura, di linguaggi e di azioni, di ciò che era compiuto e di ciò che era incompiuto, nel suo vitale divenire. Del sublime e dell’orrido dell’uomo. […] Fummo presto separati dalla guerra. Ci scrivevamo quasi ogni settimana o quasi ogni giorno. Le mie lettere sono andate perdute. Prendevo treni gelati per raggiungerlo a Casarsa, dodici, a volte venti ore di viaggio da Milano. […] Di giorno, ebbri di felicità, alati, smemorati, correvamo in bicicletta sulle prode gelide del Tagliamento per qualche piccolo cinema parrocchiale dei paesi vicini o a ballare sfrenatamente tanghi, polke e fox-trot nelle balere popolari. […] Io ero il riflesso di tutto ciò che gli apparteneva e mi sembrava di non abitare un paese reale, ma il suo stesso cuore. Anche Pier Paolo allora era ancora felice. […] Anche la sua omosessualità era ancora un gioco dolce tra ragazzi. […] Quando fu cacciato da Casarsa lui, mirabile maestro dell’Academiuta Furlana, mi chiamò a Roma. Mi disse che abitava una casa abusiva, senza indirizzo, a Rebibbia. […] Stentai a trovarla, ma quando entrai nella povera casa senza tetto, lui era lì, immobile, disperato di avere, come mi diceva, perduto tutto: lavoro, rispetto, fiducia del suo mondo casarsese, la scuola e di avere trascinato via la madre. Sembrava il futuro Cristo del suo film. Intorno, marrane, serrati, immondezza, l’informe suburbano, un pezzo dell’«inferno della borgata», ma vivo di ragazzi, di diseredati. Dietro le sue parole desolate vedevo lampeggiare, nel fondo dei suoi occhi profetici, una diabolica voglia di vivere l’inferno che lo circondava. 80 Pasolini scrisse molte lettere a Silvana Mauri e in una del 10 febbraio ’50 le confida la condizione drammatica della propria omosessualità indicata scandalosa dalla società civile dopo il fattaccio di Ramuscello e la conseguente fuga, insieme alla mare Susanna Colussi, da Casarsa a Roma avvenuta di notte «come dei ladri». La vita sessuale degli altri mi ha fatto sempre vergognare della mia: il male è dunque tutto dalla mia parte? Mi sembra impossibile. […] La mia vita futura non sarà certo quella di un professore universitario: ormai su di me c’è il segno di Rimbaud o di Campana o anche di Wilde, ch’io lo voglia o no, che gli altri lo accettino o no. È una cosa scomoda, urtante e inammissibile, ma è così: e io, come te, non mi rassegno. […] Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico, non me la sono mai sentita dentro. […] Aggiungerò ancora subito su questo argomento un particolare: fu a Belluno, quando avevo tre anni e mezzo (mio fratello doveva ancora nascere) che io provai per la prima volta quell’attrazione dolcissima e violentissima che poi mi è rimasta dentro sempre uguale, cieca e tetra come un fossile. […] Tu sei stata per me qualcosa di speciale e di diverso. […] Da quando mi hai aperto la porta a Bologna, […] e mi sei apparsa sotto la figura di una madonna del duecento, […] tu sei sempre stata per me la donna che avrei potuto amare, l’unica che mi ha fatto capire che cosa sia la donna, e l’unica che fino a un certo limite ho amato. […] Nel mio ultimo biglietto ti ho scritto che tu eri l’unica, fra tutti i miei amici, con cui mi riusciva di confidarmi: e questo semplicemente perché sei l’unica che io ami veramente, fino al sacrificio. Per te, per esserti di conforto, farei qualsiasi cosa senza la minima ombra d’indecisione o di egoismo.81 Anche i rapporti tra Ottieri e Pasolini furono alquanto complessi: dal punto di vista umano tra i due che erano coetanei, classe ’24 e ’22, non maturò nel tempo un’amicizia in senso stretto, ma nemmeno si può parlare di semplice conoscenza. Ottieri viveva, o meglio soffriva, una sorta di gelosia intellettuale nei confronti di un uomo (di cui s’innamorò la moglie) e di un autore 80 Ivi, pp. 276-285. PASOLINI Pier Paolo, Lettere 1940-1954, con una cronologia della vita e delle opere a cura di Nico Naldini, Einaudi, Torino 1986. 81 223 inarrivabile al quale non lesinò frequenti omaggi letterari, attraverso riprese e rifacimenti, ritenendolo un «maestro» il cui giudizio estetico lo condizionava molto; si ricordi quanto le critiche di Pasolini per Tempi stretti disorientarono il giovane Ottieri sugli errori tecnici evidenziati e l’approssimazione linguistica. Riguardo alla lingua, Ottieri visse sempre una sorta di complesso nei confronti di scrittori, come Pasolini e Gadda, che erano capaci di «mimetizzarsi con dialetti a loro completamente distanti. Io mi sento un po’ poverino rispetto a loro; la mia lingua è povera» (in «Milano metropoli»). Nel colloquio con l’analista, il paziente Filippo Ciai fa una cronistoria delle proprie conoscenze omosessuali, ricordando che sia la madre che la moglie ne erano attratte. In alcuni versi del poemetto Il Padre, Ottieri aveva già ricordato come la madre s’innamorò solo di omosessuali e che questo contribuì allo sviluppo della propria malattia: «Mia madre non amò che pederasti. […] Molti pederasti illustri / hanno detto che la mia malattia / deriva dal non aver seguito la vera via, / indicata da mia madre» (PAD, p. 76). Questa riflessione viene ripresa anche dal Dottor Cantini che individua in Filippo Ciai «tendenze omosessuali fortemente rimosse» (CERY, p. 76). Freud, il complesso di Edipo, il narcisismo, l’ossessione delle donne, i complessi sessuali sono elementi che ritornano con insistenza nelle opere di Ottieri e meritano alcune precisazioni. Ad esempio l’inquadramento nosologico dell’omosessualità e la sua rubricazione nelle deviazioni sessuali ha suscitato, nella storia della psicoanalisi, numerose controversie. Le teorie sulla sua origine rientrano in due classi generali, biologica e psicologica, e quest’ultima ha fornito diverse interpretazioni tra cui la più significativa è quella freudiana attraverso il cosiddetto complesso d’Edipo. Partendo da una premessa anatomica, Freud constata che le persone in seguito invertite abbiano attraversato negli anni dell’infanzia una fase d’intensa fissazione sulla donna (perlopiù la madre) e che, dopo averla superata, si identificano con la donna assumendo se stessi come oggetto sessuale. Partendo dal narcisismo, il ragazzo rimuove l’amore verso la madre e cerca uomini giovani e simili alla sua persona da amare come fece la madre, diventando così omosessuale. L’omosessualità maschile non eviterebbe in ogni caso il contatto con altre donne, di cui anzi ci si circonda, sposandole in alcuni casi e desiderandole ossessivamente come accade per le molteplici donne fantasticate nelle opere di Ottieri. Ho scoperto una cosa: se mia moglie la sera al telefono non dice d’amarmi, io non entro nemmeno in salone. Per amare le altre, ho bisogno di essere sicuro del suo amore. Dicono che ciò accade frequentemente all’uomo latino e che è l’attaccamento alla mamma, il quale raggiunge il suo vertice negli omosessuali. Per cui il donnaiolo è simile a loro, ecco una spiegazione del paradosso. Gli uni e gli altri riducono a mamme tutte le donne. (CERY, p. 63) 224 In ogni percorso terapeutico, oltre alla cura disintossicante, il paziente deve seguire un programma di lavoro che risulti efficace nel raggiungere l’obiettivo fissato, ovvero la guarigione. In questo processo Filippo Ciai è seguito nella clinica di Losanna dall’équipe di medici e infermieri capeggiata dal Dottor Cantini, un nuovo antagonista che ingaggia con lo scrittore l’ennesimo round del combattimento analitico in corso ormai da molti decenni. Cantini segue il metodo di lavoro psicodinamico e durante le sedute riesce a evidenziare alcuni tratti della personalità dello scrittore, a prima vista sorprendenti, che tuttavia non scuotono l’interessato. «Dottor Cantini» proseguii. Cantini mi ascoltava attentamente, senza dar segni di fretta. «La mia vita ha sempre costeggiato i burroni del sesso e delle sue varietà». […] Che ne diceva la psicodinamica? Il Dottore tacque, a braccia conserte, interminabilmente, riflettendo sulla scomoda sedia. A tratti si grattava il naso. Si alzò, andò verso la finestra, si volse di scatto, puntò il dito, esclamò: «Lei ha forti tendenze omosessuali fortemente rimosse». «Dottore, questa rivelazione frequente non mi scuote affatto. È per caso questo il mio problema? Non mi scosse affatto la prima volta che mi fu detta, in una sede autorevole come questa. Che segno sarà?». Cantini fece ancora una volta il segnale di lasciar perdere, di non uscire dal seminato. «La mia vita è marchiata dalla figura femminile. Un amico omosessuale di mia moglie, e il suo giro, le hanno detto che io sono malato perché non ammetto la mia vera natura. Gentili». (CERY, pp. 74-76) Il Dottore procede nella messinscena teatrale in modo istrionico con dei movimenti che sono guidati dalle didascalie di un copione come dimostrano i verbi al passato remoto «si alzò… andò… si volse… puntò… esclamò», mentre le frasi dei due personaggi stridono tra loro a causa della solenne e sorprendente affermazione del medico che non scalfisce la sicumera del paziente per il quale la verità rivelata è invece consueta. La rimozione delle tendenze omosessuali, di cui parla il Dottor Cantini, si riferisce a quel processo inconscio che consente di escludere dalla coscienza determinate rappresentazioni connesse a una pulsione il cui soddisfacimento sarebbe in contrasto con altre esigenze psichiche. Freud distingue nella rimozione tre fasi: originaria, secondaria e ritorno del rimosso. In un primo momento viene interdetto l’accesso alla coscienza dei rappresentanti ideativi (pensieri, immagini, ricordi) della pulsione; in seguito avviene la rimozione propriamente detta, ossia la repulsione da parte dell’Io o del Super-Io di rappresentazioni incompatibili con le proprie esigenze; infine accade che gli elementi rimossi, che non vengono mai soppressi dalla rimozione, tendono a ricomparire in forma deformata tramite i meccanismi dello spostamento, della condensazione, della conversione, assumendo il tratto tipico dei sintomi. Lo sviluppo dell’Io e l’adattamento all’ambiente dipendono dalla rimozione originaria, senza la quale le pulsioni verrebbero scaricate immediatamente tramite l’esaudimento allucinatorio del desiderio. Nello stesso tempo, una rimozione secondaria eccessiva condurrebbe a uno sviluppo difettoso dell’Io e alla comparsa di sintomi; si ricordi a questo proposito che per l’epigrafe del Campo di concentrazione Ottieri sceglie un’espressione del proprio medico curante Philippe Rupp: «La volontà è un sintomo». 225 La letteratura di Ottieri è ricerca delle origini, delle cause, delle spiegazioni dei numerosi sintomi che accompagnano le sue narrazioni. Sintomo come indizio di uno stato morboso, fenomeno soggettivo avvertito dal paziente-scrittore che va poi decodificato e compreso in una logica causale in cui si possano individuare cause patogenetiche (che provocano fenomeni) e patoplastiche (che ne danno una forma). In ambito psicopatologico, il sintomo assume significati diversi secondo i quadri teorici di riferimento all’interno dei quali avviene la lettura del disturbo psichico. La letteratura di Ottieri rappresenta in gran parte questo sviluppo difettoso dell’Io di cui parla Freud e la foresta di sintomi, che ne struttura la dinamica, permette di sviscerare il Male nelle sue diverse forme, in un modo originale, un unicum che non trova riscontro per la sua disponibilità tragica in nessun altro scrittore italiano: «Tutto ha complottato / perché divenissi pederasta / secondo dottrina, / e un Edipo grave. […] Non sono un pederasta, ma dicono / che ne ho certi canali cerebrali. / La mia mania della bellezza, / anche virile, è sospetta. / La mia mania dell’ebbrezza» (PAD, pp. 84, 86). Edoardo Albinati, sempre efficace e diretto nelle interpretazioni delle opere di Ottieri, gli scrive riguardo a Cery: «Ho appena terminato Cery che mi pare il libro più bello dopo l’omerico Poema osceno perché cristallino, veloce e tutto incentrato sul personaggio che dice IO. […] Credo che tu abbia bisogno di essere sempre più quintessenziale, puro e narrativo». (27 giugno ’99) L’amico Furio Colombo, non appena conclude la lettura del romanzo, commenta in questo modo: «Non credo che Cery se ne andrà tanto presto. Devo ancora capire perché sembra leggero, allegro, quasi lieto, con il peso che porta. […] C’è qualcosa di misterioso nella fabbrica di questo libro. Forse è stata sfiorata la sbarra di plutonio del motore profondo». (1 ottobre ’99) 226 CAPITOLO TERZO. LA POLITICA III.1 Memorie dell’incoscienza Memorie dell’incoscienza, la prima opera pubblicata da Ottieri, esce nel ’54 presso la casa editrice Einaudi, dopo numerose prove letterarie scritte nel periodo adolescenziale che non avevano riscontrato i favori degli editori e nemmeno, in un secondo tempo, il gusto del giovane autore82. Nelle Memorie Ottieri narra le vicende del giovane Lorenzo Bandini83, il primo di tanti suoi alter ego, in un periodo cruciale della storia d’Italia, ovvero l’estate del ’43 dalla caduta di Mussolini del 25 luglio all’armistizio dell’8 settembre. La cronaca storica è fittamente presente nelle pagine memoriali di Ottieri, il quale dimostra una particolare attenzione agli sconvolgimenti sociali in atto negli anni conclusivi della seconda guerra mondiale, riflettendoli sulla psicologia del giovane protagonista incosciente, incerto, inconsapevole delle cause e della soluzione della tragedia personale e collettiva. Il romanzo fu composto in due tempi, nel ’47 e nel ’51, così Ottieri ha potuto lavorare sia sugli aspetti documentari del testo, sia sulla maturazione di Lorenzo dinanzi ai drammatici eventi quali il disastro bellico, la guerra civile, l’amore non corrisposto per Katja, la morte della sorella Elena. Ottieri, intrecciando il Male pubblico a quello privato offre una documentazione psicologica di una generazione che, nata sotto il fascismo, vide in Mussolini il Padre della Patria, nel Regime l’unica forma di Stato possibile e nella guerra la possibilità di un’evoluzione collettiva. Eppure proprio quegli anni furono per Ottieri caratterizzati dall’incoscienza che, nella Nota dell’autore scritta nel ’51 e posta alla fine del romanzo, egli definisce in questo modo: Tengo molto al titolo di questo libro perché ho attribuito al termine incoscienza un significato particolare e pregnante. L’incoscienza, qui, dovrebbe venire da inconscio (nel senso della moderna psicologia del profondo), della cui azione quotidiana è il frutto; e sta a indicare non tanto la spericolatezza, quanto una assoluta immaturità psicologica, un male senza colpa, eppure capace delle conseguenze più disastrose. Tacciare qualcuno o un intero gruppo di uomini di incoscienza non è propriamente maledirlo, ma 82 «Ho scritto tre romanzi: uno alvariano, uno moraviano e l’altro pioveniano. […] Non li ho pubblicati e mai lo farò. Spero che quando sarò morto non tireranno fuori queste opere giovanili. Anzi, lo escludo assolutamente perché sono immature e echeggiano questi tre scrittori e poi creo che nessuno sappia neppure dove si trovino i manoscritti». In «Milano metropoli», cit. 83 Con lo pseudonimo di Lorenzo Bandini, Ottieri invia il manoscritto alla casa editrice Einaudi. Italo Calvino, che ne fu il primo lettore, lo giudica «un libro sincero» e Bandini uno «scrittore assai fine e insospettato […] per lettori di palato fino». 227 respingerlo entro confini assai stretti, relegarlo a togliergli quella ingenua potenza che crede, esibizionisticamente, di avere. […] In funzione dell’incoscienza, il libro […] dovrebbe lasciare concretamente adito al progresso psicologico, personale. (MI, p. 216) È indicativo il riferimento alla «moderna psicologia del profondo», poiché Ottieri iniziò a studiare l’inconscio alla fine degli anni Quaranta grazie alla terapia seguita con il Dottor Cesare Musatti, padre della psicoanalisi freudiana in Italia. Inoltre, come spesso accade, lo scrittore parte da un dato autobiografico per inoltrare un’indagine accurata sulla (in)coscienza collettiva, riuscendo in questo modo a esplorare in profondità una condizione di sofferenza storica determinabile nel tempo e nello spazio. Oltre all’incoscienza, per quanto concerne la seconda parte del titolo, di memorie Ottieri aveva parlato in alcune lettere giovanili indirizzate alle due amiche Tullia Paolozzi84 e Dora Vallier85 in cui lo scrittore riverbera i tragici avvenimenti dell’estate del ’43. Ottieri raccoglie le lettere a Tullia in un fascicolo con la didascalia «Frettolose memorie di Ottiero rimasto a Tullia partita», mentre a Dora scrive: «Ti ho voluto un gran bene; ora ne conservo una dolce-amara memoria». Pur trattandosi del suo primo romanzo, Ottieri si dimostra uno scrittore già esperto, considerato esordiente solo per la carta d’identità; e a questo proposito Pier Maria Bardi, direttore di una casa editrice negli anni del regime fascista, che aveva letto le opere antecedenti alle Memorie come L’eroe Daniele o Monsignore, rilevò nel giovane scrittore delle qualità importanti nel panorama letterario italiano che gli avrebbero prefigurato un sicuro successo non appena Ottieri avesse smussato le influenze alvariane o di altri autori stranieri: Caro Ottieri, Le rinvio il manoscritto di difficile lettura, […] ma le pagine che ho letto mi danno la convinzione che Lei è nato narratore. […] Tra un paio di anni tenti di scrivere un nuovo romanzo. Il romanzo che scriverà allora entrerà sicuramente nella storia letteraria contemporanea. Lungo questa strada avrà perdute le influenze alvariane, e alcune letture straniere che, ora, lo hanno un po’ ossessionato, saranno digerite. La sostanza del suo romanzo è forte, gli elementi tragici sono di una bellezza che raramente si riscontra nelle pagine che si leggono nella letteratura italiana di oggi; anche il suo discorso sociale è elevato e dà la misura della sua cultura elevata. A un mio amico, molto esercitato nella critica, Lei è sembrato uno scrittore già esperto e anziano. (26 maggio ’43) 84 Tullia Paolozzi era una giovane ragazza, figlia di amici di famiglia, che soggiornava spesso a Chiusi. Ottieri con Tullia, oltre ad una relazione sentimentale, ebbe un’importante corrispondenza epistolare, come attestano le lettere conservate nell’archivio con le date 8-14 settembre 1943 e la didascalia «Dalla resa delle armi alla resa, o quasi, dell’ultimo respiro». In queste lettere Ottieri racconta lo stato di estrema confusione in cui versava il paese per le contrastanti notizie di inizio settembre riguardo l’armistizio e il nuovo rapporto con i tedeschi, i quali avevano nel frattempo occupato Chiusi per costituirvi un «centro di resistenza». Inoltre Ottieri le confida le correlazioni dolorose incipienti nel proprio animo tra la tragedia pubblica e il disagio esistenziale: «I timori dell’animo mio mi schiacciano le giovanili speranze». Tullia gli servirà per strutturare, solo in parte, il personaggio di Rita nelle Memorie. 85 Critica d’arte di origine bulgara, Dora Vallier, nella convulsa estate del ’43, conobbe Ottieri a Roma dove risiedeva al seguito della famiglia. Il giovane scrittore s’invaghì della ragazza dal fascino «slavo» trasferendola nel personaggio di Katja N. del romanzo. 228 I modelli letterari di riferimento cui il giovane Ottieri attinse a piene mani furono Alvaro, Piovene e Moravia che lo influenzarono nella scrittura dei primi romanzi, d’allora mai pubblicati: «Ho avuto tre modelli all’inizio, che ho copiato: Alvaro, Piovene e Moravia. Ho scritto tre romanzi: uno avariano, uno moraviano e l’altro pioveniano, ma sono rimasti lì nel cassetto» (in «Milano Metropoli»). Lo scrittore che sembra già «esperto e anziano», durante stesura iniziale delle Memorie ha ventitré anni, alla pubblicazione trenta, immette nella pagina una novità di tono rispetto al modo di narrare un argomento che, tra romanzi e cinema neorealista, era al centro delle riflessioni di molti scrittori e sceneggiatori. Grazie alla proiezione psicologica e attraverso l’inconscio personale e collettivo in un clima culturale che si stava aprendo agli studi psicoanalitici, il romanzo di Ottieri non passò inosservato. Ad esempio Giacinto Spagnoletti in due lettere inviate all’autore, oltre ad attestagli la propria stima, individua alcuni elementi essenziali della sua poetica come la tendenza psicoanalitica, il crepuscolarismo, la connessione tra il Male pubblico e privato: Caro Ottiero, mi giunge il tuo romanzo; e ora non so che dire. Sono contento due volte. E penso a te che ormai sei uno scrittore, anche se ti tratteranno da esordiente, da giovanissimo etc… Io ti considero uno fra i più maturi e sinceri fra gli scrittori di questi ultimi anni. (19 marzo ’54) Caro Ottiero, a me pare che queste cose risentano di una condizione di spirito (in particolare di una condizione psicologica), che, uscita dalla cameretta della clinica (faccio i debiti scongiuri che per cento anni non ci ritorni), continui a manifestarsi. È uno scompenso per chi scrive. […] Letterariamente è il tono che s’otterrebbe mescolando versi crepuscolari a prose esistenzialistiche con qualche franamento psicoanalitico. Il fatto è che tu dici delle cose tanto vere, vere non solo per te, che anche in questa forma spuria sono accettate. (16 aprile ’54) Calvino, individuando in Ottieri notevoli doti di romanziere, lo propose a Vittorini che, come direttore della sezione di Milano della Einaudi, si occupava dell’analisi dei manoscritti per eventuali pubblicazioni. Anche se con qualche riserva prontamente fugata di ordine politico, Calvino sponsorizza il giovane scrittore ancora sconosciuto e di questo fatto Ottieri gliene sarà sempre riconoscente. Caro Elio, ti scrivevo per dirti che ho parlato con un certo Ottieri, nipote di Bompiani, di cui ho letto un manoscritto ch’era stato raccomandato a Giulio solo per avere un giudizio. Il libro a me sembra notevole, come ho scritto nel mio giudizio che lui stesso ti farà vedere, perché verrà da te a proporti la pubblicazione per i Gettoni. Le mie perplessità o curiosità erano su un punto: l’autore è ancora un po’ fascista o no? O meglio, il libro, comunque siano le intenzioni dell’autore, può far piacere ai nostalgici? Da quel po’ che ho discusso con l’autore, e riflettendo anche sul libro, mi pare che fossero infondate e che il libro sia da fare. Come tipo di narrativa è sulla linea di Del Buono, ma molto più bravo. (7 novembre ’52) Per una casa editrice come la Einaudi, punto di riferimento della cultura di sinistra negli anni Cinquanta e basata sull’intreccio politico-culturale inscindibile fin dai tempi del primo direttore 229 Leone Ginzburg, pubblicare un romanzo nostalgico del ventennio fascista sarebbe stata una mossa azzardata e non in linea con le inclinazioni politiche dei vari Einaudi, Vittorini, Calvino. Ma come aveva rivelato lo stesso Calvino, il romanzo di Ottieri partiva da eventi storici inconfutabili e quello che emergeva nella scrittura non era soltanto il mero dato storico, bensì la maturazione psicologica del personaggio nella generale incoscienza collettiva. Il dubbio di un Ottieri ancora fascista fu confutato dallo stesso Calvino dopo aver conosciuto alcuni aspetti della biografia di Ottieri che in gioventù era sì stato fascista, come molti ragazzi nati negli anni Venti che aderirono inconsciamente al fascismo, ma solo per imitazione di atteggiamenti paterni. Avevo undici anni all’inizio della guerra di Abissinia, per la grande adunata del 2 Ottobre 1935, durante gli scioperi scolastici per le vittorie, per l’Amba Aradam… Tredici durante la guerra in Spagna, e odiavo i rossi che bruciavano le chiese; non dubitavo affatto che la ragione e il bene fossero dalla parte di Franco. Avevo quindici anni all’inizio della seconda guerra mondiale, ventuno al suo termine. Il fascismo mi ha circondato la giovinezza, e anche nell’infanzia. […] I ragazzi sono i più fanatici di tutti; la loro fede, derivata dal padre o da un primo contrasto con lui, è la più acerbamente totalitaria. (LG, p. 86) Il giovane Ottieri si entusiasmò per la conquista dell’Abissinia provando orgoglio e onore nei confronti di una Patria che lottava contro le grandi potenze europee per conquistare anche lei un “posto al sole”; in seguito le sanzioni e l’embargo imposti nel ’36 dalla Società delle Nazioni, in risposta all’offensiva militare italiana in Etiopia, rinsaldarono con maggior vigore gli animi soprattutto dei più giovani che si sentirono accerchiati dagli altri Stati con l’impossibilità di attuare la legittima espansione territoriale: «Consideravo le dittature rivoluzioni contro il quietismo scettico e borghese, la patria una forma entusiasmante di coscienza morale» (MI, p. 8). In molti di loro tuttavia, e Ottieri rientra nel novero, l’entrata in guerra dell’Italia e le successive catastrofi belliche fecero emergere una profonda disillusione nei confronti delle speranze tradite che lo scrittore avrebbe raccontato nelle opere successive dalla Linea gotica all’Irrealtà quotidiana al Padre, riflettendo con sguardo assai critico su alcuni aspetti della propria adolescenza fascista: Noi ragazzini abbiamo creduto al fascismo perché era carico di frecce pseudo-rivoluzionarie. Questo è difficile da spiegare. (LG, p. 29). Anche il giovane Lucioli era fascista. Come sarebbe venuto fuori più tardi, lo era per un tipo di rapporto magico (nevrotico) con il pare, con Colui che risolve tutto (cioè il Duce). […] Dopo le prime crisette mistico-puberali, Lucioli cominciò a infiammarsi per la guerra in Abissinia e il Duce, a 12 anni. Il misticismo fu prontamente rimpiazzato dal patriottismo imperialistico. (IQ, p. 168) Il rancore per la disinformazione / fu la prima freccia al petto / che mi fece gettare sul prato / dell’antifascismo sfrenato. (PAD, p. 50) La prima e l’ultima frase delle Memorie delineano un periodo storico ben definito: «Cominciava un’altra estate, quella torrida del 1943» (MI, p. 7) e «Le cose sono cominciate a 230 cambiare» (MI, p. 214). Ottieri ricorda quei tragici mesi pre-armistizio attraverso lo sguardo di un alter ego, il diciannovenne Lorenzo Bandini che, tra Roma e Chiusi, osserva con struggimento la catastrofe sovrastante l’Italia mentre s’innamora di ragazze sfuggenti, Katja e Rita, iniziando un percorso di maturazione psicologica che lo porterà alla nevrosi e a un convinto antifascismo. In quel periodo avevo diciannove anni, la mia vitalità si esprimeva attraverso una grande smania cerebrale ed ero molto retorico. Avevo ancora una sostanziale sicurezza di me, perché nel conto della stessa esuberanza intellettuale mettevo sia i miei migliori pensieri, sia la paura di vivere, la vergogna per essere incompreso, i desideri insoddisfatti, le umiliazioni e le lotte che spesso gli adolescenti si inventano. (MI, p. 8) Ottieri da questo romanzo d’esordio utilizza degli espedienti letterari che gli saranno utili fino all’Irata sensazione conclusiva; uno di questi è la narrazione effettuata attraverso un alter ego su cui filtrano elementi autobiografici per offrire, con libertà e schiettezza, frammenti di sé che non evaporano nel tempo e si concretizzano nella carne viva del testo. In questo modo Ottieri può, meglio dei vari analisti che lo curavano, osservare in profondità le proprie inquietudini per renderle intelligibili sulla pagina, adoperandosi come l’analista di se stesso con determinazione e a volte anche durezza. Il primo aspetto della sua scrittura che emerge è l’autoritratto che Ottieri compie in ogni opera, e nella maggior parte dei casi l’autore non lesina critiche mettendo in risalto le idiosincrasie, le infezioni psichiche, il Male congenito, la depressione; sintomi riassumibili nel Male dell’anima che sarà sviscerato da ogni prospettiva nei testi successivi: «Non voglio fare confusione tra male nevrotico e male del vivere. Il male dell’anima, quale che sia, non m’incanta, mi blocca. E sono fra quelli che debbono credere che si possa estirpare» (LG, p. 23). Quando scrive di Lorenzo, Ottieri è un ventenne che avverte con forte partecipazione una «grande smania cerebrale» consueta nell’ultima fase adolescenziale; eppure nella letteratura di Ottieri di ordinario c’è ben poco e le parole vengono dosate con accortezza e perspicacia retorica. La prima indicazione che l’autore offre di questo suo alter ego è un disagio psichico sofferto fin dalla prima età e ricorrente nella sua poetica. Per tutto il romanzo non vi è alcuna descrizione fisica di Lorenzo e il primo attributo riguarda il cervello, luogo deputato ad accogliere i futuri stati d’irrealtà quotidiana mentre gli altri tasselli rinviano alla paura di vivere e a sentimenti quali l’incomprensione, l’insoddisfazione, l’umiliazione. Nelle lettere che Ottieri inviava negli stessi anni della stesura delle Memorie a Giovanni Sartori (Vanni), Fabrizia Baduel, Tullia Paolozzi, Dora Vallier, Francesca, si percepisce nello scrittore una maturità intellettuale e una sensibilità psicologica sorprendente per un ragazzo di appena vent’anni. Le sofferenze psichiche, i difficili rapporti con i genitori, la prigionia di Roma e di Chiusi, la passione per la letteratura, gli stravolgimenti storico-politici, gli amori, l’incipiente difficoltà di vivere, le disillusioni personali e collettive sono gli argomenti principali che Ottieri 231 tesseva nelle lettere con una notevole capacità espositiva e con risultati convincenti per stile e contenuto. Le