IL FINE E LA FINE DELLA PENA
Sull’ergastolo ostativo
alla liberazione condizionale
a cura di
GIUDITTA BRUNELLI, ANDREA PUGIOTTO, PAOLO VERONESI
2020
Atti dei Nuovi Seminari “preventivi” ferraresi
__________________________________________________________________
17
IL FINE E LA FINE
DELLA PENA
Sull’ergastolo ostativo
alla liberazione condizionale
Atti del Seminario
Ferrara, 25 settembre 2020
a cura di
GIUDITTA BRUNELLI, ANDREA PUGIOTTO, PAOLO VERONESI
FORUM DI QUADERNI COSTITUZIONALI RASSEGNA,
fasc. n. 4 del 2020
INDICE
Prefazione ............................................................................................................. XI
Documentazione................................................................................................... XV
Traccia per la discussione ..................................................................................XIX
Relazioni introduttive
L’ERGASTOLO OSTATIVO È COSTITUZIONALE?
di MARCO RUOTOLO ................................................................................................ 1
VERSO UN’INCOSTITUZIONALITÀ PRUDENTEMENTE BILANCIATA?
SPUNTI PER UNA DISCUSSIONE
di GLAUCO GIOSTRA .............................................................................................. 37
Discussione
L’ ERGASTOLO OSTATIVO COME OCCASIONE
(DA NON PERDERE) PER LA CORTE
di MASSIMILIANO BARONI ...................................................................................... 51
NOTE MINIME SULLA RIPARTIZIONE DEI COMPITI ISTRUTTORI
NEL PROCEDIMENTO DI SORVEGLIANZA
di PASQUALE BRONZO ............................................................................................ 58
IL SENSO DELLA PENA: L'UOMO OLTRE IL REATO
di MARIA BRUCALE ................................................................................................ 62
UN APPROCCIO PSICOLOGICO AGLI AUTOMATISMI LEGISLATIVI:
IL CASO DELL’ERGASTOLO OSTATIVO
ALLA LIBERAZIONE CONDIZIONALE
di QUIRINO CAMERLENGO ...................................................................................... 68
IL RAPPORTO INCRINATO TRA LEGGE E GIUDICE
NELLE PRESUNZIONI ASSOLUTE IN MATERIA DI LIBERTÀ
di STEFANIA CARNEVALE ....................................................................................... 75
LA QUAESTIO SOLLEVATA: UN’OCCASIONE DI RIFLESSIONE
SUL FONDAMENTO COSTITUZIONALE DELLA PENA
di SILVIA CECCHI.................................................................................................... 80
SPUNTI PER UNA LETTURA DIALOGICA
DELL’ERGASTOLO OSTATIVO IN ITALIA
di SOFIA CIUFFOLETTI ............................................................................................ 84
VIII
Indice
UN SISTEMA PREMIALE IMPRATICABILE
di FRANCO CORLEONE ............................................................................................ 96
IL “COMMIATO” DELL’ERGASTOLO OSTATIVO?
LA PAROLA SPETTA ORA ALLA CORTE COSTITUZIONALE
di MARILISA D’AMICO e STEFANO BISSARO .......................................................... 99
LA PRESUNZIONE ASSOLUTA DI PERICOLOSITÀ SOCIALE
(DI NUOVO) ALLA PROVA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
di ILARIA DE CESARE ........................................................................................... 110
LA “FUNZIONE OSTATIVA” DELLA RIEDUCAZIONE
di FEDERICA DE SIMONE ...................................................................................... 117
ERGASTOLO OSTATIVO, LIBERAZIONE CONDIZIONALE,
DIRITTO ALLA SPERANZA
di EMILIO DOLCINI ............................................................................................... 124
CORTE COSTITUZIONALE A “DUE VELOCITÀ”
E PROSPETTIVE DE IURE CONDENDO
di CARLO FIORIO .................................................................................................. 131
UN DIALOGO (IMMAGINARIO)
TRA UN ERGASTOLANO OSTATIVO
E UN GIUDICE COSTITUZIONALE
di DAVIDE GALLIANI ............................................................................................ 134
DIRITTO ALLA SPERANZA E PRECLUSIONI ASSOLUTE.
UNA COMPARAZIONE CON L’ORDINAMENTO LITUANO
IN CHIAVE “PREVENTIVA”
di GIACOMO GIORGINI PIGNATIELLO ................................................................... 151
NESSUNO PUÒ ESSERE OBBLIGATO
AD AUTO-ACCUSARSI
di PATRIZIO GONNELLA ........................................................................................ 158
ILLEGITTIMITÀ EUROUNITARIA
DELL’ERGASTOLO OSTATIVO E RICADUTE SULL’ESEGUIBILITÀ
DEL MANDATO D’ARRESTO EUROPEO
di CIRO GRANDI ................................................................................................... 160
LIBERAZIONE CONDIZIONALE E REGIME OSTATIVO:
PERCHÉ NON SI PUÒ PIÙ TORNARE INDIETRO
di SARAH GRIECO ................................................................................................. 167
ANCORA UNA QUAESTIO IN TEMA DI ERGASTOLO:
UN’INGRAVESCENTE IDIOSINCRASIA
VERSO L’OSTATIVITÀ?
di ANTONIO LEGGIERO ......................................................................................... 176
RIEDUCAZIONE, DIRITTO ALLA SPERANZA
E PROSPETTIVE DELLA LIBERAZIONE CONDIZIONALE
Indice
IX
DOPO LA “FINE” DELL’ERGASTOLO OSTATIVO
di ADRIANO MARTUFI .......................................................................................... 185
I POSSIBILI ALTRI PASSI LUNGO LA VIA
TRACCIATA DALLA SENTENZA N. 253/2019
di MARTA MENGOZZI ........................................................................................... 192
L’ERGASTOLO NELLA PRASSI NORMATIVA
E GIURISPRUDENZIALE INTERNAZIONALE
di ELISABETTA MOTTESE...................................................................................... 198
LA FINE È NOTA
(A PROPOSITO DI UN’INNOVATIVA ORDINANZA
DEL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI FIRENZE)
di MICHELE PASSIONE .......................................................................................... 204
ERGASTOLO OSTATIVO:
UNA DECISIONE OBBLIGATA?
di IGNAZIO PATRONE ............................................................................................ 209
DOPO LA SENTENZA (DI ACCOGLIMENTO) CHE VERRÀ
di ANDREA PUGIOTTO .......................................................................................... 213
UNA QUESTIONE DI CULTURA
di EMILIA ROSSI ................................................................................................... 220
ERGASTOLO OSTATIVO E LIBERAZIONE CONDIZIONALE:
IN ATTESA DI UNA SENTENZA “AMBIVALENTE”
di ALESSANDRA SANTANGELO ............................................................................. 224
L’ERGASTOLO OSTATIVO TRA DIRITTO E RAGION DI STATO
di ORLANDO SAPIA ............................................................................................... 229
CALA IL SIPARIO SULL'ERGASTOLO OSTATIVO?
BREVI RIFLESSIONI SU UNA PENA NON CONFORME
AI CANONI COSTITUZIONALI
di EMANUELE SYLOS LABINI ................................................................................ 234
«UN PASSO DOPO L’ALTRO», È IN ARRIVO IL KNOCK-DOWN
PER LA DISCIPLINA DELL’ERGASTOLO OSTATIVO?
di PAOLO VERONESI ............................................................................................. 241
PREFAZIONE
Se il motto per cui «non c’è il due senza il tre» fosse davvero attendibile, dopo
l’edizione 2020 di Amicus curiae anche l’appuntamento del 2021 avrebbe il destino
– ossia il tema – già segnato. Quanto discusso nel webinar dello scorso 25
settembre (“Il fine e la fine della pena. Sull’ergastolo ostativo alla liberazione
condizionale”), costituisce infatti una sorta di “Atto II”, collocandosi in ideale e
perfetta continuità con l’appuntamento dell’anno precedente.
Contrariamente alla nostra tradizione – per la quale ogni puntata di Amicus
curiae si concentra su temi naturalmente diversi da quelli affrontati nell’edizione
antecedente – sia nel 2019, sia nel settembre 2020, ci siamo invece occupati di
alcuni profili normativi di dubbia costituzionalità strettamente connessi al tema,
spesso rimosso, dell’ergastolo c.d. ostativo.
“Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti” era
infatti il titolo dell’incontro organizzato nel 2019, i cui preziosi atti potete reperire
sia nel nostro sito (www.amicuscuriae.it), sia nell’ambito della rivista Forum dei
Quaderni costituzionali – Rassegna (n. 10 del 2019), la quale ha
collaborativamente accettato di ospitare, anno per anno, le nostre fatiche
(www.forumcostituzionale.it).
L’anno scorso, dunque, era collocato sotto i riflettori della Consulta il negato
accesso al beneficio penitenziario del permesso premio nei confronti dei
condannati all’ergastolo per i reati di cui all’art. 416-bis c.p., i quali non avessero
collaborato con la giustizia. E ciò a prescindere da qualsiasi valutazione in ordine
al loro percorso trattamentale, quand’anche positivo in termini di risocializzazione
del detenuto. Le stimolanti riflessioni svolte in quella occasione hanno trovato –
potremmo dire – il loro coronamento nella sentenza costituzionale n. 253/2019:
una pronuncia d’illegittimità costituzionale che ha certamente lasciato il segno.
Oggi, nel pieno corso di un 2020 funestato dalla pandemia Covid-19, il giudice
a quo punta a un risultato ancora più “sensibile”, mirando addirittura al cuore del
regime ostativo penitenziario. Secondo la rimettente Sez. I penale della Corte di
Cassazione (ord. 3-18 giugno 2020, Pres. Mazzei, est. Santalucia) le norme ora
sottoposte all’attenzione della Consulta – e discusse nel nostro Seminario
preventivo – sarebbero infatti illegittime anche perché al condannato all’ergastolo
per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p.,
ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, e che non
si sia prestato a collaborare con la giustizia, viene altresì preclusa la possibilità di
accedere alla liberazione condizionale. Ancora una volta, quindi, la norma
configura un penalizzante automatismo che scatta del tutto a prescindere dai motivi
che inducono il condannato al silenzio e dal suo, magari proficuo, percorso di
rieducazione.
Praticamente tutti i contributi ospitati negli Atti che seguono pongono in
evidenza i punti di contatto tra la pronuncia del 2019 e quanto ci si attenderebbe
dalla Corte nel momento in cui affronterà la quaestio ora sottoposta alla sua
attenzione. Mutatis mutandis, sono infatti pressoché identiche le norme impugnate,
gli argomenti intessuti dall’ordinanza di rinvio, le prognosi circa la futura
XII
Prefazione
decisione costituzionale e i parametri coinvolti (ai quali quest’anno si aggiunge,
molto opportunamente, l’art. 117 Cost., specialmente dopo la sentenza della Corte
EDU, Viola c. Italia n. 2, anch’essa riprodotta nel nostro sito). Monitoreremo
pertanto con attenzione gli esiti di quanto accadrà nel prossimo futuro. E siamo
certi che non saremo i soli.
***
Un altro elemento di continuità tra le edizioni 2019 e 2020 di Amicus curiae si
coglie valutando il profilo dei relatori che hanno generosamente accettato il nostro
invito. Non si tratta soltanto di studiosi unanimemente apprezzati nei rispettivi
settori disciplinari (e anche oltre quegli stessi steccati). È sulla loro complementare
“specializzazione” che conviene soffermarsi.
Nel 2019 abbiamo beneficiato delle riflessioni introduttive di un penalista di
chiara fama (Francesco Palazzo) e di un ex giudice della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo di grande esperienza (Vladimiro Zagrebelsky). Quest’anno a cimentarsi
con i problemi sollevati dall’ordinanza della Cassazione sono stati Glauco Giostra,
autorevole processualpenalista e tra i principali studiosi di ordinamento
penitenziario, e Marco Ruotolo, raffinato costituzionalista che, tra i primi, ha
affrontato con gli strumenti della nostra disciplina i problemi della pena e della
sua esecuzione. Entrambi, peraltro, già membri del Comitato di esperti per
predisporre le linee di azione degli "Stati generali sull'esecuzione penale" chiamati
– nel 2015 – a concepire “la riforma della riforma” penitenziaria del 1975.
Siamo, insomma, di fronte a una sorta di quadratura del cerchio: in pratica, a
Ferrara si sono succeduti relatori di tutte le discipline più direttamente coinvolte
dalle criticità costituzionali del c.d. ergastolo ostativo, i quali hanno avuto così
modo di fornirci le loro ricostruzioni (e possibili soluzioni).
È quindi assai significativo che - al netto di talune sfumature spesso scaturite
dalla diversa prospettiva da cui ciascuno di essi ha approcciato il problema - le
loro prese di posizione si siano rivelate sostanzialmente convergenti. Tutti,
insomma, si sono trovati d’accordo. È stato così l’anno scorso – non a torto, stando
al giudicato costituzionale della sent. n. 253/2019 – ed è accaduto anche
quest’anno: vedremo, dunque, se l’esito sarà in linea con le aspettative e –
soprattutto – con le argomentazioni esposte dai nostri relatori, che hanno altresì
trovato ampia eco nel dibattito ferrarese che ne è seguito.
***
Come per tutti gli appuntamenti di Amicus curiae, anche quest’anno sono stati
caricati nel nostro sito tutti i materiali giurisprudenziali e parlamentari utili per
inquadrare al meglio la quaestio, per esaminarne i dettagli e per prevederne – per
chi vorrà cimentarsi in questo “gioco” – gli esiti.
Segnaliamo in particolare – nella sezione dedicata alla documentazione
processuale – la fruibilità dei cinque amici curiae inoltrati alla cancelleria di
Palazzo della Consulta, ai sensi dell’art. 4-ter delle nuove Norme Integrative per i
giudizi davanti alla Corte costituzionale. Vedremo se e quali saranno ritenuti
Prefazione
XIII
ammissibili dal suo Presidente, sentito il giudice relatore della causa. In ogni caso,
il nostro sito fin d’ora ne assicura alla comunità scientifica l’integrale
conoscibilità, a tutto vantaggio di un dibattito informato. Come sempre, abbiamo
inoltre già caricato la videoregistrazione del Seminario, fruibile pure nel sito di
Radio Radicale (www.radioradicale.it) che, anche quest’anno, ha attentamente e
pazientemente seguito i nostri lavori.
L’invito rivolto a tutti è, dunque, di trascorrere qualche minuto tra le “pagine”
rinnovate di www.amicuscuriae.it.
Sul piano della partecipazione, infine, il Seminario non è uscito penalizzato
dalle forzate modalità “in remoto”, imposte dalla pandemia ancora in corso.
Nonostante la lontananza coatta e il format tecnologico – inedito per gli
appuntamenti ferraresi, tradizionalmente caratterizzati da scambi d’opinione
vivaci, ancorché sempre rispettosi – le adesioni sono letteralmente fioccate. Gli
iscritti sono stati ben 220 e solo per motivi tecnici - dovuti alla “sostenibilità” della
piattaforma che ci ospitava - non abbiamo potuto andare in overbooking,
accettando l’iscrizione di almeno un’altra quarantina d’interlocutori. Peccato: se
il prossimo anno saremo ancora costretti al supporto tecnologico, vedremo di
eliminare questo fastidioso inconveniente. Nel frattempo, confidiamo nella
comprensione degli esclusi ai quali – pur non avendo colpe – chiediamo scusa. A
parziale rimedio, diversi tra loro hanno comunque accolto il nostro invito a
contribuire agli atti dell’incontro, inviandoci ex post un proprio intervento scritto.
***
Quanto alla dinamica dell’incontro, essa ha ricalcato le forme e i ritmi già ben
oliati che abbiamo via via forgiato in questa quasi ventennale attività seminariale
“preventiva”, a cominciare dalla condivisione preliminare – attraverso il sito - di
una Traccia di discussione, particolarmente ricca di domande a risposte aperte, a
tratteggiare i principali problemi posti dall’atto di promovimento in esame. Due
ampie relazioni di poco più di mezz’ora seguite poi dagli interventi dei partecipanti,
da contenere tra i sette e i dieci minuti, a pena della ghigliottina del moderatore.
Ciò, come sempre, ha conferito vivacità, immediatezza e chiarezza all’esposizione
e all’illustrazione delle tesi di ciascuno. All’ampio dibattito hanno poi fatto seguito
le repliche dei relatori, i quali hanno tirato le fila della ricca discussione,
concentrandosi sugli snodi giuridici più sensibili emersi nel corso della giornata.
Affinché tutto ciò non vada perduto o non sia limitato alla sua sola
videoregistrazione, vengono, ora, pubblicati questi Atti. Essi ospitano non soltanto
la versione definitiva delle due relazioni introduttive e degli interventi di chi ha
preso la parola durante il Seminario, ma anche i contributi di chi, stimolato proprio
da quanto ascoltato durante la giornata di studi, ha successivamente maturato una
propria posizione in merito.
Il tutto, ci pare, va a comporre un volume che restituisce ai lettori una
riflessione plurale e palpitante.
***
XIV
Prefazione
Sono tanti i soggetti da ringraziare per l’aiuto e il sostegno che ci hanno
generosamente offerto, rendendo possibile il nostro Seminario preventivo on-line.
Senz’altro il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara,
rappresentato in forma non rituale dal suo Direttore Daniele Negri,
processualpenalista particolarmente attento ai temi affrontati in queste ultime due
edizioni di Amicus Curiae. E poi il Centro Studi Giuridici Europei sulla Grande
Criminalità - Macrocrimes, costituito presso il Dipartimento ferrarese,
rappresentato dalla sua Direttrice Serena Forlati, che – come lo scorso anno – ha
incluso Amicus Curiae tra le proprie iniziative scientifiche d’eccellenza.
Sul piano tecnologico, molto dobbiamo al supporto di Se@unife – in
particolare ad Andrea Trevisani – che ha garantito il versante audio-video
dell’iniziativa, e soprattutto a Silvia Pellino, che ha allestito e progressivamente
aggiornato il sito di Amicus curiae nelle pagine dedicate all’appuntamento di
quest’anno, dopo averne curato l’intero restyling l’anno scorso.
Come sempre rimane valido l’auspicio, che sin dagli esordi è il vero
propellente dei nostri seminari preventivi: che quanto elaborato dalla riflessione
interdisciplinare, dialettica e mai ingessata, di studiosi attenti al tema di volta in
volta in esame, possa tornare variamente utile alla Corte costituzionale allorché
dovrà prendere la propria impegnativa decisione. E così pure ai giudici, agli
avvocati, ai parlamentari, agli studiosi e a tutti coloro che si cimenteranno
nell’analisi della pronuncia che verrà o ne dovranno gestire – comunque sia – il
seguito.
Noi abbiamo fatto la nostra parte e, guardando agli esiti qui riprodotti,
possiamo ritenerci soddisfatti. Ora non ci resta che attendere.
Paolo Veronesi
DOCUMENTAZIONE
[Tutti i documenti sono consultabili nel sito
dei nuovi Seminari “preventivi” ferraresi,
all’indirizzo www.amicuscuriae.it]
ATTO DI PROMOVIMENTO
Corte di Cassazione, Sez. I penale, ordinanza 3-18 giugno 2020
(r.o. n. 100 del 2020)
AMICUS CURIAE
Amicus Curiae inoltrato alla cancelleria della Corte costituzionale da Antigone
Amicus Curiae inoltrato alla cancelleria della Corte costituzionale dal Garante
Nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale
Amicus Curiae inoltrato alla cancelleria della Corte costituzionale da L’Altro
Diritto ODV
Amicus Curiae inoltrato alla cancelleria della Corte costituzionale da Macrocrimes
- Centro studi giuridici europei sulla grande criminalità
Amicus Curiae inoltrato alla cancelleria della Corte costituzionale da Nessuno
Tocchi Caino
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
Corte EDU, Prima Sezione, Viola c. Italia n°2, ricorso n°77633/16, sentenza 13
giugno 2019, def. 5 ottobre 2019 (versione italiana)
GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE
In tema di ergastolo comune e liberazione condizionale:
Sent. n. 204/1974
Sent. n. 264/1974
Sent. n. 274/1983
XVI
Documentazione
Sent. n. 161/1997
Sent. n. 418/1998
In tema di ergastolo ai minorenni:
Sent. n. 168/1994
In tema di ergastolo ostativo e liberazione condizionale:
Ord. n. 359/2001
Sent. n. 135/2003
Sent. n. 149/2018
In tema di reati ostativi e preclusioni penitenziarie:
Sent. n. 39/1994
Sent. n. 361/1994
Sent. n. 450/1998
Sent. n. 237/2001
Sent. n. 76/2014
Sent. n. 239/2014
Sent. n. 174/2018
Sent. n. 229/2019
Sent. n. 253/2019
Sent. n. 263/2019
In tema di reati ostativi e collaborazione inesigibile:
Sent. n. 306/1993
Sent. n. 357/1994
Sent. n. 68/1995
Sent. n. 504/1995
Sent. n. 445/1997
Sent. n. 89/1999
Sent. n. 137/1999
Sent. n. 257/2006
Sent. n. 79/2007
In tema di discrezionalità legislativa nella selezione dei reati ostativi:
Sent. n. 188/2019
Sent. n. 32/2020
Ord. n. 49/2020
Sent. n. 52/2020
GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
Manifesta infondatezza della quaestio:
Sez. I pen., 7-28 novembre 2012, n. 45978, Musumeci
Documentazione
XVII
Sez. I pen., 4 marzo 2014, n. 18206, Grassonelli
Sez. I pen., 20 marzo-17 luglio 2015, n. 31203, Papalia
Sez. I pen., 22 marzo-1 luglio 2016, n. 27149, Viola
Sez. I pen., 17 gennaio-16 febbraio 2017, n. 7428, Pesce
Giurisprudenza citata nella sentenza costituzionale n. 253/2019:
Sez. I pen., 13 aprile-12 maggio 1992, n. 1639, Giampaolo
Sez. I pen., 24 gennaio-12 ottobre 2017, n. 47044, Sorice
Sez. I pen., 16 aprile-8 luglio 2019, n. 29869, Lamberti
Sez. I pen., 27 giugno-13 agosto 2019, n. 36057, Biondolillo
Seguito giurisprudenziale della sentenza costituzionale n. 253/2019:
Sez. I pen., 14-27 gennaio 2020, n. 3307, P.G.
