NARRATIVA
IMMERSIVA
CORSO BASE DI SCRITTURA
CREATIVA E SCENEGGIATURA
IL DUCA DI BAIONETTE
“PADRONI DEI PRINCIPI,
NON SCHIAVI DELLE REGOLE”
Autore: Marco Carrara (Duca di Baionette)
Illustrazione del Duca: Manuel Preitano
Versione dell’opera: 4.0.2
primo gennaio 2020
Questo manuale è rilasciato per solo uso personale: è
vietata la vendita e il noleggio dell’opera senza il
consenso dell’autore. Chi desidera questo manuale può
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versione aggiornata. Trovi questo corso anche sotto
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Copyright © 2012-2020 Marco Carrara
P.I. 03977040165
duca@agenziaduca.it
1
SOMMARIO
Sommario............................................................................................ 1
Introduzione Generale .................................................................. 7
Premessa: le Basi della Narrativa ............................................. 15
Che Genere di Narrativa?......................................................... 17
Cos’è la Literary Fiction?....................................................26
I Principi della Narrativa .........................................................29
Una Sola Teoria per Prepararli Tutti ................................. 42
Cos’è la Teoria e come usarla ................................................ 47
Che cos’è la Teoria? ............................................................. 47
Come si usa la Teoria? ....................................................... 50
Perché dovrei prendere sul serio la Teoria? ................ 53
Prima Parte: la Scrittura Immersiva ....................................... 55
Introduzione alla Scrittura Immersiva ............................... 56
Il Filtro del Personaggio .......................................................... 67
Poi, dopo, mentre, quando ................................................86
Problemi di Preveggenza ................................................... 87
Diventare il Personaggio .................................................... 88
Una riflessione sul Narratore e sul Punto di Vista ..... 91
Le Cornici Narrative ........................................................... 94
Il Filtro e il Narratore Inaffidabile .................................. 95
Mostrare ciò che causa la Persuasione .......................... 96
Raccontare non è davvero un’opzione ..........................98
Non rivolgersi al Lettore .................................................. 101
1
Autore Implicito e Penetrazione ...................................103
Il conflitto etico Opera-Lettore ..................................... 105
Il Filtro soggettivizza la realtà ........................................ 107
L’Autore Implicito non è l’Autore Fisico .................... 110
Sommergere l’Io ..................................................................113
Come Scrivere i Dialoghi ....................................................... 117
Attenzione alle Voci nel Vuoto ...................................... 126
Il Pericolo dei Gerundi ..................................................... 128
Avverbi di modo .......................................................................131
Aggettivi con moderazione .................................................. 135
Evita le formule di incertezza ............................................. 137
Infodump: rigurgitare spiegazioni ..................................... 142
Termini tecnici e unità di misura ...................................... 147
Riflessioni Conclusive .............................................................157
Seconda Parte: Sceneggiatura ................................................ 160
Introduzione alla Progettazione delle Storie .................. 162
Cos’è una Storia? ...................................................................... 164
La Storia “Base” ................................................................... 164
Le Storie parlano di Cambiamento .............................. 169
Difetto Fatale e Fallimento: rendi la Storia “personale”173
Esempio: Ruggero il Senza Paura ..................................175
Esempio: l’Aspirante Ristoratore.................................... 177
Trova la Storia Personale nel Grande Contesto ....... 178
Escalation del conflitto e Sofferenza ................................ 183
Esempio: Paolone lo Zampone ...................................... 183
Intensificare il Conflitto ................................................... 185
Esempio: Gino l’Imprenditore ....................................... 188
L’importanza della Sofferenza ....................................... 188
Le Scelte Morali ...................................................................... 190
La Premessa .............................................................................. 197
2
Una Riflessione sul Viaggio dell’Eroe ............................... 212
L’Arco di Trasformazione del Personaggio .................... 216
Dall’interno all’esterno ..................................................... 219
Tre conflitti, una Storia sola .......................................... 222
Tema e punto di vista tematico .................................... 225
Bilanciare la Storia: i tre atti............................................ 231
Empatia: il Segreto delle Storie Migliori........................ 243
La Paura.................................................................................244
La Pietà ..................................................................................245
Moralmente Giusto non significa Santo ..................... 247
Empatia non è Simpatia .................................................. 249
Comicità e Satira ............................................................... 249
Posta in Gioco: per cosa stai lottando? ............................. 253
La Gerarchia dei Bisogni Umani ................................... 257
Non cambiare la Posta ..................................................... 260
Un problema fisico è un Difetto Fatale? .......................... 263
Se il personaggio è grasso, questo cosa significa? .... 264
E se si tinge i capelli? ........................................................ 266
E se ha un naso enorme? ................................................. 269
Riflessioni Conclusive ............................................................ 271
Ringraziamenti............................................................................ 273
Bibliografia Consigliata ............................................................. 277
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Davvero ben fatto il manualetto del Duca, tanto che avevo
pensato fosse stato un nostro allievo del mitico corso Script/Rai,
quello che per quindici anni ha formato una nuova generazione di sceneggiatori di grande serialità, tra cui, tanto per citare
quelli dell’ultima più famosa, gli autori di Gomorra.
Invece, non essendo stato così, questo lo rende ancora più
bravo, perché quel manualetto contiene in sintesi l’essenza delle
strutture narrative e delle modalità espressive di scrittura più
efficaci per chi voglia raccontare una storia.
Dino Audino
Editore di manuali per sceneggiatori e scrittori
Fra tutti i percorsi che ho provato, il più concreto (nonché con
il rapporto qualità/prezzo migliore in assoluto) è stato quello di
Agenzia Duca: l’approccio severo e preciso di Marco Carrara
mi ha insegnato il rigore della scrittura trasparente, che mi ha
permesso di scrivere romanzi di cui sono orgoglioso, e che negli
anni seguenti mi hanno dato tante soddisfazioni da parte dei
lettori.
Raccomando questo corso alle persone razionali, motivate e
sveglie; lo sconsiglio invece agli stomaci deboli e a chi manca di
umorismo e autocritica.
Livio Gambarini
Scrittore presso Silele e Acheron Books
5
C’è voluto del tempo perché capissi che la scrittura, anche quella creativa, non esiste per impressionare gli altri con il nostro
genio, ma per annullare le distanze che ci separano.
È per questo che ammiro Marco: il suo approccio nononsense, da sergente, non lascia spazio agli errori e alle cattive pratiche di scrittura a cui ci siamo abituati. Marco è la persona a cui mi rivolgo tutte le volte che ho un dubbio sulle tecniche narrative. Se i miei clienti sono contenti, è anche grazie al
suo prezioso lavoro.
Leonardo Munzlinger
Editor professionista
Da quando ho imparato le tecniche narrative, mi diverto molto
di più a scrivere, e solo per questo motivo varrebbe la pena apprenderle. Inoltre anche i lettori si divertono molto di più a
leggere i miei romanzi.
Romanzi che dubito sarei riuscita a pubblicare se non li
avessi progettati e realizzati con la consapevolezza di chi ha
studiato l’arte di scrivere in modo immersivo.
Giulia Besa
Scrittrice presso Einaudi, Acheron Books,
Sperling & Kupfer e Giunti
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INTRODUZIONE GENERALE
Benvenuto nel Corso Base di scrittura e sceneggiatura di
AgenziaDuca.it, pensato per chi ha superato la soglia iniziale della scrittura inconsapevole e ha intuito la vastità
dei problemi narrativi che gli si pongono davanti.
Il tuo nuovo percorso di formazione comincia ora
con questo manuale sulle basi della narrativa. La prima
parte sarà dedicata alla scrittura in prosa per racconti e
romanzi, mentre la seconda tratterà la progettazione
delle storie (sceneggiatura, in senso ampio) indipendentemente dal mezzo con cui verranno comunicate: romanzo, fumetto, opera teatrale, videogioco, serie a cartoni animati o film. Una premessa dedicata alle basi della
narrativa ti introdurrà ad alcuni dei concetti trattati nella
prima parte del corso.
Se sei interessato solo alla progettazione delle storie
perché vuoi dedicarti allo studio di opere diverse dalla
narrativa in prosa, sei libero di passare direttamente alla
seconda parte del manuale. Alcuni concetti espressi nella
parte dedicata alla scrittura in prosa ti saranno comunque utili nello scrivere una sceneggiatura per un film o
un fumetto, per esempio alcune indicazioni sui dialoghi,
ma la porzione del manuale più importante per te sarà la
seconda.
***
7
Il manuale che stai leggendo ora è quello che fin dal
2012, con la sua versione iniziale, è stato prima il fondamento del corso di formazione di AgenziaDuca.it e
poi del sistema di formazione della collana di narrativa
Vaporteppa.
Questo manuale è pensato per chi cerca una guida
semplice e applicabile fin da subito per stimolare la propria immaginazione e aiutarsi a realizzare storie emozionanti il cui significato sia in grado di risuonare con il
vissuto del lettore.
Un percorso di studio pensato per fornirti tutti i
mezzi intellettuali per capire i principi della narrativa
così a fondo da divenire indipendente nel tuo percorso
formativo. Imparerai i principi da cui nascono le regole.
Solo comprendendo le motivazioni profonde, i principi, da cui nascono certe regole della scrittura è possibile capire quando una regola che ti viene proposta in un
manuale è sensata e quando invece è una sciocchezza
propinata da soggetti dalla preparazione molto lacunosa.
Sarai padrone dei principi e non schiavo delle regole.
Se conoscerai sia i principi che le regole, potrai affrontare i molti manuali di scrittura per la narrativa distinguendo i buoni consigli dalle loro applicazioni tutt’altro che corrette. Se hai letto dei manuali sulla scrittura per racconti o romanzi sarai incappato spesso in regole corrette che però venivano accompagnate da esempi
dozzinali, mal scritti, spesso non del tutto coerenti con
altre regole precedentemente spiegate in quegli stessi
manuali.
Un’esperienza che genera una gran confusione e un
senso di esasperazione, perché ciò che è giusto e ciò che
è sbagliato si mischiano senza che ci siano chiari esempi
corretti da usare come pietre di paragone.
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Conosco questa sensazione, l’ho vissuta. Dal 2006 al
2011, in particolare negli anni 2009 e 2010, gli anni chiave della mia formazione sulla scrittura “immersiva”, sono stato immerso nel problema di dover scavare in molti
manuali per trovare qua e là qualche indicazione giusta,
nel mare di aneddoti, chiacchiere ed esempi che puzzavano come pesce di otto giorni.
Per questo ho creato il Corso Base che hai tra le mani, per condensare tutto ciò che è essenziale che un autore conosca se il suo scopo è scrivere storie trasparenti:
romanzi e racconti in cui la scrittura sia così chiara, precisa, vivida ed emozionante da far scomparire ciò che ci
circonda, farci dimenticare di stare solo leggendo delle
parole, e lasciarci immergere totalmente nella vicenda
letta.
Questa è la narrativa “immersiva”: l’unico tipo di
scrittura che si fonda sul reale funzionamento del cervello umano, ovvero su come il nostro cervello vive ciò che
legge e lo simula come se fosse reale grazie anche ai neuroni specchio. Il cervello umano funziona in un modo
preciso e per ottenere che il lettore viva la lettura bisogna scrivere seguendo certi principi, non in base alle nostre fantasie personali su come la scrittura dovrebbe essere. Qui ci occupiamo di fatti reali, dimostrati e con
solide basi scientifiche, non di “secondo me” e “opinioni
personali”.
La scrittura è una materia che merita di essere trattata con la stessa serietà delle altre discipline, non è la cuginetta scema delle vere arti. Se non pensi che la narrativa abbia il diritto di basarsi, come ogni arte seria, su dei
fondamenti tecnici e scientifici, non hai rispetto per questa arte e quindi questo Corso Base non è adatto a te.
Non potrai imparare nulla se non imparerai prima a ri-
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spettare ciò che vuoi studiare. Devi avere una mente da
scrittore professionista se vuoi imparare, anche se ora sei
ancora un dilettante: con la mentalità da dilettante, coi
“secondo me”, non andrai mai da nessuna parte.
All’interno del Corso Avanzato su AgenziaDuca.it
una lezione è dedicata all’analisi del comportamento del
cervello durante la lettura di un brano, tramite l’attività
misurata dalla risonanza magnetica funzionale. Vedrai
nella misurazione reale, “scientifica”, dell’attività del cervello la conferma di quanto studiato a livello “umanistico” sia in questo Corso Base che in quello avanzato.
***
Un problema simile a quello della scrittura mi arrivò
quando cercai delle regole per trasformare un’idea di
partenza in una storia che potesse piacere ai lettori.
Fino al 2012 la lettura di manuali troppo vaghi, spesso troppo concentrati sulla sola scrittura e poco metodici
nello spiegare il modo in cui si progetta una storia, mi
aveva lasciato col problema di non avere dei sistemi validi per guidare la fantasia di un autore nel processo
creativo senza basarmi solo sui miei gusti. Tant’è che
preferivo evitare di occuparmene, e mi dedicavo alla sola trasparenza del testo.
Dal 2012 al 2014 ho studiato tutti i manuali di sceneggiatura per il teatro e per il cinema su cui sono riuscito a mettere le mani, partendo da L’Arco di Trasformazione del Personaggio di Dara Marks (pubblicato in Italia da
Dino Audino Editore), che per me rimane il più chiaro e
diretto, e quindi il migliore, manuale per chi deve cominciare a progettare storie. Più spendibile e immediato
di altri classici come Story di Robert McKee o del confusionario, per la volontà di non parlare in modo esplicito
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di “atti”, Anatomia di una Storia di John Truby. Consiglio
caldamente, comunque, di leggere anche questi due e
molti altri. Con la guida di questo manuale sarà più facile
valutare i contenuti delle future letture.
La mia nuova necessità di essere in grado di giudicare la struttura di una storia veniva dal bisogno di poter
aiutare gli autori nel loro processo creativo con mezzi
funzionanti e basati su solide basi teoriche, in modo da
escludere i miei gusti personali dal giudizio artistico.
Stavo creando il progetto che poi è diventato Vaporteppa nel febbraio 2014, e non potevo più accontentarmi di
lavorare solo sulla trasparenza della scrittura.
Se mi fossi basato sui miei soli gusti non avrei dato
una chance a Marco Crescizz per ripropormi Alieni Coprofagi dallo Spazio Profondo: fortunatamente mi sono affidato alla sola teoria, gli ho dato l’occasione di riscrivere
l’opera basandosi su delle precise norme… e mi ha stupito dandomi un’opera di grande potenziale. Una delle
opere più apprezzate dal pubblico di Vaporteppa.
C’è chi con la giusta teoria sulla struttura delle storie
scrive la tragedia di Macbeth e chi scrive di alieni che si
drogano con la cacca degli umani, ma la teoria da cui nascono è la stessa per entrambe le opere.
Lo studio prosegue ancora oggi, d’altronde quello
della costruzione delle storie è un campo che mi appassiona, per cui piacere e lavoro coincidono, ma il grosso
dei concetti l’ho ottenuto nei primi due anni di studio.
Visto che le basi fondamentali sul funzionamento
delle storie possono interessare anche chi vuole realizzare fumetti, o scrivere sceneggiature per il cinema, insomma chiunque voglia occuparsi di storie anche fuori
dalla narrativa in prosa, nel 2017 ho iniziato a realizzare
una serie di articoli e video sull’argomento.
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Articoli e video pensati non per i miei autori, ma per
i semplici appassionati. Ai miei autori ho sempre consigliato la lettura diretta dei saggi principali, e successivamente fornivo delle lezioni apposite di approfondimento. In quelle lezioni comunicavo le mie idee nate dal
combinare concetti diversi tratti da saggi diversi per
estrapolarne nuove idee figlie. Non mi sono mai limitato
a usare i manuali da soli, come se non interagissero tra
loro: se non si vedono le innumerevoli connessioni tra
diversi manuali, e quali ulteriori concetti nascono obbligatoriamente da lì, significa che non si è capito davvero
ciò che i manuali spiegano.
Queste lezioni create dal mio lavoro di approfondimento e sintesi fanno parte del secondo modulo del mio
Corso Avanzato online, formato da videolezioni e articoli su AgenziaDuca.it. Basta dire come esempio, per capire l’estensione dell’approfondimento fatto, che la singola
lezione sulla posta in gioco presente in questo Corso Base viene approfondita e dettagliata in ogni aspetto da
undici lezioni aggiuntive nel Corso Avanzato. Sono contenuti pensati solo per chi è veramente interessato a
comprendere il funzionamento delle storie, per poter
analizzare al meglio film, romanzi e fumetti o per progettare le proprie.
Tutti i contenuti di questo manuale sono presenti
anche nel blog di AgenziaDuca.it, talvolta abbinati a immagini e didascalie con lo scopo di spezzare la lettura,
alleggerire lo studio e strappare un sorriso. In questo
manuale troverai gli articoli nella versione pura, senza
certe distrazioni che ad alcuni, quando si studia, possono
non piacere. Scegli tu come preferisci fruirne.
Ultima nota tecnica sui contenuti: tutte le citazioni
con il titolo dell’opera riportata in lingua originale sono
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state tradotte da me, mantenendo il più fedelmente possibile lo spirito e il tono dell’originale, talvolta perché le
traduzioni italiane in vendita ammorbidivano il tono
realmente usato: gli accademici seri tendono a dire le cose come stanno, in modo molto aggressivo.
***
Su AgenziaDuca.it troverai una pagina del Corso Base
con tutti i link agli articoli online, facoltativi, di approfondimento che ti consiglierò nei capitoli di questo manuale.
***
Il tuo percorso con Agenzia Duca comincia qui. Non sottovalutare i contenuti di questo manuale: sono le basi e
proprio perché sono le basi non vanno mai dimenticate.
Sono le fondamenta su cui qualsiasi discorso serio sulla
scrittura deve fondarsi.
Possono sembrare concetti semplici e talvolta banali,
ma sono banali come lo è constatare che la forza di gravità è presente nella nostra vita quotidiana: il fatto che la
cosa sia “banale” non la rende meno importante, anzi,
tutta la nostra vita è enormemente influenzata dalla presenza di questa forza!
Non possiamo fare a meno di vivere ogni giorno basandoci inconsciamente sul fatto che lei sia lì a influire
sulla nostra vita. Ogni movimento del nostro corpo vive
profondamente questa presenza, anche se non ci pensiamo.
Così deve essere con i principi sulla scrittura che imparerai e con le regole che ne derivano. Se ti sembrerà
tutto semplice e già visto, ma non sei un maestro indiscusso della scrittura a cui nemmeno io potrei annotare
13
degli errori, significa che stai prendendo sottogamba
questo Corso Base.
Buono studio e buona fortuna.
Marco Carrara,
4 ottobre 2019
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PREMESSA:
LE BASI DELLA NARRATIVA
15
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CHE GENERE DI NARRATIVA?
Cominciamo con le basi: quando parleremo di narrativa
scritta, in prosa, ci riferiremo alla narrativa “normale”,
quella che ha lo scopo di far vivere al lettore una storia,
fargli provare emozioni come se la storia fosse vera e
trascinarlo fino al termine della lettura.
La narrativa è un’arte e quindi, come da definizione
di arte, dispone di regole per realizzarla e per giudicarla.
Per la definizione di arte comunemente accettata in ambito accademico, se l’argomento vi incuriosisce, rimando
a The Rhetoric of Fiction di Wayne Clayson Booth, uno dei
più importanti e famosi esperti di narratologia degli ultimi decenni. Lo citeremo diverse volte.
Le regole della narrativa si arricchiscono di dettagli
ulteriori legati agli specifici generi, per quanto riguarda i
contenuti delle storie in base al tipo di opera scritta, ma
nella forma generale sono identiche per tutti i generi di
narrativa: fantascienza, thriller, rosa, mainstream ecc.
La normale narrativa, da ora in poi solo narrativa, è
diversa da quella che, in modo molto ingenuo (o talvolta
in malafede) viene chiamata “Alta Letteratura”, “prosa
letteraria” o, all’americana, “Literary Fiction”.
Discuteremo in fondo a questo capitolo se la Literary
Fiction esista per davvero, in concreto, al di fuori delle
chiacchiere confuse in cui viene di norma tirata in ballo
senza una solida definizione da chi parla, ma per adesso
fingiamo che esista.
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Le regole su come progettare e scrivere narrativa
hanno solide basi teoriche che risalgono all’Antica Grecia, con la Poetica e la Retorica di Aristotele, e queste conoscenze empiriche di oltre due millenni hanno trovato
conferma negli studi delle odierne neuroscienze, anche
grazie alla scoperta dei neuroni specchio (1992) e all’uso
della risonanza magnetica funzionale (1990).
Le scoperte degli ultimi anni hanno ampliato le prospettive degli studi letterari grazie a un nuovo approccio
maggiormente “scientifico”, anche se bisogna ricordare
che si tratta di un campo molto giovane inserito in un
ambito accademico popolato ancora da esperti che si sono laureati quando nulla di tutto questo era stato scoperto. O che semplicemente non l’hanno mai studiato e non
intendono farlo.
Certi soggetti spesso non vedono di buon occhio una
trattazione seria e metodica, su basi scientifiche verificabili, degli studi umanistici che loro hanno sempre trattato con un punto di vista molto meno rigoroso. Non vogliono mettere in discussione le proprie competenze con
degli “estranei” che invadono il loro orticello felice.
Questo nuovo approccio, come detto, ha confermato
ciò che i veri grandi esperti, grazie ai loro studi basati
sull’osservazione sperimentale di cosa funzionasse e cosa
no, affermavano da oltre duemila anni. Ben poco di tutto questo, antica sapienza o prove scientifiche moderne,
ha a che fare con l’Alta Letteratura intesa come linguaggio poetico, astruso e complesso, se non in senso poco
lusinghiero.
Questo non fa piacere agli scrittori abituati a spacciare per arte ciò che è inutilmente complicato, meglio ancora se lo è così tanto da risultare incomprensibile, così
possono fingere che sia troppo profondo per le rozze
18
menti del volgo e autocelebrarsi come intelletti elevati.
Se frequentate l’ambiente editoriale ne avrete conosciuti
di sicuro. Sanno essere molto rumorosi.
Ricapitoliamo: la narrativa e la Literary Fiction (fingendo che quest’ultima esista) sono due cose differenti.
C’è l’opinione, diffusa tra coloro che i libri li venerano
invece di leggerli, di pensare che il libro in quanto prodotto intellettuale debba aspirare sempre a essere Alta
Letteratura, intesa come letteratura che aspiri alla poesia
con opere la cui scrittura ampollosa e barocca abbia il
compito onanistico di godere della propria stessa difficoltà, comprensibile solo a poche “Menti Elevate”.
Tutto chiaro fino a qui?
La narrativa che si limita a raccontare storie, peggio
ancora se con uno stile trasparente e semplice, focalizzato sul far vivere la storia al cervello umano, viene disprezzata… a meno che l’autore non sia stato etichettato
come Artista da lodare per lo stile didascalico e quindi
non vada criticato a priori “perché sì”. Non ci sono regole fisse e parametri misurabili nel mondo dei gonzi letterari: è tutto un giochino di cricche autoreferenziali tra
ambito accademico, concorsi, riviste ed editoria più o
meno compiacente. L’opposto di questo Corso Base, dove tutto ha solide basi misurabili.
Come visto prima questa dell’Alta Letteratura come
scrittura inutilmente complessa è una posizione sciocca,
antistorica (tra poco vedrai delle citazioni tratte da millenni diversi) e senza basi credibili nella critica antica o
moderna.
Citando Arthur Schopenhauer, da Parerga e Paralipomena del 1851:
Chi scrive in modo affettato somiglia a chi si mette in ghingheri per non essere scambiato e confu19
so col volgo; è questo un pericolo che il gentiluomo non corre mai, anche se indossa l’abito più
misero.
La narrativa segue un assioma, scoperto e riscoperto
e citato nel corso degli ultimi 150 anni da molti studiosi
autodidatti, autori e critici. Lo studio della narrativa, anche senza conoscere questo assioma, porta naturalmente
alla consapevolezza che esista e alla sua formulazione
con parole proprie, creandone innumerevoli varianti.
L’assioma, espresso con parole mie, è:
La narrativa deve essere avvincente. Le parole
non devono essere lì per il gusto della loro presunta “bellezza”, ma per stimolare nella mente
immagini vivide ed emozioni intense, tanto che il
lettore dimentichi di star leggendo e si immerga
nel mondo narrativo come se fosse reale.
Tutte le regole che vedrai in questo Corso Base sono
conseguenze di questo assioma, o Principio se preferisci.
Il punto di vista, mostrare la storia invece di riassumerla,
le descrizioni concrete, il filtro della mente del personaggio che abbraccia ogni elemento, i dialogue tag, la rinuncia agli avverbi di modo e agli aggettivi vaghi a favore di verbi e sostantivi più precisi, e molte altre
indicazioni, sono tutte conseguenze necessarie di questo
assioma. La scrittura deve scomparire dalla mente del
lettore e deve rimanere solo l’esperienza viva e avvolgente.
Mostrare la storia ai lettori attraverso una sequenza di scene non darà solo immediatezza alla scrittura, le darà trasparenza. Uno dei modi più sem-
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plici per sembrare un dilettante è quello di usare
tecniche narrative che attirino l’attenzione su di sé
e la distolgano dalla storia. Devi fare in modo che
i lettori siano così presi dal tuo mondo da non accorgersi nemmeno che lo scrittore esista.
La citazione qui sopra è tratta da Self-Editing for Fiction Writers di Renni Browne, senior editor presso William Morrow prima di mettersi in proprio nel 1980 per
fondare un’agenzia di servizi editoriali, e Dave King, editor presso Writer’s Digest. Non i primi due rincoglioniti
raccolti in un vicolo, eh…
Un buon romanzo deve essere così avvolgente, così
credibile, deve essere un sogno così vivido da far dimenticare che dietro c’è un autore che si è inventato tutto di
sana pianta. Idea che non è arrivata ieri o con il cinema,
ma che è alla base della narrativa moderna a partire
dall’Ottocento:
L’artista deve essere come Dio nella creazione, invisibile e onnipotente; bisogna percepirlo ovunque, ma non vederlo mai.
(Gustave Flaubert, lettera a Mademoiselle Leroyer
de Chantepie del 18 marzo 1857)
O questa variante:
Un autore nel suo libro deve essere come Dio
nell’universo, presente in ogni luogo e visibile in
nessuno.
(Gustave Flaubert, lettera a Madame Louise Colet
del 9 dicembre 1852)
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Se si nega l’assioma, le regole non hanno più uno
scopo. Ma se si nega l’assioma, si nega la raison d’être della narrativa: è l’assioma a rendere un buon romanzo diverso da un buon libro contabile o da un buono scontrino della spesa o da una buona sinossi a uso interno della
Casa Editrice. L’assioma definisce “cosa” stai facendo e
“perché”. Sapendo “cosa” e “perché”, c’è allora spazio per
il “come”, ovvero per le regole.
Per chi pensa che le regole non contino e che i grandi del passato non le seguissero, consiglio, a parte la sostituzione delle tre ore giornaliere di Facebook con lo
studio della narratologia e della storia della critica, di ricordarsi che le regole principali sono nate proprio grazie
alla fatica dei grandi del passato, le cui idee a riguardo
erano piuttosto precise:
Ogni trovata narrativa è reale, ne potete star certa.
La poesia è una scienza esatta quanto la geometria.
(Gustave Flaubert, lettera a Madame Louise Colet
del 14 agosto 1853)
La Literary Fiction invece avrebbe, fingendo sempre
che esista, un’agenda creativa opposta: attirare
l’attenzione sulla scrittura in sé, bella (ma cosa sia bello è
di difficile, o impossibile, definizione) e complicata per il
gusto del bello e del complicato, fino a sacrificare la presenza stessa di una storia in senso tradizionale. La Literary Fiction aborre la scrittura trasparente e fa di tutto per
ricordare al lettore che sta leggendo.
In un certo senso la Literary Fiction recupera il peggio della narrativa dell’Ottocento, quella narrativa che,
più per censura e per tipologia di pubblico bigotto a cui
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si rivolgeva che per mancanza di consapevolezza tecnica
degli autori, evitava apposta di emozionare troppo. Così
Dickens si vantava di non aver mai scritto nulla che “potesse far arrossire le gote dell’innocenza”, pur parlando
di criminalità e vita urbana in condizioni di estrema povertà.
E il dottor John Harvey Kellogg ammoniva le fanciulle dicendo loro di non leggere libri emozionanti perché peccaminosi, come certi diabolico romanzacci storici a sfondo religioso (Ben-Hur?!), e di dedicarsi solo a
letture edificanti incapaci di emozionare o, meglio ancora, alla Bibbia.
Se siete bigotti sessuofobici fermi a duecento anni fa,
amerete (ma con modestia e senza commettere atti impuri, mi raccomando) l’agenda creativa della Literary
Fiction e la leggerete con quel piacere puramente intellettuale e privo della seppur minima traccia di peccaminose emozioni con cui la leggeva il dottor Kellogg. Noi
“moderni” da Flaubert in poi preferiamo la narrativa,
che sia mainstream o di genere poco importa purché sia
narrativa. Non mi dilungo su altre definizioni insensate
di Literary Fiction, tanto potete approfondire la sua probabile inesistenza accademica in fondo al capitolo.
Sull’importanza del Mostrato rispetto al Narrato
(Show, don’t Tell) e in generale delle regole, riporto un
brano di uno dei massimi esperti e critici americani del
Novecento:
Non si può restituire dignità critica al narrato
semplicemente saltando su a difenderlo – non in
questo campo di battaglia. I suoi nemici avrebbero gran parte degli argomenti migliori dalla loro.
Molti romanzi sono seriamente danneggiati dalle
sciatte intrusioni dell’autore. In più è semplice
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dimostrare che un episodio mostrato è più efficace dello stesso episodio narrato, finché la scelta è
ridotta a due e solo due estremi tecnici.
E, infine, i romanzieri e i critici che hanno deplorato il narrato hanno conquistato per la narrativa
quella posizione come forma d’arte maggiore che,
prima di Flaubert, le era generalmente negata, e
hanno spesso mostrato una serietà e una devozione verso la loro arte che da sole bastano a rendere
convincenti le loro dottrine. Non c’è niente da
guadagnare – anzi, c’è tutto da perdere – se diciamo a James o a Flaubert che ammiriamo i loro
esperimenti di serietà artistica, ma che ora preferiamo rilassare un po’ i nostri standard e incoraggiare i romanzieri a tornare a mescolare quella
che James chiamò “la grande brodaglia.” Ci può
essere spazio, nella casa della narrativa, anche per
le brodaglie informi – per essere lette, presumibilmente, nelle ore dell’indolenza o negli anni della pensione. Ma io non mi metterò a difenderle
come forma d’arte in virtù del fatto che sono informi.
(Wayne Clayson Booth, The Rhetoric of Fiction,
1961)
Notate come è netto Booth nel dichiarare la superiorità del Mostrato rispetto al Narrato, ritenendola una verità ovvia e scontata per tutti, ormai. Come è categorico
nel condannare le intrusioni dell’Autore nella narrativa
(non comica) per giudicare gli eventi. Come è inflessibile
nel definire “brodaglie informi” i testi che rifiutano quelle regole che ormai sono parte indissolubile della narra-
24
tiva moderna dalla metà del XIX secolo fino ai giorni
nostri.
Un giudizio così forte scritto in quella che è considerata dagli esperti:
[…] una delle più importanti opere di narratologia
e poetica del secolo scorso.
(Enthymema, I, 2010, p. 118, rivista di critica e teoria della letteratura)
Infine c’è la questione del genere a cui appartiene
l’opera di narrativa, inteso non come “romanzo” o “racconto”, ma nel senso contenutistico di thriller, rosa, fantasy, fantascienza ecc. e quando non c’è nessun genere
particolare di solito si dice mainstream (anche questo
“non di genere” in realtà è un genere).
Questa citazione di Ronald Crane, fondatore dei
Neo-Aristotelici della Scuola di Chicago (a cui appartiene
Booth), mi pare descrivere perfettamente gli scopi della
scrittura:
[produrre] qualcosa di bello ed efficace nella sua
interezza di un determinato tipo.
Ovvero ogni genere (“determinato tipo”) ha le sue
regole ulteriori da conoscere per produrre qualcosa di
ben fatto (“bello ed efficace”) che piaccia agli appassionati di un dato genere: una lettrice di narrativa rosa troverà
fastidiosa la mancanza di un chiaro e forte lieto fine, e il
lettore di un romanzo di fantascienza si sentirà preso in
giro se l’unico elemento fantascientifico è una banalità
indegna di nota…
25
Proseguiremo la discussione su cosa sia la narrativa
nel capitolo su I Principi della Narrativa. Ora togliamoci il
dubbio su…
COS’È LA LITERARY FICTION?
La Literary Fiction è assieme facile e difficile da definire.
Facile perché “semplicemente” ricerca il bello per il gusto del bello, come detto prima (peccato che cosa sia il
“bello” è indefinibile all’atto pratico). Difficile perché è
un’etichetta di comodo inventata dagli intellettuali snob
negli anni 1950 per distaccarsi aristocraticamente dalla
robaccia che piaceva al volgo, quando la mole di letteratura pulp e di fantascienza iniziò a infastidire i loro aristocratici nasini. Infilarono nella Literary Fiction tutto
ciò che ritenevano degno delle loro Auguste Menti, senza considerare per davvero lo stile con cui era scritto o
l’agenda creativa dichiarata dall’autore (nel caso dei Classici dell’Ottocento).
Ernest Hemingway è considerato un autore serio,
uno che non scrive stupidate, eppure il suo stile è asciutto, giornalistico. Letteralmente “giornalistico”: ha scritto
narrativa seguendo le direttive di buona scrittura con cui
lo facevano lavorare al giornale. È uno stile che la narrativa apprezza, non uno stile barocco e arzigogolato. Eppure gli snob lo catalogano come Literary Fiction, nonostante l’agenda creativa e il risultato siano quelli tipici
della narrativa (si veda Il Vecchio e il Mare per esempio).
La definizione che ho usato, indicando la Literary
Fiction come qualcosa che ama il “gusto della forma”, è
secondo me l’unica definizione possibile su cosa sia per
davvero senza cadere nei giochetti disfunzionali di autori e critici che dicono “Tu sei Literary!” e l’altro risponde
26
“Io non sono Literary, non esiste la Literary Fiction: ho
solo scritto un romanzo che piace a voi snob scemotti!”
ecc.
In realtà spesso i grandi critici non hanno nemmeno
considerato l’esistenza di qualcosa come la Literary Fiction. La citazione di Booth da The Rhetoric of Fiction del
1961 è piuttosto chiara a riguardo: c’è solo la narrativa e il
resto è una brodaglia che non merita attenzione.
Ecco come tratta il concetto di Literary Fiction, da
vero esperto di narratologia. In fondo la Literary Fiction
vera, perdendo di vista lo scopo della narrativa e limitandosi all’estetica fine a sé stessa, è una sorta di pornografia letteraria: ovvero punta al piacere della contemplazione di qualcosa, senza nient’altro, tant’è che si può
sacrificare del tutto la presenza della storia (proprio come sono arrivati a fare i film porno denominati “gonzo”,
dopo una prima fase storica in cui dominavano i film
con una trama).
Naturalmente questo è un grave difetto, tant’è che
perfino tra chi accetta o apprezza questa agenda creativa
si possono leggere critiche contro quella Literary che
dimentica la Fiction, ovvero che diventa mero esercizio
estetico e riduce la storia a nulla o a un vago pretesto per
farsi belli scrivendo “poesia in prosa” e arruffianare certa
critica snob.
La pornografia non è solo quella del “sesso”, ma
qualsiasi contemplazione goduriosa priva di ulteriore
scopo, creata per il piacere di una nicchia di individui
che godono ammirando cose simili: dieci ore di filmati
di ornitorinchi o un romanzo senza trama e senza conflitto fatto solo di lirismi poetici e raffinati autocompiacimenti estetici sono pornografia quanto un film con
gente coperta di latex che si frusta sulle chiappe.
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Se non vi sta bene andate a piangere da Booth: se
fosse vivo sputerebbe nella vostra “brodaglia”.
***
Nella pagina dedicata agli approfondimenti consigliati su
AgenziaDuca.it puoi trovare un link all’articolo A Reader's
Manifesto di B. R. Myers, pubblicato su The Atlantic nella
sezione cultura del numero di luglio/agosto 2001, dedicato alla pretenziosità (e alla stupidità nei contenuti) della Literary Fiction.
Ci troverete le cose di cui ho appena parlato, ma dette in modo meno gentile. Se i miei toni vi sono sembrati
leggermente aggressivi in alcuni punti, è perché non
avete esperienza di cosa sia davvero il mondo delle discussioni accademiche e della critica. Giusto per prepararvi all’impatto con la realtà editoriale vera.
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I PRINCIPI DELLA NARRATIVA
La narrativa permette di veicolare immagini, sostenere
argomenti e convincere il pubblico tramite la forza delle
emozioni, con più forza di quanto possa fare la saggistica
appoggiandosi ad argomentazioni logiche e motivate. La
drammatizzazione colpisce più della dimostrazione.
La narrativa è quindi una forma di retorica. Lo scopo
della narrativa è convincere il pubblico, ma non necessariamente riguardo una data posizione ideologica su una
certa questione: il pubblico prima di tutto deve essere
convinto a proseguire la lettura.
Ford Madox Ford, uno dei più grandi autori britannici tra Ottocento e Novecento, disse che lo scopo della
narrativa è:
[…] prendere il lettore, immergerlo nella vicenda
così a fondo da renderlo inconsapevole sia di stare
leggendo che dell’esistenza di un autore, in modo
che alla fine possa dire e credere “io ero lì, io
c’ero”.
In pratica l’assioma citato nel capitolo precedente.
Come avevo spiegato è qualcosa che molte persone nel
corso del tempo hanno formulato in modo indipendente
perché è ovvio, è naturale. Chi non si accorge che lo scopo della narrativa è questo, dopo anni che se ne occupa,
dovrebbe farsi delle serie domande.
29
La narrativa è quindi “retorica della dissimulazione”,
come sostenne Wayne Clayson Booth in The Rhetoric of
Fiction. In parole povere l’autore usa gli strumenti della
narrativa per convincere il lettore a perdere tempo leggendo vicende che, lo sanno entrambi, sono false. In
fondo in italiano si dice “raccontar storie” come sinonimo di “inventar menzogne”, no?
Per convincere il lettore a continuare la lettura, per
permettere che rimanga immerso nella vicenda, bisogna
renderla realistica o, più correttamente, “credibile”. Una
menzogna credibile e avvincente.
La presenza intrusiva, invadente, dell’autore come
Narratore, nel modo in cui Omero dice al lettore esattamente ciò che deve pensare di ogni personaggio incontrato oppure Manzoni si introduce come se scendesse dal cielo col megafono per commentare la vicenda, è
un grave problema per un’opera che aspiri a essere buona narrativa. A discolpa di Omero, Manzoni e tanti altri,
posso dire che sono venuti prima dei grandi cambiamenti nella narrativa giunti a partire dalla seconda metà
dell’Ottocento.
Booth scriveva:
Molti romanzi sono seriamente danneggiati dalle
intrusioni dell’autore.
Non si nega la presenza in sé, però. L’autore deve essere presente in altri modi, meno dozzinali: è l’Autore
Implicito, il responsabile della scelta degli specifici dettagli su cui la scrittura si concentra, dei tipi di personaggi
mostrati, del tono della vicenda, della scelta del punto di
vista ecc. in pratica di tutte quelle cose che fanno parte
dello “stile” dell’autore e che permettono di distinguere
30
una sua opera da quella di un altro autore, anche se entrambi applicano gli stessi principi e le stesse regole.
L’autore in quanto esperto di retorica non deve però
“dimostrare” qualcosa in senso generale, non deve fare
discorsi sui grandi temi o su altre questioni in generale:
deve “Mostrare” e convincere il lettore di qualcosa di
specifico.
Se si parla di razzismo, come esempio di grande tema regolarmente annegato in un mare di banalità,
l’autore non deve trattarlo in modo vago, generale, ma
concentrarsi su un caso specifico con dettagli concreti,
vividi.
Prendiamo il film American History X: non si parla del
razzismo in generale, ma della specifica vicenda di un
particolare personaggio, Derek Vinyard. Tramite il suo
punto di vista capiamo la sua visione del mondo, la sua
trasformazione come persona, i motivi che lo portano
all’odio razziale e a decisioni di cui si pentirà. Lo conosciamo come uomo. Possiamo capirlo.
Possiamo condannarlo o giustificarlo, a discrezione
del singolo spettatore, ma siamo in grado di vedere cosa
lo ha portato a divenire così e chiederci se noi stessi, al
suo posto, avremmo provato meno odio di lui. Facile
parlare di tolleranza dal proprio posticino sicuro e senza
problemi. La sua storia ci porta ad affrontare il tema del
razzismo in modo più concreto, più vivido.
Come si dice spesso in narrativa:
Se vuoi parlare dell’umanità parla di un singolo
uomo.
Questo vale anche e soprattutto per i piccoli dettagli.
Se vuoi dire al lettore che il tal personaggio è avido, non
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devi dire “X è avido”: devi costruire scene che mostrino
la sua avidità e suscitino nel lettore spontaneamente la
consapevolezza che X sia avido.
L’Autore Implicito ha deciso come è un dato personaggio e in che modo Mostrarlo al lettore, senza scendere dal cielo col megafono per urlargli quello che deve
pensare.
La narrativa moderna deve Mostrare, pur filtrando a
piacere gli eventi con un dato punto di vista “non neutro”, e lasciare poi che il lettore interpreti e capisca, senza che l’Autore imponga dall’alto la sua visione delle cose
(non più di quanto faccia scegliendole come Autore Implicito, intendo).
Nell’Iliade ciò che Omero ci dice dei personaggi non
può essere messo in dubbio dal lettore, a cui non è possibile decidere basandosi sui fatti: il parere di Omero è
per definizione la Verità sulla vicenda.
È stato proprio il passaggio dall’autore del passato
(che si introduce troppo nella storia) all’autore moderno
(che lascia che siano i fatti a parlare) ad aver fatto conquistare ai romanzi, nella seconda metà dell’Ottocento,
quella dignità artistica che prima era loro negata.
Prima dei teorici del Mostrato come Flaubert o James, la narrativa generalmente non veniva considerata
una forma d’arte importante. Non era accettata come arte perché mancavano dei criteri oggettivi condivisi per
giudicarla.
La scoperta delle regole, e di conseguenza dei legami
della narrativa col teatro e con la retorica, permisero al
romanzo di acquisire quella credibilità e quel prestigio
che a lungo gli erano stati negati. La narrativa, per essere
arte, e per essere quindi buona narrativa, deve Mostrare:
questo dice Booth, senza mezzi termini.
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Sulle opere che ignorano le regole e preferiscono
Raccontare, il parere di Booth è lo stesso di Henry James
(quello del “Drammatizza! Drammatizza!”, precursore
della formula “Show, don’t Tell!“), e lo abbiamo letto nel
capitolo precedente: sono una brodaglia informe su cui
non vale la pena sprecare tempo.
Più chiaro di così…
***
Come abbiamo visto, la narrativa è una forma di retorica
il cui scopo è immergere il lettore nella vicenda così a
fondo da fargli dimenticare di stare leggendo e da rendere irrilevante che la vicenda sia stata inventata
dall’autore. Questa immersione avviene grazie alle immagini vivide e concrete che un buon testo evoca nella
mente del lettore.
Citando The Elements of Style di William Strunk ed E.
B. White, opera su cui si sono formati alcuni dei più
grandi autori anglosassoni:
Se quelli che hanno studiato l’arte della scrittura
sono d’accordo su una cosa, è questa: il modo più
sicuro per stimolare e mantenere l’attenzione del
lettore è essere specifici, chiari e concreti. I più
grandi scrittori – Omero, Dante, Shakespeare –
sono efficaci in gran parte perché trattano i particolari e riportano i dettagli che contano. Le loro
parole evocano immagini.
Notate “i dettagli che contano”. Lo stesso Aristotele
insegnò che lo scopo della retorica non è persuadere, ma
Mostrare ciò che è adatto a ottenere la persuasione. Questa sottile differenza permette di capire come mai Mo-
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strare un fatto concreto, ricco di dettagli utili e in grado
di emozionare, sia più utile per convincere il pubblico
rispetto a Raccontare lo stesso fatto riducendolo all’osso,
senza “drammatizzarlo” per emozionare. La persuasione
è il risultato dell’abile uso della retorica per Mostrare i
dettagli che contano.
È un principio che si può vedere applicato ogni giorno nel giornalismo ed è alla base della buona narrativa.
Come detto nella prima parte del capitolo non bisogna
Raccontare che un certo personaggio è avido: bisogna
mostrare la sua avidità per fare in modo che il lettore ne
diventi consapevole. E per farlo bisogna scegliere i dettagli che contano, come fecero Dante, Omero e Shakespeare.
Se la narrativa è retorica e se le stesse idee di Aristotele ancora oggi sono alla base di concetti che fanno parte della narratologia, possiamo cercare proprio tra gli antichi greci e romani un buon esempio di retore.
Sia Cicerone che Cesare erano famosi per la loro
oratoria e Cicerone in particolare è ancora considerato
l’oratore romano per eccellenza, ma cosa lo rendeva tanto superiore ai suoi avversari?
Cicerone ai primi tempi non era un bravo oratore.
Se la cavava nella Roma dominata dallo stile retorico
asiano, ma era molto lontano dal poter insidiare il posto
di più grande oratore a Quinto Ortensio Ortalo, massimo esponente dell’asianesimo a Roma. Cicerone fece un
viaggio in Grecia (79-77 a.C.) e studiò sotto Apollonio
Molone, che già aveva conosciuto alcuni anni prima rimanendone affascinato, il più grande maestro di retorica
del periodo, che anni dopo istruì anche Cesare. Grazie
agli insegnamenti di Molone, Cicerone divenne una
macchina da guerra del discorso: nel 70 a.C. fu l’avvocato
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dell’accusa contro Gaio Verre e sconfisse Quinto Ortensio Ortalo, suo difensore. Ora era Cicerone il più grande
oratore di Roma.
Qual era il segreto dello stile insegnato da Molone? Il
segreto di Molone era la chiarezza, la concretezza e la
semplicità, ovvero la riscoperta degli elementi tradizionali dell’oratoria antica. In un mondo dominato dallo stile asiano, uno stile barocco, pesantemente aggettivato,
fatto di frasi belle per il gusto del bello, termini poetici e
un periodare complesso ricco di subordinate (in particolare l’asianesimo del tumor, della “esuberanza”, come lo
chiama Cicerone), autoreferenziale fino al punto di perdere di vista la persuasione, Molone riportò un po’ di
concretezza mitigando la semplice bellezza con la chiarezza e la persuasività dell’atticismo.
Questo vale anche per la narrativa? La semplice chiarezza batte la complessità barocca? The Elements of Style
di Strunk e White è molto chiaro a riguardo:
Una prosa ricca, ornata, è difficile da digerire, generalmente malsana e talvolta nauseante.
E aggiunge:
La scrittura vigorosa è concisa. Una frase non deve contenere parole inutili, né un capoverso frasi
superflue, per la stessa ragione per cui un disegno
non deve contenere linee inutili, né una macchina
parti superflue. Questo non significa che lo scrittore debba rendere tutte le frasi brevi, o evitare
tutti i dettagli e trattare gli argomenti solo nelle linee generali, ma che ogni parola deve contare.
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Come evitare di cadere nella trappola asiana? Un
consiglio pratico ce lo può dare lo scrittore russo Isaak
Babel:
Un sostantivo ha bisogno di solo un aggettivo, il
più adatto. Solo un genio può permettersi due aggettivi per un sostantivo.
(Isaak Babel citato da Oakley Hall in How Fiction
Works)
D’altronde non è difficile capire che per evitare di
avere troppi aggettivi basta mettere meno aggettivi. Ma
quali aggettivi è lecito mettere? Quelli che permettono di
generare immagini vivide, ovvero aggettivi con una concreta attinenza sensoriale.
Per esempio “rosso” è concreto, significa qualcosa di
percepibile coi sensi del personaggio che fa da punto di
vista, mentre dire che un dato personaggio è “avido” non
solo non dà nulla di concreto da immaginare, ma può
essere anche un’intrusione del narratore nella vicenda. A
meno che il filtro del punto di vista non sia così profondo, come in una prima persona, da permettere certi pensieri astratti, accettabili se ridotti al minimo.
Spostando la questione dagli aggettivi ai dialogue tag,
ovvero alle formule come “disse” che introducono o seguono le battute di un dialogo, anche qui vanno scelti solo quelli concreti: “urlò” va bene, perché richiama qualcosa di concreto, sensoriale, mentre “replicò” è una
schifezza perché non è legato ai sensi e risulta pure inutile perché se qualcuno sta replicando o meno è evidente
dal contesto della battuta! Le parole inutili, come dicono
Strunk e White, vanno tagliate.
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Più elegante ancora è evitare proprio i dialogue tag,
limitando i “disse” soltanto a quando non vi è altro modo di identificare chi sta parlando: che siano le azioni a
introdurre chi parla. La stessa cosa vale per gli aggettivi:
vanno usati con moderazione, non a mucchi.
Sempre da The Elements of Style di Strunk e White:
Scrivi con nomi e verbi, non con aggettivi e avverbi. Non è ancora stato creato l’aggettivo capace
di tirare fuori un nome debole o impreciso da una
strettoia.
Gli aggettivi non sono obbligatori e non rendono
migliore la prosa: vanno messi solo quando davvero servono. Bisogna scegliere il sostantivo o il verbo migliore,
più preciso, non scegliere il parente povero per poi modificarlo con un aggettivo o con un avverbio. Seguendo
questa semplice regola gli aggettivi rimasti saranno solo
quelli davvero utili in quanto chiari, concreti e specifici.
Il rischio di far sviluppare sulla tua narrativa un tumore asiano fatto di aggettivi, avverbi e parole inutili sarà così ridotto al minimo.
***
Lo stile barocco e aggettivato dell’asianesimo dopo essere stato mitigato con l’atticismo, stile concreto e chiaro,
permise ad Apollonio Molone di diventare il più grande
insegnante di retorica del suo periodo e a Cicerone di
diventare uno dei migliori oratori di Roma, battendo facilmente chi seguiva lo stile asiano.
La componente asiana rimasta, una certa tendenza al
bello per il gusto del bello, era un problema o contribuiva alla forza oratoria di Cicerone? Uno stile maggior-
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mente attico avrebbe potuto essere migliore di questa
terza via intermedia seguita da Cicerone?
Possiamo provare a scoprirlo. Demostene è considerato il più grande degli oratori ed è vissuto ben prima
che la moda asiana si diffondesse. È il massimo esponente di quello stile tradizionale che i sostenitori
dell’atticismo volevano reintrodurre.
Plutarco dice di lui:
Demostene riversava nella retorica quanto di razionale aveva per natura o per preparazione, superando per chiarezza e potenza i rivali.
Poi lo definisce:
lontano da ogni abbellimento e gioco, volto alla
potenza e alla sostanza.
Pur non essendo come gli oratori attici del periodo
di Cesare, il cui purismo nella riscoperta dell’oratoria
chiara e razionale era eccessivo, Demostene ha di sicuro
molto più atticismo di Cicerone. Cicerone che, ricordiamolo, rigettava la accuse di simpatia per l’asianesimo
e si definiva “il Demostene Romano”.
Ma chi è il migliore tra Demostene e Cicerone?