Memorie acquistano maggior importanza partendo da questa proiezione autobiografica, più psicologica che meramente legata agli eventi, poiché Ottieri coagula nel Lorenzo-personaggio una parte consistente della propria adolescenza; e inoltre le Memorie sono l’unica opera in cui egli riesce a proiettare l’esuberanza intellettuale degli anni giovanili mentre li sta vivendo. Il giovane Ottieri assorbe in sé gli spasimi di un periodo particolare, la fine dell’adolescenza, incanalandoli in una pericolosa alternanza di sentimenti che, se lo fanno apparire come un ragazzo originale e pieno d’ingegno, possono condurlo alla disperazione e a stati d’agitazione continua. Ottieri riesce a coagulare in Lorenzo queste condizioni psicologiche senza intermediazioni, anzi trovando nella pagina il luogo più idoneo per osservare, anche oggettivamente, la propria vitalità psichica. Sebbene nelle Memorie Ottieri dimostri, rispetto ai lavori più maturi, una certa leggerezza espositiva nell’affrontare per la prima volta tematiche complesse come il Male di vivere, esse rappresentano il primo tentativo di tradurre in letteratura quella profonda disperazione mista a ironia che gli permetterà di esser riconosciuto come un caso letterario specifico, se non unico, nella letteratura italiana. Io ero molto agitato, il solito esaltato che lei conosceva bene. […] I giorni passavano uguali senza crescere l’uno sull’altro, alcuni nella speranza, altri nella solitudine. […] La mia vita è attorcigliata come una corda. […] Attorno a me la solitudine. […] Isolato dagli altri, mi sentivo cadere in un pozzo. […] Ero ansioso, finché lentamente divenni stravolto. (MI, pp. 13, 21, 35, 36) In una lettera scritta all’amica Dora Vallier, ispiratrice di Katja, Ottieri analizza il proprio essere rivelando angosce, idiosincrasie, speranze che si condenseranno in Lorenzo: Cara Dora, io, lo sai, sono un essere, se voglio universale (non ho patria, non ho Dio, non ho fede, non ho lingua; mi posso confondere e smarrire con l’attimo misterioso e ineffabile che sta all’origine della vita, il soffio del creatore, il nucleo, il granello di sabbia che muove l’esistenza). Ma sono molto giovane, conosco poco il mondo. Impossibile spiegare e scrivere. (Settembre ’43) In Ottieri fin dall’adolescenza presentava un evidente contrasto tra il quieto aspetto esterno di un giovane molto tranquillo e l’irrequietezza interna. Lo scrittore evidenzia spesso nelle sue opere questa discrepanza sottolineando lo stupore delle persone appena conosciute che non riuscivano a immaginare tanta disperazione dietro una maschera così placida e flemmatica: «Imparai a essere calmo, buono, imperturbabile agli altri. Tuttavia il soffocamento, di nascosto, saliva o calava col solo spostarmi da una stanza all’altra, da una sedia all’altra» (MI, p. 88); mentre in una lettera del 28 aprile ’47 scritta a Fabrizia Baduel, dunque contemporanea alla prima stesura 232 delle Memorie, Ottieri rivela: «Io che ho l’aspetto così serio e pacato, nell’intimo sono un anarchico, e mio malgrado». Attraverso un’analisi psicoanalitica, Elena, la sorella del protagonista, si sofferma sui cambiamenti d’umore e sui momenti d’azione che si riassumono nella sindrome bipolare, importante per comprendere le assuefazioni di Lorenzo: «“Non posso vederti così esaltato e triste. Se continui così andiamo da un medico”. […] “Non sono mica pazzo”. “Macché pazzo, sei solo esaurito”. […] “Ci andremo insieme”. “Dentro il manicomio?”» (MI, pp. 143-144). Elena fa riferimento al Dottor Caprile, il primo di una lunga serie d’incontri che i personaggi di Ottieri avranno con medici, psichiatri, psicologi ecc. La pazzia e la conseguente visione del manicomio vengono proposti fin dal primo romanzo per diventare dei motivi strutturali delle opere ambientate nelle cliniche. Inoltre, un momento topico che interesserà lo scrittore riguarda lo sguardo del malato rivolto alla clinica che sarà su una collina a Zurigo, nelle periferie delle città, oppure un po’ nascosta tra gli alberi delle Betulle, e mai osservata soltanto come una clinica giacché il pensiero si contorce in altre meditazioni scorgendovi un convento, prigione o albergo: «Appariva in lontananza, che dominava da una collina, il grande edificio rossastro e merlato del manicomio, simile a un convento. Noi scendemmo in basso, verso i villini e i giardinetti, per strade di oleandri. Dopo lunghe ricerche in quell’aggraziato labirinto, scovammo il villino del Dottore» (MI, p. 145). Lorenzo recita il primo atto di una tragicommedia letteraria che durerà quasi cinquant’anni nella quale Ottieri racconta le proprie esperienze, dolorose, ironiche, grottesche, sentimentali vissute all’interno delle cliniche in cui soggiorna mescolando sapientemente dramma e ironia, malattia mentale e dongiovannismo senile, autobiografia e letteratura: «Poi entrammo nel gabinetto delle visite, candido, al cui centro attendeva un ordigno di ferro e di cuoio, un letto poltrona. Questo era un buon segno; significava che contro il dolore dell’anima c’era una organizzazione clinica e me ne rallegrai. Le guarigioni dovevano essere previste» (MI, p. 146). In queste poche righe delle Memorie s’irradiano dei motivi cardine della letteratura di Ottieri relativa al rapporto con la malattia mentale: lo studio medico per le visite, il lettino che anticipa il Gurt minuziosamente descritto in Contessa (CON, p. 39), lo studio sulle sofferenze dell’anima, la progettazione clinica agognata e temuta con in prima linea i medici avversari del paziente il quale istaurerà con loro celebri lotte analitiche, e infine le guarigioni sperate nel corso dei decenni e mai concretizzatesi. A colloquio con il Dottor Caprile, il giovane Lorenzo spiega per la prima volta, non solo nel romanzo ma nella letteratura di Ottieri, cos’è per lui quel “cancro dell’anima” che lo spinge all’idea del suicidio: la depressione: «Per liberarmi dalla malinconia, dalla depressione, ho pensato che ci fosse un mezzo unico… lei, Dottore, ha già capito, un mezzo che non è davvero nuovo… anzi, è notissimo… lei saprà… il suicidio. […] Il suicidio è diventato la mia idea fissa» (MI, p. 147). 233 Oltre alla depressione, la sindrome bipolare riguarda il disturbo che ha caratterizzato l’esistenza psichica di Ottieri il quale si considerava «un bipolare rapido, l’uomo più analizzato d’Italia» (in E liberaci dal male oscuro). Si tratta di un’affezione caratterizzata da gravi mutamenti dell’umore, riferita alle emozioni, pensieri e comportamenti, che provoca un’alternanza di euforia e disperazione attraverso il passaggio repentino dal paradiso della fase maniacale all’inferno dello stadio depressivo, anche più volte durante la vita. In molti casi la fase maniacale è caratterizzata da umore disforico, con una sensazione d’ingiustizia subita e quindi grande irritabilità, collera e intolleranza cui si accompagna un comportamento aggressivo, con scarsa capacità di valutare le conseguenze delle proprie azioni. Le fasi depressive, invece, seguono spesso quelle maniacali e si caratterizzano per l’umore molto basso con la sensazione che nulla interessi né possa dare piacere, perdendo il significato della vita che appare profondamente doloroso. Inoltre il sonno e l’appetito possono aumentare o diminuire, e si provano sensazioni di spossatezza insieme a una grande difficoltà nel concentrarsi. A volte da una fase si passa immediatamente all’altra, mentre in differenti circostanze intercorre un periodo di umore normale; tuttavia le fasi depressive, più frequenti, durano di solito più di quelle maniacali, mentre l’abuso di alcol o droga si associa spesso al disturbo bipolare e lo può peggiorare fino al suicidio o ad atti autolesionistici. Sommandosi i giorni, arrivai all’idea del suicidio. […] Avrei voluto suicidarmi, ma sopravvivere al suicidio, e certamente tale contraddizione mi indeboliva. Mi occupai della scelta del mezzo con cui darmi la morte. […] Ho la mania… la mania di morire… di suicidarmi. […] Intanto io già pensavo alla logica del suicidio. Consisteva nella sicurezza – finta – che ormai il suicidio non fosse una decisione disperata, ma l’unica soluzione corretta della mia esistenza. […] Provavo nostalgia del suicidio poiché la disperazione che vi porta per la prima volta, veduta da un’isola, è un elemento mosso e attraente, una tempesta luccicante. (MI, pp. 97, 105, 142, 143, 157) Il motivo del suicidio sarà un marchio di fabbrica della letteratura di Ottieri, il quale fin dal primo romanzo getta le basi per evolvere il significato psicologico del gesto estremo. Dall’Irrealtà quotidiana al Campo di concentrazione, da Contessa alla Corda corta, dal Divertimento a Cery, passando attraverso l’alienazione industriale e la mondanità degli anni Sessanta, il suicidio è sempre contemplato dai suoi personaggi che si affidano a esso come «l’unica soluzione corretta» (MI, p. 143) della loro esistenza. Lorenzo ha avuto dunque il merito di indicare un cammino in cui verrà largamente seguito, e tra le diverse interpretazioni del suicidio, sociologica, filosofica e clinica, in lui s’intuisce un tentativo di trovare l’estrema significazione della vita; così che l’atto si presenta quale gesto vendicativo e riparativo, una vendetta e un’espiazione, recitando il suicida il doppio ruolo di colpevole e vittima innocente all’interno di meccanismi sociali in cui egli non si sente integrato in modo adeguato. 234 Durante la scrittura delle Memorie, Ottieri teneva un’importante corrispondenza epistolare con l’amica Fabrizia Baduel e in alcune lettere lo scrittore spiega in modo dettagliato le proprie afflizioni che trasferirà nel personaggio di Lorenzo, la sua prima proiezione letteraria. Si può constatare a posteriori come Ottieri abbia tratto giovamento da questo modus operandi, ovvero esprimere attraverso un alter ego aspetti rilevanti della propria vita; e poiché si tratta del primo tentativo, Lorenzo in questo senso gli servì da cavia. Carissima Fabrizia, la mia vita è piuttosto instabile (23 giugno ’46). Faccio una brutta vita, nonostante le apparenze. Ma spero sempre di uscire fuori e di essere allegro un giorno (marzo ’47). Dubbi sull’avvenire in quantità impressionante (15 aprile ’47). Purtroppo la mia vita è poco lieta, gli ultimi due o tre anni mi hanno scosso e logorato (27 aprile ’47). Ho la testa come un pallone. Di lettere, telefonate, progetti e dubbi. Non potevo cacciarmi in un’esistenza più malcerta e scombussolata (28 aprile ’47). La mia vita è una condizione estrema, di esilio. Ho lucidissima davanti agli occhi la strada della rovina, tutti i giorni la tocco con mano e la conosco, l’ho sperimentata. […] Tu non appartieni al mio inferno. […] Sono disabituato alla quiete. […] I congegni del mondo ai miei occhi si sono un poco storti (20 maggio ’47). Mi sento stordito e leggermente depresso (1 giugno ’47). Se ti dicessi che sono calmo e sto bene, mentirei. Ho alcuni momenti di soffocamento e solitudine (9 giugno ’47). Se Dio vuole, la mia falsa maturità si è sgonfiata. […] Scrivo con difficoltà, perché mi muovo con difficoltà tra questi gineprai. […] Perdonami la lunga autobiografia, sopporta il mio egoismo (15 giugno ’47). Spero di essere tranquillo nei prossimi mesi per fare qualche passo avanti. Scusa se mi preoccupo tanto di me medesimo, ma sono un essere disastroso che ha molto bisogno di cure, blandizie etc. (3 luglio ’47). Devo combattere contro momenti di vera disperazione e di tetraggine (10 luglio ’47). Sono un nemico acerrimo del dolore e farei qualsiasi cosa per distruggerlo in me e negli altri. Purtroppo noi siamo condannati a produrlo continuamente in noi e negli altri e spesso a considerarlo come il lievito della vita (17 luglio ’47). Io passo un periodo di forte isolamento e aridità, dovuti al non aver trovato ancora una sicura capacità di affetti. Anni di solitudini mi hanno colpito più di quello che credessi, e stento a recuperare l’equilibrio perduto. […] Oggi vedo che l’inferno non è per nulla scongiurato (agosto ’47). Da queste confessioni giovanili, da Ottieri inserite in epistole dal carattere già letterario, emergono due elementi significativi: chi scrive ha ventitré anni ma dalle profonde riflessioni si riflette l’animo sofferente di un uomo più maturo; e inoltre Ottieri dimostra una lucidità particolare nell’individuare i sintomi del Male che lo affliggevano, quasi certificando una consuetudine rinsaldata nel tempo. Ma oltre tali interpretazioni, si può constatare in Ottieri la precoce volontà letteraria attestata dalla forma romanzesca dell’epistolario giovanile dove si comprende la notevole eredità culturale di alcuni autori amati dal tempo del liceo, in particolare Foscolo (Ortis) e Leopardi (Zibaldone). Ottieri è scrittore sempre, ancor prima di pubblicare le Memorie, poiché in lui la commistione tra vita e letteratura si è fusa in modo indissolubile già nell’adolescenza: «Mi accade di vivere esattamente il dramma che descrivo. […] Ecco, direi, il descritto è identico al vissuto» (IQ, p. 15). Le sue lettere giovanili, e in particolare la corrispondenza con Fabrizia, sono dunque materia da romanzo dove si presentano dei motivi come il tempo e l’inferno che Ottieri propone nelle Memorie. 235 Ormai per noi il tempo non contava più. […] La prima cosa a mutare fu il tempo, non quello del cielo, ma quello dell’orologio. Eterno, ogni minuto ne conteneva tre. Così dalla mattina si arrivava a fatica alla notte. […] Il tempo passava per me con straordinaria lentezza. […] Il tempo non passava mai, e siccome l’angoscia, non avendo più bisogno di uno stimolo vivo e nuovo, si riproduceva da se stessa, doveva esserci dentro di me una parte sconosciuta che la riforniva. […] L’assillo peggiore è il futuro, la sensazione che ho del tempo… Meditavo ancora sul tempo. Il tempo si dovrebbe considerare dall’alto, come quando tutto è passato. (MI, pp. 11, 36, 81, 87, 95) In Ottieri il tempo modifica le sue peculiarità in rapporto agli ambienti in cui svolge un ruolo predominante: stretto nell’industria, fatuo nella mondanità, sofferente nella malattia; e per questo, emblematici sono i titoli scelti dall’autore per darne maggior rilievo, da Tempi stretti al Tempo ammalato, un paragrafo dell’Irrealtà quotidiana, alla distillazione di dolore nel Campo di concentrazione: «Guardo sempre l’orologio e il tempo non passa mai. […] Spesso, mentre il tempo non passa mai, guardo l’orologio affinché il tempo non passi» (CC, pp. 11, 47). A eccezione di qualche fugace apparizione a Roma, Lorenzo trascorre l’estate del ’43 a Chiusi, nella «fascia rossa sopra la civiltà etrusca» (LG, p. 48), nell’antico Palazzo al centro del paese, in Via Porsenna all’incrocio con Via Petrarca, in cui si svolgono anche le imprese narrate nel Palazzo e il pazzo mezzo secolo dopo (nel ’93). Chiusi fin dalle Memorie prende il nome «Belverde», località di campagna a pochi chilometri dal paese dove si trovavano possedimenti agricoli della famiglia Ottieri e una villa ricordata in alcuni versi del Palazzo e il pazzo: «Passava per la strada / dall’infanzia e giovinezza, / andavo da Villa a Palazzo, / dalla madre alla nonna, / dalla nonna alla madre. […] Corsi alla Villa; / era la mia antica / isola, un falso castello / separato da grandi piante della terra» (PAL, pp. 11, 49). Ottieri discende da una famiglia di proprietari terrieri di antica nobiltà senese ritiratasi a Chiusi; poco dopo il matrimonio, il padre Alberto Lucioli Ottieri della Ciaia e la madre Ida Paci, nata a Cetona un paese vicino, si trasferirono nel ’23 a Roma dove l’anno successivo nacque lo scrittore il quale trascorse la giovinezza nella Capitale passando lunghe estati a Chiusi, tra il palazzo avito al centro del paese e la villa di Belverde attigua a una piccola azienda agricola, insieme ai genitori, ai nonni paterni Lucrezia e Quintilio, ingegnere già sindaco di Chiusi all’inizio del secolo, agli zii e ai loro figli, cugini a lui coetanei: «Andai a Belverde nella vecchia casa della famiglia, che Elena possedeva a metà con il cognato. Non sapevo che ci avrei dovuto passare tutta l’estate. Belverde è in Toscana, confina con l’Umbria e con il Lazio, e sta sulla collina che chiude in basso la Val di Chiana» (MI, p. 22). Nelle sue opere Ottieri non sembra serbare un felice ricordo del paese per la mentalità ottusa degli abitanti e le abitudini diverse dall’ambiente della Capitale da cui proveniva: Il paese mi deluse, sciatto, arido, disincantato da un altro anno di guerra, come spalmato di un colore bianchiccio. […] Triste condizione del paese senza lumi che la guerra aveva rinsecchito. […] Il paese 236 perduto, anarchico. […] Il paese appariva gretto e meschino […] Anche io preferivo vivere lì che nella mia camera, posta al di là di una immensa sala nera, centro di tutto il palazzo. […] Tutto il paese era vecchio, senza scopo. […] Tutti i piccoli paesi sono così; è duro abituarsi alle gretterie, alle meschinità della provincia. E a questa vergogna. (MI, pp. 22, 25, 33, 42, 43, 120) Oltre all’insanabile frattura tra chi proviene dalla città soggiornando al paese dei nonni solo nei mesi estivi e coloro che invece ci vivono tutto l’anno, l’aspetto più inquietante sul quale Ottieri pone l’attenzione riguarda, anche a distanza di decenni, l’amministrazione della terra, i conti, i numeri, la gestione del patrimonio di famiglia, il rapporto con contadini, mezzadri, mugnai che il padre tentò di svelargli fin dall’adolescenza trovando però delle insormontabili ritrosie da parte del ragazzo: «I lavori agricoli dell’estate, la mietitura e la vendemmia, i discorsi su quei lavori, la salute dei bambini e le nascite dei maiali, ci avvolgevano di noia» (MI, p. 117). «Mio padre, a tratti, / mi portava con sé nei poderi. / Quando diceva: Domani ai Pozzarelli, / dopodomani al Toppo, / mi metteva in un sottile / terrore di noia, che non doveva apparire» (PAD, p. 96). Nelle Memorie la gestione del Palazzo e delle terre è affidata all’antifascista Claudio, il cognato di Elena. Claudio curava anche gli affari di mia sorella e dirigeva l’amministrazione della campagna. […] Lasciò d’un tratto la camera, per spostarsi nel suo studio dove avrebbe cominciato a controllare i conti e poi ricevere la gente del paese, che faceva capo a lui. Era una piccola, noiosa processione fuori della sua porta. Lo aspettavano due contadini, il fattore e il mugnaio. […] Giovanni, un uomo svelto, ma che parlava precipitosamente, s’inceppava. […] Subito Claudio disse che andava bene e gli fece la promessa, per cominciare meglio con Giovanni un lunghissimo discorso sui lavori del podere. (MI, pp. 22, 25) Nel personaggio di Claudio è filtrato il ricordo del fratello del padre di Ottieri, dunque suo zio, liberale e antifascista che insieme alla moglie si era opposto al Regime e che nel periodo del tracollo bellico era appagato della fine del fascismo: «Claudio amava il paese, amava di esserne stimato. Egli diceva male del regime da anni, contro la vittoria, la guerra, i tedeschi. Per il resto era uguale agli altri. Per questo forse rispettavano il suo ostinato antifascismo» (MI, p. 23). «Il fratello di mio padre era liberale, / vestiva da inglese, / lo snobismo di mia zia era di razza / anglofila, / godeva d’ogni sconfitta / dell’Esercito Italiano» (PAD, p. 94). Ma oltre alla terra, Ottieri pone l’attenzione su ciò che vi sta sotto, e in un passo del romanzo Lorenzo, durante una conversazione con la moglie del sindaco e l’amico Costa nei giorni successivi all’armistizio, tocca un argomento sensibile tra lo storico e l’archeologico: le origini etrusche della città e la presenza della tomba di Re Porsenna addirittura sotto le fondamenta del Palazzo antico.86 86 Chiusi, in etrusco Clevsin, il cui territorio è storicamente abitato dal XI a.C., fu una delle più importanti città dell’Etruria Settentrionale, come è confermato anche dalla tradizione che vuole il re chiusino Porsenna alleato con Tarquinio il Superbo per assalire e conquistare Roma. Dell’antica città etrusca non resta quasi nulla e le testimonianze si 237 «Ma qui ci sono gli etruschi!» scoppiò ironicamente Isabella. «Lei dimentica gli etruschi! Lei ignora che sotto la mia sedia a sdraio, sotto i suoi piedi, sotto i piedi di Lorenzo, c’è una tomba, un tesoro, forse la tomba di re Porsena?!». «La tomba e il tesoro di re Porsena» ribattei, «sono notoriamente sotto la mia casa…». […] «E allora, Lorenzo, ecco che bel problema, […] o distruggere il vostro palazzo o rinunciare a Porsena». «Distruggere il palazzo» dissi. (MI, p. 121) Per quanto riguarda la tomba e il tesoro, Lorenzo si riferisce al labirinto di Porsenna formato da una serie di cunicoli di probabile epoca etrusca che intersecano quasi tutta Chiusi vecchia, e che furono scavati con lo scopo di drenare le acque piovane. Nel labirinto, tuttavia, non fu ritrovata la mitica tomba di re Porsenna, da cui l’ironico «notoriamente» di Lorenzo, che secondo Plinio il Vecchio era stato sepolto sotto la città di Chiusi in un monumento dal basamento di novanta metri di lato e che racchiudeva un labirinto sormontato da piramidi e da una copertura di bronzo: «Mi creda, Costa, gli etruschi sono la nostra rovina. Se lei scopre sotto terra i loro teschi, i loro cocci, qualche rara volta i loro ori, le porteranno disgrazie, malattie e fallimenti. Ma la disgrazia peggiore è che il belverdini di oggi assomigliano in modo impressionante ai belverdini etruschi, sono avidi, pessimisti e cinici. Io ci soffro. Molto…» (MI, p. 121). Lo sfondo storico in cui Ottieri ambienta le sue Memorie riguarda l’estate del ’43, dal crollo del Regime all’armistizio, periodo vissuto con partecipazione dal protagonista Lorenzo che, deluso per le sconfitte maturate durante il conflitto, ripudia il fascismo adolescenziale come stato d’incoscienza personale e collettiva. Egli trascorre quei mesi estivi tra Roma e Chiusi, mentre la catastrofe si stava abbattendo sull’Italia che proprio a seguito dell’armistizio vivrà all’interno dei suoi confini la concretezza della tragedia bellica con distruzioni di città e la guerra civile. Per Ottieri si tratta di vere memorie poiché, se la trascrizione romanzesca inizia nel ’47, già all’epoca dei fatti lo scrittore riversava nelle lettere agli amici la disperazione vissuta quotidianamente evidenziando una particolare commistione tra la tragedia pubblica e quella privata, tra il conflitto e il pessimismo esistenziale, tra la guerra civile e l’angoscia di vivere. In primo piano Ottieri non vuole rilevare l’orrore della guerra in sé, bensì la fragilità morale di un popolo osservata con preoccupazione da una prospettiva antropologica che si evolverà nel tempo permettendo a Ottieri di tracciare una discesa negli inferi attestata dall’Estinzione dello stato fino al fallimento della democrazia raccontato nell’Irata sensazione. Le considerazioni sociali dello scrittore, riportate nelle Memorie attraverso le vicissitudini esistenziali dell’alter ego Lorenzo, costituiscono il primo tassello ordito da Ottieri di un grande mosaico sulla Storia della Patria, o meglio del rimpianto di una Patria. Si tratta dell’ouverture politica delle sue opere in cui la cronaca è sempre attuale, dagli anni Quaranta al Duemila, dal trovano nelle numerose necropoli sparse nel territorio che attestano origini antichissime della città, con numerose prove di stanziamenti dell’età del Bronzo sulla montagna di Cetona e di Belverde. 238 fascismo al boom economico passando per le convergenze parallele, i compromessi, la dissoluzione del PSI fino all’ascesa di un partito pubblicitario. Le Memorie permettono a Ottieri di comprendere il futuro e questo atteggiamento favorisce la previsione di alcuni eventi politici prima del loro effettivo compimento. Ad esempio a inizio degli anni Ottanta, Ottieri compone il suo unico Canzoniere dal profetico titolo L’estinzione dello stato; nel ’92 scrive la Storia del PSI evidenziando lo scempio attuato dal «Satrapo» Craxi poco prima delle rivelazioni sulla sesquipedale abbuffata tangentizia che avrebbe portato a un rapido scioglimento del partito dopo i processi di Tangentopoli che iniziano qualche mese dopo la composizione del poemetto; nel ’92 abbozza L’inconcepibile 1994 che confluirà nel Poema osceno del ’96 immaginando un futuro pieno di incertezze per la politica e la società italiana. Ottieri tenta di esaminare l’incoscienza esistenziale e politica del popolo italiano fin dalle Memorie degli anni Cinquanta, così che il suo primo romanzo è da ritenersi antropologico più che storico; gli eventi drammatici dell’estate ’43 gli servono, infatti, solo da sfondo per riflessioni che scavalcano il mero dato concernente la seconda guerra mondiale e si ricongiungono nell’Irata sensazione che chiude il cerchio sul triste destino assegnato all’Italia. Insultavo il popolo, lo accusavo di sprecare, di ridicolizzare la sua tragedia, di cui non coglieva i frutti, l’esperienza e la dignità. […] Da per tutto è la stessa vergogna. Caduto Mussolini non c’è più nemmeno un fascista in Italia. Nemmeno uno. Questo è un fenomeno importante, nazionale, di paura e vigliaccheria collettiva. Un’Italia simile fa schifo. […] Si può pretendere, vero, che sia una merda? […] L’Italia si spaccava e si scioglieva. (MI, pp. 36, 67, 171) Il peggioramento del paese è tale da travolgere tutto. […] L’Italia è una Repubblica sfondata da Berlusconi – come recita il primo articolo della nuova Costituzione – mentre lo Stato, e figuriamoci il senso dello Stato, si squaglia come un bel gelato impotente, invendibile. (ISP, pp. 52, 70) Il punto di partenza dell’analisi storico-sociale-antropologica è il luglio ’43 che certifica la fine della Patria in cui l’evento emblematico per Ottieri è rappresentato dal primo bombardamento di Roma da parte degli Alleati. Per l’Italia non ci sono più speranze, precipita con grande gusto verso la sua rovina. Il principio della fine della guerra sarà segnato dal nostro disastro. […] Squillò il segnale dell’una. Subito la voce sonora annunciò il bombardamento di Roma. Era il 19 luglio. […] Questo era il primo bombardamento di Roma in tre anni di guerra, quando ormai tutti credevano la città intoccabile, inutile o sacra. […] Nemmeno una pietra smossa intorno: solo qualcosa nell’aria di prima mattina, come se si aspettasse un’altra tragedia. […] Affiorava la parola San Lorenzo. La Basilica e il grande cimitero erano stati l’epicentro delle distruzioni: per tutta la città si ripercuoteva da essi non tanto un sentore di sangue, di disperazione, di morti, quanto una vibrazione di fragilità, di attesa […] come se il bombardamento di Roma avesse svuotato d’aria tutta la città e l’avesse lasciata senza memoria. (MI, pp. 9, 26, 27) 239 Lorenzo che si trovava a Belverde quando dalla radio trapelò la notizia del bombardamento di Roma decise il giorno stesso di tornare nella Capitale per assicurarsi dell’incolumità della sorella Elena ma anche dell’amica Katja. Elena tuttavia vuole mettere al sicuro il fratello imponendogli un pronto ritorno al paese, da lei considerato un luogo più sicuro di Roma: Perché non sei rimasto in campagna? Là almeno eri al sicuro. Preferivo se non tornavi. […] Andiamo via di qui… partiamo. […] Torniamo a Belverde, rifugiamoci nel paese. […] Bisogna fuggire il pericolo di qui. […] Bisogna partire, e molto presto. […] Restare qui è una colpa, una pazzia. […] Ho il dovere di portarti via, di salvarti, anche se non lo vuoi. (MI, pp. 28-30) Ottieri attraverso gli occhi di Lorenzo osserva Roma, sua città natale, con tristezza e profonda commozione percependo la tragedia in procinto di scatenarsi. «Ma Roma era sempre una città luminosa e accogliente [che] lievitava al sole» (MI, p. 7), descritta nei suoi tramonti soffusi, negli angoli remoti dei vicoli del centro, nei giardini e nelle piazze, pigra e bella. Roma rappresenta l’essere dello scrittore, la sua culla, i ricordi incoscienti, la scuola, i primi amori; ma anche una prigionia, un soffocamento nella casa paterna che lo costringerà appena finita la guerra alla fuga verso Milano. Anche i colori utilizzati riflettono il sentimento di forte partecipazione che animava Ottieri nelle descrizioni della città: ad esempio il rosa dei tramonti lasciava adagiare una patina di struggente malinconia nell’attesa della tragedia futura; e per questo si avverte una dolcezza stucchevole nell’atmosfera di luoghi che hanno vissuto una Storia esclusiva, dai pastori zoticoni sulle rive di quel fiume dall’etimologia etrusca Rom, all’impero al papato, dal Duce ai bombardamenti alleati alla Città aperta. I turbamenti provati dal protagonista autobiografico delle Memorie non sono una regressione letteraria attuata post quem giacché nelle lettere del settembre ’43, indirizzate in particolare all’amico Giovanni Sartori, Ottieri inizia fin da allora a scrivere il romanzo mentre l’immagine di Roma si stagliava in tutta la sua drammaticità proprio con la firma dell’armistizio, e quindi con la fine delle ostilità che celebrava l’inizio per la città della vera guerra fino a quel momento percepita in lontananza. Caro Vanni, siamo in un processo di dissoluzione. […] Gli avvenimenti di Roma non tranquillizzano certo. […] Hanno messo Roma sull’orlo della guerra, ma fuori della guerra. […] Ieri sera, domenica, dicono alle 18, entrarono in Roma le prime pattuglie