Sez. I pen., 28 gennaio-12 febbraio 2020, n. 5553, Grasso
Sez. I pen., 21 febbraio 2020, n. 12554, Torrisi
Sez. I pen., 21 febbraio 2020, n. 12555, Guglielmino
TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI FIRENZE
Ordinanza n. 3341/2020, emessa il 29 ottobre 2020
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA
Relazione sull’istituto di cui all’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 in materia
di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253
del 2019 della Corte costituzionale
(approvata nella seduta del 20 maggio 2020, relatori: sen. Grasso e dep. Ascari)
TRACCIA PER LA DISCUSSIONE
[In neretto sono indicati i documenti scaricabili
dal sito www.amicuscuriae.it]
La genesi della quaestio
1.1. In data 3-18 giugno 2020 la Corte di Cassazione, I sez. penale, Pres.
Mazzei, Est. Santalucia, ha promosso questione incidentale alla Corte
costituzionale dubitando della legittimità degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della
legge n. 354 del 1975, e dell’art. 2 del decreto legge n. 152 del 1991, conv. con
modificazioni in legge n. 203 del 1991, in riferimento agli artt. 3, 27 e 117 della
Costituzione.
Le disposizioni impugnate, nel loro combinato disposto, sarebbero
incostituzionali «nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per
delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen.
ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non
abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione
condizionale».
1.2. Il ricorrente in Cassazione è un affiliato alla criminalità organizzata, non
collaborante con la giustizia (ex art. 58-ter, comma 1, ord. penit.), cui più volte è
stata respinta l’istanza volta ad accertarne la collaborazione impossibile (ex art. 4bis, comma 1-bis, ord. penit.), condannato all’ergastolo per un delitto incluso nella
categoria di reati cc.dd. ostativi alla concessione di benefici penitenziari (ex art. 4bis, comma 1, ord. penit.).
La sua richiesta di accesso alla liberazione condizionale è stata dichiarata
inammissibile dal Tribunale di sorveglianza de L’Aquila. Contro tale ordinanza ha
proposto ricorso in Cassazione.
1.3. Tra detenzione effettiva e riduzione di pena a titolo di liberazione
anticipata, il ricorrente ha fin qui espiato oltre ventisette anni di carcere, superando
così il termine minimo (ventisei anni) richiesto dall’art. 176 cod. pen. perché il
condannato a vita possa accedere alla liberazione condizionale.
Impregiudicato l’altro requisito previsto all’art. 176 cod. pen. (il «sicuro
ravvedimento» del reo), la richiesta di liberazione condizionale è in limine
inammissibile, trattandosi di ergastolano “ostativo” non collaborante.
1.4. È esattamente della legittimità costituzionale di tale preclusione assoluta
che il giudice a quo dubita. In particolare, «il dubbio di costituzionalità trova causa
nel convincimento che la collaborazione non può essere elevata ad indice esclusivo
dell’assenza di ogni legame con l’ambiente criminale di appartenenza e che, di
conseguenza, altri elementi possono in concreto essere validi e inequivoci indici
dell’assenza di detti legami e quindi di pericolosità sociale».
Diversamente, il dispositivo legislativo impugnato si sostanzia in
un’irragionevole compressione dei principi costituzionali di individualizzazione,
XX
Traccia per la discussione
progressività del trattamento e risocializzazione delle pene.
Una quaestio astratta perché ipotetica?
2.1. L’inammissibilità della richiesta di liberazione condizionale – secondo il
giudice a quo - è «diretta conseguenza» dell’applicazione dell’art. 2, del decreto
legge n. 152 del 1991, conv. con modificazioni in legge n. 203 del 1991, in ragione
dell’espresso rinvio (formale: cfr. sent. n. 39/1994) ivi operato all’art. 4-bis, comma
1, ord. penit.
Tanto basta per precludere «l’apprezzamento di quanto nel merito dedotto dal
ricorrente» in ordine al proprio sicuro ravvedimento. Eventuale, dunque, sarà la
concessione della liberazione condizionale al detenuto, anche qualora la quaestio
venisse accolta. Ciò non la priva del necessario requisito della rilevanza, da
intendersi come influenza che la pronuncia costituzionale è in grado di esercitare
sull’esito del giudizio in corso?
2.2. Né l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza fatta oggetto di gravame in
Cassazione, né le prospettazioni del ricorrente offrono utili indicazioni circa le
specifiche ragioni che motivano la sua scelta di non collaborare con la giustizia.
Dunque, qualora cadesse la conditio sine qua non della collaborazione, non è detto
che il giudice di merito riconoscerà poi – in base ad altri indici - l’assenza di legami
del reo con il sodalizio criminale, quindi il venir meno della sua pericolosità sociale
e, dunque, il superamento della preclusione legislativa.
Di nuovo, ciò non rende meramente ipotetica la quaestio, non essendo affatto
certa un’influenza concreta della sua risoluzione nel giudizio principale?
2.3. Il giudice a quo, invece, valuta rilevante la questione perché, se accolta,
«il giudice di merito, a cui sarebbe devoluto il giudizio [...] dovrebbe decidere sulla
base di una diversa regola, che consentirebbe di verificare le reali ragioni della
mancata collaborazione».
In questa prospettiva, sarebbe dunque sufficiente che la disposizione censurata
sia applicabile nel giudizio principale, per rendere ammissibile la quaestio. In tal
senso, viene citata la pertinente sent. n. 253/2019, in particolare laddove vi si legge
che «il presupposto della rilevanza non si identifica con l’utilità concreta di cui le
parti in causa potrebbero beneficiare a seguito della decisione». Tanto basta per
superare i prospettati dubbi di ammissibilità per difetto di rilevanza?
Il precedente costituzionale della quaestio
3.1. La quaestio non è inedita. Nella giurisprudenza costituzionale è
rintracciabile un puntuale precedente: la sent. n. 135/2003.
Allora venne dichiarata infondata, negandosi che la preclusione discenda
automaticamente dalla disciplina censurata: l’art. 4-bis, comma 1, ord. penit.,
«subordinando l’ammissione alla liberazione condizionale alla collaborazione con
Traccia per la discussione
XXI
la giustizia, che è rimessa alla scelta del condannato, non preclude in modo
assoluto e definitivo l’accesso al beneficio». Trattasi, infatti, di una sua libera
determinazione: perché «al condannato è comunque data la possibilità di cambiare
la propria scelta», e perché ancorata a ipotesi (enucleate dalla giurisprudenza
costituzionale, ora recepite nell’art. 4-bis, comma 1-bis, ord. penit.) in cui la
collaborazione «sia naturalisticamente e giuridicamente “possibile”».
Non è dunque irragionevole – concludeva la Corte costituzionale – la scelta
legislativa di assumere una esigibile collaborazione con la giustizia a indice legale
del sicuro ravvedimento del condannato all’ergastolo.
3.2. Poggiando prevalentemente su tale precedente - ma pure sviluppando
autonomi argomenti in relazione a parametri diversi dall’art. 27, comma 3, Cost. la Cassazione, fino ad oggi, ha sempre respinto come manifestamente infondata la
quaestio ora in rilievo: ex plurimis, cfr. Sez. I pen., 7-28 novembre 2012, n. 45978,
Musumeci; Sez. I pen., 4 marzo 2014, n. 18206, Grassonelli; Sez. I pen., 20
marzo-17 luglio 2015, n. 31203, Papalia; Sez. I pen., 22 marzo-1 luglio 2016, n.
27149, Viola; Sez. I pen., 17 gennaio-16 febbraio 2017, n. 7428, Pesce.
3.3. Il giudice a quo ritiene superabile il precedente rappresentato dalla sent.
n. 135/2003 e la conseguente giurisprudenza di legittimità. A suo avviso, la
quaestio è da ritenersi non manifestamente infondata, innanzitutto, in ragione delle
«evoluzioni della giurisprudenza costituzionale».
Da un lato, mette a valore l’intero filone giurisprudenziale che – all’indomani
della legge n. 1634 del 1962 - fa del possibile accesso alla liberazione condizionale
la clausola capace di rendere compatibili ergastolo e principi di umanizzazione e
rieducazione delle pene: cfr. sent. n. 264/1974 (in tema di ergastolo comune), sent.
n. 274/1983 (in tema di ergastolo e liberazione anticipata) e, soprattutto, sent. n.
161/1997 (in tema di ergastolo e revoca della liberazione condizionale). Ne
consegue che, se «la liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della
sua esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo,
e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo» (sent. n. 161/1997), varrà
anche il reciproco, deponendo per l’incostituzionalità di preclusioni assolute al suo
accesso.
Dall’altro lato, il giudice a quo capitalizza la ratio decidendi della recente sent.
n. 253/2019 che, confermando «il carattere assoluto della presunzione di
mantenimento dei collegamenti con l’organizzazione criminale del detenuto che
non collabori», ne ha accertato l’illegittimità per violazione degli artt. 3 e 27 Cost.
(vedi, infra, §5.1).
3.4. Si tratta davvero di argomentazioni congrue e sufficienti a superare la
giurisprudenza di legittimità, fin qui unanime nel rigettare la quaestio? Valga, in
dubbio, quanto segue.
Il valorizzato filone della giurisprudenza costituzionale, incentrato sul rapporto
di coesistenza necessaria tra pena perpetua e accesso alla liberazione condizionale,
è precedente (dunque non sconosciuto) al pregresso orientamento della Cassazione,
né contraddice il carattere libero e reversibile della scelta dell’ergastolano di non
XXII
Traccia per la discussione
collaborare con la giustizia.
Quanto alla richiamata sent. n. 253/2019, vi si legge testualmente che le
censure da essa affrontate e risolte «non riguardano la legittimità costituzionale
della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo». Essa, infatti, concerne il
tema della concedibilità del permesso premio, non di altri benefici o misure
alternative, né di una causa estintiva della pena qual è la liberazione condizionale.
Il precedente convenzionale della quaestio
4.1. Esiste anche un puntuale precedente della quaestio nella giurisprudenza
europea: cfr. Corte EDU, Prima Sezione, Viola c. Italia n°2, sent. 13 giugno
2019, divenuta definitiva il 5 ottobre 2019, in ragione della dichiarata
inammissibilità del referral presentato – inutilmente – dal governo italiano alla
Grande Camera.
De jure, i giudici di Strasburgo riconoscono che «la legislazione interna non
vieta, in modo assoluto e con effetto automatico» un orizzonte di libertà al
condannato all’ergastolo ostativo, in ragione del meccanismo di una collaborazione
esigibile con la giustizia (§101). Tuttavia ritengono che, «nella sua applicazione
pratica», tale meccanismo «finisca per limitare eccessivamente la prospettiva di
rilascio dell’interessato e la possibilità per quest’ultimo di domandare il riesame
della pena» (§110).
Ciò che la Corte EDU contesta è la tenuta logico-giuridica della doppia
presunzione legislativa, di pericolosità sociale e di mancata emenda, collegata
all’assenza di collaborazione con la giustizia. La scelta del detenuto di collaborare
o meno può non essere libera, perché condizionata dal pericolo di ritorsioni anche
esiziali: il che impedisce di far discendere la mancata collaborazione «unicamente
dalla persistenza dell’adesione ai “valori criminali” e dal mantenimento di legami
con il gruppo di appartenenza» (§118). Analogamente, l’equivalenza tra
collaborazione e ravvedimento può non essere vera, potendo il condannato aiutare
le autorità «con l’unico proposito di ottenere i vantaggi previsti dalla legge»
(§119), fuori dunque da ogni autentica dissociazione o emenda. Infine,
l’equivalenza tra mancata collaborazione e presunzione assoluta di pericolosità
sociale, annulla il reo nel suo reato, «invece di tener conto del percorso di
reinserimento e degli eventuali progressi compiuti dalla condanna» (§128).
Pertanto, «questa pena perpetua non può essere qualificata come comprimibile
ai sensi dell’articolo 3 CEDU» (§137). Da qui l’accertata violazione della dignità
umana, «situata al centro del sistema creato dalla Convenzione, [che] impedisce di
privare una persona della sua libertà, senza operare al tempo stesso per il suo
reinserimento e senza fornirgli una possibilità di riguadagnare un giorno questa
libertà» (§136).
4.2. Come segnala il giudice a quo, con la sentenza Viola c. Italia n° 2 la Corte
EDU «ha preso in esame una vicenda pienamente sovrapponibile a quella oggetto
di questo procedimento».
Di più. Essa conferma una consolidata giurisprudenza dei giudici di Strasburgo
Traccia per la discussione
XXIII
(di cui l’atto di promovimento ricorda le tappe) che ammette la compatibilità
convenzionale dell’ergastolo, purché de jure e de facto riducibile: «l’esistenza,
invece, di preclusioni assolute all’accesso alla liberazione condizionale si risolve
in un trattamento inumano e degradante[…]; e ciò perché, in tal modo, il detenuto
viene privato del diritto alla speranza» (così il giudice a quo, parafrasando la
sentenza della Corte EDU, Grande Camera, Vinter e altri c. Regno Unito, 9 luglio
2013).
Da qui la scelta di porre alla Corte costituzionale «il tema della compatibilità
della normativa interna con la Convenzione, sì come interpretata dalla Corte EDU,
alla luce del parametro costituzionale dell’art. 117».
4.3. Diversamente da quanto accaduto in occasione della recente sent. n.
253/2019, la Corte costituzionale è così chiamata espressamente a scrutinare la
normativa impugnata alla luce del rispetto degli obblighi internazionali pattizi.
Quali margini di autonomia le residuano nei confronti della valutazione già
compiuta dai giudici di Strasburgo? La ricaduta domestica della violazione
convenzionale - in casi come questo - non è, automaticamente, l’incostituzionalità
della normativa impugnata?
Singolarità o continuità della quaestio?
5.1. Nell’economia dell’atto di promovimento, centrale è il richiamo alla
recente sent. n. 253/2919 assunta, unitamente alla sentenza Viola c. Italia n.° 2
della Corte EDU, a «importante banco di prova su cui verificare se possa ancora
dirsi valido il pregresso orientamento della Corte di Cassazione» contrario a
sollevare incidentalmente la quaestio.
Il giudice a quo ne riassume così la ratio decidendi: la mancata collaborazione
con la giustizia, pretesa dall’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., si traduce
illegittimamente, [1] in un aggravio delle modalità di esecuzione della pena; [2]
trasfigura, deformandolo, il diritto al silenzio che non può disconoscersi ad alcun
detenuto; [3] preclude alla magistratura di sorveglianza l’esercizio della propria
funzione istituzionale di vaglio nel merito delle richieste dei detenuti; [4] ignora i
possibili mutamenti della personalità del reo e del contesto esterno al carcere
correlati al tempo trascorso in detenzione.
Da qui la causa della dichiarata incostituzionalità: «in riferimento, dunque, alla
espiazione della pena, specie se di lunga durata, presunzioni di tal fatta non
possono che essere relative, dovendo sempre ammettersi la possibilità di una
valutazione in concreto dell’incidenza avuta dal trattamento penitenziario sulla
personalità del detenuto, proprio in conformità alle previsioni dell’art. 27, comma
3, Cost.».
Qui, ad adiuvandum, l’atto di promovimento avrebbe potuto utilmente
valorizzare anche la recente e ancor più radicale sent. n. 263/2019 secondo cui,
nell’ordinamento penitenziario minorile, non può essere lasciato spazio alcuno a
presunzioni di pericolosità di sorta, nemmeno se relative.
5.2. Nella prospettiva del giudice a quo la sent. n. 253/2019 avrebbe il suo
XXIV
Traccia per la discussione
bersaglio principale nel carattere assoluto della presunzione legislativa incapsulata
nell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., le cui ragioni di incostituzionalità varrebbero
indipendentemente dal tipo di beneficio penitenziario precluso. Muovendo da
questo assunto, contro l’identico meccanismo ostativo alla liberazione condizionale
possono estendersi «le argomentazioni contenute in detta sentenza, benché essa
abbia avuto ad oggetto soltanto – negli stretti limiti della devoluzione – il tema
della concedibilità dei permessi premio e non di altri benefici».
Davvero le argomentazioni della sent. n. 253/2019 possono valere anche per
la questione ora in esame? O, invece, quella pronuncia presenta peculiarità tali da
non giustificare l’estensione della sua ratio decidendi alla quaestio ora
all’attenzione della Corte costituzionale?
5.3. La prima peculiarità – già ricordata supra, §3.4 – è la preliminare
affermazione fatta dai giudici costituzionali nel definire «correttamente» il thema
decidendum e i termini delle questioni di legittimità costituzionale allora in esame
(che non includevano l’art. 2, decreto legge n. 152 del 1991, conv. con
modificazioni nella legge n. 203 del 1991): esse «non riguardano la legittimità
costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo».
5.4. La seconda peculiarità attiene al differente statuto giuridico della
liberazione condizionale (art. 176 c.p.) rispetto a quello del permesso premio (art.
30-ter ord. penit.). Essa, infatti, non è un discrezionale beneficio penitenziario,
bensì una causa estintiva della pena che opera sul piano del diritto sostanziale, cui
il detenuto ha diritto in presenza dei requisiti di legge. La sua è una finalità
strettamente correlata al reinserimento sociale del detenuto, diversamente dal
permesso premio, l’accesso al quale è consentito principalmente per la cura di
interessi affettivi, culturali e di lavoro (e solo in via mediata riconducibile al
finalismo rieducativo delle pene). Tutto ciò si riflette sui presupposti di legge, ben
diversi, necessari per la loro concessione.
5.5. Non è un indizio della differenza tra quanto la Corte costituzionale è
chiamata ora a decidere e quanto ha già deciso nella sent. n. 253/2019, il suo
mancato ricorso alla declaratoria di illegittimità consequenziale – ex art. 27, ult.
periodo, legge n. 87 del 1953 – per estendere la rimozione dell’ostatività all’accesso
al permesso premio anche a tutti gli altri benefici preclusi (liberazione condizionale
compresa)?
Tecniche decisorie per risolvere la quaestio
6.1. La questione promossa dalla Cassazione nasce in relazione al reato
ostativo di partecipazione ad associazione di tipo mafioso e di agevolazione della
stessa. Nell’ipotesi di accoglimento della quaestio, ricalcando quanto già accaduto
con sent. n. 253/2019, è ipotizzabile il ricorso alla tecnica dell’illegittimità
consequenziale, per allargare l’accertata incostituzionalità a tutti gli altri reati
inclusi nell’elenco dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit.?
Traccia per la discussione
XXV
6.2. Nell’ipotesi di accoglimento della quaestio, è ipotizzabile il ricorso alla
tecnica dell’illegittimità consequenziale per correggere l’automatismo dell’art. 4bis, comma 1, ord. penit., in relazione a tutte le residue misure alternative precluse
al detenuto non collaborante?
Rimossa tramite giudicato costituzionale l’ostatività penitenziaria per la tappa
iniziale (il permesso premio) e per quella finale (la liberazione condizionale) del
percorso trattamentale del detenuto, non sarebbe del tutto irragionevole mantenerla
per le tappe intermedie?
6.3. Il problema di costituzionalità posto dal giudice a quo investe, nella sua
declinazione più acuta, il delicato bilanciamento tra «una scelta di politica
criminale, adottata per finalità di prevenzione generale e di sicurezza collettiva»
(sent. n. 253/2019), da un lato, e i principi di proporzione, individualizzazione e
risocializzazione della pena, dall’altro.
Spetta in primo luogo al legislatore garantirne l’equilibrio. Potrebbe la Corte
costituzionale limitarsi ad accertare l’illegittimità dell’attuale assetto normativo,
rinviandone la formale dichiarazione ad una successiva udienza, dando così un
tempo definito al Parlamento per risolvere quello che, secondo la sentenza Viola c.
Italia n°2, è «un problema strutturale» (§141) che «impone allo Stato di attuare,
di preferenza per iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione
dell’ergastolo» (§142)?
O, invece, una simile tecnica decisoria (cfr. ord. n. 207/2018 e sent. n. 249/2019
in tema di agevolazione al suicidio; ord. n. 132/2020 in tema di diffamazione a
mezzo stampa) è da ritenersi tendenzialmente inadeguata in materia di diritti e di
libertà, dove sul principio di leale collaborazione dovrebbe prevalere la natura
contro-maggioritaria del sindacato di costituzionalità delle leggi? Nel caso di
specie, infatti, la sospensione dell’udienza con suo rinvio a data certa si tradurrebbe
concretamente in un prolungamento della reclusione in carcere, sia della parte
privata del giudizio a quo, sia di tutti gli altri ergastolani “ostativi” non collaboranti
che si trovino nelle condizioni di poter chiedere (e magari ottenere) l’accesso alla
liberazione condizionale.
Il seguito giurisdizionale della quaestio
7.1. Nell’ipotesi di accoglimento della quaestio, per superare l’originaria
ostatività alla liberazione condizionale in caso di condanna all’ergastolo, saranno
sufficienti i «criteri di particolare rigore» oggi richiesti per l’accesso al permesso
premio, che il dispositivo della sent. n. 253/2019 indica nell’acquisizione di
«elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità
organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti»?
O, invece, si deve ritenere che una simile prova negativa circa l’inesistenza di
un fatto futuro, configuri un’impraticabile probatio diabolica?
7.2. Analogamente, dovrà estendersi anche il quadro probatorio rafforzato
tracciato nella sent. n. 253/2019, laddove indica l’obbligo (per la magistratura di
XXVI
Traccia per la discussione
sorveglianza) di acquisire dettagliate informazioni da parte della Procura nazionale
antimafia, della Procura distrettuale, del Comitato provinciale per l’ordine e la
sicurezza pubblica, nonché l’onere (per il detenuto richiedente) di «specifiche
allegazioni» se non di «veri e propri elementi di prova» a sostegno della sua
richiesta?