Ce lo dice Guglielmo Audisio, maestro di eloquenza
sacra nell’Ottocento:
Confrontando Cicerone con Demostene, dirò che
il carattere di Demostene è l’evidenza della ragione, l’impeto e la veemenza di un’anima accesa ed
eloquente; quello di Cicerone, l’ordine, la fecondità, e lo splendore dell’orazione. Il primo più
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aspro, talvolta secco e duro, ma più sublime e più
robusto; il secondo più florido e più ornato, ma
talvolta, come lo rimprovera Bruto, cascante e distemperato. In due parole: ammiro Cicerone, ma
vorrei Demostene per difensore.
Quindi uno stile più semplice, con ancora meno
elementi barocchi e meno “bello per il gusto del bello”
(sempre che il “bello” sia definibile, cosa che è tutt’altro
che scontata), è più efficace anche nell’oratoria.
Allo stesso modo, nella scrittura, inquinare la narrativa con elementi della Literary Fiction renderà scontenti sia chi cerca la prima che chi vuole la seconda. Due
agende creative difficili da conciliare e impossibili da ottimizzare assieme: l’eccellenza di una va a scapito dell’altra.
Diciamo un’ultima cosa su Demostene. Gli antichi
riportano che il suo stile, costruito con estrema abilità
tecnica, appariva a chi ascoltava molto spontaneo, come
se fosse un’orazione irruenta, emozionante, fatta a braccio. Era uno stile trasparente perché spariva lasciando
solo l’effetto. Proprio come deve essere la scrittura per la
narrativa secondo Ford Madox Ford, come riportato
nella prima parte di questo capitolo: d’altronde la narrativa è una forma di retorica, no?
Quando qualcosa può essere letto senza fatica,
grande fatica è stata fatta per scriverlo.
(Enrique Poncela)
Non si rinnega l’emozione, si rinnega solo il bello fine a sé stesso. L’inutile. Gli asiani volevano emozionare,
ma si perdevano nella propria ricerca estetica e nel
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compiacimento della propria abilità fino a dimenticare
lo scopo dell’orazione, ovvero convincere. Il nuovo atticismo invece adottava una eccessiva razionalità e semplicità, rinunciando all’emozione e seguendo la via della
logica e della forza dimostrativa.
Riassumendo:
l’asianesimo è paragonabile allo stile della Literary
Fiction che volendo strabiliare il lettore attira troppo
l’attenzione su di sé e finisce per dimenticare il proprio scopo (fallisce nel convincere in generale);
l’atticismo è come lo stile della saggistica che intende
convincere il lettore con i fatti e con il ragionamento,
sacrificando le emozioni (fallisce nel convincere “di
pancia”: lo fa solo intellettualmente);
lo stile di Demostene è come quello emozionante,
chiaro e convincente della narrativa. Emozionare e
convincere sono fusi in modo indissolubile: si emoziona allo scopo di convincere (si parla alla “pancia”
del pubblico con efficacia: sta poi all’autore dire anche cose che convincano “intellettualmente”, dato
che non è per niente esclusa l’opzione).
Sia nella retorica degli oratori che nella narrativa,
l’obiettivo è convincere il pubblico ed emozionarlo con
l’uso di una tecnica tanto perfetta da far sparire “il testo”
e lasciare solo l’effetto.
***
Conoscendo la “filosofia di fondo” della narrativa non
esiste alcuna giustificazione per non studiare le tecniche
che permettono di ottenere il risultato. Nessuno nasce
sapendo a priori come scrivere narrativa e non c’è nulla
di cui vergognarsi nell’impegno e nello studio.
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Dietro espressioni come “serve Talento” e “ma se
uno non ha Talento” si nasconde solo la mancanza di
voglia di studiare: la narrativa non è più difficile della
Meccanica Quantistica o dell’Ingegneria Nucleare e tutti
(incluse le peggiori teste di legno) possono migliorare
con la giusta dose di studio e di impegno, se davvero sono interessati alla scrittura.
Demostene e Cicerone erano oratori tutt’altro che
eccelsi prima di studiare in modo specifico la retorica
con i migliori maestri. Richard Matheson, Stephen King
e molti altri scrittori amati dal pubblico non hanno mai
nascosto il loro debito nei confronti del classico sulla
scrittura The Elements of Style di Strunk e White. Possono
non piacere, e in effetti la scrittura di tanti autori famosi
è spesso lacunosa, ma anche loro hanno studiato almeno
un po’ per migliorare la loro scrittura.
Tu che scusa dovresti avere per non studiare?
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UNA SOLA TEORIA
PER PREPARARLI TUTTI
Le medesime regole con cui si scrivono le scene sono
quelle con cui le si revisiona, questo è il punto di partenza ovvio che è meglio mettere in chiaro per sicurezza,
visto che non è raro vedere persone che pensano che un
corso per “editor” debba essere molto diverso da uno per
“scrittori”.
Lo stesso discorso vale per un critico o per un serio
recensore: le stesse conoscenze con cui si giudica l’opera
creata sono quelle con cui la si crea. Come si può giudicare la fotografia di un film senza capire nulla della fotografia di un film? È la stessa cosa per la progettazione
delle storie e per la loro scrittura.
Per dare un parere che vada oltre “mi piace” e “non
mi piace” ai contenuti di una storia e andare a commentare la struttura in sé e il senso di quei contenuti, devo
sapere come le storie si strutturano. Se non so niente di
teoria, per definizione il mio parere non può essere “oggettivo”: il parere è oggettivo se basato su un criterio
esterno che non dipende da me o da altri.
Se un parere non è oggettivo allora è soggettivo, ovvero basato sulla persona che vede e non sull’opera in sé,
e questi sono per definizione i “gusti personali”. Questi
criteri esterni sono quelli con cui si realizzano le storie,
dando così all’autore una base sicura da cui partire senza
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doversi affidare ciecamente alle proprie fissazioni personali.
Non vi è quindi differenza nelle basi teoriche tra un
corso per scrittori e uno per editor: quella che cambia è
l’abitudine a lavorare solo su testi propri, specializzandosi e seguendo le proprie manie, nel caso dello scrittore,
oppure tenere la mente aperta ed essere così in grado di
lavorare e suggerire idee per qualsiasi storia, nel caso
dell’editor.
Allo stesso modo un critico, o un recensore, può magari non aver sviluppato abitudini e flessibilità nell’ideare soluzioni narrative al volo (come invece dovrebbe fare un editor serio), o nello scrivere in modo immersivo con facilità (come invece dovrebbe fare uno scrittore), o può avere poca familiarità con storie diverse dalla
nicchia che frequenta, ma all’interno del campo che ha
scelto deve essere in grado di individuare gli elementi
all’istante e analizzare in modo tecnico l’opera. Se vuole
andare oltre i gusti personali, si intende.
Come può un autore capire le critiche mosse da un
editor se non hanno le stesse basi di teoria? E come può
l’editor fidarsi di ciò che afferma se non possiede delle
basi di teoria che lo rassicurino che sta giudicando razionalmente e non sulla base dei propri gusti ed opinioni? Non può esservi serio lavoro editoriale se non si parla
lo stesso linguaggio artistico. L’editor deve essere un occhio esperto neutro rispetto alla storia, capace di mostrare “ciò che è evidente”, ma che l’autore non vede per le
troppe riletture senza adeguate soste o per il troppo attaccamento emotivo al testo.
L’editor deve principalmente indicare ciò che la teoria ha già reso evidente. Secondariamente può aiutare
l’autore, in base alla familiarità con il genere scritto, a
43
trovare soluzioni originali e interessanti oltre che tecnicamente soddisfacenti. Fornire un secondo cervello
creativo per sostenere le direttive che l’autore ha scelto,
evitando i vicoli ciechi in cui l’autore si è erroneamente
cacciato scambiandoli per vie obbligatorie. Un lavoro
più di maieutica che di consigli diretti, quando ben svolto, con diverse affinità con le pratiche descritte ne Il Colloquio Motivazionale degli psicologi clinici Stephen Rollnick e William R. Miller.
La teoria è uguale per tutti, cambia solo la specializzazione su cosa imparare a fare meglio. Se vi è una differenza di conoscenze di teoria a vantaggio dell’editor,
l’autore non potrà capire le critiche e non sarà in grado
di intervenire per migliorare l’opera. Se è a svantaggio
dell’editor, questi non potrà giudicare al meglio le scelte
dell’autore e rischierà di dare suggerimenti sbagliati.
Questo è il problema tipico di tanti recensori: mancando di conoscenze teoriche possono solo giudicare testi scritti da autori altrettanto incompetenti, in cui anche
con scarsissima abilità si possono individuare tanti problemi (perché il testo è un disastro pieno di errori banalissimi), mentre correranno il pericolo di dire sciocchezze nel criticare un’opera troppo superiore alla loro
valutazione tecnica.
Come mai? Perché non potendo individuare gli errori reali finiranno a parlare delle proprie “opinioni” confondendolo con la “realtà”. Un’opera errata potrebbe venire criticata non per gli errori, ma per le cose giuste o
non essere criticata affatto nonostante gli errori, e
un’altra opera invece corretta potrebbe essere criticata
sulla base delle mere fisime individuali. Coi “secondo
me” e con le “opinioni” non si va da nessuna parte: l’arte
è tale in quanto realizzata e valutabile secondo regole,
44
ripetiamolo di nuovo, come spiegato anche in The Rhetoric of Fiction di Wayne Clayson Booth. Non coi “secondo
me”, non con le “opinioni”.
Non c’è da stupirsi quindi che un bravo autore, per
definizione, non possa avere nulla da imparare da quanto le tipiche recensioni dicono… ma uno veramente bravo
(o, si spera, un editor ben formato) può vedere oltre gli
errori dei recensori e capire se c’è davvero qualcosa di
problematico che ha portato il recensore, incapace di individuare il vero problema, a dire cose che non
c’entrano invece di sottolineare il difetto reale.
Questo include anche gli errori a favore dell’opera,
in cui il recensore giustifica o scusa o scambia per buoni
elementi quelli che invece sono errori oggettivi: a distanza di tempo l’autore stesso, se riflette bene, dovrebbe
capire di aver sbagliato anche se qualcuno lo loda.
Ci saranno sempre fan disposti a lodare le loro opere
preferite senza vederne gli errori, accecati dagli aspetti
positivi: per quanto possano fare piacere all’ego dell’autore, i complimenti sono nemici da tenere a bada
tramite il rigore tecnico-teorico con cui pesare il proprio
operato nonostante ogni lode ricevuta.
Tornando al discorso delle diverse specializzazioni,
basta pensare a come un autore può scegliere di realizzare tutte le storie allo stesso modo, per esempio usando
sempre un solo protagonista, sempre un momento determinante collocato dopo la chiamata all’azione, sempre un arco eroico chiaro e netto ecc. e vivere felice fregandosene del resto, se così desidera, ma un editor (o un
recensore) deve padroneggiare la teoria in generale per
poter rilevare quale approccio specifico sia stato usato
dall’autore, e quindi capire se è corretto e come migliorarlo senza stravolgerlo.
45
Un allenatore per body builder magari non ha concretizzato mai nel proprio fisico quelle conoscenze atletiche e di alimentazione che ha ottenuto con lo studio,
perché preferisce insegnare invece di praticare, ma deve
averle se vuole essere di aiuto al suo allievo… ed è bene
che anche il suo allievo le apprenda a sufficienza da capire il senso di cosa sta facendo.
Un editor che non sappia definire e trattare coprotagonisti, storie multiple, protagonisti catalizzatori,
dichiarazioni del difetto fatale prima della chiamata
all’azione invece che tramite il momento determinante,
costruzione dell’empatia nei personaggi fortemente negativi, sfumature tragiche possibili ecc. risulterà talmente castrato nelle proprie competenze da non poter essere
considerato davvero ben preparato.
Non capendo cosa l’autore stia facendo, tenterebbe
di forzare la storia su binari diversi: un po’ come se un
coltivatore di pompelmi si vedesse rispondere dall’agronomo che non è possibile coltivare meglio quei frutti
perché non sono veri agrumi, e che la soluzione è solo
cambiare la coltivazione in arance perché le arance sì
che sono agrumi veri, non come quei così lì strani che
non si capisce che roba siano (“Pompelmi! Sono pompelmi!”). O come un allenatore che stravolga il regime di
allenamento e alimentare del body builder facendogli
praticare solo la corsa, perché ha sempre preparato solo
maratoneti: sempre di attività fisica si tratta, ma il risultato non c’entra molto…
Sei pronto ad affrontare lo studio delle storie con rigore, per essere padrone dei principi e non schiavo dei
tuoi gusti?
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COS’È LA TEORIA
E COME USARLA
Partiamo dalle basi: a cosa serve conoscere la teoria, come va utilizzata, e in generale perché uno dovrebbe
prendere tutta la questione dell’apprendimento sul serio,
se deve solo scrivere un romanzo? Sì, abbiamo accettato
che esistono le regole… ma perché dovrei impegnarmi
così tanto?
Risposta in breve a tutti i dubbi: per acquisire efficienza nel comunicare con la scrittura, esprimere le tue
idee con coerenza in una storia ben progettata ed essere
così veramente libero, grazie alla conoscenza, di comunicare la tua visione individuale al resto del mondo.
Per le risposte estese leggi il resto del capitolo.
CHE COS’È LA TEORIA?
Quando parliamo di teoria intendiamo la teoria nel senso pratico del termine, quella che potreste trovare nella
fisica classica o nelle altre forme di conoscenza che aderiscono al metodo scientifico. La teoria è “il caso generico da cui è possibile ricavare il caso specifico”. La teoria
è ciò che si ottiene quando lo studio confermato dalle
verifiche empiriche dei casi permette di vedere una verità comune che va al di là delle differenze singole, una
verità valida in generale per tutti.
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Per esempio attraverso la misura empirica degli oggetti in moto si sono creati concetti come energia (la capacità di svolgere un lavoro), energia potenziale (che a
sua volta richiede la conoscenza sull’attrazione gravitazionale) ed energia cinetica: con questi concetti è possibile misurare la velocità che avrà un oggetto cadendo nel
vuoto da una certa altezza sul pianeta Terra, e quanto
forte sbatterà al suolo. Se aggiungiamo conoscenze sull’attrito e complichiamo un po’ i calcoli in base alla geometria dell’oggetto e alla sua densità sezionale, possiamo
ottenere anche misure corrette nel caso reale dell’aria
invece del vuoto.
In pratica grazie alla teoria non abbiamo bisogno di
installare un autovelox e lanciare fisicamente un’incudine di 80 kg dalla cima di una torre di 30 metri per
scoprire che velocità avrà a 2 metri dal suolo, o che
energia avrà all’impatto. Non dobbiamo misurare ogni
caso come un evento unico e miracoloso nell’universo:
abbiamo le regole per prevedere i casi che ci vengono in
mente senza bisogno di realizzarli fisicamente e misurarli. Grazie alla teoria possiamo fare un paio di calcoli
sulla resistenza e sapere che l’incudine manderà in frantumi il parabrezza che abbiamo posto al suolo, senza bisogno di lanciare incudini dalle torri o distruggere veri
parabrezza.
È la stessa cosa con la narrativa e lo studio delle storie. Anche se nel nostro caso con meno precisione perché privi del supporto delle modellazioni matematiche,
a metà tra una scienza e un’arte, per colpa non tanto
dell’argomento in sé (le storie) quanto per lo scarso rigore con cui il loro studio è stato condotto in passato. Per
chi è interessato ai “mostri” creati nel mondo della conoscenza letteraria, psicologica ecc. dalla mancanza di rigore nell’approccio, vi rimando al classico Fashionable Non48
sense del fisico statunitense Alan Sokal, saggio divenuto
un fenomeno mondiale in poco tempo.
Seppure in modo meno preciso rispetto ad altre discipline, quelle di cui ci occuperemo noi sono comunque
teorie sviluppate e verificate attraverso enormi quantità
di casi (pensate a quanti film esistono, quante opere teatrali, quanti romanzi) e talvolta lungo un tempo che può
raggiungere i 2500 anni, se consideriamo le basi ancora
valide descritte da Aristotele.
La teoria diviene tale perché è corretta, perché funziona: si parla di ambiti in cui lo scopo è aver successo,
far soldi, non stiamo parlando di chissà quali arti pure
che galleggiano nell’innocenza e schivano il denaro, eh!
Lo stesso evolversi delle tragedie nel mondo greco di cui
ci parla Aristotele nella Poetica, attraverso i tre grandi
Eschilo, Sofocle ed Euripide, riguardò un’evoluzione e
una serie di miglioramenti tecnici e della presentazione
dei contenuti con lo scopo esplicito di sconfiggere gli avversari nella competizione teatrale, ottenere il favore del
pubblico e infine vincere il premio: più pratico di così!
La teoria nello studio delle storie, e di come scrivere,
ci permette di ottimizzare un approccio che voglia catturare il lettore facendo ricorso alle sue emozioni: renderlo partecipe della vicenda, farlo preoccupare per i personaggi e fargli provare soddisfazione (quale sia l’esito,
positivo o negativo, della storia) al termine dell’esperienza. Sapendo qual è lo scopo da conseguire non è difficile scoprire quali metodi favoriscono l’ottenimento
dei risultati e quali lo riducono, anche grazie al contributo delle neuroscienze che negli ultimi anni hanno confermato molti concetti che i grandi teorici del passato
avevano affermato ricavandoli dalla mera esperienza sul
campo.
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D’altronde non ci si aspettava nessun risultato diverso: nel momento in cui la teoria nasce dall’accettare la
verità empirica del mondo reale, uno studio più approfondito può solo sottolineare che sì, il mondo reale continua a esistere come prima e quindi la teoria non
sbaglia. Però le neuroscienze ci dicono con maggiori dettagli “come” nel nostro cervello avvengono le cose che i
teorici dicevano da molto prima. Per esempio che è vero
che mentre leggiamo simuliamo gli eventi letti perché le
aree legate ai diversi sensi, i neuroni specchio e le memorie relative a quanto leggiamo si attivano. D’altronde
se “vediamo” la storia nel suo svolgersi è perché il cervello sta lavorando!
Nel corso del primo modulo del Corso Avanzato, se
deciderai di approfondire i tuoi studi in futuro, vedrai
qualcosina a riguardo: giusto un assaggio per curiosità
personale. Ai fini di questo Corso Base non serve approfondire.
COME SI USA LA TEORIA?
Facile: principalmente tenendo a mente l’idea che se un
pezzo della teoria è corretta ed è dimostrata, un nuovo
pezzo di teoria da “verificare”, per capire se sia giusta o
meno, deve obbligatoriamente non contraddire la teoria
già dimostratasi corretta.
Può specializzare il caso generale per mostrare un
caso specifico in cui vale una variante della regola migliore rispetto alla regola generale. Può trattare un aspetto che il resto della teoria non tratta, espandendo il campo d’azione. Qualsiasi cosa, ma non può negare ciò che
già si è dimostrato vero, può solo “reinterpretarlo meglio”… per ovvi motivi: se è vero, per definizione non è
50
falso. Proprio come nella fisica. Se pensi che nella fisica
non sia così, è ora di procurarti un paio di saggi di divulgazione che ti spieghino come funziona il metodo scientifico. Sul serio: se confondi le “interpretazioni” con la
vera fisica (ma vale per tutte le scienze), su AgenziaDuca.it ho inserito un’interessante riflessione sulla meccanica quantistica scritta da un esperto (non da me), per cui
vai lì, leggila e risolviti la confusione…
Si tratta di mettere a sistema le conoscenze, senza
negarle tra loro, con lo scopo di conseguire un risultato
più “preciso” grazie alla somma di molte informazioni
diverse. Proprio come nei sistemi che si facevano in classe durante le ore di matematica. In questo modo, sapendo che il proprio personaggio ha un certo difetto fatale,
ed è un personaggio fortemente negativo, e bisogna far
capire bene che lavoro fa… giungiamo a scegliere una
certa scena iniziale che lo mostra in modo pienamente
realistico nel suo lavoro, senza fare sconti sul suo carattere, ma scegliendo eventi che ci faranno provare empatia per lui ben prima di scoprire quanto sia carogna.
Succede nella serie Gomorra, proprio nel primo episodio. E no, non si fanno certe scelte per caso: quella serie di enorme successo applica con precisione il modello
classico di storia che vedrai in questo Corso Base. Grazie
alla conoscenza della teoria siamo liberi di utilizzare
protagonisti antipatici, stronzi, moralmente deprecabili,
perché sappiamo come gestirli. Non siamo obbligati,
come schiavi, a dover realizzare solo protagonisti piacevoli e simpatici.
I personaggi simpatici sono più “facili” da far digerire al pubblico, ma devi essere tu che come autore scegli
liberamente di usarli solo se li vuoi. Non c’è alcuna libertà se non abbiamo alternative tra cui scegliere: la teoria
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permette di esplorare ogni alternativa che ci venga in
mente, valutarla e ricavarne il meglio. La teoria ci rende
liberi perché ci rende consapevoli.
Quando un nuovo pezzo di teoria dice qualcosa di
stupido o falso in base alla conoscenza già dimostrata,
anche se fosse solo un piccolo dettaglio, è un grosso
campanello d’allarme per procedere alla verifica ancora
più scrupolosa dell’intero nuovo pezzo di teoria. Di
norma si arriva a rilevare in poco tempo quali errori di
fondo possiede e perché è sbagliata.
Nel mio Corso Avanzato propongo proprio un esercizio simile, per addestrare il pensiero critico a non cadere nella comune trappola del “lo dice un tizio importante, quindi deve essere giusto”. No: è giusto se non
contraddice la realtà e se è solidamente dimostrato,
quindi è irrilevante se a dirlo sia l’ultimo dei pirla oppure Robert McKee. Ok, di norma le cose giuste tendono a
dirle quelli considerati grandi esperti… o, viceversa, sono
grandi esperti perché dicono le cose giuste, ma non vi è
un rapporto diretto tra persona e correttezza quindi
stiamo sempre attenti ai dettagli: come diceva Orazio
nell’Ars Poetica, perfino Omero ogni tanto si addormenta… e fa errori!
Il mio lavoro dal 2007 a oggi, con una forte accelerata a partire dal 2009 e una ancora più forte, essendo diventato davvero il mio principale lavoro come introiti,
dal 2012, è stato in buona parte studiare e leggere di tutto per trovare le teorie corrette (tante) e quelle inesatte
(qualche sciocchezza capita anche nei manuali più famosi) tramite un rigoroso studio e tanti esperimenti.
Col mio insegnamento ti offro di saltare i passaggi
intermedi: invece di studiare per anni da solo e sperare
di giungere alle corrette conclusioni, ti fornisco diretta-
52
mente il mio lavoro come base di partenza. Altrimenti
perché avresti deciso di leggere questo manuale?
Si inizia con questo Corso Base e quando sarai pronto a fare sul serio, a investire davvero su te stesso, potrai
quintuplicare il percorso di studi con il Corso Avanzato…
e risparmiarti 5-10 anni di fatica, senza le certezze di arrivare comunque ai miei risultati di conoscenza: gli anni
di pratica con decine di autori diversi hanno aiutato a
capire meglio tutto.
PERCHÉ DOVREI PRENDERE
SUL SERIO LA TEORIA?
Perché è vera e dimostrata tale, come già spiegato, in
quanto nasce dalla constatazione della realtà e non da
voli pindarici. Comportarsi come se la realtà fosse vera è
un buon segno di salute mentale… ma anche l’alienazione è una bella scelta, però funziona meno bene!
Scegli tu se vuoi vivere di “realtà” o di “opinioni”!
In fondo ancora oggi ci sono centinaia di “inventori”
che mandano alle università italiane progetti per macchine del moto perpetuo, impossibile secondo la teoria
nota nei limiti della fisica classica, e ogni volta i professori di Fisica Tecnica a cui arrivano rispondono mostrando l’errore nel calcolo dell’entalpia fatto dal genio
incompreso di turno. Errore che si sa a priori ci sia, per
definizione: bisogna solo svelarlo e mostrarlo.
L’aneddoto che ho preferito di tutto quel corso, a ingegneria.
Tutti i problemi che ho visto negli anni, sia nella
progettazione delle storie che nella loro scrittura, sono
sempre stati causati da un approccio poco rigoroso: fin-
53
gere che ciò che è vero non sia vero, ovvero non applicare le regole note, è l’errore chiave che impedisce a tantissime persone di progettare o scrivere buone storie pur
avendo tutte le conoscenze teoriche necessarie. Un problema cognitivo, non comportamentale. Sanno cosa fare,
ma non lo fanno perché non ci credono fino in fondo.
Se si finge che la teoria non sia la generalizzazione
della pratica, se si finge quindi che la teoria non sia un
faro che deve guidarci sempre, allora si finirà a sbattere
sugli scogli… come i cattivi accademici accusati da Alan
Sokal.
Se hai a cuore le tue storie, scegli la realtà. Impara a
credere anche dentro di te che la verità è vera, non solo
“astrattamente”. Lavorerai meglio.
54
PRIMA PARTE:
LA SCRITTURA IMMERSIVA
55
INTRODUZIONE ALLA
SCRITTURA IMMERSIVA
Per quanto questa prima parte del manuale sia dedicata
alle basi della scrittura, ai principi, si rivolge comunque a
un pubblico che abbia già un minimo di esperienza
nell’ambito della scrittura in prosa. Ma proprio un minimo.
Un pubblico che conosca perlomeno come sono fatti
i dialoghi in un romanzo tipico, perché ne ha letti un
po’, e che sappia dell’esistenza di concetti come “Mostrare” o “Raccontare”, di cui abbiamo parlato nei capitoli
precedenti (non li hai saltati, giusto?), anche se magari
non sa definirli per davvero. Cose di questo genere. Ma,
d’altronde, se non sei un lettore di narrativa perché dovresti volerne scrivere?
Se non ti senti sicuro al 100%, ti consiglio alcuni articoli che possono esserti utili prima di leggere questa parte del manuale, o come aggiunta al termine della lettura.
Considerali del materiale propedeutico, ma non obbligatorio, giusto per andare sul sicuro. Li trovi elencati nella
pagina dedicata al Corso Base su AgenziaDuca.it.
Se invece ti senti sicuro di conoscere bene i concetti
più basilari, prosegui pure la lettura. Potrai sempre recuperare i contenuti addizionali successivamente.
Buona lettura!
***
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Capita spesso, soprattutto nella fantascienza, che una
storia abbia del buon potenziale: buone idee originali (o
interpretazioni originali di idee già viste), personaggi interessanti, storie ben immaginate e ambientazioni ricche
di fascino. Se bastasse questo, saremmo pieni di eccellente narrativa.
Il problema è che questo non basta: quanto di buono
c’era nella testa nell’autore è rimasto inespresso o è stato
castrato da una scrittura poco consapevole di cosa sia la
narrativa basata sull’immersione. Perché senza immersione, se il lettore non entra nel mondo narrativo mentre
legge, ben poco può essere trasmesso con efficacia.
Queste prime pagine di introduzione potrebbero
sembrarti un po’ vaghe, una foschia di frasi come disse
Wells della scrittura di Conrad, ma nelle restanti pagine
della prima parte del manuale verranno tramutate in
spiegazioni dettagliate ed esempi concreti. Se ora non
capirai sempre di cosa parlo, troverai le risposte ai tuoi
dubbi successivamente. Non si può capire tutto al meglio
subito perché manca il resto, ma da qualche parte bisogna pur incominciare…
Nelle spiegazioni ripeterò più volte i concetti di immersione, iceberg ecc. per favorire la comprensione del
fatto che siano sempre quella manciata di idee non
comprese a sufficienza alla base di gran parte dei problemi degli autori e che queste siano tutte idee strettamente collegate tra loro. Se non si capiscono fino in fondo le basi, e non leggiucchiare e poi dirsi “sì, sì, già visto,
ora andiamo avanti”, non si va da nessuna parte con la
scrittura.
Le basi sono le basi, ogni altra cosa si fonda su di loro: le regole nascono dai principi e finché questi principi
non saranno chiari, la scrittura ti sembrerà solo un muc-
57
chio di regole separate e che quindi non saprai applicare
in modo naturale... cosa che ovviamente non è. Lascia
stare l’atteggiamento letale del “queste sono cose che si
studiano il giorno prima per metterle da parte il giorno
dopo”: è come ragionano i gonzi, a cui lo studio entra in
un orecchio ed esce dall’altro.
Noterai infatti che in questa prima parte del manuale
buona parte degli argomenti sono organizzati come sezioni all’interno di un “grande capitolo” in cui si discute,
passando da una regola all’altra, della grande questione
generale dello scrivere usando il filtro del personaggio.
Gli altri capitoli tratteranno argomenti ulteriori separati
dal primo discorso generale.
Da questo legame dinamico tra le idee di base (i
“principi” della narrativa), che necessitano di vivere in
un equilibrio di reciproca soddisfazione, nascono le “regole” della scrittura atte a permettere l’equilibrio tra le
diverse necessità dei principi nel testo scritto. Regole figlie dell’esperienza di un secolo e mezzo di narrativa
moderna, e alcune addirittura risalenti a prima di Aristotele. In questa prima parte del manuale quando parleremo di narrativa intenderemo sempre quella in prosa:
romanzi e racconti, in pratica. Solo nella seconda parte
del manuale passeremo ai concetti di sceneggiatura applicabili anche al cinema, ai fumetti ecc.
Prima di tutto va detto che se vuoi fare narrativa, devi ragionare e strutturare tutto come narrativa. Con tutto
intendo tutto: dal più minuto dettaglio alla scena che lo
contiene fino all’insieme di scene che coerentemente
(spiegherò dopo cosa intendo) formano l’architettura
dell’opera.
Capita che l’autore pensi “ma l’ho fatto” e invece non
è così: la scelta dei dettagli è legata al punto di vista che
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serve al lettore per “immergersi” nella vicenda, ma spesso il personaggio che fa da punto di vista agisce anche da
Narratore Invadente perché riassume le vicende in momenti improbabili per un monologo interiore e si rivolge direttamente al lettore, con un infodump (ci torneremo
più avanti), infrangendo qualsiasi credibilità della vicenda. Questo ovviamente non può avvenire in tempo reale
nella vicenda: è narrazione a posteriori come se fosse un
diario, un problema molto diffuso nella prima persona
al passato (e molto meno in quella al presente).
Immagina un attore che fa fermare tutti gli altri attori in scena, si avvicina agli spettatori e parla con loro. Nel
teatro la funzione del dialogo per mostrare i pensieri
può rendere accettabili alcune pratiche, come i lunghi
monologhi, che nella narrativa in prosa non sono idonee. Le differenze tra cinema, teatro e prosa non sono
trattate in questo manuale, ma ci sono e sono molto,
molto interessanti.
Come è possibile la catarsi, divenire il personaggio o
perlomeno dimenticarsi di sé a favore del personaggio,
quando di continuo si viene richiamati proprio dal protagonista a prendere coscienza che la vicenda è finta e
che la si sta solo leggendo e non vivendo?
Si possono avere idee originali, ci si può essere informati per rendere al meglio il proprio mondo narrativo, si può aver sviluppato un’ambientazione affascinante, ma bisogna anche fare il passo successivo: scoprire
l’enorme mondo di possibilità che si apriranno, permettendo finalmente di sfogare tutta la propria fantasia e le
proprie conoscenze, nel momento in cui si adotteranno
in modo coerente i principi della narrativa immersiva
invece di annaspare tra brani scritti a caso.
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Piccola nota sull’idea di ambientazione, visto che l’ho
citata. Con ambientazione nella narrativa (ora in senso
ampio, inclusi cinema, videogiochi, serie tv, fumetti) si
intendono i luoghi in cui la vicenda si svolge in concreto,
fossero anche solo poche stanze, non “il mondo” intero:
meglio poche vie realizzate come se fossero vere che un
intero continente abbozzato malamente.
La cosa più importante è sviluppare (o avere), come
base, una scrittura che abbia una sua semplicità. Una
scrittura semplice non soffre di quella pomposità barocca che risulta difficile da correggere perché prima bisogna imparare a distruggerla, disimparando a “scrivere
male apposta”, e solo dopo si può partire a costruire. Una
scrittura semplice è come avere un’area edificabile vuota
e partire subito a scavare le fondamenta. Una scrittura
ampollosa, autocompiaciuta, è come avere una fabbrica
abbandonata da trent’anni sul proprio terreno, con tre
ciminiere, abitata da barboni tossicodipendenti e piena
di amianto: prima devi demolire tutto e ripulire lo schifo, e solo dopo puoi edificare qualcosa. Chiaro?
Molti si impegnano a scrivere male apposta anche
per anni o decenni, convinti che sia “intellettuale” scegliere le parole in base a quanto suonino acculturate e
abituati a costruire immagini poetiche fuori luogo, senza
mai preoccuparsi di questioni tecniche o di cosa sia la
narrativa moderna post-Flaubert. Uno stile barocco che
rimarrà sempre in agguato anche dopo la guarigione,
pronto a far ricadere l’autore come se avesse problemi di
alcolismo.
Puoi immaginare la difficoltà, e il rifiuto psicologico
ad accettare la realtà, di fronte alla consapevolezza di
aver fatto la figura di emeriti imbecilli per dieci o
vent’anni, sprecando solo tempo e producendo immon-
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dizia narrativa, convinti di essere grandi autori incompresi o sfortunati. Faticare e impegnarsi a fare le cose
sbagliate non solo non aiuta a migliorare, ma radicalizza
e rende perfino permanente l’errore. Questo è un concetto noto da tempo in ambito sportivo, che sia body
building, spada, tiro al piattello o scacchi.
Non c’è correlazione automatica tra fatica e apprendimento: si impara solo impegnandosi nel fare esclusivamente le cose corrette. Questo spiega come mai ci siano scrittori che pubblicano da vent’anni e scrivono come
dei poveri svantaggiati, e giovanotti che studiano seriamente la narrativa da un anno o due e scrivono meglio
dei più famosi autori in libreria.
Considera che una scrittura già semplice, corretta
con pochi accorgimenti di principio per indirizzarla,
impiega poco a diventare molto superiore a quella accettata come “normale” dai grandi editori. Ben sopra al
premio Bancarella o al tipico Strega: pensate a porcate
come La ferocia di Lagioia, motivo di pubblico ludibrio
sul web e sui giornali quando vinse. D’altronde quei
premi vengono dati per ragioni che nulla hanno a che
fare con la bontà tecnica del testo.
La cattiva scrittura, pesante, allungata con parole
inutili, ricercata nell’essere una porcheria poetica invece
che nell’essere chiara e sintetica, è quella che Wells (tra i
tanti autori famosi) derideva già nel 1896:
Nel 1896 il giovane H.G. Wells, in una altrimenti
benevola recensione a Il reietto delle isole, il libro
precedente a Il negro del Narcissus, scrisse:
“Mr Conrad è prolisso; la sua storia non è tanto
raccontata quanto intravista attraverso una foschia
di frasi. Deve ancora imparare la metà più importante della sua arte: l'arte di non scrivere le cose.”
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Ho preso il brano dalla postfazione a Cuore di Tenebra
a cura di V.S. Naipaul, presente nell'edizione Oscar Classici Mondadori del 2000, e pubblicato originariamente
all’interno di Conrad's Darkness in The return of Eva Peron
(Penguin, 1996).
Naipaul è un grande esperto e letterato anche per i
canoni tipici con cui vengono definiti (Nobel nel 2001 e
molti altri premi), per cui se ha scelto di citare quella critica possiamo sospettare quanto meno che sia una buona
citazione rappresentativa del parere dei veri esperti già
all’epoca.
In più Naipaul è anche un sostenitore dell’importanza fondamentale del Mostrare come unico modo per
avere una narrativa che possa raggiungere il suo scopo…
e lo scopo “base” della narrativa, come noto fin dai tempi
di Ford Madox Ford, e come lo dichiara anche Naipaul, è
uno solo: immergere il lettore facendogli dimenticare di
stare leggendo, in modo che viva la vicenda attraverso i
personaggi (uno per volta) come se fosse vera. Di conseguenza una prosa trasparente è sempre preferibile.
Voglio che la mia prosa sia trasparente, non voglio
che il lettore mi inciampi addosso. Voglio che veda oltre quello che sto dicendo, che veda quello
che sto descrivendo. Non voglio che dica mai “Oh,
buon dio, come è scritto bene!”. Sarebbe un fallimento.
(V. S. Naipaul, The Paris Review n.148, autunno
1998)
Scrivere male, ovvero impedire l’immersione e attirare l’attenzione sul testo, rendendo il lettore consapevole di star solo guardando delle parole scritte, non è un
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metodo e non è uno stile: è l’assenza di entrambi. In narrativa è un errore, non una scelta stilistica.
Ma non serviva Naipaul a dircelo. Questo desiderio
di trasparenza nella retorica, voler attirare l’attenzione
sul contenuto veicolato dalle parole e non sulle parole in
sé, è considerato un dato di fatto fin dal tempo di Aristotele che proprio nel terzo libro della Retorica scriveva:
Dato che i poeti, anche se i loro discorsi erano
privi di senso, parevano aver guadagnato la propria fama attraverso lo stile, fu lo stile poetico a
nascere per primo, come quello di Gorgia. Nonostante ancora oggi la maggior parte degli ignoranti
credano che persone simili si esprimano nel modo più bello, non è così. Questo perché lo stile
della prosa non è lo stesso della poesia. E il risultato lo dimostra. Perfino gli scrittori di tragedie non
scrivono in quella maniera e da quando sono passati dal tetrametro al metro giambico, poiché
quest’ultimo, tra tutti i metri, più di ogni altro ricorda la prosa, hanno abbandonato completamente tutte quelle parole che non appartengono
alla normale conversazione e con le quali i primi
poeti erano soliti adornare le proprie opere.
Come disse Wayne Clayson Booth, uno dei massimi
innovatori ed esperti di narratologia della seconda metà
del Novecento, scrivere senza osservare rigorosamente
quei precetti che distinguono un romanzo dalle Pagine
Gialle o da una lista della spesa equivale a scrivere “una
brodaglia informe” indegna di attenzione. Lo stile
dell’autore nella narrativa ha un presupposto: che ci sia
narrativa. Se non c’è narrativa, non c’è nemmeno motivo
di parlare di stile.
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Chi vuole fare poesia usando la prosa, ovvero seguire
l’agenda creativa della bellezza delle parole in sé e non
l’agenda creativa della trasparenza, al più sta facendo Literary Fiction e non narrativa. Sempre ipotizzando che
esista davvero qualcosa come la Literary Fiction, e come
abbiamo visto nella premessa dedicata alle basi della
narrativa è molto probabile che non esista se non nella
testa del marketing statunitense. E nelle risate degli accademici seri verso i farlocchi dell’editoria ampollosa.
Lo stile è in gran parte “contenuto” e riguarda concetti come l’Autore Implicito da cui deriva l’atmosfera
dell’opera ecc. e non riguarda le “regolette” e la loro interpretazione, se non in minima parte.
L’adesione alle regole della narrativa non riguarda
infatti lo “stile”, ma l’efficacia tecnica della narrativa stessa, ovvero quanto il testo diventi trasparente per il lettore permettendo l’immersione: ciò che la impedisce è un
errore, non una scelta stilistica, se l’obiettivo è far vivere
in modo emozionante la storia al lettore. Nei peggiori
dei casi la mancata adesione alle buone regole di scrittura può portare a domandarsi se l’opera sia narrativa o se
non lo sia.
Per esempio il capitolo sui cetacei in Moby Dick non è
nemmeno narrativa, è un inserto di saggistica popolare
che nulla ha a che vedere con l’immersione nella storia.
In realtà la saggistica con appigli narrativi, ma che non
viene considerata narrativa, non è affatto anomala: si
pensi a La vita quotidiana in Russia al tempo dell’ultimo Zar,
di Troyat, in cui si immagina che un visitatore francese
visiti la Russia del 1903 in modo di poter rivelare molti
dettagli che in un saggio “tipico” non avrebbero posto
tutti assieme.
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Un inserto di saggistica dentro un romanzo non rende l’inserto in sé narrativa: rimane un corpo alieno collocato dentro la narrativa. Allo stesso modo infilare lo
scontrino della spesa tra le pagine de Il Signore degli Anelli non renderà lo scontrino della spesa parte delle imprese di Frodo Baggins. Anche se la barbera frizzante a 2,99
euro a bottiglia sarebbe più pericolosa dei Nazgûl...
Se un romanzo, per il resto ben fatto, soffrisse di un
personaggio che è anche un Narratore Invadente e che
in più si rivolge direttamente al lettore, allora andrebbe
sottoposto a una riscrittura per ottimizzarlo come narrativa orientata all’immersione del lettore. Molto meglio
rinunciare al Narratore-Personaggio che spiega al lettore
i fatti e adottare al suo posto un Personaggio Punto di
Vista che faccia solo da filtro delle scene per farle vivere
al lettore (nota: ho detto filtro, non telecamera, e dopo
capirai meglio).
Già solo questo cambio radicale di approccio permette di ripensare tutto il contenuto della propria opera,
nella maggior parte dei casi in cui l’opera risulti scritta
male, e di riproporla (ovvero riscriverla) in modo che il
lettore possa esserne coinvolto al meglio tramite la catarsi data dall’esperienza dell’immersione.
Lo stile determina gran parte del contenuto. Questo
vale anche a livello di progettazione della storia: un impianto teorico corretto (premessa, arco ecc.) determina
l’architettura (ovvero la scelta delle scene), che determina in base al punto di vista i dettagli concreti su cui ci
concentreremo e via discorrendo. Possiamo dire che in
fondo lo stile è il contenuto, in quanto frutto di decisioni
consapevoli del “cosa” e del “come”.
Gli esempi che troverai nella prima parte del manuale, tratti da opere che ho letto oppure inventati basan-
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domi sugli errori tipici delle opere su cui ho lavorato,
hanno lo scopo di fornire le basi su cui costruire il discorso sui più comuni errori di un’opera di narrativa.
Partiremo dagli errori d’esempio per discutere i problemi di fondo.
Come aggiunta ti consiglierò, al termine di questa
prima parte del manuale, di andare alla pagina dei contenuti supplementari su AgenziaDuca.it per accedere a
un breve brano commentato da me, per un amico scrittore, alcuni anni fa. Usalo per capire se hai colto bene i
concetti.
Buona lettura!
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IL FILTRO DEL PERSONAGGIO
Uno dei problemi più comuni nella narrativa è quello
del Narratore che “Racconta” (riassume) troppo e “Mostra” (drammatizza) troppo poco. A questo si aggiunge il
tipico problema gemello: quando Mostra lo fa in modo
confuso per l’assenza di un punto di vista coerente.
Il tipico punto di vista incoerente è quello che in certi momenti favorisce l’immersione (i momenti in cui la
scena è filtrata bene) e in altri momenti diventa chiaramente solo un Narratore che “parla delle vicende” (il filtro ben ancorato nell’istante presente salta), come se
guardasse i fatti con calma e distacco, magari a volo
d’uccello, invece di “viverli” nel momento preciso.
Un brano come questo…
Io e altri due siamo stati costretti a levarci l’Armatura e tuffarci sott’acqua per spingere. Alla fine, in
quattro e col sergente che bestemmiava a denti
stretti e minacciava di stenderci con una raffica,
siamo riusciti a recuperare il Mech e uscire dal
fiume. L’abbiamo scampata per un pelo.
C’eravamo addentrati nel bosco quando è arrivata
davvero una pattuglia, annunciata dai sibili dei
motori. Un side-car scortato da due Granchi. Li
abbiamo osservati acquattati tra gli alberi, mentre
puntavano il riflettore sulle acque nere e poi ripartivano in direzione del Garda.
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… dal punto di vista narrativo è spazzatura.
O una scena è una scena, ovvero è una sequenza di
azioni importanti in quanto mandano avanti la storia,
consolidano la visione che si voleva dare alla vicenda e
sono strutturate con un meccanismo di “obiettivo e conflitto”, oppure non serve a niente e va tagliata.
Con obiettivo e conflitto intendo questo: il protagonista vuole qualcosa; qualcuno si oppone al conseguimento dell’obiettivo; il conflitto risultante si conclude
con il fallimento, il conseguimento reale o il conseguimento fittizio del risultato. Questo argomento verrà affrontato nella seconda parte del manuale.
Nell’esempio riportato, poi, usare il Raccontato in
questo modo, con il protagonista in prima persona, trasforma la vicenda vissuta “qui e ora” in un diario, in
memorie scritte dopo gli eventi. E non è questo l’effetto
che si voleva ottenere!
Spesso la prima persona, se scritta al passato, porta
istintivamente a fare questo errore e a passare dalla narrativa immersiva a una narrazione che ricorda quella di
un diario o di un blog, usando un esempio più moderno.
La prima persona è straordinaria, favorisce l’immersione
e risolve automaticamente diversi problemi tecnici tipici
della terza persona, ma va scritta al presente e non va
trasformata in un blog. A meno che la tua opera non sia
qualcosa di diverso dalla narrativa, come un libro-blog.
Qui sto sempre e solo parlando di narrativa vera: non di
libroidi, pseudo-saggi, diari, “romanzi epistolari” (le lettere sono lettere, non narrativa immersiva, anche se sono lettere inventate) o libri-gadget degli YouTuber.
Le differenze concrete, pratiche, tra prima e terza
persona, e come scegliere quando usare una e quando
l’altra, sono discusse nel primo modulo del mio Corso
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Avanzato. Non è un argomento banale, per niente, e non
è una scelta che si può fare a cuor leggero… ma stiamo
andando oltre i concetti di un Corso Base come questo.
Il brano visto poc’anzi è da tagliare. Come è da tagliare senza pensarci due volte qualsiasi pezzo più lungo
di una o due righe che non avvenga istante-per-istante,
perché la narrativa ha il compito di essere verosimile se
vuole immergere il lettore e nel mondo reale non esistono sommari, non esistono riassunti e non esistono
commenti “a posteriori”. Dovresti essertene accorto.
Il lettore, in base ai propri interessi, può sospendere
l’incredulità riguardo ai dinosauri nel sottosuolo terrestre, gli stregoni che evocano i 72 demoni di Salomone, il
mondo caduto in un nuovo medioevo dopo la guerra
nucleare o gli Illuminati che complottano per un Nuovo
Ordine Mondiale, ma non “crederà” a qualcosa che non
assomiglia nemmeno vagamente al modo in cui viene
percepito il mondo reale.
Magari leggerà lo stesso per interesse verso l’argomento, ma la componente immersiva che favorisce la
catarsi narrativa gli sarà negata: l’opera avrà fallito il suo
nobile scopo narrativo di farci “divenire l’altro” e quindi
di capirlo profondamente.
Pensa a questa frase:
C’eravamo addentrati nel bosco quando è arrivata
davvero una pattuglia […]
Davvero un individuo nel corso della propria vita si
può imbattere in un riassunto? Come ci si può immergere nella vicenda se invece di un flusso sensoriale ci si ritrova a vivere dei riassunti? Il gruppo sta avanzando nel
bosco, ci sono pattuglie nemiche, a breve il gruppo del
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protagonista tenderà un agguato al convoglio… perché
non drammatizzare la vicenda? Bisogna Mostrarla!
Le parti più inutili dell’avanzata iniziale o di intermezzo tra una parte interessante e l’altra si possono tagliare (anzi, se non servono si devono tagliare) e se proprio uno è insicuro riguardo i salti temporali all’interno
dei capitoli, può mettere un paio di frasi raccontate di
congiunzione tra i pezzi drammatizzati. Meglio fare dei
piccoli errori che fare uno schifo totale.
Volendo si possono usare i pensieri del protagonista
per camuffare il Raccontato in un modo più accettabile.
Questa è una potenzialità della prima persona, ma è anche una trappola in cui non bisogna cadere: è una pezza,
non è la forma ideale di scrittura, esattamente come le
altre memorie a posteriori, per cui se non la si usa proprio è meglio.
Questi pensieri sono la cosa più vicina al Raccontato
che si possa produrre senza sbagliare: il monologo interiore. In realtà non è vero Raccontato perché stiamo Mostrando ciò che ora, momento per momento, passa nella
testa del nostro personaggio (tranne nel caso della pezza
di congiunzione citata prima, in cui manca la natura presente del pensiero che scaturisce dalla percezione). La
versione mantenendo la terza persona è chiamata “discorso indiretto libero” (e tende più facilmente a puzzare
di Narratore esterno al punto di vista), ma non serve ricordare i nomi per scrivere: se uno capisce il concetto allora sa come applicarlo.
Ecco, un concetto importante per rimanere focalizzati su ciò che conta e non sprecare tempo sulle stupidaggini che distraggono dall’apprendimento reale. I nomi delle cose sono solo “etichette” e troppo spesso lo
studio delle “etichette” non viene accompagnato dalla
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piena consapevolezza del loro contenuto: in questo manuale eviteremo il più possibile le “etichette” (es. narratore autodiegetico) e parleremo invece del contenuto
reale, del significato concreto e chiaro già collocato nel
contesto teorico della narrativa immersiva (es. il punto
di vista focalizzato profondamente). Ciò che non serve
alla vera narrativa, quella immersiva, non ci interessa e
non te ne farai nulla per imparare a scrivere. Devi diventare uno scrittore, non un collezionista di etichette.
Torniamo su prima e terza persona.
Ciò che sarebbe tollerabile, con fatica, usando una
terza persona poco focalizzata (o una telecamera neutra,
ma nel Corso Avanzato spiego che la sua esistenza in
narrativa è tecnicamente impossibile) diventa intollerabile con la prima persona, perché la prima persona rappresenta l’apice della focalizzazione sensoriale e pretende l’immersione massima, l’autentica penetrazione del
lettore nel personaggio (con tutti i rischi di rigetto che
questo comporta), per funzionare bene.
La terza persona può ondeggiare nella focalizzazione, se lo desidera (e se accade per errore spesso non
sembra nemmeno un vero errore), ma la prima non può
farlo. In realtà non è consigliabile variare la focalizzazione nemmeno in terza persona, ma diciamo che è meno
atroce che in prima persona.
Per chi non ha capito cos’è in soldoni la focalizzazione, è quanto siamo dentro il personaggio: mostriamo solo azioni e pensieri diretti del personaggio in terza persona (terza poco focalizzata), oppure soggettivizziamo
anche le sue percezioni facendola somigliare alla prima
persona (terza molto focalizzata)?
La prima persona può scegliere con cura i dettagli
per nascondere qualcosa, può autoconvincersi di qualco-
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sa di sbagliato (anche per autodifesa) e confondere così il
lettore ecc. e può essere l’apice dell’inaffidabilità, dell’autoillusione, nel modo in cui interpreta i fatti, ma non
può essere poco immersiva, poco focalizzata.
Ora guarda qui:
E così il giorno seguente mi trovo in compagnia
di altri quattro derelitti a camminare lungo i campi sabbiosi del Po, in cerca di tracce del nemico.
Quali sono gli errori in questo brano?
1. È Raccontato e quindi fa schifo a priori perché
rovina la lettura… ma se proprio sentiamo che non
possiamo farne a meno, si può correggere l’errore
numero 2 e usare il tutto come breve congiunzione Raccontata tra due scene distinte.
2. C’è un riferimento a “il giorno seguente”, come se
il protagonista stesse raccontando la vicenda al
lettore, per cui essendo già accaduto tutto può
mettere in rapporto i diversi giorni con queste
formule. “E così il giorno seguente” non suona
proprio come un racconto fatto a voce? Qualcosa
in stile “C’era un casino tale in piazza che non ho
chiuso occhio fino alle cinque del mattino. E così
il giorno seguente mi sono svegliato alle due del
pomeriggio”.
È il Raccontato peggiore: non solo non aiuta in nessun modo a godersi la vicenda, ma urla al lettore “è tutto
falso, è solo una storiella!”.
In vista delle prime case di Monzanbano, bianche
sotto il sole di mezzogiorno, Cordino avanza la
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proposta di una visitina alla mignotta del villaggio.