della V Armata americana. Noi si aspettava da un pezzo che gli avvenimenti in qualche modo si risolvessero, perché la vista della città era divenuta angosciosa e insostenibile, specie dopo l’offensiva dell’11 maggio. Ma non si credeva mai che precipitassero come sono precipitati. (4 settembre ’43) Lorenzo, giunto a Roma dopo il bombardamento del 19 luglio e in procinto di ripartire per Belverde insieme alla sorella Elena, ha il tempo di affacciarsi da un balcone, come ricorda lo stesso 240 Ottieri nelle lettere, mentre scruta lo scorrere della Storia da un punto di vista privilegiato: una finestra sulla strada da cui egli, quasi da un loggione, osserva la rappresentazione di un’opera teatrale. Ottieri, partendo da questa peculiare percezione degli eventi, che mentre accadono sono vissuti e analizzati come in una tragedia, trasferisce questa logica teatrale nella struttura di molti suoi componimenti poetici. Per togliermi da questo imbroglio, che diveniva sempre più insopportabile, spalancata la finestra m’affacciai. Credetti di notare che le strade erano meno battute del solito, e un vuoto nei marciapiedi. La città aveva paura. La guerra, nell’agonia, tentava di travolgere tutti con sé, di minacciare tutti di un disordine infido. La strana sicurezza dell’Italia precipitava… (MI, p. 31) Caro Vanni, mi sono messo più quieto a lavorare e mi affanno intorno a tre esami, sbirciando fuori dalla finestra ogni cinque righe, come se per strada mi attendesse la rivelazione. (5 settembre ’43) Dopo i bombardamenti del 19 luglio, che segnarono un momento determinante nella coscienza storica degli italiani sul valore della guerra vissuta all’interno della Patria, il giorno 25 dello stesso mese si ricorda per l’arresto di Mussolini e di conseguenza per la fine del Regime fascista. Ma anche in questo caso l’evento passa in secondo piano nelle riflessioni di Ottieri che rielabora le sue Memorie da una prospettiva antropologica: il 25 luglio è fondamentale per comprendere lo stato d’incoscienza in cui annaspava il popolo italiano, incerto e angosciato dalle future risoluzioni storiche che gli avrebbero precluso la scelta del proprio destino. Non si trattava dunque per Ottieri solo di una sconfitta politica o militare, quanto di un disfacimento collettivo reso possibile dalla mancanza di forza morale che ogni giorno diventava più flebile. Inoltre lo scrittore non vuole escludersi dalle critiche, colpe o responsabilità; al contrario egli si lega al fascismo adolescenziale per aggrapparsi agli ultimi brandelli di una speranza, seppur lacerata, di concretezza storica mentre stava trionfando la nuova moda di obliare in fretta il Duce e la politica di conquista che aveva entusiasmato, fino a pochi mesi prima, milioni di cittadini: «Perché rimanevo fascista / nonostante le pressioni costanti / dei cugini, dello zio, / del professore privato, di Croce, / delle buffonate tragiche del Duce? / Sono rimasto fascista / fino a diciott’anni / perché non mi piaceva / la guerra alla guerra» (PAD, p. 94). Ottieri, attraverso Lorenzo, non vuole salvare o rivalutare il fascismo o Mussolini, bensì la propria giovinezza, i primi ricordi, le memorie infantili, in altre parole quella parte di sé destinata a evaporare nell’età adulta anche se vissuta sotto una dittatura; si tratta pur sempre della propria adolescenza che non si può sconfessare per una guerra persa. Consideravo le dittature rivoluzioni contro il quietismo scettico e borghese, la patria una forma entusiasmante di coscienza morale. […] Avevo sempre concepito il fascismo un impegno superiore alle forze, un dovere spirituale cui ubbidire soffrendo; una ostinazione della coscienza, amara e violenta. La mia privata esaltazione cerebrale coincideva assai bene, nel campo pubblico, con il fascismo. Avviandosi alla rovina, per di più il fascismo offriva tutte le emozioni delle cause perdute. […] Una fatica intima e una fatica 241 nazionale, la patria da costruire con le proprie mani. […] Soprattutto la sconfitta militare, sicura e non ancora riconosciuta, ci sgomentava: essa stava dietro alla cauta del fascismo. Della sconfitta, assurda come idea e inesorabile come fatto, non ci facevamo una ragione. La mia coscienza mi imponeva di non darmi per vinto, di spronare gli altri. […] Che cosa sarebbe successo, se gli avessi esposto i miei ideali fascisti traditi? […] Sapevo oscuramente ma fortemente di non potermi rinnegare e tradire, e che la realtà andava combattuta poiché avevo le mie profonde ragioni. Il mio fanatismo politico era un fiume sotterraneo che, venendo alla luce, si riduce a un vapore caldo, vago, avvolgente, ma quasi invisibile. […] Approfittai per dirle con orgoglio che volevo partire, partire con i tedeschi. […] Gettarmi insieme ai tedeschi in una disfatta gloriosa e disperata. Le ragioni politiche non contavano più, non contavano più le ragioni degli altri. (MI, pp. 8, 34, 63, 85, 109, 172, 178, 179) Lorenzo in diversi passi del romanzo tenta di sviscerare le proprie considerazioni riguardo al fascismo senza alcun giudizio positivo: dal punto di vista politico e sociale, il protagonista non rimpiange nulla e nemmeno vuole giudicare l’operato del Duce. La parabola della sua incoscienza inizia con l’attonita sorpresa per la sconfitta fino allo sdoganamento complessivo della politica, anche se un’analisi attenta rivela che di essa si parla poco non essendo un motivo primario nella maturazione del protagonista. Ottieri ritiene questo aspetto preminente della sua vita, ovvero il ricordo mistico del periodo fascista, importante perché fu vissuto durante l’adolescenza seguendo l’esempio paterno: il padre Alberto era un fascista che plaudeva alla forza del Duce e alla grandezza dell’Italia, fiero di contrastare le altre potenze mondiali, il cui ricordo affiora nei ricordi di Lorenzo soprattutto dopo la morte del genitore: Sarebbe stato bello sapere in che modo, dopo la prima guerra mondiale, uno come mio padre avesse subito amato il fascismo. […] Mio padre era fascista. M’aggrappai al fascismo avendo in principio seguito le sue parole; egli era morto subito dopo la guerra d’Abissinia, durante la quale avevamo esultato insieme. Amava il Duce e anche io lo amavo; insieme stavamo pigiati nella folla, in piazza, a ascoltare i discorsi di lui; mio padre vi assisteva con compassata freddezza di carattere, mentre io mi riempivo di brividi. Giorno per giorno commentavamo le notizie; gli chiedevo con ansia i suoi pronostici, non sapevo aspettare. […] Avevo poi avuto bisogno della memoria di mio padre. (MI, pp. 24, 33, 34) Circa quarant’anni dopo la stesura delle Memorie, Ottieri ritorna su alcuni aspetti della propria adolescenza rielaborandoli nel poemetto dedicato al Padre dove l’aspetto biografico si lega a quello politico soprattutto nella maturazione dal fascismo giovanile al socialismo marxista. Tra i ricordi giovanili rielaborati nel Padre, lo scrittore ricorda i conflitti quotidiani col genitore: «La pugna con lui fu dura. / Egli vedeva nella poesia / la causa della malattia, / ed era fascista» (PAD, p. 49); le invettive susseguenti l’abbandono del fascismo: «Mi provocava a pranzo e a cena / lanciandosi come un pazzo / contro ogni parvenza di socialismo. / L’anticomunismo può rendere pazzi. / Esaltava ogni sentore di fascismo» (PAD, p. 91); e inoltre la disinformazione come motivo scatenante della ribellione contro i padri: «Il rancore per la disinformazione / fu la prima freccia al petto / che mi fece gettare sul prato / dell’antifascismo sfrenato» (PAD, p. 91). Disinformazione che Ottieri ricorda anche nella Storia del PSI come l’ottavo tra i dieci comandamenti del regime: 242 «Ottavo: Disinformava / come un serpente a sonagli. / Quando gli americani / dichiararono guerra, / ciò fu detta un’americanata» (PSI, p. 37). Lorenzo nelle Memorie parla di «dovere spirituale cui obbedire soffrendo […] di una ostinazione della coscienza» (MI, p. 34) che vuole interpretare in modo psicoanalitico più che politico. E poi, quando avverte nel proprio fanatismo un «vapore caldo, vago, avvolgente» (MI, p. 109), i riferimenti sono ben lungi dal ritenersi legati al Regime, giacché si tratta di uno stato regressivo che rinvia all’infanzia: Ottieri nacque infatti nel ’24 poco dopo l’avvento del fascismo nel ’22. Per lo scrittore, dunque, la Patria esiste ancor prima di nascere, è irrimediabilmente «naturale» come afferma in una lettera all’amico Vanni. Alla luce di queste considerazioni, la frase «Le ragioni politiche non contavano più» (MI, p. 179) acquista soltanto un senso letterario poiché in Ottieri la politica non ha mai avuto un valore preminente nelle Memorie; in altre parole il rilievo degli sviluppi storici è innegabile, e sarebbe fuorviante non tenerne conto, ma le motivazioni che hanno condotto lo scrittore a rielaborare nell’arco di molti anni, dal ’47 al ’54, questo primo romanzo vanno ricercate nella psicologia politica, ovvero nell’accezione che studia il comportamento politico a partire da modelli psicologici come il rapporto amico-nemico, o come l’etica di gruppo, rapportando tutto a un disagio esistenziale che è la determinante principale del romanzo e più in generale della poetica di Ottieri. Caro Vanni, l’età nostra, i vent’anni, della raggiunta maturità spirituale, non dico dello sviluppo bensì nel metodo, è l’età più giusta e più pura, più adatta a nutrire ideali. L’ideale della patria, per esempio, è incontaminato dalla passione politica, o meglio dalla professione di una fede politica. […] Che è la Patria? Come la fede in Dio, l’abbiamo trovata fin dalla nascita, e anzi non v’è in lei nulla di divino, ma qualcosa di naturale, di fisico, di irrimediabile e tutto il resto di umano e terreno. (Settembre ’43) E gli sviluppi successivi delineati nelle Memorie, come l’arresto di Mussolini, la caduta del Regime, la sconfitta, l’armistizio e la guerra civile, risentono di questa prospettiva esistenziale che non è una rielaborazione pensata alla fine del conflitto in periodo di pace poiché l’epistolario di quei mesi, luglio-settembre ’43, rivela già un atteggiamento peculiare dell’autore, da cui la cosiddetta bio-letteratura, presente anche nelle opere della maturità che affrontano le tematiche dell’industria, mondanità, malattia e politica. La sera del 25 luglio, la cauta di Mussolini ci colse a Belverde di sorpresa. Nel primo momento non ci credetti. Avevo voluto essere sordo alle voci generali sul disfacimento italiano e non dar retta nemmeno ai miei occhi. […] Tuttavia la notizia non mi addolorò; mi chiesi piuttosto che relazione ormai ci fosse tra gli avvenimenti e gli uomini, perché i primi accadevano da se stessi, liberi e alti sopra di noi, che eravamo bagnanti sulle rive di un mare in tempesta. Proprio questa esclusione dalla responsabilità di ciò che si trasformava e precipitava, avrebbe dovuto, secondo me, straziare e lacerare la coscienza di tutti. (MI, p. 33) 243 L’inizio della fine individuato nel 25 luglio permette a Lorenzo di avvertire, nella tragedia in atto, il sentimento della libertà fondamentale nella poetica ottieriana: Un mio occhio rimaneva aperto verso fuori, verso la realtà: e per istinto m’accorsi che dopo il 25 luglio si stava facendo una grossa scoperta, la libertà. Per me non era un bene riguadagnato, ma una specie di bizzarria, in fondo disprezzabile, da osservare con meraviglia; essa mi stupiva e ringiovaniva, coi suoi aspetti infantili, fisici. […] La famosa libertà del governo Badoglio, la libertà dopo vent’anni di tirannia aveva certo un aspetto giovanile, sembrava tutta nuova, pulita; ma poiché perdevamo la guerra era soltanto un’ombra inutile. (MI, pp. 38, 63) Caro Vanni, ora l’Italia non esiste. Ora viene a mancare la Patria; e vediamo cosa significhi non avere la patria. […] La libertà non interessa l’Italia. La libertà, come la vita, come la giustizia, si dimentica nel tempo in cui la si adempie velocemente. La libertà è il respiro di cui l’uomo deve obliarsi quando voglia essere libero. La libertà politica non si raggiunge che al termine di un calvario; è una promessa eterna; quindi non basta, non serve negli accidenti particolari. (Settembre ’43) Lorenzo prosegue l’autoanalisi storica e personale rivolgendo lo sguardo all’indietro per considerare la sua ancor breve vita attraverso i tragici eventi che stavano lacerando gli entusiasmi giovanili dapprima confluiti nel fascismo adolescenziale. L’esuberanza per l’Abissinia e l’esaltazione per le prime vittorie si scontrarono in Ottieri con l’impossibilità di partecipare attivamente a quegli eventi storici restandone ai margini tra Roma e Belverde: infatti alla visita di leva, nel luglio del ’43, lo scrittore riceve la dichiarazione di rivedibilità e viene destinato a svolgere, come soldato di Sanità, servizi sedentari presso il Sovrano Ordine di Malta nell’ospedale di Via Monferrato a Roma. Nascosto ai tedeschi – prima di malavoglia, poi con gusto clandestino – ero soldato di Sanità presso il Sovrano Ordine di Malta, nell’ospedale di Via Monferrato. Più che da infermiere, facevo da cameriere: asciugavo le posate e vuotavo i bidoni della spazzatura in cortile. In ospedale, ero anch’io convalescente della delusione d’eroismo, patita con la sconfitta, e della rinuncia a scomparire nel Valhalla guerresco. Avevano provveduto a ripararmi e mi ritrovai in un buon ambiente, di amici: il destino di carattere e di classe si compiva sempre. (LG, p. 147) Ottieri estende poi il suo forzato esonero a una generale mancanza di partecipazione legata alla collettività del popolo che non ha mai potuto scegliere i propri governanti; il riferimento è connesso certo al fascismo, dittatura imposta senza volontà popolare, ma Ottieri negli anni successivi dilaterà questo concetto in un’ottica antropologica individuando negli italiani l’abitudine a essere comandati da imperatori, re, papi, massoni o mafiosi senza sceglierli o potersi ribellarsi. Proprio per l’animo servile dimostrato con tenacia nei secoli, Dante corrosivamente puntualizzava nella celebre invettiva «Ahi serva Italia» che non esistono per questo paese alternative a tale infelice condizione. 244 Caro Vanni, sono profondamente malinconico, ora, più che addolorato. Anche il vano dolore della sconfitta ci è tolto, non resta proprio che la malinconia di questo pantano e di queste sabbie mobili. Bisogna restaurare lo spirito di coscienza e di sacrificio. Bisogna credere con sincero impulso alla gioia del proprio sacrificarsi, all’orgoglio dei propri valori sofferti per un ideale. […] Io vivo profondamente i fatti che ora stanno accadendo, mi getto dentro di essi per seguirne gli estremi capillari meandri. […] Io che avevo creduto e sperato nella vittoria, che avevo con ogni sforzo cercato di giustificare anche col raziocinio tale spontaneo sentimento: l’Italia vincerà questa guerra e sarà grande, mi trovo oggi umiliato e smentito, negato dalla realtà in tutte le mie affermazioni. […] Ci è stata sempre vietata la responsabilità che si divulga e si spande e che ci sopravvive. Non abbiamo mai detto qualcosa che ci rimanga e duri più a lungo della nostra volontà, che ci leghi e ci costringe a una sociale coerenza. (Settembre ’43) E oltre al concetto di responsabilità prima evidenziato, Lorenzo si sofferma sullo spirito di coscienza e di sacrificio che dovrebbe rianimare il popolo, oltre le diverse implicazioni politiche, non tanto per raggiungere compromessi impensabili in quel momento storico, quanto piuttosto per non diventare schiavi di un nuovo padrone. L’argomento massimo delle riunioni erano le nostre responsabilità. […] Ci piaceva tenerci compagnia e sfogare i sentimenti feriti, l’amore per la patria, il rancore verso gli antifascisti, il dolore della sconfitta militare. […] Io insistevo sullo spirito di coscienza e di sacrificio, con cui intendevo riempire il vuoto di quei giorni senza governo, senza alleati, senza notizie e senza nemici. (MI, pp. 63, 172) Le Memorie seguono in ordine cronologico gli avvenimenti del ’43, e dopo le due importanti date di luglio, 19 il bombardamento di Roma e il 25 l’arresto di Mussolini, Lorenzo ricorda con profonda commozione l’8 settembre che determina la guerra all’interno del territorio italiano, l’abbandono di Roma da parte del Re, un’estrema incertezza sugli alleati e sui nemici da combattere, la spaccatura del paese tra i fascisti e la Resistenza, la guerra civile. Nel romanzo sono due bambine che annunciano l’armistizio e lo scrittore indugia spesso, anche nelle lettere scritte in quei giorni, sulle immagini di fanciulli che, una volta appresa la notizia, per loro poco comprensibile, corrono per le strade e cantano di gioia per la fine della guerra. Ottieri vuole in questo modo caratterizzare maggiormente l’atmosfera d’incoscienza collettiva estesa anche a quella parte del popolo che ignorava gli sviluppi storico-politici del conflitto. In quel mentre, nell’aria rarefatta del mezzogiorno inoltrato, vedemmo correre per il viale che porta ai giardini due bambine di quattro o cinque anni […] che strillavano la stessa parola e la ripetevano accanitamente divertendosi, correndo verso un gruppo di donne sedute: «Mamma, mamma, l’armistizio, l’armistizio, l’armistizio». Si gettarono ridendo in braccio alle donne. […] Arrivammo senza accorgercene, senza coscienza, alla mattina dell’8 settembre. […] Vi fu nel paese un breve scoppio di allegria e di gridi. Le voci bianche dei ragazzini cantavano in piccoli cori: «Dov’è la vittoria, che schiava di Roma». (MI, pp. 109, 157, 159) Caro Vanni, cominciavano a venire finalmente, chi sa perché e come, le prime notizie concrete: che gli Americani erano alla Stazione, in Via Nazionale, in Via XX settembre, nella via stessa dove abitavamo noi, che insomma «erano arrivati». Allora i giovini e le giovini si sono per primi rovesciati per la via a gridare e gavazzare: «Siamo liberi. Evviva l’Inghilterra!». Era tutto finito così? […] Fui preso da uno scoramento amarissimo. (Settembre ’43) 245 Lo sconforto cui fa riferimento Ottieri non riguarda la sconfitta militare, bensì un’inquietante debolezza morale che avrebbe condotto l’Italia alla catastrofe sociale poi avveratasi nella guerra civile. Lorenzo parlerà di vergogna riguardo all’armistizio non perché in lui si agitassero i demoni di un immarcescibile fascismo (non vi è nel romanzo un solo elogio al Regime) ma per evitare le profusioni di compiaciuto disfattismo ormai dilaganti. Caro Vanni, ormai l’Italia è divisa. Gli eserciti avversari che si combattono pongono le premesse della guerra civile: chi per i tedeschi (pochi), chi per gli inglesi (tutti). Gli equivoci si assommano. I veri nemici appaiono liberatori e non lo sono per troppe ragioni. Noi non abbiamo tradito i tedeschi con l’armistizio ma in quel lontano tempo in cui non s’è detto loro, chiaramente, quanto lavorasse il tarlo dell’antifascismo e del disfattismo… (Settembre ’43) L’annuncio della caduta di Mussolini fu accolto, infatti, dalla popolazione con impressionanti manifestazioni di «uno strano giubilo popolare» (MI, p. 33), sfogando i risentimenti accumulati nel corso degli anni contro i simboli del Regime, ma senza spargimento di sangue poiché, in quei giorni di fine luglio ’43, il popolo italiano sembrava aver deciso in modo unanime chi fosse il responsabile della disfatta. Sorprende, ma non troppo se considerati nel complesso i disagi e le privazioni cui fu sottoposta la popolazione, la rapidità con cui la maggioranza dei cittadini, tacciata di tradimento, non si sentisse più fascista nell’arco di una notte, come rilevano alcuni passi del romanzo: Da per tutto è la stessa vergogna. Cauto Mussolini non c’è più nemmeno un fascista in Italia. Nemmeno uno. Questo è un fenomeno importante, nazionale, di paura e di vigliaccheria collettiva. Un’Italia simile fa schifo. […] Siamo cauti in una rovina materiale e morale senza limiti, un abisso. Per me è una sofferenza quotidiana, insopportabile, assistere a un simile… tradimento. […] Lei non sa che tutte, tutte le migliori famiglie erano e si dicevano fasciste, ma che dopo l’arresto del Duce io non ho inteso neppure una parola, in pubblico, una parola di ribellione, di indignazione… (MI, pp. 67, 118, 119) L’entusiasmo con cui il paese accolse la caduta del fascismo si comprendeva non tanto per la gioia della riconquistata libertà, quanto per la diffusa speranza di una prossima conclusione della guerra, anche se l’uscita dal conflitto si rivelerà più tragica della guerra stessa. Il governo Badoglio, sorto in seguito alla congiura monarchica del 25 luglio, mentre proclamava che nulla sarebbe cambiato nell’impegno bellico italiano, stava allacciando trattative segrete con gli alleati per giungere a una pace separata, per gli anglo-americani però si trattava di una resa incondizionata già sottoscritta il 3 settembre a Cassabile, che fu resa nota solo l’8 in coincidenza con lo sbarco di un contingente alleato a Salerno: «Noi eravamo contrari al prossimo tradimento di Badoglio. […] Indignato allora per la vergogna dell’armistizio. […] Nel mio cervello si agitavano idee di ribellione e sussulti di sdegno per l’armistizio che consacrava una sconfitta, palude melmosa e infida, non 246 abisso salutare» (MI, pp. 100, 110, 159). L’armistizio è ricordato da Ottieri come il primo avvenimento storico in cui ha provato quel senso di ribellione caratteristico poi della sua letteratura, quando «ridicolizzato dai fatti l’accecamento proiettivo sul Duce, se ne ingenerò una tale delusione contro quel Padre, scoperto sciocco e impotente, che il meccanismo proiettivo si ribaltò in odio e rancore eterni» (IQ, p. 176). Ma l’aspetto più inquietante dell’armistizio fu l’incertezza nella quale il governo Badoglio gettò l’Italia dopo l’annuncio radiofonico dell’8 settembre: con la fuga del Re e della sua corte, insieme al governo, per riparare a Brindisi nel Regno del Sud sotto la protezione degli alleati, Roma fu lasciata sciaguratamente città aperta, mentre il nord del paese divenne terra di conquista per le truppe tedesche diventate all’improvviso nemiche. Le nostre incertezze si presentavano senz’altro quali incertezze politiche. Ogni progetto, se non quello di non far niente, era rivoluzionario: essere contro la guerra, essere per la guerra. L’Italia attendeva di venir tutta calpestata come un formicaio. […] Siamo all’oscuro di tutto. Di tutto. Ci devono essere in Italia milioni di uomini che attendono ordini. […] Un’Italia così mi riempie di tristezza e di dolore. […] L’indomani mattina l’incertezza fu maggiore. […] Nell’afa pomeridiana, verso le due dopo mezzogiorno, il paese si scosse, sussultò. Ecco che cosa aveva portato quell’armistizio: la guerra. […] Gli alleati ci occupavano e i nemici dovevano liberarci. […] Mi fissai in due pensieri opposti: che dovere degli italiani fosse quello di non arruolarsi e di rinunciare definitivamente alla guerra; e che io invece, come privato, potessi scomparire presentandomi ai tedeschi. (MI, pp. 62, 161, 161, 163, 172, 179) Abbandonato a se stesso, l’esercito italiano sbandò a causa di ordini confusi e contraddittori senza alcuna possibilità di opporre resistenza ai tedeschi, giacché in molte circostanze non si comprese se fossero alleati o nemici. Le conseguenze del disastro dell’8 settembre, emblematico il massacro di Cefalonia compiuto dai tedeschi con lo sterminio di un’intera divisione italiana che aveva rifiutato di arrendersi, si ripercossero anche sull’andamento della campagna d’Italia poiché gli alleati non riuscirono a avanzare oltre la linea Gustav. Diventata campo di battaglia per eserciti stranieri riverberando ataviche consuetudini del Cinquecento con le guerre d’Italia e dell’Ottocento con quelle napoleoniche, il paese era condannato a un tragico destino: occupato militarmente dagli alleati e dai tedeschi, oscillante nell’incertezza di sapere chi dovesse salvarlo. Indicative a tal proposito le malinconiche riflessioni del giovane Ottieri presenti in due lettere inviate in quei giorni di settembre a Vanni e a Tullia. Caro Vanni, l’Italia è ora un’espressione geografica, divisa da due eserciti che vi combattono; il popolo non ha guida. La sola unione superstite è il terrore. La Patria attende gli uomini che le diano coscienza di essere tale; i cittadini aspettano il governo nuovo. Cara Tullia, da adesso tramonta l’unità dell’Italia: mi passa davanti agli occhi tutta la storia prerisorgimentale, indietro; indietro fino al Cinquecento, alle prime lotte di francesi e spagnoli, agli stranieri chiamati per scacciare gli stranieri. 247 La coabitazione con i tedeschi fu vissuta dal giovane Ottieri con molta partecipazione emotiva poiché alcune truppe della Wehrmacht, ancor prima dell’armistizio, avevano scelto Chiusi come base strategica per le operazioni militari. Ottieri li rappresenta nelle lettere: Caro Vanni, siamo in pieno processo di dissoluzione. Chiusi è occupata dalle truppe tedesche; pare una fortezza. (Settembre ’43) Carissima Tullia, i tedeschi hanno scelto Chiusi come centro di resistenza, vi affluiscono da ogni dove, vi si accampano. […] Sul tardi è apparso un proclama; firmato dal comandante tedesco, dal Podestà e dal Tenente dei Carabinieri, dove si ordina il Coprifuoco dalle 20 alle 7! […] Durante la notte i tedeschi si agitano ininterrottamente. (Settembre ’43) E in alcuni passi del romanzo, senza un giudizio di merito particolare, criticando piuttosto l’incoscienza del governo italiano che ha abbandonato i cittadini e l’esercito per improvvisare originali relazioni con gli ex alleati ora nemici, Ottieri evidenzia la turpitudine incombente sull’Italia che al principio delle ostilità dimenò «un colpo di pugnale a un uomo in terra»87 per poi dare di sé uno spettacolo tanto miserando, umiliante e vergognoso che sarà difficile anche solo ricordare nel futuro. I tedeschi rovesciano ora su di noi un disprezzo contro il fascismo che hanno covato sempre, considerandolo un sottoprodotto del nazismo. Ci rimproverano la nostra secolare mancanza di coscienza, ma noi scontiamo un Risorgimento fatto di cartone e una borghesia a cui il fascismo già non serve più. […] «I tedeschi si vendicheranno malamente», insinuò il signor Cenni dando il suo parere non militare. Ma, neppure lui, uomo più sensibile, mostrava di preoccuparsi del lato morale dell’armistizio, quello che a me interessava e che consisteva nella incoscienza degli italiani. (MI, pp. 114, 160) Ottieri indugia spesso nella descrizione fisica dei tedeschi accampati alla Fortezza o sul Prato, mentre li confronta con la propria intellettualità, aumentando un certo rimpianto per non poter partecipare in modo più concreto agli sviluppi del conflitto: Carissima Tullia, i tedeschi s’accampano e sfoggiano tutta la larghezza dei loro toraci nudi. Oh, vituperio della mia intellettualità! (Settembre ’43) I tedeschi non si facevano troppo notare. Eppure avevano occupato una parte del parco dei Mayer e una mattina il prato fu pieno di volontari diciottenni, a torso nudo e bianco, che uscivano felici dalle loro tende al sole meridionale. Gli alleati ci occupavano e i nemici dovevano liberarci. (MI, p. 172) I militari tedeschi occupano un posto di rilievo nelle Memorie in quanto Ottieri li descrive come vicini di casa, anzi addirittura compagni di stanza. Infatti dal quarto capitolo del romanzo la scena, o meglio la casa del giovane Lorenzo viene occupata da alcuni soldati tedeschi che, 87 Frase pronunciata dall’ambasciatore francese a Roma François Poncet quando gli fu presentata da Galeazzo Ciano, alle 17.30 del 10 giugno, la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia ormai interamente occupata dalle truppe naziste, aggiungendo poi: «I tedeschi sono padroni duri, ve ne accorgerete anche voi». 248 stazionando nei pressi di Chiusi, requisivano diverse abitazioni nel paese: l’ufficiale Haacke, il tenente von Maurenberg e il tenente Wagner abitano alternativamente l’appartamento di Lorenzo, ospitati in modo affabile dalla sorella Elena che conoscendo la lingua tedesca poteva interagire con loro senza eccessivi ostacoli. Nel descrivere questi militari, Ottieri vuole evidenziare il lato umano delle rispettive personalità concedendo loro il diritto di soffrire e rammaricarsi per una guerra ormai persa; inoltre nel romanzo le critiche che l’autore rivolge all’incoscienza degli italiani vengono addirittura stemperate dagli ex alleati, i quali essendo militari devono rispettare gli ordini e le prescrizioni superiori senza tergiversare sul comportamento della popolazione locale ancora spaesata dai repentini stravolgimenti delle circostanze. Pochi giorni dopo l’armistizio, nella confusione generale si ricorda la nascita di uno stato del tutto subordinato ai tedeschi, la Repubblica di Salò richiamata alla memoria da Ottieri con i ricordi, oltre che di Lorenzo, anche di Pietro Mura il suo ultimo alter ego protagonista dell’Irata sensazione da una prospettiva storica diversa, cinquant’anni dalla pubblicazione delle Memorie, che non ne affievolisce la riprovazione. Si poteva di nuovo partire e uscire dal cerchio dell’armistizio; e intanto, liberato Mussolini, fu annunciata la costituzione del Partito Fascista Repubblicano. (MI, p. 174) Il Grande Somaro da Salò ragliava ormai troppo puledrescamente forte, nitriva, urlava come uno stallone nell’estremo macello. […] L’idea forte della pazzia si distraeva, in Pietro, con l’odio. L’odio per quei figuri in maschera che, volendo fare dell’Italia un Impero, l’avevano martoriata e rasa al suolo. Mi sta bene che il fine giustifichi i mezzi. Ma non quando il fine è la fine. (ISP, p. 41) La costituzione di un nuovo stato fascista, la Repubblica Sociale Italiana, venne proclamata dal Duce dopo la sua liberazione dalla prigionia di Campo Imperatore sul Gran Sasso il 12 settembre ’43, ma essa era dipendente dai nazisti che occupavano militarmente le zone del nord Italia, i quali con la creazione della Repubblica di Salò si prefissero l’obiettivo di reprimere e combattere il movimento partigiano che stava nascendo nelle regioni settentrionali del paese. La conseguenza inevitabile fu, oltre la spaccatura fisica dell’Italia in due zone occupate da eserciti stranieri, la Repubblica di Salò nazi-fascista al nord e il Regno del Sud anglo-americano, la guerra civile il cui spettro animava le dolorose riflessioni di Ottieri ancor prima dell’armistizio, dimostrando una particolare perspicacia nel considerare con lucidità gli eventi che sarebbero poi accaduti. Anche in questo caso le lettere scritte nel settembre ’43 a Tullia e a Vanni esemplificano la correlazione tra l’epistolario, già pensato da Ottieri in modo letterario, e il primo romanzo in cui le memorie si concretizzano sulla pagina. 