O, invece, e quanto meno per l’aggravio probatorio posto a carico del detenuto,
si deve ritenere necessario un apposito intervento legislativo? Quella inversione
probatoria, non presente nel dispositivo della sent. n. 253/2019 ma solo nella sua
motivazione, davvero può considerarsi incluso nel relativo giudicato costituzionale,
dunque capace di imporsi erga omnes e con effetti ex tunc?
7.3. A seguito della sent. n. 253/2019 si è posto il problema se la disciplina
della collaborazione comunque inesigibile (ex art. 4-bis, comma 1-bis, ord. penit.)
abbia ancora o meno uno spazio applicativo: che senso avrebbe, infatti, accertare
una condizione necessaria a superare una preclusione assoluta che non è più tale?
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità oscilla tra la tesi dell’abrogazione
per incompatibilità con il giudicato costituzionale (Cassazione, I sez. pen., 14-27
gennaio 2020, n. 3307, P.G.), la tesi della non collaborazione quale tertium genus
tra collaborazione prestata e collaborazione inesigibile (Cassazione, I sez. pen., 28
gennaio-12 febbraio 2020, n. 5553, Grasso) e la tesi che reputa più confacente al
rango dei valori in gioco non arrestarsi al profilo formale della persistenza o meno
dell’interesse all’accertamento dell’inesigibilità della collaborazione, esaminando
comunque il merito della richiesta (Cassazione, I sez. pen., 21 febbraio 2020, n.
12554, Torrisi; Cassazione, I sez. pen., 21 febbraio 2020, n. 12555,
Guglielmino).
Nell’ipotesi di accoglimento della quaestio ora all’esame della Corte
costituzionale, a fortiori, il problema si riproporrà, specialmente se l’ostatività
penitenziaria venisse meno per tutti i benefici penitenziari: come risolverlo? Potrà
la sua sentenza contribuire – con un opportuno obiter dictum – a orientare
costituzionalmente la giurisprudenza oggi non univoca della Cassazione?
Il seguito legislativo della quaestio
8.1. La Commissione parlamentare antimafia, il 20 maggio scorso, ha
approvato la Relazione sull’istituto di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975,
in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla
sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale.
Il documento, pur prendendo atto – alla luce della giurisprudenza più recente
della Corte EDU e della Corte costituzionale – che «la preclusione assoluta in
mancanza di collaborazione non è più compatibile con la Costituzione e con la
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo» (§3.4), ribadisce che la presunzione
assoluta di pericolosità ex art. 4-bis, comma 1, ord. penit., «ha costituito un
meccanismo fondamentale nel processo di smantellamento delle organizzazioni
criminali» (§5). Tanto premesso, la sua trasformazione in presunzione relativa «non
può che essere supportata da nuove soluzioni normative» (§5).
Traccia per la discussione
XXVII
8.2. A tal fine, la relazione prefigura «un altro tipo di doppio binario» (§5)
nelle procedure di accertamento dei requisiti per l’ammissione del non collaborante
ai richiesti benefici penitenziari.
Per i reati associativi dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. – nel solco della sent.
n. 253/2019 - andranno acquisiti «elementi tali da escludere sia l’attualità di
collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva sia il pericolo
del ripristino di tali collegamenti», la cui congruità e specificità sono dettagliate –
in via esemplificativa – nel testo del documento. Centrale, nella verifica di tali
elementi, sarà il ruolo della Procura antimafia e antiterrorismo, e del Comitato
provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Per l’acquisizione, da parte del
giudice di sorveglianza, dei relativi pareri, si ritiene adeguato «un termine di trenta
giorni, prorogabile una sola volta».
Per tutti gli altri reati non associativi inclusi nell’art. 4-bis, comma 1, ord.
penit., ai fini della concessione del beneficio richiesto andrà valutata «l’attualità
della pericolosità sociale del condannato e i rischi connessi ad un reinserimento
nella società». A tal fine, si dovrà prevedere l’acquisizione dei pareri del
procuratore della Repubblica e del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica
competenti. La conseguente valutazione del magistrato di sorveglianza dovrà
basarsi su «nuovi elementi», esemplificativamente indicati nel testo del documento.
Per entrambe le categorie di delitti, la concessione del beneficio andrà
condizionata anche all’«adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato
[…], salvo che il condannato istante dimostri di trovarsi nell’impossibilità di
adempierle».
8.3. La relazione, inoltre, avanza due soluzioni alternative per la riforma delle
regole sulla competenza a concedere i benefici richiesti.
Una prima ipotesi – in analogia a quanto già previsto dall’art. 41-bis, comma
2-quinquies, ord. penit. – prevede «una giurisdizione esclusiva in capo al tribunale
di sorveglianza di Roma», ovviando così al rischio di orientamenti giurisprudenziali
eterogenei e difformi pur in situazioni identiche o analoghe. Varie sono le soluzioni
prospettate per l’eventuale reclamo giurisdizionale, compresa la sua esclusione a
favore di un «ricorso in Cassazione per saltum».
Una seconda ipotesi introduce un ulteriore «doppio binario», differenziando la
competenza in base alla tipologia dei reati:
[a] per quelli associativi, di mafia e di criminalità organizzata, eversiva o
terroristica e per traffico di stupefacenti, la competenza andrà attribuita «al
tribunale di sorveglianza territoriale», assicurando così una valutazione collegiale,
assunta peraltro in udienza partecipata dalla pubblica accusa. Anche in questo caso
sono diverse le soluzioni prospettate per l’eventuale reclamo giurisdizionale, non
esclusa quella di un «ricorso in Cassazione per saltum».
[b] per gli altri reati di natura monosoggettiva previsti all’art. 4-bis, comma 1,
ord. penit., «rimarrebbe ferma l’attuale competenza del magistrato di sorveglianza
con reclamo al tribunale di sorveglianza territorialmente competente».
8.4. Il nuovo assetto così prefigurato dalla Commissione varrà anche nei casi
di collaborazione inesigibile o irrilevante: tutte le ipotesi di mancata collaborazione
XXVIII
Traccia per la discussione
con la giustizia verrebbero così sottoposte a identico regime. L’ipotesi di
collaborazione con la giustizia, invece, viene confermata «sia quale condizione
“privilegiata” di accesso ai benefici sia ai fini di quanto previsto dall’art. 58-ter,
ord. penit.».
In ultimo, la Commissione sottolinea l’opportunità di coordinare l’art. 4-bis,
ord penit., «con l’aggiunta del beneficio della liberazione condizionale»: par di
capire, dunque, che non si escluda la possibilità di una sua concessione anche
nell’ipotesi (ora al vaglio della Corte costituzionale) di non collaborazione
dell’ergastolano con la giustizia.
8.5. Il nuovo assetto ordinamentale così configurato può dirsi adeguato alle
indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza costituzionale e convenzionale, maturate
in tema di ostatività penitenziaria?
In particolare, l’introduzione in corso d’opera di oneri dimostrativi rafforzati
anche in caso di collaborazione inesigibile (più gravosi di quelli oggi richiesti ex
art. 4-bis, comma 1-bis, ord. penit.) non contraddice quanto deciso dalla Corte
costituzionale, con sent. n. 32/2020, circa il divieto di applicazione retroattiva per
le norme penitenziarie idonee a trasformare, in peius, la natura della pena e ad
incidere concretamente sulla libertà personale?
La caratura ordinamentale della quaestio
9.1. L’ordinamento prevede diverse tipologie di ergastolo, molte delle quali nel
tempo sono venute meno, per intervento del Giudice delle leggi o del Legislatore:
è accaduto all’ergastolo per i minori (sent. n. 168/1994), al c.d. ergastolo bianco
per gli internati negli ospedali psichiatrici giudiziari (decreto legge n. 52 del 2014,
conv. con modificazioni dalla legge n. 81 del 2014), all’ergastolo ostativo aggravato
per i sequestratori-omicidi (sent. n. 149/2018). Quanto all’ergastolo comune, esso
ha perso la sua natura di pena perpetua in ragione del possibile accesso del
condannato alla liberazione condizionale tramite provvedimento giurisdizionale
(sentt. nn. 204 e 264/1974).
La quaestio ora all’esame della Corte costituzionale crea le condizioni per il
superamento dell’ultima, effettiva, forma residua di carcere a vita, cioè di pena fino
alla morte. Ciò non consentirebbe un allineamento con la scelta costituzionale di
ripudiare la morte come pena, espressa inequivocabilmente dal riformato art. 27,
comma 4, Cost.?
L’ERGASTOLO OSTATIVO È COSTITUZIONALE?
RELAZIONE INTRODUTTIVA
di MARCO RUOTOLO
SOMMARIO: 1. L’ergastolo ostativo al vaglio della Corte costituzionale: i termini della
questione – 2. La specifica vicenda oggetto del giudizio a quo – 3. Gli effetti preclusivi
della mancata collaborazione – 4. Un primo profilo (superabile) di possibile
inammissibilità della questione, connesso al petitum dell’ordinanza di rimessione. - 5.
Una questione astratta o “coperta” da specifico precedente? – 6. Verso l’accoglimento
della questione: la possibile applicazione della ratio decidendi della sent. n. 253/2019
– 7. Incursus: la particolare posizione dei condannati in regime di 41-bis – 8. Da una
presunzione assoluta a una presunzione “semi-assoluta”? – 9. Una soluzione
compatibile con la giurisprudenza di Strasburgo? – 10. Una possibile alternativa
decisoria, per consentire l’intervento del legislatore – 11. Tra collaborazione,
ravvedimento e rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata. Le aporie
dell’attuale sistema – 12. L’incostituzionalità della «pena di morte diluita giorno per
giorno».
1. Ringrazio per l’invito gli organizzatori del Seminario preventivo ferrarese,
dedicato alla questione di legittimità costituzionale sollevata il 18 giugno 2020 dalla
Corte di Cassazione, I sezione penale, avente per oggetto il c.d. ergastolo ostativo1.
È un’occasione (l’ennesima) per riflettere su temi a me cari, che eviterò di sfruttare
per riproporre considerazioni di sistema già offerte in diversi scritti2. Queste
resteranno sullo sfondo, riemergendo solo parzialmente nella parte del mio lavoro
dedicata al merito della questione. Penso, così, di poter rispondere in modo più
adeguato a quanto mi è stato chiesto: offrire una riflessione introduttiva al nostro
Seminario, saldamente ancorata alla specifica questione di legittimità costituzionale
e perimetrata attorno alle argomentazioni offerte dalla Cassazione.
L’oggetto della questione riguarda la norma emergente dal concorso di più
disposizioni (artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 2
del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni nella legge
12 luglio 1991, n. 203), che, per l’ipotesi di mancata collaborazione con la giustizia,
preclude l’accesso alla liberazione condizionale del condannato all’ergastolo per
uno dei delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod.
Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Roma Tre.
L’ordinanza di rimessione, pubblicata in G.U. 19 agosto 2020, n. 34, è iscritta al n. 100 del
registro ordinanze del 2020 della Corte costituzionale.
2
Mi limito a richiamare M. RUOTOLO, Diritti dei detenuti e Costituzione, Giappichelli, Torino
2002, e ID., Dignità e carcere, II ed., Editoriale Scientifica, Napoli 2014. Aggiungo, per il fatto di
riferirsi specificamente alla giurisprudenza costituzionale riguardante i diritti nell’esecuzione
penale, la relazione che ho svolto in occasione del Convegno organizzato dalla Corte costituzionale
per la celebrazione dei sessant’anni della sua attività: M. RUOTOLO, Tra integrazione e maieutica:
Corte costituzionale e diritti dei detenuti, in CORTE COSTITUZIONALE, Per i sessanta anni della Corte
costituzionale, Atti del Convegno svolto in Roma, nei Palazzi del Quirinale e della Consulta, il 19 e
20 maggio del 2016, Giuffrè, Milano 2017, 527 ss. (la relazione è disponibile anche nella Rivista
della Associazione Italiana dei Costituzionalisti, www.rivistaaic.it).
1
2
Marco Ruotolo
pen. (metodo mafioso) ovvero al fine di agevolare le attività delle associazioni in
esso previste. Tale norma violerebbe, secondo il rimettente, gli artt. 3 e 27, terzo
comma, Cost. per la «irragionevole compressione dei principi di
individualizzazione e di progressività del trattamento», nonché l’art. 117, primo
comma, Cost., in quanto contrastante con l’“obbligo internazionale” di cui all’art.
3 CEDU (divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti), poiché la
presunzione assoluta di pericolosità ancorata alla mancanza di collaborazione
sarebbe d’ostacolo alla possibilità di riscatto del condannato, così assoggettato ad
una pena “immutabile” e dunque non effettivamente riducibile, come invece
richiesto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (in particolare nella sentenza
Viola contro Italia n. 2, 13 giugno 2019, divenuta definitiva il 7 ottobre 2019).
2. Il giudizio a quo è originato dal ricorso in cassazione contro l’ordinanza del
Tribunale di sorveglianza de L’Aquila che ha dichiarato inammissibile la richiesta
di accesso alla liberazione condizionale presentata da un condannato all’ergastolo
per delitto incluso nella categoria dei reati “ostativi” alla concessione dei benefici
penitenziari (ex art. 4-bis, comma 1, legge n. 354 del 1975), non collaborante con
la giustizia (art. 58-ter, comma 1, legge n. 354 del 1975), che in precedenza si è
visto più volte respingere l’istanza rivolta ad accertare la collaborazione impossibile
(ex art. 4-bis, comma 1-bis, legge n. 354 del 1975). Nel ricorso in cassazione si
lamenta l’illegittimità del provvedimento impugnato, non avendo il giudice
considerato le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza sovranazionale,
«secondo cui il difetto di collaborazione non può essere elevato ad indice
invincibile di pericolosità sociale».
Il Tribunale di sorveglianza de L’Aquila, peraltro respingendo l’istanza di parte
rivolta alla sollevazione della questione di costituzionalità, non ha esaminato nel
merito la richiesta del detenuto, tendente a mettere in rilievo la proficua
partecipazione al percorso rieducativo, proprio in ragione della presenza di due
preclusioni: quella che deriva dalle precedenti decisioni di inammissibilità
dell’istanza di accertamento di impossibilità/inesigibilità della collaborazione e
quella, appunto, derivante dall’applicazione della norma censurata, che non
consente l’apprezzamento di quanto dedotto dal ricorrente, in ragione della natura
del delitto oggetto della condanna in esecuzione e del requisito necessario della
collaborazione con la giustizia (o, in sua vece, dell’impossibilità o inesigibilità della
stessa). Ciò nonostante, al momento della decisione impugnata nel giudizio a quo,
fosse decorso il termine minimo di ventisei anni, imposto dall’art. 176 cod. pen.,
per l’accesso alla liberazione condizionale di un condannato all’ergastolo, che nel
caso di specie ha subito 19 anni, 9 mesi e 26 giorni di reclusione, cui si aggiungono
2655 giorni per liberazione anticipata, ormai computati nel periodo di pena espiata
(per un totale di più di 27 anni)3.
3
Ciò a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale del divieto di ammettere i
condannati all’ergastolo al godimento degli “sconti di pena” consentiti dal predetto istituto (sent. n.
274/1983 della Corte costituzionale, cui ha fatto seguito l’inserimento di specifica previsione in tal
senso nel comma 4 dell’art. 54 della legge n. 354 del 1975, ad opera dell’art. 18 della legge 10
ottobre 1986, n. 663).
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
3
Per completezza, occorre ricordare che il ricorrente nel giudizio a quo sta
espiando la pena dell’ergastolo in forza di un provvedimento di cumulo in cui sono
comprese tre sentenze di condanna per i seguenti reati: omicidio, tentato omicidio,
detenzione e porto illegale di armi, anche clandestine, lesioni personali e rapina
aggravata (prima condanna ad anni trenta di reclusione); partecipazione ad
un’associazione di tipo mafioso (seconda condanna ad anni cinque e mesi quattro
di reclusione); omicidio aggravato ai sensi dell’art. 7 della legge n. 203 del 1991
(metodo mafioso o agevolazione di associazioni di tipo mafioso) e delitti
concernenti la violazione delle disposizioni sulle armi (terza condanna all’ergastolo
con isolamento diurno per anni uno). Proprio l’ultima pronuncia – afferma il giudice
a quo – «assume esclusivo rilievo nella vicenda in esame», avendo inflitto la pena
dell’ergastolo per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni di cui all’art.
416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso
previste, secondo la formula utilizzata dall’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354
del 1975.
L’ergastolo ostativo interessa complessivamente ben 1271 persone detenute
per reati inclusi nel predetto art. 4-bis, ossia il 71% degli attuali 1800 condannati
alla pena dell’ergastolo4.
3. Entro questa cornice deve essere collocata la questione di legittimità
costituzionale, rivolta a “far saltare” la preclusione che in caso di mancata
collaborazione impedisce di valutare “altri elementi concreti” che possano
dimostrare l’assenza di legami attuali del detenuto con la criminalità organizzata,
consentendo dunque una diversa valutazione prognostica sull’assenza di
pericolosità sociale. Ai fini della liberazione condizionale, l’art. 176 cod. pen.
richiede, tra l’altro, un accertamento giudiziale circa il «sicuro ravvedimento» del
condannato, che si traduce nel riscontro in concreto di importanti traguardi
4
Dati aggiornati al 1° settembre 2020, forniti dal Garante nazionale dei diritti delle persone
detenute o private della libertà personale nel suo Amicus Curiae depositato l’8 settembre 2020 presso
la Corte costituzionale e reperibile all’indirizzo www.amicuscuriae.it. I numeri (e la relativa
percentuale) potrebbero scendere ove si consolidasse l’orientamento giurisprudenziale, di recente
inaugurato dal Tribunale di sorveglianza di Firenze con l’ordinanza 3 novembre 2020, n. 3341,
secondo il quale la preclusione esaminata non opera ove i fatti per i quali si è subita sentenza di
condanna siano stati commessi antecedentemente alla normativa che l’ha introdotta (così
valorizzando un’affermazione contenuta nella sent. n. 32/2020 della Corte costituzionale, in quanto
anche le norme disciplinanti l’esecuzione della pena, ove determinanti una trasformazione della pena
o incidenti sulla libertà personale, sarebbero soggette al principio di irretroattività di cui all’art. 25,
secondo comma, Cost.). Nel caso di specie, riguardante un condannato “ostativo”, “non collaborante
per scelta”, per fatti commessi nel 1990 (dunque prima dell’introduzione del requisito della
collaborazione con la giustizia nel testo dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, operato con l’art.
15, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni nella legge 7
agosto 1992, n. 356), la liberazione condizionale è stata così concessa in ragione del rilevato “sicuro
ravvedimento”, «considerata l’irreprensibile condotta, la piena revisione critica del fatto, il buon
esito dei permessi premio, usufruiti per lungo tempo anche nei luoghi di origine di commissione dei
reati, l’attuale fruizione regolare di semilibertà e, infine, la natura e il tipo del percorso esterno
elaborato dagli operatori penitenziari». Su tale vicenda vedi, in questo stesso volume, M. PASSIONE,
La pena è nota. (A proposito di un’innovativa ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Firenze).
4
Marco Ruotolo
trattamentali, che consentano «il motivato apprezzamento della convinta revisione
critica delle scelte criminali di vita anteatta e la formulazione – in termini di
certezza, ovvero di elevata e qualificata probabilità confinante con la certezza – di
un serio, affidabile e ragionevole giudizio prognostico di pragmatica
conformazione della futura condotta di vita del condannato al quadro di riferimento
ordinamentale e sociale, con cui egli entrò in conflitto con la commissione dei reati
per i quali ebbe a subire la sanzione penale»5. Valutazione, questa, che è in limine
impedita per l’ergastolano ostativo.
La preclusione assoluta collegata alla mancata collaborazione non opera, in
base alla disciplina vigente, per le ipotesi in cui la collaborazione risulti
“inesigibile” (limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso),
“impossibile” (per integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato
nella sentenza di condanna), “oggettivamente irrilevante”6. Si tratta di ipotesi la cui
considerazione si è imposta a seguito di puntuali pronunce della Corte
costituzionale7, le quali si fondano sul dichiarato assunto per cui la prevista
preclusione può operare solo a fronte del rifiuto di una «collaborazione
oggettivamente esigibile», che sia, in sé, «naturalisticamente e giuridicamente
“possibile”»8. Solo successivamente il legislatore le ha espressamente contemplate,
modificando sul punto l’art. 4-bis della legge n. 354 del 19759.
4. Diversi sono i profili che meritano di essere trattati nella mia introduzione,
seguendo anche i punti indicati nella traccia per la discussione messa a disposizione
dagli organizzatori del Seminario10. Cercherò di affrontarli con particolare
attenzione ad ogni loro implicazione, come è d’obbligo per una questione così
delicata. Nella convinzione che ogni parola pesi sempre per il giurista, non soltanto
per i giudici costituzionali chiamati a scrivere sentenze, ma pure per chi si appresta
a svolgere una relazione o a redigere un articolo di dottrina. È un peso che va
enfatizzato quale comune responsabilità del giurista, serio e coscienzioso, lasciando
da parte il dato dell’ovvia diversità delle funzioni.
L’esame della questione richiede una preliminare trattazione degli aspetti che
interessano la sua ammissibilità.
Il primo profilo di possibile inammissibilità interessa la specifica posizione del
detenuto ricorrente nel giudizio a quo e si lega al petitum della questione di
5
Così Cass. pen., Sez. I: sent. 24 aprile 2007, n. 18022; sent. 4 febbraio 2009, n. 9001; sent.
17 luglio 2012, n. 34946.
6
Sempre che, in tal caso, siano state applicate circostanze attenuanti, in ragione della
riparazione del danno o del compimento di azioni rivolte ad attenuare le conseguenze dannose o
pericolose del reato ovvero perché l’opera prestata ha avuto minima importanza nella preparazione
o esecuzione del reato ovvero in quanto il delitto commesso sia stato diverso da quello voluto da
uno dei concorrenti.