È più di un mese che, per un motivo o per l’altro,
non riesce ad andarci (i motivi in realtà si riducono al fatto che Cordino è quasi sempre impegnato
in servizi punitivi) e il gonfiore laggiù comincia a
farsi fastidioso, così dice. Uno dopo l’altro decliniamo il suggerimento e il caporale Lorenzoni,
che ha l’ultima parola, ratifica la risposta.
Qui sopra l’autore non si fa mancare nemmeno il discorso indiretto, vero marchio del Raccontato becero.
Come mai? Semplice capire il problema: hai mai sentito
con le tue orecchie un discorso indiretto? In che modo
riassumere il contenuto delle battute di dialogo dovrebbe rendere l’esperienza dettagliata, vivida e coinvolgente
come se fosse reale?
Se uno impara a porsi le domande sul realismo, non
scrive certe cose… e infatti il problema più diffuso tra gli
autori è un problema di metodo: non si fanno domande
adeguate riguardo a come scrivere le scene. Non entrano
davvero nel personaggio. Mancano le basi, come detto
prima, e per questo il manuale parlerà continuamente di
“immersione”: perché da questo obiettivo da soddisfare
nascono le altre regole.
Pensa a questo brano:
I crucchi ci si avvinghiano contro e finiamo in un
casino colossale. Io meno pugni un po’ in tutte le
direzioni, confidando di avere intorno più nemici
che compagni.
Ti sembra un errore possibile solo nei testi degli autopubblicati o degli autori dilettanti? Non è così. Ricorda
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che quanto hai letto fino ad adesso in questo manuale,
quasi tutti gli editor e scrittori italiani non lo sanno. Hai
già adesso un livello di conoscenze superiore a quello di
chi lavora nelle grandi case editrici. Il livello là fuori è
bassissimo.
Ecco un esempio identico di Raccontato tratto da un
famoso romanzo fantasy italiano, Nihal della Terra del
Vento:
Abbatté il primo nemico di slancio, spinta
dall’impeto della corsa. Quindi ne vennero infiniti
altri, senza interruzione.
Attenzione: questo romanzo non è scritto tecnicamente peggio di tanti altri romanzi fantasy italiani, anzi,
ha una sua semplicità lodevole, che è sempre meglio dei
voli linguistici baroccheggianti. Il problema sono perlopiù i contenuti assurdamente ingenui e stupidi, l’opposto
di come dovrebbe essere un buon fantasy (e la buona
narrativa in generale).
Il problema di simili errori è che la vicenda non è
stata pensata con l’idea di dover far vivere al lettore i fatti, qui e ora, minuto per minuto, tramite il “corpo” e le
emozioni di uno dei personaggi (il cosiddetto Punto di
Vista, in inglese Point of View, da qui in poi anche “PdV”).
Il personaggio lì è diventato un Narratore “reale”,
uno che sta davvero parlando al lettore, invece di esserlo
in senso lato: lo scrittore ha unito in modo poco funzionale il Personaggio e il Narratore tramutandolo così
nell’Autore (in senso metanarrativo il protagonista è diventato l’Autore perché parla al lettore). Non va bene.
Noi dobbiamo entrare nel personaggio e vivere i fatti
con lui, non sentirlo riassumerci le cose!
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Servono più dettagli concreti. Servono più scene vissute “qui e ora” tramite il personaggio. Per il lettore tutto
sta avvenendo mentre lo legge (sia quando è scritto al
passato che al presente) e in teoria non dovrebbe esserci
nemmeno un mezzo accenno di riassunto o di Raccontato: solo scene vivide e tagli.
Prima ti ho indicato che se proprio non riesci a fare
di meglio puoi lasciare un paio di righe di Raccontato di
connessione tra due scene, ma non è una soluzione ideale e non è teoricamente corretta. Fallo solo se non riesci
a fare di meglio, agli inizi.
La cosa più vicina al Raccontato che si può usare correttamente nelle descrizioni all’interno di scena (ciò che
non è né pensieri diretti né dialoghi) non è il vero Raccontato, ma va inteso come la scelta di pochissimi dettagli quando la mancanza di interesse del PdV su certi
elementi richiede che siano appena accennati e non
drammatizzati a fondo. Non è il vero Raccontato del
Narratore che sintetizza: è l’uso corretto nel Mostrato nei
confronti degli elementi da citare, ma poco significativi.
Un Mostrato minimale, se vogliamo chiamarlo così.
Come dire che certi tavoli sono degni di righe e righe per il loro ruolo nelle riflessioni del personaggio che
li analizza, mentre altri sono solo dei “tavoli” buttati lì
giusto per dire che ci sono. Nel Corso Avanzato c’è una
lezione dedicata all’argomento.
Questo non vuol dire che si debba Mostrare tutto,
seppur poco: quando il PdV entrerà in una stanza noterà
solo gli elementi che più realisticamente possano attirare
la sua attenzione e di questi noterà con maggiore dettaglio quelli che lo interessano di più.
Se il personaggio entra nella propria stanzetta, difficilmente potrà descriverla con la dovizia di particolari di
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chi è entrato in una stanza mai vista prima per curiosare.
Il poster con un cantante famoso, sopra il letto, verrà notato subito da uno sconosciuto che entra nella camera di
una ragazzina, ma la ragazzina stessa invece non lo noterà affatto perché per lei è “normale”, a meno che lei non
abbia motivi di soffermarsi apposta su quell’elemento
per un qualche altro motivo. Torneremo a questo esempio preciso più avanti.
Se i dettagli su un oggetto diventano molti, intere
frasi dedicate, allora si intende dire che il personaggio
sta osservando con attenzione l’oggetto.
Non dirai quindi:
Mario osservò con attenzione l’orologio a pendolo, notando il legno rovinato e la lancetta dei minuti spezzata. Non si leggeva bene l’ora, ma aiutandosi col dito capì che segnava le 17 e 45.
Dirai invece qualcosa di più simile a:
Il legno dell’orologio a pendolo era a tratti scolorito e i fori scavati dagli insetti lo butteravano come
il vaiolo. La lancetta dei minuti era spezzata e il
mozzicone rimasto non permetteva di capire bene l’ora. Mario sfiorò il vetro col dito e solcò la patina di polvere dal mozzicone fino al perimetro: 17
e 45.
Nota come le formule generiche (“legno rovinato”,
“aiutandosi col dito”) sono diventate dettagli concreti e
visivi. Tutto questo si ricollega alla spiegazione sul Sommergere l’Io, ovvero negare i verbi di percezione e lasciare solo le percezioni stesse, presente più avanti nel
manualetto.
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Si mostra poco se l’oggetto serve solo a dare un senso
di realtà e di atmosfera facendo da contorno (come spiegava anche Flaubert), si mostra molto se l’oggetto attira
in modo particolare l’attenzione del personaggio e infine
si taglia se l’oggetto è irrilevante o il personaggio non lo
noterebbe mai. Meglio due elementi che danno una certa atmosfera abbozzati e uno ben dettagliato, rispetto a
trenta elementi inutili che allungano solo il brodo. Mai
avere paura di tagliare l’eccesso.
Si scrive con l’esplicito obiettivo (agenda creativa) di
massimizzare l’immersione narrativa (l’illusione) in una
vicenda interamente viva e credibile: cedere alla vaghezza o al Raccontato (ovvero a qualcosa che non esiste “qui
e ora”, ma è un riassunto a posteriori di azioni, elementi
o scene) distrugge l’illusione di verità.
Mostrare è il segreto della narrativa ricercato, più o
meno bene, dai migliori autori fin dai romanzi della seconda metà dell’Ottocento. I dettagli vividi, concreti e
chiari stimolano la mente del lettore, attirano la sua attenzione e lo rendono partecipe delle vicende.
Letteralmente: il cervello reagisce durante la lettura e
l’assenza di dettagli lo lascia “spento” mentre il loro arrivo lo “accende”, permettendoci così di vedere la scena.
Ma servono dettagli precisi, chiari, non termini vaghi e
generici: quelli lasciano il cervello spento. Mostrato, non
Raccontato, chiaro? Ci torneremo nel Corso Avanzato
con un’intera lezione dedicata al cervello durante la lettura.
Ora una chicca da The Craft of Fiction di Lubbock:
L’arte della narrativa non comincia finché il romanziere non pensa alla storia come a qualcosa da
mostrare, da esibire in modo che si racconti da so-
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la. [...] Deve sembrare vera, e questo è tutto. Non è
resa vera semplicemente raccontando che è vera.
Attraverso la percezione del personaggio PdV,
l’autore sceglie quali sono i dettagli significativi per la
storia e per la caratterizzazione dei personaggi e li mostra al lettore.
Per esempio l’autore (o il personaggio in veste di
Narratore, se preferiamo vederla così) non dirà, introducendosi con un commento fastidioso e invadente, che
Gino è scemo o che Gino è disonesto: costruiremo una
scena in cui la stupidità o la disonestà di Gino siano rilevanti per la storia. Nel momento in cui il lettore vedrà
Gino per quello che è, non avrà bisogno che l’autore appaia con il megafono da dietro il “mondo della storia” e
gli urli ciò che deve pensare di Gino.
Ciò che il lettore può pensare di Gino dipenderà dai
fatti in sé, Mostrati, e dal filtro psicologico del personaggio PdV che li interpreta (quindi personaggio come PdV
“qui e ora”, non come Narratore a posteriori: ricordati
che non vogliamo un diario). Un PdV estremamente
profondo e ben fatto può (e deve) convincere il lettore
della propria opinione, come se fossero i veri fatti. C’è
spazio anche per i pensieri astratti del PdV, naturalmente, ma non devono sostituire i fatti percepiti: meglio
concentrarsi sul soggettivizzare la percezione Mostrata e
ridurre al minimo i giudizi puri sconnessi dall’azione. Ci
torneremo dopo.
Ti faccio un esempio inventato di Raccontato infido,
del genere che sembra Mostrato (perché non è un riassunto di eventi) e invece non lo è.
«Arrivano!» gridò Gino, eccitato.
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“Eccitato”. Eccitato non mostra nulla. È un giudizio
che nasce da qualcosa di concreto nel comportamento e
nel tono della voce (“gridò” è ok, contribuisce bene: è
concreto, udibile). Quando vedi una persona eccitata, cosa ti fa pensare che lo sia? La gente ha forse un cartello al
collo? Hai mai visto un tizio dal volto impassibile che
regge sopra la testa un cartello che dice “eccitato”? Gli
crederesti?
Vanno scelti i dettagli concreti che fanno capire che
sia eccitato. E il fatto che sia eccitato deve ovviamente
avere un ruolo nella scena: se era lì “tanto per”, perché
metterlo?
In realtà, se il personaggio è costruito bene, noi dovremmo poter desumere la sua eccitazione perfino dal
solo contesto, ovvero aver già costruito nella nostra
mente un’immagine di lui che smania per qualcosa, poi
quel qualcosa avviene e noi non sentiamo solo gridare,
ma lo immaginiamo (da soli, senza indicazioni) gridare
“eccitato”.
Sintetizzando: se è importante che lui sia eccitato, allora tutto il contesto ci stimolerà a immaginarlo eccitato
e lui agirà e parlerà in modo utile per sostenere in modo
coerente questa idea di eccitazione… se invece il contesto
non ci invita a immaginarlo così, allora è facile che il
dettaglio stesso dell’eccitazione sia irrilevante.
Questo effetto è difficile da realizzare, ma è quello
che Čechov ottenne quando descrisse la notte e il luccichio della luce lunare su un vetro e il pubblico immaginò da sé la luna piena (ci torneremo dopo). Questo è in
un certo senso il vero significato della Teoria dell’Iceberg di Hemingway, troppo spesso fraintesa perché
citata da sola, senza collocarla nel contesto della storia
del Mostrato.
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La Teoria dell’Iceberg di Hemingway dice che la narrativa è come un iceberg perché lo scrittore deve conoscerne per intero ciò di cui parlerà anche se al lettore,
nel testo scritto, ne apparirà solo una piccola porzione,
come di un iceberg solo un ottavo è visibile e sette ottavi
sono sommersi.
Dettagli concreti: sceglili con cura, costruisci la scena
con un PdV coerente e avrai l’atmosfera… e l’atmosfera,
valore aggiunto più grande della semplice somma dei
dettagli, creerà nella mente del lettore nuovi elementi
adatti alla scena senza che tu abbia dovuto nemmeno
scriverli. Questo è il vero iceberg: una piccola porzione
di dettagli ben scelti costruisce l’atmosfera della scena ed
evoca implicitamente tutto il resto che non è scritto.
Questo, l’iceberg dei dettagli, significa “lasciare posto
alla fantasia del lettore”: non è la pigra interpretazione
che danno i cattivi editor, per comodità, di sostituire il
Mostrato col Raccontato, sperando poi che sia il lettore a
immaginare nel dettaglio ciò che è stato solo riassunto o
espresso con parole vaghe. Il cervello umano non funziona in questo modo quindi scrivere così e poi frignare
che ai lettori non piace è da poveri imbecilli. Scrivere
male non è “lasciare il posto alla fantasia del lettore”: è
abdicare al ruolo dello scrittore per faticare meno, e sperare che il lettore immagini i dettagli da solo… e no, non
lo farà, come dimostrato dall’uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI) sul cervello di individui durante la
lettura. Spiacente.
L’omissione, rafforzando lo spazio dato ai “dettagli
migliori”, rende ancora più potente l’effetto della descrizione perché non la diluisce. Questo principio retorico
già noto ai tempi di Aristotele, che loda la forza della
brevità nella sua Poetica, è anche alla base del motivo per
80
cui si consiglia di usare meno aggettivi possibili: al massimo uno per sostantivo e scelto sempre con gran cura.
“Di meno è di più” o, come diceva Gardner, “uno più
uno fa metà”.
Ma quel “eccitato” in realtà sarebbe un errorino minore, perdonabile. Preso da solo è anche ignorabile, nel
senso che se il resto del capitolo è buono non è certo un
errorino ogni tanto a far fuggire il lettore…
… ma se gli errori si moltiplicano e si infilano in ogni
pagina diventano una manifestazione di un problema alla base nel modo di lavorare, ovvero di come si immaginano le scene prima di scriverle. E quando si ragiona
male non si fa un errorino ogni tanto, ma se ne fanno di
continuo. A ogni paragrafo. A ogni capoverso. Anche a
ogni frase.
Il vero problema in un testo è quando di questi piccoli errori, del Raccontato blando in frasi altrimenti giuste o dei dettagli inutili che ammazzano la lettura, ce ne
sono troppi in giro. È appunto un problema alla radice.
Non si cura intervenendo solo sui sintomi, sui singoli errori, ma bisogna agire sulla “malattia” del ragionamento
scorretto che li genera.
Talvolta è un problema comportamentale che si corregge fornendo le regole da seguire, e altre volte è un
problema cognitivo che ha origine in una visione disfunzionale, malsana, di cosa sia la scrittura o di cosa sia
la libertà dell’autore, e finché non lo si cura l’autore non
riuscirà a convincersi ad applicare le regole.
In alcuni casi è possibile intervenire sulle frasi con
dei semplici tagli qua e là, senza bisogno di riscrivere
tutto. Ti faccio un esempio:
Giro le spalle e mi esibisco nella mia personale
versione di nuoto a quattro zampe. Dove non ar81
riva lo stile, sopperisce l'energia: la strizza che il
crucco mi ha messo addosso si dimostra sufficiente a farmi procedere con una certa celerità. In un
baleno mi ritrovo a fendere le acque e sono in
mezzo al fiume.
Il fatto che in un baleno si trovi in mezzo al fiume
indica a sufficienza la celerità, come il nuoto definito a
quattro zampe suggerisce che non sia proprio un virtuoso della bracciata. Rimane il problema del “mi esibisco
nella mia personale versione di nuoto” che suona comico quando la situazione è drammatica (il crucco vuole
ucciderlo). E questo non vorrebbe essere un testo comico: è un po’ sopra le righe, ma è stato impostato come un
testo d’azione, con pure degli elementi drammatici.
Quel commento è quindi fuori luogo, ammazza la
tensione e impedisce la costruzione di un’atmosfera coerente con lo scenario di morte e paura della battaglia: il
protagonista è in fuga dal nemico, senza più il proprio
veicolo, e da un momento all’altro potrebbe morire in
modo orrendo.
Sistemiamo il possibile senza buttare tutto:
Giro le spalle e mi esibisco nella mia personale versione di nuoto a quattro zampe. Dove non arriva lo
stile, sopperisce l'energia: la strizza che il crucco mi
ha messo addosso si dimostra sufficiente a farmi
procedere con una certa celerità. In un baleno mi ritrovo a fendere le acque e sono in mezzo al fiume.
Manca un po’ di carattere e non si può sempre scrivere in modo così scarno, ma almeno abbiamo tolto i
problemi più grossi senza dover cancellare tutto.
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In quest’altro brano il personaggio è ancora dentro al
proprio Mech e sta penetrando di notte nel territorio
nemico con la retroguardia, dopo che l’artiglieria ha
martellato la zona pochi minuti prima:
Passiamo vicino a un Granchio ribaltato, le zampacce rivolte alle stelle – una delle due ancora agitata dagli ultimi spasmi– e, nella luce incerta,
qualcosa si muove nel corpo centrale. Forse il pilota rimasto intrappolato tra le lamiere. Il cannone folgoratore del Granchio è appiattito sul terreno. Gli calco sopra le mie due tonnellate
piegandolo ad arco, un’azione tutto sommato priva di utilità che tuttavia mi concede un solleticante senso di freschezza, considerando quante volte
ho rischiato la pelle per colpa di quei gingilli.
Parole di troppo da sfoltire, e l’inciso coi trattini non
è il modo ideale di comunicare i dettagli. Serve al più a
dare l’idea di un pensiero che si sovrappone all’azione,
ma comunque è un modo un po’ rigido di scrivere, perché blocca il flusso dei dettagli, e va usato il meno possibile. Lo toglierei.
La luce incerta è sottintesa dal fatto che sia ancora
buio (è notte) e che il Mech nemico modello “Granchio”
rivolga le zampacce “alle stelle”. La considerazione sul
fatto che lo calpesti perché spesso hanno usato armi simili per ucciderlo è inutile e allunga solo il brodo.
Ecco un possibile intervento che non richiede di ripensare il brano, anche se quel “mi concede un solleticante senso di freschezza” rimane comunque vago e
bruttino, per cui sarebbe meglio sostituirlo con qualcosa
di diverso:
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Passiamo vicino a un Granchio ribaltato, le zampacce rivolte alle stelle – una delle due ancora agitata dagli ultimi spasmi– e, nella luce incerta,
Qualcosa si muove nel corpo centrale, forse il pilota rimasto intrappolato tra le lamiere. Il cannone folgoratore del Granchio è appiattito sul terreno. Gli calco sopra le mie due tonnellate
piegandolo ad arco, un’azione tutto sommato priva di utilità che tuttavia mi concede un solleticante senso di freschezza, considerando quante volte
ho rischiato la pelle per colpa di quei gingilli.
Torniamo alla teoria in senso più generale. Scegliere
i dettagli concreti è una parte determinante del ruolo
dell’Autore Implicito, ovvero il tuo “stile”, ciò che confrontando più opere simili scritte da te e altre paragonabili di un altro autore fa subito dire “Questa è di Mario
Rossi e anche questa, ma quest’altra no!”. La scelta dei
dettagli è il tuo marchio personale, lasciato sull’opera
nonostante tu abbia rispettato le stesse identiche regole
(Mostrare, PdV, trasparenza, pochi aggettivi ecc.) rispettate da altri autori.
D’altronde pur disponendo solo di un numero ridottissimo di lettere dell’alfabeto, non si scrivono testi tutti
uguali, giusto? Né avendo così poche note sul pianoforte
tutta la musica fattibile diventa uguale. Le regole non uccidono la creatività: trasformano uno che batte le dita a
caso sulla tastiera, per poi annoiarsi e lasciar perdere, in
un compositore (più o meno bravo).
Chi pensa che rispettare tutti le stesse regole renda
uguali tutti i testi, può evitare di preoccuparsi di rispettarle: non ha la mentalità né le capacità per scrivere
qualcosa di buono quindi è inutile pure che provi a stu-
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diare, come chi batte a caso sulla tastiera non potrà mai
aspirare a competere seriamente con Salieri o Beethoven. Per poter studiare il prerequisito è sviluppare prima
la mentalità che permetta di apprendere, se no si spreca
solo tempo.
Tutte le cose serie nella vita si fondano sulle regole e
sull’abilità di usarle al meglio: le “cose a caso fatte a caso
perché sì” non permettono di realizzare né la Divina
Commedia né di progettare un impianto a pannelli solari
né di salvare vite in sala operatoria.
Il fallimento dell’editoria italiana che ha portato al
fallimento della diffusione della lettura in Italia è stato
proprio questo: pensare che le cose siano fatte bene a naso, secondo ipotetiche “intuizioni senza riflessione” di
Crociana memoria che rendono lo scrittore un Talento
irraggiungibile e, di conseguenza, ogni studio per imparare la retorica della narrativa inutile (o perfino dannoso). Fantastico.
I dettagli concreti che avrai scelto vengono dalla
TUA sensibilità e fantasia di scrittore, sono quelli che hai
immaginato dopo aver scartato sistematicamente tutti
gli altri dettagli meno validi. Sono ciò che in concreto è
sulla pagina, l’unica cosa che conta: come altro si potrebbe indicare lo “stile” se non come quella specifica sensibilità e visione del mondo che porta a scegliere solo specifici dettagli e non altri?
Come diceva Wells, imparare a non scrivere è una
delle cose più importanti perché quando sai cosa non
scrivere e lo scarti, rimane di conseguenza solo ciò che
va scritto! Content is king, anche in questo senso.
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POI, DOPO, MENTRE, QUANDO
Tutte le formule come “poi”, “dopo”, “mentre”, “quando”
ecc. mettono in relazione eventi diversi tra loro e questa
relazione non appartiene al mondo sensoriale perché
prevede l’influenza di una mente giudicante a posteriori… ovvero il Narratore. “Finché” o “fino a” hanno già
un’applicabilità maggiore, collegano due elementi senza
rischio di far percepire uno stacco temporale col punto,
per cui quando proprio servono si possono usare (ma
non è un invito a usarli più del minimo necessario).
Ora guarda qui:
Lo noto quando comincia a sparare con i quattro
pezzi da 80 e, sulle linee alleate alle nostre spalle,
sbocciano sfavillanti aiuole di fiori gialli.
Oppure qui:
Sto fiancheggiando il rottame di una camionetta
crucca quando una sagoma spunta da dietro i resti
della cabina
O qui:
Li abbiamo osservati acquattati tra gli alberi, mentre puntavano il riflettore sulle acque nere e poi
ripartivano in direzione del Garda.
Dove sarebbe il Mostrato “qui e ora”, le sensazioni
esatte del PdV? Il Narratore sta raccontando da fuori, razionalizzando e riassumendo, ciò che percepisce.
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Nel mondo reale non esistono i “poi” o i “quando”:
esistono precise cose che, avvenendo una dopo l’altra, da
sole mostrano di stare avvenendo in sequenza. Sottolineare l’ovvio con il commento invasivo del Narratore distrugge la verosimiglianza. Se proprio un commento deve esserci, che sia un pensiero del personaggio espresso
“qui e ora”.
Non usare il Narratore Invadente per esprimere la
tua opinione su ciò che volevi mostrare o che stai mostrando. Mostralo e basta. Se senti di dover commentare,
allora lo hai mostrato male, con i dettagli sbagliati: mostralo meglio.
Qualsiasi commento del personaggio (gli unici possibili, non quelli dell’Autore-come-Narratore, deprecato)
deve essere mero filtro interpretativo delle sue esperienze sensoriali o, al più, un pensiero scaturito in modo naturale dagli stimoli sensoriali. Quando un personaggio
inizia a pensare a cose sconnesse da ciò che prova in quel
momento, si cade sempre nel rischio di estendere ancora
di più il parco dei pensieri possibili e passare agli infodump spiattellati a unico beneficio (ma forse è meglio dire “maleficio”) del lettore.
PROBLEMI DI PREVEGGENZA
Ricordati di mostrare ciò che percepisce e fa il personaggio sempre dall’interno del PdV. Se lo fai puoi evitare
errori al limite della preveggenza come questo:
In un baleno mi ritrovo a fendere le acque e sono
in mezzo al fiume. Il crucco però non pare intenzionato a mollare l'osso. Lancio occhiate da sopra
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la spalla: il Granchio avanza come un mostro degli
abissi.
Prima capisce che il crucco non vuole mollare l’osso
e dopo vede ciò che causa quel pensiero (il Mech tedesco
che lo insegue guadando il fiume): quindi è un preveggente!
Se invece di scrivere come ci porta il cuore si scrivesse con l’ossessivo e unico interesse alle sensazioni del
personaggio, non ci troveremmo mai a far trarre prima
al personaggio le conclusioni e poi a mostrare gli elementi che fanno trarre quelle conclusioni.
DIVENTARE IL PERSONAGGIO
Quando immagini la scena tu devi essere il personaggio
istante per istante, “dentro e subito” non “fuori e a posteriori”: avrai solo due occhi, quelli del personaggio, e
avrai una sola mente, quella del personaggio.
Non si può fare narrativa moderna, basata sull’immersione, senza rinunciare alla propria individualità per
diventare il personaggio. L’individualità dell’autore, ovvero il suo stile, rimane nella scelta del personaggio in
cui il lettore deve tramutarsi e nei dettagli che questi filtrerà… il famoso Autore Implicito già citato prima.
Quella dello scrittore è una fusione, una negazione
del dualismo che separava l’Autore-Narratore dal Personaggio e del dualismo che divideva il Lettore dal Personaggio, a favore di un solo personaggio figlio di un autore invisibile che diventi una porta sul mondo narrativo
facendo incarnare in sé il lettore.
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Se scrivere fosse una religione, il vero scrittore moderno sarebbe un Mistico, come i tedeschi di Meister
Eckhart o i Sufi musulmani o i monaci Zen, interessato
all’esperienza non-dualista della piena unità tra
l’uomo/lettore e la divinità/personaggio.
Tutto sarebbe donato a chi rinunciasse a sé stesso
assolutamente, anche per un solo istante.
(Meister Eckhart, 1260-1328)
Sull’importanza di rinunciare alla propria identità a
favore di quella del personaggio, un po’ come fanno i
bravi attori, si è espresso anche il buon Anton Čechov:
[…] buttare sé stessi a mare sempre e dovunque,
non intrufolarsi nei protagonisti del proprio romanzo, rinnegare sé stessi, non fosse che per
mezz'ora.
(Dalla lettera al fratello Aleksandr, 20 febbraio
1883)
Sarà il lettore poi, forse, a vedere le scene da fuori
invece che da dentro il personaggio, in base a quanto è
profondo il filtro nelle varie scene e a come è abituato a
immaginare le scene quando legge.
Troppa cattiva narrativa, la gran parte esistente (sia
commerciale che pseudo-intellettuale), ha fatto in modo
che alcuni lettori non siano nemmeno in grado di immaginare il vero effetto a cui aspira l’autentica narrativa
moderna. Incontrandola per la prima volta ne rimangono confusi (soprattutto per motivi di ethos, come dirò
dopo) o non colgono la differenza chiave con la cattiva
narrativa, anche se la vera narrativa piace loro di più.
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Non c’è infatti da stupirsi che tante persone, pur leggendo moltissimo, rimangano incapaci di comprendere
le motivazioni altrui e di giudicare al di fuori del loro
limitato sistema di valori. Le letture che hanno fatto non
hanno loro insegnato nulla sul divenire diversi da sé: al
più hanno imparato a provare “simpatia” da fuori per le
vicende dei personaggi, ma non vera “empatia”. Non vivono così l’autentica liberazione, la “catarsi”, che il divenire altro da sé permette spalancando davvero la nostra
mente verso nuove prospettive.
In ogni caso tu come autore dovrai basarti su una
narrazione costruita dall’interno del PdV, altrimenti chi
cercherà l’autentica catarsi col personaggio, che è ciò a
cui la narrativa moderna aspira, si troverà impossibilitato a sperimentarla.
Solo in rarissimi casi potresti sentire il bisogno di
staccarti dal personaggio e mostrarlo tramite una Telecamera Neutra sospesa nel vuoto, come se fosse al cinema, o come dico io “retta da un Fantasmino”.
Non è un buon modo di scrivere e al giorno d’oggi
può nascere dall’abitudine di pensare le scene vedendole
da fuori il personaggio, come se fossero le riprese del cinema. Questo modo di concepire le scene è però alieno
alle logiche con cui si scrive narrativa. Bisogna stare attenti a come funzionano diversamente teatro, cinema,
fumetto e prosa, come già detto: le caratteristiche tecniche influenzano i diversi metodi di esprimere le storie in
base ai punti forti e deboli specifici dei diversi mezzi.
Per esempio i dialoghi del teatro non sono gli stessi dialoghi della prosa o del cinema, perché assolvono funzioni diverse.
La Telecamera Neutra era tipica del Mostrato fatto
male dei primi decenni della rivoluzione di Flaubert, in
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cui si confondeva la verosimiglianza con l’assenza del filtro mentale del personaggio. E anche in quel caso, comunque, non poteva esserci posto per i commenti del
Narratore Invadente.
La Telecamera Neutra è un Mostrato da due soldi e
dalle potenzialità castrate anche dal punto di vista “etico”
della narrativa, ovvero la capacità delle opere di pervaderci, istruirci e cambiarci ponendoci nella “pelle” di individui molto diversi da noi, perché vediamo da fuori
invece di vivere da dentro.
In più soffre di una impossibilità tecnico-teorica legata al rapporto tra PdV e linguaggio, trattata nel primo
modulo del mio Corso Avanzato. Andiamo molto oltre i
bisogni di un Corso Base. A te basti sapere che devi evitare la Telecamera Neutra più che puoi: Mostra tutto penetrando nella mente del personaggio, più a fondo che
riesci, sempre.
Immergersi nel personaggio: questo è il concetto
cardine della narrativa contemporanea, l’apice di sviluppo dopo due secoli di evoluzione, dai timorosi tentativi
diaristici del ‘700 fino al Mostrato poco consapevole della prima metà del ‘900. Se capisci questo allora sei a posto, perché ogni regola e ogni accorgimento di stile ne
sono la diretta conseguenza.
UNA RIFLESSIONE SUL
NARRATORE E SUL PUNTO DI VISTA
Faccio una breve parentesi sulla distinzione che sto
usando tra Narratore e PdV. Di solito, in narrativa, il
personaggio PdV è indicato anche come Narratore, ma
questa definizione è inesatta perché non permette di di-
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stinguere ulteriormente il rapporto tra personaggio e lettore.
Con la penetrazione profonda, o in generale con un
PdV ben gestito (anche in penetrazione leggera), è ovvio
che il mondo, apparendo solo tramite i sensi del personaggio, renda il personaggio anche “Narratore della storia”. Non ha senso precisare che sia il Narratore, anzi,
precisarlo a livello teorico crea solo problemi perché
nessuno sta narrando nulla: la finzione narrativa deve illuderci (retorica della dissimulazione) di stare vivendo
una vicenda vera che avviene mentre leggiamo, sia
quando il tempo è al presente che quando è al passato
(ma al presente l’effetto è un po’ più forte).
Col PdV, soprattutto se profondo, più che essere un
Narratore il personaggio diventa il corpo che ospita il
lettore nell’esperienza catartica di divenire il personaggio e vivere una vita diversa con una prospettiva diversa.
Questa esperienza porta a un arricchimento culturale
e talvolta a una riflessione su di sé anche solo per aver
provato a mettersi nei panni altrui, qualsiasi siano: dal
pescatore che teme di aver perso la “virilità/dignità” e si
lancia in un’avventura al limite del suicidio ne Il Vecchio e
il Mare, alla fatina soldato xenofoba che cerca di riscattare il proprio nome disonorato in Assault Fairies.
Impariamo nuovi modi di concepire la vita e di vedere il mondo. Impariamo a capire le motivazioni di chi
ci è diverso.
Quando ha senso allora definirlo Narratore?
Solo quando effettivamente il personaggio ha un ruolo
in più, meta-narrativo, quello di dichiarare di essere
l’autore della storia che si sta leggendo, fingendo di averla scritta oppure fingendo di raccontarla in quel momento, a voce, al “lettore”.
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Il protagonista in La Luna è una Severa Maestra di
Heinlein lascia ai posteri le memorie della rivoluzione: è
una testimonianza scritta. La voce narrante in stile amicone (un tipo di “voce autorevole”) di Budella, il racconto
di Palahniuk, è invece un tentativo di simulare la presenza di qualcuno che sta parlando al lettore come se gli
fosse accanto. Nota però che Budella è inserito in un libro, Cavie, in cui davvero quel personaggio ha scritto
quella storia per gli altri personaggi…
Se letto singolarmente, tant’è che inizialmente Palahniuk lo pubblicò da solo in un numero di Playboy,
rende però bene l’idea che volevo comunicarti. Nota anche che il sottofondo comico della storia (l’aspirazione
delle budella dall’ano in una piscina, mentre ci si masturba) ben si sposa con quel distacco narrativo che in
una vicenda diversa, una vicenda che non fosse nemmeno un po’ comica, sarebbe una pessima idea.
Solo per questo lato comico-trash Budella, nonostante la presenza invadente del Narratore, funziona. Pensa
alla differenza tra ridere di Fantozzi vedendolo da fuori
col Narratore Invadente che commenta, esaltando le assurdità, oppure diventare Fantozzi vivendo di persona
(PdV profondo) il suo dolore e le sue umiliazioni. Nel
primo caso è comico, nel secondo è drammatico. Ridiamo di Fantozzi, non con Fantozzi.
Fuori dal comico non è una buona scelta rivolgersi
direttamente ai lettori: l’illusione di stare vivendo la vicenda per davvero, nel corpo e nella mente di un altro
individuo, si infrange.
Pensa a Fanteria dello Spazio di Heinlein: lì lo svantaggio del Personaggio-Narratore che porta la sua testimonianza diventa maggiore dei possibili benefici, che in
La Luna è una Severa Maestra erano quelli di poter rias-
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sumere mesi di preparativi in poche pagine di riflessioni. Se la storia fosse tutta in PdV profondo senza mai rivolgersi al lettore, con ancora più dettagli concreti e di
conseguenza molta più drammatizzazione, sarebbe molto migliore.
Discorso identico per Guerra Eterna di Haldeman in
cui addirittura la scarsa immersione, il voler essere narrativa-reportage, riduce enormemente il potenziale come opera che vuole raccontarci la follia di una guerra
lunga secoli e l’impossibilità per i reduci di reintrodursi
nella società.
LE CORNICI NARRATIVE
Lo stesso discorso si può fare per Sotto le lune di Marte, il
primo romanzo su John Carter: la finzione che siano vere memorie e lo stile da narrativa di viaggio che le rende
simili ad autentiche memorie (insomma tutta la cornice
meta-narrativa sulla reale esistenza di Carter) non serve
a nulla e crea solo problemi. Riscritto solo con scene
Mostrate “qui e ora” dal PdV sarebbe stato molto più godibile.
Quasi sempre la cornice è una pessima idea. È un residuato rugginoso legato alla paura, nel ‘700, con la rinascita del romanzo in Inghilterra, che a scrivere storie
esplicitamente inventate nessuno le avrebbe lette o apprezzate. Questo portò a scegliere di dare, con il diario o
con la cornice della testimonianza, una patina di realismo alle vicende… come oggi si fa con i farlocchi “tratto
da una storia vera” a inizio film.
Il motivo è lo stesso anche oggi: si teme che il pubblico sia troppo imbecille per apprezzare una storia
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esclusivamente inventata, troppo regredito a uno stato
subumano per potersi immergere in un altro individuo e
vivere la sua esperienza di vita, e allora bisogna ingannarlo con l’autorevolezza della storia vera.
È tristissimo ed è un elemento ulteriore per chi sostiene l’idea del progressivo degrado dell’intelletto umano nel corso degli ultimi cento anni, ma lo fanno davvero per questo motivo…
IL FILTRO E IL NARRATORE INAFFIDABILE
Il filtro profondo permette gradevoli giochi narrativi sul
Narratore Inaffidabile ovvero sulle interpretazioni del
PdV che si rivelano al lettore, tempo dopo, molto diverse
dalla realtà effettiva… essere caduti nel tranello di pensare che il PdV avesse ragione, anche quando c’erano elementi per dubitare di lui, crea una sensazione di realismo e verità che piace molto ai lettori moderni. La realtà
fornita è solo quella interpretata, e il “vero oggettivo”
rimane irraggiungibile.
Pensa a classici come Il Grande Gatsby, dove il Narratore Inaffidabile è presente decenni prima che Wayne
Booth desse un nome a questa particolare trovata retorica della narrativa e ne spiegasse il vero potenziale.
Per esempio in The Iron Dragon’s Daughter di Michael
Swanwick (pubblicato in italiano come La Figlia del Drago di Ferro all’intero dell’Urania Millemondi I Draghi del
Ferro e del Fuoco) la protagonista sembra sempre prendere l’unica decisione possibile, fino all’ultima parte della
storia, e sembra effettivamente sempre costretta a sacrificare gli altri per salvarsi. Al lettore difficilmente verrà il
dubbio che stia sbagliando… fino a quando si capirà che è
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la sua debolezza e il suo egoismo a portarla sempre alla
soluzione più facile, quella in cui lei si salva con meno
problemi possibili e gli altri soffrono, e che quella soluzione non è mai stata l’unica. Era sembrata l’unica soluzione possibile solo perché lei voleva giustificare le proprie azioni egoiste a sé stessa.
Da eroina che se la cava per un pelo sempre, quindi
un personaggio fondamentalmente positivo seppure opportunista, diventa invece un personaggio egoista e meschino… ma con un riscatto finale “in sospeso”: la protagonista cresce e cambia nel romanzo fantasy di Michael
Swanwick, che assume la forma di un vero e proprio
romanzo di formazione (“sospeso” perché alla fine viene
lasciato il dubbio che in fondo potrebbe non aver davvero imparato dai propri errori).
MOSTRARE CIÒ CHE CAUSA LA PERSUASIONE
Torniamo al buon Gino di cui abbiamo parlato prima.
Se non esistono scene (per quanto brevi, anche solo di
poche righe) per Mostrare la stupidità o la disonestà di
Gino, ovvero se questi due elementi non hanno spazio
alcuno nella storia, c’è da domandarsi se non sia meglio
evitare del tutto di Raccontare al lettore un dettaglio insignificante di un personaggio, magari, altrettanto insignificante.
Perché Raccontate al lettore qualcosa che poi non
Mostriamo nella vicenda? Perché costruire un Raccontato incoerente con il Mostrato? Tornerò di nuovo dopo su
Gino per completare il ragionamento. Prima ti faccio un
esempio concreto in cui Raccontato e Mostrato sostengono tesi diverse.
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È il 1905 e io odio Einstein. Credo che Einstein sia un
cretino e passo il tempo dicendo a tutti che Einstein non
capisce niente di Fisica. Io sto dicendo a tutti (Raccontando) che Einstein non sa nulla di Fisica. La gente può
credere o non credere, ma io non lo sto provando (Mostrando) con esempi concreti del perché Einstein sia un
imbecille che non sa niente di Fisica.
Einstein quell’anno (1905, Annus Mirabilis) pubblicò
i famosi testi sull’effetto fotoelettrico, il moto browniano
e la relatività speciale. Einstein ha sconvolto il mondo
con una nuova visione dello spazio, del tempo e della
materia. Einstein ha “mostrato” qualcosa da cui si deduce
che lui è un genio della Fisica.
Come sosteneva Aristotele: lo scopo della retorica
non è persuadere, ma è mostrare ciò che causa la persuasione. Tutti in poco tempo hanno creduto al genio che
Einstein aveva Mostrato con fatti concreti, ma ben pochi
(nessuno?) al fatto che venisse Raccontato che era un incompetente (e qualcuno lo avrà sicuramente detto: dietro ogni persona capace ci sono gruppi di denigratori…
figurarsi dietro un ebreo tedesco pacifista).
Esempio più diretto, in cui sia il Raccontato che il
Mostrato sostengono la stessa tesi. Se io dico “la convivenza pacifica tra persone dal colore della pelle differente è possibile, ma l’odio radicato da entrambe le parti
può rendere difficile o doloroso il cambiamento perché
anche se qualcuno smettesse di odiare gli altri, non è
detto che tutti gli altri smetterebbero di odiare lui e di
aggredire chi ama”, non ci piove che ho tirato fuori una
sequenza di ovvietà.
Non cambierà la vita di nessuno sentire una simile
sequenza di stupidate. Tramutiamole in scene drammatiche, costruite apposta per farci vedere il percorso di
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cambiamento di uno o più personaggi che da feroci nazisti diventano tolleranti verso la comunità afroamericana. Ora abbiamo American History X, un film che ha influenzato la visione del razzismo e della convivenza di
tante persone. È molto meglio ora. Chiaro, no?
RACCONTARE NON È DAVVERO UN’OPZIONE
Immagino avrai sentito dire che non c’è nulla di male a
Raccontare un po’, ogni tanto, soprattutto in chiusura o
in apertura delle scene Mostrate per collegarle meglio,
giusto? Anche io te l’ho indicato come possibilità prima,
ma non ho detto che non ci fosse nulla di male.
Se si intende dire che non c’è nulla di male nel senso
che la massa dei lettori non si accorgerà in modo esplicito del problema e si godrà tutto il Mostrato lo stesso, è
vero. Non è un singolo errorino a rovinare la lettura. Se
si intende che è artisticamente e tecnicamente uguale, è
una stupidaggine, chi la dice è un cialtrone e chi ci crede
è uno che si fa abbindolare con le facili scorciatoie.
Il motivo, già indicato un paio di volte prima, è di
una semplicità disarmante: nella vita esiste solo il “qui e
ora” (Mostrato) e nessuno si imbatte mai in un “riassunto” di eventi vissuti o cose percepite (Raccontato).
Solo il Mostrato è in grado di conseguire l’obiettivo
di verosimiglianza “trasparente” che è alla base della narrativa per permettere l’immersione e, successivamente,
conseguire qualsiasi altro scopo retorico ulteriore.
Visto però che spesso si preferisce evitare il problema dello spiegare come mai da almeno mezzo secolo gli
esperti siano concordi sull’importanza fondamentale del
solo Mostrato, gli autori dei manuali tendono, visto che
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comunque per il pubblico non cambia nulla, a essere
molto permissivi sull’uso di un po’ di Raccontato qua e là.
Sanno che nei loro romanzi scrivono in modo tutt’altro
che perfetto e hanno paura di essere criticati aspramente
se in un saggio si mostrano troppo inflessibili.
Ma voler evitare polemiche con i lettori, magari legate alle proprie colpe come autore di narrativa che verrà
bersagliato dopo aver scritto un manuale, è diverso
dall’affermare qualcosa in virtù della sua reale correttezza pratica e teorica. Bisognerebbe dire le cose come
stanno, ovvero che è sbagliato però non è così grave se
uno lo fa solo ogni tanto.
Tra i pochi autori onesti disposti a dire le cose come
stanno, senza mezze misure, perché si sono costruiti una
fama nell’ambito didattico che permette loro di dire la
verità senza paura, c’è Jack Bickham (professore della
scuola di giornalismo dell’Università dell’Oklahoma, con
75 romanzi pubblicati, morto nel 1997).
Il brano che stai per leggere viene da un capitolo di
Scene & Structure in cui Bickham stava parlando del fatto
che un romanzo è composto solo da scene e che ogni
scena è basata sul conflitto, con una “domanda” iniziale
sull’obiettivo del personaggio a cui la scena risponderà
alla fine negativamente, portando il personaggio lungo
un percorso di fallimenti sempre peggiori, crisi di natura
etica incluse, per gran parte dell’opera. Ho messo il corsivo sui punti più importanti: dovrebbero suonarti familiari.
Tali scene di conflitto sono tutto ciò che gli amanti della narrativa desiderano […] vogliono viverle
nella loro immaginazione. Viste come stanno le cose,
tu vorrai costruire delle scene più grandi possibili
e vorrai renderle più credibili – come se fossero
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reali – che potrai. Il metodo migliore per ottenere
questo fine è di presentare ogni scena momento per
momento, senza lasciare nulla fuori, perché non
esistono riassunti nella vita reale e quindi non
puoi avere nemmeno tu dei riassunti nella tua
scena, se aspiri al massimo realismo possibile e al
massimo coinvolgimento del lettore.
Ovviamente è sottinteso che il tutto da Mostrare sia
tutto ciò che conta, accuratamente selezionato per evocare al meglio, con pochi dettagli altamente drammatici,
i personaggi, i luoghi, gli oggetti ecc. ovvero la classica
regola del Mostrare “ciò che serve”, come sottolineata
anche da Čechov e da Hemingway.
Čechov, costruendo l’atmosfera complessiva della
notte e Mostrando i riflessi di luce lunare su un vetro
rotto, fece vedere la luna piena – mai descritta – ai lettori. Lettori che si stupirono, in un corso di scrittura, non
riuscendo a ritrovare alcuna descrizione della luna piena
quando rilessero il racconto apposta per ritrovare quella
descrizione che li aveva colpiti (aneddoto riportato da
David Madden in Revising Fiction).
Hemingway nella Teoria dell’Iceberg invita a conoscere il proprio argomento con un tale livello di perfezione da poter mostrare solo quei pochi dettagli perfetti
capaci di evocare, con tutta l’enorme forza data dalla
brevità, anche tutto il resto meglio di quanto accadrebbe
se ci si dilungasse con maggiori quantità di dettagli meno importanti.
Lo sosteneva già Aristotele nella Poetica: di meno è
meglio che di più, perché l’eccesso di dettagli meno validi diluisce l’effetto di quelli più validi. Pochi dettagli ben
scelti possono costruire un’atmosfera eccellente ed evocare nella mente del lettore più di quanto il testo dica
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“parola per parola”, ma questo può avvenire solo Mostrando. Sempre.
Perfino Wayne Clayson Booth, che ha rivalutato più
di tutti il povero Raccontato, non lo ha fatto in virtù del
suo essere un “riassunto” (che considera spazzatura), ma
attribuendogli un nuovo valore di “messaggio” trasmesso
tramite il Mostrato. Completamente diverso dal vecchio
Raccontare, che nulla può contro la potenza del Mostrare… e in parte connesso al concetto di premessa che introdurrò nella seconda parte del manualetto.
NON RIVOLGERSI AL LETTORE
Il vero problema è quando il Narratore-Autore (o il personaggio in prima persona) si rivolge direttamente al lettore, distruggendo la finzione di realtà narrativa con i
suoi commenti e le sue valutazioni (Narratore Invasivo).
Il Narratore che parla al Lettore, anche solo per un
istante, è una pessima idea. Come puoi immaginare, il
Narratore esterno al PdV che si introduce a commentare
come se scendesse col megafono dal cielo annienta la verosimiglianza. A meno che tu non sia abituato davvero a
vedere la manona di Dio che scende dal cielo e il suo vocione che romba nel megafono per spiegarti cosa devi
pensare di questo o di quello (come facevano Omero o il
Manzoni): in tal caso uno psicoterapeuta potrà aiutarti.
L’autore che si introduce nella vicenda per commentare è morto a metà Ottocento, con il lavoro di Flaubert,
il primo ad affrontare seriamente il problema. Cito dalla
lettera di Flaubert a Mademoiselle Leroyer de Chantepie, del 18 marzo 1857 (la ricordi?):
101
L’artista deve essere come Dio nella creazione, invisibile e onnipotente; bisogna percepirlo ovunque, ma non vederlo mai.
Nonostante questo, dopo un secolo e mezzo, lo zombie del Narratore Invadente continua ancora oggi a
emergere in giro. Una variante pericolosissima di questo
zombie è il personaggio che invade la vicenda come
Narratore. “Essendo il personaggio e dovendo filtrare
tutto è normale che permei tutto con la sua presenza,
quindi qual è il problema?” magari ti starai chiedendo.
Il problema è quando smette di filtrare “qui e ora” e
inizia a commentare come se conoscesse il futuro, per
quanto distante solo pochi secondi o minuti. O a riassumere (Raccontare), come se sapesse già tutto e lo sintetizzasse per il lettore. Ne abbiamo già parlato prima, ma
preferisco tornarci per sicurezza. Rimani sempre concentrato su cosa “ora” il personaggio percepisce, e quali
pensieri “ora” può avere in base a ciò che gli accade, e
non avrai problemi.
Commenti come questo:
È difficile da spiegare, ma sentire un sospiro del
genere dal capitano Caligaris, per uno della 26ª, è
come per un frate sentire il papa che molla una
bestemmia.
O questo:
(e state certi che il fronte è pieno di sottufficiali
impiccioni)
O questo:
102
Quest’azione è diversa dall’attacco alla colonna
corazzata, pertanto avanziamo nel bosco come
una squadra di schiacciasassi, travolgendo la vegetazione senza preoccuparci del rumore.
Questi commenti sono terribili perché fanno di tutto
per cacciare il lettore dalla vicenda, dandogli di gomito e
dicendo “vedi che è solo una storia, caro lettore? Vedi
che sono solo io che ti parlo e ti spiego pure le cose che
non conosci?”
Davvero, l’idea di base della narrativa è il contrario:
far immergere il lettore nella storia come se fosse vera,
come se il testo non esistesse e nemmeno l’autore, e non
ricordargli che sta solo leggendo una storia inventata!
AUTORE IMPLICITO E PENETRAZIONE
La narrativa moderna è nata col rifiuto dell’Autore che si
introduce e si è evoluta successivamente passando dalla
Telecamera Neutra (la vicenda non filtrata, mostrata
come se un fantasmino riprendesse tutto per farne un
film) fino allo stadio finale attuale, quello della penetrazione profonda.
Non c’è motivo di rinunciare al filtro del personaggio tramutandolo in una variante del Narratore Invadente. Che invada a volontà, ci mancherebbe, ma solo come
filtro del punto di vista che vive e commenta “qui e ora”
come se il lettore non esistesse!
Quando si scrive bisogna diventare il personaggio,
vedere il mondo con i suoi occhi, percepirlo con i suoi
sensi, e possibilmente filtrare il mondo attraverso la sua
mente e la sua visione del mondo. Questa è la vera nar-
103
rativa moderna: un’esperienza per il lettore di vita nel
corpo di un individuo diverso.
La penetrazione profonda è “diventare il personaggio” ed è quella obbligatoria per scrivere bene in prima
persona. Se l’opera è in terza persona, c’è anche la possibilità della penetrazione leggera, un po’ più neutrale, dove si mantiene solo l’accesso ai pensieri diretti del personaggio e si lascia più oggettiva possibile la percezione
sensoriale, senza filtrare tutto con la mente del personaggio. In prima persona la penetrazione leggera non
funziona bene, suona “aliena” e povera di filtro mentale.
Prima le abbiamo chiamate anche “focalizzazione”
profonda o leggera, ma chiamarle penetrazione, ora che
abbiamo dei concetti in più sull’immersione, è più preciso.
Alternare penetrazione profonda e leggera in terza
persona, come già accennato in precedenza, non è una
scelta ottimale perché crea incertezza narrativa. Stiamo a
tutti gli effetti nascondendo delle informazioni al lettore,
se evitiamo di usare il filtro “profondo” quando il personaggio avrebbe qualcosa da commentare e usiamo invece quello “leggero”.
Se facciamo così, alternando a piacimento, togliamo
valore al non detto della storia, perché non siamo più in
grado di dire se l’assenza di commenti sia legata o meno
all’assenza di opinioni. Il personaggio diventa inaffidabile non perché lo sia davvero, ma perché noi accendiamo
e spegniamo a piacere l’accesso alle sue opinioni per
confondere il lettore. Questo è un pericolo della terza
persona gestita male che tratto anche nel Corso Avanzato.