249 Carissima Tullia, non si sa bene quel che accade; ma ormai superata con l’armistizio la disfatta totalitaria, esaurito con l’8 settembre il periodo dei dolori comuni, si entra nella fase delle sciagure locali, […] quella fase che accenna alla lacerazione del paese e favorisce la guerra civile. Benché mi amasse molto biasimava con insofferenza il mio pessimismo, le mie previsioni di guerra civile, l’essere io deluso perché il popolo non precipitava persino più in fondo, per risorgere e compiere interamente il suo ciclo di purificazione. […] Per noi infatti la guerra militare è un capitolo chiuso. Noi abbiamo perso la guerra, anzi la stiamo perdendo ora per ora. Per noi c’è un altro destino… la guerra civile. […] La guerra che dobbiamo fare ormai è una guerra civile. Non c’è altra soluzione d’onore. Si può cominciare subito, da ovunque, da qui. Basta non accettare il Re e Badoglio. […] La guerra civile sta alle porte. (MI, pp. 37, 72, 99, 169) Gli scontri violenti scoppiarono tra i gruppi di azione patriottica, che agivano soprattutto lontano dai centri abitati con attacchi improvvisi e azioni di sabotaggio, e i nazifascisti che rispondevano con spietate rappresaglie; infelicemente celebre quella delle Fosse Ardeatine del marzo ’44 per replicare all’attentato di via Rasella con una proporzione di dieci cittadini per ogni militare morto, con cinque in più aggiunti per errore, che Ottieri ricorderà nella Linea gotica, nell’Irrealtà quotidiana e nel Padre: L’eccidio delle Fosse Ardeatine fu un colpo ancora più grave, ma più oscuro, misterioso, senza passato, per me. L’aveva preparato anche il mio assistente universitario di italiano, ma che ne sapevo, se parlavamo solo dello stile di L. B. Alberti? (LG, p. 148) Lavorò alla tesi di Laurea sulle Operette Amatorie di L. B. Alberti, nel 1944, con un assistente che la mattina parlava con lui del cursus, nel pomeriggio preparava la dinamite per via Rasella. Quando la dinamite scoppiò non intese nulla. (IQ, p. 174) Volevo adire a Salinari e Alicata, / al compagno Sapegno. / Salinari, mentre discutevo con lui, / la tesi sulla lingua di Leon Battista / Alberti, preparava via Raella. (PAD, p. 50) Il panorama complessivo delineato nelle Memorie è molto dettagliato nei particolari psicologici di Lorenzo che seguono gli sviluppi traumatici della storia, nonostante la forzata estraneità al conflitto con il rifugio a Belverde e la disillusione politica di quei mesi. Oltre alle circostanze storiche riportate con cura seguendo le memorie delle lettere, ciò che affiora con profondo dolore è l’immagine di una Patria che non esiste più; e attraverso i richiami presenti nell’insieme delle sue opere, il volto dell’Italia si costruisce come un mosaico partendo da questo primo romanzo con l’aggiunta dei vari tasselli successivi. Un termine spicca per consuetudine nell’apparire e per il senso di disperazione insito in esso: è la «liquefazione», connessa alla «merda» politica evidenziata nel Poema osceno, che rende l’Italia un paese unico nel suo splendore. Caro Vanni, ora l’Italia non esiste. Ora viene a mancare la Patria; e vediamo cosa significhi non avere la Patria. […] Le decisioni si rarefanno e predominano i compromessi; difatti l’Italia è cauta di compromesso in compromesso e la sua strada è seminata di equivoci e ironia, di ridicoli inganni e di tragicomiche avventure. […] In questa lacerazione, liquefazione della Patria, il cosmopolitismo che è 250 retaggio degli stati fortissimi, è la più amara ironia. Ora si precipita verso il provincialismo. […] Davanti a noi c’è oggi la più grande tragedia della Patria; davanti a me corrono giorni e giorni di rovina, di avvilimento, di bruciore, di disonore. […] Che è la Patria? […] L’amor di Patria, Vanni, nell’essenza sincerissima della nostra vita, non ti atterrisce questo pensiero? Ma guardati intorno, contempla la nostra civiltà, la nostra filosofia, la nostra arte, contempla pure i moti riposti dei poveri di spirito, della borghesia e del popolo: c’è un luogo per l’amor di Patria, il patriottismo del secolo passato, l’esilio e l’entusiasmo senza retorica? […] La Patria, noi l’abbiamo nel sangue. (Settembre ’43) Le dolorose riflessioni espresse da Ottieri nelle lettere risentono certamente dei tragici sviluppi storici, ma riverberano altresì quei richiami all’amor di Patria presenti in particolare negli autori di cui si era nutrito nell’adolescenza. La biblioteca giovanile dello scrittore che si trova nel Palazzo di Chiusi presenta, oltre ai classici latini e greci, autori importanti della letteratura italiana tra i quali risaltano, per devozione e profonde letture, Dante, Foscolo e Leopardi. In molte sue opere Ottieri riprende alcuni versi di questi poeti con rifacimenti e a volte parodie, scegliendo il punto più conforme del testo dove inserirli per far risaltare la sua vasta cultura e confrontarsi intellettualmente con loro. Ad esempio, a conclusione delle lettere scritte all’amico Vanni, dopo l’armistizio Ottieri riflette sulla condizione servile dell’Italia sul cui suolo si fronteggiavano due eserciti stranieri riducendo la Patria a una mera espressione geografica. Senza dubbio lo scrittore era animato da una profonda disillusione e rabbia per gli avvenimenti storici, mentre il tono e l’elaborazione del suo pensiero risentono delle letture giovanili, e in particolare di un’opera politica di Foscolo. Caro Vanni, fui preso da uno scoramento amarissimo. […] Ho dormito poco, e stamattina seppi ufficialmente che avevamo cambiato padrone. Ho letto diverse pagine del Foscolo, in questi giorni confusi, in cui ho dovuto cessare da ogni lavoro, specie il discorso intitolato «Della servitù d’Italia». E bastasse! Ma (gli italiani) col somministrare la storia della loro propria stoltezza, giustificheranno quel principe che nel calpestarli dicesse: «E son pur nati a servire, e il confessano». «Voi finché non avrete armi e non cambierete costumi, non potrete cambiare se non padroni». «A rifare l’Italia, bisogna disfare le sette. Potrebbe se non disfarle reprimerle il ferro straniero; ma allo straniero gioverà prima istigarle, onde più sempre signoreggiare per mezzo di esse l’Italia». «Adunque siate servi, e tacete». […] Domenica notte, addormentandomi, mi pareva d’aver vissuto una giornata di malattia. Ma queste sono impressioni personali, intimistiche, meglio tralasciarle. La mattina seppi che avevamo cambiato padrone. (Settembre ’43) Ottieri fa riferimento ai discorsi Della servitù d’Italia88, opera incompiuta di Foscolo la cui immagine ribelle e insofferente contro i potenti ritorna con insistenza in varie opere fino a percepire in se stesso, durante il soggiorno nella clinica San Rossore, quel foscoliano «spirto guerrier che rugge» (IP, p. 67). Le attenzioni maggiori sono qui rivolte all’aspetto politico dell’opera di Foscolo, in particolare nei discorsi Della servitù d’Italia che esplicita, in modo più tecnico e meno romanzato rispetto all’Ortis, la corrispondente disillusione storico-sociale di Ottieri il quale vi trova un modello di trattazione teorica utile per comprendere la realtà dei fatti, sempre attuale sebbene 88 FOSCOLO Niccolò Ugo, Prose politiche e letterarie dal 1811 al 1816. Frammenti sul Machiavelli, Ipercalisse, Storia del sonetto, Discorsi sulla servitù dell’Italia, Scritti vari, edizione critica a cura di Luigi Fasso, Le Monnier, Firenze 1933. 251 lontana nel tempo. Il progetto del libro Della servitù dell’Italia, al quale Foscolo nel primo abbozzo milanese appose il titolo Dell’indipendenza del regno d’Italia, prevedeva una serie di discorsi rivolti a tutti gli italiani con l’avvertimento a considerare, nel più breve tempo possibile, lo stato deprecabile della nazione avvilita dalle lotte intestine. Al proemio seguiva un Discorso agli italiani di ogni setta in cui il poeta ribadiva la pericolosità della divisione del popolo in partiti e un nucleo di questioni intorno all’indipendenza italiana che avrebbe dovuto costituire il secondo discorso, rimasto tuttavia incompiuto. Ottieri, mentre è intento a comporre epistole o romanzi, esplicita una vocazione letteraria leggendo Foscolo, Dante, Machiavelli, Leopardi e le loro considerazioni sul degrado della nazione, espresse quando l’Italia nemmeno esisteva politicamente. Dalla lettera a Vanni emergono dei termini o espressioni inequivocabili come «scoramento», «avevamo cambiato padrone», «stoltezza», «armi», «giustificheranno quel principe», «straniero», «signoreggiare», «siate servi, e tacete» che si potrebbero condensare nella celebre invettiva dantesca «Ahi di dolore ostello» (Purg, VI, 76) già ripresa in un passo della Contessa «“Ahi” pensò “serva Italia di dolore ostello”» (CON, p. 22). Nelle Memorie adolescenziali di un periodo storico particolare della propria Patria, la tragedia pubblica si sovrappone a quella personale, intrecciando Ottieri i motivi di disagio esistenziale nella più complessiva crisi dello Stato, al fine di attenuare le sue sofferenze private con la catastrofe incombente sull’Italia. Da questa prospettiva Ottieri, nella stesura delle Memorie, ha risentito della lezione foscoliana dell’Ortis, libro letto in gioventù che permetteva l’emersione di profondi sentimenti idonei a esprimere la delusione storica connessa al male di vivere autobiografico, all’amore irrealizzabile, all’ossessiva idea del suicidio, al desiderio di valori assoluti contro la mediocrità del mondo, alla negatività della storia. Lorenzo va ben oltre il modello dell’Ortis agognando sollievo e consolazione dalla tragedia collettiva per alleviare i propri dolori d’amore non corrisposto per Katja. Per l’Italia non ci sono più speranze, precipita con grande gusto verso la sua rovina. Il principio della fine della guerra sarà segnato dal nostro disastro. Così, per pudore, confondevo il mio caso personale con l’amarezza orgogliosa della guerra perduta. […] Affacciato alla finestra, rintanato, pauroso di uscire, di affrontare l’aria finché Katja non avesse scritto, vedevo la gente ignara e piuttosto allegra, nonostante il destino d’Italia. Me ne indignavo, con pudore. Sapevo che il silenzio di Katja era l’unica cosa che mi stesse a cuore e che nella pretesa di vedere tutto il mondo depresso c’era uno sconfinato desiderio di compagnia. […] Non potevo fare a meno di mescolare, o meglio nascondere, i miei sentimenti personali con quelli dell’orgoglio nazionale ferito, e poi sfogarli con lei. […] Rigurgitavo di pena per la patria, sconvolto dalla tragedia nazionale e dal bisogno di rivolta. Mi cacciavo dentro in questo dolore collettivo, che mi recava sollievo. […] Un uomo nel mio stato non era in grado, non era degno di occuparsi di una sciagura collettiva. Poiché, anzi, la desiderava per consolarsi. […] Ma un altro fatto mi preoccupava. Che, nonostante tutto, il dolore collettivo fosse preferibile al dolore personale. Noi soffriamo, per innata costituzione, più delle nostre pene che di quelle del mondo; anzi il dolore collettivo è la migliore medicina contro il dolore personale. 252 Gettarsi nel precipizio degli avvenimenti è una liberazione, una soddisfazione, e le tragedie nazionali riempiono di amaro orgoglio, di vanità, anche una persona modesta. (MI, pp. 9, 36, 110, 131, 174) Dalle confessioni romanzate del giovane protagonista, Ottieri attua un’introiezione mimetica e consolatoria delle proprie sofferenze adolescenziali che, contratte in uno stato generale di depressione, si purificano attraverso il dolore collettivo. L’introiezione riguarda, infatti, un processo in cui viene incorporata nel sistema dell’Io la rappresentazione mentale di un oggetto esterno, in questo caso la guerra, così che il rapporto dell’Io con l’oggetto si trasforma nel rapporto dell’Io con l’immagine dell’oggetto introiettato. L’introiezione può essere considerata anche una difesa in quanto protegge dall’angoscia individuale rapportandola, in modo mimetico, alle contingenze esterne le quali, nel caso di catastrofi collettive, permettono di alleviare i dolori intimi dell’Io che trae sollievo e consolazione nel dolore altrui. Quest’atteggiamento molto comune nel periodo adolescenziale, ma che si presenta in alcuni casi anche nell’età adulta, prevede perciò una sorta di purificazione individuale che richiede una tragedia estesa al mondo depresso, e che Ottieri spiega in modo esplicito in una lettera inviata a Vanni dove aggiunge anche la riflessione sulla catarsi che il dolore collettivo, esploso durante la guerra, può attuare con il procedimento opposto all’introiezione, purificandosi attraverso il dolore del singolo individuo fino a diventare idea e rivoluzione: Caro Vanni, che strano dolore ne provo! È forse quel dolore assillante, continuo, insaziabile, che non puoi disertare, che sale con te ovunque, che ti perseguita profondamente, che diventa tutto te stesso, che si sovrappone alla tua personalità, che ti scaccia la tua anima e la sostituisce con questo soffio vitale fatto interamente di sofferenza? Il dolore collettivo andrebbe collettivamente sofferto; ma nel riunirsi della persona esso tende a sparire, a sfogarsi, a purificarsi, a diventare idea e rivoluzione. […] Il dolore collettivo è il miglior farmaco verso il dolore personale; ho provato e provo tutt’ora quanto sollievo rechi intimamente l’immedesimarsi nella tragedia della Patria, l’obliarsi nell’intrico della vicenda, nella caccia appassionata al precipitare degli avvenimenti. (Settembre ’43) Tra avvenimenti storici così importanti e il disagio esistenziale del protagonista Lorenzo, nelle Memorie si riscontra una certa densità d’immagini femminili che formano nell’insieme il primo movimento di quella «ridda» (CC, p. 9) ossessivamente presente nella letteratura di Ottieri. Spiccano nel romanzo Katja e Rita, con le quali Lorenzo instaura delle relazioni sentimentali non sempre pienamente corrisposte, ma in alcune circostanze affiora quell’atteggiamento che sarà consueto dell’Ottieri più maturo, ovvero la mania della conoscenza contemporanea di numerose donne, come avviene per un’amica rumena del fratello di Katja o per la cameriera della stessa: In quel momento venivo più attratto dalla sua amica che da lei. […] Ora Katja, comparendo all’improvviso, sorprendeva me e Antinea seduti in compagnia sul divano, si affacciava all’inquadratura della porta e spiava dentro… […] Il suo corpo di donna fatale stava accasciato sul divano senza più nessuna 253 pretesa. […] Trovando piacevole la compagnia, durava fatica a andarsene: ci saremmo fatti sorprendere da Katja. Sussultai e risi tra di me. (MI, pp. 18, 57, 58) Ma oltre queste sottili divagazioni, importanti se analizzate come primi indizi di una compulsione erotico-letteraria attestata nelle opere successive, la scena del romanzo è dominata da due figure femminili: Rita Mayer e Katja N. attraverso le quali Ottieri filtra due suoi amori giovanili, Tullia Paolozzi e Dora Vallier. Di Tullia si è già riferito in precedenza riguardo alle lettere che Ottieri raccolse con la postilla «Frettolose memorie di Ottiero rimasto a Tullia partita» facendo riferimento alla partenza della ragazza che aveva dovuto lasciare Chiusi con la famiglia proprio nei giorni in cui fu annunciato l’armistizio: Oh, mia cara Tullia, mutazione delle cose umane. […] La sera della tua partenza giunse la notizia dell’armistizio. […] La gioia si prolungò durante la notte e pareva che i tedeschi rimanessero volatilizzati e dispersi da questo entusiasmo popolare. […] Solo nel primo pomeriggio ci siamo resi conto della situazione. […] Siamo nel periodo caratteristico in cui è lontana la paura, ma non il sentimento della sciagura. […] Un poco di sconforto m’invade di quando in quando per una memoria, per una nostalgia, soprattutto per il senso che ho della mia debolezza, della mia infingardia, del mio idealismo retorico. […] Mi avevi promesso di ritornare ma non tornerai, chi sa perché, per troppe ragioni. Sono nuovamente solo e vivo di questo sconvolgimento, senza dolore, cercando di aguzzarvi dentro le pupille e di scorgere il meccanismo con chiarezza. […] Bisogna uscire dalla ruota che segna le grandi epoche e le grandi rivoluzioni dello spirito. E dopo questo, Tullia, il vivo ricordo di te, di quel nostro ultimo stare insieme, divenuto così tenace, istintivamente, così privo di dubbi, a un tratto che quasi me ne stupivo. […] Tullia, ora finisco di scrivere; segretamente aspetto che tu venga da me, ma finirò per salire, visto che mi pesa l’attesa. Che faremo? I timori dell’animo mio schiacciano le giovanili speranze. (Chiusi 8-14 settembre ’43. «Dalla resa delle armi alla resa, o quasi, dell’ultimo respiro»). Nei ricordi del giovane Ottieri, riverberati da Lorenzo nelle Memorie, si staglia l’immagine di Tullia l’amica d’infanzia incontrata ogni estate a Chiusi. Nel periodo bellico tuttavia quello che emerge con forza è il distacco dalla ragazza, l’attesa per un suo ritorno, la tristezza della separazione; e nel complesso Tullia è tradotta in Rita Mayer che trascorre le estati a Chiusi nella casa dei genitori. L’estate anteriore a questa avevo già amoreggiato con Rita, di sei anni maggiore di me, fino alla partenza per la città in autunno. […] La casa, il giardino, il parco dei Mayer erano vastissimi e ci si poteva stare in gran libertà, rifugiandosi da un luogo all’altro. […] Si lamentava della terribile estate, sempre peggiore, usando il suo modo di beffarsene. (MI, p. 152) Un amore in fuga, quello di Rita-Tullia, che non scompare nei ricordi di Ottieri che a quarant’anni dalle Memorie riprende quella stessa vicenda sentimentale che si arrestò nel romanzo giovanile portandola a compimento in un poemetto inserito in Vi amo (1988) dove ritorna l’immagine di Tullia, questa volta anziana suicida. 254 Il tuo giorno fu lungo / e tardi da te stessa / mozzato, o Tullia, / mio primo grande amore / carnoso dopo l’assurdo / della castità di Dora. […] A sessanta anni / di te sei da te stessa addormentata. / Non sapevo più niente di te / da quaranta anni. / Ho saputo d’un colpo che non c’eri più. […] Col suicidio hai prevenuto la botta / che decide il destino. (AMO, pp. 27-31) Ma la protagonista femminile delle Memorie è senza dubbio Katja N. che riassume i tratti di Dora Vallier, un fugace amore giovanile di Ottieri. In primo luogo, come il personaggio del romanzo, Dora «era una ragazza slava che avevo conosciuta un mese prima, in maggio; abitava sola con il fratello, diplomatico, un appartamentino in Via Ravenna 9 b, tra le ville rigogliose di Via Nomentana e le grandi case popolari sulla ferrovia» (MI, p. 7). L’origine «slava» di Katja creò alcuni problemi per l’edizione giacché Vittorini, che come capo responsabile della sezione milanese dell’Einaudi aveva preso in visione il manoscritto, si dimostrò fin dall’inizio molto scettico su tale caratteristica «troppo banale» del personaggio femminile che avrebbe dato uno spiccato senso di «provincialismo» al romanzo, ma sia Calvino che l’autore propendevano decisamente per l’elemento slavo. Alla fine Vittorini dovette arrendersi; tuttavia, pur avallando la pubblicazione delle Memorie, considerò l’opera prima di Ottieri in modo non molto favorevole serbandogli in seguito molte critiche di carattere contenutistico e formale. Nel ’52 Ottieri ebbe una fitta corrispondenza con Calvino e, in parte, anche con Vittorini in merito alle Memorie sponsorizzate da Calvino: Caro Calvino, voglio ringraziare Lei in modo particolare perché è stato il primo a darmi, con grande cortesia e sollecitudine, il senso di non essere rimasto al di qua; cioè d’aver varcato la linea fra non pubblicabile e pubblicabile. Vittorini si è anche accordato con Bompiani. Anche Bompiani preferisce che io cominci con un editore estraneo. Quanto a me, Le confermo che a Einaudi avevo sempre aspirato. (12 dicembre ’52) Nella lettera Ottieri fa riferimento alla possibilità di pubblicare con Bompiani grazie alla conoscenza diretta del presidente della casa editrice, Valentino Bompiani, diventato dopo l’aprile del ’50 suo prozio avendone sposato la nipote Silvana Mauri. Ma per non sembrare uno scrittore raccomandato e insieme all’alta considerazione per Einaudi, Ottieri decise di presentare i suoi primi lavori alla Einaudi con cui, oltre alle Memorie, pubblicherà nell’arco di trent’anni Tempi stretti, I venditori di Milano, I due amori e Vi amo. Valentino Bompiani, tuttavia, si dimostrò fin dall’inizio assai schietto nei confronti dell’Ottieri scrittore, non lesinandogli critiche quando necessarie e pubblicando i suoi lavori solo quando lo avrebbero meritato. Caro Ottieri, dei tuoi racconti che ho letto, il più bello mi pare Monsignore che è, nella prima metà, un bellissimo racconto. L’attento gioco psicologico è mosso con mano sicura in una scrittura precisa, sottile e non letteraria e con tante inaspettate scoperte che anche il lettore procede per paesaggi che mutano. […] Non ho apprezzato un certo andamento moraviano. […] Poi la seconda parte è delusiva per impazienza e 255 pigrizia. […] Metti da parte i tuoi moraviani cugini che potevano servirti ieri, ma non potrebbero aiutarti domani. (26 maggio ’51) Per quanto riguarda la corrispondenza tra Calvino e Ottieri, questa prosegue per tutto il ’53 dove si parla della correzione delle bozze delle Memorie, dei commenti di Vittorini e della malattia di Ottieri, una grave forma di meningite tubercolare avuta in giugno e per la quale lo scrittore dovrà essere ricoverato quattro mesi nella clinica fiorentina del Dottor Cesare Cocchi, l’unico a quell’epoca in grado di curare la meningite. All’inizio del ’53 accaddero due eventi importanti nella vita dello scrittore: il 7 febbraio nacque a Milano la figlia Maria Pace; in marzo venne assunto con l’incarico di selezionatore del personale all’Olivetti dove scopre, dall’interno, il mondo industriale da lui tanto agognato. In una lettera datata 18 agosto ’53, Ottieri è felice di informare Calvino della ripresa dell’«attività intellettuale post-meningite», in quanto può rivedere le bozze delle Memorie e dunque riflettere sulle critiche di Vittorini in merito all’origine slava di Katja che Calvino comunque lascerebbe invariata poiché rappresenta meglio lo spaccato sociale e politico dell’Italia degli anni Quaranta. Tuttavia Vittorini aveva tentato di far cambiare idea allo stesso Calvino: Caro Italo, io non amavo quella storia di balcanici che metteva nel libro un’aria alla Körmendi, ma speravo che egli cambiasse in meglio. Se è come dici tu, ha cambiato in peggio, e allora sono anch’io del parere di fargli ripristinare la vecchia manica. È il punto più falso del libro, purtroppo, ma pazienza. Lo cercherò oggi per parlargli. (5 giugno ’53) Non proprio positivo il riferimento che Vittorini instaura tra Ottieri e Körmendi, scrittore ungherese molto popolare negli anni tra le due guerre soprattutto per la formula del romanzo d’appendice riattualizzato per i gusti di un pubblico medio-borghese, e dunque molto distante dall’engagement letterario di Vittorini. Ottieri riesce a salvaguardare il carattere slavo di Katja e questo non è un aspetto marginale del romanzo se egli dovette confrontarsi e difendersi dalle critiche di Vittorini, considerato in Italia tra le personalità più autorevoli nel panorama editoriale e culturale degli anni Cinquanta. La spiegazione va ricercata negli influssi autobiografici che Ottieri ha immesso nelle Memorie; se Lorenzo è la sua proiezione adolescenziale, Katja riflette l’amore non corrisposto per Dora Vallier, figlia di diplomatici e studiosa di pittura dalla mentalità mitteleuropea e dal carattere sfuggente, che lo scrittore conobbe a Roma alla fine della primavera ’43. Cara Dora, ti ho voluto un gran bene; ora ne conservo una dolce-amara memoria, ma ti ricordo con grande affetto. […] Tu per il paese, per il modo di vivere, per il fascino slavo (sic), per l’ambiente, per le condizioni geografiche hai una mentalità diversa dalla mia. Hai la mentalità classica della straniera, come si 256 dice con una sorta di paurosa ammirazione, nostalgia e desiderio qui fra noi provincialetti d’Italia. (Ottobre ’43) Dunque, come Dora è «slava» e «straniera» così anche la Katja delle Memorie; il riferimento alla mentalità provinciale degli italiani che si crogiolano nell’ammirazione per chi a vario titolo viene da un altro paese, riflette il pensiero dell’autore riguardo al servilismo insito nell’animo degli italiani. In un passo del romanzo Katja fa una fugace apparizione a Belverde per incontrare Lorenzo e l’evento, per le grette mentalità piccolo-borghesi e «provincialette» dei paesani, provoca curiosità e attenzioni particolari rivolte ai due ragazzi: Trovai a casa un telegramma di Katja lunghissimo, in cui si diceva che andava a Venezia, che passava per Belverde e che voleva visitare Siena, con me. Venne così il momento in cui la ebbi dinanzi in carne e ossa. […] La portai a vedere tutte le bellezze naturali e artistiche del paese, affinché ammirandole si legasse al luogo dove vivevo. Non incontrammo nessuno faccia a faccia, ma tutti ci guardavano. Ognuno doveva pensare che avessi un’amante. […] Quando incontrai di nuovo Katja parve che fosse arrivata allora, per farmi una visita azzardata sotto gli occhi di tutti. (MI, pp. 134, 135, 139) Le prime indicazioni offerte dall’autore su Katja sono, oltre all’origine slava, il suo indirizzo di Roma «Via Ravenna 9 b, tra le ville rigogliose di Via Nomentana e le grandi case popolari sulla ferrovia» (MI, p. 7) dove abita insieme al fratello diplomatico. Anche Dora viveva in quella zona e c’è una corrispondenza evidente di situazioni tra il romanzo e l’esperienza personale di Ottieri: Cara Dora, ho una terribile nostalgia di te, di quando ti incontravo sotto quell’orribile monumento al bersagliere in Porta Pia. Eri una ragazza incomparabile, con quegli occhiali al sole, e la tua dolcezza. Saluta tuo fratello! (Settembre ’43) Durante il tragitto fra la mia e la sua casa, per le strade calde e alberate, sotto l’ombra dei pini di una villa che costeggiavo, pensavo di concludere, di avere una risposta per sempre. Salivo piano le scale del numero 9 b. Davanti si alzava una piccola pineta come un’oasi, in certe ore deserta, in altre piena di bambini. Katja mi aspettava. (MI, p. 10) Dora è figlia di diplomatici e dalle lettere scambiate col giovane Ottieri si comprende che la ragazza vive tra Venezia e Bucarest; inoltre per il lavoro del padre è costretta a cambiare spesso città, soprattutto nel periodo caotico dell’estate ’43 tra la guerra e l’armistizio. Poiché molte ambasciate e consolati si trovano a Roma lungo la Via Nomentana, gli appuntamenti a Porta Pia e la trasposizione dell’indirizzo di Katja in Via Ravenna non sono coincidenze casuali. Il riferimento ai «pini di una villa» e alla «piccola pineta» riguardano, infatti, Villa Torlonia costeggiata da Via Ravenna; e inoltre la casa romana di Ottieri è in Via Calabria, numero 56, dunque non molto distante da Via Ravenna, così che Porta Pia rappresentava il classico appuntamento a metà strada. Infine, anche il riferimento al fratello di Dora, Alex nel romanzo, diplomatico che dovrà rifugiarsi a Venezia durante i mesi di Roma città aperta, fa combaciare l’aspetto biografico con il letterario. 