7
Sentt. nn. 306/1993, 357/1994, 68/1995.
8
Corte cost., sent. n. 89 del 1999.
9
Dapprima con intervento sul comma 1, operato con l’art. 1 della legge 23 dicembre 2002, n.
279, poi con l’inserimento di un apposito comma 1-bis, introdotto dall’art. 3, comma 1, del decretolegge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni nella legge 23 aprile 2009, n. 38.
10
La traccia, disponibile sul sito www.amicuscuriae.it, è pubblicata anche in questo volume.
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
5
legittimità costituzionale, limitato all’ipotesi della esclusione dell’accesso alla
liberazione condizionale per il condannato per delitti commessi con metodo mafioso
o al fine di agevolare le associazioni previste nell’art. 416-bis cod. pen. Come già
ricordato, il detenuto ha subito un cumulo di pene, che comprendono anche reati di
cui all’art. 416-bis cod. pen. (partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso).
Al riguardo, potrebbe ritenersi, diversamente da quanto affermato dal giudice a quo,
che non assuma «esclusivo rilievo nella vicenda in esame» la condanna
all’ergastolo per il reato di omicidio aggravato dal metodo mafioso o dal fine di
agevolare l’associazione di tipo mafioso, ma che debba essere considerata anche la
condizione di “partecipe” al consesso criminale che emerge (almeno) dalla seconda
sentenza di condanna oggetto di cumulo (come avviene quando si debba valutare la
richiesta di collaborazione inesigibile o impossibile)11. Vero è che l’eventuale
accoglimento della questione permetterebbe di fuoriuscire dall’ambito della
collaborazione inesigibile o impossibile consentendo l’esame dell’istanza del
detenuto nella qualità di “non collaborante per scelta”, ma ciò, si potrebbe ritenere,
a condizione che questi sia stato condannato esclusivamente per delitti commessi
con metodo mafioso o al fine di agevolare le associazioni previste nell’art. 416-bis
cod. pen. Fuori da questo perimetro, la dichiarazione di incostituzionalità, in quanto
delimitata dal petitum del giudice a quo, non sarebbe idonea a rimuovere l’attuale
ostacolo normativo all’ottenimento della liberazione condizionale (o meglio
all’esame della relativa istanza). Ecco, probabilmente, perché, come si evince
dall’ordinanza di rimessione, il ricorrente aveva prudenzialmente richiesto al
giudice di sorveglianza di sollevare la questione di legittimità costituzionale in
termini più ampi, riferiti alla stessa norma censurata, ma nella parte in cui, in
assenza di collaborazione, «non consente alla magistratura di sorveglianza di
valutare la ricorrenza dei presupposti per la concedibilità della liberazione
condizionale in favore dei condannati per reati rientranti nel catalogo di cui all’art.
4-bis, comma 1, l. n. 354 del 1975»12.
Quanto sin qui illustrato potrebbe tradursi nell’affermazione dell’assenza di
rilevanza della questione, poiché la decisione nel merito della Corte non sarebbe in
grado di influire sul giudizio a quo. Si tratta, però, di un ostacolo superabile ove si
riconosca rilievo esclusivo alla terza condanna subita dal detenuto (per il reato di
omicidio aggravato ai sensi dell’art. 7 della legge n. 203 del 1991) e dunque al fatto
che le pene irrogate con le altre due pronunce comprese nel cumulo siano state
ormai integralmente espiate, come i tempi indicati lasciano presagire (la prima
decisione è del 1988 ed è divenuta irrevocabile nel 1989) e secondo quanto il
rimettente asserisce sulla base di specifico richiamo ad una pronuncia del Tribunale
di sorveglianza de L’Aquila del 14 maggio 2013. Tale superamento si giustifica
ulteriormente in ragione della esigenza, già manifestata dalla Corte costituzionale,
11
Ai fini dell’accertamento della inesigibilità o impossibilità della collaborazione, la
Cassazione ha più volte ritenuto, infatti, che debbano considerarsi tutti i reati rientranti nel cumulo,
anche quelli non ostativi ma ad essi finalisticamente connessi: tra le altre, Cass. pen., Sez. I, sent. 3
ottobre 2014, n. 43391, sent. 3 maggio 2016, n. 44163 e, più di recente, sent. 25 maggio 2020, n.
18866.
12
Ho riportato testualmente quanto compreso all’inizio del Considerato in diritto
dell’ordinanza di rimessione.
6
Marco Ruotolo
per cui la disciplina del cumulo delle pene non può «mai risolversi in un danno per
il condannato»; «ove determinati effetti penali negativi fossero collegati alle singole
pene e non fossero altrimenti determinabili se non in rapporto ad una loro autonoma
e distinta valutazione», le pene dovrebbero «riacquistare la loro individualità,
previo scioglimento temporaneo e parziale del cumulo»13. Il che assume particolare
rilievo con riguardo alla concessione dei benefici penitenziari14, tanto è vero che
ove si debba espiare una pena inflitta anche per un reato ostativo alla loro fruizione,
la pena espiata va imputata anzitutto ad esso15.
Di qui la possibilità di considerare in via esclusiva, come affermato dal giudice
a quo, la sola terza condanna, sui contenuti della quale è definito il petitum
dell’odierna questione di legittimità costituzionale.
5. Ove si ritenga di superare l’ostacolo appena individuato, meno consistente
sarebbe il più generico rilievo circa il fatto che l’eventuale decisione di
accoglimento non determinerebbe, automaticamente, la concessione della
liberazione condizionale a favore del detenuto ricorrente in cassazione. L’influenza
della decisione della Corte costituzionale per la risoluzione del giudizio principale
deve, infatti, essere apprezzata con riguardo al fatto che si restituisce al giudice la
possibilità di valutare il percorso rieducativo del condannato, come elemento che
può rilevare, in concorso con altri, ai fini della concessione della misura, pur in
assenza di collaborazione. Sono confortato sul punto dalla recente sentenza n.
253/2019, riguardante la possibilità di concedere permessi premio ai condannati per
reati ostativi, ove la Corte afferma perentoriamente, richiamando tra l’altro la sent.
n. 170/2019, che, «per l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale
sollevate in via incidentale, è sufficiente che la disposizione censurata sia
applicabile nel giudizio a quo, senza che rilevino gli effetti di una eventuale
pronuncia di illegittimità costituzionale per le parti in causa». Di là dall’utilità
concreta di cui la parte in causa potrebbe beneficiare a seguito della decisione,
l’eventuale accoglimento della questione «influirebbe di certo sul percorso
argomentativo che il rimettente dovrebbe a questo punto seguire per decidere sulla
richiesta del detenuto»16, proprio in ragione del fatto che verrebbe meno la norma
13
Sent. n. 361/1994.
V., ad es., Cass. pen., Sez. I, sent. 18 marzo 2009, n. 15954, e, già, Cass., Sezioni Unite, sent.
30 giugno 1999, n. 14.
15
In sostanza, in applicazione del principio dello scioglimento del cumulo, la parte di pena
espiata (comprensiva di quella subita a titolo cautelare e dei giorni di liberazione anticipata che siano
stati maturati) va attribuita ai reati ostativi alla concessione del beneficio richiesto (c.d. scorporo).
Cfr. Cass. pen., Sez. I: sent. 22 marzo 1999, n. 613; sent. 14 novembre 2001, n. 45735; sent. 12
giugno 2006, n. 14563. Nel nostro sistema è prevista una specifica eccezione normativa al principio
dello scioglimento del cumulo (il che conferma, indirettamente, come lo stesso, ancorché di
creazione giurisprudenziale, abbia ormai assunto valenza di principio generale): esclusivamente al
fine dell’applicazione del regime della sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario,
l’art. 41-bis, comma 2, della legge n. 354 del 1975, stabilisce, infatti, che, «in caso di unificazione
di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, la sospensione può essere
disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati
nell’articolo 4-bis».
16
Come si legge nella sent. n. 253/2019; si veda, già, sent. n. 148/1983.
14
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
7
che predetermina l’esito del processo, nel senso dell’inammissibilità della richiesta
di accesso alla liberazione condizionale da parte del condannato non collaborante.
Non ritengo poi preclusiva ad un esame nel merito della questione la presenza
di una precedente decisione di infondatezza riguardante lo stesso tema, peraltro
limitata al parametro dell’art. 27, terzo comma, Cost. Nella sent. n. 135/2003 la
Corte ritenne, infatti, la questione infondata, valorizzando l’elemento della “scelta”
del condannato nella decisione di non collaborare con la giustizia, la quale può
cambiare nel tempo. Tale precedente non appare insuperabile anche in ragione delle
successive evoluzioni giurisprudenziali, tra le quali possono senz’altro essere
annoverate: la citata sentenza n. 253/2019, che ha “scardinato” il requisito
dell’esercizio dell’utile collaborazione quale condizione imprescindibile
(necessaria, sia pure non sufficiente) per l’accesso al permesso premio a favore dei
condannati, a pena perpetua o temporanea, per reati ostativi17; la richiamata
sentenza Viola della Corte EDU, che subordina la compatibilità convenzionale della
normativa nazionale alla condizione che l’ergastolo sia pena de iure e de facto
riducibile, perciò qualificando le preclusioni assolute all’accesso alla liberazione
condizionale quali forme di trattamento inumano e degradante. Ma il discorso
potrebbe estendersi e comprendere altre pronunce sia della Corte costituzionale sia
della Corte EDU18, che hanno condotto ad una decisa valorizzazione dell’obiettivo
della risocializzazione del condannato come componente necessaria
dell’esecuzione della pena dell’ergastolo. Basti ricordare la sentenza della Grande
Camera della Corte EDU del 9 luglio 2013, Vinter e altri contro Regno Unito, nella
quale si indica come obbligo per gli Stati membri quello di consentire sempre che
il condannato alla pena perpetua possa espiare la propria colpa, reinserendosi nella
società dopo aver scontato una parte della propria pena, o la sent. n. 149/2018 della
Corte costituzionale, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale
dell’art. 58-quater, comma 4, legge n. 354 del 1975, nella parte in cui prevede che
i condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 cod. pen. (sequestro di
persona a scopo di estorsione), che abbiano cagionato la morte del sequestrato, non
possano essere ammessi ai “benefici” penitenziari, se non abbiano espiato almeno
ventisei anni di pena19. Tale rigida preclusione temporale è ritenuta incompatibile
con l’esigenza di assicurare «progressività trattamentale e flessibilità»20, che
17
Analoga preclusione è stata poi rimossa integralmente a favore dei condannati minorenni a
pena temporanea dalla sent. n. 263/2019, non potendo esprimersi, neppure in forma “relativa”, con
riguardo sia ai benefici penitenziari sia alle misure alternative; si ricordi che per effetto della sent.
n. 168/1994 è vietata l’applicazione della pena dell’ergastolo al minore imputabile.
18
Per un’analisi della giurisprudenza rilevante della Corte EDU si veda, in particolare, V.
ZAGREBELSKY, La pena detentiva «fino alla fine» e la Convenzione europea dei diritti umani e delle
libertà fondamentali, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le
sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti, Atti del Seminario di Ferrara del 27 settembre
2019, in Forum dei Quaderni Costituzionali – Rassegna, 10/2019 (www.forumcostituzionale.it), 15
ss.
19
Nella sent. n. 149/2018 la dichiarazione di illegittimità costituzionale è stata estesa, in via
consequenziale, alla fattispecie di sequestro di persona a scopo di terrorismo e di eversione. Con la
successiva sent. n. 229/2019, la Corte ha adottato analoga decisione per tutte le richiamate fattispecie
anche con riguardo ai condannati a pene detentive temporanee.
20
Secondo quanto già affermato nella sent. n. 255/2006.
8
Marco Ruotolo
discende dai principi di proporzione e individualizzazione della pena21: «la
personalità del condannato – scrive la Corte nella sent. n. 149/2018 – non resta
segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più
orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile
cambiamento». A venire in gioco è senz’altro «la responsabilità individuale del
condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato
e di ricostruzione della propria personalità», ma pure una «correlativa responsabilità
della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche
attraverso la previsione da parte del legislatore – e la concreta concessione da parte
del giudice – di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta
al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il
reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella
società». Come si usa dire, “in carcere entra la persona e non il reato che ha
commesso” o, come ha affermato di recente il Garante nazionale delle persone
private della libertà personale, «si va in carcere perché si è puniti e non per essere
puniti»22.
Per sintetizzare e chiudere questa parte dedicata ai profili preliminari, mi
sentirei di escludere che la questione possa dirsi astratta o ipotetica, in ragione
dell’affermata influenza che un’eventuale pronuncia di accoglimento avrebbe sul
giudizio a quo, che si tradurrebbe presumibilmente nella cassazione con rinvio del
provvedimento del magistrato di sorveglianza, affinché questi valuti in concreto le
ragioni che hanno condotto il condannato alla scelta di non collaborare e tutti gli
elementi che possano risultare utili per decidere in ordine alla concessione o meno
della liberazione condizionale.
Quanto al precedente rigetto, si rendono necessarie due osservazioni, una
formale e l’altra, a mio avviso più consistente, per così dire sostanziale.
Sotto il profilo formale, occorre sottolineare che le questioni sono tecnicamente
diverse. A venire in rilievo nella questione decisa con la sent. n. 135/2003 era il
solo parametro dell’art. 27, terzo comma, Cost., lamentandosi l’esclusione
permanente dal processo rieducativo dell’ergastolano ostativo. Oggi, invece, il
parametro dell’art. 27 è posto in connessione con l’art. 3 Cost., lamentandosi la
«irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e di progressività
del trattamento». A venire in rilievo è poi anche l’art. 117, primo comma, Cost.,
lamentandosi la violazione di un preciso “obbligo internazionale”, quale quello
contenuto nell’art. 3 CEDU, per come interpretato dalla Corte EDU. Ebbene, non
mancano precedenti, anche recenti, di pronunce di accoglimento che hanno seguito
decisioni di non fondatezza (addirittura di manifesta infondatezza) in ragione della
variazione del parametro, anche quando la “sostanza” della questione non fosse
radicalmente mutata. Un esempio per tutti lo traggo dalla sent. n. 236/2016, in tema
di dosimetria della pena per i delitti di alterazione di stato, che fa seguito a
un’ordinanza di manifesta infondatezza, la n. 106/2007, riguardante il medesimo
21
Nella sent. n. 149/2018 la Corte ricorda il proprio orientamento che indica «come criterio
“costituzionalmente vincolante” quello che esclude “rigidi automatismi e richiede sia resa possibile
invece una valutazione individualizzata e caso per caso” nella materia dei benefici penitenziari
(sentenza n. 436 del 1999)».
22
Relazione al Parlamento 2020, disponibile sul sito www.garantenazionaleprivatiliberta.it
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
9
oggetto. Con la questione più risalente si lamentava che la pena comminata per il
reato di cui all’art. 567, secondo comma, cod. pen., fosse irragionevolmente più
elevata di quella prevista per il reato di cui al primo comma del medesimo articolo,
evocando come parametro il solo art. 3 Cost. La Corte rispose nel senso della
manifesta infondatezza, affermando che «le fattispecie descritte dal primo comma
(scambio di neonati senza commettere alcun falso) e dal secondo comma (falsa
attestazione all’ufficiale dello stato civile in ordine alla identità dei genitori del
neonato) dell’art. 567 del codice penale sono oggettivamente diverse perché,
seppure in entrambe è tutelato il medesimo bene giuridico (l’interesse del minore
alla verità dell’attestazione ufficiale della propria ascendenza), nel caso del primo
comma la condotta consiste in uno scambio materiale di neonati, mentre la
fattispecie prevista dal secondo comma si realizza mediante la commissione di altro
reato (quello di falso ideologico, che non concorre con quello di alterazione di
stato), rivelando una più intensa carica criminosa, di tal che il principio di
eguaglianza appare rispettato, avendo il legislatore trattato, dal punto di vista
sanzionatorio, situazioni diverse in modo diverso». A nove anni di distanza, la
questione è stata accolta con una pronuncia sostitutiva che ha previsto per il reato
di cui all’art. 567, secondo comma, cod. pen., la stessa pena edittale sancita per il
delitto di cui al primo comma. Tale diverso esito è stato formalmente giustificato
dalla Corte in ragione del fatto che il giudice a quo ha «richiesto uno scrutinio di
costituzionalità imperniato sulla manifesta irragionevolezza intrinseca della
risposta sanzionatoria stabilita dalla norma censurata, sotto il profilo della
proporzionalità tra severità della cornice edittale e disvalore della condotta, con
ulteriore riferimento alla vanificazione, determinata dall’entità eccessiva della
sanzione, della finalizzazione rieducativa della pena, ai sensi dell’art. 27 Cost.». Si
potrebbe dire che, pur invertendo i numeri degli articoli richiamati, il risultato non
debba cambiare: nella prima vicenda è l’art. 27, terzo comma, che si aggiunge
all’art. 3 Cost.; nell’attuale è l’art. 3 (oltre, come detto, l’art. 117, primo comma)
che si aggiunge all’art. 27, terzo comma, Cost.
Sotto il profilo, per così dire, sostanziale, ben può dirsi mutato il contesto entro
il quale l’attuale questione si inserisce, senza che il precedente rigetto, di oltre
quindici anni fa, sia ragione sufficiente per una decisione di manifesta infondatezza.
Ma anche – è doveroso aggiungerlo – senza che i più immediati precedenti, interni
ed europei, rendano la soluzione dell’accoglimento inevitabile.
Da un lato, la sent. n. 253/2019 riguarda esclusivamente la questione dei
permessi premio e non interessa, dunque, il problema della possibile trasformazione
della pena perpetua de iure in una pena perpetua anche de facto, che è proprio della
disciplina relativa all’ergastolo ostativo, come la Corte stessa precisa all’inizio della
motivazione della propria decisione.
Dall’altro lato, la decisione sul caso Viola non è sentenza “pilota”, né pronuncia
di Grande Camera della Corte EDU, potendosi dubitare che i suoi contenuti rilevino
come “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea. Vero è che nella
predetta decisione si indica quale dovere incombente sullo Stato italiano, ai sensi
dell’art. 46 CEDU, una riforma del regime di reclusione a vita che garantisca la
possibilità del riesame della pena. Ciò non vale, però, a qualificare la decisione
10
Marco Ruotolo
come sentenza “pilota”, con la quale, osservando una particolare procedura23, non
si individua soltanto il problema strutturale (tipicamente oggetto di plurimi ricorsi)
che il caso presenta, ma si indicano le misure più idonee che lo Stato deve adottare
per porvi rimedio. Né la sentenza Viola è stata assunta dalla Grande Camera, pur
essendo divenuta definitiva il 7 ottobre 2019, proprio a seguito della decisione del
Collegio di cinque giudici di non accogliere la richiesta di rinvio alla Grande
Camera formulata dal Governo italiano. Tale decisione potrebbe intendersi in
diversi modi. Secondo quanto si legge nell’Amicus Curiae dell’Organizzazione di
Volontariato “L’Altro Diritto”, sarebbe «chiaro indicatore che la sentenza del caso
Viola è conforme alla giurisprudenza consolidata della Corte» («quando una
sentenza di Camera si discosta in modo significativo dalla giurisprudenza
precedente, il Collegio accoglie il rinvio, mentre non sono rinviate alla Grande
Camera le sentenze che comportano una “normale” applicazione delle
interpretazioni consolidate»). Insomma, come si legge anche nell’Amicus Curiae
dell’Associazione “Nessuno Tocchi Caino”, la decisione di non rinviare la
questione alla Grande Camera, avendo reso definitiva la sentenza Viola,
consentirebbe di considerare la stessa «espressione di un orientamento consolidato
del giudice sovranazionale», come tale vincolante per il giudice italiano, che dovrà
adeguare ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto
alla legge interna, secondo le indicazioni emergenti dalla sent. n. 49/2015 della
Corte costituzionale24. La pronuncia appena citata della Corte costituzionale è
quella in cui si legge che «è solo un “diritto consolidato”, generato dalla
giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del
proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte
di pronunce che non siano espressive di un orientamento ormai divenuto
definitivo»25. Ebbene, si potrebbe anche ritenere, in modo opposto rispetto a quanto
sopra argomentato, che la decisione di non rinviare alla Grande Camera sia piuttosto
indicatrice della volontà di non consolidare, immediatamente, il diritto generato
dalla sentenza Viola, in attesa di un probabile, prossimo, pronunciamento della
Corte costituzionale sul medesimo tema. Ciò al fine di poter tenere in
considerazione – in un’eventuale, successiva, pronuncia di Grande Camera e nella
prospettiva della valorizzazione del dialogo tra le Corti – le argomentazioni offerte
dai giudici costituzionali italiani.
Allo stato attuale, la Corte costituzionale potrebbe, insomma, nella sua
autonomia di giudizio, ritenere di nuovo la questione infondata, valorizzando
ancora le esigenze di politica criminale (in particolare di natura investigativa26) che
sono a fondamento del rilievo attribuito alla “scelta” di collaborare, ma,
23
2001.
Disciplinata dall’art. 61 del Regolamento della Corte EDU, entrato in vigore il 21 febbraio
24
Gli Amici curiae richiamati nel testo sono reperibili in apposita sezione del sito
www.amicuscuriae.it
25
In linea anche le successive ord. n. 187/2015 e sent. n. 43/2018.
26
Esigenze alle quali la disciplina dell’art. 4-bis attribuisce rilievo senz’altro preminente, come
riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale nella sent. n. 239/2014, ove peraltro si ribadiscono le
preoccupazioni per la «tendenza alla configurazione normativa di “tipi di autore”, individuati sulla
base del titolo astratto del reato commesso, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o
potrebbe non essere perseguita” (sent. n. 306/1993)».