Nella penetrazione profonda non filtrare (interpretare) l’elemento indica semplicemente che il personaggio
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non ha un’opinione particolare della cosa che percepisce: la vede più oggettivamente che può, senza commentarla, perché non ha niente da dire a riguardo. Il non
detto ci dice qualcosa.
L’Autore rimane, certo, ma è un Autore Implicito: lui
crea il personaggio e le vicende e decide il tono della storia, ma non appare mai esplicitamente nel testo. La storia Mostra sé stessa, non è l’Autore che la Racconta. Il retore non persuade gli ascoltatori: Mostra ciò che ne
causerà la persuasione. Semplice, no?
Questa è la base della rivoluzione portata da Booth
nel mondo della narratologia: la sua analisi dimostrò che
la narrativa è una forma di retorica e non di mera estetica.
IL CONFLITTO ETICO OPERA-LETTORE
Il problema dello scrivere davvero bene è che se le idee,
la visione del mondo o il modo in cui il mondo appare
(tono, atmosfera), risultano insopportabili al lettore, questi a causa della gran quantità di sensazioni sgradevoli
smetterà di leggere.
Ma non è colpa della scrittura: la scrittura deve far
provare forti sensazioni con una immersione completa,
poi è naturale che se sono “di disgusto” ci saranno anche
persone che non vorranno leggere oltre. È un problema
di argomento, non di tecnica narrativa.
Tanti lettori hanno criticato Perdido Street Station di
China Miéville per le sensazioni sgradevoli che dava, pur
non essendo certo scritto bene come narrativa (troppa
Literary fiction dei poveri e comprensione sottozero
della penetrazione profonda), anzi…
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Scrivere una storia credibile con protagonista Roman
von Ungern-Sternberg in Mongolia prevede una quantità abnorme di antisemitismo, misticismo pseudobuddista, gente uccisa senza motivo con false accuse di
bolscevismo, torture gratuite (adorava tutti i supplizi che
coinvolgessero gli alberi, crocifissioni e squartamenti inclusi) e cadaveri abbandonati a marcire perché il Barone
adorava circondarsi di morti in decomposizione.
La maggior parte dei lettori troverà insopportabile
un protagonista che sia schierato dalla parte di Roman,
figurarsi vedere il mondo con gli occhi di quello psicopatico, costringendosi a giustificarlo (con la sua mentalità, non con la nostra, ovviamente) e a capirlo perché
l’immedesimazione così ci vuole obbligare a fare!
Questo è un elemento fondamentale del discorso etico di Wayne Clayson Booth sulla scrittura: se l’opera
esprime contenuti o valori estremamente diversi da
quelli del lettore, e con questi di conseguenza cerca di
influenzare e riformare chi la legge, il lettore la rigetterà
anche se è scritta benissimo.
L’impatto retorico (la qualità tecnica nel convincere)
dell’opera è astorico in quanto legato al lettore e non
all’epoca in cui venne scritta, di conseguenza permette
una critica astorica sulla qualità del testo come retorica.
Anzi, di più: meglio è scritta, ovvero più costringe a
immergersi nella sua visione del mondo, e più sarà efficace nel disgustare il lettore che ne è allergico, per
esempio imponendo a un razzista convinto di dover
immaginare i negri come persone normali o a un marxista di dover osannare il neoliberismo.
A pochi estremisti, e tutti sono estremisti in qualche
ambito per quanto possa essere ristretto, piace la propaganda del fronte avverso.
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Se i lettori odiassero i cagnolini non leggerebbero
mai una storia con eroi cagnolini scritta per gli amanti
degli animali. Idem chi odia la fantascienza militare non
apprezzerebbe mai un libro di quel genere, nemmeno se
fosse un capolavoro.
Non tutte le storie sono per tutti e capirlo prima di
esprimere “giudizi” che nulla hanno a che vedere con
l’opera in sé, ma solo con “il proprio sé” rispetto all’opera, è una forma di consapevolezza umana e di educazione all’arte che molti non posseggono.
IL FILTRO SOGGETTIVIZZA LA REALTÀ
Torniamo per l’ultima volta al nostro Gino. Se proprio
vogliamo possiamo mettere un commento sul fatto che
Gino sia stupido o disonesto sotto forma di pensiero del
PdV (esplicito se la penetrazione è sempre leggera o mischiato nel filtro generale se è sempre profonda) o di
battuta di dialogo. Ma sia chiaro che lo inseriamo col
personaggio in quanto PdV, non come invasione del
Narratore!
Il PdV permette certe definizioni vaghe, Raccontate,
perché la mente realisticamente pensa talvolta in termini
“generici” (idem i dialoghi accettano termini vaghi o avverbi in “–mente”), ma è meglio usarne il meno possibile. E bisogna ricordare che quel pensiero non è necessariamente la verità su Gino: non è l’Autore, come Omero,
che arriva e ci rivela la vera natura di un dato personaggio, ma è il personaggio (inaffidabile per definizione, in
quanto non onnisciente) a dirci qualcosa.
Quel pensiero più che Raccontarci qualcosa di Gino
ci Mostra invece la personalità del personaggio che lo
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pensa. Se il protagonista ha solo pensieri di fastidio e di
disprezzo per gli operai e li ritiene una massa di pigri
fannulloni, ma le scene Mostrano operai sottopagati che
lavorano fino a svenire in condizioni disumane… beh,
pare ovvio capire che quel pensiero non ci ha detto
qualcosa sugli operai, ma qualcosa sul protagonista. No?
Ti faccio un esempio concreto di cosa significhi filtrare col PdV. Lo stesso uomo di colore con i jeans stracciati può essere visto come:
1. un negro straccione (PdV razzista)
2. un povero immigrato discriminato da una società razzista e intollerante (PdV vittimista)
In base al personaggio che fa da punto di vista nella
storia cambia tutto. E magari nessuno dei due ha ragione: magari è un italiano nato in Italia, avvocato, che indossa per moda jeans stracciati firmati da 400 euro.
D’altronde è esperienza comune che la moda, ormai,
porti a investire somme spropositate per qualcosa che
pare rigurgitato da una fogna o pescato per 5 euro al
mercatino cinese. La vita moderna ci insegna che il poveraccio e il fighetto modaiolo possono essere simili nel
vestiario, a uno sguardo disattento ai dettagli.
Il PdV che filtra inquina col pregiudizio e con la sua
visione del mondo tutto ciò su cui ha una sua opinione.
Le cose su cui ha un’opinione sono quelle che l’Autore
Implicito sceglie per caratterizzarlo, ovvero quelle utili e
necessarie a costruire un personaggio credibile e adatto
alla storia. Storia e personaggio sono strettamente legate.
Torniamo all’esempio del poster col cantante nella
cameretta di una ragazzina, fatto un bel po’ di pagine fa,
108
e vediamo come potrebbero notarlo due personaggi differenti in prima persona.
Un’amica della ragazzina, entrata per la prima volta
nella cameretta, nota subito il poster sull'armadio e riconosce il cantante:
Sull'armadio due pezzi di nastro adesivo tengono
su un poster alto mezzo metro di Rick Timballo.
Indossa il cappello e gli stivaloni da cowboy del
suo ultimo video. La chitarra rossa con le fiamme
è poggiata contro l'inguine e le sue mani la accarezzano. Ucciderei per essere quella chitarra.
Ora un detective di mezza età, misantropo e irritabile, che sta indagando sulla scomparsa della ragazzina.
Nota il poster perché è grosso, ma non riconosce il cantante:
Sull'armadio è appeso un poster con uno di quei
dementi che piacciono alle cerebrolese di oggi.
Cappello da cowboy, faccia da finocchietto drogato, e la chitarra alzata a 45 gradi contro il pacco
come se fosse il pisellone che non ha. Chissà se col
culo ci caga anche…
Per finire, come lo percepirebbe la ragazzina che vive in quella cameretta? Se non ci sono particolari motivi,
come lei che inizia a pensare a Rick Timballo oppure un
moscone che si posa sul poster e lei lo nota per quello,
lei non lo noterà perché è un elemento abituale della sua
cameretta. Da solo non basta ad attirarne l’attenzione,
devi darle un motivo. Chiaro?
La stessa storia, come è facilmente immaginabile
dopo aver letto gli esempi, sarà molto diversa in base al
109
PdV scelto tra i personaggi che si trovano lì… e non sarà
nemmeno la “stessa” storia se si sostituisce proprio il
personaggio principale, visto che la vicenda reagisce al
personaggio e il personaggio reagisce agli eventi della vicenda, plasmandosi l’una attorno all’altro in modo dinamico. Questo dinamismo dona un senso di realismo a
tutto.
Una storia che fila liscia senza che il personaggio la
plasmi è una storia cattiva perché, come detto, il personaggio risulterà “passivo”, costretto a subire gli eventi
senza poterli perlomeno orientare in una certa direzione
scelta da lui, con le sue capacità e la sua personalità. Entreremo nel dettaglio sul rapporto tra personaggio e storia nella seconda parte del manuale.
L’AUTORE IMPLICITO
NON È L’AUTORE FISICO
L’Autore Implicito è l’alter ego dell’Autore Fisico nel
singolo romanzo, cosicché un Autore Fisico può avere
una personalità diversa in ogni libro, adottando ogni volta un Autore Implicito diverso. Motivo per cui usare le
opere per parlare degli Autori Fisici è considerata da decenni una pratica indegna di un serio critico competente: se l’opera va studiata, si analizzi solo ciò che vi appare
riga per riga e parola per parola (Nuova Critica e Scuola
di Chicago), invece di blaterare di tutt’altro pur di non
sporcarsi le mani con il testo.
Già a fine ‘800 il povero Čechov si lagnava che in base al racconto venisse accusato di essere un pericoloso
comunista o un porco reazionario o chissà cos’altro, perché la mente chiusa dei critici dell’epoca non capiva che
110
lui come persona poco aveva a che fare con le molte
e diversissime personalità che trasparivano dalle sue
opere.
Le cose non sono cambiate oggi. Se scrivi di una protagonista ragazzina che vive in modo malsano la propria
sessualità sentendosi in dovere di concedersi al fidanzato
anche se non si sente pronta, per esempio, o che sottovaluta il pericolo del sesso non protetto o dell’anoressia,
troverai sempre degli idioti che diranno che è immorale
scrivere certe cose e che un autore adulto non dovrebbe
esprimere certe idee tramite i personaggi. O se lo fa deve
però condannare queste idee nella storia. Figurati se
scrivi contenuti apertamente razzisti o contro le superstizioni organizzate in religioni.
Ci sarà sempre gente che confonderà le idee del personaggio per quelle dell’autore. Gente che legge, ma non
ha proprio capito cosa sia o a cosa serva la lettura. Gente
bloccata nel proprio ristretto gruppo di convinzioni, incapace di aprire la mente alla vera diversità, e che usa
tutto l’arsenale della sua mentalità fascista (in senso ampio, vedi dopo) per sproloquiare di “progressismo”, difendere a oltranza le minoranze “in quanto minoranze”
(ma solo quelle di moda in quel periodo, non le altre, mi
raccomando!) o altre battaglie sociali del branco diffuse
in quel momento.
Il fascismo è nel metodo (si veda anche il discorso di
Umberto Eco ne Il Fascismo Eterno), non nel contenuto
del momento promulgato con i metodi del fascismo, e
nemmeno se ne rendono conto: veri e propri “fasciotardati”, peggio perfino dei fascisti veri che almeno sanno
di essere tali. La consapevolezza, quando perlomeno c’è
quella, è già una virtù in sé. Virtù rara, come la psicologia
sociale ci ha insegnato abbondantemente.
111
Quindi uno dovrebbe evitare di scrivere di certi argomenti? Bisognerebbe rinunciare a realizzare un manga
come Life solo perché parla della vita di una ragazzina
che si infligge tagli sulle braccia perché non sa come
convivere con lo stress, le proprie emozioni negative e la
paura di non essere accettata?
Cosa bisogna fare per evitare “le grida dei beoti” (citando il matematico Carl Friedrich Gauss): censurarsi su
ogni argomento pericoloso e scrivere solo del minimo
comune denominatore morale valido per tutti?
No. La vita è piena di cose deprecabili e, se non vuoi
scrivere nulla di tutto ciò per paura degli idioti bigottibenpensanti, dovresti ridurti a scrivere solo di “realtà di
plastica”. Shakespeare non lo faceva, non farlo neppure
tu. Bisogna fregarsene perché l’idiozia dei mentecatti non è
un problema degli autori.
C’è un termine tecnico per chi confonde le opinioni di un personaggio di un libro con quelle
dell’autore. Quel termine è idiota.
(Stephen Michael Stirling)
Non si può fare niente per evitare al cento per cento
le critiche dei fasciotardati, quindi non c’è motivo di
preoccuparsene: bisogna accettare che i beoti grideranno, come si accettano la grandine, il caldo e altri fenomeni naturali privi di intelletto. Scrivi di ciò che vuoi e
fallo meglio che puoi. Il vero schifo sarà sempre e solo
uno: censurare la propria creatività.
Per completare questo lungo discorso su come costruire al meglio il filtro del punto di vista nella scrittura
immersiva, ecco un’ultima tecnica fondamentale…
112
SOMMERGERE L’IO
Sommergere l’Io è quando, avendo focalizzato il PdV
leggermente o profondamente dentro il personaggio, si
mostra il mondo solo tramite ciò che il personaggio vede, sente, pensa o prova, senza l’intermediazione dei
verbi di percezione o di pensiero. Niente “guardare”,
“sentire”, “pensare”: solo la percezione o il pensiero puro
privo dell’intermediazione Raccontata del verbo.
È fondamentale che si filtri tutto con la mente del
personaggio perché renderà la penetrazione nella sua
mente ancora più chiara e profonda, e di conseguenza
aumenterà notevolmente la possibilità di catarsi.
Non si dirà più che “guarda nel cassetto”: lo apre e si
dice cosa vede e cosa fa. Più un oggetto è descritto nel
dettaglio e con più attenzione lo sta guardando. Meno è
descritto e più si tratta di una rapida occhiata. Come detto in precedenza: c’è il tavolo da parecchie righe di dettagli e c’è il tavolo ridotto alla sola etichetta di tavolo.
Non si dirà che “sentì un rumore”, si dirà che c’è un
rumore preciso: scricchiolio, gracidio, rantolo, pling pling
come un rubinetto che perde… quel che è. Bisogna cancellare il filtro esterno che ci dichiara che, ohibò, gli oggetti li si vede guardandoli e i suoni li si sente sentendoli.
Sommergi l’Io, lascia solo l’esperienza che il PdV sta
vivendo. Per farlo ripensa tutto senza usare i verbi come
guardare, sentire, pensare, volere ecc. poi immergiti nel
personaggio e vivi tutto con i suoi sensi. Cosa vedi, cosa
odori, cosa provi?
Tu sei il personaggio. Vivi la sua esperienza, con i
suoi sensi e la sua mente, e riportala per i lettori. Vivi la
catarsi per favorire la catarsi del lettore. Tu diventerai il
113
personaggio per cogliere al meglio ogni istante del suo
agire e il lettore, di fronte a una vicenda riportata così
vividamente, si sentirà assieme al personaggio, si sentirà
nella sua testa.
Se non percepisci abbastanza dettagli e non sai cosa
dire, ristudia tutta la scena: nella tua mente deve essere
vera come se fosse reale, solo così potrai scegliere quei
pochi dettagli che evocheranno nella mente del lettore
l’atmosfera di tutto l’insieme. Il famoso iceberg di Hemingway: un ottavo di detto, il migliore, e sette ottavi di
omesso, i meno adatti.
Il sommerso di qualità inferiore che l’autore nasconde volontariamente (non per ignoranza, ma per scelta
ragionata) supporta la minore componente mostrata di
qualità superiore. Se l’autore conosce a fondo
l’argomento (come è una strada affollata di Milano in
piena follia collettiva per i saldi? Com’è l’interno di un
carro armato?) saprà infatti quali dettagli contano davvero per evocare al meglio il tutto nella mente del lettore.
In realtà questa mia versione del Sommergere l’Io
pesca sia dalla definizione originale di Palahniuk (terzo
articolo sulla scrittura del suo corso) che dalla parte che
ha dedicato ai “verbi di pensiero” (sesto articolo), per costruire un quadro più completo.
Dal sesto articolo del corso di scrittura di Chuck Palahniuk:
Tra sei secondi mi odierai. Ma tra sei mesi sarai
uno scrittore migliore. Da questo istante in poi
(per almeno mezzo anno) non potrai usare i verbi
di “pensiero”. Pensa, conosce, capisce, realizza,
crede, vuole, ricorda, immagina, desidera e centinaia di altri che ti piaceva usare.
[…]
114
Invece di dire che i personaggi sanno qualcosa,
dovrai presentare i dettagli che permettano ai lettori di conoscere quelle cose. Invece di dire che il
personaggio desidera qualcosa, dovrai descrivere
quel qualcosa in modo tale che il lettore lo voglia.
Invece di dire: “Adam sapeva che Gwen era attratta da lui.”
Dovrai dire: “Tra una lezione e l’altra Gwen stava
sempre appoggiata all’armadietto quando lui andava ad aprirlo. Roteava gli occhi e si spingeva via
con un piede, lasciando il segno nero del tacco sul
metallo dipinto, ma lasciava anche il suo profumo. Il lucchetto a combinazione era caldo per il
contatto con il suo sedere. E alla pausa successiva
Gwen sarebbe stata di nuovo appoggiata lì.”
Tagliando corto, basta riassuntini. Solo dettagli
sensoriali specifici: azioni, profumi, gusti, suoni e
sensazioni.
L’esempio di Palahniuk lo puoi interpretare come un
filtro del personaggio PdV che rammenta la questione
(per questo suona un po’ raccontata, nonostante i dettagli ci siano), magari perché Adam sta vedendo Gwen in
quel momento e gli viene naturale pensare che lo fa
sempre e pregusta il calore del suo sedere sul lucchetto.
Se vuoi scrivere buona narrativa non scriverai cose
come:
Sento odore di carne cotta.
Odo scricchiolii di lamiera.
Che poi, in prima persona, non Sommergere l’Io per
bene aggiunge sempre un tocco pericoloso di Narratore-
115
che-parla-al-Lettore anche quando in realtà non lo sta facendo.
Solo Sommergendo l’Io la vicenda può essere verosimile: nel mondo reale si sentono i suoni, non si sente
di “sentire i suoni”; se si vede un oggetto lo si vede e basta, senza il verbo “vedere” che ci appaia davanti al naso.
Padroneggia queste tecniche di scrittura e sarai davvero
nel personaggio. I tuoi lettori non si accorgeranno
nemmeno di quello che hai fatto, ma saranno molto felici del risultato!
Con questo si chiude il discorso sul filtrare al meglio
la narrazione attraverso il punto di vista del personaggio.
Nel resto della prima parte del manuale parleremo di alcune questioni di scrittura ulteriori che è meglio conoscere. Sono importanti anche loro per affinare la tua
scrittura.
116
COME SCRIVERE I DIALOGHI
Come accennato all’inizio del manuale, mi aspetto che tu
sappia come sono fatti i dialoghi in un romanzo, il tipico
discorso diretto in cui le battute dei personaggi sono riportate parola per parola, introdotte o circondate tipicamente da dei segni grafici come la lineetta (– Bla.), le
virgolette caporali («Bla bla.») o le virgolette alte (“Bla
bla.”). In Italia le più utilizzate sono le virgolette caporali,
mentre nel mercato anglosassone si usano al loro posto
le virgolette alte.
Quali utilizzare di questi segni e come gestire la punteggiatura di chiusura delle battute dipende da editore a
editore, e spesso ogni collana di un dato editore può avere standard diversi (puoi vederlo facilmente verificando
opere di diverse collane della Mondadori). Non è raro
nemmeno che le opere di una stessa collana adottino di
volta in volta standard differenti, e non ci vedo nulla di
male. Io consiglio un metodo per gestire la punteggiatura nel mio Corso Avanzato, lo stesso che i miei autori
adottano in Vaporteppa. Se vuoi vedere i vari standard
di punteggiatura dei diversi editori, ti ho messo un PDF
dedicato nella pagina degli extra.
Una quarantina di pagine fa abbiamo parlato anche
del discorso indiretto e ti ho spiegato perché non va utilizzato. Inutile discutere di come si realizzino cose che in
ogni caso non devi fare perché sono sbagliate. In questa
lezione del Corso Base ci dedicheremo solo a cose con-
117
crete che davvero possono aiutarti a gestire meglio i dialoghi.
Cominciamo con i dialogue tag, ovvero quei verbi
come disse, ribatté, urlò ecc. che di norma si impiegano
per far capire chi parla e come pronuncia la battuta. La
regola è semplice: usane il meno possibile perché sono
forme di Raccontato.
Al posto dei dialogue tag vanno utilizzati maggiormente i beat, ovvero i piccoli gesti dei personaggi tra una
battuta e l’altra per indicare chi parla quando la cosa non
è evidente, e per aggiungere dinamismo e verosimiglianza al tutto. Attenzione, la definizione di beat varia di
manuale in manuale: in questo caso lo sto usando solo
nel significato indicato prima, non in altri.
Conserva le indicazioni col dialogue tag solo per
quando ne hai proprio bisogno o quando sono utili a dare dettagli concreti. Sussurrare, urlare, sbraitare, abbaiare ecc. vanno bene, sono concreti, richiamano qualcosa
di percepibile. Ribattere, concludere, sottolineare ecc.
fanno schifo, raccontano ciò che è ovvio dalla battuta
stessa.
Anche “rispondere” è problematico: se il personaggio
risponde a una domanda è ovvio che stia rispondendo.
Si può conservare per quei casi disperati in cui si è già
abusato dei “disse” e per qualche motivo non è possibile
usare un beat. Il meno problematico, se proprio bisogna
usare un dialogue tag generico, rimane sempre il buon
vecchio verbo “dire” (“disse”, “dice”, “dico”).
“Domandare” lo puoi conservare per i casi in cui ti
servirebbe un “disse/dice”, ma non vuoi usarlo perché il
tono della frase è interrogativo (“disse” non è interrogativo, di per sé, per cui risulta discordante con la domanda) allora “domandò/chiese” risulta neutrale a suffi-
118
cienza. L’ideale, comunque, è avere bisogno il meno
possibile dei dialogue tag.
Esempio di pessimo dialogo:
«Vai dentro!» gridò Roberto a Mario.
«No! Resto qui a coprirti!» rispose questi.
Davvero se qualcuno dice qualcosa in risposta a un
altro c’è bisogno di specificare che è in risposta? Non è
evidente? E quel “questi” per timore di ripetere Mario?
Meglio usare un beat e quando Roberto grida è ovvio dal
contesto della scena (che non riporto) che si stia rivolgendo a Mario e non a un altro personaggio, per cui non
serve dirlo.
«Vai dentro!» gridò Roberto.
«No!» Mario piantò un piede sulla pancia del cinese e gli strappò il coltello dal costato. «Resto qui a
coprirti!»
Bisogna stare attenti anche alle battute con troppi
punti esclamativi o che suonano un po’ fasulle. Il tono
esclamativo del dialogo andrebbe suggerito dal contesto,
dai beat e dalle battute, e il punto esclamativo andrebbe
distribuito con cura per dare forte enfasi a momenti particolari della battuta. Guarda questo schifo:
«Alberto! È giunto il momento di agire! Non esitare! Questi non sono i tuoi libri, i tuoi esperimenti,
questa è la guerra! Volevi fare la tua parte, no? È il
tuo momento! Rispondi! È tutto chiaro?»
Può diventare (mantenendo l’enfasi con l’uso del nome
proprio nella battuta):
119
«Alberto, è giunto il momento di agire!» Ruggero
lo afferrò per le spalle e gli piantò lo sguardo negli
occhi. «Volevi fare la tua parte? È il tuo momento!»
Guardiamo come migliorare questa:
«Cominciamo,» disse allora Ruggero, e si avvicinò
al braciere posto al centro del tracciato di gesso.
Possiamo togliere il “disse” senza dover aggiungere
alcun beat, passando subito all’azione svolta dallo stesso
personaggio che ha detto la battuta:
«Cominciamo.»
Ruggero si avvicinò al braciere al centro del tracciato di gesso.
Nel caso del fantasy o della fantascienza bisogna stare attenti quando i personaggi comunicano telepaticamente. È meglio separare sempre le battute ed evitare il
flusso di coscienza perché non aggiunge nulla alla lettura
se non confusione. Lo so che il flusso indistinto vorrebbe
avere un effetto del tipo “è tutto nella stessa mente”, ma
si ottiene solo un casino schifoso:
Salvatore, ci sei? Ti sento. Dove ti trovi? Nella cantina del ristorante. Era vero, è l’accesso a una rete
di tunnel sotto il paese. Mario… So dov’è, ma non
ha trovato nulla. Devi stare attento. In quel paesino c’erano adoratori di demoni prima ancora che
Napoli venisse fondata. Lì dentro strisciano cose
ancora peggiori di quei cinesi strafatti… Salvatore,
mi stai rompendo le palle con le tue superstizioni
120
da terrone. Hai qualcosa di intelligente da dirmi o
puoi uscire dalla mia testa? Solo dirti che c’è qualcosa che non va. C’è… qualcuno. O qualcosa.
Orribile, eh? Non si è mai sicuri se sia Salvatore o
l’altro (Alfredo) a parlare nella testa di quest’ultimo. Una
gran confusione che non è presente nell’esperienza reale
di Alfredo, per cui la nostra esperienza leggendo non è
realistica perché ciò che è chiaro per Alfredo (chi sta parlando nella sua testa, se i suoi pensieri o quelli di Salvatore) non lo è per noi.
Per esempio, se siamo in prima persona e quindi non
usiamo il corsivo per i pensieri, possiamo usarlo per
queste comunicazioni telepatiche. Magari col virgolettato per scandire meglio le battute e poter fare dialoghi telepatici anche con pochissime azioni esterne. È comunque preferibile avere delle azioni, soprattutto dei beat,
senza lasciare il protagonista imbambolato come un fesso mentre discute mentalmente con l’altro.
Facciamo una prova. Salvatore è in un vecchio ufficio o qualcosa di simile, a frugare tra scatoloni di roba
dei nemici. Alberto è in missione altrove e lo contatta.
“Salvatore ci sei?”
Chiudo lo scatolone e lo allontano col piede. “Ti
sento. Dove ti trovi?”
“Nella cantina del ristorante. Era vero, è l’accesso a una
rete di tunnel sotto il paese. Mario…”
“So dov’è, ma non ha trovato nulla. Devi stare attento.”
Mi avvicino lo scatolone successivo e lo spalanco.
Un mucchio di vecchi libretti. “In quel paesino
c’erano adoratori di demoni prima ancora che Napoli
venisse fondata. Lì dentro strisciano cose ancora peggiori di quei cinesi strafatti…”
121
“Salvatore, mi stai rompendo le palle con le tue superstizioni da terrone. Hai qualcosa di intelligente da dirmi o puoi uscire dalla mia testa?”
Tiro fuori un paio di libretti. Sono solo vecchi
Urania ammuffiti. “Solo dirti che c’è qualcosa che non
va. C’è… qualcuno. O qualcosa.”
So che non è facilissimo rendere chiaro chi parla
perché l’assente non può compiere beat (lo stesso problema è presente nelle chiacchierate al telefono, se ci
pensi), ma come hai visto possiamo evitare i dialogue tag
sfruttando bene i beat dell’unico presente, il PdV che
sperimenta il discorso telepatico. Come visto sopra.
E ovviamente l’avverbio “mentalmente” è sempre
superfluo… riprendiamo l’esempio di prima, ma cambiamo e passiamo il punto di vista ad Alberto nel sotterraneo.
Passiamo da:
“Potrebbe essere perfino peggio dell’avvento del demone
Culonio.”
“Che cosa c’è di peggio del trovarsi tutti senza il buco
del culo?” chiese allora mentalmente Alberto. Si
abbassò sulle ginocchia e tracciò un solco con
l’indice nella spessa polvere del pavimento. Di là
non passava nessuno da secoli, men che meno dei
cinesi pieni di crack. Si ripulì il dito sul pantalone.
A:
“Potrebbe essere perfino peggio dell’avvento del demone
Culonio.”
Alberto si abbassò sulle ginocchia e tracciò un solco con l’indice nella spessa polvere del pavimento.
122
Di là non passava nessuno da secoli, men che meno dei cinesi pieni di crack.
Si ripulì il dito sul pantalone. “Che cosa c’è di peggio
del trovarsi tutti senza il buco del culo?”
Ecco un altro dialogo problematico da trasformare:
Alfredo lo lasciò andare. «Salvatore dice che sta
arrivando qualcosa. Turaculetti, li ha chiamati.
Che cosa sono?»
Domenico scrutò nei turbini di sabbia che si facevano sempre più rapidi sulla spiaggia; sembrava
che una nebbia marrone stesse circondando la villa. «Demoni. Spiriti di morti senza sepoltura, in
cerca di un culo in cui entrare, risalire fino al cuore e fermarlo. I Sacerdoti Neri di Ercolano frequentano di nascosto quel tempio sotto il Vesuvio,
o così pare. Commerciano in cadaveri. Li comprano dai clan pagandoli in cocaina a basso prezzo e casse d’armi dai paesi ex-sovietici… pare che
usino i corpi martoriati e decomposti dei morti
per tramutarli in nuovi Turaculetti. San Gennaro…
allora esistono davvero…» disse, quasi sussurrando, scrutando nei vortici di sabbia.
Guarda quel “sembrava”, il doppio scrutare la sabbia,
il “quasi” o lo spiegone innaturale per dire ad Alfredo cose che di sicuro sa già (e se non le sa gliele si può far sapere altrove) in modo che il lettore le sappia. Uno schifo.
E poi quelle formule dubitative fastidiose anche in
un dialogo (“o così pare”, “pare”), soprattutto per un personaggio come Domenico che si vorrebbe rappresentare
come un saggio ricchissimo di conoscenze esoteriche
partenopee. Non va bene.
123
Meglio alleggerire almeno un pochino il tutto, visto
che la questione di come i Sacerdoti paghino i clan della
camorra dovremmo scoprirla altrove o saperla già prima. Magari non sapevamo cosa compravano esattamente, ma sapevamo che pagavano con cocaina e armi. Il
PdV è ancora Alfredo:
Alfredo lo lasciò andare. «Salvatore dice che sta
arrivando qualcosa, i Turaculetti. Cosa sono?»
Una nebbia marrone stava circondando la villa.
Turbini di sabbia si sollevavano dalla spiaggia.
«Demoni.» Lo sguardo di Domenico si rivolse ai
turbini, sempre più rapidi. «Ti bloccano il cuore
entrando dal culo. I Sacerdoti Neri di Ercolano
commerciano in cadaveri con i clan e tramutano i
morti in Turaculetti. San Gennaro…» sussurrò.
«Allora esistono davvero…»
I puntini aiutano a localizzare il sussurro solo alla fine, dando così un tono normale alla battuta precedente,
che era un po’ lunga per concludersi al meglio in sussurro. Se vogliamo rendere più chiaro il passaggio da voce
normale a sussurro possiamo anche fare così:
«[…] e tramutano i morti in Turaculetti.» La voce si
ridusse a un sussurro. «San Gennaro… Allora esistono davvero…»
Va bene citare “la voce” per un personaggio diverso
dal PdV stesso. Però meglio non abituarsi troppo a usare
“la voce qualcosa” o “qualcosa la voce” al posto di usare
l’atmosfera, il tono implicito della battuta o dei dialogue
tag ben scelti, o il testo diventerà una merda.
124
Ancora meglio può essere usare un beat al posto del
sussurrò, un beat che comunichi la sua incredulità, e lasciare che siano i soli puntini a indicare il calo della voce.
Nei dialoghi che vogliano sembrare reali non vanno
usati, se non al minimo, gli scambi lineari e ordinati di
domande e risposte. Va preferito un dinamico scambio
obliquo in cui a una domanda si risponde con un’altra
domanda oppure sviando il discorso, proprio perché anche nel dialogo deve esserci conflitto.
In particolare pensa a come in un dialogo non contino tanto le cose che vorremmo far dire a un personaggio, ma come lui si esprimerà. Quando parliamo tendiamo a essere poco diretti e a dire spesso delle cose per
suggerirne altre. Non riusciamo a essere sempre onesti
con i nostri desideri o chiari nell’esprimerli. Parliamo
molto di più con il “sottotesto” di ciò che diciamo che
con le parole che pronunciamo davvero.
Se per esempio Paolo vuole una birra, ma sta andando di fretta con Carlo a un appuntamento, magari non
dirà direttamente che vuole una birra per timore che
l’amico, che va di fretta come lui, si opponga in automatico per preservare l’obiettivo di arrivare per tempo.
Non so, magari devono andare a vedere la partita allo
stadio.
Se invece indirizzerà Carlo a proporre lui per primo
quella cosa, in modo che l’idea sia sua e non di Paolo,
tutto funzionerà molto meglio. D’altronde Paolo è sicuro
che anche a Carlo una birra prima della partita farà piacere. Potremmo allora avere un dialogo così:
«Fa un po’ caldo. Ho la gola secca…»
Carlo sogghigna. «Birretta?»
125
Per chi lo ha notato: quest’esempio era ispirato al video intitolato Il dalemiano de “Il Terzo Segreto di Satira”.
Bellissimo.
Ti invito anche a notare che c’è del conflitto, per
quanto ridotto: Paolo ha dovuto indirizzare in modo
obliquo il dialogo per evitare l’opposizione altrimenti
automatica di Carlo e ottenere l’obiettivo di andare a bere una birra.
Se non c’è conflitto, se è solo un banale scambio di
cordialità, probabilmente il dialogo va tagliato. Anche
quando è un dialogo utile solo a passare informazioni al
lettore in modo naturale (non un puro As you know, Bob,
che è sbagliato e ne parleremo dopo), una certa obliquità
lo renderà più vero e più scorrevole. Il lettore vuole conflitto, anche poco, ma deve esserci, altrimenti le scene
diventano mosce.
Comunque stai sempre attento a come passi informazioni al lettore coi dialoghi: rendine uno goffo, anche
solo uno, e perderai gran parte della fiducia di quei lettori che abbiano un minimo di capacità di giudizio per
capire cosa stai facendo. Rispetta i tuoi lettori: sono molto più capaci di giudicare certi errori grossolani di quanto tantissimi autori pensino.
ATTENZIONE ALLE VOCI NEL VUOTO
Passiamo a un pericolo concreto che molti sottovalutano: le voci nel vuoto. Quando leggerai l’Appendice I tratta
dal mio Corso Avanzato, in fondo a questo volume, ti
sembrerà ridicolo che qualche mio corsista possa esserci
cascato, perché le regole di scrittura dei dialoghi fornite
lì rendono impossibile che accada… ma non è così. An-
126
che alcuni miei corsisti formati negli anni, per quanto
siano stati una rarità estrema, ci sono cascati.
Cosa sono le voci nel vuoto? Forse hai già sentito
parlare di questo fenomeno col nome di “teste parlanti”.
Non uso questo nome diffuso perché chi lo usa si squalifica a priori a livello di comprensione della scrittura,
come vedrai tra poco, e ho preferito creare un nome più
congruente con la realtà del caso in esame.
Le voci nel vuoto è quando, all’improvviso, lo scambio di battute di un dialogo si riduce per troppo tempo
alle sole battute senza più descrizioni sensoriali, azioni
che le alternino o beat che le introducano o arricchiscano. Semplicemente delle voci, magari con dei dialogue
tag a ricordarci chi parla se la semplice alternanza non è
sufficiente a chiarirlo.
Dalla nostra mente sparisce lo scenario e rimangono
solo voci. Questo è irreale, è straniante: è l’opposto del
ricostruire in modo credibile la realtà sensoriale vissuta
dal PdV. Manca ciò che vede, tocca, odora, mancano i
pensieri che ha, mancano le piccole azioni che compie
mentre parla. Voci nel vuoto, appunto.
Non possiamo avere dieci battute di fila senza un
beat, senza un pezzetto di descrizione, senza un pensiero,
senza… qualcosa! A malapena ne possiamo avere quattro
o cinque! Chiamarle “teste parlanti” è fuorviante: noi
non vediamo delle teste parlanti (che tecnicamente possono pure esistere nella narrativa fantastica, si veda
Wyrm di Orson Scott Card o il cartone Futurama), noi
non vediamo niente! C’è il vuoto, con delle voci in mezzo. Chiaro?
127
IL PERICOLO DEI GERUNDI
Attento a non usare strani gerundi dopo le battute di dialogo, soprattutto quando la durata dell’azione descritta
dal verbo al gerundio è molto superiore (o inferiore) al
tempo necessario a pronunciare la battuta. Questi sfasamenti tra la durata di azione e parlato sono considerati il
marchio del principiante.
Il problema di base è che i principianti di solito non
ci pensano proprio al problema del tempo e vedono nel
gerundio un amico per aggiungere azioni ai dialoghi.
Queste azioni andrebbero gestite tramite i beat descritti
prima, collocati come semplici azioni compiute e concluse nel presente narrativo, risolvendo così anche il
problema dell’uso eccessivo dei dialogue tag (due piccioni
con una fava), e non con l’abuso dei gerundi.
I gerundi a pioggia nei beat sono una soluzione pessima e dilettantesca. Ti faccio qualche esempio di orrendi gerundi a go-go tratti da un racconto preso dalla raccolta Urania Tutti i denti del mostro sono perfetti, del 1997.
— Davvero? — dissi, cominciando a irritarmi. — Allora perché mi offri del denaro?
[…]
— Merda — imprecai io lanciandomi verso la poltroncina giroscopica e preparandomi a ingoiare il
filo di nausea che l’improvvisa perdita di velocità
mi avrebbe affondato nello stomaco.
[…]
— Non sarai solo — disse all’improvviso Daex riscuotendosi. — Tra meno di quindici minuti
avremo un rendez vouz con altre due navi.
128
Io corrugai le sopracciglia sorpreso. — Come sarebbe?
[…]
— Credevo che ti avessero sbattuto dentro —
commentò Joachim Vass ignorando lo schermo e
guardandomi attraverso le ricostruzioni tridimensionali della fascia di asteroidi e della Nube di
Vihr.
[…]
— Per favore — intervenne Daex, tappandomi ancora una volta la bocca (ma forse non a sproposito, visto che quei due sembravano intenzionati a
spolparmi vivo, se fossi rimasto solo con loro).
All’autore i gerundi piacciono proprio tanto, ne mette quasi in ogni battuta! Anche quando non sono sovrapposti male a livello temporale (secondo caso), sono comunque un goffo tentativo di trasmettere informazioni
creando simultaneità insensate invece di sfruttare in
modo efficace i beat e le descrizioni precedenti (quarto
caso).
In altri punti sottolineano qualcosa già ovvio dalla
battuta (primo e terzo caso) o che andrebbe gestito con
un pensiero e/o con un beat, in base al fatto che sia il PdV
oppure un personaggio visto dal PdV.
Passando dai gerundi ai dialogue tag, ti voglio ricordare la stupidità insita in “imprecai”, “intervenne”,
“commentò”, tutte cose evidenti dal contesto e dal contenuto delle battute. Non ti sei dimenticato quella parte
del manuale, vero?
Abbiamo i gerundi e un uso goffo della lingua, inclusi dei pensieri sconnessi rispetto al poco tempo disponibile (secondo caso), che rovinano l’immersione e dan-
129
neggiano il raggiungimento dell’obiettivo narrativo.
Quello schifo visto prima non è anomalo, non è strano, è
perfettamente nella norma di come scrivono gli autori
italiani, e anche con parecchi stranieri non è che vada
molto meglio, anche se il livello in generale è un po’ migliore. Come già scritto prima, le competenze dei cosiddetti professionisti (tutt’altro che professionali nel senso
di competenti) sono molto, molto basse.
Non bisognerebbe poi stupirsi che la maggior parte
delle persone preferisca di gran lunga ottenere le proprie esperienze narrative da film, serie tv e videogiochi,
invece che da robaccia scritta così male.
Questo non è il modo in cui può scrivere chi voglia
definirsi uno scrittore decente. E farsi pagare per roba
simile è disonorevole per l’autore e per l’editore. Naturalmente nel caso rispetto di sé, rispetto dei lettori, onestà professionale, progresso dell’arte narrativa e simili
concetti siano considerati solo passatismi senza valore, il
problema non si pone.
Scrivi meglio della media degli autori italiani, per favore. Stai attento a usare i gerundi solo quando le azioni
si sovrappongono davvero dall’inizio alla fine. Negli altri
casi la scrittura col normale presente narrativo (che sia al
presente o al passato) sarà sufficiente a comunicare
eventuali sovrapposizioni tra eventi, in base all’ordine
delle azioni presentate e al buon senso.
Il lettore non è stupido, fidati della sua capacità di visualizzare ciò che stai descrivendo… o la figura dello stupido la farai tu.
130
AVVERBI DI MODO
Evita gli avverbi in “–mente”. Sono inutili e fastidiosi.
Segui la regola per cui ciò che non migliora la frase allora la peggiora (concettualmente sempre all’iceberg di
Hemingway e ad Aristotele si torna).
Guarda queste frasi:
1. In alcuni casi gli avverbi usati sono semplicemente inutili.
2. In alcuni casi gli avverbi usati sono inutili.
La seconda frase ha lo stesso significato della prima?
Sì. Quel “semplicemente” nella prima frase serve a qualcosa? No. Allora è meglio la seconda.
Ora modifico il commento di nuovo, tramutando il
timido “in alcuni casi” nella versione più realistica “spesso” e levando “usati”, visto che è sottinteso che se ci sono
degli avverbi nella frase allora sono stati usati degli avverbi.
Spesso gli avverbi sono inutili.
Non è più chiaro, diretto e realistico così? Quando si
scrive non c’è posto per la timidezza o l’incertezza. Spesso l’avverbio di modo sembra necessario solo per la
mancanza di dettagli precisi.
Chi ha mai visto un avverbio di modo nel mondo
reale? Il mondo reale è fatto solo di dettagli precisi, infat131
ti. Se la narrativa vuole ricordare la realtà allora devono
esserci solo oggetti con caratteristiche descrivibili in
termini concreti e i verbi devono servire a mostrare come agiscono e cosa subiscono. Gli avverbi di modo non
servono.
“Pino chiuse violentemente la porta e scese velocemente le scale” non è qualcosa che si possa vedere davvero. Più facile vedere Pino che “sbatté” la porta e “si
precipitò” giù per le scale o “scese di corsa” le scale.
Scendere velocemente significa fare le scale di corsa, no?
Possiamo anche parlare di scendere i gradini a due a due
se vogliamo precisare quest’altro dettaglio.
Ecco un esempio tratto dal romanzo coi Mech già citato qualche volta:
Io sono solo vagamente conscio della lotta
all’ultimo sangue che si consuma intorno a noi.
Come mai l’autore ha usato “vagamente”? Perché
non stava Mostrando. Ha deciso di Raccontare e Raccontare pretende avverbi e aggettivi per essere anche solo
un po’ specifico.
Se il personaggio è “vagamente conscio” non è certo
lui a dovercelo spiegare adesso, ma è la descrizione
complessiva a dovercelo far capire! Come vive gli eventi,
come dopo (una volta calmato) si accorge di essere rimasto isolato e vede i compagni morti ecc. tutto questo deve comunicarci implicitamente che era così occupato a
salvare la propria pelle nel mezzo della lotta da non accorgersi degli eventi circostanti.
Basta mettere elementi che facciano capire come la
sua attenzione non fosse singolarmente concentrata su
uno o sull’altro degli eventi in corso, ma solo bombarda-
132
ta in generale dalla massa di stimoli. Un po’ come nel
famoso senso di realtà ideato da Flaubert tramite la massa di elementi di contorno visti dal personaggio flaneur: il
“gentiluomo che passeggia” e guarda il mondo attorno
cogliendo un po’ tutto ciò che lo attira, non solo le cose
narrativamente più utili, creando così un quadro vivido
dell’ambiente.
Guarda quest’altro esempio dallo stesso romanzo:
Sento piangere e gemere, odo rimbombi e scricchiolii sinistri, raffiche, fiammate che si riflettono
sulla superficie rivettata dei Mech come le luci
dell’inferno.
Non c’è proprio bisogno di dire che è “solo vagamente conscio”: queste percezioni ridotte all’osso lo dicono da sole al lettore. Sì, non guardiamo adesso agli errori presenti. Nel mio Corso Avanzato questa brano
viene utilizzato per un piccolo esercizio preliminare: se
vuoi, finita la lettura di questo manualetto, prova a ragionare da solo su che problemi abbia.
Non è obbligatorio cancellare tutti gli avverbi di modo dal testo. Cerca solo di usarne il meno possibile. Ci
sono anche ambiti in cui è lecito usarli: per esempio non
sono fuori posto nei dialoghi perché è realistico usarli lì,
è naturale, rendono credibili le battute.
Però, se proprio vuoi un esempio di pulizia totale
degli avverbi di modo, c’è un grande autore, in termini
di fama internazionale, che si è vantato di averli spazzati
via tutti: Gabriel García Márquez.
Prima di Cronaca di una Morte Annunciata ce ne
erano troppi. In Cronaca penso che ce ne sia solo
uno. Dopo, in L’Amore ai Tempi del Colera, non ce
133
ne è nessuno. In spagnolo l’avverbio in “–mente”
è una soluzione molto semplice. Ma quando non
vuoi usare “–mente” e cerchi un’altra forma, è
sempre meglio.
Sembra un vanto puerile, ma è una questione di approccio: se scrivi con gli avverbi in “–mente” significa
che hai rinunciato alla precisione, hai rinunciato a fare
davvero il tuo lavoro di autore che scrive con verbi e sostantivi chiari in frasi concrete, scegliendo sempre la mot
juste (parola giusta), come diceva Flaubert, senza accontentarsi della “sorella povera” a cui affibbiare aggettivi o
avverbi per correggerla.
Una mendicante in abiti da principessa può ingannare gli sciocchi del ballo, ma chi ha esperienza noterà dal
suo comportamento che hai addobbato la persona sbagliata. Togli gli addobbi degli avverbi di modo, manda
via la mendicante e scegli la principessa!
134
AGGETTIVI CON MODERAZIONE
Usa al massimo un aggettivo per sostantivo, e solo quando non riesci a farne a meno. Questo è un avviso di massima per tenere sotto controllo gli aggettivi. Lo scrittore
russo Isaak Babel si vantava addirittura di non mettere
mai due aggettivi assieme. Lo abbiamo già citato
all’inizio del manuale, se ricordi, ma meglio rinfrescarci
la memoria.
Ecco il suo parere:
[...] prima di buttare tutta la spazzatura, spezzo il
testo in frasi più brevi. Più punti ci sono e meglio
è. Sarebbe bello che divenisse una legge. Non più
di una idea e di una immagine in una frase. Mai
avere paura dei punti. […] Un sostantivo richiede
solo un aggettivo, il meglio scelto. Solo un genio
può permettersi due aggettivi per un solo sostantivo.
Citato da Hall in How Fiction Works.
Ricorda il discorso fatto su come il tuo testo debba
basarsi su verbi precisi e sostantivi precisi, non su modificatori come gli avverbi di modo o gli aggettivi. Quando
scegli un aggettivo ricorda sempre che deve essere chiaro e preciso. Gli aggettivi devono essere parte di una
scrittura concreta, sensoriale. “Bello” è un giudizio, mentre “rosso” è un fatto.
135
L’abbondanza di aggettivi spesso si lega all’abuso di
frasi molto lunghe e complicate. Scrivi in modo semplice. Usa frasi brevi, alternandole a frasi più lunghe solo
dove necessario, in base al ritmo della scena (incluse le
connessioni tra le azioni, più o meno legate tra loro in
una diretta sequenza) e per non annoiare il lettore con
uno stile troppo frammentario.
Mai comunque scrivere frasi ricche di subordinate e
coordinate solo per il gusto di farlo: non stai scrivendo
un testo di filosofia o di diritto nella Germania
dell’Ottocento, non devi scimmiottare qualche professorone tedesco morto da due secoli. Non sei Clausewitz e
non sei Hegel. E non sei morto. Spero.
Se entrerai davvero nel personaggio, se veramente
starai vivendo la vicenda come la vive lui, non potrai
comunque farlo. Abbondanti subordinate, con costruzioni che evocano giudizi e collegamenti a posteriori,
sono l’opposto del buon uso del filtro. Ne abbiamo parlato già.
136
EVITA LE FORMULE DI INCERTEZZA
Non usare forme incerte come “quasi”, “piuttosto” o simili. Non esiste incertezza nella realtà. Se stai vedendo
qualcosa, stai vedendo qualcosa, e non quasi qualcos’altro.
Concretizza.
Se vedi un gatto con il pelo rossiccio che manda riflessi arancioni sotto i raggi del sole, lo descriverai così,
non dirai che ha il pelo “quasi rosso”. Se un uomo indossa solo le mutande dirai che è in mutande, non che è
“semi nudo”.
Spesso i “quasi” e simili formule nascondono la pigrizia del Raccontato. Invece di Mostrare con dettagli
concreti e azioni ciò che avviene, si riassume tutto in poche parole statiche e asettiche, incapaci di emozionare,
ma molto più facili da scrivere.
Sfortunatamente se non si entra nel dettaglio e se
non si realizzano descrizioni vivide, non è possibile rendere bene le “sfumature” per cui, non sapendo come fare, ci si rifugia nelle formule di incertezza.
Guarda questo esempio. Alfredo sta dando la caccia a
Gino ed è notte. Gino distanzia Alfredo, si butta dal cavalcavia e fugge nella strada buia. Alfredo cerca di capire
dove è finito per potergli sparare:
Non riusciva quasi più a vederlo. Tutti i lampioni
erano stati spenti dal blackout.
137
Non devo dire cosa “quasi non riesce” più a vedere,
devo dire cosa vede (così Sommergo pure l’Io). È evidente che intendo dire che Alfredo intravede Gino a fatica,
ma devo essere più esplicito su cosa intendo e scegliere i
dettagli concreti che meglio rappresentano ciò che immagino.
Il chiaro di luna viene riflesso dal fucile a tracolla di
Gino, e per questo lo vede? O la poca luce disponibile
basta a delinearne la sagoma in movimento sullo sfondo
di un camion bianco? Cosa vede per davvero Alfredo?
Anche formule come “tentò”, “provò” o “cercò” sono
formule di incertezza. Invece di descrivere l’azione reale,
la si riassume e dato che il verbo che esprime “successo”
non è sufficiente, lo si tramuta in un “cercare di”.
È una scelta pigra e quindi è incompatibile col ragionamento di un autore che voglia impegnarsi per la sua
arte. In più è sbagliata perché viola il precetto di verosimiglianza: nel mondo reale non vedi alcun “cercò” o
“tentò”, vedi dettagli specifici di persone che fanno cose
specifiche finché riescono, rinunciano o falliscono
(Sommergi l’Io!).
Non dire cose come:
Bubba cercò di concentrarsi.
Cosa dovremmo immaginare? Io immagino Bubba
che spinge come se volesse fare la cacca, stringendo i
denti, con gli occhi a palla, i muscoli facciali contratti e
gocce di sudore che scendono dalla fronte. È ok? Se
Bubba è un saggio che si spreme le meningi su un tomo
di cinquecento anni prima, forse no.
Se non vuoi che il lettore immagini cose ridicole, devi dare indicazioni precise. Pochi dettagli, ma evocativi
138
del senso che vuoi comunicare. Se il lettore avesse saputo di doversi inventare le scene da solo, non avrebbe letto il tuo romanzo: i soldi che ha pagato per leggere sono
soldi buoni quindi merita che il testo ricevuto in cambio
sia altrettanto buono!