257 I sentimenti provati da Lorenzo per Katja non sembrano essere corrisposti dalla ragazza sempre sfuggente e restia a stringere una relazione che superi i limiti di un’amicizia seppur profonda. La lontananza aumenta questo disagio in Lorenzo che, nell’impossibilità di vederla, se ne ingelosisce a suo modo soffrendo più per l’idea che per l’effettivo sentimento provato. Lorenzo infatti non è davvero innamorato di Katja; a volte si annoia quando la vede, non prova coinvolgimento emotivo per i suoi interessi, la pittura e i viaggi, e non è nemmeno attratto dall’aspetto fisico. Katja, brava a conversare, descriveva le persone; ma a furia di raccontare, dopo avermi emozionato e ingelosito, diventava noiosa. Calma, il viso largo e attento, con una luce serena, si occupava per ore anche di argomenti intellettuali e insieme insignificanti. […] Era ingrassata, ma il viso, la bocca, la voce, erano identici. (MI, pp. 10, 134) Gli interessi di Katja riguardano nello specifico «la pittura e alcuni episodi di viaggio narrati nei minimi particolari. Mi annoiavo?» (MI, p. 11). Anche Dora dimostra al giovane Ottieri una particolare attenzione per la pittura oltre ai viaggi, allo studio delle lingue dal bulgaro madrelingua al francese, all’italiano, al tedesco, all’inglese e al russo, alla conoscenza di altre capitali europee. In un’intervista rilasciata a Lea Vergine e inserita nel libro Gli ultimi eccentrici89, dove è presente anche Ottieri, Dora Vallier parla del suo lavoro di critica d’arte90 e della vita trascorsa in diversi paesi a seguito della famiglia. Per questa eccentrica e complessa figura femminile si animarono, nel giovane Ottieri, passioni adolescenziali abilmente filtrate in un alter ego romanzato attraverso il quale distilla illusioni e fantasie tuttavia non corrispondenti alla realtà dei fatti; Lorenzo è attratto dal particolare genere di vita della ragazza conosciuta da poco e più grande di lui, ha venticinque anni, figlia di diplomatici che viaggia per il mondo e conosce diverse lingue. Eppure dell’essenza vera di Katja, nel romanzo, non si fa alcun cenno, non per una tendenziosa pigrizia dell’autore bensì per accentuare il particolare sentimento di Lorenzo che ama l’idea piuttosto che la persona. Le ripetevo: «Ma io, Katja, sono venuto perché sono innamorato, lo sai, sono innamorato»; senza negare, la ragazza sfuggiva e rimandava. […] Lei era davvero libera, stava ovunque, poggiata per caso. […] Prima o poi, come sempre, lei e suo fratello sarebbero partiti. Io sapevo che presto avrebbero lasciato l’Italia. […] «Io vorrei sapere che fai quando non ti vedo. Eppure ti vedo sempre, sei sempre libera». […] Poiché Katja era sempre sul piede di una probabile partenza, col pretesto delle commissioni girava disordinatamente per la città e io l’accompagnavo, mi prodigavo. […] Potevo partire da Roma? La relazione con Katja continuava solo se la vedevo giorno per giorno. […] Il filo sottile tra me e Katja c’era sempre, ma la lontananza diventava insopportabile. (MI, pp. 9, 10, 11, 21 , 29 , 53) 89 Lea, Gli ultimi eccentrici, cit. L’intervista a Dora Vallier si trova alle pagine 116-124. Dora Vallier ha pubblicato numerosi lavori, in francese e inglese (alcuni tradotti anche in italiano) sull’arte contemporanea con particolare attenzione alle avanguardie e alla pittura astratta, come Braque: L’œuvre grave, catalogue raisonné; Ce Pont-Là De Kyoto; L’intérieur de L’art: Entretiens avec Braque, Leger, Villon, Miro, Brancusi (1954-1960); Peintures d’enfants: leçon de vie; Vieira Da Silva: chemins d’approche; Abstract Art; Henri Rousseau. 90 VERGINE 258 È un amore, quello provato da Lorenzo, sempre in fuga a causa della natura della ragazza desiderata ma sempre instabile non tanto per carattere quanto per stile di vita e necessità familiari; perciò il sentimento si esprime attraverso il distacco, l’inevitabile partenza, l’autonomia e la libertà di Katja sempre sfuggente. L’amour en fuite di Lorenzo si confronta dunque con la passione non corrisposta della ragazza che ammette esplicitamente di voler bene ma senza amare: «Povero Lorenzo, perché non sei più ragionevole e più quieto? Io ti voglio bene, ma non posso amarti, sei troppo giovane. Tu sei il mio amico, ma non posso scegliere te, no; per l’amore, per sposare, sceglierò un tipo molto diverso da te» (MI, p. 14). Si tratta nelle Memorie del primo caso di un motivo assai frequente nelle opere di Ottieri, ovvero il bene velle che si oppone all’amore: da questo contrasto sorgeranno numerose relazioni che vedono il protagonista, sempre un alter ego dello scrittore, provare sentimenti non corrisposti per donne necessariamente da amare, sebbene, ma forse proprio per questo, ogni concretizzazione sia fin dall’inizio preclusa. Esempi di questa opposizione sentimentale si ritrovano nel Campo di concentrazione, in Contessa, nel Poema osceno, in Cery e nell’Irata sensazione. Dunque a causa della lontananza, il rapporto tra Lorenzo e Katja si struttura attraverso le lettere, e questo espediente mette in rilievo degli aspetti significativi della vita e dell’opera di Ottieri91. Il suo epistolario, soprattutto dagli anni Quaranta ai Sessanta, si dimostra una fonte inesauribile di notizie e riflessioni sulla società, la politica, la malattia, gli affetti, il mondo culturale italiano. Fin dall’inizio, grazie a una predisposizione già letteraria, si comprende l’attitudine a scrivere lettere non per fini utilitaristici poiché in esse si evidenziano una vasta cultura e una volontà di fare letteratura grazie anche a una ricercata organizzazione delle parti tra racconto e riflessione. Da queste considerazioni, le Memorie, seppur giovanili e opera prima di Ottieri, nascono già mature e riflettono le inquietudini raccontate in forma privata a Fabrizia, Tullia, Francesca, Dora, Vanni. L’altro aspetto, propriamente letterario, riguarda invece il valore delle lettere all’interno del romanzo: infatti il rapporto tra Lorenzo e Katja si anima grazie a un accalorato scambio epistolare, come accadrà nel Campo di concentrazione tra il protagonista autobiografico e Caterina, e in Cery tra Filippo Ciai e le due amanti della clinica. Avevo già spedito tre lettere a Katja senza ricevere alcuna risposta. […] Cominciai nuovamente a attendere la risposta di Katja. […] Due e più volte al giorno scendevo le scale buie per frugare con la punta delle dita nel legno della cassetta delle lettere. […] Smaniavo, piuttosto, facendo fantasie a occhi aperti sul groviglio dei servizi postali: impostazione di Katja, uffici, treni, altri uffici, distribuzione, orari. Una lettera 91 Fin dalla prima adolescenza lo scrittore si dimostra un accanito grafomane riempiendo numerose pagine al giorno per le prime poesie e racconti o per la fitta corrispondenza, di solito con penna stilografica ad inchiostro blu, mentre dagli anni Sessanta userà le penne biro blu o nere; per l’Irata sensazione, scritta all’età di settantotto anni e con molti problemi fisici, Ottieri comporrà addirittura cinque versioni manoscritte. 259 può andare perduta? […] In quei giorni alzandomi la mattina provai ogni volta un malessere maggiore: dopo qualche lettera di nuovo Katja non scriveva più. […] Fui sopraffatto dall’ossessione per il silenzio di Katja non riuscendo a fissare il pensiero su altro. (MI, pp. 35, 37, 83, 87) Il dato più rilevante della corrispondenza epistolare riguarda la faticosa attesa di lettere che non arrivano mai, e il dolore provato dal protagonista riverbera la medesima ossessione del giovane Ottieri per Tullia, Dora e Fabrizia. In ambito psicologico, l’attesa è una dimensione che caratterizza l’atteggiamento psichico rivolto al futuro e dunque intesa come il contrario dell’attività, per cui si attende che l’avvenire diventi presente. Per questo l’attesa è ansiosa, o meglio si parla di ansia da attesa tipica negli psicotici, sospendendo l’attività in cui abitualmente è espressa la vita con il suo conseguente carattere penoso laddove la temporalità è imprevedibile e nessuna esperienza del passato interviene a ridurre lo spazio dell’inatteso. Poiché la distanza, Lorenzo è a Chiusi e Katja a Roma, non si riduce con le lettere, anzi la loro attesa aumenta l’angoscia, il giovane, accompagnato da Claudio, decide anche senza il consenso della sorella di prendere il treno di notte, durante il tribolato periodo dell’armistizio, per vedere la ragazza a Roma. Ma la sera mi lasciò partire, per amore, per stanchezza, per rassegnazione. […] Giungemmo a Roma di notte e decisi di farle visita immediatamente; se non la trovavo a casa, l’avrei aspettata. Avvicinarmi a Katja era sempre un punto in cui il passato finiva e altro cominciava, e nell’emozione, sull’orlo di sfogarsi, vibravano delle fantastiche speranze. (MI, p. 55) Cara Dora, noi ci vedemmo quella mattina in Piazza di Spagna, era di lunedì, il 27, 28 o 29 settembre; ero partito la sera avanti da Chiusi viaggiando tutta la notte, per arrivare alle prime ore. (Ottobre ’43) E le distanze aumenteranno quando Katja annuncia la sua prossima partenza per Venezia, città che coincide nella vicenda biografica di Dora. Katja in un telegramma rivela a Lorenzo il proposito di lasciare Roma per la città lagunare poco dopo l’armistizio; e alla fine del romanzo per telefono gli annuncia il trasferimento definitivo: per Ottieri questa città viene avvolta da un alone di mistero, in quanto sconosciuta, e dove la gelosia aumenta per la lontananza maggiore che lo separa da Dora. Lorenzo! Partiamo stasera per Venezia. Tutta la legazione si trasferisce a Venezia. Così mi raccontò le lunghe peripezie, i preparativi estenuanti per questa partenza rimandata, da un mese, tutti i giorni e che avveniva proprio oggi, la situazione pericolosa di Alex, le buffe tragedie dell’armistizio. Tutti i diplomatici erano sottosopra. (MI, p. 207) Cara Dora, come si sta a Venezia? Appena finita la guerra, cioè quando avrò i nipoti, corro a Venezia. […] Vedi gente a Venezia? Sono geloso degli amici che hai a Venezia. Ma se dovessi dar retta alle mie tumultuose passioni, a quest’ora sarei morto. (Ottobre ’43) 260 III.2 La storia del PSI nel centenario della nascita La tematica politica rappresenta, oltre all’industria e alla clinica, un importante movimento di quella “sinfonia” aperta in cui è strutturata l’opera di Ottieri. Il motivo dell’attualità politica, pur essendo presente fin dai tempi delle Memorie e poi negli scritti successivi, si afferma soprattutto nell’ultima parte della sua produzione con due capisaldi: il poemetto Storia del PSI nel centenario della nascita e il prosimetron Il poema osceno, per poi trovare altre evoluzioni negli ultimi romanzi Cery e Una irata sensazione di peggioramento. La cronaca politica, riferita a un partito in particolare, è un argomento raro nella letteratura italiana e Ottieri la condensa attraverso la malattia che certifica uno stato di crisi non solo personale ma anche del partito, per lui socialista, e dell’autorità paterna con il poemetto Il Padre che si unisce tematicamente alla Storia del PSI insieme al quale viene pubblicato dalla casa editrice Guanda nel ’93. Il privato, come sempre accade in Ottieri, è connesso al pubblico osservando quegli stati d’alienazione che, nella fabbrica come nei manicomi, nei salotti mondani e nella politica, investono non solo lo scrittore ma l’intera società. A tal riguardo Silvia Bocca gli scrive: «Caro Ottiero, il Campiello è sicuramente un’altra cosa. Ma il piacere di leggere te, la Storia del PSI, il tuo papà, la nostra vita, beh, questo è un piacere grande di cui bisogna ringraziare. Silvia Bocca (l’infelice moglie di Giorgio Bocca. Così mi ha definito un settimanale clerico-fascista)» (6 settembre ’93). Ottieri nella Storia del PSI, una tappa del percorso letterario assai distante dalle opere precedenti, si scaglia contro il partito traditore che ha progressivamente abbandonato quegli ideali di giustizia sociale sui quali si fondò nel 1892. Nei versi del poemetto affiora una tristezza mista a ironia, sarcasmo, dolore, malinconia, nostalgia per quello che non si realizzò mai, cioè il socialismo, e anche un rimpianto per la propria presenza intermittente all’interno del partito, dalle riunioni nella sezione socialista della Pirelli Bicocca nel ’48 al non rinnovamento della tessera nel ’51. Ottieri, poeta engagé a modo suo, milita contro un socialismo senz’anima che ha perso i punti cardinali della propria essenza per trasformarsi in qualcosa di diverso. La Storia del PSI fu composta nel ’92, in un anno determinante della politica italiana caratterizzato dallo scandalo di Tangentopoli e dal crollo fragoroso di un sistema corrotto che sembrava arrivare al capolinea; ma anche un anno che certifica la fine dell’URSS, «il Monolite», lo stato socialista per eccellenza. Ottieri tralascia gli aspetti più grotteschi della politica italiana, cui darà ampio spazio nel Poema osceno, per analizzare con maggiore attenzione il disfacimento del Partito Socialista connesso alla sua crisi d’identità. In quanto Storia, si parla del PSI partendo dalla nascita (1892) fino al suo disgregamento (1992), attraverso un secolo di complessi, di rapporti contraddittori con i «cugini» comunisti e con i partiti al potere, di utopie negate e di intrallazzi 261 realizzati, di figure paterne che in alcuni casi hanno tradito. In principio, ciò che ha segnato l’esperienza politica di Ottieri fu il «complesso» vissuto nei confronti dei comunisti, «cousinage mauvais voisinage» (PSI, p. 16), che per cinquant’anni hanno tirannicamente attratto le esigenze e i voti dell’elettorato di sinistra.92 I socialisti avevano il complesso / dei cugini. […] Nelle sezioni si finiva sempre / per discuter passionalmente / dei comunisti. […] Nello stesso tempo / Filippo Turati, in Milano, / non si nomava mai; poco Gramsci. / Attiravamo tutta la sinistra, / Quella / della situazione odio-amore, / paura-bisogno, / nell’inter-azione col Monolite. / Non volevamo essere socialisti solo per questo. / Allora per cosa? / Vivevamo ancora la scissione del ’21? (PSI, p. 15) Quando non avanza qualche ciclone politico nazionale, l’aria si accende fortemente per le beghe. Stasera si è litigato per un litigio con i saragattiani, circa una bandiera e un monumentino a Matteotti. E i rapporti difficili coi cugini comunisti occupano tre quarti delle assemblee: così fra saragattiani e comunisti, la tensione si fa sempre più parentale. (LG, p. 33) Il problematismo esistenziale vissuto dallo scrittore converge non solo con i cattivi cugini ma anche con il «Monolite», l’URSS, interprete protocollare del socialismo mondiale. Il rapporto, o meglio il distacco che il PSI ratifica con i sovietici non può tuttavia lasciare indenni da ingenue giustificazioni. In sostanza Ottieri non si vuole nascondere dietro i crimini dell’URSS, legittimati dalla parte più ortodossa del PCI, perché il valore del socialismo deve superare le diatribe dei partiti; e il refrain non è colpa nostra non esclude il richiamo della pura coscienza socialista. Il nostro vantaggio forte era / che se l’URSS faceva una strage / di un milione di genti, / non dovevamo giustificarla, / giustificarci. / All’URSS mai aderimmo in toto. / È sempre stato arduo / giustificare l’URSS in toto, / e non dico questo col senno di poi, / anche allora i socialisti / soffrivano per evitare / il dissenso di classe. (PSI, p. 10) Il salto che divide è sempre questa Urss misteriosa: accettarla in blocco o in blocco respingerla, anche se i più di noi hanno il dubbio di non poterci andare – finalmente a vedere e decidere sul posto – mai. (LG, p. 34) Al momento del crollo dell’Unione Sovietica, Ottieri è costretto a osservare una situazione particolare in Italia: da una parte i comunisti che l’avevano previsto dopo aver profetizzato una nuova via politica da percorrere, dall’altra i socialisti che, pur lontani dall’URSS, si colpevolizzavano a loro modo per la fine dell’illusione. Il risveglio è diverso e davvero contraddittorio per entrambe le fazioni: 92 Solo per le votazioni dell’Assemblea costituente del 2 giugno ’46 il Partito Socialista, allora PSIUP, poté vantare più voti e seggi rispetto ai «cugini» comunisti: il PSIUP ottenne in quell’occasione 4.758.129 voti (20,72%) e 115 seggi rispetto ai 4.356.686 voti (18,97%) e 104 seggi del PCI. Ad eccezione delle elezioni del 18 aprile ’48 in cui i due partiti si fusero nel Fronte Democratico Popolare con risultati non certo positivi rispetto alla Democrazia Cristiana, in tutte le altre consultazioni politiche il PCI prevalse sempre per il maggior numero dei consensi nei confronti del PSI. 262 Col senno di poi si vede / che, dopo il collasso orientale, / più sono seri certi socialisti italiani / che certi comunisti. / Questi non fanno nemmeno autocritica, / non si suicidano, / freddi non esaminano / i reperti del disastro. […] Molti comunisti d’acciaio / dicon semplicemente / che le cose sono cambiate, / per cui devono essere / cambiate le idee, / e che l’avevano detto. / Non l’avevate detto per niente! / Io non sono paranoico, / voi / siete paraguli! (PSI, pp. 23-24) Ottieri individua in questo passaggio un elemento della più vasta crisi presente all’interno della sinistra italiana che verrà, in modo più critico e feroce, analizzata nel Poema osceno, ossia quella condanna a un’eterna opposizione che non permette di guidare seriamente uno Stato. Condanna derivata da una certa ingenuità e incoscienza della cosa politica che ha soffocato quelle spinte riformistiche volte a trasformare l’Italia in un paese democratico, seppur nei due partiti di sinistra siano apparsi personalità di grande spessore tra cui Togliatti e Nenni. Su quest’aspetto si eleva il grido di disapprovazione di Ottieri: tra complessi, alterità, questioni morali, compromessi storici, convergenze parallele, grottesche non-sfiducie, la sinistra italiana ha perso troppe occasioni per concretizzare i progetti di rinnovamento che spesso sono andati a ingrossare lo sconfinato magazzino delle idee mai realizzate. Il social-psicoanalista Perrotti / avvertì i suoi / e i rossi tutti / che potevano agonizzare / nello stato infantile / dell’opposizione eterna. / Si rischia di stare / all’opposizione fin di se stessi! / Attenti! L’opposizione permanente / è stato mentale / irresponsabile, pur se piacevole, / è stato parassitario, / da cui poi non si può più uscire. (PSI, p. 16) Poiché la Storia come magistra vitae non alimenta le speranze di chi ha molto visto e sofferto, si comprende come in Italia ci sia l’impossibilità effettiva, dalle parole dello psichiatra Perrotti, già presente nell’Irrealtà quotidiana, di un governo di sinistra per un congruo periodo. Dalla batosta delle elezioni del ’48, caratterizzate da propagande messianiche con lo spettro dei cavalli bolscevichi che nitrivano al cospetto delle fontane romane, il Partito Comunista e le altre forze di sinistra hanno dovuto malinconicamente constatare le vittorie della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati-satelliti. Ma il disastro politico è evidente nell’atteggiamento “puerile” che accompagna da allora il modus operandi dell’intellighenzia di sinistra: Ottieri lega l’infantile, come stato mentale irresponsabile, all’incoscienza del fascismo vissuta già negli anni giovanili, quando il buio della mente oscurò un intero popolo. E non si trattò di un caso isolato. Quello che si delineerà in modo più esplicito nel Poema osceno è la visione di un paese di destra, fascista, clericale, e che dal Duce a Berlusconi passando per i gerarchi DC, la percezione della democrazia è sempre stata assai fugace. Per gli intellettuali engagés di sinistra, e Ottieri si conta nel novero, si riscontra una condizione particolare: loro sono sempre di sinistra anche quando essa evapora come un’isola che non c’è: «Gli intellettuali realizzano / che devono, per natura, / stare sempre a sinistra / anche 263 quando non c’è più sinistra. / È il paradosso della nuova sinistra, / insieme a quello che una nuova sinistra / venga da destra» (PSI, p. 25). Ottieri prende spunto da queste riflessioni per trattare la connessione tra la politica e la malattia mentale che parte dalla vicenda biografica per allargarsi ben presto a orizzonti più ampi. In primo luogo fu il principio del piacere che venne negato, sia dai socialisti che dai comunisti, a favore del principio di rivoluzione, con la conseguenza che mai si presentò per loro la possibilità di provare esperienze di benessere anche solo transitorie: «Sia i socialisti, sia i comunisti / scopavano poco e questo / è molto importante, / come si vedrà in futuro. / Il principio del piacere / andava completamente annegato / nel principio di rivoluzione. / Ma la tristezza della classe operaia / sembrava gridare / più di uno sciopero generale» (PSI, p. 10). L’idea di fondare sul piacere il principio di regolazione dell’attività psichica è stata proposta da Gustav Theodor Fechner che ha enunciato tale principio nell’azione da intendersi non come finalità perseguita dall’azione umana, secondo le teorie edonistiche, ma come effetto della rappresentazione dell’azione da compiere e delle sue conseguenze. Partendo da queste premesse, Freud definisce il principio di piacere come la riduzione della quantità di eccitazione, e dispiacere l’aumento della stessa. Tale principio è pensato in opposizione a quello di realtà, nel senso che dapprima le pulsioni tendono a una scarica immediata allucinando, quando possibile, nel sogno o nella fantasia l’esaudimento del desiderio; in seguito, esperimentando la realtà, i soggetti imparerebbero a conseguire una gratificazione procrastinata nel tempo con una condotta meno allucinatoria e più adattiva. Ottieri chiama in causa tale principio per dimostrare che la sinistra italiana, a causa del vulnus che l’ha infettata fin dal principio, rivoluzione sì piacere no, non riuscì mai ad adeguarsi alle varie realtà che si presentavano nel corso della storia. I rivoluzionari di sinistra restano nell’attesa disperante di un disio ben lungi dal potersi realizzare e se qualcosa può cambiare lo farà in peggio; e arriverà il giorno in cui i socialisti si libereranno dalle catene del principio di rivoluzione per guardare con occhi bramosi quell’altro principio da tanti anni accantonato. Questa rivoluzione al contrario si attuerà quando del socialismo, svuotato di ogni senso logico e morale, non resta che il nome, e il PSI guidato dal «Satrapo» infallibile «Asdrubale»93 Craxi diventa un tassello del Pentapartito guidato dalla DC, rinverdendo i fasti di un antico ma moderno trasformismo di depretisiana memoria. Ecco che la Storia, o meglio quel tipo di Storia che si era immaginata, non ha più senso viverla né raccontarla. Il senso invece ci sarà e con una denominazione precisa: Tangentopoli, capolinea di un sistema marcio in cui il PSI ha sguazzato e comandato per molti anni. La Storia del PSI è il racconto in versi di una crisi irreversibile, di una speranza mai realizzata, di un’utopia evanescente e di un dolore quasi indescrivibile. Ottieri tenta di incunearsi 93 Con il riferimento ad Asdrubale, Ottieri vuole riassumere nella figura di Craxi il ricordo dei tre generali cartaginesi aumentando per iperbole le devastazioni compiute dal segretario del PSI. 264 attraverso quel quasi tra le fessure di un dispiacere sempre crescente negli anni. La vicenda storica del PSI attraversa un secolo di politica italiana ed è contrassegnata da alcuni momenti fondamentali che coincidono con gli sviluppi e cambiamenti del Regno d’Italia alla Repubblica. Le tappe di questo percorso storico e politico, Ottieri le rivive passionalmente sovrapponendo in alcuni casi la propria vicenda biografica. Ad esempio, importante fu la costituzione del Fronte Popolare nel ’48 mentre l’Italia si stava ricostruendo dalle macerie lasciate in eredità dalla seconda guerra mondiale attraverso l’unione dei due maggiori partiti di sinistra, il PSI e il PCI; alleanza che rappresentava la continuità con il movimento di Resistenza e del Comitato di Liberazione Nazionale, auspicando, anche se con alcune divergenze, una Repubblica che rinnovasse dal punto di vista sociale e politico il precedente regime fascista. Il Fronte Popolare non ebbe però il riscontro elettorale auspicato in quanto le elezioni del ’48 vennero vinte dalla DC con il 49% dei voti e una maggioranza assoluta con 306 deputati su 574, mentre il fronte si attestò al 31% con soltanto 183 seggi. A risultato acquisito De Gasperi formò un governo di coalizione, il primo di una lunga serie, con i liberali, i socialisti democratici e i repubblicani. Per i socialisti e i comunisti fu una batosta terribile e da allora non si parlò più di alleanze politiche: «Nel Fronte Popolare / ci unimmo passionalmente, / andammo, venimmo, perdemmo. / I cugini si odiavano, / s’accusavano, / ricominciavano da capo. / Non canticchiavo più l’Internazionale, / a sfida, in tram, tornando la notte / dalla sezione in pensione. / Avevamo fatto paura, / ora l’avevamo» (PSI, p. 20). Quell’anno, il ’48, fu importante, oltre che per le prime elezioni democratiche in regime repubblicano, anche per la vita di Ottieri che, a causa degli scontri politici e personali contro i suoi Padri, decide di recidere drasticamente i legami che lo opprimevano nella casa paterna abbandonando Roma, sua città natale, per Milano. Qui si apre per lo scrittore una pagina fondamentale della propria esistenza a causa dei molteplici interessi e dei nuovi mondi con i quali entra in contatto e che saranno determinanti per tanti aspetti della sua letteratura: «Quando mi trasferii da Roma a Milano / non sapeva bene che lo facevo / per fuggire lui e mia madre, / per conoscere, come Simone Weil, / la condizione operaia» (PAD, p. 57). «Procedevo nella marcia / di avvicinamento alla condizione operaia, / anzi, c’ero dentro. Con qual ruolo? / Carbone, compagno, esploratore reciproco, / psico-avventuriere?» (PSI, p. 12). A Milano Ottieri si avvicina alla condizione operaia e nello stesso tempo partecipa all’attività politica frequentando una sezione del partito socialista dove, tra gli altri, incontra il proprio analista: «Musatti, psicoanalista e socialista, dice che il nevrotico, come l’innamorato, è antisociale. […] È il caso dei neurosocialisti» (LG, p. 232). È una situazione particolare perché in un sol luogo e in un dato momento, Ottieri coagula le tre tematiche fondanti la sua letteratura: l’industria in cui vorrebbe lavorare, la clinica con una psicoanalisi e la politica praticandola attivamente. Il ricordo di quel periodo è sempre vivo nei suoi 265 pensieri e riemerge in diverse opere dall’Irrealtà quotidiana all’Infermiera di Pisa alle Guardie del corpo al Padre alla Storia del PSI: Nel 1945 sbucò alla responsabilità con la psicoanalisi e la politica. […] Il marxismo si giovò soprattutto della smania di scoperta sociale. […] Nella metodologia Freud e la lotta all’angoscia rinforzavano Marx e la lotta all’ingiustizia, e viceversa. […] Questa volta Lucioli è stato costretto a una lunga terapia freudiana, cioè una psicoanalisi. (IQ, pp. 175-178) «Nel male psichico / non v’è rivoluzione. / Il rivoluzionario / dev’essere sano» / asseriva forte Musatti / nel ’48 a Milano, / sollevando platee / di neurosocialisti, / che tutti i giorni e tutte le sere / prendevano coscienza, / e portavano avanti la lotta. (IP, p. 30) A Milano / dalla sezione socialista / della Pirelli Bicocca nel ’48. (GC, p. 82) Facevo psicoanalisi con Musatti / che ritrovavo in sezione la sera. / Questo accoppiamento FreudMarx / l’ho vissuto come bisogno primario. (PAD, p. 62) Io invece addirittura / non andavo più nella mia sezione cittadina / dove andava anche il mio analista, / gli davo del tu / in quella / residenza cognitivo-emotiva, / del lei nel setting, / o d’analista stanza. (PSI, p. 12) La psicoanalisi accompagna Ottieri per quasi tutta la vita e si lega indissolubilmente alle diverse esperienze vissute, tra cui la politica. Per lui socialista, «ero assai contento / di essere solo socialista, / vivevo la tensione all’utopia» (PSI, p. 33), il rapporto Marx-Freud sarà determinante per ogni riflessione successiva fino a considerare il partito come un frangiflutti tra il lavoro e l’alienazione, tra rivoluzione e riformismo. La ricerca di nuove verità necessarie / è appannaggio / di un movimento di modificazione nazionale, / di una psico-politica dinamica. […] Il PSI era il partito / che meglio sembrava contenere / l’andirivieni / fra rivoluzione e riformismo / e quella fra cervello e cuore, / fra la Gioia del lavoro / e l’Alienazione, / davvero non gioiosa. (PSI, pp. 25, 32) Ottieri scava in profondità e s’immerge nelle viscere della politica che diventa materia letteraria dove, increibile dictu, è possibile scovare un barlume di purezza, anche se molto spesso la politica soffoca la letteratura: «I socialisti son poeti romantici, / i comunisti novecentisti ermetici. / Il comunismo è la poesia / il socialismo la prosa. […] Gli scrittori insomma / non erano di sinistra vaga, / erano comunisti / e si misuravano con Soviet preciso. […] La testa degli scrittori italiani era russa» (PSI, pp. 22, 26). Di scrittori «comunisti» Ottieri nel poemetto cita Silone, Vittorini, Pavese, Pratolini e Pasolini sottolineando per ciascuno degli aspetti significativi. Perfino Silone / volea del Fucino fare un Soviet, / con Gesù Presidente. / I cattolici e i comunisti / si sono sempre rassomigliati / nel credere in qualcosa / che non si sa che è. […] Non era possibile immaginare / Vittorini alle prese con Nenni. / Non solo erano comunisti, / ma erano felici di esserlo, / di sentirsi soggettooggetto / di una forza la più grande / e di tutte la più logica. […] Raccontando la sua personale / sessuale 266 tragedia, Pavese si lamentava: / Dicono (in ambito PCI) / che P. non è un buon compagno. / Ed egli aveva scritto / Il compagno, pubblicato a Torino. […] Sembrava avverarsi / il realismo socialista italiano / con Metello (Salinari). […] Altro che modello / di sviluppo era Metello! / (Ma tu, Pratolini, / da che cosa / sei stato inghiottito?). […] Pasolini cantava / le Ceneri di Gramsci / in ossimori forti e dolci. […] Il proletariato aveva per lui / senso controverso, / poca ideologia, molta passione. (PSI, pp. 26-29) Innanzitutto essi, da diverse prospettive, si concentrarono sui problemi storici, politici e sociali che investivano l’Italia dal fascismo allo stato repubblicano, dalle macerie del conflitto al boom economico, attraverso opere che hanno filtrato vicende biografiche sempre legate alla realtà della Storia con particolare attenzione ai problemi del proletariato. Tuttavia fu difficile per loro conciliare l’esigenza dell’impegno politico nel PCI con la letteratura, tra la libertà espressiva e le direttive del partito fino a vivere momenti drammatici di dissenso con l’allontanamento dal partito stesso. Attraverso il percorso travagliato della Storia del PSI, Ottieri analizza anche la propria condizione in un cammino impervio che nasconde un passato oscuro per quel fascismo adolescenziale interpretato dall’incoscienza psicologica. La vergogna di essere stato fascista scatena un forte senso di colpa che egli sente pesare sulla propria coscienza e che non può esser cancellato nemmeno con il passaggio alla Resistenza, seppur soltanto intellettuale: «Fino a sedici anni / sono stato un fascista fanatico, / giovinetto borghese intellettuale ingannato! […] Per una Resistenza / in cui volevo passare / dall’altra parte, cancellare l’onta / d’essere stato da questa» (PSI, pp. 14, 20). Se in principio fu il fascismo, la presa di coscienza non tardò a spostare i proponimenti dello scrittore verso migliori acque: «Ripenso sempre alla cerniera fra il 1943 e il 1944, quando finì il mio fascismo e cominciò l’antifascismo» (LG, p. 143). In quegli anni il socialismo che accoglieva Ottieri era quello, tra politica e psicoanalisi, di Nenni e di Musatti, del marxismo ancora attuabile, delle serate in sezione, della Resistenza, di un futuro radioso: un socialismo poetico che sanciva la fine dell’incoscienza e l’inizio di una Vita nova. Eppure nei cento anni del PSI, quello che risalta maggiormente agli occhi di Ottieri è il momento conclusivo, quando il partito stava esalando gli ultimi spasimi nella bieca scorpacciata tangentizia. Poiché in Italia la maggior parte delle vicende politiche desinit in piscem, ovvero delle cose il cui fine non corrisponde al principio, iniziate bene e finite male, la coda del pesce che termina il busto della bella donna ha un volto e un nome preciso: Beneetto Craxi detto Bettino94. Non appena emerge alla luce del sole il nuovo volto del socialismo italiano, quello ottimista e vincente del «Satrapo» Craxi, la realtà sarà più grottesca di qualsiasi speculazione precedente e il socialismo auspicato da Ottieri appare, alla fine, come un labile ricordo ricolmo di nostalgia: «Il partito d’Asdrubale, / che non si capisce perché insista / a chiamarsi 94 Nato a Milano il 24 febbraio del ’34 e morto in esilio ad Hammamet in Tunisia il 19 gennaio del 2000, Craxi fu il primo socialista a ricoprire, nella storia repubblicana, la carica di Presidente del Consiglio dei ministri dal 4 agosto ’83 al 3 marzo ’87. 