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
11
presumibilmente, accompagnando il rigetto con un monito rivolto al legislatore
affinché quell’orizzonte di libertà al condannato non vietato de iure dalla nostra
legislazione in modo assoluto e con effetto automatico (come riconosciuto dalla
Corte EDU nella sentenza Viola) sia reso de facto tale da non «limitare
eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità per
quest’ultimo di domandare il riesame della pena» (come di nuovo si legge nella
citata sentenza Viola). Seguendo analogo percorso argomentativo, la Corte potrebbe
addirittura pervenire ad una decisione di inammissibilità, anche questa
accompagnata presumibilmente da un monito al legislatore, in quanto la questione
coinvolgerebbe «scelte di politica criminale», ossia un settore «caratterizzato […]
da una discrezionalità del legislatore particolarmente ampia riguardo al
bilanciamento dei diversi interessi contrapposti»27. Si tratterebbe, però, di
pronuncia in contro tendenza rispetto al più recente orientamento giurisprudenziale,
contrassegnato dall’ispirazione a «una sempre maggiore garanzia della libertà
personale e dei principi costituzionali che delineano il “volto costituzionale del
sistema penale”»28, che ha condotto a una dilatazione del controllo di
costituzionalità anche in tale ambito29. Ad ogni modo, entrambe le soluzioni, oltre
a presentare profili di incoerenza rispetto alla ratio decidendi della sent. n.
253/2019, si tradurrebbero in una sorta di “incostituzionalità accertata ma non
dichiarata” o “non dichiarabile”30, con rimessione al legislatore del compito di
27
Sent. n. 223/2015. In questa decisione, la Corte ha dichiarato inammissibile una questione
di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 24, primo
comma, Cost., sull’art. 649, primo comma, cod. pen., nella parte in cui esclude la punibilità dei
congiunti della persona offesa dal reato in taluni reati contro il patrimonio. Nonostante avesse
riconosciuto «l’obsolescenza che la disposizione in esame ormai sconta», la Corte non ne fa
conseguire l’incostituzionalità, in quanto sono «prospettabili una molteplicità di alternative,
costituzionalmente compatibili, idonee ad evitare che prevalga sempre e comunque, per determinate
figure parentali, la soluzione dell’impunità, anche contro la volontà della vittima e anche quando
non vi sia, nel concreto, alcuna coesione da difendere per il nucleo familiare». Non a caso questa
decisione è stata commentata in dottrina con un titolo davvero eloquente: R. PINARDI, La questione
è fondata, anzi è inammissibile (ovvero: la Corte e la natura incidentale del suo giudizio), in Giur.
Cost., 2015, 2081 ss. Va sottolineato che, ad oltre cinque anni dal “monito” contenuto nella sent. n.
223/2015, il legislatore non è ancora intervenuto.
28
Sent. n. 179 del 2017.
29
Non è un caso che molte delle recenti pronunce nelle quali il limite della discrezionalità del
legislatore è stato ritenuto meno stringente dalla Corte, con conseguente attenuazione del vincolo
delle c.d. rime obbligate e ricorso a decisioni manipolative (v. nota 41), abbiano riguardato i
trattamenti sanzionatori o comunque disposizioni concernenti l’esecuzione della pena (sentt. nn.
236/2016, 222/2018, 40 e 99/2019, 113/2020). Peraltro, sembra dirimente osservare come la Corte
costituzionale non abbia accolto l’eccezione di inammissibilità formulata dall’Avvocatura generale
dello Stato in occasione dell’esame della questione decisa con la citata sent. n. 253/2019. Ciò
nonostante la difesa erariale avesse sottolineato come la previsione della collaborazione con la
giustizia quale condizione per l’accesso ai permessi premio fosse una «scelta discrezionale del
legislatore connessa a valutazioni di politica criminale» e che pertanto «la disciplina censurata
riguarderebbe “scelte di opportunità in materia di politica penitenziaria”, su cui la Corte
costituzionale non potrebbe incidere, rientrando esse nella discrezionalità riservata al legislatore,
ove non esercitata in modo arbitrario».
30
Tale ultima qualificazione servirebbe a descrivere un’eventuale pronuncia di inammissibilità
fondata – sulla falsariga della sent. n. 223/2015 – sulla presunta esistenza di «una molteplicità di
alternative, costituzionalmente compatibili». Ma una possibilità del genere pare da escludersi nel
12
Marco Ruotolo
definire in concreto le condizioni che consentano l’accesso alla liberazione
condizionale per l’ipotesi di non collaborazione, sull’assunto per cui quest’ultima,
dal punto di vista della valutazione del percorso trattamentale, resti indice, sia pure
non inconfutabile, di una mancata revisione critica del proprio passato criminale.
Non sono questi gli esiti che auspico. Né ritengo che un indizio per un possibile
rigetto possa trarsi dal mancato impiego dell’istituto dell’illegittimità
consequenziale nella sent. n. 253/2019, ossia nel fatto che la Corte non abbia esteso
la rimozione dell’ostatività all’accesso al permesso premio anche alla liberazione
condizionale. Diverso è, infatti, lo statuto giuridico degli istituti in esame, pur
essendo presenti comuni elementi “funzionali”: il permesso premio è considerato,
propriamente, “modalità di trattamento”, la cui esperienza è parte integrante del
programma rieducativo che deve essere seguita da funzionari giuridico-pedagogici
in collaborazione con gli operatori sociali del territorio (art. 58-ter, comma 2, della
legge n. 354 del 1975), di cui si valorizza la specifica «funzionalità […] alla finalità
di graduale reinserimento del condannato nella società»31; la liberazione
condizionale – salvo revoca dovuta a condotta del soggetto che, in relazione alla
condanna subita, sia incompatibile con il mantenimento del beneficio32 – è, invece,
causa estintiva della pena che opera sul piano del diritto sostanziale (artt. 176 e 177
cod. pen.), pure se l’istituto può essere considerato «funzionalmente analogo alle
misure alternative alla detenzione, essendo anch’esso finalizzato a consentire il
graduale reinserimento del condannato nella società»33. Nonostante tali diversità,
caso di specie, in quanto sembrano esservi «grandezze già rinvenibili nell’ordinamento», individuate
peraltro nella sent. n. 253/2019, che consentirebbero di “sostituire” la presunzione assoluta prevista
dalla norma censurata con una presunzione relativa. Non sembra dunque possibile affermare che ci
si trovi qui di fronte ad uno “spazio vuoto di diritto costituzionale”, che richiede l’imprescindibile
(e dunque non sostituibile) intervento del legislatore, «quale interprete della volontà della
collettività», come la Corte ha di recente sostenuto nella decisione con la quale ha dichiarato
l’inammissibilità della questione riguardante la preclusione della possibilità per persone dello stesso
sesso, unite civilmente, di essere registrate quali genitori del figlio nato in Italia e concepito
all’estero con ricorso alla procreazione medicalmente assistita (sent. n. 230/2020).
31
Corte cost., sent. n. 113/2020 e già sent. n. 235/1996.
32
Corte cost, sent. n. 418/1998, che ha così “sostituito” l’automatica revoca prevista dall’art.
177, primo comma, cod. pen., per l’ipotesi di commissione di reato della stessa indole nei cinque
anni successivi.
33
Corte cost., sent. n. 32/2020 (seguita poi da sent. n. 193/2020). Si tratta di una decisione di
grande rilievo, nella quale, partendo dalla considerazione per cui le misure alternative alla
detenzione sono «misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena» (sent.
n. 349/1993), si giunge alla generale affermazione per cui la loro collocazione “topografica” (nel
codice di procedura penale e non nel codice penale) non può dirsi decisiva ai fini dell’individuazione
del relativo statuto costituzionale di garanzia. In particolare, la Corte nega la persistente
compatibilità con i principi costituzionali del «diritto vivente», per il quale «le norme disciplinanti
l’esecuzione della pena» sono «in radice sottratte al divieto di applicazione retroattiva che discende
dal principio di legalità della pena». Ciò anche in considerazione della giurisprudenza della Corte
EDU per cui «le modifiche alle norme sull’esecuzione della pena non sono soggette al divieto di
applicazione retroattiva di cui all’art. 7 CEDU, eccezion fatta – però – per quelle che determinino
una “ridefinizione o modificazione della portata applicativa della ‘pena’ imposta dal giudice”»
(sentenza della Grande Camera 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna), nonché della
giurisprudenza di altre Corti e della legislazione di altri Paesi (puntualmente citate nella sent. n.
32/2020) che si sono conformate agli indirizzi della Corte di Strasburgo. La «complessiva
rivalutazione della tematica» porta il giudice delle leggi a «concludere nel senso che, di regola, le
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
13
analoga potrebbe essere – anche in ragione della presenza dei rilevati, comuni,
elementi “funzionali” – la ratio decidendi a sostegno di un eventuale accoglimento
della questione oggi sottoposta all’esame della Corte. Vediamo ora in che modo e
in quali termini questo potrebbe accadere.
6. Proprio partendo dalla ratio decidendi della sent. n. 253/2019 si potrebbe
pervenire all’accoglimento dell’odierna questione per violazione degli artt. 3 e 27,
terzo comma, Cost., forse anche con estensione, in via consequenziale, della
dichiarazione di illegittimità costituzionale agli altri reati inclusi nell’art. 4-bis,
comma 1, della legge n. 354 del 197534, dunque oltre l’attuale perimetro dei delitti
commessi avvalendosi del metodo mafioso o per agevolare associazioni di tipo
mafioso35.
pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione,
salvo però che tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una
trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale. In questa ipotesi,
l’applicazione retroattiva di una tale legge è incompatibile con l’art. 25, secondo comma, Cost.». Su
questa linea, propensa a considerare le norme esecutive come norme sostanziali in quanto incidenti
sui modi di privazione della libertà personale, si era già espresso, oltre cinquant’anni fa, F. BRICOLA,
L’intervento del giudice nell’esecuzione delle pene detentive: profili giurisdizionali e profili
amministrativi, in Indice pen., 1969, 279, rilevando, tra l’altro, che la necessaria connessione tra
l’art. 25, secondo comma, e l’art. 27, terzo comma, Cost. «postula un adeguamento dell’esecuzione
alla personalità del singolo reo o la necessaria trasformazione di essa in un “trattamento progressivo”
insuscettibile di puntuale determinazione legislativa». La posizione dell’Autore è più ampiamente
espressa nel commento all’Art. 25, secondo comma, Cost., in G. BRANCA (a cura di), Commentario
alla Costituzione, Zanichelli, Bologna 1981, 231 ss. Proprio sulla base della sent. n. 32 del 2020
della Corte costituzionale, il Tribunale di sorveglianza di Firenze, nella ricordata ordinanza 3
novembre 2020, n. 3341, ha ritenuto di poter concedere la liberazione condizionale a un condannato
“ostativo”, “non collaborante per scelta”, poiché i fatti oggetto di sanzione penale erano stati
commessi prima della introduzione della specifica preclusione. Ciò in quanto dalla giurisprudenza
costituzionale (sentt. nn. 20 e 193/2020) si ricaverebbe ormai «il principio di irretroattività delle
norme penali incriminatrici anche in relazione alle norme disciplinanti l’esecuzione penale quando
queste ultime abbiano natura giuridica più sostanziale che procedurale».
34
Si tratta degli ormai molti delitti, considerati di “prima fascia” per la loro particolare gravità,
in rapporto ai quali la collaborazione con la giustizia (laddove sia valutata come possibile e rilevante)
è considerata condizione per l’accesso ai benefici penitenziari. Agli originari delitti di criminalità
organizzata di stampo mafioso e poi anche di matrice terroristica, si affiancano oggi, nel citato art.
4-bis, comma 1, reati di diversa natura, da quelli a carattere sessuale al sequestro di persona a scopo
di estorsione, dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina all’associazione finalizzata al
traffico di stupefacenti, fino ad alcuni delitti contro la pubblica amministrazione.
35
Seguendo la linea percorsa proprio nella sent. n. 253/2019, in quel caso a partire
dall’intervento parzialmente ablatorio realizzato sui reati di associazione mafiosa e di “contesto
mafioso”, esteso all’identica disciplina dettata dallo stesso art. 4-bis, comma 1, per tutti gli altri
delitti in esso indicati: «la mancata estensione a tutti i reati previsti dal primo comma dell’art. 4-bis,
ordin. penit. dell’intervento compiuto dalla presente sentenza sui reati di associazione mafiosa e di
“contesto mafioso” finirebbe per compromettere la stessa coerenza intrinseca dell’intera disciplina
di risulta». Peraltro, secondo quanto propone Glauco Giostra nella sua relazione al presente
Seminario (ID., Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? Spunti per una discussione,
in questo volume, §4), l’illegittimità costituzionale consequenziale non dovrebbe essere solo di tipo
“orizzontale”, interessando i vari reati compresi nel citato art. 4-bis, comma 1, ma anche di tipo
“verticale”, facendo cadere l’imprescindibilità della collaborazione ai fini della liberazione
condizionale non solo con rispetto alla pena dell’ergastolo, ma anche con riguardo alla pena
14
Marco Ruotolo
Proverò di seguito a ragionare come se tale estensione del perimetro della
questione sia seguita dalla Corte, fermo restando che le mie considerazioni ben
potranno considerarsi ristrette, in caso contrario, alla sola posizione di coloro che
siano condannati per reati commessi avvalendosi del metodo mafioso o al fine di
agevolare le associazioni mafiose. Mi ispirerò, insomma, alla filosofia dell’Als Ob,
proposta in un noto libro del filosofo neokantiano Vaihinger36, anche per non
costringere le mie riflessioni in un perimetro troppo ristretto, nella convinzione che,
se non sarà già questa l’occasione, non ne mancherà una prossima nella quale la
Corte sarà chiamata a decidere sulla concedibilità della liberazione condizionale in
favore di tutti i condannati all’ergastolo per reati rientranti nel catalogo di cui all’art.
4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975.
La mancata collaborazione con la giustizia non può ragionevolmente radicare
la presunzione assoluta circa il permanente collegamento con l’organizzazione
criminale e dunque circa la perdurante pericolosità del condannato, determinando
in limine l’inammissibilità della sua richiesta di accedere alla liberazione
condizionale. Ciò che è irragionevole non è, in sé, la presunzione del mantenimento
dei collegamenti con l’organizzazione criminale da parte del condannato non
collaborante, quanto il fatto che essa «non possa essere vinta da prova contraria».
Dunque la sua assolutezza, in ragione delle «sue conseguenze afflittive ulteriori»,
dell’impossibilità di «valutare il percorso carcerario del condannato», «di una
specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di
sorveglianza». Tali affermazioni, contenute nella sent. n. 253/2019, ben potrebbero
porsi a sostegno di una pronuncia rivolta a trasformare la presunzione in esame da
assoluta in relativa, superabile dunque da prova contraria. È qui, però, come nella
appena richiamata sentenza, che si gioca molto circa la reale portata di un eventuale
accoglimento.
È da ritenere che, anche nel nostro caso, la presunzione potrà essere
contraddetta solo «a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di
allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto». Se questo è stato
affermato nella sent. n. 253/2019 per la concessione dei permessi premio, non potrà
che essere ribadito ove si ritenga di dover superare l’ostatività alla liberazione
condizionale, sembrando realisticamente lontana l’ipotesi di una loro differente
considerazione fondata sulla diversità ontologica degli istituti, dopo aver
temporanea. Occorre ribadire che l’art. 4-bis comprende, ormai, per effetto di successivi interventi
legislativi fattispecie penali assai eterogenee, essendo divenuto, come ancora sottolinea Giostra, una
sorta di «contenitore di raccolta indifferenziata in cui il legislatore “getta” i reati demagogicamente
più â la page senza tenere nella dovuta considerazione la loro gravità, la loro struttura e il loro profilo
criminologico» (§5). In argomento si veda V. MANES, L’estensione dell’art. 4-bis ai delitti contro
la P.A.: profili di illegittimità costituzionale, in Diritto penale contemporaneo,
www.penalecontemporaneo.it, fasc. 2/2019, 108 ss., nonché, ora, la puntuale analisi offerta da V.
MANCA, Regime ostativo ai benefici penitenziari. Evoluzione del “doppio binario” e prassi
applicative, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano 2020. Sulle evoluzioni della giurisprudenza
costituzionale riguardanti le presunzioni di pericolosità di cui all’art. 4-bis (dalla sent. n. 306/1993
alla sent. n. 253/2019) si veda la lucida disamina di L. PACE, L’adeguatezza della legge e gli
automatismi. Il giudice delle leggi fra norma “astratta” e caso “concreto”, Editoriale Scientifica,
Napoli 2020, 195 ss.
36
H. VAIHINGER, La filosofia del «Come se» (1911), tr. it., Astrolabio Ubaldini, Roma 1967.
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
15
valorizzato la presenza di comuni elementi funzionali, nella prospettiva del
reinserimento sociale, per estendere alla liberazione condizionale l’apertura
effettuata per i permessi premio.
Non basterà, in altri termini, la «sola regolare condotta carceraria» o la «mera
partecipazione al percorso rieducativo» e nemmeno una «solo dichiarata
dissociazione»; sarà necessaria anche la «acquisizione di altri, congrui e specifici
elementi». Nella logica, nella motivazione e nel dispositivo della sent. n. 253/2019,
questi elementi dovranno essere «tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con
la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti». E, come
si legge nella motivazione della sentenza n. 253, di tali elementi grava sullo stesso
condannato richiedente l’onere di fare specifica allegazione37: è il detenuto a dover
dimostrare di essere una persona diversa da quella che era al momento del
commesso reato. L’apertura della Corte subisce così – come ho osservato altrove38
– un brusco contenimento, determinando una sostanziale inversione dell’onere
probatorio, ulteriormente “rafforzato” allorché la Procura nazionale antimafia e
antiterrorismo o la Procura distrettuale rilevi l’attualità di collegamenti con la
criminalità organizzata (la determinazione del magistrato di sorveglianza richiede
anche il vaglio delle relazioni della pertinente autorità penitenziaria e delle
dettagliate informazioni acquisite per il tramite del comitato provinciale per
l’ordine e la sicurezza pubblica competente). In tal caso – si legge, ancora, nella
sent. n. 253/2019 – «incombe sullo stesso detenuto non il solo onere di allegazione
37
La Corte richiama sul punto la giurisprudenza di legittimità in tema di collaborazione
impossibile o inesigibile: Cass. pen., Sez. I, sent. 12 ottobre 2017, n. 47044; sent. 8 luglio 2019, n.
29869; sent. 13 agosto 2019, n. 36057. Occorre specificare che nelle predette decisioni si fa
riferimento esclusivo all’onere probatorio gravante sul condannato rispetto alla collaborazione
impossibile o inesigibile, non già al fatto che lo stesso coinvolga la dimostrazione dell’assenza del
“pericolo del ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata”. Basti richiamare il passo di
interesse contenuto nella citata sent. n. 36057 del 2019: «in rapporto all’eventuale ricorrenza di
situazioni di impossibilità o inesigibilità della collaborazione, grava in linea di massima sul
condannato l’onere di farne specifica invocazione, unita alla prospettazione degli opportuni elementi
a sostegno dell’assunto». Com’è stato affermato da un esperto e acuto magistrato di sorveglianza,
«non sembra che tale orientamento “costante” ponga a carico del richiedente (la collaborazione
impossibile) l’onere di allegare elementi sull’assenza di pericolosità (condizione che peraltro non
spetta accertare al Tribunale in sede di procedimento ex art. 58-ter ma solo al magistrato in sede di
successiva concessione del permesso), quanto invece l’onere di allegare elementi fondanti la
richiesta di accertamento della collaborazione impossibile, cioè quei fatti utili per dimostrare
l’oggettiva impossibilità della collaborazione (integrale accertamento dei fatti, ruolo marginale nella
compagine associativa, etc.). Altra cosa è l’allegazione di elementi che attengono all’esclusione
dell’attualità dei collegamenti e, soprattutto, al pericolo di un loro ripristino e che costituisce il vero
“novum” di questa sentenza: un requisito prima non esistente, da considerare, inoltre, condizione di
ammissibilità dell’istanza stessa di permesso premio e che la Corte introduce per superare la
presunzione (relativa) dell’ostatività discendente dalla mancata collaborazione» (M. BORTOLATO, Il
futuro rientro nella società non può essere negato a chi non collabora, ma la strada è ancora lunga,
in Diritto penale e processo, 2020, 636 s.).
38
M. RUOTOLO, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019
della Corte costituzionale, in Sistema penale, www.sistemapenale.it, 12 dicembre 2019, §3, testo
dell’audizione svolta presso la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e
sulle altre associazioni criminali, anche straniere (Roma, Senato della Repubblica, 10 dicembre
2019).
16
Marco Ruotolo
degli elementi a favore, ma anche quello di fornire veri e propri elementi di prova
a sostegno»39.
La Corte costituzionale ha così introdotto un requisito, quello del «pericolo del
ripristino» dei collegamenti con la criminalità organizzata, che non era presente nel
sistema normativo, né ricavabile dalla giurisprudenza di legittimità40. Lo ha fatto
con una pronuncia additiva senz’altro priva, su questo punto, delle c.d. “rime
obbligate”41, sussistenti, semmai, nei termini della rinvenibilità della soluzione in
È evidente che tutto ciò non riguarda quei reati che, pur compresi nell’art 4-bis, comma 1,
della legge n. 354 del 1975, hanno matrice estranea alla criminalità organizzata, così come a quella
terroristica o eversiva, ovvero i delitti strutturalmente mono-soggettivi, pure ivi contemplati. Come
si legge nella motivazione della sent. n. 253/2019, non potrebbe in tali casi dimostrarsi l’«assenza
di legami con un, inesistente, sodalizio criminale di originaria appartenenza». Anche qui, dunque, il
dispositivo deve essere letto alla luce della motivazione, non potendosi ritenere che l’acquisizione
di «elementi tali da escludere non soltanto l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata,
ma anche il pericolo del ripristino di tali collegamenti» possa riferirsi, appunto, a collegamenti che
la Corte stessa afferma essere “inesistenti”. D’altra parte la redazione del dispositivo è strettamente
connessa ad una formulazione dell’art. 4-bis, comma 1, che aveva un senso quando i reati ivi previsti
si riferivano esclusivamente alla criminalità organizzata (i “nuovi”, che non hanno a che fare con
essa, sono stati inseriti in quel tessuto normativo senza alcuna revisione della sua struttura).