Se lo sta leggendo gratis, preso in prestito, sta comunque investendo del tempo che potrebbe dedicare ad
altro: non farlo pentire di averlo dedicato al tuo libro o,
peggio ancora, alla sciocca idea di leggere in generale invece di giocare con la Playstation. Abbiamo un tasso elevatissimo di gente che rinuncia a leggere pur avendoci
provato seriamente (quasi il 30% dei non lettori italiani,
secondo Istat nel 2006) grazie ai libri scritti in modo indecente.
Guarda questo brano:
[…] i motivi in realtà si riducono al fatto che Cordino è quasi sempre impegnato in servizi punitivi
Anche se questo è un pensiero del personaggio, è
meglio evitare il “quasi”: dire che è “sempre impegnato”
rende meglio l’idea e, siamo seri, è evidente la presenza
sottintesa di un “quasi” anche senza dirlo! Di certo non è
impegnato nei servizi punitivi mentre sta dormendo o
mangiando, quindi il “quasi” non va aggiunto perché è
già incluso.
In quest’altro brano i personaggi stanno avanzando
di buon passo nel bosco verso la base nemica:
La nostra uscita dal bosco è così repentina che quasi mi viene da girarmi per controllare dove siano
finiti gli alberi.
139
O gli viene voglia o non gli viene voglia. Non c’è
“quasi”. O ho fame o non ho fame, ma non ho “quasi
fame”: magari ho poca fame o molta fame, ma non è un
“quasi”. Se vedi un cinese dalla pelle giallognola è ovvio
che non sia un bianco, ma questo non lo rende “quasi
negro”: è giallo.
Sembra che ci siano impegnate quasi due intere
compagnie, una per parte, e il risultato è simile a
una mischia da rugby formato gigante.
O sono “quasi due compagnie” (ovvero con gli effettivi sotto l’80%, perché in un esercito moderno si ritiene
che ridurre di oltre il 10% inizi a danneggiare in modo
non trascurabile la potenza di fuoco, per cui prendiamo
oltre 20% come valore significativo) oppure sono “due
intere compagnie” (ovvero al 90-100% degli effettivi), ma
non sono mai “quasi due intere”!
Se l’autore volesse intendere che sono “due compagnie”, nel senso che non sono al completo, ma nemmeno piene di buchi (diciamo 80%-90%), non ha bisogno né
del “quasi” né delle “intere”.
Che poi se sono “quasi due” allora non sono “una per
parte”, ma “quasi una per parte” per coerenza: visto
quanto è ridicolo il “quasi”? C’è un buon motivo se nel
mondo reale non esiste il “quasi”, ma solo specifici e
concreti dettagli: il “quasi” fa troppo pena per essere tollerato dal resto dell’Universo.
PRO TIP: se adotti il Mostrato e la sua filosofia di
fondo risolverai anche questi problemi senza
sforzo!
140
Un consiglio che mi sembra banale quanto il famoso
PRO TIP di Doom per sconfiggere il CyberDemon: sparagli finché non muore! Eppure le cose stanno davvero così: ogni errore grossolano è frutto di un allontanamento
dal corretto modo di immaginare e scrivere le scene.
Non allontanarti dal metodo corretto e non farai errori
così beceri.
141
INFODUMP:
RIGURGITARE SPIEGAZIONI
Com’è naturale anche l’infodump, ovvero lo “spiegone”,
nasce dalla violazione dell’immersione verosimile. Sai
già cos’è l’infodump, immagino: ogni spiegazione fatta
con il solo scopo di dare informazioni al lettore, e che
quindi non è una componente naturale di un corretto
dialogo o pensiero, è un infodump. Da ora in poi lo italianizzerò in “spiegone”.
Lo spiegone è una cretinata doppia: se qualcosa va
conosciuto è perché serve nella storia, ma per definizione se serve nella storia significa che ha delle scene Mostrate dedicate. Giusto? Se non ha scene, per cui non si sa
come farlo sapere al lettore, significa che non serve… e se
non serve perché propinarcelo sotto forma di spiegone?
Nell’esperienza diretta del mondo non può avvenire
uno spiegone perché:
1. Non è sperimentabile con i propri sensi, quindi
può essere solo “comunicato” dall’esterno.
2. Nessuno si fa spiegoni “da solo”, ovvero nessuno si mette a dire cose che conosce benissimo e
che non hanno alcuna utilità per la propria riflessione, come se stesse recitando il programma
d’esame. Chi lo fa al più può sembrare uno squilibrato, di quelli nella cella imbottita che sbavano e
si battono i palmi sulle orecchie mentre blaterano
insensatezze.
142
3. Fortunatamente Dio, se esiste, ha il buongusto
di non scendere dal cielo col megafono per urlarci
informazioni e spiegazioni inutili: gli autori raramente hanno lo stesso rispetto del prossimo e invadono la storia con i loro spiegoni.
Rimangono come opzione i dialoghi assurdi, in stile
“Come ben sai, Bob” (As you know, Bob), che nel mondo
reale ogni tanto accadono, ma sono così idioti, così inascoltabili, che la narrativa, nella sua mediazione per
creare un “realismo leggibile”, non li può tollerare.
Come non può tollerare il modo reale con cui la gente parla, tant’è che i dialoghi sono un livello superiore di
costruzione artificiale della naturalezza evitando la stupidità e la noia dei modi con cui la gente comune si
esprime. C’è più obliquità, più conflitto, meno intercalari vuoti. I dialoghi sono come le discussioni dovrebbero
essere se tutti pensassero prima di aprire bocca.
Qualche spiegone può capitare di scriverlo. Non lo
nego, ti capiterà anche se non vuoi, soprattutto all’inizio.
Come sempre bisogna accettare che l’Arte in massima
parte non è “fare perfettamente”, ma essere consapevoli
delle proprie continue e perniciose mancanze a cui mettere toppe grazie a un metodo rigoroso fondato sulla tolleranza zero verso gli errori.
Non è un dramma aver piazzato qualche spiegone: ci
vuole proprio poco a tagliarli e a ripensare le scene meglio. Ecco, per esempio, uno spiegone che deve diventare una scena:
Quella che noi chiamiamo corsa, su un Mech, non
è ciò che intende la gente comune. È più simile alla corsa di un pupo di tre anni che dopo essersi
sparato una cacata colossale nelle mutande cerca
143
alla disperata di raggiungere il vasino. Si avanza a
passo sostenuto, ed è necessario tenere le braccia
divaricate e le potenti ginocchia meccaniche un
po’ piegate per abbassare il baricentro. Si può correre sui Mech solo se il terreno è piano e sgombro, e sperare di non infilare il piede in una buca
traditrice… a meno che non ci sia un altro Mech
nelle vicinanze a fare da gru, s’intende.
È meglio mostrare la corsa, non far fare al protagonista riflessioni assurde al solo scopo di informare il lettore. Anche queste cose contribuiscono alla sensazione che
il personaggio si rivolga proprio al lettore, come se sapesse di essere in un libro e che qualcuno “là fuori” lo sta
ascoltando.
Per qualche gonzo postmodernista questo effetto
può essere voluto, ma a meno di non fare narrativa assurda-comica, è sempre un errore perché viola realismo
e immersione.
I Mech ci offrono sufficiente protezione contro le
schegge d’artiglieria, per lo meno se le ogive che
piovono non sono troppo grosse.
Il leggero spiegone sulla corazzatura dei Mech si poteva rendere Mostrando l’invulnerabilità alle schegge invece di cacciarla in gola al lettore in questo modo. Peggio ancora se avesse spiattellato che il corpo ha una
corazzatura frontale di due centimetri di acciaio al molibdeno! Quando entrano in gioco dimensioni precise e
materiali in uno spiegone siamo messi proprio male!
Se l’invulnerabilità alle schegge comuni e agli shrapnel è rilevante allora ci saranno scene in cui i fanti ap-
144
piedati vengono falciati dalle schegge mentre i piloti
dentro i Mech non si fanno niente. Così si ragiona quali
sono i dettagli rilevanti e come comunicarli. Semplice,
no?
Per finire, una curiosità storica. Gli spiegoni, come
puoi immaginare, non piacciono oggi (se non agli scrittori più gonzi, che per giustificare le proprie mancanze
si arrampicano sugli specchi) e non piacevano neppure
nel passato. “Quanto nel passato?”, mi chiederai: certamente fino all’Antica Grecia, e ne abbiamo le prove!
Cito dal primo libro dell’Iliade, nell’edizione in prosa
Garzanti tradotta da Giuseppe Tonna:
[Teti] Lo carezzò con la mano, gli si rivolgeva e disse:
«Figliolo, perché piangi? Che dolore ti è venuto? Parla, non tenerlo chiuso dentro! Così saremo in due a
sapere.»
E a lei con alte grida di lamento rispondeva Achille
dai rapidi piedi: «Ma se già lo sai! Perché vuoi che ti
racconti qui ogni cosa? Tu conosci tutto. […]
Segue la lunga battuta di dialogo in cui Achille racconta del bottino per la distruzione di Tebe e della
schiava, Briseide, che Agamennone gli ha portato via ingiustamente dopo aver dovuto liberare la propria schiava, la figlia di Crise, sacerdote di Apollo, a causa della pestilenza che il Dio infuriato aveva scatenato sul campo
degli Achei. Persa la sua schiava, Agamennone ha preso
quella di Achille. Bello stronzo.
La situazione è semplice: Achille e sua madre, la ninfa Teti, sanno benissimo cosa è accaduto, ma il lettore (o
ascoltatore) non lo sa e così, per scusarsi col pubblico per
questo dialogo totalmente privo di realismo in cui i due
si dicono cose già note, Omero ci fa notare di aver capito
145
benissimo il problema e si “denuncia” da solo per bocca
di Achille, disinnescando la critica del pubblico.
Lo spiegone è il male minore, per Omero, per aggiornare il pubblico sull’antefatto dell’Iliade senza sprecare tempo in scene meno interessati e far partire la storia dalla furia di Achille e non prima. In realtà, in ottica
narrativa moderna, sarebbe meglio presentare i fatti
precedenti nell’ordine di svolgimento dato che la crisi
innescata dalla reazione di Achille assomiglia più a un
evento avanzato del primo atto, o alla sua fine, che
all’ideale inizio dell’opera.
Ma i poemi epici recitati a un pubblico, dal vivo, sono diversi dai romanzi e mi è facile immaginare che entrare subito nel vivo con fosse meglio per il pubblico a
cui l’opera era rivolta. As you know, Thetis…
146
TERMINI TECNICI E UNITÀ DI MISURA
Usa le parole straniere il meno possibile: dal punto di vista del personaggio che “vede” sono meno precise rispetto al termine italiano equivalente. Suonano come viste
da una persona esterna alla sua cultura e lingua di riferimento (resa da noi in italiano).
Immaginiamo che il protagonista sia Alkiviades, un
guerriero di Sparta. Non serve dire kopis per dire spada
oppure hoplon per dire scudo. Faccio un esempio con le
armi invece che con altri ambiti tecnici perché è più facile che un autore di fantasy o romanzi storici ci incappi,
ma il discorso vale ovunque.
Considera che Alkiviades è il PdV e quindi lui pensa
da antico greco. E tu quel pensare da antico greco lo stai
rendendo in italiano. Come mai allora dovrebbe “vedere” in una lingua diversa il suo scudo o la sua spada? Se
stai rendendo la sua lingua in italiano ne consegue che
sottolineare apposta il greco è usare una lingua diversa.
Per lui sono solo uno scudo e una spada.
Si corre il rischio di usare il PdV del “Narratore
Oplologo da Dizionario”, ovvero il Narratore che vuole
riportare precisi elementi non tramite il loro aspetto e i
loro effetti, ma con l’etichetta del nome. La narrativa
non è il Museo delle Armi di Brescia e non è l’Armeria
Reale di Torino, spiacente.
Considera anche che presso i popoli del passato, che
non erano formati da collezionisti di armi antiche, molti
termini venivano usati solo in senso generico. Per i ro147
mani gran parte delle spade sono gladi e per i giapponesi
ogni spada è una “spada”, ovvero katana. In Giappone c’è
anche l’ancora più generico nihonto: siamo noi che abbiamo tramutato il termine generico di quelle lingue in
un termine specifico per un certo tipo di katana, come il
gladio è divenuto termine per una specifica spada romana di origine spagnola.
Scudo è meglio di hoplon, anche se non tutti gli scudi
sono hoplon. Conserviamo il dettaglio sul fatto che sia
tondo, infilandolo dove conta, e conserviamo il dettaglio
della lambda spartana, indicandolo dove conta. I dettagli
precisi usati al momento giusto basteranno per dire che
è un hoplon. Non serve l’etichetta. I dettagli “Mostrati”
rendono preciso e concreto l’oggetto, non l’uso di etichette “Raccontate”.
Stai attento a non mettere dettagli a caso dove non
dovrebbero avere posto, per esempio in mezzo a uno
scambio di colpi. Se mostri per esempio l’artiglio di un
mostro che gratta la lambda sullo scudo di Alkiviades, il
nostro protagonista, stai violando il PdV: Alkiviades non
potrebbe vedere “esternamente” l’atto, essendo vincolato
ai propri occhi ed essendo lui dietro lo scudo che impugna, e potrebbe solo sentire il suono del graffio sullo
scudo.
Quando vai al supermercato e compri le banane, vedi due cose: le banane nei cesti e l’etichetta “banane” col
prezzo corrente… se togli le banane e lasci solo
l’etichetta, sono ancora banane? No, è solo una vuota etichetta, come lo è kopis per la maggioranza dei lettori. Ma
se togli l’etichetta e lasci le banane, sono forse meno banane? No, perché l’oggetto Mostra sé stesso, non l’etichetta che lo Racconta. Chiaro?
148
Se non mi credi, ti confermo che storicamente gli
stessi maestri d’arme usavano termini molto generici per
le loro armi. Se leggi il manuale di scherma di Giacomo
di Grassi, risalente al 1570, il maestro non usa “spada da
lato” (come la chiamiamo noi) o “spada da lato a striscia”
o “striscia”, ma solo “spada”.
Eppure la sua spada è chiaramente una spada da lato
e già gli inglesi dell’epoca preferivano il termine rapier
(striscia) al mero sword in quel caso! E a loro volta gli inglesi quando usano rapier spesso mettono assieme la
“spada da lato” (il caso di Grassi) e la “spada da lato a striscia”, eppure queste sono due categorie di spade differenti, con usi differenti, per noi. La prima garantisce ancora buoni fendenti e si può usare nell’ambito militare, e
gli inglesi quando vogliono essere più precisi la indicano
come sword-rapier (definizione moderna), e nel linguaggio successivo del ‘700-‘800 viene indicata talvolta addirittura come broad sword (come se fosse una schiavona o
la simile claymore scozzese) per distinguerla dalla sciabola
con un filo solo e dagli spadini meno larghi… ma solo
talvolta. Il linguaggio reale è tutt’altro che preciso o idoneo all’archiviazione in un museo.
Nel manuale Rules and regulations for the sword exercise
of the cavalry del 1796 si parla solo della specifica nuova
sciabola per la cavalleria, con una certa guardia che
permette certi movimenti della mano in parata ecc. ma
il termine è sempre e solo sword.
Hanno Mostrato a quale spada si riferiscono descrivendola all’inizio e disegnandola nelle illustrazioni annesse, per cui l’etichetta Light Cavalry Sabre Pattern 1796,
che era il nome ufficiale e l’unico davvero corretto per
indicarla, non viene ovviamente mai usato.
149
Nessuno userebbe mai il nome ufficiale in una scena
d’azione: è solo una sciabola o una spada, se poi questo
non la distingue a sufficienza dalle sciabole dritte dei corazzieri francesi (che, tra parentesi, tecnicamente sono
“costolieri”) o dalle altre sciabole curve dei dragoni pesanti inglesi, chissenefrega! Saranno i dettagli concreti
mostrati in azione a fare la differenza, non le etichette!
Anche perché l’iperprecisione interna al testo talvolta
può portare a risultati grotteschi. Immagina se il romanzo di Alkiviades cominciasse con:
Tracia, Monti Rodopi, ottobre, 376 a.C.
Mi immagino Alkiviades chiedere al compagno
Likeios:
«Coso, ma quando arriva a 0 che succede?»
«Non abbiamo lo zero, ce lo passeranno gli arabi
dai cinesi tra un migliaio di anni. Va da un 1 a un
altro 1.»
«Ah, scusa. Ma poi cosa significa a.C.?»
«Forse a Corinto…»
Meglio usare i termini molto specifici solo quando
necessario. Per esempio qui potrebbe andare bene:
Gli ipaspisti si erano tolti l’elmo e slacciati le armature.
Il lettore si trova ipaspisti, sa che sono greci e che
hanno elmi e armature… e immagina dei generici opliti
da libro di scuola o Age of Empire o film. Ha immaginato
sufficientemente giusto, quindi il nome tecnico è ok e
150
val la pena lasciarlo. Però non è il modo ideale di comunicare i nomi.
Sarebbe meglio che Mostrando queste persone in
azione poi capiamo cosa li renda ipaspisti: se il loro essere tali non è rilevante per la storia e non li distingue da
altri greci, allora abbiamo un problema di inutilità del
termine tecnico. Ok? In realtà la cosa migliore di tutte è
prima vederli in azione, con le loro armi e armature, e
solo dopo ricevere un nome tecnico. Prima i fatti, poi le
etichette.
Sono perfetti il generico “elmo” e il generico “armatura”, non serve il nome tecnico specifico del loro elmo
(elmo calcidico oppure quello corinzio, con l’aggravante
del termine moderno per descriverli) e della loro corazza (la spolas oppure la diffusissima, ed eccellente contro
lame e lance, linothorax). Va benissimo così: il motivo per
cui si sceglie un termine è perché è quello più adatto a
mostrare qualcosa, ovvero quello che risulta più chiaro…
non importa se è meno tecnico e meno specifico! Pensa
alla Light Cavalry Sabre Pattern 1796 col suo nome ufficiale inutilizzabile nel mezzo di un duello in cui le parole
devono comunicare adrenalina, rapidità e tensione!
Usa i termini tecnici ignoti al pubblico non specialistico solo quando sei costretto a farlo per motivi di coerenza del PdV: per esempio se il PdV è un motorista che
sta riparando la turbina a vapore di una cacciatorpediniera, allora tre o quattro termini tecnici non solo non
stoneranno, ma daranno l’idea ai lettori che tu abbia studiato bene l’argomento.
Il che non fa mai male, lo dice anche Palahniuk: è la
credibilità legata alla conoscenza dimostrata… ma va usata con saggezza, senza mai infarcire di termini astrusi la
narrazione col rischio di rovinare tutto! L’ideale è che
151
dal contesto si capisca sempre a cosa il termine incomprensibile si riferisce. E ricorda: è sempre meglio prima
Mostrare la cosa, facendo capire vagamente cos’è, e solo
dopo darle il nome tecnico che quasi sicuramente il lettore non conosceva.
Problema più complesso è quello delle unità di misura. Qui non puoi tradurle perché anche se gli antichi
romani ci hanno insegnato che si può tradurre tutto nella propria lingua e nelle proprie misure, i lettori moderni quando leggono di cose antiche possono avere i crampi di fronte al Sistema Metrico.
Il problema complementare è che, a meno di non
stare leggendo l’Anabasi di Senofonte, hanno i crampi
anche di fronte alle unità di misura che non riescono a
capire perché il testo non le rende abbastanza chiare…
quindi che fare?
Tra le unità di misura dei greci antichi c’è l’akaina,
pari a dieci piedi… perfetto: usiamo sempre e solo i piedi.
Come, ti piaceva l’akaina? Scordatela! Il piede è un’unità
più sensata, essendo più piccola e quindi di maggiore
uso comune. Dieci o venti piedi invece di una o due
akaina sono perfetti. Il piede lo capiscono tutti, è lungo
effettivamente come un bel piedone (trenta centimetri),
ed è identico al corrispettivo inglese che parecchi potrebbero già conoscere. Lo stesso discorso vale per il plethron: che male ci sarebbe a dire cinquanta piedi al posto
di mezzo plethron?
Alcune misure di uso molto comune si prestano bene
a sostituire i nomi corretti delle versioni maggiori: anche
noi diciamo regolarmente “cento metri” al posto del più
preciso “ettometro”. Se scrivi ettometro il lettore lo troverà strano, obsoleto e forse ridicolo (e talvolta non sarà
152
nemmeno sicuro di che lunghezza sia). Eppure è una nostra unità di misura!
Con plethron addirittura sei sicuro che il lettore non
capirà cosa intendi. L’unico motivo per cui si scelgono le
parole è per evocare chiaramente immagini nella mente
del lettore: non ha senso scrivere parole che sono solo
parole vuote per chi legge, e non portatrici di significati.
Naturalmente, come avrai intuito già, il problema
non è solo nel nome, ma è concettuale. Quasi sempre
potrai e dovrai evitare di usare le unità di misura per
motivi che vanno ben oltre la comprensibilità dei nomi!
Quando vedi qualcosa, non vedi etichette con scritte
le unità di misura. Citarle puzza di Narratore. È desumere a posteriori un qualcosa da ciò che si è visto. Puoi farlo (ma con parsimonia) senza violare il precetto di verosimiglianza della narrativa solo se è parte di un pensiero
del personaggio PdV o se ogni cosa è filtrata così profondamente dal PdV (scelta ideale, la più difficile) che
realtà e parere si mischiano in modo indissolubile. Ricorda comunque che è un cattivo modo di descrivere,
anche se quando fatto con queste basi non è fuori PdV.
L’ideale rimane sempre trovare un modo per far capire le distanze senza usare le unità di misura. D’altronde noi stessi nella nostra vita non le vediamo, e le misure
diventano una stima ragionata dopo la percezione. Seleziona dettagli che rendano comprensibili le cose senza
spiattellare il Raccontato riguardo “quanto una cosa è
lunga rispetto a una data unità di misura”.
Se ti serve dire che la porta incontrata da Alkiviades
sembra quella di una casa di gnomi perché è alta mezza
akaina, allora ti serve in virtù del suo essere bassa… bingo: quindi mostra il personaggio che per entrare deve
153
chinarsi o di’ che la porta gli arriva ai capezzoli o metti
un commento sul fatto che è una porta da nanerottoli.
Basta che non dici al lettore di immaginare un bastone lungo una akaina, poi spezzarlo in due parti uguali
e quella è la misura… perché dicendo “mezza akaina” stai
dicendo proprio quello, letteralmente. Ricorda quando il
metro era una barra di metallo per davvero e non il
tempo di percorrenza della luce in certe condizioni.
Non dire che una strada è larga quattro akaina, di’
che tre grossi carri potrebbero viaggiarvi affiancati senza
problemi: è sempre un paragone, ma è più concreto che
chiamare in causa nomi obsoleti e riferiti a concetti
ignoti al lettore. E se il lettore leggendo akaina pensasse
qualcosa sui venti metri? Vuoi davvero che immagini
che la tua strada sia una mostruosità larga ottanta metri?
E magari penserà pure che sei scemo?
Per esempio se Alkiviades sale su una piramide colossale, come una montagna, e scrivo:
La scalinata ripida si perdeva nella nebbia lattiginosa. Sopra, in lontananza, si iniziava a scorgere
nella foschia la fortezza di Marduk; sotto, invisibile, si stendeva Babilonia, a diverse decine di stadia
di altezza.
[Segue descrizione della giungla cresciuta sull’immensa piramide, degli insetti tropicali, del caldo
che fa scendere torrenti di sudore sotto elmi e corazze.]
Non c’è bisogno di dire che sono a “prendete 180-190
metri circa e moltiplicate per X decine con X ignoto
maggiore di 2”. Mettiamo che le diverse decine di stadia
siano soltanto quattro e mezzo (un po’ poco per un “di-
154
verse”), pari a oltre ottomila metri (45 stadia attici da 185
metri) ed ecco servito l’Everest…
Ecco, se uno ha capito cosa l’autore intendeva dire
con stadia starà pensando “Ma che caldo e caldo, quelli
staranno gelando a venti gradi sottozero e saranno mezzi
collassati per la mancanza di bombole di ossigeno!” e il
rispetto che il lettore ha verso l’autore, così bravo fino a
quel momento a informarsi, viene incrinato.
L’autore magari non sapeva niente di montagna ed è
cascato nell’errore, oppure per sbadataggine non ha fatto
i conti e in realtà si immaginava duemila o tremila metri
e non di più. Perché rischiare brutte figure armeggiando
goffamente con le unità di misura?
Se il caldo è importante perché gli Dei agiscono sul
clima e sulle temperature, e già prima abbiamo saputo
che amano trasformare le loro dimore colossali in posti
tropicali, allora va bene… ma dobbiamo averlo fatto capire prima che il lettore possa dubitare delle nostre facoltà
mentali!
Se invece ci si preoccupa solo dell’effetto, dell’immagine nella mente del lettore, limitandosi a dire che Alkiviades vede Babilonia ridotta a una distesa irriconoscibile di edifici che si intravedono da sopra le nuvole, il
lettore penserà che siano almeno tremila metri.
Enormi, altissimi, giardini pensili incredibili grandi
come montagne… ma accettabili in un romanzo fantasy
storico senza dover pensare che l’autore stia sparando
castronerie, come accadrebbe invece con gli ottomila e
più metri buttati lì senza spiegazione e senza bombole di
ossigeno. Vale comunque l’idea detta prima di rendere
più comprensibile la questione prima che l’altitudine aggiunga problemi.
155
Alkiviades naturalmente deve dire (nelle battute o
nei pensieri diretti) che un certo posto è distante venti
stadia invece di tre chilometri e mezzo quando è costretto a indicare la distanza, ma al di fuori dei dialoghi o dei
pensieri diretti è meglio evitare del tutto le unità di misura, sia quelle note che quelle ignote al lettore.
D’altronde, di norma, lui non penserà con misure precise!
Allo stesso modo un cecchino, durante una valutazione per un tiro su lunga distanza, può stimare che il
bersaglio è a 850-900 metri e che la velocità del vento è
approssimativamente di 15 km/h, ma questi pensieri
possono essere proposti solo perché lui realmente, in
quel momento, sta usando delle cifre nella sua mente
per calcolare come regolare gli organi di mira e compensare i fattori in gioco nel tiro.
Pensa sempre e solo a come davvero uno penserebbe
a qualcosa. Le cifre e le unità di misura, come anche i
termini tecnici, sono semplicemente un’altra parte dei
normali ragionamenti sulla gestione del PdV del personaggio. Riportaci la sua esperienza reale e i suoi pensieri
reali, e usa cifre e misure solo quando anche lui realmente, nella sua vita, le userebbe esplicitamente.
La vita è fatta di sensazioni concrete, non è fatta con
le tabelle per il combattimento di un gioco di simulazione tattica: quando non fanno davvero parte dei pensieri
del PdV, lasciamo i numeri al Navigatore GPS e a Google
Maps.
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RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Ora hai le basi fondamentali per capire cosa rende efficace la narrativa, se il tuo scopo è quello di emozionare e
intrattenere il lettore, e come produrre un testo immersivo in cui la scrittura divenga trasparente e rimanga solo
l’esperienza concreta, sensoriale, dell’entrare nel corpo e
nella mente del personaggio.
La forza catartica del divenire il personaggio è un’esperienza fortissima, incredibile, che può davvero aprire
la mente del lettore e insegnargli a vedere il mondo con
gli occhi degli altri, al di fuori dei propri schemi a pregiudizi. Divenendo altri, e non limitandoci a giudicarli
da fuori, arricchiamo noi stessi.
Non privare i tuoi lettori della vera forza, della vera
utilità sociale, oggi, della narrativa: capire gli altri per
comprendere noi stessi. Senza contare che la lettura così
è molto più divertente: il dolore del personaggio è più
doloroso… la sua gioia più forte… i neuroni specchio lavorano come matti e tutto è amplificato, tutto è più
emozionante e l’intrattenimento è molto più forte!
Per capire meglio se hai compreso i concetti spiegati
nel manuale puoi andare subito a leggere un estratto
dell’editing che feci sul racconto di un mio amico nel
2009, Federico “Taotor” Russo, che anni dopo, nel 2015,
divenne un autore pubblicato da Vaporteppa con il romanzo breve Blestemat. Un’opera molto apprezzata dal
pubblico!
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Trovi il link all’esempio di editing nell’apposita pagina su AgenziaDuca.it, assieme agli altri contenuti online
consigliati per arricchire l’esperienza di studio di questo
manuale.
Ora non ti resta che procedere con la seconda parte
del manuale, dedicata alla progettazione di una solida
storia ricca di significati e che risuoni con il lettore! Attenzione, non pensare che siano concetti utili solo per gli
sceneggiatori: una solida formazione di sceneggiatura è
essenziale per uno scrittore di romanzi.
Buona lettura e… buona scrittura!
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SECONDA PARTE:
SCENEGGIATURA
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INTRODUZIONE ALLA
PROGETTAZIONE DELLE STORIE
Benvenuto nella seconda parte del manuale, dedicata a
cosa sono le storie e a come si progettano. Questi argomenti non ti renderanno in grado di produrre una bella
storia se non hai delle valide idee da usare, ma ti permetteranno di esplorare al meglio la tua creatività ed esprimere le tue idee migliori senza sabotarti da solo con incoerenze strutturali o messaggi contraddittori.
Un autore bravo nel progettare storie può prendere
delle ottime idee e ricavarne un’ottima storia, ma con
delle idee mediocri otterrà al più una storia mediocre.
Un autore incompetente nel progettare storie può avere
delle idee fantastiche, ma finirà per rovinarle e produrrà
una storia mediocre.
Esattamente come col vino: un grande enologo non
può ricavare un grande vino da dell’uva scadente, e
un’uva eccellente può diventare vinaccio in mano a un
enologo scadente. La cosa più importante è la materia
prima, mentre la nostra abilità di lavorarla servirà a evitare di compromettere il prodotto finale.
Se pensi di avere delle ottime idee, delle grandi intuizioni sulla natura umana e sul comportamento umano, ed elementi originali mai visti prima, hai tutto l’interesse a imparare come non rovinare il tuo potenziale.
Il tuo potenziale inespresso finalmente verrà espresso!
162
Sapere come giudicare i contenuti della tua storia e
la loro eleganza ti farà sentire molto più libero di esplorare la tua creatività senza freni inibitori: non ti censurerai sui contenuti perché saprai plasmare la tua storia per
contenerli in modo funzionale.
Questo è il tuo obiettivo finale: essere libero di
esprimerti!
Buona lettura e buon lavoro.
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COS’È UNA STORIA?
Cominciamo con le basi: che cos’è una storia?
Se vai a fare la spesa, compri quello che ti serve e
torni a casa, tutto liscio, senza contrattempi, è una storia?
No, non nel senso che ha una storia nella narrativa, film
inclusi.
E allora che cos’è una storia?
LA STORIA “BASE”
Il personaggio si trova in una situazione iniziale che
possiamo considerare per lui “normale”. [Normalità]
Qualcosa sconvolge la normalità. [Crisi]
Il personaggio reagisce al cambiamento e cerca di ottenere qualcosa. [Desiderio]
Qualcosa si oppone al suo desiderio e lo ostacola nelle azioni che compie per ottenere ciò che desidera.
[Opposizione]
Questa opposizione porta alla lotta per conseguire il
proprio obiettivo. [Conflitto]
Nel corso delle vicende il personaggio cambia, un po’
alla volta: la sua visione del mondo viene messa in discussione e lui si adatta al cambiamento e per questo
comincia a vincere dopo un percorso iniziale di sconfitte. [Cambiamento]
164
Nota: opposizione e conflitto sono strettamente legati, visto che il conflitto è semplicemente il frutto visibile dell’opposizione. Se il personaggio rinunciasse al desiderio nel momento in cui appare l’opposizione, come
se nulla fosse, senza entrare in conflitto, significherebbe
che quella cosa non gli importa davvero. Per quanto male, per quanto in modo fallimentare, il personaggio deve
affrontare l’opposizione senza rinunciare. Negli esempi
li considereremo assieme.
Come vedi dall’ultimo punto dell’elenco, idealmente
il protagonista compie un arco di trasformazione che
coinvolge la sua interiorità e le sue relazioni, portandolo
al mutamento necessario per vincere… o forse no, forse
non cambia in modo utile e qualcosa finirà molto male!
Parleremo del cambiamento e del difetto fatale di un
personaggio più avanti nel manuale. Il risultato finale,
che ci sia o meno un superamento positivo del proprio
difetto fatale, è che abbiamo un mondo della storia e un
personaggio mutati.
Normalità, crisi, desiderio, opposizione, conflitto e
cambiamento: questi sono gli elementi cardine di una
buona storia, di qualcosa che sia diverso dall’andare a fare la spesa o da una banale attività che a noi magari può
sembrare “avventurosa”, ma che per il personaggio è
semplice routine. E anche noi, quando il protagonista
vince senza fatica, ci godiamo molto meno la storia.
L’opposizione al desiderio del protagonista è ciò che
crea la storia. Proprio ciò che mancava nel nostro esempio iniziale, col personaggio che andava a fare la spesa e
tutto filava liscio! Se il personaggio ottenesse tutto ciò
che vuole senza dover affrontare delle avversità, non sarebbe una storia in senso classico. Sarebbe come guardare coniglini carini che fanno cose graziose e basta.
165
Attenzione, ti anticipo un concetto: il personaggio
lotta per ottenere qualcosa allo scopo di non perdere qualcos’altro. Il cambiamento che ha sconvolto la sua vita sta
minacciando qualcosa di importante e lui lotta per non
perdere quella cosa.
Pensa a un soldato prigioniero in un campo di concentramento in cui sa che prima o poi morirà perché la
fine della guerra è molto distante e il nemico è brutale, e
allora lotta per evadere: ottenere una fuga di successo ha
lo scopo di difendere la sua sopravvivenza. Entreremo
un po’ più nel dettaglio quando parleremo del concetto
di posta in gioco.
Tutto abbastanza chiaro? Facciamo qualche esempio,
senza preoccuparci dei finali delle storie o di entrare
troppo nel dettaglio sui diversi aspetti tecnici.
L’IMPRENDITORE
[Normalità] Il protagonista ha un lavoro d’ufficio in
cui viene poco valorizzato.
[Crisi] Viene licenziato e deve reinventarsi sul mercato del lavoro, facendo qualcos’altro.
[Desiderio] Vuole realizzare il sogno di aprire una
pizzeria.
[Opposizione] [Conflitto] Parte del vicinato non acconsente che il locale ottenga una licenza per vendere alcolici, per cui la pizzeria non potrà sopravvivere.
[Cambiamento] Forse trova la fiducia in sé stesso e
nelle proprie idee originali che gli mancava, e arriva
a sviluppare un’idea geniale per non avere problemi
per l’assenza di alcol: un ristorante-pizzeria vegetariano con annessa sede di un’associazione culturale
166
salutista e accordi di promozione reciproca con un
centro benessere.
IL SOLDATO VETERANO
[Normalità] Il protagonista vive la routine della trincea tra noia, fango e lettere a casa.
[Crisi] L’Alto Comando ordina un assalto dopo mesi
di pseudo-tregua, e il protagonista teme che il conflitto da ora in poi diventerà un vero bagno di sangue.
[Desiderio] Il protagonista vuole riuscire a farsi ferire
in modo grave, ma non mortale, per ottenere il congedo.
[Opposizione] [Conflitto] Il nemico lancia un’offensiva su scala vastissima e il protagonista rimane isolato con i compagni a lottare per la vita, senza possibilità di tornarsene a casa con una semplice ferita. È obbligato a partecipare a un’operazione eroica dietro le
linee nemiche come unica chance per tornare a casa.
[Cambiamento] Forse trova la forza di lottare grazie
al cameratismo degli altri soldati e il suo precedente
egoismo, ormai incapace di farlo sopravvivere nella
nuova condizione, viene sostituito dallo spirito di
squadra.
167
LA RECLUTA
[Normalità] Il protagonista si è appena diplomato al
liceo.
[Crisi] Scoppia la guerra e il suo paese è minacciato.
Lui è un patriota e assieme ai suoi compagni di classe, invece di iscriversi all’università, si arruola volontario prima di ricevere la chiamata.
[Desiderio] Vuole sopravvivere assieme ai compagni
di classe, tutti assegnati alla stessa compagnia di fanteria.
[Opposizione] [Conflitto] La compagnia viene annientata. Il capitano esce di testa, minaccia di sparare
ai fuggitivi, e gli unici due compagni di liceo sopravvissuti lo uccidono e si danno alla macchia. Il protagonista vuole proteggerli e portarli in salvo senza che
si scopra cosa hanno fatto, per evitare a tutti la corte
marziale e la fucilazione.
[Cambiamento] Forse capisce che la bandiera non è
tutto e che le regole non sono tutto, e che fare la cosa
sbagliata, seguire due assassini e disertori, può essere
l’unico modo di fare quella giusta: salvare i propri
amici e tornare tutti vivi a casa.
IL RICCONE
[Normalità] Il protagonista vive un matrimonio
all’apparenza felice e ha una famiglia come tante.
[Crisi] Vince alla lotteria e diventa un riccone di colpo.
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[Desiderio] Il protagonista vuole imparare a gestire la
ricchezza ottenuta senza che la sua vita vada a rotoli.
[Opposizione] [Conflitto] I parenti si lanciano con ricatti morali per fregare soldi al protagonista.
[Cambiamento] Forse il protagonista capisce che chi
dice di amarlo solo per avere una parte dei suoi soldi
non lo ama davvero.
Il protagonista di ognuna di queste storie alla fine
vince, perde o pareggia. In ogni caso lui è cambiato (magari non nel modo corretto per vincere o troppo poco) e
il mondo attorno a lui, perlomeno quello in cui vive
quotidianamente, pure.
LE STORIE PARLANO DI CAMBIAMENTO
Una storia efficace non è qualcosa che passa senza avere
alcun effetto: il mondo e le persone cambiano quando
qualcosa di importante le travolge, anche quando sprofondano nel fallimento dell’incapacità di adattarsi ai
cambiamenti. Anche il personaggio che resiste al cambiamento “utile per vincere” cambierà a causa degli
eventi della storia, seppure non in modo utile a vincere.
Gestire le differenze tra la sconfitta reale (tragedia),
la sconfitta apparente (percorso eroico riuscito per un
pelo, oppure tragedia mancata) e il pareggio (tragedia
mancata per un pelo), non è facile. Sono sfumature che
Dara Marks non tratta nel saggio L’arco di trasformazione
del personaggio, dove si concentra su vittorie nette e sconfitte nette, e di cui mi occupo invece io nel mio Corso
Avanzato. In particolare tratto il mutamento del personaggio in una tragedia, ovvero come farlo evolvere nel
169
suo difetto fatale in modo che comunque alla fine fallisca… ma in modo più dinamico e vario rispetto al tipico
personaggio tragico immutabile. Questi però sono argomenti molto avanzati che, come detto, nemmeno la
Marks ha trattato nel suo eccellente saggio. Non sono
questioni idonee a un Corso Base come questo.
Quella che abbiamo visto fino a qui è la struttura
minima di una storia classica: qualcuno vuole qualcosa,
qualcun altro gli si oppone e da questo nasce un conflitto
che porterà il protagonista a dover cambiare per trionfare sulle avversità, qualche volta con dei cambiamenti
piccoli e altre volte con dei cambiamenti radicali.
Il cambiamento è necessario anche solo per realismo: ogni esperienza di vita significativa è tale proprio
perché ha un impatto su di noi che, bene o male, molto
o poco, comunque ci cambia.
Nel cuore di una storia c’è un conflitto che nasce dal
desiderio che riceve opposizione, magari da una lotta tra
personaggi che desiderano ottenere qualcosa, e l’ottenimento da parte di un personaggio di ciò che vuole impedisce agli altri di ottenere ciò che loro vogliono.
Potrebbe essere un obiettivo unico, come la vittoria
di una gara di automobilismo (se Gino vince la coppa,
Carlo non può averla), oppure può essere una situazione
in cui gli obiettivi si cancellano a vicenda senza però sovrapporsi completamente (i tedeschi vogliono trovare il
commando infiltrato, mentre i soldati del commando
vogliono sabotare la diga tedesca e riuscire a fuggire).
L’ambientazione stessa, talvolta, può essere vista come un personaggio che ostacola il protagonista fornendo
un “attrito”, se la sfida non riguarda un forte antagonista
intelligente e caratterizzato che affronta coi suoi mezzi il
170
protagonista. Pensate al contesto della nave spaziale irta
di pericoli e misteri in Abaddon di Giuseppe Menconi.
Una storia ha bisogno di un protagonista attivo, uno
che agisce e tenta di guidare il proprio destino per affrontare le avversità. Attenti però al significato di “attivo”: anche un personaggio che si oppone con tutte le sue
forze al cambiamento è attivo, perché lotta per preservare tutto così com’è e si ostina a rifiutare il cambiamento
(invece di accettarlo passivamente) con tutti i mezzi che
possiede, nonostante la spinta a cambiare sia sempre più
forte, fino a giungere al proprio destino tragico di “dinosauro” incapace di sopravvivere al nuovo ambiente.
Un protagonista troppo passivo può essere un grosso
problema per un’opera lunga come un romanzo o un
film. Se il personaggio si limita a tentare di reagire e basta agli eventi che lo travolgono, senza prendere mai
l’iniziativa per guidare il proprio destino, l’opera può
funzionare male nonostante vi siano conflitti e cambiamento.
Il vero cambiamento richiede azione, richiede la capacità di superare i propri limiti e tirare calci nel culo a
chi fino a quel momento ci ha fatti rotolare in giro come
palle di stracci. Richiede un personaggio attivo che afferra il proprio destino e comincia a guidare il gioco. Magari vincerà, magari perderà, ma deve tentare!
I personaggi un po’ passivi possono funzionare nelle
opere brevi, come i racconti, perché la loro passività può
essere sfruttata per aumentarne la sofferenza e l’opera
sarà terminata prima che giunga la noia. Per esempio la
bambina protagonista del racconto lungo La Gatta degli
Haiku di Giulia Besa non ha la forza per cambiare la
propria vita da sola, patisce la fame e i soprusi, ma nonostante possa fare ben poco non è del tutto passiva. Agisce
171
per quanto può, si sforza di inseguire il proprio obiettivo
anche se le mancano i mezzi, supportata dalla magica
gattina parlante che ha deciso di aiutarla per ricambiare
la gentilezza che la bambina le ha fatto.
Non affronterò in questo manuale il concetto di protagonista “catalizzatore”, quello che non muta e fa mutare gli altri, perché non è un concetto basilare da conoscere. Nessuno degli scrittori che ho seguito negli ultimi
cinque anni ne ha avuto bisogno per realizzare i propri
romanzi (molti dei quali poi pubblicati). Ne parlerò nel
Corso Avanzato per esteso.
Se mettessi ogni singola cosa che ritengo utile che un
aspirante scrittore sappia, verrebbe un manuale di mille
pagine. E non sarebbe più un Corso Base: zero distrazioni coi concetti troppo avanzati, rimaniamo sui concetti
davvero utili per chi sta cominciando!
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DIFETTO FATALE E FALLIMENTO:
RENDI LA STORIA “PERSONALE”
Hai una storia, hai un personaggio che ti sembra ben fatto, hai molto conflitto, ma qualcosa non funziona. Non
prende davvero in pieno come dovrebbe. Perché? Forse
perché la vicenda del protagonista non è abbastanza personale.
Una storia è personale quando riguarda il singolo individuo. Non confondere lo scenario in cui si svolge la
storia con la storia stessa. Allo scopo di una storia, lo
sfondo della vita quotidiana di un quartiere residenziale
oppure i campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale sono la stessa cosa. Quello che conta è solo l’effetto
che gli eventi avranno sul personaggio e come lui reagirà
nella propria vicenda.
C’è chi arriva a togliersi la vita travolto da drammi
che altri riescono a superare e chi attraversa un conflitto
mondiale aggrappato alla vita fino all’ultimo, nonostante
le mostruose avversità e i molti compagni morti tra le
proprie braccia. Compito della narrativa, scritta o film, è
insegnarci a capire che il dolore del primo non è minore
di quello del secondo, e che persone diverse sono spezzate da vicende diverse.
Un evento non ha un valore in sé, ha il valore che
l’individuo vi carica sopra. Ti faccio qualche esempio.
173
Per un bambino perdere il gelato e trovarselo per terra è una tragedia, ma per un adulto è un fastidio insignificante.
Per un uomo al bar rovesciare una bottiglia d’acqua è
solo un fastidio, ma per un uomo perduto nel deserto
è una tragedia che potrebbe impedirne la sopravvivenza.
Per i grassi, ricchi e insoddisfatti cittadini medi dei
paesi occidentali, un litigio su Facebook è una cosa
che fa saltare i nervi, ma per le persone che vivono in
buona parte del mondo, che si spaccano la schiena
realmente, che hanno sempre fame e sono abituati
all’idea di dover rimanere muti mentre la polizia locale del loro paese (che i nostri governi finanziano) li
bastona e li deruba, le nostre stronzate da bambocci
viziati sono incomprensibili.
Ti è mai capitato di perdere una persona che ami e
di fronte al dolore della morte tutto quello che fino a
poco prima ti sembrava “importante” e fonte di irritazione, all’improvviso si rivela irrilevante?
Entra nell’ottica di capire questo, o non produrrai
mai una storia davvero apprezzabile. La storia deve parlarci del personaggio e delle sue scelte drammatiche in
relazione a eventi che per lui sono gravi e importanti e
che, grazie alla forza con cui lui ci convince della loro
importanza, lo divengono anche per noi.
Dato che una storia tipica va avanti fino a quando il
protagonista trionfa, direi che è evidente come buona
parte della vicenda sia lastricata di fallimenti. Il fallimento è ciò per cui leggiamo un grande romanzo o guardiamo un bel film, attratti nel vortice delle difficoltà del
protagonista, domandandoci come potrà riuscire a ca-
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varsela alla fine uscendo trionfatore dalle avversità. Vogliamo che la sua vita vada a rotoli e che ne esca fuori
“migliore” di prima, nel significato di “sopravvivenza del
più adatto”.
Questa storia personale come fa a essere davvero tale? Lo è se il fallimento è legato a una imperfezione del
personaggio, al cosiddetto fatal flaw o “difetto fatale”.
Non gli mancano le capacità per farcela, ma non le sa
usare al meglio. Solo lui con le sue caratteristiche, con i
suoi difetti, può essere il protagonista di questa storia.
Chiunque altro, posto nella medesima vicenda, avrebbe
reazioni che porterebbero a una storia differente. Questo è un argomento importante, ma non di base, trattato
nel Corso Avanzato. Facciamo un paio di esempi per capire meglio.
ESEMPIO:
RUGGERO IL SENZA PAURA
Il primo esempio è a tema storie d’azione.
Ruggero è astuto, coraggioso, è un bravissimo tiratore col fucile ed è pieno di risorse, e tu decidi
in una scena di metterlo spalle al muro senza che
lui abbia sbagliato alcunché per finire così, obbligato a difendersi dai nemici con una mitraglietta
Skorpion che lui sa a malapena usare. Ovviamente viene sconfitto.
Ha senso? No. Quella scena non ci parla davvero di
quel personaggio e del suo difetto. Se lui ha fatto tutto
giusto e le cose vanno male per sfiga, questo può anche
risultare “credibile” ma non ha valore narrativo: una sto175
ria drammatica ben progettata deve sempre suonare
credibile, per cui la scusa del “realismo” per giustificare
una cattiva scelta drammatica è solo la scoreggia che esce
dalla bocca di un incompetente.
Cerchiamo di aggiustarla:
Ruggero è troppo altruista e ha dato il suo fucile
da cecchino a Carlo in modo che abbia un’arma
per coprire dal tetto la fuga dei civili dal complesso. Ruggero per il bene degli altri si è trovato senza la sua arma, obbligato a fare quanto può con
un’arma presa da un nemico. E magari le cose si
mettono male anche per i civili in fuga. Ruggero
dovrà imparare a essere più egoista, a pensare
prima di tutto a sé stesso, perché solo se lui sarà
nel pieno delle forze potrà anche difendere gli altri.
Oppure una versione senza civili da salvare:
Ruggero è troppo sicuro di sé e sottovaluta il nemico, per cui ha puntato dritto alla via di fuga certo che nessuno sarà in grado di scoprirlo, invece
di perdere del tempo in più per recuperare il proprio fucile. Forse Ruggero è arrogante o forse è
solo impulsivo, entrambe le scelte possono portare a scene simili, ma in ogni caso è colpa sua se si
trova con i nemici che lo hanno scoperto e lui ha
in mano un’arma che sa usare poco.
Magari i nemici lo scoprono per un piccolo colpo di
sfiga, ma ciò che fa la differenza vera non è la sfiga: è il
non poter gestire la sfida nuova perché il difetto fatale lo
ha portato a sbagliare in modo eccessivo.
176
La sfiga esiste (i contrattempi non prevedibili), ma
l’essere competenti e vincenti in buona parte significa
essere così capaci di adattarsi ai cambiamenti da neutralizzare quasi tutti gli effetti dei cosiddetti “colpi di sfiga”.
Chi è poco competente subisce bastonate a ogni normale
cambiamento che capita, e così accusa la propria sfortuna. Anche la sfiga è quindi una questione di percezione,
spesso.
ESEMPIO:
L’ASPIRANTE RISTORATORE
Ricordi gli esempi fatti quando abbiamo parlato di che
cos’è una storia? Ricordi il caso del tizio che ha perso il
lavoro e vuole aprire una pizzeria?
[Normalità] Il protagonista ha un lavoro d’ufficio in
cui viene poco valorizzato.
[Crisi] Viene licenziato e deve reinventarsi sul mercato del lavoro, facendo qualcos’altro.
[Desiderio] Vuole realizzare il sogno di aprire una
pizzeria.
[Opposizione] [Conflitto] Parte del vicinato non acconsente che il locale ottenga una licenza per vendere alcolici, per cui la pizzeria non potrà sopravvivere.
[Cambiamento] Trova la fiducia in sé stesso e nelle
proprie idee originali che gli mancava, e arriva a sviluppare un’idea geniale per non avere problemi per
l’assenza di alcol: un ristorante-pizzeria vegetariano
con annessa sede di un’associazione culturale salutista
e accordi di promozione reciproca con un centro benessere.
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Sembra evidente quale sia il suo difetto fatale!
L’aspirante ristoratore ha perso il lavoro d’ufficio perché
ha poca fiducia nelle proprie idee originali e questo lo
porta a seguire solo le idee già collaudate, ma come questo lo ha portato a perdere il proprio lavoro così lo porterebbe a perdere il proprio ristorante.
Difetto fatale: non fidarsi delle proprie capacità, nello specifico del “proprio punto di vista originale” e quindi aggrapparsi al già visto che tutti fanno.
Magari fino a prima dell’arrivo della crisi, nella sua
carriera, andare sul sicuro è sempre stato sufficiente a
cavarsela, sembrava l’opzione sicura, quella senza rischio… finché non ha causato il suo licenziamento. Forse
l’azienda aveva bisogno di qualcosa di completamente
differente, non di un uomo dalle idee trite e ritrite e che
non sa fare uscire la propria personalità.
Vedi come anche questa piccola storia mainstream
risulta personale, come tutto riguarda proprio il protagonista direttamente? Vedi come tutto ruota attorno alla
sua caratteristica non più idonea alla sopravvivenza?
Il protagonista è trascinato in un vortice di fallimenti, di sconfitte, finché verrà messo spalle al muro e dovrà
cambiare o perdere tutto, senza via di fuga per rifugiarsi
nelle vecchie abitudini sbagliate. Se troverà la forza di
cambiare e di vincere, avrà percorso un arco eroico. Se
non la troverà, percorrerà quello tragico.