267 socialista / quando non ha più nulla / di sociale, di socialista, / sta sotto / al capitalismo arraffone. […] Il partito socialista odierno / non è né bravo né stronzo / né socialista. / Che è?» (PSI, pp. 25, 41). In realtà il partito nacque a Genova, il 15 agosto 1892, con la denominazione di Partito dei Lavoratori Italiani in cui confluirono duecento associazioni di lavoratori, gruppi intellettuali e i Fasci siciliani di Palermo e di Catania. Il programma del neonato partito, che sostanzialmente manteneva ancora la vecchia struttura corporativa del Partito operaio, poggiava su tre punti-cardine quali il riconoscimento dell’antagonismo di classe tra capitalisti e proletari, la socializzazione di tutti i mezzi di produzione da gestire collettivamente e l’organizzazione di un partito di classe che ottenesse miglioramenti economici attraverso la lotta di mestieri insieme a una lotta più generale rivolta a conquistare i pubblici poteri, come i comuni e le amministrazioni provinciali, fino allo Stato, per trasformarli da strumenti di oppressione e di sfruttamento in uno strumento per l’espropriazione economica e politica della classe dominante. Nell’anno successivo alla fondazione, nel 1893, il partito durante il secondo congresso tenutosi a Reggio Emilia cambiò la sua denominazione in quella di Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI) ove appare una qualificazione politica specifica, socialista, accanto a una sociale, dei lavoratori: dunque non bastava più essere lavoratori per farne parte ma occorreva essere socialisti. Nel 1895 a Parma, sede del nuovo congresso, si fissò la denominazione in Partito Socialista Italiano (PSI) che resterà in vigore fino al suo scioglimento. Nella parabola discendente del PSI il punto terminale è toccato dallo scandalo di Tangentopoli ma, secondo Ottieri, i prodromi del grave malessere si erano avvertiti già nei decenni precedenti. Come nell’analisi clinica di un corpo malato, il PSI si allontana dalla propria natura appena entra a far parte del governo rappresentato, nei primi cinquant’anni della Repubblica, dalla DC che ha gestito la cosa pubblica. Quella purezza, seppur incosciente e accidiosa della sinistra all’opposizione, si smarrì nel PSI, per Ottieri non più di sinistra e nemmeno socialista. Degli operai si era dispersa la traccia e tra scale mobili e imprenditori d’assalto, il «Satrapo» spremeva le meningi non a favore degli operai ma per gli avventurieri del giorno dopo e di tanti anni futuri: «Il PSI dei famosi poveri / non parla mai. / Gli operai sono scomparsi. / Sono diventati tutti ricchi. / Se sono rimasti poveri non sono più / materiale per ideologia, / né materialistica né idealistica. / La rivoluzione povera frega i poveri. / Solo l’evoluzione ricca / aiuta l’evoluzione povera» (PSI, p. 45). L’ultima scena del poema è emblematica dello sfacelo della politica italiana e del Partito Socialista in particolare: riprendendo la tecnica usata da Dante, sempre attuale nelle riflessioni di Ottieri, di rappresentare un’immagine densa di significati con brevi definizioni efficaci, si legge: «Ora, nella civiltà dietrologica, / Asdrubale sol cerca /di Di Pietro il didietro» (PSI, 46). Ottieri in questi versi si 268 riferisce a un episodio ben preciso accaduto il pomeriggio del 29 aprile ’93 quando la Camera dei deputati doveva discutere e votare l’autorizzazione a procedere contro Craxi chiesta dal pool di Mani pulite95: corruzione, ricettazione, violazione delle norme sul finanziamento pubblico dei partiti; e inoltre il parlamento era chiamato a esprimersi sulla possibilità di sottoporre l’ex segretario del PSI a perquisizioni personali e domiciliari. Craxi fu assolto: l’autorizzazione a procedere venne negata per le accuse più gravi, ricettazione e corruzione, e per le perquisizioni, mentre veniva data la luce verde alle accuse di minor peso. Per Ottieri si era arrivati a un punto di non ritorno; egli osserva lo stato comatoso della politica italiana e comprende che la disgregazione, avvertita e vissuta nei decenni sul proprio corpo, trova un compagno in parte insospettabile nel partito stesso che gareggiava nello sminuzzarsi in una nebulosa di partitini oppure andando a ingrossare il contenitore pubblicitario di Forza Italia: «La nostra cura era suddividerci / a pezzettini, temei che di noi / restasse uno, dimezzato. […] Il PSI pareva contenere / anche la mia disgregazione / sotto il martello pneumatico dell’ansia» (PSI, pp. 9, 33). La Storia del PSI oltre a essere un viaggio che attraversa la politica e la società, è anche una riflessione che Ottieri compie sulla propria persona individuando i momenti salienti della sua vita, così che riesce in pochi versi a riassumere la condizione di imprigionato nelle cliniche, tra un ricovero e l’altro, tra terapie inutili fino a degenerare nell’alcolismo. Il mio indistruttibile / distruttivistico senso oceanico, / o senso del margine, / o senso d’irrealtà, / o senso di umore, / o follia, / faceva squagliare la realtà. […] Faccio fatica a ripercorrere, con datazione, / il cammino. / La demenza non ha memoria. […] La torsione dei ricoveri, / in cui sembra / d’essere in compagnia, / è verso una totale privatizzazione. / La sicurezza desiata / è brutale. / Nulla entrava in testa. / Non c’era posto. / Cominciava a emergere / il disturbo bipolare, / tale da fermare la vita / con inutile barriera di fuochi, / che non si lasciano spengere da vino. […] Mi ha dannato la serpe / della malinconia e mania. (PSI, pp. 33, 38, 39) Un autoritratto impietoso in cui l’autore non toglie nulla al Male che ha caratterizzato il vivere quotidiano ma che, a una lettura attenta degli incastri tra le vicende autobiografiche e politiche, dimostra una preoccupante simbiosi. Essendo eternamente malato ci si domanda: egli osservava tutte le situazioni che gli gravitano attorno in modo negativo poiché diversamente non poteva, oppure la realtà esterna nel concreto gli si presentava più orribile del suo Male, e quindi per lui meglio comprensibile? Saremmo più propensi per la seconda ipotesi. 95 Del pool di Mani Pulite di Milano facevano parte all’inizio Antonio Di Pietro, Francesco Saverio Borrelli, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Armando Spataro. 269 III.3 Il poema osceno Il poema osceno, composto nel ’95 e pubblicato l’anno successivo da Longanesi, unica opera di Ottieri per questa casa editrice, è idealmente la seconda parte del viaggio introspettivopolitico iniziato nella Storia del PSI, in cui Ottieri rivisita la propria letteratura in un confronto serrato con l’attualità italiana. Il poema osceno rifugge da qualsiasi etichetta ponendosi deliberatamente fuori da ogni genere letterario ma inglobandone alcuni aspetti, dal copione teatrale alla sceneggiatura cinematografica, dalla poesia alla prosa, dal romanzo al saggio, dall’autobiografia alla satira politica. Nella forma più immediata il poema appare come un prosimetron, commistione di prosa e poesia, che rimanda alla satira menippea di cui riprende il taglio satirico e aggressivo. In tale coacervo di generi letterari, l’aspetto che risalta maggiormente è quello teatrale a causa della particolare struttura dell’opera: la scenografia è ridotta all’essenziale, in genere interni di abitazioni come soggiorni o camere da letto ma senza alcuna descrizione, le “riprese esterne” saranno solo tre, a Venezia, in una villa toscana e a Pozzuoli comunque di breve durata, mentre i ventiquattro personaggi irrompono sulla scena senza alcun filtro o attesa, come parodie dei diversi aspetti di un’umana commedia, infittendo il poema di dialoghi articolati che nella complessa tessitura distillano un concentrato di pura energia intellettuale. Altro tassello del grande mosaico ordito da Ottieri, per la sua autobiografia perenne, è questo Poema osceno la cui particolarità si riscontra nell’uso insistito dell’ossimoro, dalla vecchiaia del personaggio principale che si sente giovane alla malattia che mantiene in salute, dal vivere in una città del Nord agognando il Sud. Il protagonista di questo ennesimo viaggio nei meandri della psiche, pur restando immobile su una sedia, è Pietro Muojo un nuovo alter ego di Ottieri, vecchio poeta che dopo numerose esperienze letterarie vuole finalmente diventare civile in un difficile periodo storico del proprio paese. L’incipit del poema analizza le condizioni in cui l’uomo si trova coinvolto all’interno della moderna società tecnocratica che ha stravolto quei rapporti naturali cristallizzatisi nei secoli analizzando sia il rapporto uomo-tecnica sia il progresso ambivalente con i suoi effetti imprevedibili e risultati contraddittori: «L’uomo della nostra società non ha alcun punto di riferimento intellettuale, morale, spirituale, a partire dal quale potrebbe giudicare e criticare la tecnica. […] Il maggior pericolo che esso fa pesare sull’umanità non è tanto l’eventualità di misfatti diabolici, quanto la crescita di un’incertezza, fonte perpetua di angoscia» (PO, p. 6). Il tema della società tecnocratica, mercificata e sedotta dalla pubblicità non è una novità nel percorso letterario di Ottieri; infatti già negli anni Cinquanta, al tempo della tetralogia industriale, egli aveva attuato un accostamento tra diverse discipline, letteratura, sociologia ed economia, ampliando poi le riflessioni 270 teoriche in alcuni capitoli dell’Irrealtà quotidiana fino a congiungersi con altri autori interessati al mondo della fabbrica come Volponi e Parise. Tuttavia, nel Poema osceno il rapporto intellettuale più stretto Ottieri lo consolida con il Pasolini96 corsaro e luterano che aveva analizzato, negli articoli apparsi a metà degli anni Settanta sul «Corriere della sera», la condizione alienata dell’uomo moderno in un periodo storico particolare, quello del miracolo economico postbellico in cui il progresso si rivelava come un «falso progresso». Pietro Muojo, dunque Ottieri, vuole diventare civile attraverso ciò che comunemente viene considerato incivile, ovvero lo scandalo assoluto, ricalcando le orme di Pasolini attraverso il riferimento diretto ad alcune opere come la raccolta di poesie Trasumanar e organizzar che filtra nel «non voglio rivoluzionar / organizzar» (PO, p. 26). Ottieri è affascinato dal modo in cui Pasolini si abbandonava a un’inarrestabile oratoria, dove il flusso dell’esistenza personale si identifica nella riflessione e nella polemica, con un’aggressiva denuncia della difficoltà di «trasumanar» (COR, p. 170), cioè uscire dalle condizioni umane date, oltre che delle contraddizioni e delle storture politiche. Inoltre dai versi di Ottieri affiorano dei riverberi tratti dalla tragedia Orgia (’66) in cui i protagonisti, un Uomo e una Donna, rinchiusi in una camera da letto, si estraniano dal mondo per vivere un’apocalittica esperienza di sesso e violenza, con la speranza di liberarsi dall’omologazione sociale imposta dal moderno regime capitalistico, esprimendo in questo modo le rispettive diversità. È il mondo in generale che per Pasolini va bestemmiato (e non a caso la raccolta di tutte le sue poesie nell’edizione Garzanti ha come titolo, voluto dal poeta, Bestemmia) attraverso la poesia pura, ribelle in quanto indipendente e slegata dalle regole commerciali: «Pasolini, sdottoravamo / dall’alto di un miserabile / potere editoriale, / sul tuo verso friulano: / chi ci capiva niente? / Non eri commerciale. / Fortunatamente avevi / di te stima; / noi, di noi, ora meno» (PO, p. 275). Schierandosi sempre controcorrente rispetto alle tendenze dominanti e alienandosi ogni appoggio politico dai comunisti ai democristiani ai fascisti, Pasolini ha delineato un quadro apocalittico della società moderna e in particolare italiana. Figura solitaria, originale e intellettualmente inarrivabile, Pasolini si scagliò contro il proprio tempo con una forza e una passione disperata aggredendo una realtà svilita con le armi della poesia e sottraendosi a qualsiasi tipo di conformismo borghese. Crudeli appaiono i caratteri che il consumismo assume e drammatiche le sue conseguenze come il cambiamento non solo dell’aspetto esteriore di un paese, Pasolini rimpiange gli ambienti rurali della povera Italia contadina omaggiata nelle poesie friulane, ma ciò che lo preoccupa maggiormente riguarda la profonda modifica in atto nell’animo umano ed 96 Incontrastato nel suo percorso intarsiato di coraggio, tra passioni e incomprensioni, Pasolini rappresenta un modello di pensiero e di abnegazione per Ottieri, e dal punto di vista letterario Il poema osceno si struttura a specchio con l’ultimo romanzo di Pasolini, Petrolio, quasi Ottieri volesse offrigli un omaggio estremo seguendo lo sviluppo e i motivi che animano l’opera. 271 evidente in quella «rivoluzione antropologica» che Ottieri amplierà in «merda antropologica», scaturita dalla pubblicità e dalla televisione che hanno imposto nuovi bisogni e modelli unici di vita. La Nuova Preistoria nasce per Pasolini da un progresso senza sviluppo che Ottieri fa risuonare in alcuni versi del Poema osceno: «Canterò un preambolo: l’unico progresso possibile è la critica del progresso. […] Dobbiamo mettere a punto una Critica del Progresso» (PO, pp. 79, 314). Visioni funeste accompagnano le riflessioni di Pasolini, ben documentate nel periodo finale della sua vita, da Salò agli articoli apparsi sul «Corriere della Sera», «Il Tempo», «Il Mondo», e riuniti nei due volumi Scritti corsari e Lettere luterane dove egli constata un altro dopoguerra a seguito di quella rivoluzione tecnocratica che ha distrutto l’Italia «esattamente come nel 1945». Inoltre si ricorda l’ultimo Pasolini anche per la denuncia vigorosa e definitiva della politica italiana rappresentata da quel Palazzo contro il quale egli si scagliò accusando la dilagante immoralità cristallizzatasi nelle fondamenta dei partiti di governo. Pasolini arrivò a proporre un Processo per i gerarchi della Democrazia Cristiana rei di aver fatto marcire il paese in nome della corruzione, ma senza poter osservare con i propri occhi le fasi di quel Processo da lui stesso auspicato perché la sua morte, avvenuta nel ’75, ha preceduto di quasi vent’anni i processi di Tangentopoli. Vigeva, infatti, in Italia un sistema marcio che si autoalimentava in cui tutte le aziende d’una qualche importanza erano sottoposte a una tassazione impropria, le tangenti, a favore dei partiti; ma per poter elargire i fondi in nero, che gli stessi partiti pretendevano, era necessario per le aziende falsificare i bilanci. Tutto questo era illegale ma divenne una “legge” vincolante della politica e dell’economia italiana. Un venticello tirava / di libertà. / Tutti agli arresti, / ai reami interiori, / alla preparazione della morte propria / che non è che interna. […] Siamo innocenti! / Non sapevamo / che cosa ci preparavamo. / Al ladro, al ladro. / Lo sospettavamo / ma avevamo pigrizia e paura. / Criticare l’oligarchia, / padrona dei soldi e del sesso, era / pericoloso. […] I tuoi angeli, Milano, / son solo le top-modelle, / ultime delizie che restano / galleggiando sulle merde. (PO, pp. 103, 127, 171) Lo scandalo, letterario e personale, è stato un elemento costante della vita di Pasolini e di molti suoi personaggi condannati a interpretare quelle novità indecenti contro le quali la società rispondeva con processi, condanne e censure. Ottieri, attraverso le vicissitudini erotico-intellettuali di Pietro Muojo, ne riprende il testimone, continuando con altri atteggiamenti quel percorso che Pasolini, in merito alle condanne contro la corrotta politica italiana, aveva tracciato negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane. Per il rapporto tra letteratura e sesso, «ora ho pene / e penna / maliziosamente / insieme» (PO, p. 9), sarà Petrolio, citato numerose volte nel poema, il modello del Poema osceno: «Pasolini dà coraggio ai giovani. Il protagonista di Petrolio non è mai osceno anche se scopa la nonna; la 272 verità non è mai oscena perché è sempre rivoluzionaria» (PO, pp. 8). Per omaggio al maestro, Ottieri in un passo del Poema ricorda il «pratone della Casilina» descritto da Pasolini nell’appunto 55 di Petrolio in cui il protagonista Carlo si offre sessualmente a alcuni giovani ragazzi dietro i montarozzi del prato, nelle alcove a cielo aperto: «Si fermano davanti a grandi terreni vuoti. Scendono. Si incamminano per una marrana zozza ma pasoliniana. Come tutti i cercatori di alcove a cielo aperto, camminano e camminano, nella ricerca di un luogo paradisiaco, che non esiste: ma tutto lo sembra, per due corpi che tremano di libido» (PO, pp. 8, 201). La presenza di Pasolini si scorge anche in altri passi del Poema osceno, a esempio quando Ottieri cita la Divina Mimesis ponendo l’attenzione sugli stretti legami che possono scaturire, anche involontariamente, tra diversi autori senza tuttavia l’esigenza di scrivere in modo identico mantenendo ognuno la propria individualità. Qui si scorge in Ottieri una plausibile apologia per il suo modo di fare letteratura: nutrito di massicce fondamenta culturali, dove spiccano le figure di Dante e Pasolini, alcuni modelli affiorano, pur sempre con un’autonoma esecuzione originale, nelle sue pagine imprimendone vivacità e acutezza non indifferenti. «La mia invidia per i classici e contemporanei è lenita dalla consapevolezza che non ci posso fare niente. Non si scrive che come si può scrivere, l’ispirazione, direi, non è frutto del volere. Impossibile, anche a un mimetico, scrivere come un altro. Non c’è divina mimesis che tenga. (PO, p. 91) In un altro passo del poema, Ottieri rende un altro affettuoso omaggio a Pasolini, definito un «maestro» insieme a Dante, Gadda, Gramsci e Volponi, «gli ultimi maestri, / perché sono poeti del coraggio, / rischiano la morte / come i giudici a Palermo» (PO, p. 272), modelli di vita che hanno offerto la propria persona, attraverso vatie esperienze artistiche, per un alto ideale di giustizia e moralità pagato a caro prezzo con la morte, la prigionia, l’esilio, processi e condanne ignominiose. Pasolini è morto, / anche se della sua morte / non mi rassegnerò mai. / La sua morte / è più assurda della mia. / Come è possibile che sia mortale / l’autore di opere immortali? […] Egli è incivile o civile, / data l’enormità del suo cazzo / che adorava? / Può essere poeta civile / un poeta dal sesso assurdo? / Egli ha imposto il suo cazzo / con l’armi della poesia civile. (PO, pp. 269-270) Pasolini / non è morto. Mai / è morto. […] Come passa / dall’arte alla vita, dalla vita / all’arte, anche se è passato / dalla vita alla morte. Come passa / da un film a un poema, da un poema / al Corriere della Sera, pericolosa, / per lui fatale miscela. […] Ma tu non lo dimentichi mai: / ti chiedi sempre che scandita / pazienza aveva con la povera Callas. / Che furore quando giustamente / difendeva la povera polizia. […] Dov’è adesso? Dove egli / continua a trasumanar e organizzare? […] Egli è ora di certo accanto a Cristo / e lavorano insieme. (COR, pp. 170-171) Il punto cardine della “corrispondenza d’amorosi sensi” che Ottieri prova per Pasolini è nel suo engagement civile, originale e al di fuori di qualsiasi legame politico, coadiuvato da una ragione che gli ha permesso di analizzare in profondità la concretezza storica e sociale in continua evoluzione. Egli ha offerto, agli occhi di Ottieri, il proprio corpo come un oggetto 273 contemporaneamente di azione e poesia, facendo scaturire una complessa opera letteraria che non potrà essere cancellata dalla storia futura. Il «sesso» chiamato in causa riguarda l’uso che se ne fa: Pasolini utilizza «l’enormità del suo cazzo», dove si staglia imperiosa l’immagine dell’immenso pene ripreso da una scena del Fiore delle mille e una notte, per protestare contro l’omologazione imperante che stava lentamente uccidendo la nuova gioventù. L’immagine del «cazzo», in Pasolini e in Ottieri, si presenta come arma lirica infallibile e utilizzata per protestare contro una realtà degenerata e omologante. Ottieri riprende più volte, nel corso del poema, tale poetica del cazzo, constatata già nelle Guardie del corpo, insistendo qui sulla forza creatrice dell’eiaculazione che dà forma alla propria poesia. La mia angoscia ti esala / in culo. / Essa è la poetica dove le operosità del cazzo / sono raccontate / dalle auto riflessività / del cazzo stesso. / Mi spiego: non vi è solo il cazzo, / ma anche il cazzo / che si penetra. Il quale / rovente / serpeggia / per il tuo corpo bianco. […] La mia azione ubbidisce, / è causata / solamente da cazzo. […] Per fortuna il dilemma / vien risolto dal cazzo. […] Oggi, oltre a quella di letteratura, / c’è una scienza del cazzo. (PO, pp. 36, 37, 39, 44) Il vecchio poeta Pietro Muojo tenta, in numerosi momenti del poema, di capire se esiste una via di fuga da tale mondo perverso, insieme alla possibilità per l’uomo di tornare uomo. Da queste riflessioni riaffiorano le battaglie culturali di Pasolini condotte attraverso quella commistione di generi in cui il trionfo dei disvalori risulta tanto travolgente da non lasciare alcuna speranza per il futuro: emblematico a questo proposito appare il testamento artistico lasciatoci da Pasolini con il film Salò o le 120 giornate di Sodoma, dove predomina il senso apocalittico dell’umana violenza. Una sera discutevamo sul fatto che la società iperconsumistica è interamente consumistica, non tratta valori in sé, ma vende disvalori valorizzati dalla pubblicità. Anzi, preferisce i disvalori, così risulta meglio che divengono valori solo con le arti del marketing, che è il valore. Vendendo se stessa e il modo ottimale di comprare e vendere, la società realizza la sua autocoscienza, Narciso che si guarda nel video. L’uomo, la società, per la via del peccato originale, vogliono il peggio. Quello che chiedono è ciò che fa male. […] Nel consumismo di casa nostra scintillano paraossi e ossimori. L’uomo compra merci anche se non ne ha bisogno e se non ha soldi. […] Questo capitalismo che ormai ci dobbiamo tenere, non può essere nemmeno illuminato, cioè ragionevole? […] Gli elettrodomestici hanno cambiato la faccia del mondo. Pietro, siamo capitalistici tutti e due, perché non si può non essere capitalistici. […] Il prodotto è la cellula della nostra visione del mondo. […] I valori sono le merci, e le banche le nuove chiese. Le luci elettriche dei negozi sono il nuovo Illuminismo. Le mille e una merce. Sistemi di merci, linee di cosmetici. Il neo-consumatore è di nuovo alienato, perché non può comprare tutto, mentre lo vorrebbe. (PO, pp. 77, 81, 83, 84, 122, 204) In tale contesto Ottieri concentra sul proprio paese, su quell’Italia che nel corso degli anni ha trovato sempre più spazio nelle sue opere fino a diventare una co-protagonista nelle disavventure dei personaggi malati, come gli ultimi due romanzi Cery e Una irata sensazione di peggioramento potranno attestare. Il vecchio poeta Pietro Muojo ha deciso, dopo molte opere dedicate a se stesso e alla propria malattia, di allargare gli orizzonti e di occuparsi anche dei fatti della sua nazione, 274 soprattutto dal punto di vista politico. Egli vuole dunque diventare un poeta civile raccogliendo la soddisfazione di parenti e amici; tuttavia civile Ottieri lo è stato fin dall’inizio, dalle Memorie al periodo industriale alla mondanità fino alla Storia del PSI, quindi l’aggettivo è ironicamente indirizzato a chi non lo aveva ancora compreso. Come Pasolini che ammetteva «la morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi», anche Ottieri soffre l’essere incompreso: «Ora non capiscono / dove vado a parare. / Non dicono: che schifezza, / non mi è piaciuto, / ma: non ho capito, / mi disorienti, dove vai a parare? / Non lo capisco più. / Che sia la paura degli abissi?» (PO, p. 170). «Vorrei dare un colpo al sesso e uno alla nazione» (PO, p. 8) è la prima frase pronunciata dal poeta nel Poema osceno, una sorta di titolo per un manifesto programmatico che incanala il suo atteggiamento aggressivo nei confronti di «un’italietta» (PO, p. 246) e del sesso. Il poema osceno è tempestato, soprattutto nella prima parte, di mirabolanti immagini sessuali che richiamano alla memoria alcune scene erotiche presenti nell’Infermiera di Pisa, ma qui il tono si fa ancor più disperato e aggressivo: non un’infermiera che respinge le avances dell’anziano degente, ma una donna di servizio «la piccola signora di Lima, Samantah» con la quale egli elabora un nuovo Kamasutra, improbabile e complicato, eccessivo e osceno (PO, pp. 9-26). Le posizioni descritte si aggrovigliano tra loro e non lasciano spazio ad alcuna riflessione, mentre l’azione sessuale sembra inarrestabile, senza inizio né fine, in una continua ricerca dello scandalo che valga come insegna della personalissima rivoluzione che il poeta vuole condurre con un’intensità addirittura maggiore rispetto al passato. Tutte le parti del corpo sono chiamate in causa in un ardimentoso tourbillon di articolati coiti mentre sullo sfondo compare, sempre più nitida, l’immagine di un paese alla deriva, un’imago mortis deprimente che fa da contraltare alle sorprendenti esecuzioni sessuali del poeta intento a dare, tranchant, «un colpo al sesso e alla nazione». Il vecchio poeta, dopo molte delusioni, disaccordi e amare indifferenze, immagina questo tipo di rivoluzione veicolata attraverso il sesso estremo e non stereotipata in cui egli, nell’intimità della sua casa tra la camera da letto, la cucina, il salotto, condanna senza appello, tra un coito e l’altro ma anche durante, una società che ai suoi occhi non merita alcuna compassione. Grazie a quest’«orgia giuliva» (PO, p. 26) il poeta si allontana definitivamente dal mondo reale proprio nel momento in cui vuole diventare civile, costruendo un artefatto nuovo mondo ritmato da infiniti amplessi che sanciscono lo sgorgare, il verbo che ricorre con più frequenza, impetuoso della rabbia nei confronti di una società che non lo ha mai compreso relegandolo in un cantuccio. Ci si assume, in questo modo, la responsabilità di uscire dalla storia, di essere extrastorici e fuori orario nei confronti di quel mondo borghese che si può confutare con l’unico strumento a disposizione, la poesia estrema, allucinata e strutturata sul sesso che non genera nulla se non la protesta intellettuale del poeta. 