Insomma, come la dottrina ha già rilevato, per i reati che non prevedano collegamenti con la
criminalità organizzata deve senz’altro darsi per implicita la prova della loro assenza (così M.
PELLISSERO, Permessi premio e reati ostativi. Condizioni, limiti e potenzialità di sviluppo della sent.
253/2019 della Corte costituzionale, ne La legislazione penale, www.lalegislazionepenale.eu, 30
marzo 2020, 16, e già M. CHIAVARIO, La sentenza sui permessi premio: una pronuncia che non
merita inquadramenti unilaterali, in Osservatorio AIC, www.osservatorioaic.it, 1/2020, 222).
40
Al concetto di «pericolo» riferito, però, non al «ripristino», bensì alla «permanenza dei
collegamenti» con la criminalità organizzata, si era richiamata la Corte costituzionale in una lontana
pronuncia riguardante la diversa situazione concernente l’applicazione del regime differenziato di
cui all’art. 41-bis, comma 2, della legge n. 354 del 1975: l’adozione di tale regime, che comporta,
come si ricorderà in seguito, significative deroghe al trattamento penitenziario ordinario, non può
fondarsi astrattamente sul titolo di reato, ma, appunto, «sull’effettivo pericolo della permanenza di
collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa»
(sent. n. 376/1997). Non v’è dubbio – come chiarito nella successiva ord. n. 417/2004, riguardante
la questione delle condizioni per la proroga del regime differenziato disposta con provvedimento del
Ministro della Giustizia – che si alluda qui alla necessità di una «congrua motivazione in ordine alla
attuale esistenza del pericolo per l’ordine e la sicurezza derivante dalla persistenza dei vincoli con
la criminalità organizzata e della capacità del detenuto di mantenere contatti con essa». Peraltro –
come si legge ancora nella ord. n. 417/2004, che sul punto richiama la giurisprudenza di legittimità
– «l’inciso di cui al comma 2-bis [del richiamato art. 41-bis] (“purché non risulti che la capacità del
detenuto o dell’internato di mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive
sia venuta meno”) non comporta una inversione dell’onere della prova, in quanto rimane intatto
l’obbligo di dare congrua motivazione in ordine agli elementi da cui “risulti” che il pericolo che il
condannato abbia contatti con associazioni criminali o eversive non è venuto meno». Spetterà al
giudice, in sede di controllo giurisdizionale, «verificare in concreto – anche alla luce delle
circostanze eventualmente allegate dal detenuto – se gli elementi posti dall’amministrazione a
fondamento del provvedimento di proroga siano sufficienti a dimostrare la permanenza delle
eccezionali ragioni di ordine e sicurezza che, sole, legittimano l’adozione del regime speciale».
41
Si è tanto discusso in dottrina circa il recente atteggiamento giurisprudenziale che ha
determinato l’attenuazione del vincolo delle c.d. “rime obbligate”, in base al quale la Corte potrebbe
direttamente colmare una lacuna, con pronuncia additiva o sostitutiva, solo quando la regola da
inserire sia direttamente implicata dal testo costituzionale, non essendovi propriamente una
discrezionalità al riguardo. Le principali pronunce oggetto di riflessione – sulle quali, volendo, può
leggersi M. RUOTOLO, Corte costituzionale e legislatore, in Diritto e Società, fasc. 2020, 53 ss. –
39
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
17
previsioni già presenti nell’ordinamento42, per la sola richiesta di acquisizione di
«elementi tali da escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità
organizzata, terroristica o eversiva». La più ampia “integrazione” operata con il suo
dispositivo è dalla Corte giustificata esplicitamente in ragione della “necessità”
costituzionale di evitare che l’«interesse alla prevenzione della commissione di
nuovi reati, tutelato dallo stesso art. 4-bis ordin. penit., finisca per essere
vanificato»43. Come a dire, l’apertura ai permessi premio è compensata dalla
previsione della estensione del “regime probatorio rafforzato” all’acquisizione di
elementi riguardanti un’ipotesi prima non prevista nel sistema normativo (il
«pericolo del ripristino» dei richiamati collegamenti), la quale deve essere valutata,
secondo quanto specificato dalla Corte, «tenuto conto delle concrete circostanze
personali e ambientali».
Si potrebbe discutere, insomma, sulla sussistenza stessa dei necessari
presupposti per operare una tale “integrazione” del tessuto normativo, legata al
flebile argomento, presentato peraltro in modo apodittico, della presunta
connessione logica tra la richiesta verifica dell’assenza di attualità di rapporti del
condannato con il consesso criminale d’appartenenza e la necessità di acquisizione
di elementi che escludano il pericolo di un loro ripristino («si tratta, del resto, di
aspetto logicamente collegato al precedente», ossia alla necessità di acquisire
stringenti informazioni circa l’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità
organizzata, al fine di prevenire la commissione di nuovi reati). Ma ciò che desta
ancora maggiori perplessità sono le dichiarate e già menzionate implicazioni
sono state, però, sentenze manipolative “giustificate” ora dalla presenza di un solido e specifico
punto di riferimento normativo riguardante fattispecie analoga, ritenuto idoneo a sostenere
l’intervento sostitutivo (sent. n. 236/2016), ora dalla presenza di un precedente monito al legislatore
affinché colmasse la lacuna o comunque intervenisse per assicurare la conformità a Costituzione
della situazione normativa censurata (sentt. nn. 222/2018, 40 e 99/2019, 113/2020; in un certo senso
può rilevare qui anche la sent. n. 242/2019, sul c.d. caso Cappato, quale seguito di puntuale invito
al legislatore, operato con ordinanza collegiale di rinvio della trattazione, affinché intervenisse per
disciplinare la materia dell’aiuto al suicidio). Diversamente, nel caso della parte di addizione
contenuta nella sent. n. 253/2019, che si riferisce al «pericolo del ripristino di tali collegamenti»,
non è possibile rinvenire né un solido e specifico punto di riferimento normativo né un precedente
monito al legislatore che sia rimasto inascoltato.
42
Secondo un indirizzo chiaramente espresso nella sent. n. 40/2019, ove la soluzione
«adeguata», «benché non costituzionalmente obbligata», adottata nella specifica pronuncia
sostitutiva, è ritenuta non arbitraria poiché «si ricava da previsioni rinvenibili nell’ordinamento», la
cui estensione si propone «in modo coerente» rispetto «alla logica perseguita dal legislatore».
43
Nella logica del richiamato e recente indirizzo giurisprudenziale che ha attenuato il vincolo
delle “rime obbligate”, ritenendo sufficiente la presenza di “rime adeguate”, la “necessità”
costituzionale indicata nel testo avrebbe potuto legittimare soltanto la prima parte dell’integrazione
operata dalla Corte, che si riferisce all’acquisizione di «elementi tali da escludere l’attualità dei
collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva». Ciò in quanto tale “criterio” –
secondo quanto peraltro specificato nella sent. n. 253/2019 – è rinvenibile nell’ordinamento (per
l’accesso ai benefici nei casi in cui la collaborazione risulti inesigibile, impossibile od
oggettivamente irrilevante: art. 4-bis, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975) ed era non a caso
espressamente previsto, prima dell’introduzione del requisito della collaborazione con la giustizia,
per i reati della c.d. prima fascia (comprensivi di associazione di tipo mafioso e dei “delitti-satellite),
richiedendosi l’acquisizione di «elementi tali da escludere l’attualità dei collegamenti con la
criminalità organizzata o eversiva» (art. 1 decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge
12 luglio 1991, n. 203).
18
Marco Ruotolo
probatorie, ove riferite, appunto, alla dimostrazione dell’assenza del pericolo del
ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata. Paradossalmente,
l’effetto più “bizzarro” si determina ove non vi siano specifiche informative
negative delle autorità competenti, le quali fanno “scattare” l’onere in capo al
condannato di «fornire veri e proprio elementi di prova a sostegno», potendo
almeno in tale caso tentare contro-deduzioni rispetto alle indicazioni ivi contenute
circa il pericolo del ripristino dei predetti collegamenti. In assenza di tali
informative (o in presenza di informative generiche), le “allegazioni” che sono
richieste al condannato in cosa si potrebbero tradurre? Un conto è poter
“rispondere” a valutazioni specifiche che riguardano l’attuale assetto
dell’organizzazione criminale e la concreta probabilità di un rientro in essa del
condannato, attestate, ad esempio, da indagini di carattere socio-familiare o
patrimoniale riguardanti il detenuto oppure il suo nucleo familiare; altro è richiedere
al condannato di fornire, in un certo senso “al buio”, elementi che, in assenza di
informative negative, siano tali da “escludere” il pericolo di ripristino dei
collegamenti con la criminalità organizzata, anche perché tale materiale –
presumibilmente riguardante proprio l’attuale assetto della consorteria criminale, la
posizione giudiziaria del detenuto, il contesto socio-familiare di riferimento –
dovrebbe già essere in possesso delle autorità pubbliche competenti.
Su questo punto sarebbe auspicabile un parziale ripensamento della Corte44
che, però, come già scritto, difficilmente potrebbe fondarsi su una presunta diversità
ontologica degli istituti del permesso premio e della liberazione condizionale45.
Salvo che questa diventi la strada più semplice per non smentire un immediato
precedente46, che, con riguardo al descritto passaggio, sarebbe invece meritevole di
Ipotesi in sé assai improbabile – lo si ribadisce – proprio per la vicinanza del “precedente”
costituito dalla sent. n. 253/2019. Come ha sottolineato di recente un giudice della Corte
costituzionale – pur con riguardo al tema del controllo sulla legge elettorale politica – un precedente
vicino nel tempo e importante nella sostanza non può essere facilmente disconosciuto: «è, in effetti,
proprio la logica del precedente quella che […] conta maggiormente. La stabilità di un orientamento
giurisprudenziale non è questione secondaria, per la stessa legittimazione della Corte. Essa è più
importante delle legittime convinzioni personali e individuali» [N. ZANON, “Stagioni creative” della
giurisprudenza costituzionale? Una testimonianza (e i suoi limiti), in C. PADULA (a cura di), Una
nuova stagione creativa della Corte costituzionale, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, 362].
45
A prescindere dalla questione dell’onere di allegazione, la disciplina della concessione della
liberazione condizionale potrebbe, al contrario, più facilmente giustificare la previsione della
necessità di valutare anche il pericolo di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata
(o, meglio, come si dirà nel testo, dell’effettivo pericolo della permanenza dei collegamenti in
parola). Ciò in quanto essa presuppone non il mero “ravvedimento” – che potrebbe alludere ad una
valutazione che guardi più “al dentro” che “al fuori” del carcere – ma il «sicuro ravvedimento» (art.
176 cod. pen.), che comprende – secondo la ricordata giurisprudenza di legittimità – un giudizio
prognostico sulla elevata probabilità che la futura condotta del condannato si conformi «al quadro
di riferimento ordinamentale e sociale, con cui egli entrò in conflitto con la commissione dei reati
per i quali ebbe a subire la sanzione penale». Di qui la rilevanza dell’atteggiamento collaborativo
del condannato e, per converso, la possibilità di ritenere che la mancata collaborazione debba essere
“compensata” dalla acquisizione di elementi consistenti che permettano non solo di rilevare
l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche di escludere ragionevolmente il
pericolo del loro ripristino (o, meglio, l’effettivo pericolo della loro permanenza).
46
Ad esempio valorizzando, con un argomento che invero non pare persuasivo, il fatto che
l’accesso al permesso premio possa avvenire in tempi più prossimi alla commissione del reato o
44
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
19
una trasparente rimeditazione, apparendo, agli occhi del lettore, un opinabile punto
di mediazione per addivenire ad una più ampia convergenza sulla motivazione di
una decisione il cui dispositivo, probabilmente, non era stato condiviso da una parte
consistente del Collegio47.
Un’alternativa plausibile sarebbe quella di precisare (con una sorta di
“interpretazione autentica” del discusso passaggio della sent. n. 253/2019) che il
«pericolo» debba intendersi riferito propriamente non al «ripristino», bensì alla
«permanenza» dei collegamenti con la criminalità organizzata48, nella logica di un
giudizio prognostico che la magistratura di sorveglianza è senz’altro tenuta a
compiere (dovendosi, cioè, escludere non solo l’«attualità», ma anche l’«effettivo
pericolo della permanenza» dei collegamenti in parola). Anzi, sarebbe da auspicare,
già prima dell’eventuale “chiarimento” della Corte, che questa sia la linea
interpretativa seguita riguardo alla concessione dei permessi premio, rimettendo al
magistrato di sorveglianza la valutazione in concreto, fondata su tutti gli elementi
acquisiti (messi a disposizione sia dalle autorità competenti sia dal condannato),
riguardante l’attualità o l’effettivo pericolo della permanenza dei collegamenti con
la criminalità organizzata49. Forse era questa l’“intenzione” della Corte
meglio all’inizio della espiazione della pena (dieci anni, dai quali devono essere detratti i giorni
maturati di liberazione anticipata), rispetto a quanto previsto per la liberazione condizionale (ventisei
anni, sempre detratti i giorni di liberazione anticipata). Ciò sulla base della presunzione per cui il
passare del tempo renda meno probabile non solo il mantenimento, ma anche la possibilità di
ripristino dei rapporti con la criminalità organizzata, potendosi ritenere sufficiente, per l’accesso alla
liberazione condizionale, l’acquisizione di elementi che escludano l’attualità dei collegamenti, senza
spingersi a valutazioni puntuali sul concreto rischio di un loro futuro ripristino o, meglio, senza
pretendere che la dimostrazione della non ricorrenza del predetto pericolo debba essere fornita dal
condannato (anche in assenza di specifiche informative negative delle competenti autorità).
47
In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera si legge la notizia, non smentita, che «quella
della Corte costituzionale è stata una scelta faticosa e contrastata, passata per un solo voto: 8
favorevoli, 7 contrari»: G. BIANCONI, Ergastolo ostativo, ecco i mafiosi che potrebbero chiedere i
permessi (e le tre condizioni per averli), in www.corriere.it, 23 ottobre 2019.
48
Traendo spunto da una certa giurisprudenza costituzionale che peraltro riguarda lo specifico
regime speciale di cui all’art. 41-bis, comma 2, della legge n. 354 del 1975. Si tratta delle decisioni
citate nella precedente nota 40.
49
Sembra questa la linea seguita, ad esempio, nel decreto del Magistrato di sorveglianza di
Siena n. 1170/2020 del 7 agosto 2020. Credo sia utile riportare, sinteticamente, i contenuti di questa
decisione. L’istanza riguardava una persona che sta espiando la pena dell’ergastolo presso la Casa
di reclusione di San Gimignano, all’esito di cumulo che assorbe condanne tra le quali quelle per
associazione di tipo mafioso, concorso in omicidio plurimo e tentati omicidi, con l’aggravante di cui
all’art. 7 della legge n. 203 del 1991 (metodo mafioso o agevolazione di associazioni di tipo
mafioso). Arrestato in Germania il 18 aprile 1994, per reati là commessi, dal 4 agosto 1998 sta
espiando la pena in Italia per reati qui posti in essere quando era ancora «alquanto giovane (è nato
nel 1971 e dunque ha commesso i reati quando aveva 22-23 anni)». Nell’istanza per il permesso
premio il condannato mette a diposizione una serie di elementi, dalla «specificità del fenomeno della
“Stidda” di Palma di Montechiaro cui aderì», «esponendo che si è trattato di un fenomeno
criminogeno soggettivizzato», alle relazioni della DIA di questi anni, che «non hanno mai
interessato il detenuto o la sua famiglia», specificando che nemmeno altre indagini hanno
«direttamente o indirettamente» coinvolto il soggetto, sino alla illustrazione della condizioni della
famiglia di origine, che è «di modesta estrazione sociale» ma «vive onestamente». Il Magistrato di
sorveglianza, oltre a richiamare il parere favorevole del Direttore dell’Istituto penitenziario, riporta
i dati degli operatori del trattamento di due Case di reclusione che riconoscono una costante
evoluzione nel percorso del detenuto con «acquisizione di capacità di analisi ed autocritica, rilettura
20
Marco Ruotolo
costituzionale espressa nella sent. n. 253/2019, di là dalle formule specificamente
impiegate («pericolo del ripristino» dei collegamenti), e, conseguentemente, questa
potrebbe essere l’interpretazione preferibile dell’“aggiunta” operata con la predetta
decisione.
Allo stesso risultato ermeneutico si potrebbe pervenire, più radicalmente, sulla
base della qualificazione della sentenza additiva quale decisione interpretativa,
ritenendo che «la norma “aggiunta” dalla Corte – pur essendo frutto di
interpretazione adeguatrice – non entrerebbe propriamente a far parte del c.d. diritto
oggettivo vigente, se non appunto come una semplice possibilità interpretativa».
Ciò perché «anche nelle sentenze aggiuntive […] la Corte, integrando con
significati, con norme, gli enunciati legislativi non li altera nella loro struttura
formale, non aggiunge enunciati ad enunciati allo stesso livello di linguaggio, ma
desume da questi ultimi (dagli enunciati deliberati dal legislatore) significati che
essa ritiene necessari per renderli costituzionalmente conformi. La parte “aggiunta”
[…] è sempre immancabilmente una norma (proprio perché la Corte non è un
legislatore) e mai una disposizione». Di qui, addirittura, la possibilità per i giudici,
e più in generale per tutti gli operatori giuridici, di optare per interpretazioni
dell’enunciato legislativo – che persiste indenne, pur se con l’“aggiunta” operata
della propria storia personale, autentica manifestazione di resipiscenza, con ammissione degli errori
fatti e comprensione almeno in parte delle cause delle scelte». Con riguardo alle informazioni della
DDA di Palermo, si riporta che le stesse ricordano i reati commessi dal detenuto e le numerose
sentenze di condanna, affermando che egli «è sempre stato ritenuto soggetto di estrema pericolosità
sociale, essendo uno degli esponenti di maggiore rilievo dell’organizzazione criminosa di stampo
mafioso nella componente “stiddara”, operante nella provincia di Agrigento e in particolare sul
territorio di Palma di Montechiaro». Si aggiunge che il condannato non ha mai collaborato né
mostrato resipiscenza e che non risulterebbero valutazioni degli operatori delle strutture carcerarie
che attestino «significative e positive evoluzioni della personalità del detenuto». Quest’ultima
affermazione è considerata dal Magistrato «senz’altro errata», proprio in base alle richiamate
relazioni degli operatori penitenziari che si esprimono in senso favorevole al condannato. Quanto
alla persistenza dei collegamenti, il Magistrato sottolinea come i procedimenti elencati nella nota
della DDA, concernenti il fenomeno “stiddaro”, non riguardano il condannato o i suoi familiari e
che nessun procedimento penale risulta pendente nei suoi confronti presso le Procure di Palermo,
Agrigento, Caltanissetta, Cuneo e Siena. Quanto al suo ruolo nell’associazione, come esponente tra
quelli di “maggior rilievo”, il dato sarebbe smentito dagli accertamenti contenuti nelle sentenze di
condanna, «in cui il detenuto è descritto come un “affiliato” e mai come un promotore,
organizzatore, dirigente. D’altra parte era assai giovane all’epoca dei reati e difficilmente avrebbe
potuto avere un ruolo già di preminenza». Si aggiunge che il gruppo criminale al quale apparteneva
il condannato, dopo oltre 25 anni, è inevitabilmente cambiato e che non si hanno notizie di
«sperequazioni finanziarie, che possano far ritenere presenti forme occulte di sostentamento». La
«congiunta lettura degli esiti stratificati negli anni dell’osservazione penitenziaria e delle
informazioni pervenute dalla DDA di Palermo e dalle Questure, […], unitamente al lungo tempo
trascorso», nonché la considerazione del «ruolo in concreto rivestito dal soggetto nell’associazione»
consentono di «ritenere integrati i presupposti individuati dalla Corte costituzionale nella sentenza
253/2019» ai fini della concessione di «un primo breve permesso premio [di quattro ore] in Toscana
per incontrare i familiari con accompagnamento di un volontario» (lontano dai luoghi di origine e
di commissione dei reati). Non può, infatti, configurarsi «un concreto pericolo di rispristino di
collegamenti», «quanto meno in questa fase e alla luce delle informazioni assunte e trasmesse». Ciò
in base ad una «valutazione sulla pericolosità [che] deve operarsi in concreto e caso per caso, pur
nell’ambito delle cornici generali di riferimento»; «nel caso in esame tutta l’analisi della posizione,
considerando ogni singolo elemento, conduce verso una soluzione positiva».
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
21
dalla Corte – «costituzionalmente conformi ma persino diverse da quelle che hanno
sostenuto la decisione costituzionale, sempre che tali interpretazioni siano possibili
e non si restringano ad un’alternativa secca tra l’interpretazione sostenuta dalla
Corte e quella ritenuta incostituzionale». Insomma, le decisioni di accoglimento
sarebbero propriamente vincolanti «nella sola parte demolitoria – in quanto
incidono, cancellandoli, sui testi – e non già anche in quella ricostruttiva». Il che
vuol dire che «se è possibile […] interpretare l’enunciato in modo
costituzionalmente conforme, l’indicazione operata dalla Corte con l’aggiunta […]
di una nuova norma potrebbe persino, al limite, essere disattesa»50.