TROVA LA STORIA PERSONALE
NEL GRANDE CONTESTO
Una storia di guerra per quanto sia dettagliata e vivida
può venire rovinata dalla presenza di un protagonista in-
178
filato in un contesto così tanto più grande di lui, così impossibile da controllare, che lui può solo obbedire.
Un personaggio passivo, privo di indipendenza, che
fa solo ciò che gli dicono e non mette la vicenda sul personale, è solo una comparsa tra le tante. Ricorda cosa
abbiamo già detto sul bisogno che i personaggi siano attivi.
Il protagonista sullo sfondo della grande vicenda deve vivere una vicenda personale ulteriore, su cui lui agisce, che cerca di controllare e in cui sceglie lui cosa fare.
Pensa al cecchino de Il nemico alle porte, che decide e agisce in una propria storia individuale nonostante sia posto nel contesto da tritacarne che è stata Stalingrado.
Pensa ai piloti principali dell’anime Gundam Seed e al
protagonista che non solo deve capire da che parte stare,
ma deve anche convivere con scelte dolorose che lo segnano fino quasi a spezzarlo, come il senso di colpa per i
danni collaterali causati che portano alla morte di molti
civili che conosceva.
Il protagonista può essere una persona ordinaria,
realistica, totalmente credibile, senza nessuna qualità
straordinaria, ma questo non significa che la sua vicenda
non debba essere personale e quindi, per l’impatto che
ha su di lui (e su di noi), straordinaria. Se il tuo personaggio è sostituibile da chiunque altro e la vicenda non
cambierebbe perché non c’è nessuna vicenda personale
ulteriore sopra lo sfondo dell’evento generale, se è solo
uno dei tanti fanti tutti uguali in un quadrato inglese a
Waterloo, o uno dei tanti Assaltatori anonimi di Star
Wars, non è un vero protagonista.
Pensa al film Gente Comune e a come una famiglia ordinaria è travolta da una vicenda terribile, le morte del
figlio maggiore seguita dal tentato suicidio del figlio mi-
179
nore, e lotta per ritrovare la felicità. Pensa ai soldati tedeschi del film Stalingrad, che in un contesto disumanizzante hanno comunque ancora margine di scelta e tentano perfino una rivolta.
Anche i personaggi secondari più importanti dovrebbero vivere una vicenda fortemente personale: lo
sceriffo Teasle in Rambo non è disposto a mollare l’osso e
ad ascoltare il colonnello perché Rambo ha ucciso il suo
amico Galt, ha umiliato i suoi uomini e ha fregato anche
la Guardia Nazionale.
Lo sceriffo è un eroe di guerra che proviene da un
conflitto “vincente” degli USA, probabilmente la Guerra
di Corea, lo vediamo dalle medaglie nel suo ufficio, e
non è disposto a farsi battere da un eroe di guerra che
viene da un conflitto “perduto” come il Vietnam. Non
dopo quello che Rambo ha fatto.
La vicenda in cui si trova invischiata Barbara Ann in
Caligo di Alessandro Scalzo è ben al di là delle possibilità
di una giovane ragazza, ma lei è un personaggio forte,
attivo e sa quello che vuole. Non è una damigella in pericolo in attesa di un salvatore: anche quando lo zio la aiuta, lei ha già dimostrato e dimostrerà ancora di potersela
cavare. Questo è un personaggio attivo.
Un buon personaggio non è un passivo spettatore
degli eventi, non è un ingranaggio che ubbidisce al meccanismo: un buon personaggio decide, agisce e subisce le
conseguenze.
Per vincere dobbiamo essere i più forti tra i due
nel punto di impatto. La nostra sola speranza risiede nel controllo sulla scelta delle operazioni,
senza aspettare passivamente che sia il nemico a
scegliere per noi.
180
(Alfred Graf von Schlieffen, Capo dello Stato
Maggiore Generale Tedesco tra 1891 e 1906)
La cosa migliore per iniziare a capire questi discorsi
è iniziare a stare un po’ attenti ai film che guardi, a iniziare a vedere se cogli ciò di cui stiamo parlando. Non
serie tv o anime perché ci sono spesso diverse storie interlacciate e rischi di confonderti su quali siano storie nel
senso che indicheremo noi, e quali sono vicende di personaggi secondari.
Anche i romanzi possono dare problemi perché la
cultura della buona progettazione è molto meno diffusa
che nel cinema. Su AgenziaDuca.it ti indicherà delle
opere “sicure” dalla struttura utilizzabile come esempio,
se vuoi provare ad analizzare dei romanzi.
La struttura di Caligo, uno dei romanzi che troverai
nella lista, viene analizzata dettagliatamente nel mio
Corso Avanzato, con particolare enfasi sui punti venuti
meno bene. Si impara pochissimo da una storia schifosa
e si impara qualcosa da una storia ottima, ma sapete dove si impara ancora di più? Da una storia molto buona
che soffre di qualche difetto perché possiamo impegnarci per capire come si sarebbe potuto correggere il ragionamento. Da quelle storie si impara moltissimo.
Proprio in questo campo i film ci tornano molto utili
perché anche se alcuni film sono progettati benissimo,
questa non sono la norma: parecchi dei film in circolazione sono ben fatti, ma tutt’altro che perfetti e questa è
una cosa positiva.
Attento sempre mentre analizzi delle opere a mantenere molto aperte le tue interpretazioni perché all’inizio correrai il rischio di capire fischi per fiaschi e ingannarti in modo tale da danneggiare il tuo apprendimento.
181
Fare esercizi non è una pratica sicura, c’è sempre un
certo margine di pericolo se si è alle prime armi. Una serie di lezioni iniziali del mio Corso Avanzato si occupa di
questo problema e insegna come analizzare le opere in
totale sicurezza.
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ESCALATION DEL CONFLITTO
E SOFFERENZA
Abbiamo detto che il personaggio deve fallire finché non
cambia sé stesso per adeguarsi alle nuove sfide. Questo
però non significa che debba fallire tutto sempre e comunque, ma che nell’insieme debba fallire.
Cosa intendo? Il personaggio deve fallire per colpa
del suo difetto fatale (la specifica caratteristica che impedisce la vittoria) e questo implica anche il vincere nel
modo sbagliato e trovarsi una vittoria che si tramuta in
una sconfitta. Il meglio che può avere è una vittoria di
Pirro. Se qualcosa pare andare bene al protagonista, successivamente questa stessa cosa porterà a una sconfitta
ben superiore al poco guadagnato!
ESEMPIO:
PAOLONE LO ZAMPONE
Paolone detto “lo Zampone” è un malavitoso impulsivo
e poco propenso a valutare i rischi. Paolone ottiene finalmente i soldi necessari per comprare l’auto dei suoi
sogni, un veicolo modificato illegalmente per divenire
un vero mostro della strada che vola a 300 km/h e scoreggia fiamme (con tanto di intestazione a un prestanome). Quest’auto viene rubata perché Paolone l’ha lasciata
in qualche posto poco raccomandabile fidandosi del
183
proprio “nome” per proteggerla. Peccato che l’auto sia
nuova e quasi nessuno dei delinquenti della zona sappiano ancora che è la sua nuova bestiolina!
Paolone però è un delinquente professionista e sa
come scoprire chi lo ha derubato! Diffonde la notizia per
spaventare i colpevoli e promette di non fare loro niente
se l’auto tornerà indietro. Paolone ci sa fare e presto
chiunque sia stato si cagherà nelle mutande. Sfortunatamente l’auto finisce poche ore dopo a pezzi, coinvolta
come veicolo per la fuga in una rapina in banca finita
male. E proprio come tutti i delinquenti della zona hanno saputo che quella è la sua auto, così anche alla polizia
è arrivata la voce che il proprietario è lui e non quello
che sembrerebbe dalla targa.
Rapina di cui magari i poliziotti lo sospetteranno
complice per la somiglianza con uno dei rapinatori fuggiti, l’autista: somiglianza che si ferma ad essere grosso
come un armadio e con un bomber nero addosso, ma
meglio fare un controllo per sicurezza, anche per capire
se davvero il vero proprietario dell’auto era lui… e Paolone l’ultima cosa che vuole è trovarsi la polizia che gli
bussa alla porta alle cinque del mattino, mentre lui si
trova con una pistola in casa detenuta illegalmente che
gli procurerebbe dei brutti guai.
E la vicenda prosegue con lui che scappa in mutande
e stivali da motociclista dalla finestra del bagno… e pensare che la polizia non aveva nessun mandato di perquisizione! Erano lì davvero solo per portarlo in centrale e
fargli qualche domanda che lo avrebbe rapidamente tolto dalla lista dei sospettati! Con la sua fuga, un gesto decisamente impulsivo, però la situazione è cambiata…
184
INTENSIFICARE IL CONFLITTO
Capito il meccanismo? Le cose vanno sempre peggio.
Questa è anche chiamata “escalation del conflitto”, ovvero la situazione diventa sempre peggiore.
Nel mondo delle sceneggiature si dice che se il protagonista prima viene minacciato, dopo viene picchiato
e solo dopo ancora tentano di ucciderlo. Una progressione ragionevole e naturale se vogliamo tenere il protagonista sulle spine.
Se prima tentassero di assassinare il protagonista e
dopo lo minacciassero di fargli la bua, di che dovrebbe
spaventarsi? È già sopravvissuto ai sicari, non è che il timore di ricevere una sberla dietro la nuca sia così terribile! E, come abbiamo spiegato prima, il significato di
ciò che avviene è relativo al personaggio che lo subisce.
Magari all’inizio della storia tentano di uccidere il
personaggio, ma questo avviene quando la sua vita non
vale nulla, lui è un disperato, senza amici, senza una persona che lo ami, senza soldi… sta peggio di Riggs nel
primo Arma Letale! Per lui, come per Macbeth, morire
può essere un sollievo. Quando non si ha niente da perdere, perdere “tutto” non è poi questo gran problema.
Verso la fine della storia però il nostro personaggio
ha soldi, ha una carriera, ha amici, ha una fidanzata, si è
risollevato ed è diventato qualcuno… e arriva la minaccia
di rivelare un suo piccolo segreto che gli farà perdere
amici, carriera, fidanzata ecc. certo, avrebbe più soldi di
quelli che aveva all’inizio del romanzo e non sarebbe
morto, ma avrebbe perso tutto il resto, in primis la sua
reputazione. E ora che la sua vita ha di nuovo un valore,
185
non è disposto a tornare a essere un disperato solitario
come prima.
Domandati cosa rischia di perdere il personaggio e
quanto questo lo devasterà: questa è la misura della gravità della minaccia. E noi, come lettori o spettatori, dobbiamo sentirla in pieno e vederla come molto più grave
dello scontro all’ultimo sangue tra pezzenti disperati visto a inizio film.
Il vantaggio di aumentare il conflitto è anche che la
storia non diventerà piatta. Se il livello del conflitto fosse
sempre identico, dopo un po’ ci abitueremmo e lo considereremmo la norma. Bisogna per forza variarlo. Ma
come? Riducendolo sempre di più? Direi proprio di no:
dopo un duello mortale con dei sicari cannibali, la nota
sul registro e la tirata d’orecchi da parte del professore
diventa davvero poco spaventosa. Non resta che aumentarlo!
Tra alti e bassi, il conflitto dovrà tendere ad avere
picchi sempre più alti. La tensione deve salire con il pericolo, calare con la sconfitta del pericolo, salire ancora
più in alto, scendere ancora, poi salire ancora più di
prima e così via. La vicenda sarà sempre più pericolosa,
sia quando il personaggio sarà nella fase in cui fallisce
per colpa del proprio difetto fatale sia nella fase in cui
vince grazie al proprio cambiamento interiore. L’argomento viene approfondito nel Corso Avanzato di Sceneggiatura.
Questo vuol dire anche che conserverai il meglio per
dopo. Non inizierai la storia con la scena più drammatica possibile, perché sarebbe sprecata. In più, dato che
non conosciamo ancora il personaggio, non sarebbe
drammatica per noi! Partirai con una buona scena che
incuriosisca e attiri il lettore, e alzerai il rischio sempre
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di più fino all’ultimo 25-30% della storia, quando darai il
meglio del meglio. Parleremo ancora in futuro del perché all’inizio certe scene troppo drammatiche siano
sprecate.
Per semplificare il processo creativo, immagina di
avere un obiettivo e una domanda per ogni “capitolo”
del tuo romanzo, o equivalente in un film o fumetto. Nel
corso a pagamento parliamo a fondo di come ragionare
scene e capitoli per favorire la lettura e la comprensione
della storia, padroneggiando la natura stessa di scene e
capitoli. Piccoli consigli che fanno la differenza.
Primo consiglio, ragiona il capitolo come qualcosa
con un solo punto di vista, quello del protagonista della
storia di cui il capitolo fa parte. Se non lo fai, stai tradendo la natura stessa del concetto di capitolo: una microstoria, che per definizione essendo una piccola storia
implica un protagonista, e il protagonista è a sua volta
per definizione il detentore del punto di vista.
Fai come fa George R. R. Martin, insomma: se il tuo
romanzo ha più storie, ognuna col suo protagonista, dedica ogni capitolo a uno solo di questi personaggi. E con
lo stesso ragionamento visto prima, fai che le loro storie
conservino il meglio per quando saremo davvero coinvolti dalle loro vicende!
Secondo consiglio, a inizio capitolo domandati qual è
l’obiettivo del personaggio e fai in modo che sia chiaro
per il lettore. Anche implicitamente, basta che il lettore
sappia cosa il personaggio vuole e quindi perché si trova
lì quando il capitolo inizia. Il lettore si chiederà: riuscirà
a ottenerlo? Questa è la domanda a cui il tuo capitolo deve rispondere con la sua micro-storia incentrata sul conseguire l’obiettivo.
Vediamo un esempio.
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ESEMPIO:
GINO L’IMPRENDITORE
Abbiamo lasciato Gino nel suo ultimo capitolo quando
aveva appena annunciato di avere un modo per procurarsi i soldi che gli servono per la sua azienda. All’inizio
del nuovo capitolo lo troviamo in un bagno pubblico, di
fronte allo specchio, mentre fa esercizi di respirazione e
fa le ultime prove del suo discorsetto su quanto la sua
azienda sia solida e quindi quanto sia sicuro che sarà in
grado di ripagare il prestito e bla bla bla e magari vediamo pure un dipendente della banca, perplesso, che entra
in bagno.
Senza bisogno di alcuno spiegone dell’autore (se non
sai cosa sono gli spiegoni vai al capitolo sugli infodump
nella prima parte del manuale), con poche battute ben
pensate e poche azioni, abbiamo capito che il suo piano
per trovare i soldi (l’obiettivo) è… uno stupido prestito?
Se già sappiamo che Gino è incapace di correre rischi e questo lo blocca nel trovare soluzioni innovative,
come nell’esempio dell’aspirante ristoratore visto prima,
capiamo subito che questo è solo l’ennesimo errore che
farà prima di cambiare mentalità. La domanda però ci
rimane: otterrà il prestito o non lo otterrà?
L’IMPORTANZA DELLA SOFFERENZA
La vicenda si evolve grazie al conflitto per fare in modo
che la risposta alla domanda sia un bel “sì”, ma si conclude invece con un “no”. Oppure, tornando alle vittorie
di Pirro, la risposta può essere un “sì, ma…” o ancora
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peggio un “no, e inoltre…” in cui alla disfatta si aggiunge
un disastro ulteriore connesso ma inaspettato. Dietro il
“sì, ma…” c’è proprio quel MA che tramuta il successo in
un amaro successo e poi in una sconfitta.
Gino è disperato perché vuole salvare la sua azienda
da 200 dipendenti, fondata dal nonno, e alla fine trova
un finanziatore che gli dice “Certo, io ti do tutta
quell’enorme cifra che chiedi, ma mi compro così il 60%
della tua azienda.” Poi però il tizio subito dopo cede la
sua quota a un cinese che ordina di delocalizzare il tutto
in Cina e così il protagonista ha comunque perso il possesso della sua azienda e non è riuscito a difendere i lavoratori, che finiranno tutti licenziati.
Cosa ci dice tutto questo? Ci dice che il personaggio
non deve solo lottare (e fallire): deve soffrire. D’altronde
vogliamo che il personaggio abbia lo stimolo necessario
per cambiare sé stesso e adattarsi alle nuove situazioni,
giusto? Vale la “formula” spiegata da Ray Dalio, filantropo, finanziatore e 69esimo uomo più ricco del mondo
con un patrimonio di 15,9 miliardi di dollari al febbraio
2017:
PROGRESSO = SOFFERENZA + RIFLESSIONE
Intensificare il conflitto e costruire una serie di fallimenti sempre peggiori, contro conflitti sempre più intensi, porta a una sofferenza sempre peggiore. Crescita
della sofferenza che porterà il personaggio a “capire il
proprio difetto” e a convincersi a superare i propri limiti.
E noi soffriremo col personaggio e vorremo sapere come andrà a finire, come vedrai nel Corso Avanzato
quando deciderai di proseguire la tua formazione oltre
le basi.
189
LE SCELTE MORALI
Torniamo alle scelte che il personaggio fa per raggiungere l’obiettivo. Le scelte sono fondamentali, come detto, per non farlo apparire passivo, per fare in modo che
il suo agire incida sul mondo della narrazione, e più sono forti e chiare le conseguenze, più il lettore sarà
“preoccupato” quando il personaggio prenderà una decisione.
Se il lettore si affeziona a diversi personaggi e se
ognuno di questi, per il proprio bene (e magari in buona
fede), prende decisioni che è evidente causeranno danni
agli altri, meglio ancora. Il lettore sarà sempre sulle spine
e ogni ipotetico trionfo di uno di loro gli farà subito temere le ripercussioni sugli altri. Qualcosa di simile accade nella serie di romanzi di successo Le Cronache del
Ghiaccio e del Fuoco di George R. R. Martin.
Ora domandiamoci come le scelte del personaggio si
ricolleghino al discorso sulla natura retorica della narrativa. Booth ce lo dice: la parola chiave è “morale”. La
scelta del personaggio deve essere morale. Ma cosa significa morale?
Booth venne accusato, dopo la prima edizione di The
Rhetoric of Fiction, di intendere la scelta perbenista, moraleggiante in senso negativo. Non intendeva questo e
infatti chi lo accusava dimostrò semplicemente di non
aver letto con attenzione. Mio eufemismo per dire che
bisogna vivere dentro la gabbia delle scimmie urlatrici
per capire una stronzata simile dopo averlo letto…
190
Booth, nella seconda edizione dell’opera, dedicò un
paio di pagine aggiuntive per chiarire meglio la questione anche a quei suoi colleghi più distratti che gli attribuivano concetti che non aveva espresso. Scusa se lo ripeto, ma la gente che si inventa concetti non presenti in
un testo è proprio roba da gabbia delle scimmie.
Tornando a Booth, la parola “morale” non indica
l’osservanza o meno dei dieci comandamenti o di chissà
quali norme inviolabili di comportamento. La parola
“morale” è stata scelta perché è l’unica che permetta, in
inglese perlomeno, di trasmettere il senso dell’originale
greco: la scelta giusta.
Ma giusta in che senso? Giusta nel senso che il lettore
deve ritenere che sia la scelta che il protagonista dovrà
fare. E dove sta la retorica? Semplice: non vi è nessun
vanto nel convincere i lettori che salvare una ragazza dagli stupratori in un vicolo sia morale, né vi è nel far pensare ai lettori che aiutare una vecchietta a salire le scale
sia morale… è troppo facile! Ma quando allora vi è vanto?
Quando si fa in modo che i lettori vogliano che il personaggio faccia qualcosa che solitamente sarebbe considerato negativo, malvagio, magari pure criminale.
È morale (e retoricamente interessante) quando il
personaggio poliziotto “duro e capace” (tipo il detective Vic Mackey di The Shield) sceglie, convintissimo lui e
convintissimi gli spettatori che hanno vissuto tutta la vicenda tramite il suo filtro distorto, di inserire sacchetti di
eroina nella casa di un presunto spacciatore per incastrarlo.
Morale è quando i lettori sono convinti (stesso meccanismo) che il poliziotto faccia bene a torturare un tizio,
con il consenso silenzioso dei colleghi che lo lasciano solo, perché è chiaro che quello là è un pedofilo e solo pe-
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standolo sputerà fuori dove ha nascosto la bambina rapita. Di certo il pedofilo non tornerebbe nel nascondiglio
per timore di essere incastrato dalla polizia… e si salverebbe lasciando morire la bambina di stenti, sepolta viva
in chissà quale scantinato.
Questo però non vuole dire che bisogna per forza
convincere il lettore che il male è bene solo per esercizio
retorico. Si può fare qualcosa di più interessante, di più
potente: ribaltare di nuovo il tavolo.
L’apice, la vera potenza retorica della narrativa, sta
nel guidare il lettore con soddisfazione nel desiderare e
accettare il male… e poi sbattergli in faccia l’errore. Il che
permette pure un ottimo modo di ottenere una svolta
narrativa costruita senza veri colpi di scena, perché semplicemente si raccoglie il male che si è seminato scambiandolo per il bene. Parleremo nel corso avanzato del
concetto di hamartia aristotelica.
Torniamo all’esempio del poliziotto: alla fine il presunto spacciatore era innocente, ma finirà in carcere lo
stesso. Ulteriore scelta morale: il protagonista poliziotto
invece di confessare il proprio crimine tace e sacrifica,
per il bene superiore della sua lotta contro il crimine,
l’innocente, perché se confessasse salvandolo tutti i suoi
casi precedenti verrebbero riesaminati e centinaia di
criminali tornerebbero liberi. Questa, se ricordo giusto,
c’era proprio nel telefilm The Shield.
Oppure il poliziotto può scoprire che il presunto pedofilo alla fine non era un pedofilo e si trova il vero colpevole. Ha torturato il presunto pedofilo? Lo ha ucciso
settimane dopo, convinto che abbia fatto morire la bambina? Lo ha messo alla gogna in qualche forma anonima,
causandogli il divorzio e la perdita del lavoro come insegnante elementare? Oppure lo ha fatto finire in galera
192
per un breve periodo incastrandolo per altro e poi ha
fatto girare la voce tra i carcerati che fosse un pedofilo –
e magari ha messo pure una taglia tramite un amico in
carcere – per farlo assassinare? Cosa succederà quando
scoprirà di aver fatto morire un innocente? Evolverà in
meglio, servirà a cambiarlo? O lo colpirà peggiorandone
il carattere, rendendolo ancora più duro e disumano, radicalizzandolo nel proprio percorso tragico di errori
(propri) e sofferenze (altrui)?
Nota la difficoltà di quelle scelte. Il lettore è preoccupato assieme al personaggio per le conseguenze che
potrebbero avere. Le scelte veramente difficili sono le
migliori e sono i cosiddetti “dilemmi tragici”. Il dilemma
tragico è tale se il protagonista dovrà scegliere qualcosa e
qualsiasi cosa sceglierà causerà un grave danno (dal proprio punto di vista). Non tanto il male minore, più qualcosa di simile a mali equivalenti e di cui non potrà rifiutare la scelta (il rifiuto stesso sarà una scelta dannosa).
Nel dilemma tragico non ci sono scappatoie.
La scelta non era tragica quando il poliziotto metteva
le dosi di eroina nella casa del presunto spacciatore, ma
lo diventa quando deve scegliere di continuare a mentire, e mandare così in galera un innocente, pur di non finire lui in galera. Magari il suo capitano ha intuito qualcosa e sta cercando di dargli una via di fuga, insabbiando
tutto e salvando capra e cavoli, evitando poi la galera al
tizio tramite lo smarrimento di qualche carta o una cavillosa irregolarità inventata nella perquisizione… ma
nella migliore delle ipotesi, se non in prigione, il poliziotto avrà la carriera distrutta. Cosa sceglierà, il male
per l’innocente o il male per sé? La sua vita non sarà più
la stessa: da eroe della lotta al crimine con metodi “pericolosi” a malvagio puro e semplice.
193
Non è un dilemma tragico se non fa soffrire in qualche modo il personaggio. È un dilemma tragico se in
piena invasione degli zombie che hanno sfondato finestre e porta, due compagni del protagonista lottano con i
morti e lui può intervenire per salvarne solo uno e sacrificare così l’altro. Questo dilemma è presente nel primo
episodio del videogioco Walking Dead e ha ripercussioni
grosse, tangibili e chiare sui due episodi successivi, visto
che il personaggio che si salverà continuerà a interagire,
in modo molto diverso in un caso o nell’altro, con il protagonista.
Non è un dilemma tragico se mi offrono 10.000 euro
per ogni volta che faranno saltare una supernova
dall’altra parte dell’universo, cancellando interi sistemi
abitati da civiltà aliene: non li conosco, non me ne frega
nulla, datemi i 10.000 euro che invece mi fanno comodo. Come nella frase attribuita a Stalin: un morto è una
tragedia, un milione sono statistica.
Un dilemma tragico famoso è quello di Agamennone
in Ifigenia in Aulide di Euripide: dovrà sacrificare sua figlia per soddisfare Artemide e salvare il proprio esercito.
O l’esercito o la propria figlia: non può salvare entrambi.
La decisione per Agamennone è tragica e due Agamennone si confrontano: è più importante AgamennonePadre o Agamennone-Condottiero? Conoscendolo, è
evidente che sceglierà la seconda. E la sceglie con fin
troppa facilità, togliendo tragicità alla questione: invece
di disperarsi per l’ingiustizia di ciò che è costretto a sacrificare, si abbandona quasi con ferocia all’idea del sacrificio come qualcosa di “giusto” (ma per lo spettatore la
scelta rimane tragica, anche se Agamennone è un po’
stronzo e la giustifica). Al lieto fine per la povera Ifigenia
ci pensano poi gli Dei, come ricorderete.
194
E il caso di Oreste, figlio di Agamennone? La norma,
accettata dagli Dei stessi, impone che il figlio debba onorare i genitori e questo impone che non possa far loro
del male e che debba vendicarli. Ma quando è sua madre, Clitennestra, che ha ucciso suo padre, Agamennone,
cosa può fare Oreste? Sia agendo uccidendo la madre sia
rifiutando di vendicare suo padre, avrà disatteso il proprio dovere di onorare i genitori!
Cosa sceglierà l’eroe tragico? Ucciderà la madre e sfiderà la terribile vendetta delle Erinni, dimostrandoci così quanto era grande l’amore per (quello stronzo di) suo
padre?
Pensiamo anche solo al dilemma finale in Abaddon di
Giuseppe Menconi. No, non farò spoiler qui, basta dire
questo: fidarsi del male e divenire il male per salvare la
propria famiglia, condannandone molte altre? Questo
elemento di scelta è stato fondamentale per il coronare il
gradimento dell’opera, nel parere di diversi lettori.
In conclusione…
Morale è (anche) convincere i lettori che il male sia la
scelta migliore.
Morale è (anche) far loro desiderare come giusti soprusi e delitti, magari la tirannia.
Morale è (anche) far loro desiderare il male minore,
per poi scoprire lentamente che è quello peggiore.
E l’apice di una grande retorica è poi farli pentire per
la propria grettezza e cecità. Usare la catarsi narrativa
per vivere il desiderio populista della tirannia come
“governo forte” (o polizia forte) e vederne le conseguenze, per farsi due domande poi quando andranno
a votare nella vita reale.
195
Sbattere in faccia al lettore il lato oscuro dell’animo
umano, farglielo abbracciare e poi farlo pentire di quanto sia stato sciocco e meschino, nonostante si considerasse fino a ora una persona “buona”.
Questo se si vuole fare narrativa che porti il dramma
della scelta al suo massimo potenziale, letteratura che
segni chi la legge, ma nulla vieta di pensare storie più
semplici dove il Bene e il Male (o i diversi “livelli di grigio”) sono separati in modo netto e il lettore non è costretto a riflettere sull’ambiguità etica che sta dentro a
ogni uomo e sulla complessità del mondo reale in cui,
spesso, le uniche scelte sono solo gradazioni di male.
La distinzione chiara tra Bene e Male è tipica dei
techno-thriller (settore che smuove quantità enormi di
soldi, si pensi a Clancy) o nella fantascienza militare. E
nelle religioni. In realtà in buona parte della narrativa,
anche molto “seria”, è normale che si arrivi a tali semplificazioni, o poco ci manca: la complessità di cui abbiamo
parlato, proprio perché difficile da ottenere, spesso non
viene nemmeno tentata dagli autori…
… ma nulla vieta a te di provarci!
196
LA PREMESSA
Abbiamo un personaggio con un difetto fatale, abbiamo
dei chiari obiettivi e abbiamo il conflitto. Ma non basta.
Se vuoi tramutare la vicenda in una storia “vera”, è preferibile che vi sia un filo conduttore che unisca tutte le
scene non solo a livello causale o cronologico, ma a livello tematico.
In una storia non si cerca la riproduzione dell’insensatezza della vita: le storie hanno una funzione (definita,
tra virgolette, “religiosa”) che è quella di illudere l’uomo
che ciò che accade abbia un senso e che la vita non sia
una massa di roba a caso poco o nulla governata dalle
azioni dei protagonisti.
Immagina una storia come Il Padrino che si concluda,
prima della resa dei conti, con Michael Corleone che al
ristorante mangia un alimento guasto e poco dopo muore in ospedale per una reazione allergica a un farmaco.
Oppure John Rambo che prima di mettere a ferro e fuoco Hope, poco dopo aver rubato la mitragliatrice, viene
decapitato da un frammento di meteorite.
Nella vita può accadere una sfiga mortale, è credibile,
ma che senso avrebbe per Rambo o per Il Padrino? Le storie, che siano narrativa scritta o cinema o teatro, sono lì
per fornirci un’esperienza di “senso” che manca alla vita
quotidiana.
Già al tempo di Aristotele si consigliava che ogni
scena successiva dovesse essere conseguenza logica (credibile, probabile) e necessaria (cioè strettamente legata ai
197
fatti, e quindi ai personaggi) della scena precedente: cosa
c’è di logico o necessario nel caso? Eh, sì, già al tempo
degli antichi greci i Deus Ex Machina erano considerati
espedienti di merda a malapena sopportabili.
Come scriveva Aristotele nella Poetica:
Dei racconti e delle azioni semplici, quelli episodici sono i peggiori; chiamo infatti “episodico”
quel racconto in cui non c’è né verosimiglianza né
necessità che gli episodi si susseguano in un certo
modo.
La narrativa va oltre la realtà, anche quando finge di
rappresentarla con precisione. Ricordate le precedenti
discussioni su personaggi, conflitto e difetto del protagonista? L’arco eroico di trasformazione se il difetto viene superato, o quello autodistruttivo se non viene superato, sono entrambi modi di dare “senso” agli eventi,
servono a dare un messaggio: chi si adatta sopravvive,
chi si rifiuta di adattarsi muore. In senso non per forza
letterale. Ci sarebbe poi da discutere per bene su cos’è
una tragedia attraverso le possibili sfumature dell’arco
del personaggio, ma non è un argomento di base e se ne
parlerà nel Corso Avanzato.
Vediamo come dotare la storia di un filo conduttore
ulteriore, a parte l’indicazione di costruire la vicenda attorno al difetto fatale del personaggio. Andiamo oltre il
difetto e vediamo come indirizzare la vicenda che su
quel difetto si baserà. Questo filo conduttore è chiamato
“premessa” (premise, in inglese) e viene insegnato da molto tempo. È un concetto chiave in L’Arte della Scrittura
Drammaturgica di Lajos Egri, del 1942.
Nei testi più moderni, come L’Arco di Trasformazione
del Personaggio di Dara Marks, non si parla della “premes198
sa” chiamandola con questo nome, ma si sfrutta un concetto diverso che però, nell’essenza, è praticamente
identico ed è pensato per integrarsi più naturalmente nel
discorso della Marks. Lo vedremo quando parleremo de
L’Arco di Trasformazione del Personaggio. Anche in molti
altri testi recenti capita che non si parli affatto della
premessa o che la si descriva solo per sommi capi, senza
approfondire, definendola spesso “tema”.
La premessa è una frase che farà da “tesi” dimostrata
dalla storia. Non è necessario che sia una tesi universalmente vera, basta che sia vera per quel protagonista in
quella storia. La premessa non è il tema della storia. La
premessa è la tesi sostenuta riguardo quel tema. È il
“punto di vista tematico”, come direbbe la Marks. Ma se
trovate qualcuno, come detto prima, che usa tema per
intendere la premessa, va bene uguale. Basta capirsi: alla
fine le definizioni sono solo convenzioni di comodo interne a uno specifico manuale, che gli altri manuali non
sono tenuti in alcun modo ad adottare.
Non è la premessa nel senso del punto di partenza di
un’argomentazione, ma è la tesi dimostrata in un percorso scena per scena. È l’anima della storia, è la premessa
che ci diamo noi nell’elaborare le diverse scene, non
qualcosa che il lettore/spettatore sa prima. Un filo conduttore della vicenda per progettarla meglio.
Noi useremo sia tema che premessa, per intendere
due concetti diversi. Immagina il tema come una singola
parola e la premessa come una frase che dice cosa accade data la parola del tema. Il nostro punto di vista su
quel tema. Esempi di temi e di possibili premesse:
Tema: Ricchezza.
Premessa: la ricchezza rovina le persone.
199
Tema: Sesso.
Premessa: il sesso prematrimoniale porta alla rovina.
Tema: Orgoglio.
Premessa: l’orgoglio precede la caduta.
Tema: Amore.
Premessa: senza amore non può esserci felicità.
Tema: Bontà.
Premessa: la bontà di cuore porta alla morte.
Tema: Amicizia.
Premessa: la vera amicizia permette di superare ogni
difficoltà.
Tema: Amicizia.
Premessa: i legami di amicizia portano alla rovina.
L’ultima è una variante specializzata di “la bontà di
cuore porta alla morte” visto che si potrebbe svolgere in
modo tale che la generosità del personaggio nel soccorrere e nel difendere i propri amici, in virtù di un senso
del dovere verso chi gli è amico, porti solo problemi
peggiori (cattive amicizie che trascinano a fondo?). Bontà
nei confronti di persone specifiche in nome dell’amicizia, con risultati estremamente negativi: in entrambi i
casi il personaggio per sopravvivere potrebbe dover divenire più egoista e voltare le spalle agli altri.
La premessa va formulata con la struttura “TemaConflitto-Risultato”. È importante che la premessa sia
espressa con una formula causa-effetto e va costruita secondo questi tre elementi, di cui il primo deve suggerirci
il protagonista (ovvero qualcosa inerente al suo difetto
fatale o a una sua dote vincente), il secondo deve suggerire un conflitto possibile e il terzo deve dirci il risultato.
“La generosità cieca porta alla rovina”: un uomo generoso che aiuta chiunque, senza discriminare (“genero200
sità cieca”, protagonista), a causa delle proprie azioni altruistiche (“porta alla”, conflitto) finisce rovinato a livello
economico e probabilmente anche affettivo (“rovina”,
finale).
Per questo serve che sia una frase precisa e specifica,
e non una stupidata vaga come “in guerra la gente muore” o “la povertà è brutta”. Queste due pessime idee possono trasformarsi in premesse decenti se le esplicitiamo
dando loro un chiaro risultato e specializzando l’applicazione.
Per esempio possono diventare “la guerra tramuta in
mostri brutali anche le persone migliori” e “la povertà
conduce al crimine”. È facile vedere in entrambi i casi la
struttura in cui il protagonista affronta un conflitto e ne
viene trasformato: la persona per bene affronta la guerra
e per sopravvivere diviene uno spietato assassino; un
uomo onesto cade in miseria e la società, chiusa, avversa
ai poveri e in depressione economica, lo obbliga ad accettare di rubare pur di poter sopravvivere.
Quindi non è possibile scegliere a cuor leggero, come se fossero la stessa cosa, “la generosità cieca
porta alla rovina” oppure “l’egoismo conduce alla vittoria” perché non sono identici e non portano alla stessa
identica storia. La prima premessa suggerisce un percorso tragico, in cui alla fine si giunge alla rovina o perlomeno vi si giunge a metà vicenda, se poi il personaggio
cambia e si riscatta con l’egoismo (ma ci aspettiamo una
ricaduta e strascichi fin dentro al terzo atto). La seconda
premessa suggerisce un percorso eroico di vittoria
dell’egoismo che non implica che il personaggio fosse
straordinariamente generoso all’inizio, magari è solo una
persona comune che deve imparare a sviluppare un cuore di pietra.
201
La premessa non è qualcosa di razionalmente dimostrabile, ma è ciò che l’autore sosterrà implicitamente
nell’arco dell’intera storia. O anche esplicitamente, ma è
pericoloso: “l’orgoglio precede la caduta” è la premessa
sottintesa in La Caduta dei Giganti di Follett ed è anche la
frase ripetuta più volte nell’episodio della cameriera divenuta governante e messa incinta dall’aristocratico.
Esplicitare la premessa nei dialoghi però non è il massimo…
State attenti a rendere la premessa una cosa sottintesa, che pervada coi suoi effetti le vicende, e non qualcosa
di spiattellato esplicitamente, men che meno in un dialogo: la “morale della favola” di norma al pubblico non
piace. Il pubblico vuole essere considerato abbastanza
intelligente da cogliere il senso generale di una vicenda
(anche se magari non sa formulare una premessa, visto
che il pubblico fortunatamente non è formato da soli
sceneggiatori) senza che gli si debba spiegare tutto come
si fa con i bambini piccoli.
Per questo è importante che la premessa sia qualcosa
in cui credete, o in cui avete creduto in passato abbastanza a lungo da essere pieni di idee, situazioni, riflessioni e sfumature da trattare, in modo che scaturisca naturalmente da voi. Spesso la premessa non è qualcosa
che decidete a tavolino prima di iniziare, ma qualcosa
che scoprite mentre progettate la storia, quando situazioni e personaggi marchiati dalla vostra impronta stilistica iniziano a suggerirvi di cosa parlerà la vicenda nel
profondo. Potete addirittura arrivare a capire in pieno la
vostra premessa solo dopo la prima stesura.
L’importante è arrivare al risultato e, se servirà, riscrivere o buttare ciò che non si sposerà bene con la tesi
che volete sostenere. Scoprire ciò di cui volete parlare
202
prima di iniziare a scrivere è meglio, altrimenti è come
uscire di casa a passo spedito senza avere bene idea se sia
per andare al supermercato, in edicola, al bar o a pagare
qualche euro ai barboni per picchiarli con dei manici di
scopa. Prima capite dove state andando, e prima potrete
capire se state sbagliando direzione o no.
Io ai miei autori consiglio di avere tutto ben chiaro
in mente fin dalla progettazione, e al massimo di cambiare il necessario entro la fine del primo atto. Risparmieranno un sacco di tempo per trovare le idee per le
scene e non dovranno buttare metà delle pagine scritte.
Sarà che non sono di quelli a cui piace andare a spasso
“tanto per” e quando esco lo faccio per andare in un posto specifico per un obiettivo specifico, per cui mi pare
strano che un prodotto preciso come un romanzo ben
fatto possa nascere dal vagabondaggio senza meta.
La premessa plasma la storia e la storia dimostra la
premessa, coerentemente. Come ambientazione, storia e
personaggi sono tutti creati l’uno in funzione degli altri,
così anche la premessa, influenzando la storia, influenza
tutto il resto. Non è una “morale” buttata dentro perché
sì, come va di moda tra gli scrittori pseudo-intellettuali,
e che fa storcere il naso ai lettori un po’ smaliziati: la
premessa è l’essenza di tutta la storia.
Il compito retorico dell’autore è convincere il pubblico della credibilità e bontà della storia, e quindi della
sua premessa. Mostrarci la propria visione del mondo e,
se non proprio convincerci, perlomeno farci un po’ dubitare che potrebbe avere ragione.
Attenzione, la premessa non è l’idea di base della storia! Sembra stupido dirlo, ma meglio precisare. Un autore può avere come idea di base questa: un’entità offre a
delle ragazzine di esaudire un loro desiderio in cambio
203
di un patto apparentemente innocente, diventare maghette e difendere l’umanità dai mostri, che si rivelerà
nelle sue reali conseguenze di patto diabolico solo un
poco alla volta.
Nulla di questo però ci dà il filo conduttore della storia. Potrebbe essere il classico “la vera amicizia permette
di superare ogni difficoltà”, con le maghette che trionfano sui nemici del genere umano e alla fine anche sul patto diabolico che hanno scioccamente accettato. Oppure
potrebbe essere “la bontà di cuore porta alla morte” in
cui cercare di aiutare gli altri in nome della generosità
causerà sempre e solo problemi peggiori (la spirale dei
fallimenti).
Nel primo caso si ha un classico anime con le maghette, seppure con una punta di cattiveria in più vista la
natura del patto. Nel secondo caso si ottiene l’anime
Mahō Shōjo Madoka Magika del 2011, che fino al penultimo episodio è saturo di disperazione.
Moltissime critiche rivolte all’ultimo episodio di Madoka Magica, trasmesso assieme al penultimo con oltre
un mese di ritardo dopo lo tsunami (mentre le altre serie
avevano saltato solo una o due settimane), derivarono
dall’aver tradito il tono di disperazione della storia e
probabilmente anche la tesi che sosteneva. L’ultimo episodio ribalta tutto e dirotta la storia sui binari più tradizionali, da normale anime a tema maghette.
Il finale non è sbagliato nel senso di “illogico”, ma il
senso della storia è cambiato ed è su questo senso che
dobbiamo concentrarci per ragionare seriamente di storie: si dà per scontato che a livello logico e causale tutto
torni, ma non c’è alcun vanto nel fare solo quello. Sarebbe come essere un sarto professionista che si vanta di fare vestiti personalizzati su misura: è ovvio che li faccia su
204
misura, è un sarto, se no uno andrebbe a comprarsi la
giacca in un negozio normale! Che vanto è?
Il pubblico si è sentito tradito dal cambio radicale del
finale, si sospetta riscritto in tutta fretta in chiave buonista (forse partendo da un finale buono già pronto, disegnato e doppiato, in caso di necessità) perché inizialmente prevedeva fortissimi richiami alla distruzione
legata allo tsunami. Scenari di palazzi devastati e sommersi appaiono negli episodi precedenti, e le atmosfere
giocavano molto sulla paura giapponese degli tsunami.
L’anime aveva già avuto problemi in fase di realizzazione per colpa della crudeltà dell’episodio tre, ma Urobuchi, lo sceneggiatore, aveva tenuto duro contro il parere
degli altri.
I produttori e lo sceneggiatore forse hanno preferito
evitare di calcare ancora la mano sulla disperazione esistenziale e sull’incapacità dell’uomo di cambiare il proprio destino. Una morte orrenda per sé e per gli altri, e
infine per l’universo in un meccanismo perverso di autodistruzione, è l’unico destino possibile: questa è la verità di cui veniamo convinti fino all’episodio undici.
Come capita spesso con film, serie o manga non è
strano che vi fossero due finali disponibili pronti (o praticamente pronti) in caso di necessità di un cambio
all’ultimo momento. Con i film spesso il finale e alcune
scene vengono modificati in base al responso del pubblico di test. Chi non ricorda il finale alternativo in cui
Rambo muore, proprio come nel romanzo da cui è tratto
il film? Anche se ne avrebbero usato solo uno, ne hanno
creati e preparati due.
La reazione del pubblico allo stravolgimento del senso di Madoka Magica andò da “il finale fa schifo e non
c’entra nulla con il resto dell’anime, il vero Madoka Magi-
205
ca finisce all’episodio undici” a “poteva essere un capolavoro, il più grande anime della storia, invece per colpa
del finale è solo un anime molto ben fatto”.
A me in generale non interessano gli anime a tema
maghette, e questo è l’unico che mi sia piaciuto davvero
perché va oltre le stupidaggini classiche del genere e diventa reale drammaturgia, non diversa da quella della
tradizione greca o di Shakespeare.
Difendere il finale buonista come naturale e ovvia
conseguenza dei precedenti undici episodi è impossibile:
il tradimento della tesi è stato eccessivo. Può piacere lo
stesso, in fondo non è brutto, ma non è né elegante né
naturale. Questo è un fatto, poi ognuno ha i suoi gusti,
ovviamente, ma noi ci occupiamo di fatti e non di gusti.
Madoka Magica tra gli anime di maghette era come
un Re Lear, ma proprio come Re Lear aveva un problema
di fondo che portato agli estremi, il finale negativo,
avrebbe potuto causare un rigetto del pubblico se non
ben gestito. Allora forse il lieto fine è stato il male minore… ma l’ideale sarebbe di non doversi trovare mai a tradire la premessa per correggere il tiro dell’opera! Piuttosto la si cambi e si ripensi la storia daccapo!
Madoka Magica è uno dei migliori esempi di come
trasmettere un senso di disperazione esistenziale e di nichilismo (l’apice è nell’episodio dieci, forse il più potente
episodio nella storia degli anime), ma è anche uno dei
più turpi esempi di tradimento della tesi di un’opera.
Rimane tra gli anime più apprezzati degli ultimi anni,
con buoni motivi: nel suo piccolo ha fatto la storia, portando il ribaltamento della classica storia di maghette nel
mondo dell’animazione giapponese…
206
… ma non ha rischiato per puntare al capolavoro tragico, a divenire il Re Lear delle maghette. Questo non è
l’effetto sul pubblico che un autore vorrebbe.
Facciamo degli altri esempi di premessa:
Lolita: il grande amore porta alla morte.
Il Padrino: la lealtà verso la propria famiglia porta a
una vita di crimini.
Romeo e Giulietta: il grande amore vince anche la
morte.
Macbeth: l’ambizione spietata conduce all’autodistruzione.
Re Lear: la fiducia cieca porta alla distruzione.
La premessa può sembrare un cliché o una frasetta
stupida, ma è l’elemento che sintetizza una buona storia
e centinaia di altre storie simili. Tutta la storia deve essere al servizio della premessa, con scene scelte con cura
per sostenerla. La premessa rende quella serie di scene
una storia unica e coerente.
Questo concetto è importante perché quando scriverai le scene del tuo romanzo queste dovranno essere
progettate per essere al servizio della premessa che avrai
individuato: avere chiaro in mente il concetto donerà
ancora più eleganza, ovvero assenza di parti inutili o ridondanti, al tuo romanzo.
Una storia senza premessa risulterà, anche al lettore
non in grado di comprendere cosa manchi, come una
serie di scene che mandano avanti la vicenda e basta,
senza altro motivo per essere lì. La sensazione che le
scene non servano e siano state messe solo per far massa.
Peggio ancora: avrà la sensazione che alcune scene
(quelle che gli piacciono meno, di solito) siano proprio
207
inutili. Un romanzo così chi lo consiglierebbe agli amici?
Un film di quelli di cui viene da dire “dura tre ore, ma
poteva durarne due e sarebbe stato meglio”. Viene voglia
di vederlo?
E anche qui si torna a quanto diceva Aristotele nella
Poetica:
il racconto, essendo imitazione di un’azione, deve
rappresentare un’azione in sé completa e conclusa, con le sue parti così strettamente connesse che
spostandone o togliendone una allora anche l’insieme risulterebbe sconnesso o rotto. Ciò di cui
non si nota affatto la presenza o l’assenza, non
può essere parte reale del tutto.
Molte storie condividono l’identica premessa, eppure sono totalmente diverse. Prendiamo per esempio la
premessa di Re Lear, “la fiducia cieca porta alla distruzione”: è la stessa premessa del romanzo Caligo. Davvero
qualcuno ha difficoltà a distinguere Re Lear da Caligo?
Una tragedia di Shakespeare da una commedia sexy
steampunk a Genova?
Quando cerchi il tema e la premessa, pensa a qual è
la forza trainante della storia. Concentrati per capire attorno a quale valore, a quale emozione, a che cosa la storia ruoti e da cosa sia mossa. Spesso avrà a che fare col
difetto fatale del protagonista, visto che la premessa della
storia riguarda le vicende del suo arco e ne descrive uno
dei due aspetti: quello del fallimento iniziale o, ancora
meglio, quello della vittoria successiva. Nel caso di una
tragedia, rappresenterà magari tutto l’arco tragico come
in Macbeth.
Prendiamo per esempio Romeo e Giulietta, esempio
che piace a Lajos Egri. Qual è la forza trainante dell’ope208
ra, l’odio o l’amore? La vicenda parte dall’odio delle due
famiglie, costrette alla rivalità anche se i rispettivi capifamiglia preferirebbero arrivare prima o poi alla pace.
Come tanti leader credibili hanno il problema di essere
circondanti da sottoposti idioti e pericolosi (come in Atto
I, scena uno).
Ma è l’odio a vincere? No, anzi, l’odio tra le due famiglie rinforza solo l’amore dei due giovani. Le avversità
causate dall’odio vengono affrontate. Alla fine della storia ha trionfato l’odio? No, Romeo e Giulietta pur di continuare a stare insieme scelgono di farlo nella morte visto che in vita non è più possibile. L’amore supera la vita
e sopravvive alla morte, mentre l’odio tra le due famiglie
si estingue di fronte all’orrore di quanto avvenuto.
L’opera parla chiaramente dell’amore come forza trainante della vicenda, e l’odio è solo il suo antagonista.
La premessa non è semplicemente una guida per dare un senso alla storia in fase di progettazione o per aggiustare le cose nella prima fase di riscrittura post-bozza,
se la premessa è stata individuata dall’autore solo dopo
aver già scritto vari capitoli.
La premessa è un elemento di controllo in fase di
editing con cui si valuta ogni scena domandandosi: contribuisce alla premessa? Se la togliessi la premessa sarebbe ugualmente dimostrata? Particolarmente utile per
eliminare sotto-trame incoerenti e personaggi mal progettati, in particolare tutto ciò che è gratuito o episodico.
E notare per tempo i finali che tradiscono l’opera.
Come sarebbe stato Il Padrino senza la discesa morale
del protagonista, sempre più in basso, da eroe di guerra
ad assassino del proprio stesso fratello? È quella lealtà
che porta al crimine a essere il centro dell’opera, fino a
quando la fedeltà alla famiglia (nel senso mafioso) porta
209
alla distruzione della famiglia (nel senso dei parenti), abbinando alla premessa iniziale una deliziosa atmosfera di
fallimento del protagonista come Uomo, nonostante
l’apparente successo come Padrino.
E anche quella sensazione di fallimento si sentiva da
molto prima, da quando il padre Don Vito gli dice di essere soddisfatto di quello che ha fatto nella propria vita e
che ora tocca a lui continuare a rendere grande la famiglia. Era annunciato e si costruisce lentamente. Come
nelle grandi tragedie greche o di Shakespeare.
Il fallimento completo di un personaggio che vive
all’ombra del padre, i cui successi sono stati più modesti,
ma sono anche stati molto più chiari e privi di rimpianti.
Michael vive l’essenza della tragedia moderna, la perdita
dello scopo nella vita e il fallimento umano. Non è meglio una storia così rispetto a una fatta di scene incollate
assieme solo per far arrivare la vicenda al finale?
C’è sempre una sola premessa per storia (ma possono
esserci più storie parallele in un romanzo, ognuna con
una diversa premessa). Una storia con due premesse distinte (o peggio, opposte) ha qualcosa che non va a livello
funzionale, manca di eleganza e può risultare addirittura
confusa.
Immagina che il tuo romanzo formato da una sola
storia abbia capacità 100, usandolo tutto al meglio, di
esprimere la premessa e che basti 70 per comunicarla in
modo sufficiente: se hai due premesse e fai 50 e 50 nessuna delle due funzionerà davvero, mentre se fai 70 e 30
la prima sarà stata comunicata bene e la seconda avrà solo tolto spazio alla prima.
E soprattutto, se hai correttamente pensato la premessa come qualcosa che porta dentro di sé l’essenza
della storia, col suo protagonista e il suo finale… come
210
possono esserci due premesse che ci parlano di due finali, se uno solo è il finale? Pensa all’odio e all’amore in
Romeo e Giulietta: alla fine la vera emozione che muove
l’opera è una, e l’altra è solo al suo servizio come antagonista.