275 Il pube silenzioso gridava, / lo trapassavo. / Infernale cazzo / in invernale giugno, / quando lo stato si squaglia / e ho paura. / Non voglio rivoluzionar, / organizzar, io voglio / amoreggiar / privo d’orario, voglio / sistema che protegga, / pensier non vuole cazzo, vuole / libertà di ceto, libera etnia, / libertà di eros, / anche Restaurazione, se favorisce / dissolutezza. Tradisco / gli ideali carnali. / Il porco è sempre fascista. […] Tu sei la mia rivoluzione / privata e pubblica. […] Esigo principio di rivoluzione / che dia piacere, giustizia e libertà. (PO, pp. 26, 27, 32) Esaminando l’Italia Ottieri ricorda, all’inizio degli anni Novanta, l’avvento del partito della pubblicità, Forza Italia, che ha incanalato tutti i malesseri che per molti decenni erano stati schermati dai partiti tradizionali. Per Ottieri esiste un legame molto stretto tra l’antico PSI in cui faceva capolino il giovane Mussolini e il moderno PSI eclissatosi dopo Tangentopoli con il suo mentore Craxi in prima fila sul banco degli imputati, collegato al “nuovo che avanza” ovvero Berlusconi. Via dalla Lombardia, / maledetta terra, culla / di Mussolini, / Craxi e Berlusconi, / Capitale / del capitalismo bestiale, / di un socialismo irreale / peggiore / di quello reale. […] Maledetta destra, / l’ironia è finita. […] Lei, Lei, o Colui, è un Mussolini, / naturalmente rimodernato. / Tutto è uguale nella Storia, / ma tutto è diverso. / Il secondo è un pagliaccio, / non duro, dalla schiena / politica di vetro. / Il terzo è una iena, / mangia tutti i cadaveri / del Novecento. (PO, pp. 167-169) Ottieri analizza le varie tappe che hanno portato al crollo del sistema politico, dal dopoguerra fino alle elezioni del ’94, utilizzando la propria scrittura per redigere una cronaca, un documento letterario che riassume cinquant’anni di storia italiana e dunque anche l’ultimo, per lui insopportabile, decennio. L’atteggiamento che lo contraddistingue, in questa lunga e faticosa ricerca eziologia dei momenti storico-politici che hanno permesso L’inconcepibile 1994, è quello di un «intellettuale di sinistra» (LG, p. 22) molto critico nei confronti dei partiti di sinistra. Dunque in Ottieri non traspare nessun pregiudizio che possa offuscare le proprie indagini, anzi la sua libertà spirituale di scrittore incompreso e appartato gli ha permesso di svolgere delle riflessioni sempre pungenti e legate alla stretta attualità. Tale procedimento è caratterizzato da una disponibilità tragica che lo espone in prima persona a vivere e soffrire, con crescente passione, i malinconici regressi del proprio paese. La natura civile e politica delle sue opere scaturisce da una propensione ad attirarsi la «merda» che attraversa la società, oltre che l’animo e il corpo del poeta, vittima sacrificale della propria scrittura. Ciò che emerge dal testo è un inconsolabile e perpetuo grido di dolore per il gran disio mai realizzato. Chi sono? / Nuova crisi d’identità / mia e dello Stato? / Ma quando, lo Stato e io, / possiamo saper chi siamo? / […] Si spaccasse pure il paese; per me era meglio. L’angoscia pubblica è meno frustrante e vergognosa della privata. Si può anche mostrare con orgoglio di esserne piegati. (Per tutta la vita avrei giocherellato fra Paese e Io). […] Oggi vi è un esaurimento nervoso / civile e pubblico, / che provoca 276 esaurimento / nel privato. Mai tanto avviene / una confusione mentale / negli alti vertici dello Stato, / corrispondente a quella / di un povero privatissimo isolato / schizoide. / Bref. Che fare? Intanto / la disperazione civile che io canto / è una fastidiosa caricatura della / mia disperazione privata? […] Lo stato si sfiducia. […] Io non avverto più l’anima del popolo. Il popolo tecnologico non ha più anima. (PO, pp. 56, 68, 175, 182) Attraverso questa predisposizione tragica che consente al poeta di guardare la realtà dei fatti impegnando la propria persona nella conseguente identità con lo Stato, la poesia fuoriesce da una sofferenza che trova sulla pagina il terreno fertile per esprimersi al meglio. Sotto il suo sguardo attento, l’Italia come entità morale sta perdendo qualsiasi connotato che possa ritenersi civile: «Qui la Repubblica si squaglia, / nello smerdamento generale» (PO, p. 60). Il motivo della liquefazione della Patria Ottieri lo avvertì già alla fine del secondo conflitto mondiale in una lettera del settembre ’43 all’amico Vanni: «In questa lacerazione, liquefazione della patria il cosmopolitismo che è retaggio degli stati fortissimi, è la più amara ironia». L’inevitabile conseguenza è la «merda»97 accostata alla nuova politica italiana, «Non posso / tornare indietro / senza trovarvi ruscelli di merda» (PO, p. 17) che, neofascista, leghista e pubblicitaria, stava accattivandosi le simpatie di miglioni di italiani: «Questo lavaggio non è previsto. È illegale. Non vedete come Fini sta appiccicato a Berlusconi? Questo non lo sopporto. Questa è merda antropologica. […] Qui non si scherza. Dobbiamo prendere coscienza. […] Non più di classe ma di merda. La sinistra è attonita. […] Distonica» (PO, p. 97). L’attualità politica delineata nel Poema osceno verte in particolare sulle trasformazioni avvenute nella società italiana agli inizi degli anni Novanta, dallo scandalo di Tangentopoli al cambiamento esistenziale del PCI, dalla dissoluzione dei partiti di governo DC e PSI alla comparsa di nuove formazioni come Forza Italia e la Lega, alla trasmutazione dei post-fascisti dal Movimento Sociale in Alleanza Nazionale. L’atto conclusivo di tale sarabanda saranno le elezioni del 27-28 marzo 1994, preannunciate nei versi dell’Inconcepibile 1994 che s’insinua nel poema, «ti leggo un pezzettino del mio Poema osceno che ingloba L’inconcepibile 1994» (PO, p. 68), elezioni che rappresentano per Ottieri un punto di non ritorno, non solo per la politica ma per l’intera società italiana98. All’orizzonte si staglia l’alleanza di tre nuove e antiche forze politiche come i neofascisti, i leghisti e Forza Italia che Ottieri osserva come un mostro a tre facce che ricorda «lo ’mperador del doloroso regno» nel cuore della Giudecca: «Questa Destra tricuspide / ci ammazza moralmente. / 97 «Mascalzoni! Niente / giustizia fiscale, niente anti-trust, / succhiate la salute e la vecchiaia, / vergogna, sacco di merda! […] L’Italia deve guarire anche se ogni giorno un sacco di merda, con un braccio ingessato, le propina punture di veleno. […] Italiani, Forza, / avete disgustato gli italiani, / che venga Cesare / Borgia, non sacco di merda. […] Agli italiani piace fare la cura della merda. E quindi piace un ambulante di immagini ed effetti speciali. […] Tromba stonata / e assordante, volgarità / insultante della Jena, / del sacco di Merda, / del servo, del ributtante. […] Nel suo cervello c’è la merda» (PO, pp. 108, 142, 145, 191, 235, 316). 98 «Io non accetto che si pronunci il 1994. In quell’anno remoto non so che cosa potrà succedere dell’Italia e di me. Qui si passa di spavento in spavento» (A Furio Colombo, 11 febbraio ’93). 277 Falange Armata, / Bestia, boia, P2. […] La Tricuspide / vuol cancellare la storia / e la memoria. / Senza la storica memoria / la Grande Proletaria / non si muove affatto» (PO, pp. 235, 250). Ottieri analizza questi nuovi agglomerati politici che assorbono un malessere latente nella società italiana, ma senza disdegnare poi violenti attacchi anche contro i partiti della sinistra dopo il mutamento del PCI e il dissolvimento del PSI. Di ognuna di queste tre facce della Tricuspide, nel Poema lo scrittore passa in rassegna gli elementi caratterizzanti. La Lega Nord è rappresentata dal suo ideatore Gianfranco Miglio il «pensatore grosso, / delle tre Italie, fantasioso / ricostituente» (PO, p. 37), dal pittoresco leader Umberto Bossi, il «boia» (PO, p. 53) e da Irene Pivetti che «in quello scranno di Montecitorio / è un incubo nuovo» (PO, p. 228). C’è dolore misto a ironia nelle parole di Ottieri perché i leghisti rappresentavano un movimento di protesta che trovava ampio risalto in una nuova forma di battaglia politica nel condannare il corrotto sistema politico con il suo cuore pulsante a Roma ladrona. Ottieri inviò nel giugno del ’97 una lettera in forma di articolo a Giancarlo Borsetti, allora vicedirettore dell’«Unità» con alcune considerazioni sulla Lega Nord, non meno oscene e difficilmente pubblicabili sul quotidiano. Il leghismo è fascismo. È niente altro che un moncone di quel fascismo italiano perenne, individuato da Gobetti – che ne fu ucciso – e realizzato alla grande da Mussolini. Avemmo poi il MSI, l’Uomo Qualunque, AN e ora la Lega. Se il fascismo di Mussolini si coagulò con l’Impero, l’attuale si sostanzia con le tasse. Padre che questo leghismo dia voce a un disagio reale, prima quello lombardo ora quello veneto. Ma quale disagio? È per caso l’esistenziale malessere del benessere? No. Dipende dal mito nordico, ora longobardo ora celtico ora serenissimo, dell’Esentone. […] Tale malessere è antidemocratico e antiparlamentare, cioè fascista. Il fascismo cronico va combattuto con un antifascismo cronico, cioè perenne. Il leghismo fascista si manifesta come disprezzo della Repubblica, del suo Presidente, del Parlamento e delle sue Commissioni, da queste i leghisti entrano e escono al bisogno, come dal cesso. Data la familiarità coi gabinetti, il loro linguaggio è familiare col cazzo e con la merda. La loro cretineria è gretta, colpevole, ignorante, dà involontari colpi di maglio alla cultura, involontari perché non sanno quello che pensano. […] Dalle camicie nere, alle brune, alle verdi. Naturale! La vera gente è variopinta, è scamiciata. Come sintomo di fascismo cronico, non funzionale ma organico, con occhio sempre teso sul paramilitare, la Lega non deve venir sottovalutata, anzi sopravvalutata. […] La Padania da farsa si trasforma in forza e alla forza non si contrappone che una forza contraria e maggiore, la forza delle idee, la più auspicabile, ormai è spenta. (27 giugno ’97) Il tono di Ottieri cambia, diventando più feroce, non appena si affrontano le problematiche riguardanti gli altri due partiti della coalizione di destra: i neofascisti e i pubblicitari. Per i primi il suo pensiero travalicava molti decenni, essendosi sviluppato in lui il distacco dall’adolescenza fascista per approdare al più maturo socialismo, e soprattutto riscontrando un atteggiamento anacronistico negli esponenti del Movimento Sociale. La novità scaturita dal congresso di Fiuggi nel gennaio ’95, che portò alla costituzione di Alleanza Nazionale, attesta per Ottieri un ritorno all’incoscienza che egli aveva vissuto e trascritto nelle Memorie giovanili. Dopo cinquant’anni i 278 neofascisti possono di nuovo partecipare alla politica italiana garantendosi dei ministeri e in futuro, chissà, anche la presidenza di una camera. «L’Italia ha una malattia cronica: il fascismo, e sovente vi si inserisce un’infiammazione. Allora il fascismo è doppio. […] Il fascismo rientra, / fingendo, in Parlamento. […] Il popolo italiano / non è sovrano, / è incosciente, / nella immane / raccolta di merci / e di squadristi. […] Maledetta destra, / l’ironia è finita. […] L’atmosfera fascista è una nube nera che si aggira per l’Europa, foriera di grandinate» (PO, pp. 142, 166, 167, 168, 178). Agli inizi degli anni Novanta il MSI si presentava rafforzato dopo gli stravolgimenti del quadro politico derivati da Tangentopoli, potendo così entrare per la seconda volta al governo (la prima fu nel ’60 nell’infelice esperimento del governo Tambroni), dopo aver raggiunto uno storico 13,4 % alle elezioni del ’94 che gli consentì di pretendere cinque ministri: Giuseppe Tatarella, Altero Matteoli, Ariana Poli Bortone, Publio Fiori e Domenico Fisichella. Escluso per decenni dai centri lottizzati del potere democristiano, il MSI-AN non portava, fosse merito suo o delle circostanze, il marchio della corruzione contro la quale si era anzi battuto; e inoltre, nello sfaldamento del centro e in particolare della DC, gli elettori si vedevano costretti, volenti o nolenti, a rafforzare le ali. Gianfranco Fini, giovane segretario del MSI, aveva un disperato bisogno di uscire dal ghetto in cui il partito era rimasto per troppo tempo; desiderio legittimo per chi, in quegli anni torbidi, poteva mostrare una legittima patente d’incorruttibilità rispetto a quasi tutti gli altri partiti del cosiddetto arco costituzionale. Dunque a Fini premeva d’affiancarsi a Berlusconi almeno quanto a Berlusconi premeva di cattivarselo: un matrimonio per sdoganamento che tuttavia entrava in aperto conflitto con l’altro alleato, Bossi, che detestava qualsiasi patina fascistoide dell’alleanza. La ripulsa d’ogni avvicinamento al MSI era stata una costante, spesso venata d’ipocrisia, della vita pubblica italiana e infrangere questo patto, l’antifascismo era scritto nella Carta costituzionale, avrebbe garantito a chi avesse osato farlo un corollario di polemiche interminabili. Ma il momento politico non ammetteva tentennamenti, quel matrimonio s’addaveva fare: la destra, da sempre bollata come neofascista, e per alcuni aspetti lo era ancora, dopo aver subito la ghettizzazione politica e culturale, vedeva per la prima volta la luce. La terza e più inquietante faccia della Tricuspide è Forza Italia che nacque nell’estate del ’93 e a novembre già contava 800 clubs che Ottieri senza troppi tentennamenti vuole «alla forca» (PO, p. 53), 1200 a dicembre che divennero in breve tempo quindicimila. Per la prima volta nella storia di un paese occidentale, uno schieramento politico, destinato ad avere grande consenso e forte influenza sugli avvenimenti futuri, nasceva come un prodotto industriale e veniva lanciato con una seria e metodica operazione di marketing: «Ha fabbricato un nuovo partito in due mesi / di impegno incivile. / Gli intellettuali con gli studenti / e gli invisibili operai – / così l’Occidente li ha schermati 279 – / si faranno vivi? / Sono adesso grigi, intontiti / dal vorticoso risucchio della Testa Rossa» (PO, p. 163). L’ideologia berlusconiana, una miscela di deformato liberalismo economico, di efficientismo industriale, di populismo ottimista fino all’inverosimile, di anticomunismo viscerale, non era davvero innovatrice giacché tutti i partiti dell’area moderata avevano in parte predicato per cinquant’anni le stesse cose. Molto diverso, e qui si concentra l’attenzione di Ottieri, è il dinamismo con cui questo messaggio veniva propagandato in modo vorticoso con la pubblicità attraverso l’etere, i giornali, le riviste. Una tempesta elettromagnetica d’immagini e suoni in cui Berlusconi non si stancava mai di ripetere, dal giorno della fatidica discesa in campo del 26 gennaio ’94, che il suo ingresso in politica era stato determinato dalla volontà di scongiurare per l’Italia un regime comunista. Da qui il grido disperato del poeta: «Sì, nemico mio, / aggiusta pure l’Italia, / io, o idraulico o elettricista, / per alto ideologico dissenso, / te la rompo / sotto il naso» (PO, p. 164). Il dilemma politico che ha accompagnato gli ultimi anni della vita di Ottieri ruotava intorno agli stessi quesiti: Come è stato possibile? Perché ciò è avvenuto? Quale tipo di democrazia è quella italiana? Come arrestare lo scempio? La risposta la darà lo stesso Ottieri attraverso le sue opere: dall’Inconcepibile 1994 si passerà all’Irata sensazione di peggioramento del 2002, attraverso un vortice incessante di nequizie, tradimenti, ridislocazioni, ribaltoni, immunità parlamentari, riesumazioni di politici corrotti, processi bloccati, prescrizione come unica regola d’inefficiente giustizia. Il sentimento di disastro incombente sull’Italia provato da Ottieri, dal punto di vista sociale e politico, fu tutt’altro che Inconcepibile se si osserva con oggettività la storia: «Gli italiani si cercano sempre un Cesare. Quello odierno vuole conquistare gli operai di Torino e i nobili di Roma. Divarica la forbice al massimo. È ottimista. L’importante per lui è che i sudditi siano ignoranti, come lui. Persino coloro che hanno fatto la terza media gli fanno paura. È abituato a servi sciocchi d’ogni ceto. […] Il neo-duce è contronatura. È disomogeneo, è un aratro cieco» (PO, pp. 82, 152). Ottieri mette in risalto gli inquietanti aspetti che hanno permesso l’ascesa di un complesso personaggio come Berlusconi: in primo luogo la necessità secolare degli italiani di servire un Re, un Imperatore, un Duce (italiano o straniero che sia) di turno, una figura forte e furba che si è fatta da sé e che ottiene la maggioranza dei consensi. Per quanto riguarda l’ottimismo, esso si riallaccia alla politica del PSI, definita nel cuore degli anni Ottanta ottimista sotto la guida del «Satrapo» Craxi. Sul bisogno di avere sudditi ignoranti, il riferimento che fa Ottieri è provocatorio: “Sua Emittenza” si laureò in giurisprudenza con una tesi, molto elogiata e anche premiata, dal titolo Il contratto di pubblicità per inserzione dove si vede come già fosse forte la vocazione del giovane studente per l’occupazione che lo impegnerà per tutta la vita: vendere. Vendere case, spot televisivi, sogni di posti di lavoro, e anche la politica all’interno di un sistema capitalistico mercificato dall’orrore della depravazione culturale e dall’omologazione sociale: «Colui non è che il re delle merci, per di più 280 elevato a trascendenza. Sembrava che varcassimo la palude merceologica, le sabbie mobili del giro finanziario. Arriva uno che allarga la palude. Egli continua a ingigantire tutto ciò che volevamo rimpicciolire. Peggiora il peggio» (PO, p. 152). In attesa delle elezioni del 27-28 marzo ’94, gran parte del mondo politico e degli ambienti intellettuali preferirono ridurre Berlusconi a simbolo della mediocrità infuriante, dimenticando però che poteva contare su un enorme monopolio privato, profeta del popolo minuto plagiato quotidianamente dagli imbonitori televisivi che si avviava, sic et naturaliter, a consegnarsi all’imbonitore maximo (Berlusconi appunto) difensore integerrimo, tambur battente, dei diritti dei singoli cittadini contro la protervia del Regime. Attraverso tale lubrificata macchinazione autolesionistica, l’apparatchik della sinistra arzigogolò che i gusti e le simpatie di milioni di italiani, da lì a poco chiamati ad esprimere un preferenza, incollati al televisore erano spregevoli e il loro quoziente d’intelligenza infimo. Inoltre Berlusconi proponeva un nuovo modo di far politica con l’identificazione di uno sport, il calcio, per scardinare l’ormai logoro sistema politico. Il calcio che «non è più uno sport, è una commedia dell’arte. Gioisco all’idea che venga distrutto dal comico» (PO, p. 286) entra numerose volte “a gamba tesa” nel Poema osceno99, ed è un caso particolare nella letteratura di Ottieri in quanto lo sport, e il calcio in particolare, non appare quasi mai tra i suoi interessi100. «Tutti i mister sono molto riflessivi. Capello è il più riflessivo di tutti. […] Noi non sappiamo come fermare il suo imperialismo. Avanza. Capello agli Interni, il Trap agli Esteri, Sacchi alla Famiglia. Sarà un governo di tecnici» (PO, pp. 133, 152). Ottieri gioca con l’arma dell’ironia tagliente per dimostrare la coincidenza clamorosa tra il governo di uno stato democratico e la formazione di una squadra di calcio. «Sarà un governo di tecnici» è una frase che i cittadini italiani ricordano fin dagli albori del Regno d’Italia, trasformismo annesso, quindi sovrapporre l’immagine di tre tecnici, allenatori, mister, a posti considerevoli come gli Interni o gli Esteri può apparire una normale consuetudine. Oltre ai tecnici, nel novero dei ministri Ottieri immagina che Berlusconi possa inserire qualcuno di famiglia come la seconda moglie Veronica Lario, «tornato da Palermo, / come saetta, / mette […] la Lario alla Giustizia (PO, pp. 133), oppure una soubrette come Ambra Angiolini di Non è la Rai, «ha 99 Ottieri, che osservava a suo dire distrattamente i campionati del mondo di calcio svoltisi negli Stati Uniti nell’estate del ’94, pochi mesi dopo le elezioni, riporta nel Poema osceno alcuni riferimenti alle partite disputate dall’Italia con dovizie di particolari sulla tattica e sui giocatori: «Piazza la validissima / squadra (un poco sfortunata) / in 4-3-3. Poi cambia / in 5-3-2, scompagina così / il mister nemico. Ed anche / i suoi ragazzi / li fa divenire / nevrastenici. […] Signora, non vede che suo marito / è un Baggio? / Quale? / Roberto. / Ah, meno male. / Vedo male il povero Dino. Giocherà Baresi?» (PO, pp. 398, 399). 100 Anche se c’è un particolare della vita di Ottieri che induce a pensare che lo sport, almeno in gioventù, lo interessasse. Lo racconta nella Biografia di mio padre la figlia Maria Pace quando descrive il primo incontro dello scrittore con Silvana Mauri, sua futura moglie: «Leggeva la Gazzetta dello Sport - ricorda Silvana - aveva l’aria sperduta, mi disse che era solo, non conosceva nessuno. Lo invitai a cena da noi e l’indomani si presentò con i fiori» (CRO, p. 174). Di passioni sportive, si ricorda in gioventù soprattutto il ciclismo; Ottieri seguiva con interesse il Giro d’Italia apprezzando le gesta di Bartali. 281 offerto ad Ambra il Ministero della Famiglia» (PO, p. 152). Alcuni anni dopo, nel 2008, per il terzo incarico di governo, Berlusconi offrirà un ministero proprio a una ex soubrette, l’onorevole Mara Carfagna alle Pari opportunità, ma Ottieri non riuscì ad osservare con i propri occhi questa curiosa situazione da lui prospettata quindici anni prima. L’altra novità clamorosa apportata da Berlusconi con la sua «discesa in campo» si constata nel connubio tra Potere politico e televisivo confluito in una sola persona che devastò gli equilibri presenti all’interno dell’arco costituzionale. Da Telemilano in poi Berlusconi sparigliò la concorrenza arruolando figure di spicco dell’etere come Mike Buongiorno, Pippo Baudo, Raffaella Carrà. “Sua Emittenza” voleva comprare il meglio a qualsiasi prezzo facendo improvvisamente lievitare i compensi e anche i costi della Rai che fino a quel momento gestiva da padrona assoluta la kermesse televisiva. La volgarità dei programmi televisivi è posta al centro delle riflessioni di Ottieri che, in molti punti del Poema osceno, critica una situazione intollerabile: con Non è la Rai in testa, passando poi ai telegiornali di Emilio Fede, l’angoscia inchioda il vecchio poeta a un’attonita partecipazione alla realtà deplorevole. L’avanzante frantumazione delle immagini, alla tele, Italia 1 in testa, ci frantuma l’occhio e il pensiero. Il consumismo non si sgretola. Ci sgretola. Ha ragione la mafia. Chi non spara, non mangia. Il video spara. […] Non è la Rai / è il cavallo di Troia / del primo pomeriggio. / Ahi, il sesso vero, puro, / è a destra ed è quotidiano. […] Berlusconi è il Mussolini di Rete Quattro. (PO, pp. 98, 151, 161, 169, 171). Dopo aver tracciato il nuovo corso della storia italiana attraverso la ribellione sessuale, assolutamente personale e oscena, concepita come unica possibilità di estraniazione da un deprimente status quo, Ottieri non può tralasciare quella parte, ed è consistente, di opposizione politica che inevitabilmente sta a sinistra. Dal fascismo adolescenziale, ricordato nelle Memorie, lo scrittore diventa socialista anche grazie alla conoscenza diretta del mondo operaio nelle fabbriche milanesi e alla lettura spirituale del marxismo: «Sono un intellettuale di sinistra, sono venuto qui per esserlo, come uno va a frequentare una scuola di un’altra città. […] A Genova per il congresso del PSI. Sono o non sono? Sono o non sono socialista?» (LG, pp. 22, 27). E come uomo di sinistra, Ottieri non può sorvolare su quelle espressioni politiche che avrebbero dovuto fronteggiare l’escalation inarrestabile di Berlusconi. Il tono è cupo, aspro, mentre affiora una straziante critica verso quell’atteggiamento fallimentare dell’intellighenzia di sinistra che, nella narcosi di uno spossante rinnovamento, non si accorse del pericolo che giungeva via etere. «Sono un picchiatore di sinistra. / Non c’è che spengere la paura / a destra, con un cazzo portato a sinistra. […] La sinistra piange troppo, ha il complesso dell’opposizione. […] La sinistra è un bisogno, non può stare che a sinistra. […] Il mio impegno civile e duro / si ammolla / nella umida inconcepibilità / della Sinistra al governo, / poiché la Sinistra / regna ma non governa. / Non ha trovato ancora / un grimaldello fattivo / per l’autocritica politica. / Deve discolparsi / per i suoi amori / sovietici, il culto / di Stalin. 282 Autocritica. / Non posso / che essere a sinistra, / non posso avere dubbi, / è primario istinto» (PO, pp. 53, 79, 103, 230). Sommando tutti i fattori politici e sociali, L’inconcepibile 1994 trova in Ottieri una sua logica stringente: in altre parole sarebbe stato impossibile che non fosse accaduto. Eppure, ed è questo l’aspetto davvero drammatico del Poema osceno, resta lo sbigottimento del vecchio poeta. Non importa più il come ed il perché ciò sia accaduto, è lo stesso Ottieri che lo spiega con estrema lucidità, ma conta soltanto che è accaduto e per di più in una forma così volgare: «Nella primavera del ’93, / tutta tesa nella spasmodica, / fobica attesa del ’94, / molto si disse di vano. / Non ci si aspettava davvero / il trionfo dei tre ladroni morali, / del dittatore panamense, / della macchietta bauscia, / del redivivo, italico neonazista, / bieco dietro volto discreto» (PO, p. 231). Ottieri constata, come riassunto emblematico del suo Poema osceno, che l’Italia è tendenzialmente di destra, non democratica, comandata da una moderna dittatura televisiva, fondata sulla corruzione e sulla criminalità organizzata, e monca nello spirito di una sinistra che non può essere né opposizione né maggioranza. Nella Seconda Repubblica nata a metà degli anni Novanta è davvero mutato qualcosa in questo passaggio storico? «Per ora mi è impossibile scrivere giambi sulla seconda repubblica, perché non so se c’è» (PO, p. 139). In effetti il terremoto provocato da Tangentopoli aveva modificato le apparenze della politica italiana lasciandola tuttavia, lo si percepì nei mesi successivi, invariata nelle sue fondamenta. I riciclaggi d’ogni genere furono all’ordine del giorno sotto il segno del cambiamento, certo, ma che impietosamente facevano trionfare quella sorta di continuatismo che avvelenava il contesto politico. Quasi tutti i protagonisti emergenti e superstiti avevano ascendenze e aderenze nel Regime travolto dagli scandali, così che ai più attenti, ma non era difficile capirlo, la Seconda Repubblica assomigliava tanto alla Prima da coagularsi in essa. Il voler diventare un poeta civile, nel proposito che apre il Poema, si deve necessariamente scontrare con questa realtà immutabile che si presenta di continuo sotto il suo sguardo: «Ogni anno il peggio è peggiore. Vengono Governi che aumentano i disvalori e chiamano i valori disvalorissimi, non convenienti in Città Convenienza. È la schiumetta schifosa della camorra, che risale l’Italia fino a suturarsi con la mafia alpina» (PO, p. 77). Se il Parlamento è corrotto, poiché i suoi seggi e poltrone sono occupati in alcuni casi da personaggi collusi con la criminalità organizzata, le leggi che vengono licenziate da tale organo di Stato, si domanda Ottieri, come si possono considerare se non una protesi, ben riuscita, della malavita? A rischio perenne e quotidiano c’è la democrazia tout court: «E la democrazia esiste? / Non esiste. Troppo il pensiero democratico, / astemio, / colmo e maturo, è triste. / È tempo di generazioni, / migrazioni, marmellate, 283 neoalienazioni, / o italietta, nell’intervallo. […] La democrazia, per l’Italia, mi sembra platonica» (PO, pp. 103, 320). Il poema osceno è un’opera estrema sotto tanti aspetti e lo stesso autore ne era consapevole durante la stesura così lunga e spossante di oltre cinquecento pagine. I riscontri favorevoli non mancarono da parte di molti critici che scorsero il raggiungimento di una poetica sofferta, complessa e armoniosa. Renzo Guidieri, ad esempio, scrive a Ottieri: Stimatissimo Dottor Ottieri, desidero esprimerLe la mia più sincera gratitudine per avere scritto uno dei libri più belli che io ricordi negli ultimi tempi (sto lottando per non dire negli ultimi vent’anni). Il suo Poema osceno è un libro maestoso e ricco quanto il deposito alluvionale del Gange. Credo che Lei abbia scritto uno dei pochissimi libri della nostra epoca, uno di quelli che solo gli scrittori veri vorrebbero scrivere. Sono contento che lo abbia fatto lei. (1 marzo ’96) Edoardo Albinati, comprendendo in pieno l’humour del poema, scrisse a Ottieri (il 5 marzo ’96): «Ecco il frutto nascosto, il figlio proibito. […] Mi viene voglia di gridare: Forza Ottiero!», mentre Pia Pera intravede nel testo una spiccata corrispondenza con il Petrolio pasoliniano: Carissima silhouette di Hitchcock, ho appena finito di navigare per il tuo poema, dove ho trovato pregi e difetti assai simili a quelli di un libro che ho amato moltissimo; Petrolio: sarà la materia, per la sua natura smodata e, per l’appunto, ingovernabile, non so, ma i lampi di genio, e i versi che si ha voglia di rileggere e ricordare, più che incastonati, galleggiano alla deriva, in attesa di qualcuno che li salvi, eppure salvarli ha altrettanto poco senso, forse, che guarire, e insomma sono rimasta risucchiata nel gigantesco paraosso che hai costruito, e alla fine mi è parso che, nonostante l’invettiva e la sofferenza civile e l’istigazione all’impegno (!), la musa e lo spiritello dispettoso del poema siano altri. (16 aprile ’96) Mario Luzi è invece attratto dal «flusso liberatorio» del poema: Caro Ottieri, Il poema osceno ricapitola e espande tutte le ragioni della mia considerazione e della mia simpatia per il suo lavoro. A parte il gusto per l’arguta dissacrazione, che non è poco, è l’infinito dicibile flusso liberatorio e l’intrecciarsi dei vari pensamenti e infrapensieri che mi attrae. Un tipo di poesia altra che acquista progressivamente nella lettura la sua forza di persuasione e di convincimento. (18 maggio ’96) Ottieri, da bad-sellerista navigato, in una lettera inviata a Beppe Agosti il 12 settembre ’96 pubblicizza il poema in questo modo: «Le sconsiglio di leggere il mio libro, che sconsiglio a tutti. Esso è: faticoso, ripetitivo, eccessivo e noiosissimo. Notoriamente io e i miei personaggi diciamo ma non facciamo». Au contraire il libro venne letto anche da chi nel poema rappresentava suo malgrado lo «smerdamento generale» del Paese, ovvero Oscar Luigi Scalfaro allora Presidente della Repubblica italiana che conferì a Ottieri, attraverso un telegramma del 27 giugno ’96, «l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana» che sarà consegnata nelle mani dello scrittore il 5 settembre del ’96. 