7. Una specifica digressione merita la particolare posizione dei condannati in
regime di 41-bis51. Nei loro confronti la dichiarata attualità dei collegamenti con la
criminalità organizzata è in re ipsa, essendo proprio il presupposto applicativo del
regime cui sono sottoposti, il che dovrebbe comportare l’inaccessibilità ai benefici
per il periodo nel quale è disposto. La Cassazione ha invece sostenuto che
l’avvenuta applicazione di tale regime nei confronti di un detenuto «non può essere
utilizzata, senza i necessari approfondimenti valutativi, per affermare sic et
simpliciter che egli non possa usufruire dei permessi premio»52, per poi precisare,
richiamando la sent. n. 253/2019 della Corte costituzionale, che le istanze di
Tutti i passi citati tra virgolette sono di F. MODUGNO, La “supplenza” della Corte
costituzionale (2007), in ID., Scritti sull’interpretazione costituzionale, Editoriale Scientifica, Napoli
2008, 132. Il contributo può essere anche letto in www.federalismi.it, n. 16/2007, 8 agosto 2007 (in
tal caso il riferimento è a p. 19).
51
Si fa qui specifico riferimento al regime speciale di cui all’art. 41-bis, comma 2, della legge
n. 354 del 1975, introdotto con il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni
nella legge 7 agosto 1992, n. 356 (e poi più volte rimodellato, tra l’altro, con le leggi 23 dicembre
2002, n. 279, e 15 luglio 2009, n. 94). Il decreto-legge n. 306 del 1992 fu adottato a seguito della
strage di Capaci e convertito dopo l’uccisione del giudice Paolo Borsellino. Il regime introdotto
consente l’adozione da parte del Ministro della Giustizia di una serie di misure limitative del
trattamento penitenziario nei confronti di detenuti per reati di mafia (successivamente anche di
terrorismo), al dichiarato fine di recidere i collegamenti di questi con la criminalità organizzata.
Secondo quanto precisato negli anni dalla giurisprudenza costituzionale, il decreto ministeriale che
impone il regime speciale deve avere una motivazione individualizzata per ciascun destinatario,
incidere esclusivamente sulle modalità di esecuzione della pena ed essere sindacabile dalla
magistratura di sorveglianza, anche per consentire una verifica della sua congruità rispetto ai fini
perseguiti (sentt. nn. 349 e 410/1993, 351/1996). La motivazione del provvedimento – come già
ricordato – non può fondarsi astrattamente sul titolo di reato oggetto della condanna o
dell’imputazione, ma deve comprendere la verifica dell’«effettivo pericolo della permanenza di
collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa»
(sent. n. 376/1997). Attualmente, il regime speciale può essere applicato nei confronti dei detenuti
e degli internati per taluno dei delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975,
sempre che vi siano elementi tali da far ritenere sussistenti collegamenti con la criminalità
organizzata, anche terroristica o eversiva. Il che vuole dire che il provvedimento potrebbe riguardare,
in astratto, anche autori di reati, ormai compresi nel predetto art. 4-bis, che hanno matrice estranea
alla criminalità organizzata, così come a quella terroristica o eversiva. Ma, come dimostra la prassi
applicativa, in realtà tale strumento è impiegato soltanto nei confronti di detenuti per delitti di mafia,
terrorismo ed eversione dell’ordine democratico.
52
Cass. pen., Sez. I, sent. 10 ottobre 2016, n. 9660.
50
22
Marco Ruotolo
permesso premio non possono in limine essere dichiarate inammissibili neppure per
i detenuti in regime di 41-bis53.
Quest’ultimo orientamento suscita più di una perplessità. Se il permesso
premio (e, in prospettiva di un eventuale accoglimento dell’odierna questione, la
liberazione condizionale) presuppone la valutazione di assenza di pericolosità
sociale, la sua concessione potrebbe addirittura ritenersi concettualmente
incompatibile con il regime di 41-bis, che è disposto dal Ministro della Giustizia,
assunte tutte le informazioni necessarie (ovviamente anche dalla Direzione
nazionale antimafia), qualora ricorrano gravi motivi di ordine e sicurezza e vi siano
elementi tali da far ritenere la «sussistenza di collegamenti con un’associazione
criminale, terroristica o eversiva». Il provvedimento del Ministro che dispone la
sospensione dell’applicazione delle normali regole di trattamento ha durata
temporanea (quattro anni, con possibilità di proroghe biennali, subordinate,
ovviamente, alla verifica della persistenza degli elementi che ne avevano
legittimato l’adozione) e può formare oggetto di reclamo dinanzi al Tribunale di
sorveglianza di Roma (cui l’art. 2, comma 25, della legge 15 luglio 2009, n. 94,
attribuisce competenza esclusiva in materia).
Nella vigenza del regime di 41-bis, l’attualità di collegamenti con la criminalità
organizzata deve dunque darsi per attestata, il che implicherebbe, ove si ritenga
possibile la presentazione di un’istanza per l’ottenimento del permesso premio,
l’automatica applicazione del rafforzamento dell’onere probatorio richiesta dalla
sent. n. 253/2019 (fornire veri e propri elementi di prova a sostegno dell’assenza di
quei collegamenti). Ma, ove il detenuto fosse in grado di fornire tali elementi, questi
non dovrebbero essere preliminarmente proposti a sostegno di un reclamo per
ottenere la revoca del provvedimento ministeriale? Per rispondere occorre ricordare
che la concessione di un permesso premio espone al rischio di vanificare le
prescrizioni del provvedimento ministeriale che impone una serie di cautele le
quali, limitando in particolare i contatti con altre persone, sono rivolte a
interrompere possibili collegamenti (anche indiretti) con esponenti della criminalità
organizzata54. Non solo: la sede per valutare il venir meno della attualità dei
In tal senso Cass. pen., Sez. I, sent. 8 giugno 2020, n. 21946, che ha annullato un’ordinanza
del Tribunale di sorveglianza di Sassari, rinviando per un nuovo giudizio, proprio perché l’istanza
del condannato non era stata esaminata nel merito.
54
I contenuti delle possibili limitazioni sono ora elencati nel comma 2-quater dell’art. 41-bis
della legge n. 354 del 1975. Tra queste: la collocazione in sezioni dell’istituto penitenziario isolate
dal resto della struttura; la previsione di un solo colloquio al mese con familiari e conviventi,
sottoposto a controllo auditivo e a registrazione, da svolgere in locali attrezzati per evitare il
passaggio di oggetti; il controllo sulla corrispondenza e sulla stampa; la quantificazione e definizione
di somme, beni e oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno; la permanenza all’aria aperta per
non più di due ore, in gruppi non superiori a quattro persone individuate dall’amministrazione (c.d.
gruppi di socialità). A ciò si aggiunga la generale (e generica) previsione riguardante «l’adozione di
misure di elevata sicurezza interna ed esterna, con riguardo principalmente alla necessità di
prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti
con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti
alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate», la cui concreta determinazione lascia
ampio spazio di intervento all’amministrazione penitenziaria (si veda, in particolare, la circolare del
Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 2 ottobre 2017, n. 3676/6126). Più volte –
come meglio si preciserà nella successiva nota 90 – la Corte costituzionale è intervenuta per rilevare
53
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
23
collegamenti sarebbe surrettiziamente mutata rispetto alla prescrizione legislativa
che la individua nel Tribunale di sorveglianza di Roma, per essere identificata,
stante la richiesta di concessione del beneficio, nell’Ufficio di sorveglianza del
territorio in cui la persona detenuta è reclusa. E come potrebbe conciliarsi la
concessione del beneficio con l’eventuale rigetto di un contestuale o successivo
reclamo della stessa persona rivolta ad ottenere la revoca del regime di 41-bis?
Specie alla luce di questi ultimi argomenti, la soluzione più ragionevole mi
sembra, allora, quella di ritenere che la concessione del permesso premio (e, in
prospettiva, della liberazione condizionale) presupponga la revoca del
provvedimento ministeriale, la sua mancata proroga ovvero la “declassificazione”
del detenuto con passaggio ad altro circuito detentivo. Il che vorrebbe dire – per
offrire una fotografia della realtà – che ove saltasse la preclusione contenuta nella
norma censurata (non solo con riguardo ai condannati per reati di “agevolazione
mafiosa” o commessi con utilizzo del “metodo mafioso”) residuerebbero,
comunque, 198 ergastolani “ostativi” (pari al numero di persone condannate in via
definitiva all’ergastolo attualmente in regime di 41-bis, secondo i dati fornitimi dal
DAP, aggiornati al 31 agosto 2020), la cui condizione non sarebbe però
irreversibile, potendo mutare nei casi appena prima indicati ossia quando vengano
meno gli elementi che abbiano fatto ritenere la sussistenza di collegamenti con
un’associazione criminale, terroristica o eversiva.
8. Di là dalla specifica questione dei condannati in regime di 41-bis,
l’eventuale presenza di relazioni delle autorità competenti che attestino l’attualità o
il pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata rende
oggettivamente complesso l’accoglimento dell’istanza rivolta ad ottenere il
permesso premio, già in sé problematico per la generale e presupposta inversione
probatoria, prevista in ogni caso. Salvo ad aderire all’interpretazione “riduttiva”
prima proposta, che almeno ne depotenzierebbe le implicazioni, non potrebbe
ritenersi che la predetta inversione, per il solo fatto di essere richiesta nella
motivazione senza essere esplicitata nel dispositivo della sent. n. 253, possa
ritenersi incapace di imporsi con effetti erga omnes, perché, come scriveva Emilio
Betti, «motivazione e dispositivo costituiscono […] elementi dello stesso atto
giuridico e formano tra loro un corpo unitario», in ossequio, peraltro, al «canone
elementare della “totalità” della sentenza», quale esplicitazione del canone della
totalità nell’interpretazione giuridica55.
Proprio alla luce di tutti gli elementi qui descritti, all’esito di una prima lettura
della sent. n. 253/2019, ho definito la trasformazione della presunzione da assoluta
l’illegittimità costituzionale di restrizioni previste dalla legislazione e applicabili a prescindere dalle
esigenze del caso concreto, qualora le stesse avessero «significato meramente afflittivo», non
essendo funzionali né congrue «rispetto alla finalità tipica ed essenziale del provvedimento di
sottoposizione del singolo detenuto al regime differenziato, consistente nell’impedire le sue
comunicazioni con l’esterno» (di recente sent. n. 97/2020, ma anche, tra le altre, sentt. nn. 186/2018
e 143/2013).
55
E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (1949), II ed. riv. e ampl. a cura
di G. Crifò, Giuffrè, Milano 1971, 361 ss.
24
Marco Ruotolo
a semi-assoluta (piuttosto che relativa)56 e sinora i fatti sembrano dare ragione alla
mia analisi. A quanto risulta all’esito di una mia ricerca che riguarda i
provvedimenti adottati sino alla fine del mese di agosto 2020, sulla base della
pronuncia costituzionale sono stati concessi pochissimi permessi premio a
condannati per reati ostativi che possano dirsi “non collaboranti per scelta”, rispetto
ai quali peraltro le autorità competenti avevano quasi sempre affermato di non
essere in possesso di elementi in grado di confermare o di escludere la persistenza
di collegamenti con la criminalità organizzata57.
Un discorso non dissimile varrebbe, probabilmente, per le conseguenze
dell’eventuale accoglimento, nei termini sopra specificati, dell’attuale questione,
che determinerebbe un’apertura minima alla liberazione condizionale per i
condannati all’ergastolo ostativo, lasciando in piedi il meccanismo della
collaborazione con la giustizia quale “via maestra” per accedere alla stessa. Il che
– come ho altrove scritto58 – è in un certo senso fisiologico, in quanto la
collaborazione, se non garantisce inequivocabilmente la presa di distanza del
condannato dal consesso criminale, lascia presumere un allentamento significativo
del vincolo nella prevedibile forma della presa di distanza dell’associazione nei
confronti del collaborante (oltre a rappresentare elemento da considerare nella
valutazione della residua pericolosità sociale, secondo la linea indicata, tra l’altro,
nella sent. n. 273/2001 della Corte costituzionale).
Peraltro, l’eventuale accoglimento dell’odierna questione restituirebbe
coerenza ad un passaggio della sent. n. 253/2019, nel quale si sottolinea la rilevanza
della concessione dei permessi premio a fini rieducativi, quali «primi spazi di
libertà»59. Attualmente, per l’ergastolano ostativo il permesso premio sembra,
invece, assumere rilievo solo per il mantenimento o il ristabilimento delle relazioni
con la famiglia, non già in una dimensione di reinserimento sociale60, la quale
56
M. RUOTOLO, Reati ostativi e permessi premio, cit., §3.
Si vedano, in particolare: Magistrato di sorveglianza di Sassari, provvedimento del 28
maggio 2020, che ha concesso un permesso premio di due giorni; Tribunale di sorveglianza di
Firenze, ordinanza del 18 giugno 2020, che ha concesso un permesso della durata di un giorno;
Tribunale di sorveglianza di Perugia, ordinanza del 16 luglio 2020, che ha concesso un permesso
della durata di giorni uno, con decorrenza dalle ore 8.00 e scadenza alle ore 20.00 della stessa
giornata; Magistrato di sorveglianza di Lecce, provvedimento del 24 luglio 2020, che ha concesso
un permesso premio di tre giorni; Magistrato di sorveglianza di Siena, decreto n. 1170/2020 del 7
agosto 2020, che ha concesso un permesso premio di quattro ore, già citato in nota 45; tale non è il
caso, invece, del decreto, che ha avuto una certa attenzione mediatica, del Magistrato di sorveglianza
di Padova del 17 luglio 2020, in quanto riguardante un condannato per il quale era stata accertata la
collaborazione “impossibile”, che dunque avrebbe potuto usufruire del permesso già prima della
decisione della Corte costituzionale e a prescindere da essa.
58
M. RUOTOLO, loc. ult. cit.
59
Secondo quanto, d’altra parte, già affermato nella sent. n. 227/1995, preceduta dalla
considerazione di essi quali strumenti per un «iniziale reinserimento del condannato nella società»,
espressa nella sent. n. 188/1990.
60
Al contrario, per definizione normativa, l’istituto del permesso premio si inserisce
perfettamente in quella dimensione di reinserimento sociale richiamata nel testo, quale «parte
integrante del programma del trattamento» (art. 30-ter, comma 3, della legge n. 354 del 1975). Né
va dimenticato, entro tale logica, che lo stesso può essere “concesso” non soltanto per coltivare
interessi affettivi, ma anche «culturali o di lavoro» (art. 30-ter, comma 1, della legge n. 354 del
1975).
57
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
25
richiederebbe di essere agganciata ad una non impossibile, ancorché difficile
(improbabile) prospettiva di liberazione61.
9. Tale eventuale assetto, determinato da una decisione di accoglimento nei
termini sopra descritti, potrebbe soddisfare quanto richiesto dalla Corte EDU? La
domanda merita una risposta anche in ragione del fatto che, diversamente da quanto
accaduto per le questioni decise con la sent. n. 253/2019, la violazione dell’obbligo
internazionale di cui all’art. 3 CEDU è ora dedotta per il tramite dell’invocazione
quale parametro dell’art. 117, primo comma, Cost.
A ben vedere la giurisprudenza europea richiede, come si è già sottolineato,
che la pena dell’ergastolo sia de iure e de facto comprimibile, pretendendo che
l’equilibrio tra le esigenze di punizione, dissuasione, difesa sociale e reinserimento
sociale sia dinamicamente ricercato nell’evoluzione dell’esecuzione della pena (in
tal senso la citata sentenza Vinter). Anche se vi è il rischio che la pena dell’ergastolo
sia scontata integralmente, ciò che rileva è che il sistema dello Stato membro
preveda la possibilità di un riesame della sanzione, consentendo che essa sia
commutata o sospesa ovvero prevedendo la concessione della liberazione
condizionale, secondo le determinazioni poste da ciascun ordinamento. Se però,
inizialmente, sembrava sufficiente la presenza nel sistema di misure discrezionali
del potere politico o della grazia presidenziale62, la giurisprudenza europea si va
sempre più orientando verso la necessità di una previsione legale che consenta il
riesame della pena perpetua, permettendo alle «autorità nazionali di verificare se,
durante l’esecuzione della pena, il detenuto abbia fatto dei progressi sulla via del
riscatto tali che nessun motivo legittimo relativo alla pena permetta più di
giustificare il suo mantenimento in detenzione»63.
61
Non credo invece, diversamente da quanto sostenuto da G. GIOSTRA, Verso
un’incostituzionalità prudentemente bilanciata?, cit., §4, che la Corte possa (o addirittura debba)
cogliere l’occasione della decisione sulla questione sottoposta al suo esame per «“sanificare” il
sistema nel suo complesso». Sono d’accordo sul fatto che possa ritenersi irragionevole rimuovere
l’ostatività penitenziaria per «la tappa iniziale (il permesso premio) e per quella finale (la liberazione
condizionale) del percorso trattamentale del detenuto», mantenendola, invece, per «le tappe
intermedie», ossia per «tutte le altre misure che tale liberazione preparano o propiziano». Ma credo
che sia il legislatore a dover procedere nell’opera di “sanificazione” complessiva del sistema,
potendo la Corte intervenire solo chirurgicamente, di volta in volta, per rimuovere le ostatività che
ancora precluderebbero le predette “tappe intermedie”. Non sembra, infatti, per quanto si vogliano
rinvenire comuni elementi funzionali, che il permesso premio (così come la liberazione
condizionale) possa dirsi integralmente assimilabile alle misure alternative (in particolare alla
semilibertà), il che dovrebbe precludere il ricorso alla illegittimità consequenziale, non sussistendo
quel rapporto di stretta condizionalità tra le norme che disciplinano i rispettivi istituti che potrebbe
giustificarne l’impiego, in deroga al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
62
Corte EDU, Grande Camera, sent. 12 febbraio 2008, Kafkaris contro Cipro.
63
Sent. Vinter, ove si afferma significativamente che l’ergastolano ha diritto di sapere, sin
dall’inizio della sua pena, quando e come il riesame della stessa potrà essere richiesto, secondo una
procedura – si legge nella sent. Trabelsi contro Belgio del 4 settembre 2014 – fondata su «criteri
oggettivi e prestabiliti» che consentano di apprezzare i progressi “trattamentali” della persona
detenuta. Si vedano anche le seguenti decisioni della Corte EDU: sent. 18 marzo 2014, Ôcalan
contro Turchia; sent. 4 aprile 2016, T.P. e A.T. contro Ungheria; Grande Camera, sent. 26 aprile
2016, Murray contro Paesi Bassi. Di particolare interesse è la vicenda riguardante la Lituania, in
26
Marco Ruotolo
La stessa sentenza Viola sembra però ancora ammettere un margine di
apprezzamento statale significativo nel perseguimento delle finalità di prevenzione
generale e di protezione della collettività, al fondo ritenendo che la violazione
dell’art. 3 CEDU possa essere evitata soltanto facendo applicazione del principio
già espresso nella sentenza Pantano contro Italia del 6 novembre 2003, per cui «una
presunzione legale di pericolosità può essere giustificata, in particolare quando non
è assoluta, ma si presta ad essere contraddetta dalla prova contraria». È qui che
viene in rilievo l’argine della dignità umana, imponendo un impegno statale nella
prospettiva del reinserimento del detenuto, che non potrebbe essere privato della
sua libertà «senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà». In
particolare, non può escludersi che la “dissociazione” possa esprimersi in modo
diverso dalla collaborazione con la giustizia, ma il regime probatorio richiesto per
la sua valutazione non può che essere rimesso alla determinazione statale.
Ebbene, nel suo “contenuto essenziale”, la sent. n. 253/2019 rispetta le
condizioni minime richieste dalla Corte EDU e altrettanto potrebbe dirsi per
un’analoga decisione assunta con riguardo alla questione della preclusione alla
concessione della liberazione condizionale. Al fondo, una simile decisione
garantirebbe che la presunzione di pericolosità che si lega alla mancata
collaborazione non possa essere considerata “inconfutabile”. Basti sul punto
ricordare che a seguito della sent. Vinter la Corte europea ha ritenuto il sistema
inglese conforme alla Convenzione, ancorché la liberazione anticipata per gli
ergastolani sia ammessa solo in circostanze eccezionali e «on compassionate
grounds», costituendo, secondo la locale giurisprudenza, un evento anomalo64.
Se così stanno (o stessero) le cose, sarebbe persino possibile che la questione
della compatibilità con l’art. 117, primo comma, Cost, sia assorbita da un
accoglimento fondato esclusivamente sugli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. Non
escluderei questa ipotesi, anche perché dalle citate disposizioni costituzionali è ben
possibile ricavare quello che definirei come il diritto del detenuto ad un’esecuzione
di una pena non disumana, espressione di quel principio del rispetto della dignità
della persona umana che trova fondamento tanto nella Costituzione italiana quanto
nella CEDU. Come ho altrove sostenuto e qui non ho modo di compiutamente
dimostrare65, la posizione che prediligo è quella per cui l’art. 117, primo comma,
Cost. dovrebbe essere evocato, e comunque essere «autonomamente» preso in
quanto, dopo la decisione della Corte EDU 23 maggio 2017, Matiošaitis e altri contro Lituania, la
disciplina dell’ergastolo è stata modificata consentendo la commutazione in pena detentiva di durata
determinata, all’esito di esame dei progressi compiuti dal condannato dopo venti anni di espiazione;
la nuova disciplina è stata ritenuta conforme a Convenzione nella sent. 18 giugno 2019, Dardanskis
e altri contro Lituania. Sul caso lituano vedi, in questo stesso volume, G. GIORGINI PIGNATIELLO,
Diritto alla speranza e preclusioni assolute. Una comparazione con l’ordinamento lituano in chiave
“preventiva”.
64
Corte EDU, Grande Camera, sent. 17 gennaio 2017, Hutchinson contro Regno Unito. Su
tale decisione si veda, in prospettiva critica, D. GALLIANI, Il problema della pena perpetua dopo
la sentenza Hutchinson della Corte EDU, in E. DOLCINI – E. FASSONE – D. GALLIANI – PINTO DE
ALBUQUERQUE – A PUGIOTTO, Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale,
Giappichelli, Torino 2019, 125 ss.