Se non hai chiara quale sia la tua premessa o se vuoi
parlare di troppe cose assieme, prendi un bel respiro,
domandati cosa conta davvero ora e metti da parte ciò
che non c’entra per usarlo in una seconda storia con un
altro protagonista (in quel romanzo o in un altro).
La premessa è uno strumento vecchio, affidabile e
semplice da usare, come un martello… ma proprio come
un martello, mancare di rigore nel suo uso preciso può
portare a schiacciarsi le dita con errori grossolani, come
costruire storie forzate che non rispettano i criteri di verosimiglianza e necessità.
211
UNA RIFLESSIONE SUL
VIAGGIO DELL’EROE
L’eroe dai mille volti. Il viaggio dell’eroe. Il monomito.
Mai sentito parlare di questi concetti? Sintetizzando
molto la questione, studi comparativi tra i miti del mondo portarono poco dopo la Seconda Guerra Mondiale alla pubblicazione di un volume intitolato L’Eroe dai Mille
Volti, di Joseph Campbell.
Quel volume si inserì come una pietra miliare negli
studi di mitologia comparativa, mostrando come Mosè
ed Ercole avessero ben più punti in comune di quanto
sembrasse e che, in soldoni, i grandi miti (magari non
tutti, ma quasi) nati in diverse società nel corso dei millenni sono riconducibili a un singolo grande modello
generale. Come se il cervello umano fosse programmato
per progettare così le storie e per favorirle, tant’è che
nella competizione durata millenni proprio queste storie
tutte molto simili a livello di architettura sono arrivate
fino a noi e non quelle completamente diverse che troppo spesso affollano film zoppicanti e libri insipidi. Naturalmente queste teorie ispirarono in poco tempo anche
chi si occupava di sceneggiature.
Il monomito aiuta a decidere quali elementi generali
servono nella storia: aiuti esterni, ricompense, inviti a
desistere, luoghi “alieni” da conoscere, sconfitte… uno
schema che all’inizio può sembrare molto utile, ma che
in realtà è solo una check list di elementi che di norma,
212
in diverse combinazioni e quantità, si trovano in tutte le
buone storie. Semplicemente perché diversi elementi
descritti nel monomito sono così generici che è pressoché impossibile evitarli in una qualche interpretazione.
Pensare con il monomito è insito nel cervello umano
e quando lo si conosce a fondo è normale stupirsi che si
stavano già progettando storie che lo seguivano, almeno
in parte… ma accadeva in modo inconsapevole e qui sta
tutta la questione: sapere esattamente cosa si sta facendo
aiuta a ottimizzare il lavoro e a dare quel tocco in più alle proprie storie, trovando ciò che si voleva aggiungere
(es: il rifiuto iniziale dell’Eroe) e che proprio non veniva
in mente senza conoscere la teoria sottostante.
Se l’evoluzione ci ha portati ad avere un cervello che
predilige simili architetture, perché non approfittarne e
scrivere apposta storie in questo modo? George Lucas
corresse diversi elementi del suo Star Wars per farlo aderire meglio al monomito, quando scoprì che cos’era… e il
risultato non è stato male, con il successo che tutti abbiamo visto, anche se ovviamente fu solo un aspetto che
aiutò questo successo (e probabilmente nemmeno uno
dei più rilevanti). Con l’idea di aderire solidamente al
monomito venne progettato il primo Matrix. E tanti altri
film e romanzi seguirono il modello del monomito, visto il boom che ebbe tra scrittori e sceneggiatori.
Alcune storie che lo applicano inconsciamente sono
Il Vecchio e il Mare di Hemingway (il mare come Bosco
Magico, la perdita della Virilità rappresentata dal non
riuscire più a pescare nulla e la sua riconquista grazie alla
carcassa divorata dai pesci riportata al villaggio come
Trofeo e bla bla bla) o la serie di James Bond in cui il
personaggio di Q, tanto per citare un elemento facile da
capire, racchiude in sé le figure mitiche dell’Armaiolo
213
(fornisce armi comuni) e dell’Aiuto Magico (fornisce
gadget incredibili).
Problema: il modello mitico del monomito funziona
con quasi ogni sorta di storia (thriller, fantasy, fantascienza, drammatica, commedia romantica ecc.), ma si
presta meno bene alla tragedia. Per antieroi e tragedie
consiglio di operare adottando l’architettura successiva, a
triplice conflitto, descritta dal prossimo capitolo.
Il monomito non è altro che un modo un po’ goffo,
inquinato dal linguaggio mitico, di parlare del modello
aristotelico (che vedremo dalla prossima lezione), con
l’aggravante di direzionare meno bene al realizzare anche tragedie. All’inizio il monomito può impressionare
molto e sembrare una manna dal cielo, ma poi si sgonfia
quando lo si ricolloca nella comprensione generale della
narrativa. Per esempio quando si nota che più o meno
tante belle storie ci entrano senza farlo apposta… e tante
storie merdose possono anche aderirci perfettamente. Il
monomito non basta da solo come bagaglio tecnico per
uno sceneggiatore e non aiuta granché bene nemmeno
nella fase più creativa di immaginare storie da zero.
Alcuni lo troveranno all’inizio limitante (reazione
opposta a “la manna dal cielo!”), anche se in realtà non lo
è granché. Come già detto prima, se lo si applica a fondo
è semplicemente un modo scemotto, riempito di linguaggio finto-mitico che ostacola la comprensione, di
parlare del normale modello di storie con difetto fatale e
arco di trasformazione (il cosiddetto modello aristotelico, o restaurativo, che il cinema usa da decenni e che vedrai bene tra poco).
Per questo dico che non mi appassiona molto: è meglio studiare il modello aristotelico nella sua purezza,
senza distrazioni linguistiche che possano rovinare il no-
214
stro apprendimento. Ci si confonde le idee senza ottenere alcun beneficio, solo problemi.
L’opera che consiglio per introdursi al monomito e
vedere un’applicazione moderna spiegata passo per passo, con un thriller che ha per protagonista una giornalista a Las Vegas (qualcosa di molto lontano dalle atmosfere fantasy), è The Key – How to Write Damn Good Fiction
Using the Power of Myth di James n. Frey.
Oppure, ancora meglio, Viaggio nel Bosco Narrativo di
John Yorke, dove si discute anche di come il modello in
tre atti (che vedrai tra poco) sia perfettamente sovrapponibile al modello in cinque atti. Il modello in cinque atti
pone semplicemente una maggiore attenzione formale
alla suddivisione del vasto secondo atto, tant’è che le
opere di Shakesperare si possono ugualmente analizzare
come se avessero tre o cinque atti. Ok, siamo entrando
un po’ troppo nelle finezze: ti basti sapere che cinque atti
e tre atti sono praticamente la stessa cosa, e che ragionare con tre atti è più “universale” anche per comunicare
con altri esperti di sceneggiature.
Tornando ai libri, sconsiglio la lettura de L’Eroe dai
Mille Volti di Campbell se non per cultura generale, o per
chi è appassionato di mitologie (come me: io l’ho letto
volentieri). Se volete un testo che vi aiuti a usare meglio i
concetti del viaggio dell’eroe in una vostra storia, i due
titoli citati prima sono più che adeguati. Soprattutto
quello di Yorke, davvero ben fatto e intelligente. Una
delle migliori letture degli ultimi anni.
215
L’ARCO DI TRASFORMAZIONE
DEL PERSONAGGIO
L’arco di trasformazione è il percorso che porta un personaggio a cambiare nel corso di una vicenda, affrontando nuove sfide, adattandosi agli eventi e infine vincendo. Un percorso vittorioso grazie all’acquisizione di
una visione diversa dei fatti rispetto a quella, fallimentare, che aveva all’inizio della storia.
Il testo di riferimento da studiare per capire bene
l’arco di trasformazione, a meno che non ti bastino le
mie spiegazioni sintetiche, è L’Arco di Trasformazione del
Personaggio di Dara Marks, pubblicato in Italia da Dino
Audino Editore.
Io consiglio sempre di non accontentarsi delle mie
spiegazioni e di leggerlo, di andare all’origine dei concetti che spiego, perché è ricco di esempi e ragionamenti.
Non sono sempre d’accordo con quello che dice e nella
mia analisi del film Arma Letale (presente online, come
già indicato nell’introduzione) ho sottolineato la mia diversa interpretazione di alcuni dettagli tecnici rispetto a
quella della Marks, ma è una grande lettura.
Lo stesso discorso vale per tutti i testi che troverai
consigliati in fondo a questo manuale. Comprali, studiali
e leggili. Nel mio Corso Avanzato troverai il “di più”: le
connessioni ulteriori tra la teoria presente nei diversi
saggi, le sintesi ragionate dei concetti e le mie aggiunte
originali di teoria.
216
L’arco di trasformazione è il modello narrativo più
diffuso, elegante e naturale, facile da seguire per il pubblico, ed è letteralmente il modo con cui l’umanità si è
tramandata tramite le storie il concetto di “sopravvivenza del più adatto”, ben prima che questo concetto venisse descritto esplicitamente da Herbert Spencer nel 1864.
Abbiamo già visto le basi di una buona storia nei
precedenti capitoli dedicati a che cosa sia una storia,
all’importanza del difetto fatale di un personaggio, e al
ruolo del conflitto e di come mai debba essere sempre
maggiore, causando sofferenze a mano a mano peggiori
al protagonista.
Immagine tratta dal saggio “L’Arco di Trasformazione del
Personaggio” di Dara Marks, Dino Audino Editore. Leggetelo!
L’immagine dell’arco di trasformazione richiama un
monte su cui il personaggio deve salire, con fatica, col
fiatone, i muscoli in fiamme e maledicendo ogni passo, e
arrivato in cima alla scalata può tirare il fiato e capire
che aveva benissimo le forze per farcela: doveva solo
217
impegnarsi e trovare dentro di sé la volontà di trionfare.
Ora sa di che pasta è fatto per davvero!
Adesso lo aspetta la discesa dal monte, con la consapevolezza di aver avuto già la forza per salire, di essere
quindi migliore di quanto pensasse di essere prima della
scalata: la discesa è faticosa, ma grazie alla nuova fiducia
che il personaggio ha in sé stesso ora si sente in grado di
farcela, anche se il percorso è perfino più difficile di
prima… e la sfida arriverà al suo apice, al massimo del
pericolo, col terzo atto.
Dara Marks è l’esperta di analisi delle storie che ha
reso ancora più famoso il modello dell’arco del personaggio, grazie all’opera L’Arco di Trasformazione del Personaggio, ma non ha inventato lei il modello. Questo modo
di strutturare le storie affonda le sue radici nei tradizionali tre atti del modello aristotelico, come lo fanno pure
gli insegnamenti di Lajos Egri, di Syd Field, di Robert
McKee e di altri ancora, tanto che modello “aristotelico”,
“classico” o “restaurativo” sono tutti sinonimi dell’arco di
trasformazione e si possono usare benissimo come nomi
per indicare il modello spiegato dalla Marks.
Un modello efficiente e naturale che ritroviamo nelle migliori opere di Shakespeare. Il modo con cui gli
uomini per millenni si sono raccontati storie, come mostrato da Joseph Campbell col monomito descritto nel
capitolo precedente.
La Marks ha saputo spiegare questo modello in un
modo chiaro ed elegante, e di conseguenza più comprensibile e facile da applicare rispetto ad altri autori
famosi. Per questo, dovendo consigliare un singolo libro
con cui partire, consiglio sempre il suo perché fornisce
già tutti gli strumenti nel dettaglio per realizzare molti
218
tipi di storie… e lo si può usare per scrivere anche tutta la
vita, se non si vuole andare oltre con la teoria.
A cosa serve avere un modello ben spiegato se questo
è un tipo di storia che viene naturale realizzare agli
umani, in diversi millenni e continenti? Semplice: per
prima cosa a evitare gli errori, perché per quanto “naturale” è un modello che viene assorbito per apprendimento, non è che ci siano dei manuali di sceneggiatura
dentro al DNA. Studiare invece che andare alla cieca
permette risultati molto migliori. In più è comodo per
fornire una guida che favorisca la creatività insegnandoci come indirizzarla in modo utile: la creatività ben stimolata lavora meglio di quella lasciata a sé stessa.
Disporre di un procedimento per ragionare sulla
propria storia permette di trasformare le semplici intuizioni in qualcosa di più preciso, più coerente, senza uscire di strada mischiando cose che non c’entrano. Per
esempio applicando il procedimento con precisione è
possibile ottenere quell’eleganza e coerenza di contenuti
che ha emozionato il pubblico ne L’Attimo Fuggente ed
evitare quell’incoerenza che ha portato a molte discussioni nel comunque bello (ma poteva essere spettacolare)
Million Dollar Baby o nella piacevole, ma dal finale molto
debole, commedia romantica All’Inseguimento della Pietra
Verde.
DALL’INTERNO ALL’ESTERNO
Come abbiamo visto in precedenza, una storia nella sua
essenza si basa su una crisi che sconvolge la normalità,
porta a lottare per ottenere qualcosa (e per non perdere
qualcos’altro) e obbliga a cambiare per adattarsi ai nuovi
219
eventi e per sconfiggere le opposizioni che impediscono
la vittoria.
Recuperando il mio esempio del ristoratore:
[Normalità] Il protagonista ha un lavoro d’ufficio in
cui viene poco valorizzato.
[Crisi] Viene licenziato e deve reinventarsi sul mercato del lavoro, facendo qualcos’altro.
[Desiderio] Vuole realizzare il sogno di aprire una
pizzeria.
[Opposizione] [Conflitto] Parte del vicinato non acconsente che il locale ottenga una licenza per vendere alcolici, per cui la pizzeria non potrà sopravvivere.
[Cambiamento] Forse trova la fiducia in sé stesso e
nelle proprie idee originali che gli mancava, e arriva
a sviluppare un’idea geniale per non avere problemi
per l’assenza di alcol: un ristorante-pizzeria vegetariano con annessa sede di un’associazione culturale
salutista e accordi di promozione reciproca con un
centro benessere.
Questa storia, come avevamo visto in precedenza, si
basa sul difetto del personaggio: il personaggio non ha
fiducia in sé stesso e nelle proprie idee originali, per
questo cerca sempre la soluzione più ovvia e banale,
quella seguita da tutti. Magari lo fa perché ha visto troppi
colleghi nella sua agenzia pubblicitaria finire male per
aver rischiato con qualcosa di innovativo, e la paura di
perdere il lavoro lo ha portato a non “voler vedere” invece i tanti colleghi che con le idee nuove hanno avuto
successo e lo hanno superato nella carriera.
Terrorizzato dal correre rischi per paura di venire licenziato, è diventato una pedina sacrificabile e ha perso
220
il posto. Il suo sistema di sopravvivenza ha smesso di
funzionare, ha smesso di proteggerlo dal licenziamento.
Ricorda il discorso che avevamo fatto su come non ci
sia nulla che abbia in sé valore se non per il modo in cui
viene interiorizzato. La vicenda del personaggio ha valore per l’effetto che ha su di lui, e la storia nasce come
conflitto alimentato dall’imperfezione del personaggio,
muovendosi così dall’interno del personaggio per divenire azioni all’esterno. Mettiamo in scena il suo problema mostrando come il suo difetto influisce sulla sua vita
e sulle persone che gli sono vicine. Un difetto è tale perché porta ad azioni sbagliate.
Nel modello classico esistono due tipi di storie:
quelle in cui l’eroe attraverso un percorso di cambiamento riesce a divenire più adatto alla vittoria e
trionfa, divenendo un esempio per noi;
e quelle in cui l’eroe fallisce il proprio percorso di
cambiamento, viene sconfitto e diviene un ammonimento per il pubblico.
Entrambi i tipi di storie hanno un contenuto che risuona con noi perché ci insegnano qualcosa sulla vita
come “sopravvivenza del più adatto”, qualcosa che l’umanità ha dovuto imparare con molto dolore nel corso
di centinaia di migliaia di anni. E che, volendo o meno,
viviamo tutti nelle nostre vite: forse non tutti quelli che
decidono di cambiare la propria posizione e saltare via
dalla rotaia quando il treno arriva a folle velocità sopravvivranno, ma di sicuro gran parte di quelli che
prenderanno la locomotiva in fronte a 100 km/h, pur di
non cambiare, finiranno molto male.
Il secondo tipo di storia, le tragedie che ci ammoniscono sui pericoli dell’evitare il cambiamento o sul cam221
biare nel modo sbagliato, hanno prodotto alcune delle
più belle storie di sempre. Pensate a Macbeth e a Quei
Bravi Ragazzi. Sulle tragedie, in particolare quelle moderne, tornerò nel secondo modulo del Corso Avanzato.
TRE CONFLITTI, UNA STORIA SOLA
Un metodo molto semplice per garantire che il proprio
personaggio principale suoni tridimensionale è che sia
sviluppato secondo tre dimensioni conflittuali, ovvero
strettamente legate alla storia e che vediamo in azione.
Conflitto esterno: la storia vera e propria;
Conflitto interno: la sua lotta interiore per cambiare;
Conflitto di relazione: come il suo problema influisce
sugli altri e questo gli impedisce di trionfare nella
storia.
Se una persona ha un difetto, questo difetto è definito dal suo causare un problema: se essere “egoisti” permette di vincere in un mondo di stronzi approfittatori,
non è un difetto. Nessuna caratteristica è in sé un difetto
sempre e comunque, dipende dalla storia, dal contesto in
cui il personaggio opera.
Quindi se un personaggio ha una dimensione interna
non più in equilibrio, un conflitto interno, questo è tale
proprio perché nel mondo esterno impedisce di conseguire i risultati desiderati. Ma ci importerebbe davvero
di una persona il cui difetto è chiuso dentro una campana di vetro e colpisce solo lui?
Il difetto del personaggio è interessante perché ha un
effetto sugli altri, come ogni altra caratteristica degna di
222
nota del personaggio… ed essendo il difetto un problema,
ha un effetto problematico sugli altri.
Così come il difetto impedisce al protagonista di vincere sull’antagonista nel rapportarsi con lui (conflitto
esterno), così impedisce anche di ottenere aiuto o comunque di sapersi relazionare correttamente con quelli
che non sono nemici: amici, parenti, colleghi, potenziali
alleati… chiunque possa essere utile poi per trionfare sul
nemico. Non necessariamente in modo “diretto”: anche
capire che bisogna fare da soli, senza dare retta a persone che ci sottovalutano o ci fanno del male nel tentativo
di proteggerci, e isolarsi dagli altri per proseguire in solitaria, è una possibile soluzione del conflitto di relazione.
Dipende dalla storia: nel romanzo Caligo Barbara
Ann deve imparare a fare da sola, smettendola di fidarsi
delle persone sbagliate. Talvolta serve l’aiuto altrui, altre
volte serve che gli altri smettano di mettere i bastoni tra
le ruote.
Se un tizio è avaro, al fine di una storia ci interessa la
sua avarizia perché lo mette nei guai: ma se è avaro, ti
pare possibile che questo non avrà alcun effetto nelle sue
relazioni? Se compra al suo nipotino per il compleanno
una confezione di matite invece di un videogioco appena uscito, il nipotino sarà felice? Probabilmente no.
Se per l’anniversario ha illuso la fidanzata che finalmente la porterà in un bel ristorante e che lì le chiederà
di sposarlo, non pensate che la loro relazione avrà un
problema quando la porterà in un McDonald e lì le dirà
che non crede nel matrimonio perché sono tutte spese
inutili e che si sta così bene continuando a vivere come
adesso, ché tanto è l’amore che conta davvero, e non
l’anello con la cerimonia? Sembra la formula del disastro
con la sua (presto ex) compagna.
223
In certe storie il conflitto di relazione è interamente
contenuto nel rapporto tra due soli personaggi: in Arma
Letale i due poliziotti devono imparare a comprendersi a
vicenda, in modo da trovare nell’esempio reciproco quel
che manca nelle proprie vite (sono complementari), e
grazie a questo equilibrio ritrovato ognuno dei due può
dare il meglio di sé nel lavorare con l’altro e così sconfiggere i narcotrafficanti.
L’azione esterna è mossa dall’interno del personaggio: dal difetto, dalla caratteristica che non funziona più
nella vita del personaggio e che bisognerà cambiare. Dall’interno all’esterno, la regola chiave di una buona storia
tridimensionale.
Il conflitto interno e il conflitto esterno sono le due
“sottotrame” della storia principale (subplot, usando i
termini originali): ma non sono “sottotrame” nel senso di
trame secondarie, trame aggiuntive, ma nel senso di
fondamenta, di ciò che si trova sotto la storia esterna e
ne regge lo svolgimento dando solidità e tridimensionalità a una storia altrimenti piatta, poco coinvolgente
umanamente e priva di reale profondità. Tre conflitti,
una sola storia: l’eleganza unita allo sviluppo tridimensionale.
Ricorda ciò che Aristotele diceva dell’unità della storia: se una sottotrama non fa parte del tutto, perché non
riguarda ciò di cui la storia parla né a livello interiore, né
esterno, né di relazione, come può essere “parte” della
storia? Possono essere scene interessanti o carine, ma se
non fanno parte della storia vanno tolte dalla storia. I
buoni film e i romanzi davvero ben fatti sono pieni di
scene ottime per “altre storie”, e non per loro, che sono
state tagliate e che magari sono finite, dopo un rimaneggiamento, in un’opera successiva dello stesso autore.
224
Breve riassunto del concetto chiave visto nelle pagine precedenti, prima di proseguire. La tridimensionalità
del protagonista non nasce dall’ammassare dettagli a caso o dal farlo comportare secondo manierismi, come capita spesso ai personaggi degli anime/manga (talvolta fino a ridurli a vuote maschere), che nulla hanno a che
fare con il suo difetto fatale o con il tema della storia.
Il nostro personaggio non diventa tridimensionale
perché facciamo sapere al lettore qual è il suo sport preferito, o cosa mangia a colazione o che musica ascoltava
da ragazzo… va bene avere dettagli, ma la quantità non fa
la qualità. Anzi, tanti direbbero che “di meno è di più”!
Ciò che è importante davvero è ciò che genera conflitto, quindi i dettagli utili sono quelli che aiutano a generare un conflitto coerente in tutti gli aspetti della vita:
esteriore, interiore e di relazione. Il personaggio diventa
tridimensionale perché il suo difetto si esprime in tre
dimensioni conflittuali legate alla sua personalità. Tutto
chiaro fino a qui?
TEMA E PUNTO DI VISTA TEMATICO
Abbiamo già visto cosa sono tema e premessa in passato,
e li ritroviamo nella versione adottata dalla Marks coi
nomi di tema e punto di vista tematico. Il tema esprime
l’argomento di cui la storia parla a livello di reale significato, non di semplice azione. Il tema è ciò che dà significato alla vicenda e la sua declinazione, il punto di vista
tematico, viene espressa attraverso le azioni dei personaggi.
Il punto di vista tematico è un concetto simile alla
premessa, seppur non così vincolato alla forma causa-
225
effetto precisa e al dover idealmente “contenere il finale”. Questo lo rende più debole, da solo, ma all’interno
del sistema della Marks risulta facile da gestire e nonostante la formulazione meno precisa è difficile che porti
a degli errori, se si segue il resto della progettazione correttamente. Il punto di vista tematico è, come dice il
nome, l’opinione personale che vogliamo far passare riguardo al tema scelto.
Come si sceglie il tema, come lo si trova? Bisogna interrogarsi, nel momento in cui si inizia a delineare in
modo chiaro la storia che si vuole raccontare, su quale
sia quell’aspetto della realtà umana che non è più in
equilibrio nella vita del protagonista. L’aspetto che non è
più in equilibro, quello su cui dobbiamo esprimere un
parere, è proprio quello che genera il conflitto e da cui
deriveremo il difetto fatale del protagonista in modo che
sia idoneo alla storia. Il tema è un aspetto tangibile, che
diventa azione e conflitto perché può essere espresso fisicamente.
Per esempio in Rambo è perfetto che il difetto sia
l’incapacità di esprimersi se non tramite la violenza, e
possiamo ammirare come la vita di Rambo sia solitaria,
chiusa, diffidente verso chiunque non sia un suo excommilitone, e soprattutto come l’incapacità di comunicare sia all’origine di tutto il problema con lo sceriffo.
Rambo fa di tutto per farlo incazzare e per sembrare
un soggetto pericoloso: lo fa negli sguardi scocciati, nelle
accuse, come quando chiede “perché ce l’hai con me?
Non ti ho mica fatto niente”, e perfino nei suoi continui
silenzi irrispettosi. Dice di voler essere lasciato in pace,
ma fa tutto da solo per ottenere di finire nei guai. E a suo
modo anche lo sceriffo è incapace di comunicare coi
suoi uomini, un po’ come Rambo.
226
Nel film L’Attimo Fuggente la storia ruota attorno a un
invito fatto dal professor Keating ai ragazzi: “carpe
diem”, nel senso di cogliere l’attimo. L’Attimo Fuggente è
un film pieno di problemi a livello di contenuti trasmessi e di come il pubblico li ha percepiti in modo spaventosamente acritico. Ve lo dico giusto perché so che alcuni di voi che mi seguono detestano il messaggio
secondario che traspare in questo film dietro il messaggio positivo. Però L’Attimo Fuggente costruisce in modo
egregio la storia attorno al tema, e solo questo ci interessa per ora.
Come si può trasformare “cogli l’attimo” in qualcosa
di reale, di concreto? La vita è formata da attimi, quindi
chi sa cogliere l’attimo ha il controllo sulla propria vita.
L’invito di cogliere l’attimo diventa un invito a prendere
il controllo delle proprie vite. In che senso però? In questo caso i ragazzi devono imparare a comportarsi secondo la loro vera natura, invece di sottostare ciecamente
alla volontà altrui, per poter così diventare dei veri uomini. Devono capire chi sono e cosa vogliono, per potersi realizzare come individui invece di limitarsi a diventare ciò che i loro genitori e insegnanti vogliono che
diventino. Cogliere l’attimo, scoprire sé stessi e prendere
il controllo della propria vita.
Il problema interiore dei ragazzi è che non sono fedeli alla propria natura. La rinnegano per conformismo.
Il professor Keating li mette di fronte alla possibilità di
scegliere, cosa che loro non pensavano nemmeno possibile per davvero. I ragazzi dovranno trovare il coraggio
di scegliere una vita pienamente vissuta, seguendo la
propria creatività e le proprie idee, oppure appassire divenendo una pedina in un mondo dominato dal conformismo e dalla repressione della creatività. E qui ci si
227
può ricollegare al discorso dei problemi collaterali nel
messaggio del film, ma non è questa la sede.
Quindi se i ragazzi devono trovare il coraggio di essere fedeli alla propria natura, di cogliere l’attimo e affermarsi come individui e non diventare soltanto ingranaggi di un macchinario sociale grigio e anonimo, ci
aspettiamo che il “contesto” in cui lottano vada nella direzione opposta ai loro desideri.
La storia esterna riguarda l’imparare a dare valore
all’individuo singolo, quindi gli ostacoli devono togliere
valore agli individui e il contesto deve essere un ambiente rigido, duro, censorio, poco propenso a capire e accettare la diversità, intollerante. Notate: stiamo individuando delle parole chiave che descrivono il tutto. Vedi come
aver costruito tutto attorno al tema ci permette di scegliere al meglio gli elementi?
Qual è il contesto scelto dal film per esprimere quelle parole chiave? Una scuola molto prestigiosa e molto
rigida, con un insegnamento molto classico, nozionistico, ostile alla creatività, e con dietro tutta l’eredità di una
lunga e onorata tradizione. Il genere di scuola che ha
prodotto i migliori uomini della società e lo fa pesare
agli studenti, mettendoli di fronte alla possibilità di eccellere… o all’infamia di non essere mai all’altezza delle
aspettative di tutti.
Tornando ai personaggi, se sappiamo che devono
imparare a essere onesti con sé stessi e lottare per controllare le proprie vite, quali tratti potranno avere nel loro carattere? Saranno forse maschi Alpha con la mascella
squadrata e la reputazione di far sparire in misteriosi incidenti chi li ostacola? Tizi che fissano negli occhi i professori più stronzi fino a rimandarli balbettanti a sedere
dopo aver dato loro un bel voto a priori? O saranno dei
228
ragazzi insicuri, forse poco onesti nei confronti dei propri sentimenti (non sanno dire ciò che provano nemmeno a sé stessi), introversi, magari perfino con un carattere fragile e instabile. Altri termini chiave da tenere da
parte per guidare la creazione della storia.
Fanno un po’ pena, poveri ragazzini insicuri, eh? Dipende dal punto di vista tematico scelto. Tentiamo un
cambio radicale giusto come gioco, conservando
l’insegnante rivoluzionario, la scuola rigida e i ragazzi
fragili.
Che ne dici di vedere i ragazzi come “merde che andrebbero raddrizzate a legnate”, lasciando crollare i deboli e forgiando nel ferro i pochi uomini che sopravvivranno? Questo se fossi io a scrivere la storia: nella mia
Keating sarebbe un falso-alleato, sarebbe il vero antagonista che illude con cazzate i ragazzini impressionabili e
li conduce lieti alla loro stessa rovina. Alla fine i personaggi capirebbero che solo la durezza, la disciplina e il
rigore potranno purgarli dei loro difetti e far sì che affermino le loro REALI identità di uomini, e non quella
confusione ormonale di adolescenti in lotta con
l’autorità che ribolle loro dentro per colpa dell’età e della
mancanza di esperienza. Da “cogli l’attimo” a “la disciplina fa di un ragazzo un uomo”.
È facile far passare per buono il professore simpatico
e alternativo… molto più difficile far capire che è il professore duro, che accetta di essere visto come il “cattivo”
per il bene dei suoi ragazzi e della loro formazione come
uomini, possa avere ragione. Capire che chi dice “No!”
può essere quello veramente buono, che soffre anche
per ciò che deve fare per il bene dei ragazzi, e capire che
chi dice solo “Sì! Sì! Sì! Va tutto bene! Evviva!” è un nar-
229
cisista che vuole circondarsi di adorazione. Il genitore
che fa solo regali è sempre il più simpatico, no?
Quando uno dei ragazzi si ammazza lo si può vedere
come un danno collaterale: troppo debole per la vita,
troppo debole per il mondo, non sarebbe mai diventato
nulla di valido. Un ramoscello spezzato in un mondo che
cerca aste di ferro per guidare alla gloria le nostre civiltà
e i loro valori, contro il caos e le orde che verranno a distruggerci. Magari da Urano, sotto forma di alieni con il
volto di enormi culi e un odio irrazionale per qualsiasi
specie trovi “buffe” le scoregge. Meraviglioso! Qualcuno
lo scriva, subito!
Torniamo alla teoria generale. Avere ben presente il
tema permette di decidere il contesto e i personaggi in
modo coerente con quanto si vuole esprimere, e ci permette anche di capire meglio, grazie al processo creativo
“indirizzato”, cosa vogliamo davvero raccontare. Magari
prima di sviluppare l’idea del “cogliere l’attimo” non sapevamo che l’ambiente ideale poteva essere una scuola
rigida e tradizionalista, ma quando abbiamo deciso che i
protagonisti erano dei ragazzini perché abbiamo visto
“cogliere l’attimo” come una ricetta per divenire uomini,
allora tutto è stato subito più chiaro.
Scegliere i termini chiave che identificano il difetto e
il contesto non è un vuoto esercizio: è una garanzia per
poter procedere sicuri. Nella prossima sezione affronteremo gli elementi veri e propri presenti nei tre atti dell’arco di trasformazione del personaggio. Chi vuole approfondire l’analisi de L’Attimo Fuggente, può trovare altri dettagli nel libro di Dara Marks.
230
BILANCIARE LA STORIA: I TRE ATTI
Abbiamo visto come sviluppare la tridimensionalità del
protagonista attraverso una storia basata su tre tipi di
conflitto, e abbiamo visto come sfruttare il punto di vista
tematico per chiarirsi le idee sul difetto del personaggio,
sugli antagonisti e sulle caratteristiche che rappresentano
entrambi. Proseguiamo con gli elementi della storia nel
suo svolgimento.
Recuperiamo l’immagine che mostra l’arco di trasformazione.
Immagine tratta dal saggio “L’Arco di Trasformazione del
Personaggio” di Dara Marks, Dino Audino Editore. Leggetelo!
Prima di tutto possiamo notare che la storia, seguendo il modello classico, è divisa in tre atti ovvero tre divisioni del tempo da bilanciare per contenere inizio, svolgimento e fine, senza che nessun aspetto prenda il
sopravvento rubando troppo tempo alla storia. In realtà
231
noi analizzeremo le storie basandoci molto sullo spartiacque del “midpoint”, per cui a tutti gli effetti staremo
ragionando come se vi fossero quattro atti visto che la
prima metà del secondo atto e la sua seconda metà hanno significati narrativi molto diversi.
I tre atti sono bilanciati idealmente quando abbiamo
il 25% della storia sul primo, il 25% sul terzo, e un 50% sul
secondo, quest’ultimo ripartito il più equamente possibile tra eventi precedenti e successivi al midpoint. Questi
sono numeri ideali, grossomodo, e vanno considerati più
come numero di scene drammatiche scritte che di esatte
parole usate: nel primo atto bisogna presentare ambientazione, vicenda, personaggi, e questo richiede più tempo (più parole per pari contenuto drammatico della scena), mentre il terzo atto è dove tutto è noto e ci si limita
ad andare verso la sfida finale e la risoluzione, per cui è
normale che ci voglia meno tempo a far capire tutto. Un
bilanciamento reale può facilmente essere più verso il
30-50-20 in percentuale di minuti di film o di parole
scritte. Soprattutto se scrivi fantasy o fantascienza, in cui
nel primo atto devi anche presentare parecchie delle
particolarità fantastiche dell’ambientazione.
I tre atti sono divisi da due punti di svolta che cambiano radicalmente la storia: nel primo caso dicendo cosa è veramente in ballo e alzando il livello di pericolo;
nel secondo caso facendo avvenire la cosa peggiore possibile che potrebbe accadere al personaggio. Il secondo
punto di svolta alza il livello di difficoltà della sfida al
massimo, costringendo la storia ad andare verso la fase
finale. I due punti di svolta permettono di distinguere in
modo chiaro i tre atti.
Essendo elementi di confine, io consiglio di calcolare
gli spazi vedendo i punti di svolta come situazioni che
232
avvengo sovrapponendosi tra la fine di un atto e l’inizio
del successivo. D’altronde, come detto, 25-50-25 e 3050-20 sono indicazioni di massima, giusto per far capire
perfino ai peggiori gonzi che se si fanno 90-5-5 avremmo un film porcata con 90 minuti di preparazione e solo
10 in cui la storia entra nel vivo sul serio.
Se avete una storia con 23-46-31 non succede un disastro, anzi, probabilmente non se ne accorge nessuno!
Potrebbe anche essere necessario fare apposta un terzo
atto un po’ più lungo del solito, e ho lavorato con un mio
scrittore a un romanzo fantasy che ricadeva in questo
caso (La Mia Vita con le Blatte, di Simone Corà) in cui il
bilanciamento è proprio 23-46-31, ma devono esserci
delle necessità tecniche per farlo.
In quel caso avevamo pochi elementi fantastici nel
primo atto (quindi un 30 non serviva) e il bisogno di
reimpostare l’ambientazione nel terzo atto, quando gli
elementi fantastici aumentavano di colpo (quindi un 20
non sarebbe bastato). Le necessità di presentazione di
primo e terzo atto si sono ribaltate. Vedi come sono i
principi a determinate le regole? Non ci fissiamo sulla
regoletta del 30-50-20, ma usiamo il principio da cui nasce quella regola di bilanciamento e otteniamo il caso
reale specifico “anomalo”.
Cercate sempre di puntare alle proporzioni ideali:
saranno gli accidenti della scrittura e i bisogni specifici
della storia a rendere il tutto un po’ meno bilanciato, che
lo vogliate o no. Se partite senza puntare a fare giusto, vi
verranno delle mostruosità sbilanciatissime o, peggio
ancora e rischio più reale, vi dimenticherete di usare gli
elementi dei diversi atti come guide per dare un senso
alla storia.
233
PRIMO ATTO
Il primo atto ci presenta gli eventi che obbligheranno il
protagonista a dover affrontare la minaccia esterna che
lo colpisce, e quindi l’aspetto che non è più in equilibrio
nella sua vita. Questa è la fase in cui il personaggio non
ha idea del reale pericolo che dovrà affrontare nel climax del terzo atto, non possiede ancora le informazioni
per trionfare e non sa nemmeno di dover cambiare
mentalità. La Marks lo indica come un atto dove un po’
tutto è sconosciuto, e l’ideale è ragionare sugli elementi
della storia pensando a cosa il protagonista ignora.
Qui presentiamo lo status quo del personaggio subito
prima che la storia entri nella sua vita. Basta davvero pochissimo per farci un’idea di massima su chi sia e cosa
faccia. Il più rapidamente possibile arriviamo all’incidente scatenante, dove la storia inizia a introdursi nella
vita del personaggio: un evento a cui il protagonista magari non dà molto peso, non pensa lo riguarderà personalmente (o lo sottovaluta), ma noi capiamo che è da qui
che partirà tutto.
Giusto per capirci meglio, Luke Skywalker in Star
Wars: Episodio IV può fingere che l’Impero non sia un
problema per lui, ma noi abbiamo visto cosa sta succedendo e sappiamo che i nuovi droidi che si è procurato
sono ricercati. L’ignoranza di Luke non gli permette di
comprendere il pericolo per lui e i suoi cari.
Segue la chiamata all’azione, ovvero il momento in
cui il personaggio si trova di fronte all’idea di dover fare
qualcosa, e che la storia lo riguarda. Può accettare di agire subito o può negare ancora, per sfuggire alla responsabilità. Luke per esempio declina l’invito di Obi-Wan a
seguirlo per lottare contro l’Impero e a cambiargli i pan234
noloni negli anni del declino, in cambio di un addestramento Jedi: la coltivazione di sassi nella fattoria dello
zio, che ha tanto bisogno del suo aiuto (ma non voleva
scapparsene fino a poco prima per divenire un pilota?),
fornisce un’ottima scusa per farsi i cazzi propri.
Arriva il momento determinante, ovvero il momento in cui noi capiamo di cosa la storia parla perché scopriamo qual è il difetto del personaggio. È importante
essere chiari col pubblico, ma senza far dire in modo
esplicito a nessun personaggio quale sia il difetto a meno
che non sia totalmente sensato e realistico: in Rocky, per
esempio, l’allenatore che recrimina dicendogli che ha
perso la voglia di vincere, che è una scamorza, è naturale
e va benissimo. Cercate solo di non tirare troppo la corda: se potete mostrare il difetto rendendolo ovvio dalle
azioni, senza usare un dialogo, è come sempre molto
meglio. Le azioni devono parlare, non le parole.
Non fissatevi sulla posizione di questo evento:
idealmente è collocato dopo la chiamata, per i motivi
tecnici che spiego nel mio Corso Avanzato quando analizzo l’eleganza del primo atto “perfetto”, ma può essere
noto anche prima, come parte della presentazione iniziale che include l’incidente scatenante. Oppure possiamo scoprirlo più tardi, nel contesto degli eventi del primo punto di svolta (ma questo lo sconsiglio: meglio
sapere il difetto presto che saperlo tardi).
Primo punto di svolta. Arriviamo a quando il gioco si
fa duro. Ora il protagonista si trova di fronte a un livello
di pericolo aumentato e la posta in gioco deve, idealmente, essere dichiarata qui: per cosa lotta il protagonista, ma soprattutto cosa perderà se non lotta? Se il protagonista prima non ha accettato di agire, di fare qualcosa
per affrontare gli eventi, ora dovrà farlo: o entra in gioco
235
e la storia prosegue, o fa “ciao ciao”, rinuncia alla posta
in gioco e il film è finito a sorpresa al minuto 32.
Il protagonista riceve un brusco risveglio: la vita fa
schifo e dovrà fare qualcosa o sarà fregato. Di solito a
questo punto è molto incazzato, o deluso, e capisce di
avere un problema dentro di sé, anche se lo nega con gli
altri e non ha ancora la forza di cambiare la propria vita.
Come chi sa in astratto di avere un problema con l’alcol,
un problema che un giorno lo distruggerà… ma quel
giorno è lontano (forse) e bere è piacevole. Può smettere
quando vuole, è solo che ora non vuole: è questo che
racconta agli altri.
Non confondete un personaggio che lotta per non
cambiare, per non accettare i fatti, con uno che ha “rifiutato” l’azione: se sta agendo nell’ambito della storia invece di scappare fuori dall’opera, ha accettato di partecipare. Magari la sua storia riguarda proprio la lotta di una
persona che tenta di difendere le cose false in cui crede,
senza accettare la realtà che ha di fronte: guarire gli
zombie marci invece di ammazzarli nonostante l’evidente pericolo, parlare con gli alieni antropofagi per risolvere il problema di incomprensione tra specie diverse
invece di nuclearizzarli ecc.
Nel mio Corso Avanzato il primo atto è quello più
importante, a cui dedico più lezioni. Padroneggiare i
concetti di empatia e di posta in gioco, che Dara Marks
non spiega e che non esistono in nessun manuale a me
noto nel modo in cui io li spiego (unendo concetti provenienti da diverse fonti), è fondamentale per realizzare
un inizio davvero solido.
È il primo atto a far decidere al lettore se continuerà
a leggere o meno, e di conseguenza è quello con più
elementi da curare. Anche il finale del terzo atto è im-
236
portante, ma se il lettore ci arriva significa che almeno
ha terminato l’opera… qui invece stiamo parlando proprio di fare in modo che continui a leggerla. Siamo nella
fase più delicata.
SECONDO ATTO
La prima metà è quella che la Marks chiama esaurimento, in cui avviene la spinta verso il punto di rottura: in
pratica il difetto fatale del protagonista, il suo vecchio sistema di sopravvivenza, arriva a esaurire ogni ultimo
brandello di utilità e il protagonista è obbligato ad accettare di dover cambiare.
È importante che il cambiamento nel midpoint sia
credibile e possibile, grazie a una costruzione graduale
che spinga il protagonista sempre più verso quel risultato. Può essere che il protagonista cambi a poco a poco
fino a farcela, perché ogni piccolo passo seppur non sufficiente a risolvere i problemi comunque lo aiuta ad arrivare al risultato nel midpoint (da codardo a coraggioso
passando nelle fasi intermedie) oppure può essere che il
personaggio si trovi spalle al muro, aggrappato al suo difetto fino all’ultimo senza mollarlo, e ora sia obbligato a
fare ciò che non avrebbe mai fatto se avesse potuto evitarlo. Senza più vie di fuga, accetta di cambiare!
In Abaddon il protagonista viene sconfitto nella prima parte delle vicende del midpoint, in cui succede
qualcosa di simile a un’esperienza di morte (che sarebbe
secondo punto di svolta), ovvero la crisi più grave mai
vista fino ad allora, ma senza esserlo per davvero (infatti
non è davvero l’esperienza di morte). La sconfitta è così
grave da metterlo spalle al muro, prima a livello di conflitto esterno (prima parte, lo scontro disastroso), a cui
237
segue una crisi a livello di relazione (il suo migliore amico gli si rivolta contro e gli rinfaccia la verità sul suo essere solo un codardo), da cui viene il cambiamento interiore: smascherato e senza più alcuna giustificazione
dietro cui nascondersi, esposto alla verità su cosa è diventato, la vergogna e il dolore spingono il protagonista
a ritrovare il coraggio che aveva perduto.
Ci sono diversi modi di gestire il midpoint. Non c’è
una sola formula, e storie diverse richiedono soluzioni
diverse, l’importante è che col midpoint il personaggio
abbia un importante cambio di prospettiva, ovvero un
momento di illuminazione. Di solito questo equivale a
una nuova consapevolezza, appunto: scoprire la verità,
anche su sé stessi, e grazie a questo trovare la forza dentro di sé per usare le proprie capacità al meglio e iniziare
a vincere già nel midpoint stesso oppure, come avviene
in Abaddon, nella seconda metà del secondo atto.
Eventualmente il cambio di prospettiva può essere
legato anche a una rivelazione legata alla natura dell’antagonista (scoprire chi è il vero nemico, oppure qual è il
suo piano o il suo punto debole o altro) e soprattutto
serve a portare al massimo livello la posta in gioco. Dal
midpoint in poi il pericolo deve aver raggiunto l’apice a
livello qualitativo, anche se non quello a livello di difficoltà assoluta da superare. Da qui siamo nella fase di caduta: i problemi trascinano nel pieno della loro forza il
protagonista.
In Abaddon si parla di sopravvivenza contro mostri
alieni, e con le vicende del midpoint diventa evidente
che i pericoli dell’astronave sono in grado di spazzare via
il protagonista e i suoi soldati. Da questo momento siamo sicuri che poter morire è quasi una certezza, non è
solo un’eventualità tipica del lavoro di un soldato in ter-
238
ritorio ostile. Nella seconda metà del secondo atto le
vicende andranno meglio grazie al ritorno alla “normalità”, al coraggio, del protagonista, eppure i pericoli saranno oggettivamente molto maggiori… ma soggettivamente saranno divenuti meno gravi ora che il protagonista
ha smesso di essere un “codardo” e può affrontarli.
Ricordate le parole chiave di cui abbiamo parlato
prima, per descrivere gli aspetti del protagonista? Ecco,
ora si ribaltano: la codardia diventa coraggio, la mancanza di fiducia in sé stessi diventa fiducia, la falsità diventa
onestà, o qualsiasi altra cosa la storia preveda. Ricordate:
il cambiamento deve suonare credibile, serve una costruzione graduale del suo avvenire tramite piccoli passi
(consiglio qui un midpoint vincente, come in Caligo) oppure tramite un’erosione sempre più grave del vecchio
sistema di sopravvivenza a cui ci si aggrappa fino al
trauma definitivo che causa il cambiamento (midpoint
con sconfitta iniziale, come in Abaddon).
In Abaddon manca il momento di grazia, presente invece in Caligo. Il momento di grazia è un periodo di pace, di senso di vittoria, di tranquillità dopo i pericoli gravissimi del midpoint. Di norma il momento di grazia ha
senso come premio e occasione di soddisfazione solo se
uno ha vinto nel midpoint, ed è meno facile (ma non
impossibile) da collocare se il personaggio è cambiato
grazie a una grave sconfitta. In Abaddon sarebbe stato del
tutto fuori luogo. La Marks stessa lo indica come elemento facoltativo, seppure consigliato.
Dopo questa fase apparentemente vincente del secondo atto, il personaggio scende nel cuore del pericolo,
sempre più a fondo, e arriviamo al secondo punto di
svolta: l’esperienza di morte, ovvero succede la cosa
peggiore possibile che potrebbe accadere. Morte non per
239
forza in senso fisico, a meno che la storia non parli di
“sopravvivenza” (e allora il personaggio può trovarsi a un
pelo dal morire), ma come perdita gravissima.
In Gente Comune l’esperienza di morte di Conrad, il
ragazzino che ha tentato il suicidio, è la scoperta che una
sua amica conosciuta in ospedale si è tolta la vita. Conrad
era riuscito a cambiare, aveva imparato a sfidare l’ostilità
dei vecchi amici e della madre, ce la stava facendo, anche grazie al legame con questa amica. Questo colpo è
troppo forte e risveglia tutto il senso di colpa ancora
dentro Conrad per la morte del fratello annegato, fino a
travolgerlo. Sente su di sé la colpa della morte anche per
la sua amica, mente a sé stesso incolpandosi per non
averla salvata…
Questa è la cosa peggiore che poteva accadere: regredire a come era prima della terapia.
TERZO ATTO
L’esperienza di morte va vista come l’inizio di un cambiamento definitivo che si completa nel terzo atto: il
cambiamento del personaggio nel midpoint non era ancora perfetto, non era ancora completo, e ora lui viene
sconfitto per colpa di questo errore. Perlomeno in una
versione ideale, ma in tante opere non è così: per timore
di far soffrire troppo i personaggi, si alza a un livello fortissimo il pericolo, si fa cambiare di nuovo il protagonista per divenire “perfetto” e in grado di scegliere dentro
di sé di sconfiggere davvero l’antagonista, ma non lo si fa
perdere… e questo toglie molta forza alla storia. Soprattutto se già nel midpoint se l’era cavata vincendo.
Il terzo atto comincia con le conseguenze dell’esperienza di morte, sviluppando questa sorta di “nuovo
240
midpoint” in una discesa nei meandri più oscuri e dolorosi del suo conflitto interiore. Se l’eroe è stato sconfitto
dall’esperienza di morte, condizione ideale, ci aspettiamo che viva conseguenze dolorosissime, che sia a un
passo dall’annientamento e dal ritirarsi di propria volontà dalla storia, rinunciando a lottare.
Non è obbligatorio: l’esperienza di morte può portare a una discesa con conseguenze più motivazionali che
distruttive, per cui il trauma viene superato con meno
fatica. Però, come detto, è una scelta meno forte, meno
drammatica. Dipende dalla singola storia. Io preferisco
che avvenga un trauma fortissimo, al punto da far temere il lettore che possa finire tutto in tragedia. Qualcosa
sullo stile di Gente Comune, per intenderci.
Se viene travolto dalla gravità di quanto accaduto, il
protagonista sarà demoralizzato, convinto di aver fallito
nel proprio cambiamento, e si trascinerà fino a quando
qualcosa, il momento di trasformazione, lo porterà a capire che era a tanto così da farcela e che non è tutto perduto. Capirà fino in fondo che schifo di vita avrà se ora
non cambia del tutto e non vince, e sa di potercela fare.
Il personaggio cambia la propria prospettiva e ritrova la
forza di vincere: è sicuro dei propri mezzi ed è pronto
allo scontro finale. Cambia per l’ultima volta, ora davvero in modo ottimale e non più imperfetto.
Non resta che andare nel climax allo scontro finale
con l’antagonista (qualsiasi cosa sia: l’ambiente ostile, un
nemico umano, un’istituzione ecc.), a cui segue la risoluzione. Nella risoluzione ci aspettiamo di vedere qualcosa
che ci farà capire come la vita del protagonista, dopo la
vittoria, sarà diversa da come era all’inizio della storia,
grazie al suo cambiamento.
241
In Alieni Coprofagi dallo Spazio Profondo vediamo un
Nunzio nuovo, rinnovato, pieno di fiducia in sé stesso,
che non ha più bisogno delle allucinazioni in cui vedeva
Schwarzenegger per trovare la forza di agire: e ora è perfino in grado di aiutare le persone che soffrono gli stessi
problemi di cui soffriva lui all’inizio.
IN CASO DI TRAGEDIA?
Nel caso delle tragedie le cose sono un po’ diverse. A
grandi linee si può dire, come dice la Marks, che il midpoint non viene superato, non c’è l’illuminazione con
conseguente cambiamento positivo. Questa però è
un’affermazione riduttiva: le tragedie sono più complesse di così e limitarsi a negare il cambiamento può rendere piatta la storia. Può esserci un cambiamento in peggio,
o un miglioramento apparente che è in realtà una deriva
peggiore di prima.
Preferisco discuterne altrove, visto che le mie idee a
riguardo sono diverse da quelle di base della Marks e
non si tratta di argomenti da Corso Base: ho approfondito andando a esplorare varianti ulteriori, visto che le tragedie mi piacciono molto, e chi è interessato può studiare le mie idee a riguardo nel mio Corso Avanzato.
Come già detto altrove, si tratta di argomenti davvero avanzati e, per ora, nessuno degli autori con cui ho lavorato direttamente, e di cui ho portato i libri alla pubblicazione negli ultimi cinque anni, ne ha avuto bisogno.