284 III.4 Una irata sensazione di peggioramento Una irata sensazione di peggioramento rappresenta l’ultimo atto di un percorso letterario che Ottieri ha ordito fin dalla prima esperienza delle Memorie. Il romanzo uscirà pochi mesi prima della sua morte e ne sancisce, cronologicamente, il testamento letterario in cui emergono in modo esplicito le ultime volontà di Ottieri, come se egli volesse riassumere, condensare, concludere, anche con numerosi riferimenti alla morte incombente, una vicenda autobiografica iniziata cinquant’anni prima. Si tratta di un romanzo-testamento che volutamente non si chiude, in cui l’ultima pagina presenta una spezzatura strutturale nel dialogo interrotto tra due personaggi a colloquio. Il vuoto che si apre dopo l’ultima frase potrebbe essere un ammiccamento di Ottieri nei riguardi del lettore, un arrivederci più poetico di un definitivo addio dopo decenni di confronti, analisi, rifacimenti, intrecci, confessioni interminabili. Ottieri lascia dunque in eredità una “sinfonia” non conclusa, e non poteva essere altrimenti a causa del progetto letterario cui si dedicò per tutta la vita. Il titolo del romanzo venne scelto da Ottieri per un verso di una canzone ascoltata dal nipote Leon figlio di Maria Pace: si tratta di Irata del gruppo CSI (ex CCCP) estrapolata dall’album La linea gotica101 di ottieriana memoria: «Oggi è domenica, domani si muore / Oggi mi vesto di seta e candore / […] Per un’irata sensazione di peggioramento / di cui non so parlare né so fare domande / Di cui non so parlare né so fare domande». I versi «Oggi è domenica, domani si muore / Oggi mi vesto di seta e candore» furono ripresi dalla poesia di Pasolini Oggi è domenica che fa parte delle Poesie a Casarsa scritte in friulano e raccolte nella Nuova gioventù102. Per quanto concerne il verso «Una irata sensazione di peggioramento», questo fu ripreso e leggermente modificato da una frase estrapolata dal primo capitolo del romanzo Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio.103 Ottieri ricorda la scelta del titolo del suo ultimo romanzo in una lettera inviata al «grande amico operaio anarchico di Porto Marghera» Ferruccio Brugnaro: «Caro Brugnaro, bellissime le tue poesie [Non pugnalate la pace, inviate a Ottieri il 26 settembre 2001]. Come sempre è in sintonia coi sentimenti di ogni giorno. Ho appena finito il libro che ho consegnato all’editore e che uscirà in primavera. Si intitola Una irata sensazione di peggioramento. Un mio nipote [Leon] dice che è una canzone: dovrò forse denunciarlo alla SIAE» (11 ottobre 2001). Brugnaro gli risponderà il 2 novembre 2001: «Speriamo di uscire presto da questi giorni orribili in cui sulle coscienze sta calando un buio infernale» in riferimento agli ultimi sviluppi politici, ovvero i primi passi del 101 Linea Gotica dei CSI venne pubblicato nel gennaio del ’96 da Polygram. PASOLINI Pier Paolo, La nuova gioventu: poesie friulane, 1941-1974, Einaudi, Torino 1975, p. 14. Nella versione italiana: «Oggi è Domenica, / domani si muore, / oggi mi vesto / di seta e d’amore». 103 FENOGLIO Beppe, Il partigiano Johnny (1968), Einaudi, Torino 1994, p. 6: «Con una irosa sensazione di peggioramento». 102 285 secondo governo Berlusconi cogliendo, senza ancora averlo letto, il nucleo tematico del romanzo di Ottieri. Il protagonista dell’Irata sensazione è un nuovo e ultimo alter ego di Ottieri, Pietro Mura, scrittore alcolizzato cronico che «come alcolista, era un automa. […] Viveva solo per bere e il bere scandiva le sue giornate» (ISP, p. 23), il quale decide in extrema ratio di rivolgersi a uno psichiatra e tossicologo di Torino, Carlo Migliorini, immagine romanzata di Luigi Gallimberti104, per tentare una nuova cura disintossicante dopo quelle passate, rivelatesi infruttuose. Il cognome del medico stride volutamente con il titolo del romanzo nel conflitto tra miglioramento minimo e peggioramento dilagante che trionferà, anche se ci si chiede da dove il peggioramento possa scaturire: c’è stato un qualche miglioramento prima e nessuno se n’è accorto? Luigi Gallimberti ricorda il giorno in cui la moglie di Ottieri, Silvana Mauri, lo incontrò per un appuntamento: Era il 21 dicembre 1989 quando Silvana Ottieri, una signora gentile e disperata, mi implorò di aiutare suo marito a farlo smettere di bere perché non sapeva più cosa fare. Venne nel mio ambulatorio e mi consegnò una lettera a nome del professor Cassano di Pisa che recitava testualmente le seguenti parole: «Il signor Ottiero Ottieri di anni sessantaquattro si è ricoverato nella nostra casa di cura nell’ottobre 1988. Al momento dell’ammissione il quadro clinico era caratterizzato da iperansietà con agitazione psicomotoria, iperventilazione, tremori, sudorazioni, nausea e vomito. Nelle ore precedenti il paziente aveva assunto notevoli quantità di alcol. (Convegno, pp. 20-24) All’inizio della terapia, Ottieri rivela a Gallimberti quando e perché, da astemio, iniziò a bere verso la fine degli anni Sessanta, facendo riferimento alla difficoltà nel portare a termine un libro che lo spinse ad assumere una quantità sempre maggiore di alcolici. Da allora in poi l’alcol, come si è riscontrato in numerose circostanze, sarà una presenza assidua e inquietante nella vita e nelle sue opere. La mia storia con l’alcol è cominciata all’improvviso dopo i quarant’anni: non riuscivo a finire un romanzo, mi sentivo ultra angosciato, e io che ero non astemio, ma astemissimo, ricorsi all’alcol come anestetico. Mai più smesso. […] Allora il professor Cassano mi ha indirizzato dal Dottor Luigi Gallimberti dell’ospedale di Padova che disponeva di un nuovo farmaco per la dipendenza alcolica. (in E liberaci dal male oscuro, p. 429) Ottieri riverbera in Pietro Mura frammenti della propria biografia, dalle origini toscane all’infanzia a Roma, la fuga a Milano, l’impiego a Pozzuoli, le avventure da eterno playboy e dongiovanni patologico, l’impegno politico, i disturbi psichici, la disgregazione di sé insieme all’amore per la vita, lo scrivere, la senilità non accettata, la depressione infinita, la dipendenza 104 Luigi Gallimberti è psichiatra dalla formazione psicoanalitica e tossicologo medico. Dirige la tossicologia clinica delle farmaco-dipendenze dell’Azienda ospedaliera Università di Padova, dove insegna tossicologia clinica e psichiatria delle farmacodipendenze. È autore del libro Il bere oscuro (Bur), che, basandosi su innovative scoperte scientifiche, spiega come e perché si può diventare tossicodipendenti e morire a causa dell’alcol. Ottieri nel romanzo scriverà: «Migliorini stava scrivendo un libro, Il vero è oscuro» (ISP, p. 57). 286 alcolica, il sentimento della morte. Grazie a Pietro Mura, Ottieri esegue un viaggio a ritroso attraverso tutte le tappe della sua vita di scrittore, dalle Memorie a Cery; un rewind di un’esistenza dolorosa e nello stesso tempo intrisa di coraggio e di sfrontatezza nel raccontare, da una prospettiva letteraria, ciò che in genere si è tentato di negare come la malattia mentale, l’alienazione degli operai, il degrado sociale e politico. Ottieri, da scrittore abile a giocare sui rimandi, parodie e rifacimenti, dissemina il testo di una nebulosa fitta di elementi, immagini e motivi che riassumono una storia particolare e per certi versi inquietante. L’Irata sensazione si presenta dunque come un angulus costruito con tenacia e lucidità dallo scrittore che voleva ritagliarsi uno spazio intimo e riflessivo dove poter riflettere con rabbiosa saggezza sugli eventi passati e presenti della sua vita. Con quest’ultimo romanzo Ottieri chiude il cerchio di un viaggio lunghissimo, ma senza mettere il punto; infatti la conclusione, che non è tale, presenta tre puntini di sospensione al racconto: «Anche se non ci pensi, non sposti di un centimetro il mistero…» (ISP, p. 184). Un epilogo che equivale a un incipit. In principio furono le Memorie dell’incoscienza, romanzo e cronaca del dopoguerra, filtrate attraverso il primo alter ego dello scrittore, l’adolescente Lorenzo Bandini dilaniato dall’impossibilità di partecipare concretamente alle vicende storiche e sentimentali della sua giovane vita. L’incoscienza esistenziale e politica di quel periodo travagliato non perde vigore nemmeno cinquant’anni dopo, e Ottieri la ricorda con passione emotiva che non diminuisce col trascorrere dei decenni, dilatandosi anzi in odio: Il Grande Somaro da Salò ragliava ormai troppo puledrescamente forte, nitriva, urlava come uno stallone nell’estremo macello. […] L’idea forte della pazzia si distraeva, in Pietro, con l’odio. L’odio per quei figuri in maschera che, volendo fare dell’Italia un Impero, l’avevano martoriata e rasa al suolo. Mi sta bene che il fine giustifichi i mezzi. Ma non quando il fine è la fine. (ISP, p. 41) Il Padre della patria che ha tradito avvolgeva i ricordi dello scrittore con l’altro Padre, quello naturale, cui collegare l’infatuazione infantile per il fascismo che si trasformerà dopo il ’43 in feroce antifascismo per poi raggiungere le più mature tendenze socialiste. Il fascismo aveva fatto in tempo a insegnargli l’irrazionale logica della presa di potere. In famiglia il suo Padre-padrone era troppo di un nero acceso e bastonatore, perché egli non divenisse di un rosso acceso e bombarolo. Da allora egli odiava, caso mai in segreto, anche l’ombra di un padrone. […] Il padrone è la discarica dei doveri, quando uno troppo ami i diritti. Il padrone è il faro. È così amato e disiato che gli italiani hanno prima voluto, poi sopportato il fascismo. (ISP, pp. 30, 171) Dal punto di vista sociale io sono sempre stato un uomo di sinistra, lo rimango. Sono sempre stato contrario a ogni forma di padronato, di capeggiare. Il capo, l’amministratore delegato, sono sempre state figure che ho al massimo preso in giro. (In «Milano Metropoli») 287 Nella cronologia a ritroso che Ottieri plasma nell’Irata sensazione, un posto di rilievo è occupato da Milano città dove ha vissuto per più di cinquant’anni dopo la fuga da Roma. Milano rappresenta la dissoluzione di ogni umanità e comprensione, il trionfo dell’Italia ciarliera e populistica, della pubblicità trionfante, dei partiti costruiti col marketing. Milano «Città convenienza» (PO, p. 77) plastificata e sudicia il cui cielo è inesistente, finto o nella migliore delle ipotesi grigio, a specchio di una realtà che presenta i volti di Craxi, Berlusconi e Bossi che governano una città che ha venduto l’anima al demonio del commercio, schiava dell’unica divinità realmente funzionale, il Dio Denaro, in cui lo stridore delle ferraglie economico-tecnologiche confluiscono su un’anima derelitta e silenziosa. Non esiste in nessuna parte del mondo un cielo finto come quello di Milano. […] L’aria stagna della città di Milano, ammutolita dall’unica anima che aveva, l’anima del commercio, era perforata, percossa dal suo unico strillo, a tecnologia sempre più avanzata: il silenzio del volto umano. […] Scristianizzato avrebbe ritrovato persino un Dio, l’indiscutibile Dio Soldo. Si può vivere senza Dio, ma non senza soldi. Questo è Dogma. […] Il cielo di Milano è grigio, notoriamente, come il fumo di Londra, e varia dalla cartapesta, alla carta igienica, alla carta asciugante, alla carta copiativa, alla carta carbone. […] Solo uno nato a Milano sopporta, non s’accorge del cielo di Milano. […] Pietro costruì un nuovo teorema: solo i nevrotici, i bipolari non tollerano il cielo di Milano e forse nemmeno la sua terra di puro asfalto. (ISP, pp. 31, 38, 45, 55, 79) Nell’Irata sensazione di peggioramento Ottieri rielabora delle situazioni rimaste in sospeso o che comunque richiedevano altre puntualizzazioni, sempre attese in una poetica aperta e per volontà dello scrittore non conclusa. Il tema politico entra con prepotenza nelle pagine di quest’ultimo romanzo in cui Ottieri dà voce a un disagio che ha radici molto remote nei riguardi della società italiana e della condizione riprovevole del proprio Paese. Di invettive poetico-politiche Ottieri aveva disseminato le opere precedenti, Storia del PSI e Il poema osceno, ma nell’Irata sensazione il tono si fa ancor più cupo perché oltre alla constatazione del degrado travolgente della politica italiana, nello scrittore si aggiunge il proprio stato psicofisico che lo sta avvicinando consapevolmente alla morte. Fisicamente spossato da decenni di terapie e ricoveri nelle cliniche, stanco nella continua ricerca di una guarigione sempre illusoria, lo scrittore giunge alla soglia degli ottant’anni a stilare i conti con se stesso. Con lo sguardo rivolto all’indietro, Pietro analizza gli eventi passati facendoli confluire nel presente che, a sua volta, apre piccoli spiragli verso un breve futuro caratterizzato dalla morte: «In più Mura metteva in campo la sicurezza di una morte anagrafica imminente e desiderata» (ISP, p. 73). Tale aspetto evidenzia con maggiore schiettezza il valore testamentario del romanzo nel quale convergono alcune riflessioni già elaborate da Ottieri nel De morte, un saggio narrativo del ’97 strutturato in due parti in cui il motivo della morte era predominante: 288 «La specie umana è l’unica che sappia di dover morire» dice Voltaire. La morte si dichiara un privilegio dell’uomo. […] È Morte l’alto premio della Vita. […] Io sono, appunto, intimo con la morte. Non me ne vanto, familiarizzo con essa, sono suo cugino. (MOR, pp. 22, 25) Una cosa nuova squarciò le tenebre umane: la morte. Pietro cominciò a riflettere su questo evento degli eventi umani, che nella vita affonda pungiglioni velenosi, anche se vengono rimossi, specie in una civiltà che ha fatto del futuro e dell’immortalità il suo fine. (ISP, p. 58) L’epigrafe posta per introdurre De morte è dedicata «All’amico Luigi Gallimberti che mi ha traghettato e spinto a preferire la verità», unendo idealmente le tematiche affrontate nello sviluppo romanzesco dell’Irata sensazione dove il Dottore è trasferito nel personaggio di Carlo Migliorini. Nel De morte Ottieri condensa i propri pensieri, oltre agli studi sull’argomento, in vari ambiti da quello religioso al clinico, psicoanalitico, culturale, antropologico, osservando da vicino la morte anagrafica che tuttavia già da molti anni lo sovrastava in qualità di depresso cronico che, come appurato nel Campo di concentrazione, trascorre la propria vita in un inferno, in uno stato di morte apparente: «Il pensiero della morte è un sintomo tipico del pensiero della depressione, ma il senso della morte è più indispensabile al senso della vita» (MOR, p. 11). Se le riflessioni nel Poema osceno si consideravano estreme, definitive oltre che oscene, con il sopraggiungere di una fine imminente, l’ultimo impegno si dilata a sviscerare con le residue forze rimaste una realtà pietosa. Il percorso di Ottieri nell’ambito politico raggiunge il suo apice e conclusione proprio nell’Irata sensazione dove egli compie una “autopsia” letteraria sul cadavere della Repubblica italiana circoscrivendo un ragionamento iniziato nelle Memorie dove, per motivi storici ben definiti, si era già esaminata la morte di un’altra Italia, quella fascista e adolescenziale. Nell’Irata sensazione Ottieri pone l’attenzione sulla dissoluzione del PSI, la crisi irreversibile della sinistra italiana, Tangentopoli, l’avanzata impetuosa del partito pubblicitario Forza Italia guidato da Berlusconi, senza disdegnare le tumultuose durezze della Lega. Niente di nuovo nei contenuti, eppure è nel modo di proporli l’essenza dell’opera: la proiezione dell’Irata sensazione è riflessa all’indietro, a differenza dei testi precedenti nei quali la rabbia e lo sdegno dello scrittore si coagulavano in una visione futuribile seppure senza speranza; mentre qui è il passato che viene sviscerato in ogni momento storico, politico e personale al fine di razionalizzare un presente insopportabile insieme a un futuro che non può esistere a causa del decesso, parallelo e contemporaneo, dello scrittore e del Paese. L’unica costante riguarda lo stretto legame che Ottieri conserva con l’attualità, dimostrando anche in quest’ultimo romanzo la consueta predisposizione a non tralasciare la realtà storica nel corso di una narrazione autobiografica. Non sto rischiando io questo libro perché dimostrazione non solo della necessità di narrare la contemporaneità, ma anche la attualità? […] La passione di bilancio di Pietro – fisiologica a fine Millennio – 289 si affaccia sullo scacco matto. La sua passione letteraria per l’attualità si sporge troppo. […] Chi veramente soffre questa esagerata affezione di Pietro per l’attualismo? (ISP, pp. 112, 117, 118) Alla celebrazione del funerale, un personaggio si eleva tonitruante su un Paese intero: è il «Cavaliere azzurro» che con un esercito ben addestrato e al seguito un plotone variegato di televisioni, marketing, pubblicità, lacchè di Regime, ha conquistato la politica italiana già in quel famoso Inconcepibile 1994 e non sembra che l’esperienza debba concludersi nell’arco di pochi mesi: Un Cavaliere azzurro scese in campo di brutto e conquistò l’Italia, senza altre armi che tre divisioni e era a cavallo d’un semplice ronzinante. Impiegò meno tempo di Carlo Magno, ma come lui mise nei massimi posti di tutto il povero paese suoi vassalli che generarono vassallini o squadre di «bravi». La televisione privata si appropriò anche della televisione pubblica. […] Al re della televisione privata cadeva in mano il frutto maturo della televisione pubblica, e alle sue tre televisioni ne aggiungeva altre tre. Con sei televisioni il potere oggi ne aggiungeva altre tre. Con sei televisioni il potere oggi è assicurato per sempre e non lascia il minimo pericoloso spiraglio di libertà. (ISP, p. 70) La conseguenza diretta fu l’esaltazione perversa di un Parlamento che per molti anni licenziò, attraverso la maggioranza della cosiddetta Casa delle Libertà: «Diffidiamo, nella città in cui s’incentra il Polo delle Libertà, d’ogni annuncio di libertà» (ISP, p. 156), leggi anticostituzionali salvavita e ad personam che si sommavano in ogni ordine del giorno per un unico fine, ossia la protezione con rafforzamento del Potere. Agli occhi di Ottieri lo Stato si trasformò in un’azienda, un mercato dove si commercia la democrazia tra una compravendita irregolare e misure permissive all’illecito sfrenato, unitamente a abusi edilizi, condoni, collusioni con le organizzazioni criminali, distruzione paesaggistica, dissesto delle opere pubbliche, annichilimento della ricerca scientifica, leggi liberticide a danno della laicità dello Stato, processi che inevitabilmente muoiono per la prescrizione del reato. Il re del mercato era il Presidente del Consiglio, cioè dello Stato. La vetero-conflittualità fra Stato e Mercato andava in frantumi, lo Stato era un Mercato. Già il grande statista Craxi aveva preannunciato e praticato nei fatti il Partito mercantile. […] L’Italia non se ne pente, perché ha lasciato eredi, soprattutto Uno, corruttore di fama. I partiti sono un business, di costruzione, e di vendita e lui li ha commercializzati, superbo, sprezzante, con mussoliniana bocca, ghigno beffardo, sputando e sputtanando la legge. Egli era al di sopra di qualsiasi legge e della morte. Ha finalmente commercializzato la politica, rendendola, come una merce, valore d’uso e valore di scambio. Ha reso le sezioni di partito punti di vendita. Egli ha accumulato potere, coi suoi effetti collaterali, le donne, bisogno impellente, imperioso di ricompensare i fedeli minimo con ministeri. (ISP, pp. 110, 158) Gli elementi messi in evidenza da Ottieri non si distanziano dalle riflessioni già espresse nel Poema osceno quali il Potere mediatico, poltrone e ministeri agli amici, estinzione della reale libertà di stampa, mercificazione della politica, eppure Otteiri avverte la necessità di puntualizzare 290 gli accadimenti recenti perché il disastro storico-sociale che si stava abbattendo sulla Repubblica italiana, uscita già malconcia dal ciclone Tangentopoli, era davvero un unicum nelle democrazie occidentali: «Il ricatto, l’imbroglio, anche, meglio, l’imbroglio come invenzione originale, l’arroganza delle famiglie, lo scippo reale e simbolico, la prepotenza, la volgarità e la scemenza incosciente, sostenuta da una ignoranza che pesa come un analfabetismo, dilagano sotto la coperta blu di Macherio che ne è l’alfiere. (ISP, p. 180) Giuseppe Pontiggia, in una lettera inviata a Ottieri pochi giorni dopo l’uscita nelle librerie dell’Irata sensazione, evidenzia questo fondamentale aspetto dell’engagement civile dello scrittore: Caro Ottieri, mi ha molto colpito, nel tuo romanzo, la violenza lucida con cui il caos esistenziale rivela il degrado civile. Ci vogliono coraggio, invenzione, energie, linguaggio giocato in tanti registri, insofferenza radicale per tutte le forme di dissimulazione e di menzogne. E tu sei riuscito a nobilitare ancora una volta, e in forme nuove, queste risorse. (19 giugno 2002) Quando non esiste più la vera libertà nella società in cui si vive, il poeta altro strumento non ha che la propria opera dove poter effondere quell’essenza di autonomia intellettuale unita a una protesta poetica, tuttavia ineseguibile nella realtà dei fatti ma proprio per questo più alta, energica e sognatrice. Cosa rimane in un paese “dittatorialmente” dominato dalla pubblicità televisiva e da un partito-marketing se non sognare? «Il sogno è più della vita» (ISP, p. 67). Da una lussuosa villa lombarda, dove più villeggiare si lavora, da valli, convalli, laghi, piane venne giù una marea merdosa che inondò tutta l’Italia. La guidava un Cavaliere nero o azzurro, in arcione a una miriade di televisori, dominò le piazze e si infilò in tutte le case degli italiani, quasi simultaneamente. Il prodotto che vendeva e che molto era amato era il Potere in sé. (ISP, p. 148) Ottieri compara a un’invasione di barbari la discesa in campo di “Sua Emittenza” sull’Italia ancora intorpidita dopo le gozzoviglie post-tangentizie. Da quel famigerato Inconcepibile 1994 non esisterà nella politica italiana una contrapposizione dialettica realmente politica tra i vari partiti poiché, nella realtà dei fatti, questi si sono liquefatti. Crollate le due forze maggiori del parlamento come la DC e il PCI, e mentre nostalgie e rimpianti si quietarono in vista degli auspicabili a rieccoli, il polverone di energie da sinistra a destra cercò di riunirsi in un unico agglomerato che potesse garantire l’equilibrio tra amici sulle poltrone di Camera e Senato. Il Partito Unico si è formato, con leggerezza, grazie all’impegno dei solerti e sempiterni burattinai e burattini di regime che fingendo di azzuffarsi quotidianamente tra le porte socchiuse di curiosi spettacoli televisivi, hanno costruito un Palazzo ben fortificato anche con graziose merlature da dove a turno i dimoranti urlano in modo sguaiato per non dire machiavellicamente nulla. 291 Essi si rimboccano le maniche, cacciano le mani nel ventre della terra e s’arrangiano direttamente con le piccole unghie, gridando; quello che conta è il risultato. Noi badiamo ai fatti. Impeiscono di parlare, costringendo a tenere sempre la bocca aperta, dove infilano ferri, pieni di odio da scoppiare. Astuzia volpina, violenza lionesca. (ISP, p. 154) Dunque le riflessioni di Ottieri investono l’intero arco costituzionale di cui il Presidente del Consiglio occupa lo scranno più alto, ma per comprendere davvero gli sviluppi politici che hanno puntellato questa realtà sfavorevole è necessario analizzare anche quella parte del Sistema che, almeno su basi teoriche, avrebbe dovuto opporsi a Berlusconi divenendone in breve tempo un volenteroso connivente e strenuo difensore del Potere acquisito: «Sto affrontando il problema del Potere» (ISP, p. 60). Se la forza principale di Berlusconi consisteva in una supremazia mediatica senza ostacoli, per quale motivo i governi di centrosinistra, durante i cinque anni di governo dal 1996 al 2000, non hanno mai approvato una legge sul conflitto d’interessi per limitare tale anomalia italiana? Ottieri, che si autodefinisce un «picchiatore di sinistra» (PO, p. 53) , comprende che dietro l’avanzata inarrestabile del «Cavaliere nero o azzurro» (ISP, p. 148) si staglia la scelleratezza dei partiti di sinistra condannati biologicamente all’opposizione e dilaniati da querelles intestine atte soltanto a polverizzare energie: A sentir parlare di destra e sinistra, Pietro regolarmente si accendeva, si incazzava, tanto la sua mania politica era esasperata, esasperante, entrava in ogni pietanza, non spezia, veleno. […] Il fronte rosso (ma quale?) lo considera un alieno, però nel giusto. […] È il colmo! Essendo da lungo tempo di sinistra, Pietro ha da lunghissimo tempo pensato il Concetto di sinistra, e tutti questi piccoli pensieri si raggruppavano in un gomitolo duro contrario alla sinistra, per lo meno alla sua possibilità di essere partito di governo. Un amico più anziano, psicoanalista e socialista alla vecchia maniera – il maestro ideale per lui – , gli aveva insegnato che la sinistra ha un tale Complesso di Opposizione da tremare psicologicamente alla sola idea di divenire Maggioranza. (ISP, pp. 85, 100, 111) Per Ottieri la Storia è finita: «È oggi la più grande rivoluzione della storia. È morta la storia. La nostra storia è il futuro. Il futuro del futuro» (ISP, p. 143). Da questi stravolgimenti tecnici, la Storia può essere facilmente riscritta con un lapis di sangue sgorgato dalle numerose pugnalate inferte alla schiena dello Stato. Riabilitare sembra la parola d’ordine o il diktat del Nuovo che avanza; e chi meglio del «Satrapo» Craxi, l’uomo della provvidenza per Berlusconi nei momenti più opportuni, può esser preso ad esempio dalla cattiva magistratura italiana che condanna gli innocenti? «La riabilitazione di Craxi ci ha inferto il colpo mortale per mano della Restaurazione, così esagerata, così “ineluttabile”. […] Bettino Craxi, grande statista de li mortacci loro» (ISP, pp. 126, 157). È un vero e proprio Repubblicidio quello in atto, e i colpevoli si trovano a ogni latitudine parlamentare, sociale, politica. Di chi è la colpa? Si chiedeva qualche anno prima Ottieri; ora la risposta potrebbe apparire banale, retorica, inconcludente: tutti sono colpevoli, dall’elettore al 292 politico, dal Primo Ministro al Capo dello Stato, dal Nuovo che avanza ai partiti di sinistra, dallo scrittore al telespettatore. Da qui il peggioramento, non più ironico del titolo, travolgente, immenso, definito: l’Italia è morta. Peggioramento della sua nazione, questo peggioramento del paese è tale da travolgere tutto. […] L’Italia è una Repubblica sfondata da Berlusconi – come recita il primo articolo della nuova costituzione. […] Mentre lo Stato, e figuriamoci il senso dello stato, si squaglia come un bel gelato imponente, invendibile (la cultura non è economica, quindi deve sparire a favore non dell’antiromanzo, bensì dell’anticultura), al cosiddetto Presidente del Consiglio non resta che impiccarsi. […] «Il mio male è l’Italia». La frase lapidaria non fu presa tanto sul serio, in tempi divenuti poco risorgimentali e molto scherzosi, quizzistici, pubblicitari. […] 1 dicembre 1999. Altissimi uccelli dall’ampia apertura alare volano alti su quel che rimane di una Repubblica sconquassata dall’estremismo dei moderati. (ISP, pp. 52, 149, 152) 293 BIBLIOGRAFIA AFFINATI Edoardo, Ottiero Ottieri, uno scrittore nuovo, in «Nuovi Argomenti», 4, luglio-settembre 1995, pp. 113-119 AJELLO Nello, Lo scrittore e il potere, Laterza, Bari 1974, p. 83 ALBINATI Edoardo, Ottiero Ottieri, Vi amo, in «Nuovi Argomenti», aprile-giugno 1989 AMOROSO Giuseppe, Ottiero Ottieri, in La realtà e il sogno. 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