242
EMPATIA:
IL SEGRETO DELLE STORIE MIGLIORI
Abbiamo parlato in precedenza di come si struttura a
grandi linee una storia, sul perché abbia bisogno di conflitto e sul motivo per cui questo conflitto debba essere
legato a una caratteristica difettosa del protagonista. Il
protagonista è tale proprio perché quella sua caratteristica si rivela ormai catastrofica, tale da portarlo alla sconfitta se non la cambierà, a causa degli eventi… e la storia è
interessante proprio perché il personaggio non è già perfettamente in grado di vincere, ma deve imparare come
fare.
Fin qui tutto bene. Ma tutto questo conta qualcosa se
del personaggio non ci importa nulla? Se vederlo perdere o vincere ci è indifferente? O peggio ancora, conta
qualcosa se il personaggio ci dà fastidio e vogliamo vederlo solo perdere, per cui invece di dispiacerci per lui
quando soffre pensiamo che se lo merita? E quando alla
fine vince, nell’improbabile caso in cui avessimo resistito
fino alla fine a seguire la storia, ti pare una buona cosa se
ci troviamo a pensare che sia un finale di merda e che
non meritava minimamente di farcela?
A quanto pare c’è qualcosa di molto più importante
della storia stessa, tanto da rendere la storia inutile se
manca: l’empatia per il personaggio. Per seguirne le vicende vogliamo soffrire con lui, essere in pena, provare
dispiacere e ansia quando le cose gli vanno male ed esal-
243
tarci quando si riscatta e trionfa contro chi lo umiliava.
Questo è il piacere proprio della narrativa o “piacere
pertinente”, citando Aristotele.
Ecco, rimaniamo con il buon Aristotele, visto che
nella Poetica identificò come utilissime per conseguire
questo piacere tipico delle storie due caratteristiche:
La Paura
La Pietà
LA PAURA
La paura, secondo Aristotele nella Retorica, è l’anticipazione del male, è l’ansia e l’inquietudine che ci colpisce
quando sappiamo di essere prossimi a un pericolo sufficientemente forte da metterci a disagio. La paura è causata dall’attesa di una catastrofe imminente. La paura,
secondo Aristotele, non è causata da eventi lontani nel
futuro, ma da eventi prossimi. Non conta tanto il pericolo reale, ma l’incertezza del pericolo legata alla nostra
percezione… talvolta una situazione sicura percepita però come un pericolo reale può terrorizzare più di un pericolo reale sottovalutato.
Quindi, per esempio, possiamo essere terrorizzati se
sentiamo voci e rumori di notte in casa nostra perché dei
ladri sono entrati e potrebbe succedere di tutto, senza
sapere che il ladro in realtà è un coglione vecchio stile di
quelli che scappano via frignando se si accorgono di essere stati scoperti… o magari non era neppure un ladro,
ma nostra figlia che torna a tarda notte dopo essere uscita di nascosto nonostante il divieto di uscire quella sera…
e ora si trova la fronte a un centimetro dalla penna del
244
martello da guerra che il papino usa nelle rievocazioni
storiche (e come difesa domestica da zingaro). Nemmeno per lei c’è pericolo, visto che il babbino ha fermato il
colpo per tempo, ma la percezione dell’evento è molto
diversa e probabilmente bisognerà asciugare la pozza di
piscio da terra.
Può invece lasciarci del tutto indifferenti uno sviluppo economico spregiudicato che aumenterà sempre di
più il rischio di un conflitto continentale, o un mutamento climatico che potrebbe portarci all’estinzione o a
perdere buona parte del benessere a cui siamo abituati
nell’arco di pochi decenni. Molte persone si mettono alla
guida dopo aver bevuto a sufficienza da rallentare i propri riflessi e partono senza preoccuparsi del fatto che entro pochi minuti moriranno bruciate dentro il proprio
veicolo dopo un incidente… il non sapere l’imminenza
del pericolo evita la paura.
Ma come possiamo avere paura in una storia inventata?
LA PIETÀ
Qui entra in gioco la pietà, ovvero la prefigurazione di
un evento catastrofico a danno di qualcuno che non lo
merita e per cui proviamo quindi dispiacere. La pietà discussa da Aristotele è quella che oggi chiamiamo empatia in una storia. Quindi la pietà è scatenata dall’incertezza, dall’attesa, portata da un pericolo imminente, ovvero dalla paura, per il protagonista o altri personaggi di
cui stiamo seguendo le vicende. In particolare per il protagonista, che è quello che seguiamo in modo più ravvicinato.
245
Ma perché dovremmo provare dispiacere? La parte
difficile entra in gioco qui. La pietà è principalmente la
reazione a un’ingiusta sofferenza e quest’ultimo concetto
include la chiave della questione: se è ingiusta significa
che non riteniamo che il personaggio se la meriti, quindi
non ha fatto nulla che gli debba far meritare tale dolore
e non pensiamo che lo meriti a priori perché ci sta sulle
palle.
In pratica stiamo tifando per lui, e tifiamo per lui
perché riteniamo che sia un personaggio che rispecchia i
valori positivi in cui crediamo: lo vediamo come moralmente giusto. Come spiega Aristotele non possiamo
provare questo sentimento per persone che consideriamo maligne, perché non vogliamo che le loro pene siano
alleviate, anzi, pensiamo proprio che si meritino le disgrazie!
Se fossimo indifferenti al destino del personaggio,
non proveremmo paura per lui e quindi mancherebbe
tensione drammatica. Se fossimo ostili al personaggio lo
vorremmo vedere finire male… e questo funzionerebbe
malino anche se fosse una tragedia, visto che poter fare il
tifo per il personaggio che finisce male è comunque
molto più coinvolgente emotivamente rispetto al mero
godere delle disgrazie che capitano a uno stronzo.
L’assenza di empatia compromette il godimento della
storia.
Come mai proviamo paura? Perché nel vedere accadere eventi dolorosi a un personaggio che noi percepiamo positivo e quindi “come noi”, in quanto noi tutti ci
vediamo come quelli buoni della situazione, non importa quanto facciamo schifo, in un certo senso ci immedesimiamo (lui è come noi, noi come lui) e quindi sentia-
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mo che quel pericolo potrebbe riguardare anche noi o i
nostri cari.
Tutti pensiamo che ci accadano cose brutte ingiustamente e molto raramente accettiamo che siano i nostri torti a causarle, per cui siamo molto sensibili all’idea
di qualcun altro che, come noi, soffre ingiustamente e in
cui possiamo rivedere la narrazione malata con cui giustifichiamo le nostre vite e sentirla rinforzata, come se ci
dicesse “vedi, succede a lui che non ha colpe proprio
come succede a te, vedi che quindi non è colpa tua se
soffri?”
Nell’identificarsi col personaggio ha un ruolo determinante, nella narrativa scritta, l’uso di un solido punto
di vista all’interno del personaggio. Un piccolo vantaggio
rispetto ai film, in cui è più difficile ottenere un simile
coinvolgimento. Non per niente gli autori davvero
esperti arrivano a prediligere un filtro profondo nella
mente del personaggio in cui ogni evento è filtrato dalla
sua mente (viviamo e percepiamo tutto come il personaggio) proprio per aumentare al massimo l’immersione
e quindi l’empatia. Ogni cosa è conseguenza di altre: se si
accetta l’importanza dell’empatia, non si può rifiutare
l’importanza di ciò che la potenzia.
MORALMENTE GIUSTO
NON SIGNIFICA SANTO
Un personaggio moralmente giusto è un personaggio
che percepiamo “come noi”, e per cui possiamo fare il
tifo quando lo vediamo soffrire ingiustamente, ma non è
un santo e non è senza peccato. Nunzio in Alieni Coprofagi dallo Spazio Profondo è personalmente colpevole della
247
propria condizione di obeso, ma questo non significa
che meriti di venire umiliato di fronte ai colleghi dal suo
capo perché, a causa della sua mole e della puzza di sudore che emana, non si è accorto di aver calpestato una
merda e di averla portata fin dentro l’ufficio…
Il personaggio può anche essere una persona deprecabile, se nell’insieme è comunque “buona” rispetto agli
altri attorno a lui (è nel suo piccolo il “fulcro del bene”,
come dice Robert McKee in Story) o se scopriamo solo
nel corso della storia la sua vera natura perché prima
non ha motivo di apparirci nel massimo dello schifo. Se
ci affezioniamo a lui prima di scoprirne i lati peggiori,
probabilmente rimarremo combattuti tra il nuovo disprezzo e il vecchio affetto e vorremo vedere come prosegue la storia. Buoni esempi di questo sono Ciro nella
prima stagione di Gomorra e Walter White di Breaking
Bad.
Comunque ricordiamolo… anche il più stronzo degli
stronzi si considera una brava persona, per cui se non
proviamo empatia significa che la storia è progettata
male: non siamo veramente dentro di lui, nel suo punto
di vista, se non lo vediamo come lui si vede.
Per una dettagliata trattazione su come presentare in
modo positivo, per creare empatia, un personaggio negativo, ti rimando al mio Corso Avanzato. Lì analizzeremo la costruzione dell’empatia in Abaddon di Giuseppe
Menconi e come un caso praticamente identico in
un’altra storia, sbagliando l’ordine degli eventi da presentare, abbia ottenuto un effetto opposto. E analizzeremo molto più nel dettaglio la questione dell’empatia:
questa è solo un’introduzione!
248
EMPATIA NON È SIMPATIA
Inutile precisarlo ma… il mantra secondo cui un personaggio dovrebbe essere simpatico è un suicidio artistico.
Ed è una stronzata, dal punto di vista tecnico-teorico. Sì,
se un personaggio ci è simpatico è più facile che lo consideriamo come noi e quindi che proviamo empatia, ma
è una scelta facile e non è obbligata.
Ciro in Gomorra non è simpatico. Macbeth nell’omonima tragedia non è un tizio simpatico. Nemmeno Walter White di Breaking Bad è simpatico. E non è simpatico
Michael Corleone ne Il Padrino o Rambo nel suo film. E
scusami se cito solo alcune tra le più grandi opere prodotte dall’abilità narrativa umana, eh!
Lasciamo perdere la simpatia: se c’è va bene, ma se
non c’è va bene lo stesso perché quel che conta davvero
è l’empatia. Chi rinuncia a scrivere di un personaggio
che gli interessa perché non è simpatico, farebbe meglio
a non scrivere proprio.
COMICITÀ E SATIRA
Per finire, una piccola nota extra. Nelle storie con un
forte umorismo l’empatia, in piccola dose, ancora ancora
può tornare comoda, ma probabilmente non vorremmo
l’immedesimazione. Prendete Fantozzi: ci dispiace per le
sue sfighe, ma allo stesso tempo ne ridiamo per la loro
assurdità. Se fossimo dentro Fantozzi, se vivessimo il suo
dolore come lui lo vive, non avremmo niente da ridere.
Sarebbe orribile. Essere fuori grazie all’impostazione
particolare di quei film, o alla presenza di un narratore
“invadente” nelle storie comiche scritte, ci distanzia per
249
evitare l’immedesimazione e ci permette di godere da
fuori delle disgrazie altrui.
Disgrazie che però sono eccessive, esagerate, e quindi comiche. Con Rambo non ridiamo, eppure Rambo
subisce una serie di disgrazie… ma sono tutte credibili.
Con Fantozzi quando viene punito non lo vediamo licenziato o umiliato in modo credibile di fronte ai colleghi, ma lo vediamo crocifisso in sala mensa o assegnato
al ruolo di parafulmine aziendale. Quando la moglie
vuole tradire Fantozzi, non ci troviamo di fronte a uno
scenario di gelosia da film drammatico, ma in una casa
in cui ogni cassetto trabocca di forme di pane… fino a
quando Fantozzi capisce che la moglie è innamorata del
panettiere.
In Un Pesce di Nome Wanda, Ken tenta in ogni modo
di uccidere una vecchietta, e finisce per ammazzarle tutti
i cani nel tentativo. L’ultimo cagnolino rimane spiaccicato sotto un blocco di cemento. Quando il regista realizzò
questa scena la fece in due varianti: senza sangue o col
sangue, usando delle interiora prese in macelleria. Nella
proiezione di prova venne usata la scena col sangue, e il
pubblico non la trovò per niente divertente. Il sangue diceva che era una morte vera, non era comicità. Per la
proiezione nelle sale venne scelta la versione senza sangue: il film, giusto per ricordarlo, al botteghino guadagnò otto volte il proprio budget e divenne un classico tra
le commedie.
Se Fantozzi subisse solo sofferenze realistiche in un
contesto del tutto credibile, non rideremmo molto. E in
ogni caso, se noi fossimo Fantozzi, non rideremmo per
niente. Come non ridiamo quando Rambo ha i flashback
sulle torture subite in Vietnam.
250
Ancora diverso il caso della satira. Nella satira si colpisce e si critica qualcosa della società che troviamo sbagliato e degno di bastonatura, per promuoverne il cambiamento. Questo può avvenire anche nel contesto di
una tragedia tradizionale o di una storia eroica tradizionale: l’oggetto della satira può far parte del difetto fatale
del protagonista o delle caratteristiche negative degli antagonisti.
Per esempio nel video dedicato alla Adpocalypse di
YouTube, nel giugno 2017, Yotobi assume il ruolo dello
YouTuber poco previdente che ha scommesso tutto su
YouTube, ha fatto dei bei soldi in modo facile e ora sta
perdendo tutto. Questa è una figura negativa che Yotobi
critica, per cui non costruisce l’empatia nel “tramutarsi”
e autoaccusarsi della cosa: vuole che godiamo nel pensare quanto queste disgrazie siano meritate.
Ci presenta gli YouTuber non come personaggi moralmente giusti per cui soffrire, ma come antagonisti
moralmente deprecabili delle cui disgrazie possiamo
godere come se l’Adpocalypse fosse una punizione divina legata al karma negativo. Il video ha avuto un enorme
successo da parte del pubblico, molto meno da parte degli YouTuber che si sono sentiti accusati, perché il pubblico trova che certi YouTuber siano moralmente deprecabili e quindi vede come un atto di giustizia la fine delle
loro fortune viste come immeritate.
In una vicenda di pochi minuti funziona perfettamente, ma in una storia più complessa e strutturata, soprattutto se immersiva, l’ideale sarebbe stato mostrare
l’arco eroico (o tragico) dello YouTuber che affronta il
suo difetto fatale, oppure mostrare gli YouTuber che inseguono i soldi facili e non pensano al futuro come dei
nemici da contrastare per il protagonista “formica” che
251
costruisce un business lento e solido, e non fa come le
“cicale” rivali che ora fanno più soldi di lui con la pubblicità e basta.
Trovi il link al mio commento al video di Yotobi nella pagina dedicata alla raccolta dei contenuti consigliati
su AgenziaDuca.it.
Questa breve introduzione all’empatia finisce qui.
Per chi vuole approfondire sul serio, per imparare a padroneggiarla nella pratica e non solo averla capita a
grandi linee nella teoria, vi rimando al mio Corso Avanzato ricco di esempi che coprono tutti i casi possibili della questione.
Per chi invece è interessato ad approfondire il pensiero di Aristotele, che ha ispirato le mie lezioni
sull’empatia e da cui ancora oggi abbiamo moltissimo da
imparare, suggerisco di leggere la sua Poetica, la Retorica
e il saggio di Ari Hiltunen Aristotele a Hollywood (editor in
Italia da Dino Audino Editore).
252
POSTA IN GIOCO:
PER COSA STAI LOTTANDO?
Abbiamo visto in precedenza cosa è una storia e perché
si regge sul conflitto. Abbiamo visto come mai è importante che il personaggio abbia un difetto fatale per motivare il suo ruolo di protagonista e l’esistenza della storia
stessa. Abbiamo visto perché è importante costruire
l’empatia per il protagonista e come mai è meglio che la
storia sia dotata di un “significato” che vada oltre la
somma di scene connesse tra loro per ordine cronologico o mera causalità. Fin qui tutto ok? Bene.
Le storie ben fatte danno un senso agli eventi, un
senso che spesso la vita non ha, e tramite quel senso ci
permettono di sentire una connessione tra le vicende del
personaggio, le sue sofferenze, le sue scelte, e la nostra
vita. Per ottenere questo significato, questo ordine che
va oltre il caos della vita reale, usiamo il modello
dell’arco eroico oppure tragico, e l’idea di premessa o di
punto di vista tematico. Ma c’è qualcosa in più che ci può
aiutare sia a rendere più forte il conflitto che a rendere
più chiaro il senso della vicenda: la posta in gioco.
La posta in gioco è un elemento chiave per comunicare il senso della propria storia. Quando un esperto valuta una sceneggiatura o un editor davvero competente
valuta un romanzo (ma quante volte avete sentito degli
editor italiani parlare di posta in gioco nei termini che
vedrete qui? Ve lo dico io: mai, a meno che non abbiano
253
studiato da me), la domanda chiave dopo aver sentito
l’idea di fondo della storia è “Sì, sì, ok, ma in soldoni qual
è la posta in gioco?”.
La stessa storia presentata in poche parole cambia
radicalmente in base alla posta in gioco dichiarata. Per
esempio se mi dici che la tua storia parla di un poliziotto
che investiga sui rapporti tra mafia e politica e finisce
sempre più nella merda perché i suoi superiori lo ostacolano e i mafiosi lo vogliono morto… se mi dici che la
posta in gioco è la sopravvivenza significa una cosa, se
mi dici che è scoprire la verità e terminare l’indagine significa un’altra. Nella testa di un esperto si formano le
visioni di due opere totalmente differenti. La storia presentata in poche parole diventa improvvisamente molto
più chiara senza bisogno di aggiungere dettagli.
Ora sai perché la posta in gioco è così importante per
comunicare la tua opera a qualcuno che può pubblicare
la tua storia, o produrre un film, o anche solo a un editor
che ha bisogno di più informazioni prima di decidere se
lavorarci con te (se non sa di cosa parli quando accennerai alla posta in gioco, scappa a gambe levate). Ma la posta in gioco non è importante solo sul lato produttivo: è
fondamentale per il pubblico.
La posta in gioco è ciò che il personaggio perde se
decide di non partecipare alla storia. Di solito si è abituati a pensare alla posta in gioco come qualcosa da conquistare, ma questo pensiero non è funzionale: si lotta per
difendere la posta in gioco, più che per conquistarla.
Quando si lotta per ottenerla, c’è sempre dietro il “non
perdere l’unica occasione di averla”: è vincerla ora o non
averla mai più, grossomodo.
L’aspetto della “lotta per non perdere qualcosa” è vitale per una buona storia. Abbiamo detto precedente-
254
mente che un personaggio lotta per ottenere qualcosa,
ma se la situazione fosse solo “se vinco ottengo il premio, se perdo non ottengo il premio”, sarebbe noiosa. Se
perde rimane come prima, che male c’è? In tante storie
la situazione del personaggio all’arrivo dell’incidente
scatenante non è poi così tanto brutta: se rinunciando ai
propri obiettivi le cose rimangono così, senza peggiorare, che male c’è?
Cambia tutto se il personaggio ha solo due opzioni:
vincere e migliorare la propria condizione, oppure perdere e stare molto peggio di prima. Forse sarà in rovina,
forse sarà morto, forse avrà la reputazione distrutta o
perderà la sua famiglia. Qualcosa di brutto succederà e
in una storia ideale la cosa che si perde in caso di sconfitta (o meglio: se si rinuncia a lottare) è collegata a ciò che
si vuole ottenere lottando. In ogni caso, sapere che le cose andranno molto peggio di prima se perderà ci fa
preoccupare molto di più per il protagonista!
Per esempio in Abaddon di Giuseppe Menconi se il
protagonista dentro l’astronave aliena incrocia le braccia
e non fa niente, morirà. Se vuole sopravvivere deve lottare. Se lotta e vince, ottiene di eliminare la minaccia e
sopravvivere… se perde, muore. Semplice no? La sopravvivenza è la posta in gioco di molte storie d’azione, guerra o avventura, ma non è sempre necessaria: storie molto simili possono avere una posta in gioco molto diversa,
senza perdere nemmeno una scena d’azione.
In Star Wars IV - Una Nuova Speranza, Luke Skywalker non lotta per sopravvivere: all’Impero non frega di
lui e Luke potrebbe nascondersi e se anche l’Impero lo
cercasse non lo troverebbero mai. Non sono molto bravi
a trovare le cose, come appare evidente nei film. Luke
vuole diventare uno importante, vuole mostrare alla ga-
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lassia quanto vale… lo ha raccontato allo zio a colazione,
ricordate?
L’Impero ha ucciso suo zio e sua zia… e lui ha
l’occasione di seguire Obi-Wan, aiutare i ribelli e così
vendicarsi. Lo stesso Obi-Wan a cui poco prima aveva
detto di no, visto che di combattere contro l’Impero a
Luke non fregava nulla… Luke fino a poche ore prima
addirittura voleva diventare un pilota di caccia imperiale
come i suoi amici!
Ora la situazione si è fatta personale, ma non è una
vendetta fine a sé stessa: Luke ora vuole diventare un Jedi e dimostrare quanto vale. Anche se questo significa
dover diventare un ribelle. Se ora facesse finta di niente
di fronte alla morte degli zii, sarebbe un codardo per
sempre. Prima e ultima occasione per diventare qualcuno: prendere o lasciare!
Il caso di Luke e il significato dello scontro con la
Morte Nera vengono analizzati nel dettaglio nelle lezioni
sulla posta in gioco nel mio Corso Avanzato assieme a
molti altri: anche questa volta, come nel caso della spiegazione sull’empatia, ti sto fornendo solo un’introduzione generale. Tutti gli esempi migliori, più dettagliati, quelli che fanno la vera differenza tra “pensare di
aver capito” e “capire per davvero”, si trovano nel corso
a pagamento.
Il mio consiglio, e ho trovato questa idea in Come
Scrivere una Grande Sceneggiatura di Linda Seger, è di usare la gerarchia dei bisogni umani di Abraham Maslow.
Non ho trovato questa idea in altri manuali, che io ricordi, e perfino in quello della Seger venivano dedicate alla
questione tre paginette… praticamente niente. E spiegate
pure male. La mia lezione qui nel Corso Base approfondisce molto oltre il mero stimolo iniziale dato dalla Se-
256
ger. Poi nel mio Corso Avanzato aggiungo ben undici lezioni all’argomento, perché ritengo che sia un argomento vitale da padroneggiare per fare il vero passaggio di
livello da “bravi scrittori” ad “autori eccellenti”. Fate un
po’ voi il confronto con le tre paginette scarne originali…
Maslow ha classificato i bisogni umani inizialmente
in cinque tipi, dividendoli tra due bisogni fisici, due bisogni di relazione e uno di autorealizzazione. Espansioni
successive della gerarchia, anche in relazione alle critiche ricevute da Maslow, hanno portato poi a dividere
l’autorealizzazione in tre o quattro bisogni distinti. Io insegno a usare sette bisogni, ma se ne usiamo otto è la
stessa cosa (semplicemente l’ottavo lo includo nel settimo quando lo spiego).
LA GERARCHIA DEI BISOGNI UMANI
SOPRAVVIVENZA: avere cibo, vestiti, stare al caldo,
dormire… i bisogni più essenziali senza cui si può arrivare, intensificando la minaccia alla posta in gioco
al massimo, fino alla morte.
SICUREZZA: avere un tetto sopra la testa, un luogo che
si può chiamare casa e in cui si può dormire con la
ragionevole certezza di non venire accoltellati e di
poter lasciare i propri beni senza farseli rubare poco
dopo (pensate a come venire derubati in casa o subire
minacce dalla Mafia, obbligando a vivere sotto scorta,
distrugge la qualità della vita perché scompare il senso di essere al sicuro). Ordine, stabilità, sicurezza
economica, sono tutte parti di questo bisogno… se si
perde il lavoro e la propria casa si finisce a fare il
barbone, ovvero a vivere con la mera “Sopravviven-
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za” in tasca (e se va male lottando pure per quella).
Pensate a come l’estremo precariato, mancando la sicurezza e la stabilità economica, scoraggi tanti giovani dal tentare di soddisfare il bisogno successivo, ovvero farsi una famiglia.
AMORE E APPARTENENZA: essere vivi, con una casa,
sentendosi al sicuro… può portare a volere una famiglia, una persona che si ama. Questo può essere anche rappresentato diversamente, come una squadra a
cui si appartiene (un’unità militare speciale?) e in cui i
membri condividono un fortissimo spirito di corpo,
come se fossero fratelli.
RISPETTO: il bisogno di venire considerati degni di
stima, essere ammirati per le proprie abilità fuori dal
comune, per quanto si è conseguito. Ottenere prestigio e status sociale. Non uno tra tanti nella squadra,
ma uno dei migliori.
CONOSCENZA: il bisogno di conoscere e capire, di
soddisfare la propria curiosità e arrivare alla verità.
ESTETICO/MISTICO: trovare un senso più grande
all’esistenza, alla vita, magari per trovare il proprio
scopo e darsi una missione. Non è un bisogno da poco, è una forza incredibile: martiri, eroi di guerre patriottiche e rivoluzioni, hanno affrontato il proprio
destino mettendo la vita al secondo posto dopo la sacra missione che dovevano compiere.
AUTOREALIZZAZIONE: il bisogno di fare ciò “per cui si
è nati”, vivere la propria vita accrescendosi personalmente, sentendo di aver fatto ciò che si doveva fare, qualsiasi cosa significhi… anche senza venire per
questo stimati dagli altri in modo particolare: è per sé
che lo si fa, non come modo di impressionare gli
amici. Include il bisogno di autorealizzarsi tramite il
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servizio per gli altri (ottavo bisogno, se si vuole suddividerlo), come mandare affanculo una carriera da
medico coi soldi e andare a curare i poveracci nei
peggiori buchi dell’Africa.
Secondo Maslow l’ordine d’importanza è molto
stretto, da Sopravvivenza in su, prima si completa un
gradino e poi si passa al successivo. E già qui la cosa dovrebbe puzzare e infatti è stato molto criticato: non per
tutti le stesse cose hanno lo stesso valore.
La soluzione è facile: se un bisogno non importa, basta considerarlo “soddisfatto” anche se dal punto di vista
di una persona normale non lo sarebbe. Quindi il missionario che rischia la sopravvivenza tra i selvaggi (gli
antagonisti minacciano la sua vita), vivendo in condizioni di disagio (nessuna sicurezza), avendo rinunciato a
tutti i suoi amici in patria prima di partire per un paese
sconosciuto e lontano, può considerare tutto questo poco importante se può permettergli di perseguire la sua
missione sacra: portare la parola di Dio tra i selvaggi con
gli anelli al naso, e finire nel pentolone dello stufato se
così Dio vuole (Dio dice più cipolle, e non lesinare con le
carote)!
Pensate alla differenza tra un uomo comune che viene minacciato dalla Mafia (minacciano lui, la sua casa o i
suoi parenti) e cede, rinunciando a indagare, oppure certi magistrati con le palle che anche dopo la morte di un
collega fatto saltare in aria, ormai certi di cosa potevano
trovarsi a subire, continuavano a indagare… fino a saltare
in aria anche loro. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
vengono in mente a nessuno? E gli uomini delle loro
scorte, spesso messi in secondo piano, ma ugualmente
pronti come loro ad affrontare la morte per servire la
Repubblica?
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Per qualcuno la sopravvivenza è tutto, per altri è più
importante il proprio dovere (che sia per autorealizzazione, rispetto, bisogno patriottico o conoscenza, dipende dal singolo individuo).
NON CAMBIARE LA POSTA
Questa posta in gioco, come detto, fornisce un senso ulteriore alla storia rendendola più chiara. Per questo
l’ideale è che non cambi mai durante la vicenda: l’intensificarsi del conflitto dovrebbe avvenire rendendo sempre più forte la minaccia senza cambiare la posta in gioco. Quando analizzeremo Rambo (nel corso avanzato) lo
vedremo per bene.
La Seger dice che è possibile intensificare la posta in
gioco scendendo lungo la piramide per colpire un bisogno più in basso, più “importante”, ma come avrete capito da quanto già spiegato è un consiglio un po’ scemo e
non sempre applicabile. Più in basso nella piramide non
è in automatico più importante per tutti, come detto
prima. Tre paginette, e ci infila pure una vaccata…
In più, dato che la posta in gioco delinea tutta l’opera
permettendo di scegliere gli elementi che meglio la rappresentano, incluso il più idoneo difetto fatale del protagonista, sembra un’idea alquanto balorda cambiarla in
corso d’opera. E infatti il rischio è di far schifezze, o comunque opere di valore molto inferiore a quello possibile rimanendo coerenti. Nel Corso Avanzato entro nel
dettaglio mostrando come è possibile trasformare un
grande classico del cinema in una schifezza semplicemente cambiando la posta in gioco alla fine.
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Ricorda che la posta in gioco non indica la minaccia
affrontata, indica ciò per cui si lotta: il personaggio può
affrontare delle sparatorie in una storia che parla di sopravvivenza, di rispetto, d’appartenenza o di conoscenza. Semplicemente sta rischiando la vita pur di non perdere con certezza la posta in gioco: possibilità (morte)
contro certezza (posta in gioco persa).
Se si riesce a rimanere più focalizzati possibili sulla
posta in gioco anche a livello di minaccia è meglio, ma se
la posta in gioco a livello di storia o di scene è coerente
anche se la minaccia diretta colpisce altro, va benissimo
lo stesso. In una storia di guerra in cui un soldato difende la propria squadra (Appartenenza), tenta di diventare
un eroe (Reputazione) o esprime il proprio bisogno patriottico (Estetico/Mistico), è molto improbabile che le
scene non riguardino sfide contro minacce mortali.
Quello che conta per davvero è solo cosa perde se rinuncia alla sfida, ricordalo. Nell’esempio di prima è facile che ottenga tutti e tre gli obiettivi se vince (diventare
un eroe per il suo paese e i suoi compagni dopo aver salvato la squadra), ma quello che conta è “cosa non voleva
perdere”.
Se il personaggio si arrende e dice “vaffanculo antagonista, prenditi la mia posta in gioco”, le minacce agli
altri aspetti della vita del personaggio devono terminare.
Quindi solo in una storia che parla di Sopravvivenza il
personaggio morirà se si arrende:
in una in cui combatte per difendere i propri compagni, perderà i propri compagni (o perderà l’Appartenenza al gruppo, finendo cacciato per aver voltato
loro le spalle);
in una in cui combatte per il Rispetto, perderà per
sempre l’occasione di essere un eroe per i suoi com261
pagni (o addirittura verrà tacciato di essere un codardo, se le cose andranno davvero malissimo);
in una in cui lotta per la Conoscenza, dovrà rinunciare alla ricerca: se Borsellino avesse rinunciato al proprio dovere e si fosse arreso al potere della Mafia,
forse non sarebbe morto…
Capire questo concetto è vitale. Come lo è capire
l’esatta natura della posta in gioco, ovvero ciò che significa interiormente per il personaggio, come visto prima.
Per tutti gli altri esempi dettagliati vi rimando alla lezione del secondo modulo del mio Corso Avanzato in
cui vengono discusse le poste in gioco di Abaddon, Caligo,
Rambo, Assault Fairies, I Sette Samurai, Hysteria, Star Wars
IV ed esempi inventati ispirati al personaggio di Giovanna d’Arco, al film Balla coi Lupi, a un western generico
con gli indiani e alla serie The Wire… e nel tempo aggiungerò altro: il corso crescerà negli anni aumentando gli
esempi delle vecchie lezioni e aggiungendo nuovi argomenti trattati. Non sto scherzando: già nell'ultimo anno
si è gonfiato in modo imbarazzante...
262
UN PROBLEMA FISICO
È UN DIFETTO FATALE?
Pesare cinquanta kg di troppo è un difetto fatale? Cosa ci
dice della protagonista il fatto che si tinga i capelli di rosa? E che rapporto c’è tra avere un grosso naso e il difetto
fatale di un personaggio? Molto spesso si fa confusione
tra difetto fatale e caratteristiche fisiche, dando un peso
drammatico eccessivo a qualcosa che non riguarda
l’interiorità del personaggio, come se il difetto da superare fosse nel corpo e non prima di tutto nella mente. Ci
cascano in parecchi, soprattutto chi pensa che sia “banale” non fare quell’errore. Chiariamoci le idee una volta
per tutte.
Il difetto fatale è un tratto che in quella specifica storia è modificabile per poter vincere e che allo stato attuale impedisce al personaggio di farcela. Se non puoi
modificarlo, non è un difetto fatale, ma una caratteristica
qualsiasi. Se il personaggio è privo di entrambe le braccia, l’assenza delle braccia non è un difetto fatale che gli
impedisce di diventare un campione di tennis. Come
l’incapacità di sopravvivere nel vuoto dello spazio senza
una tuta spaziale non è il difetto fatale di un’astronauta.
Non ha molto senso aspettarsi che il primo giochi benissimo a tennis o che il secondo esca senza tuta.
Se il personaggio è brutto e questo tratto è modificabile, bisogna domandarsi cosa la sua bruttezza significhi
dentro di lui. È brutto perché non si cura? È grasso, coi
263
capelli unti, ha pure i brufoli e si veste male? Forse il suo
difetto fatale è non capire l’importanza dell’impressione
che si dà agli altri, fino a dare un valore negativo a chi
cura il proprio aspetto. Il nostro personaggio è bloccato
dalla propria visione della vita perché agli altri non importa che sia la persona migliore del mondo se sembra
un barbone pazzo a cui hanno pisciato sopra e puzza così forte di merda che la gente vomita. Stanno scappando
ben prima di scoprire che sotto le croste di sporcizia c’è
una persona fantastica.
Capire l’importanza dell’aspetto esteriore, e non solo
dei “contenuti interiori”, gli permetterà di ricostruire un
equilibrio in cui esterno ed interno collaborano nella sua
vita sociale. Arrivare a capire che l’aspetto esterno non è
“il male”, può portarlo a capire che alcune persone che
disprezzava perché belle, atletiche, ben vestite e con acconciature curate, non erano “vuoti bambolotti” come li
considerava, ma ottime persone. Chiaro come esempio?
SE IL PERSONAGGIO È GRASSO,
QUESTO COSA SIGNIFICA?
In generale, niente. Essere grassi è quasi sempre un
“problema”: è massa che non fornisce forza, a differenza
dei muscoli, e spesso si abbina a diversi problemi fisici
come diabete, malattie cardiache, dolori articolari o altro, ma non sempre fa parte di un difetto fatale in senso
narrativo.
Il personaggio può essere grasso perché è insicuro, e
l’insicurezza lo ha portato a chiudersi in casa e non
avendo amici, a parte quelli online, non ha nemmeno lo
stimolo a uscire. Mangiare è l’unica forma di piacere
264
momentaneo che abbia assieme a tutte quelle attività
domestiche che non bruciano grandi quantità di calorie
come giocare ai videogiochi, leggere fumetti o guardare
serie televisive.
Oppure il personaggio può essere grasso perché è un
individuo dominante, talmente sicuro di sé da non avere
motivo di dare peso a qualcosa di secondario come
l’essere un bidone di strutto. Magari perché è circondato
da persone che lo rispettano. Magari ora è grasso ma in
passato è sempre stato un ragazzo sportivo e atletico,
pieno di ragazze e al centro del proprio gruppo, solo che
a un certo punto ha deciso che voleva essere un atleta di
forza… e spesso la dieta che fa parte dell’addestramento
dei sollevatori di pesi non bada al grasso in eccesso accumulato pur di costruire muscoli in fretta con l’eccesso
di calorie ingurgitate.
Ci sono tante persone ricche, potenti, temute dai loro concorrenti e rispettate dai loro colleghi, che hanno
uno stomaco da uomo incinto e non gliene importa nulla. Senza tirare in ballo i soldi o il prestigio sociale: se sei
così sicuro di te e carismatico, capace di leggere le altre
persone e guidarle verso di te, che nessuno bada al fatto
che non sei un atleta… perché mai dovresti sforzarti a
cambiare?
Senza stimoli a cambiare, non può esserci cambiamento. L’essere grassi, di per sé, non ha alcun significato:
è il resto del personaggio a dargli un significato, e
l’essere grasso a sua volta rinforza con la sua presenza il
resto del personaggio.
265
E SE SI TINGE I CAPELLI?
Sul tingersi i capelli e altre semplici modifiche dell’aspetto non mancano luoghi comuni bislacchi come quello
di attribuire il cambio a un’insicurezza interiore. Una ragazza non è sicura di sé e allora si tinge i capelli.
Naturalmente è una grossolana generalizzazione.
Può essere che una persona si tinga i capelli perché non
accetta il proprio aspetto, oppure può essere che sia piena di fiducia in sé stessa e voglia solo capire se modificando il colore dei capelli il suo aspetto funzionerà ancora meglio. C’è una bella differenza tra non accettarsi
oppure voler migliorare. Quest’idiozia anni fa era molto
in voga: ora che è sempre più diffuso tra le giovani tingersi i capelli, anche con colori degni di un personaggio
di un anime (rosa, blu, viola ecc.), spero che la si dica
molto meno.
Tutti si identificano in qualcosa e agiscono su di sé
scegliendo “ciò che gli piace”. Decidere di modificare il
colore dei propri capelli non è diverso dal decidere di
vestirsi con giacche di pelle da metallaro. In sé non ci dice nulla del personaggio: forse è molto determinato nel
riconoscersi in certi valori, e di conseguenza sceglie
l’aspetto che si collega a quei valori e si mostra con orgoglio senza preoccuparsi di cosa gli altri pensino.
Non è peggio, magari, reprimere del tutto i propri
gusti e indossare solo i vestiti più anonimi possibili per
nascondersi nella folla, per paura di “apparire”? Stranamente si tende a criticare il primo, che ha il coraggio di
essere sé stesso, e non si critica il secondo, che si uniforma agli altri solo per paura di essere giudicato male. E
poi c’è chi si veste in modo anonimo perché non gliene
266
frega nulla dell’aspetto, e allora fa la cosa più facile e
neutra possibile: non ha tempo né voglia di scegliere altro.
Modificare il proprio aspetto può fare parte di un
cambio nella propria vita, che la persona rinforza tramite un “rito” come cambiare radicalmente acconciatura o
tingersi i capelli. La protagonista potrebbe avere cambiato il colore dei propri capelli a ogni grande passo lavorativo perché conosce qualcosa di antropologia e vuole
“aiutarsi” con un’azione simbolica ad affrontare situazioni del tutto nuove. Ecco come mai sta affrontando la
sua nuova carriera di fotografa freelance con un bel caschetto rosa pastello al posto dei vecchi capelli lunghi castani, magari pensato per rinforzare il proprio brand su
Instagram e su altri social in cui già ha un grosso seguito.
Apparire diversi dalla massa, sia nell’aspetto che nei valori della propria offerta, è essenziale nell’ecosistema di
un processo di marketing intelligente. Ci dimostra di essere una persona intelligente, determinata e preparata,
niente affatto una sciocchina insicura.
Oppure il personaggio può davvero essere insicuro,
ma non è il singolo cambio a contare: non è una scelta
ferma e determinata a indicare insicurezza. Se il personaggio cambia continuamente acconciatura, colore dei
capelli o modo di vestire senza trovare mai quello che lo
rappresenta, potrebbe davvero essere parte dell’estetica
di un personaggio insicuro. Come lo sarebbe anche il voler scomparire, appiattendosi dietro un look il più possibile neutro e banale per non attirare l’attenzione.
Ma il voler essere come un camaleonte che “sparisce
nel gruppo” potrebbe anche indicare un personaggio intelligente, capace di divenire ciò che funziona meglio in
base a dove deve infiltrarsi: usa le proprie abilità sociali e
267
il proprio aspetto come un soldato usa la mimetica e le
tinture per la pelle. Non è un insicuro, è un professionista dei rapporti sociali: è esattamente ciò che serve, modellandosi su ogni differente ambiente, come un venditore competente cambia i dettagli del proprio discorso di
vendita adattandosi ai valori di ogni singolo cliente.
Il problema è quando una persona vuole nascondersi, non vuole essere giudicata, ma allo stesso tempo si
concia in modo stranissimo. Se si è molto timidi, si rifiuta la moda normale e ci si veste in modo stranissimo
come reazione perché ci si identifica in una subcultura,
non ci si può lamentare se poi si attira l’attenzione. Bisogna fare pace col cervello e decidersi: si vuole apparire o
si vuole scomparire?
Il personaggio potrebbe essere ambivalente nel proprio rapporto con il sentirsi diverso… forse dovrà proprio capire che non è l’aspetto a contare davvero, ma
l’interiorità. Apparire in un certo modo può essere la soluzione facile, mentre deve capire che per “essere” qualcosa bisogna andare oltre e impegnarsi sul serio, non solo nell’aspetto. Non sarà mai un metallaro vero facendo
il “poser”, ma solo quando sarà un metallaro fin dentro
le ossa… e allora potrà vestirsi in ogni modo, e sarà sempre un metallaro.
Come sempre, una cosa di per sé non significa nulla:
il significato arriva dal resto del contesto, e può essere
una cosa oppure il suo opposto… oppure essere niente.
La narrativa si occupa di esplorare l’animo umano posto
al limite della sopportazione, obbligato al cambiamento:
non si occupa di facili generalizzazioni da psicologia
spicciola per rivistine subnormali.
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E SE HA UN NASO ENORME?
Per finire, riflettiamo su un personaggio con il naso molto grosso. Forse avere un enorme naso lo ha portato a
vergognarsi di sé, a chiudersi, e ad avere poca autostima.
Oppure lo ha portato ad arrabbiarsi contro chi lo giudicava e a voler dominare su tutti, ad avere la forza per
imporsi su chiunque lo prendesse in giro.
Pensa a Cyrano de Bergerac, il personaggio dell’opera di Rostand basato su un vero spadaccino e drammaturgo del ‘600 francese. Cyrano è pieno di risorse, intelligente, bravissimo con la spada ed è anche un poeta. Il
suo naso non gli ha impedito di essere il migliore, di essere ammirato dagli altri… tranne in un aspetto: la sua insicurezza è rimasta sul lato amoroso, tanto da impedirgli
di dichiarare il proprio amore alla bellissima Rossana,
una sua lontana cugina.
Ecco, immagina di avere un personaggio con un
grosso naso, che a causa di quel naso è ossessionato dal
primeggiare… ma l’amore non è primeggiare, è sentirsi
accettati. Forse il nostro protagonista ispirato a Cyrano
potrebbe avere come difetto fatale l’arroganza, perché è
talmente bravo in ogni cosa da sottovalutare gli altri, e
quando imparerà a dare il giusto valore alle altre persone, e a sé stesso, aprendosi agli altri per capirne le doti
invece di giudicarli in modo sprezzante, forse riuscirà
anche ad aprire sé stesso all’amore senza paura di venire
rifiutato. Non tutti i tipi di coraggio sono uguali.
Se sei interessato a come riflettere sull’interiorità di
un personaggio partendo da un suo difetto fisico, anche
piccolo, anche immaginario, quel genere di cose che
sembrano insignificanti ma segnano una vita fino a farla
269
esplodere in modo all’apparenza inaspettato, la migliore
opera che ti posso consigliare è L’Arte del Personaggio di
Lajos Egri (Dino Audino Editore). Non ti pentirai della
lettura.
270
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Bene, ora hai le basi fondamentali sulla struttura di una
storia. Ti invito di nuovo a leggere il saggio di Dara
Marks per arricchire il tuo bagaglio con più esempi, ma
se non ti va di leggerlo ti anticipo che il Corso Avanzato,
nel modulo di sceneggiatura, analizzerà di nuovo il modello dell’arco e spiegherà anche come mai gli elementi
sono disposti in un ordine preciso. Un ordine elegante.
Un’eleganza nascosta che non è facile cogliere leggendo il saggio della Marks, e che lei stessa sottovaluta
dicendo che quegli elementi possono anche non essere
posti tutti esattamente in quel modo. Vero, c’è del margine di manovra, ma c’è anche una teoria (che lei non
spiega e io sì) che permette di capire qual è questo margine e “liberare” così al meglio la propria creatività.
A tutti gli effetti non è necessario leggere il libro della Marks per apprezzare i contenuti del Corso Avanzato,
e dopo quel corso, se leggerai L’Arco di Trasformazione del
Personaggio, sarai anche meglio preparato a coglierne i
limiti e a dirti «Ehi, ma tutte queste cose vitali per progettare bene una storia non le dice!», ma non essere ingiusto con quel libro bellissimo! Per me rimane il singolo saggio che più di tutti mi ha aiutato nel mio lavoro.
Chi non lo legge lo fa a proprio rischio e pericolo!
Quello della Marks è un singolo saggio su un singolo
argomento, mentre questo Corso Base e il mio Corso
Avanzato sono un lavoro complessivo sul raccontare storie che si è nutrito con le spiegazioni di molti autori di271
versi, le ha unite e ne ha derivato nuove conoscenze non
presenti nei singoli saggi. È normale che ci sia così tanto
lì dentro che nei singoli manuali separati non c’è. Altrimenti che senso avrebbe avuto realizzare dei miei corsi
personali?
Per completare al meglio questa parte del corso non
ti resta che leggere i tre articoli (o guardare i video corrispondenti) che ho dedicato all’analisi del primo film della serie Arma Letale per vedere in concreto l’arco di trasformazione in azione con un esempio didatticamente
molto valido e completo. Non per niente la Marks usa lo
stesso film nel suo saggio… ma non diciamo proprio le
stesse cose. Leggici entrambi e vedrai.
Ti consiglio anche di leggere le mie riflessioni online
dedicate al film Dunkirk, in particolare per il modo in cui
viene gestito il problema di avere una storia in cui
l’evento storico (la macrostoria) è al centro di tutto, e le
storie dei singoli personaggi (microstorie) hanno il solo
scopo di mostrare il grande evento storico, e mancano di
archi ben definiti. Un problema enorme da affrontare, se
hai ben capito la teoria studiata fino a qui.
Tutti i link ai contenuti extra li puoi trovare nella pagina online dedicata su AgenziaDuca.it.
Buona lettura.
272
RINGRAZIAMENTI
Questo manuale e il Corso Avanzato che lo segue sono
stati realizzati in questa forma anche grazie ad alcune
persone che nel tempo mi hanno aiutato o ispirato. Voglio ringraziare in particolare:
Alessandro Scalzo per aver creduto nel progetto Vaporteppa da prima che avesse un nome e per avermi
appoggiato nella mia visione dell’editoria.
Chiara Gamberetta per il suo impegno tra 2007 e 2013
nell’informare il pubblico sullo stato dell’editoria italiana e sul livello infimo delle opere pubblicate col
blog Gamberi Fantasy. E soprattutto per i suoi articoli
sulla scrittura.
Antonio Tombolini per avere scommesso sul progetto
di Vaporteppa da subito, dandomi la possibilità di lavorare per anni con tanti autori (e aspiranti autori) e
capire le loro necessità.
Giuseppe Menconi perché dal 2013 subisce la tortura
di lavorare a ogni singolo romanzo con me: è un miracolo che tu sia ancora vivo. Continua così!
Marco Crescizz per la follia di Alieni Coprofagi dallo
Spazio Profondo e per avermi insegnato due concetti
importanti: se vuoi dimagrire devi prima ingrassare e
“Nessuno sa cosa essele in cibo di amico cane, ma che
impolta?”
Federico Russo perché nonostante i contatti online
dal 2007 a oggi ancora non vuole uccidermi: è stato
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bello rovinarti l’adolescenza con la mia influenza nefasta.
Carmelo Torre per aver intuito che non sono un
normale coniglietto di otto etti, ma uno degli spiriti
del Lemegeton. Uno di quelli che insegnano retorica.
Tutti gli altri autori e aspiranti tali di Vaporteppa, che
con i loro dubbi e le loro storie hanno permesso di far
crescere il corso da quello che era nel 2012 al bestione
che è diventato a distanza di sei anni. E per il supporto dato di persona alla collana, online e nelle fiere.
Emanuele Ascani per avermi fatto conoscere i corsi
online per creatori di contenuti su JUMPCUT ACADEMY:
il mio Corso Avanzato di scrittura oggi ha questa forma anche grazie a quelle lezioni.
I corsisti Beta di AGENZIADUCA.IT, che coi loro feedback e la loro pazienza, fin dal 2017, hanno reso ancora più grosso e ricco il corso avanzato.
Tutte le persone che col loro esempio mi hanno mostrato, negli anni, che bisogna tenere duro e fare la cosa giusta, senza lasciarsi scoraggiare se può richiedere
più anni del previsto o se può sembrare folle secondo
“il senso comune”. La lista include persone molto diverse tra loro come Dario Bressanini, Andrea Biasci di
PROJECT INVICTUS, la cosplayer Yuriko Tiger, il cofondatore di BREWDOG James Watt, Big Luca, Dan
Kennedy e lo storico Edward Gibbon. Una lista un po’
strana.
Una lista ben più lunga di esempi ammonitori in editoria su cosa non fare e su cosa non diventare. Il pensiero di non voler essere come loro mi ha aiutato a
non abbassarmi a facili compromessi. Di questi però è
meglio non fare esempi: per quelli tra loro che stanno
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leggendo, e che sanno di essere stati chiamati in causa
adesso, “grazie di esistere”.
E per finire tutti i lettori che hanno contribuito con il loro supporto e le loro domande a far crescere negli anni il
mio blog e a darmi contenuti su cui lavorare.
Grazie a tutti!
Marco Carrara
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BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
In buona parte quelli italiani sono manuali pubblicati da
Dino Audino Editore. Ho moltissimi dei suoi libri ed è
uno dei pochissimi editori che se sparisse mi mancherebbe.
Di alcune opere di cui ho riportato il titolo in inglese
ci sono edizioni italiane, talvolta fuori commercio, che
non ho letto. Se vi interessano controllate e decidete. In
linea di massima leggere l’opera in lingua originale non
è una cattiva idea.
Ho scartato la massa di manuali da cui non ho ricavato nulla di utile, o troppo poco, come buona parte di
quelli sulla scrittura per la narrativa, e ho lasciato solo
quelli che consiglio davvero sia tecnici che di cultura generale.
L’Arco di Trasformazione del Personaggio, Dara Marks
L’Arte della Scrittura Drammaturgica, Lajos Egri
Anatomia di una Storia, John Truby
Viaggio nel Bosco Narrativo, John Yorke
L’Arte del Personaggio, Lajos Egri
Aristotele a Hollywood, Ari Hiltunen
Come Scrivere una Grande Sceneggiatura, Linda Seger
Lezioni di Sceneggiatura (due volumi), David Howard
Screenplay: the Foundations of Screenwriting, Syd Field
The Rethoric of Fiction, Wayne C. Booth
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(Disponibile in italiano come Retorica della Narrativa, in tre volumi, ma è una traduzione che non
mi convince.)
Story, Robert McKee
Poetica, Aristotele
Retorica, Aristotele
The Elements of Style, William Strunk ed Elwyn
Brooks White
(Attenzione: prendi la quarta edizione inglese.
Quella italiana è la prima, senza White, e cambia
parecchio.)
Worlds of Wonder, David Gerrold
Plot vs Character, Jeff Gerke
Self-editing for Fiction Writers, Dave King e Renni
Browne
Characters & Viewpoint, Orson Scott Card
How to Write a Damn Good Novel, James Frey
How to Write a Damn Good Novel II, James Frey
Scene & Structure, Jack M. Bickham
How Fiction Works, Oakley Hall
Come Funzionano i Romanzi, James Wood
Writing Fiction for Dummies, Randy Ingermanson e
Peter Economy
***
Nell’apposita pagina del Corso Base su AgenziaDuca.it
puoi trovare i vari articoli online che ho citato, raccolti
con i loro link ed elencanti con i riferimenti al capitolo
del manuale in cui li ho citati.
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