65
Rinvio a M. RUOTOLO, L’incidenza della CEDU sull’interpretazione costituzionale. Il
“caso” dell’art. 27, comma 3, Cost. in Rivista telematica dell’Associazione Italiana dei
Costituzionalisti, www.rivistaaic.it, fasc. 2/2013, 19 aprile 2013, 1 ss.
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
27
considerazione dalla Corte costituzionale, soltanto quando la violazione addotta
non sia specificamente riferibile ad altro parametro costituzionale, sia pure
interpretato evolutivamente o estensivamente alla luce degli «obblighi
internazionali» assunti dallo Stato66. Ciò non vuol dire che la Corte non debba
prendere in considerazione quanto sancito nella normativa internazionale pattizia,
potendo anzi questa essere richiamata a sostegno di una certa interpretazione del
parametro anche quando non evocata dal remittente (o, nel caso del giudizio in via
principale, dal ricorrente), come d’altra parte accadeva prima della riforma del
Titolo V e come talora avvenuto anche dopo la riforma.
Il limite di cui all’art. 117, primo comma, Cost. dovrebbe, insomma, intendersi
come «residuale», concretamente evocabile o comunque utilizzabile quale
autonoma ragione della dichiarazione di incostituzionalità, solo ove il vincolo da
esso discendente non sia ricavabile da altro disposto costituzionale e sempre che il
suo rispetto non sia «causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già
predisposte dall’ordinamento interno», costituendo, viceversa, uno «strumento
efficace di ampliamento della tutela stessa»67. Entro questi limiti e nello spirito di
una «integrazione delle tutele» che tenga conto delle esigenze sistemiche, ben può
aprirsi quel confronto prefigurato dalla nostra Corte «tra tutela prevista dalla
Convenzione e tutela costituzionale dei diritti fondamentali», effettuato «mirando
alla massima espansione delle garanzie»68, «anche attraverso lo sviluppo delle
potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetti i medesimi
diritti»69. Ad essere valorizzata sarebbe la portata degli apporti sovranazionali
(normativi e giurisprudenziali) per il tramite privilegiato dell’interpretazione
costituzionale, nella logica di un completamento reciproco tra Carte dei diritti e
Costituzioni nazionali, che non pregiudichi il primato di queste ultime.
10. Vi è però un passaggio della sentenza Viola che potrebbe contribuire a far
maturare nella Corte italiana un diverso orientamento quanto alla possibile tecnica
decisoria da impiegare. La Corte europea ha sottolineato come la questione
dell’ergastolo ostativo determini un «problema strutturale», che «impone allo Stato
di attuare, di preferenza per iniziativa legislativa, una riforma del regime della
reclusione dell’ergastolo». Il nostro sistema prevede, come noto, che il controllo di
legittimità della Corte costituzionale escluda «ogni sindacato sull’uso del potere
discrezionale del Parlamento» (art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87), ancorché
tale limite sia stato ritenuto nei fatti meno penetrante, specie nella giurisprudenza
più recente, caratterizzata da manipolazioni talora significative dei testi normativi
per conseguire il risultato della loro conformità a Costituzione. La Commissione
parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e delle altre associazioni
criminali similari, anche straniere70, ha elaborato il 20 maggio 2020 una relazione
sull’istituto di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, nella quale, prendendo
66
Si tratta di una linea poi seguita dalla Corte costituzionale nella sent. n. 278/2013.
Corte cost., sentt. nn. 317/2009 e 264/2012.
68
Corte cost., sent. n. 264/2012.
69
Corte cost., sent. n. 317/2009.
70
Istituita con legge 7 agosto 2018, n. 99.
67
28
Marco Ruotolo
atto dei contenuti della sent. n. 253/2019, si sottolinea, tra l’altro, l’opportunità di
coordinare il disposto normativo con le recenti pronunce della Corte costituzionale
e «con l’aggiunta del beneficio della liberazione condizionale»71.
Tenendo conto di tutti questi elementi, che inducono a rendere auspicabile un
intervento legislativo tale da garantire la ricerca di un bilanciamento ragionevole
tra le esigenze in gioco, non potrebbe escludersi il ricorso alla già praticata tecnica
dell’ordinanza collegiale e motivata di rinvio della trattazione della questione, al
fine di consentire l’esercizio della funzione legislativa, pur entro linee direttive
enucleate dalla Corte72. L’ipotesi costituisce, tuttavia, soltanto una subordinata
rispetto all’accoglimento immediato nei termini sopra indicati, anche perché,
probabilmente, se la Corte avesse voluto sollecitare un intervento sistematico, di
tipo strutturale, avrebbe potuto impiegare la già sperimentata tecnica in occasione
della decisione sulla questione relativa ai permessi premio.
Vi è però da ribadire che soltanto un intervento legislativo permetterebbe di
mettere in campo soluzioni diverse da quelle già indicate dalla Corte costituzionale
nella sent. n. 25373. Ciò vale, anzitutto, per l’ipotesi, da alcuni suggerita, di
sostituire la prova negativa circa l’assenza di collegamenti con la criminalità
organizzata con una prova in positivo a seguito di attività istruttoria della
magistratura di sorveglianza74; così come per la proposta di valorizzare, in caso di
mancata collaborazione, la tenuta di condotte riparative in favore delle vittime del
reato75. A maggior ragione, l’intervento legislativo sarebbe necessario per le
seguenti, più ambiziose, proposte, che invero paiono lontane dalla realtà nelle
attuali condizioni politico-istituzionali76: eliminazione del requisito della
collaborazione come condizione per l’accesso privilegiato ai benefici penitenziari
(che sarebbe basato esclusivamente sulla verifica dell’assenza di attuali legami con
la criminalità organizzata)77; radicale superamento del sistema a doppio binario,
Anche il testo di questa relazione è disponibile nella sezione “Documenti” del sito
www.amicuscuriae.it
72
V. ordd. nn. 207/2018 e 132/2020; si veda anche, a seguito dell’inerzia legislativa successiva
alla ord. n. 207, la sent. n. 249/2019.
73
Le possibili proposte in campo sono sintetizzate da A. PUGIOTTO, Criticità costituzionali
dell’ergastolo ostativo, in C. MUSUMECI – A. PUGIOTTO, Gli ergastolani senza scampo.
Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, Editoriale Scientifica, Napoli 2016,
169 ss.
74
Nella proposta del Tavolo 16 degli Stati generali sull’esecuzione penale si prevedeva il
capovolgimento dell’attuale formulazione dell’art. 4-bis, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975:
«salvo che siano stati acquisiti elementi tali da far ritenere sussistenti attuali collegamenti...»
anziché «purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità dei collegamenti…» (il
documento è disponibile sul sito del Ministro della Giustizia, www.giustizia.it).
75
Sempre contenuta nella relazione del predetto Tavolo 16. Indicazioni in tal senso anche nella
proposta della c.d. Commissione Palazzo (istituita con d.m. 10 giugno 2013).
76
Non si dimentichi che il Parlamento ha di recente approvato una riforma che esclude
l’applicabilità del rito abbreviato ai delitti puniti con l’ergastolo: legge 12 aprile 2019, n. 33.
77
La c.d. Commissione Palazzo aveva proposto, a conclusione dei suoi lavori (relazione
reperibile in www.giustizia.it), di consentire l’accesso ai benefici penitenziari in tutte le ipotesi in
cui risulti che «la mancata collaborazione non escluda il sussistere dei presupposti, diversi dalla
collaborazione medesima, che permettono la concessione dei benefici summenzionati».
71
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
29
con l’abolizione dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 197578; abolizione
dell’ergastolo e sua sostituzione con una pena a data certa79.
Peraltro, un accoglimento della questione potrebbe indurre, come già da alcuni
auspicato a seguito della sent. n. 253/201980, ad una riforma dei meccanismi
processuali riguardanti la concessione dei c.d. benefici penitenziari al dichiarato
fine di assicurare omogeneità, se non uniformità, di valutazione. Il mio timore è,
però, che riforme in tale ambito possano mettere in discussione il principio della
prossimità del giudice rispetto al condannato, fondamentale nel contesto
dell’esecuzione penale, il quale richiede e presuppone la conoscenza del percorso
trattamentale del singolo detenuto (anche attraverso un puntuale dialogo con gli
operatori penitenziari). In particolare, accentrare in un’unica sede (presumibilmente
il Tribunale di Sorveglianza di Roma) i giudizi che riguardano le richieste dei cc.dd.
benefici per i condannati per i reati di cui all’art. 4-bis sarebbe un non senso anche
per l’inevitabile aggravio di lavoro che ne discenderebbe. Ciò tanto più ove si
intendesse distinguere le richieste dei condannati per reati di cui all’art. 4-bis, da
trattare “territorialmente” solo ove non si traducano in istanze concernenti i cc.dd.
benefici (con una sorta di bizzarro “doppio binario” processuale)81. Una tale deroga
agli ordinari criteri di riparto della competenza giurisdizionale sarebbe quanto meno
irragionevole oltre che espressiva di una immotivata diffidenza nei confronti della
magistratura di sorveglianza operante a livello locale. Peraltro, giova ricordare che,
diversamente da quanto accade per i permessi premio, con riguardo alla
concessione della liberazione condizionale la decisione è da subito affidata ad una
ponderazione collegiale, essendo rimessa al Tribunale di sorveglianza competente
territorialmente sull’istituto penitenziario in cui è ristretto l’interessato al momento
della richiesta (art. 682 cod. proc. pen.)82.
78
O sua riconduzione alla «ratio originaria di prevenzione, relativa ai (soli) condannati per
delitti di matrice mafiosa o di terrorismo», come si legge nella Relazione della Commissione mista
per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza, istituita il 26 luglio 2012 dal CSM (la
relazione è stata pubblicata nel giugno 2013 nei Quaderni del Consiglio Superiore della
Magistratura).
79
Non sono mancate proposte in tal senso nei Progetti Riz (1995), Grosso (2001) e Pisapia
(2007). Nel già richiamato contributo di A. PUGIOTTO, Criticità costituzionali, cit., 175, l’Autore
propone di cristallizzare la durata massima della pena, conservando i livelli sanzionatori attualmente
vigenti per accedere alle misure alternative, di modo che, riprendendo un suggerimento di Elvio
FASSONE, Fine pena ora, Sellerio, Palermo 2015, 188, nota 2, «l’innovazione renderebbe
temporanea la pena perpetua, ma il percorso penitenziario al suo interno continuerebbe ad avere le
stesse cadenze di oggi».
80
Si veda la citata relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle
mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere.
81
Nella richiamata relazione della Commissione parlamentare di inchiesta la prima ipotesi
prospettata è proprio di affidare la competenza in materia di permessi premio al Tribunale di
sorveglianza di Roma, individuando come organo di seconda istanza o una sezione della Corte
d’appello di Roma integrata dalla presenza di esperti o lo stesso Tribunale di sorveglianza di Roma
in composizione diversa rispetto al collegio che ha emesso il provvedimento impugnato. Salvo a
prevedere, esclusivamente, il ricorso in Cassazione per saltum.
82
Il problema della assenza della ponderazione collegiale è stato posto proprio con riguardo
alla concessione dei permessi premio ai condannati per reati di cui all’art. 4-bis, ad oggi affidata alla
sede monocratica. Per rispondere a tale esigenza, in alternativa alla attribuzione della competenza al
Tribunale di sorveglianza di Roma, la Commissione parlamentare di inchiesta ha ipotizzato lo
30
Marco Ruotolo
11. Vengo ora a qualche considerazione più specifica relativa all’istituto della
collaborazione, senz’altro strumentale ad ottenere informazioni utili alle esigenze
investigative, e alle sue implicazioni in ambito penitenziario. Tenuta in debita
considerazione la gravità e la peculiarità dei reati legati alla criminalità organizzata,
sarei portato a dire che la collaborazione con la giustizia ben possa radicare, ai fini
dell’art. 176 cod. pen., una presunzione di “ravvedimento”, così come la mancata
collaborazione una presunzione di “non ravvedimento”. Tali presunzioni devono
però essere sempre superabili (in quanto relative), in un senso e nell’altro: la
collaborazione non è, in sé, indice di “sicuro ravvedimento”, così come la non
collaborazione non può essere indice di “sicuro non ravvedimento” (come sembra
ammettere la stessa Corte costituzionale nella sent. n. 306/199383).
Certamente, in principio, la collaborazione può essere intesa come
manifestazione di sincero ravvedimento, indizio significativo – come già si è
sostenuto – dell’interruzione dei collegamenti del dichiarante con il consesso
criminale di appartenenza, del quale fornisce alle autorità di polizia e giudiziaria
notizie utili per la ricostruzione dei fatti, per l’individuazione o la cattura di autori
di reati, anche adoperandosi concretamente per evitare che le attività delittuose
siano portate a conseguenze ulteriori84. Tale atteggiamento non può non rilevare
nella valutazione sulla pericolosità sociale, producendo anche “utilità” per la
situazione processuale e penitenziaria dell’interessato, considerato pure l’elevato
rischio di ritorsioni al quale espone sé e i suoi familiari85. Dall’altro lato, la mancata
collaborazione può ben essere indizio della perdurante condivisione degli obiettivi
propri della criminalità organizzata, espressione del rifiuto della rivisitazione critica
del proprio passato, indice, insomma, di perdurante pericolosità sociale.
La collaborazione, però, può essere anche meramente opportunistica, così
come la non collaborazione può essere dovuta a ragioni varie, dall’innocenza del
spostamento della competenza a decidere sulle istanze di permesso premio dal Magistrato di
sorveglianza al Tribunale di sorveglianza, con reclamo o alla Corte d’appello del distretto o al
Tribunale di sorveglianza di Roma. Anche tale soluzione suscita non poche perplessità, dovendosene
peraltro valutare la praticabilità, tenuto conto del presumibile incremento di lavoro conseguente alle
“aperture” determinate dalla sent. n. 253/2019 e considerata la consistenza e la distribuzione
dell’organico nel territorio.
83
Nella sent. n. 306/1993 la Corte afferma, infatti, che se «è ben vero che la collaborazione
consente di presumere che chi la presta si sia dissociato dalla criminalità e che ne sia perciò più
agevole il reinserimento sociale», tuttavia «dalla mancata collaborazione non può trarsi una valida
presunzione di segno contrario, e cioè che essa sia indice univoco di mantenimento dei legami di
solidarietà con l’organizzazione criminale: tanto più, quando l’esistenza di collegamenti con
quest’ultima sia stata altrimenti esclusa».
84
In termini simili sono definite le attività delle «persone che collaborano con la giustizia»
nell’art. 58-ter della legge n. 354 del 1975.
85
Si tratta di considerazioni espresse da Giovanni Falcone alla fine degli anni Ottanta del
secolo scorso. Senza la previsione di un possibile “alleviamento” della situazione processuale –
sosteneva Falcone – «nessun soggetto può ritenere utile di collaborare, perché gliene deriverebbe
soltanto un gravissimo rischio per la sua persona e per quella dei famigliari». E, ancora: «occorre
finalmente riconoscere che, senza la previsione di effetti favorevoli in termini di quantità di pena
discendenti direttamente dalla collaborazione, non ci sarà più nessuno, in un ordinamento
disciplinato dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, disposto a confessare i propri
crimini e ad indicare i correi». Tali passaggi sono ora contenuti in G. FALCONE, La posta in gioco.
Interventi e proposte per la lotta alla mafia, BUR Rizzoli, Milano 2010, 46.
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
31
condannato, ipotesi che non può realisticamente essere scartata86, al timore di
ritorsioni nei suoi confronti o dei suoi affetti. Anche se pure quest’ultimo argomento
non può essere enfatizzato, perché il sistema italiano offre speciali misure di
protezione, estese ai familiari e solitamente apprezzate quanto a efficacia ed
efficienza, che possono tradursi in un programma speciale di protezione che
comprende il cambiamento delle generalità del collaborante e forme di sostegno al
reddito. Ciò, comunque, nella consapevolezza – che merita di essere ribadita e che
è stata espressa anche nel citato Amicus Curiae dell’Organizzazione “L’Altro
Diritto” – che l’inserimento nel programma di protezione comporta un’inevitabile
e significativa compressione della libertà e dell’autonomia non del solo condannato,
ma anche di persone incolpevoli appartenenti al suo nucleo familiare.
Tutte queste considerazioni impongono la ricerca di una soluzione equilibrata,
che la Corte costituzionale, con il comunicato stampa emesso in occasione del
deposito della sent. n. 253/2019, ha inteso sintetizzare nei seguenti termini:
«“giusto” premiare il detenuto che collabora, inammissibile “punirlo” ulteriormente
per la mancata collaborazione»87.
Resta, tuttavia, particolarmente delicata la questione di come superare la
permanente (e condivisibile) presunzione di non ravvedimento conseguente alla
mancata collaborazione. Probabilmente, come si è già sostenuto, la soluzione
offerta nella sent. n. 253/2019, nella parte in cui si riferisce al pericolo di ripristino
(e non solo all’attualità) dei collegamenti con la criminalità organizzata, appare
eccessiva, specie ove riferita alla posizione di condannati per reati che non
presuppongano propriamente l’affiliazione all’organizzazione criminale. Forse per
questi ultimi la presunzione potrebbe essere resa meno stringente, ammesso che lo
non lo sia già nei fatti. Il profilo del capo clan (che peraltro, di solito, resta in regime
di 41-bis anche a distanza di tempo dal commesso reato o dalla condanna) o
dell’affiliato è ben diverso da quello di chi abbia agevolato l’associazione o si sia
avvalso del metodo mafioso, come d’altra parte affermato dalla stessa Corte
costituzionale con riferimento alle presunzioni di pericolosità per l’applicazione
della misura della custodia cautelare in carcere88. Sia consentito al riguardo
ricordare, per inciso, come la predetta giurisprudenza costituzionale abbia rilevato
l’irragionevolezza di presunzioni assolute che determinino, nella fase cautelare, la
limitazione di un diritto fondamentale della persona89, secondo un argomento
86
Ancorché non possa essere normativamente contemplata, non potendo certo il legislatore
prefigurare una tale ipotesi in contraddizione con quanto accertato in sentenza di condanna, con la
c.d. verità processuale.
87
Questo il titolo completo del comunicato stampa pubblicato il 4 dicembre 2019 sul sito della
Corte costituzionale (www.cortecostituzionale.it): Reati ostativi e permessi: “giusto” premiare il
detenuto che collabora, inammissibile “punirlo” ulteriormente per la mancata collaborazione. Il
“corrispondente” passo contenuto nella sent. n. 253/2019 è il seguente: «alla stregua dei principi di
ragionevolezza, di proporzionalità della pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, un conto
è l’attribuzione di valenza premiale al comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti
una collaborazione utile ed efficace, ben altro è l’inflizione di un trattamento peggiorativo al
detenuto non collaborante, presunto iuris et de iure quale persona radicata nel crimine organizzato
e perciò socialmente pericolosa»
88
Si vedano sentt. nn. 57/2013 e 48/2015, nonché ord. n. 136/2017.
89
Indicazioni non dissimili, con riferimento alla violazione dell’art. 5 CEDU, provengono dalla
Corte di Strasburgo: sent. S.B.C. contro Regno Unito del 19 giugno 2001; sent. Boicenco contro
32
Marco Ruotolo
ritenuto valido, a maggior ragione, nella fase dell’esecuzione della pena, per il ruolo
centrale ivi assunto dal «trascorrere del tempo, che può comportare trasformazioni
rilevanti, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere»90.
Tornando al punto che stavamo approfondendo, in base ai dati di esperienza, i
vincoli operativi e di omertà e anche il livello di pericolosità del “partecipe”
sembrano assumere una diversa consistenza rispetto a quelli dell’“estraneo”, che si
è reso responsabile di reati di “contesto mafioso” pur non avendo legami strutturali
con il sodalizio criminale. È qui che, forse più con un auspicabile intervento
normativo che non attraverso una pronuncia della Corte costituzionale, si potrebbe
introdurre, con riguardo alla posizione dell’“estraneo”, la prova in positivo in luogo
della prova negativa, non precludendo, anche in assenza di collaborazione,
l’accesso alla liberazione condizionale “salvo che siano stati acquisiti elementi tali
da far ritenere sussistenti attuali collegamenti con la criminalità organizzata” [“o il
pericolo del loro ripristino”, ove s’intenda ribadire tale condizione, “introdotta”
dalla sent. n. 253/2019, pure per la liberazione condizionale]. Per il “partecipe”,
viceversa, tale accesso resterebbe possibile “allorché siano stati acquisiti elementi
tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata” [e “il
pericolo del ripristino di tali collegamenti”, sempre ove, come già scritto, s’intenda
ribadire tale condizione pure per la liberazione condizionale].
Dovrebbe, comunque sia, essere tenuta per ferma la perdurante rilevanza
dell’accertamento della impossibilità o della inesigibilità della collaborazione pure
ove sia ammessa, alle stringenti condizioni indicate, la possibilità della concessione
della liberazione condizionale a favore di chi sia “non collaborante per scelta”. Il
descritto regime probatorio per accedervi dovrebbe valere soltanto per
quest’ultimo, altrimenti introducendosi un paradossale aggravamento delle
condizioni per l’ottenimento a carico di chi non abbia collaborato perché non ha
potuto farlo, stante la sua limitata partecipazione al fatto criminoso o per l’ormai
intervenuto integrale accertamento delle circostanze e delle responsabilità ad esso
connesse. In tal senso pare orientarsi, con riguardo alla concessione dei permessi
premio e non senza iniziali esitazioni91, la giurisprudenza di legittimità che
opportunamente afferma la perdurante operatività, pur dopo la sent. n. 253/2019,
degli istituti della collaborazione impossibile o inesigibile, proprio in ragione del
fatto che il loro accertamento «consente di circoscrivere la dimostrazione probatoria
al parametro della “esclusione di attualità dei collegamenti”», senza coinvolgere
quello “aggiuntivo” e più complesso da dimostrare della «assenza del pericolo di
ripristino di tali collegamenti», che interessa, perciò, solo il “non collaborante per
scelta”92. Ne discenderebbe, dunque, l’esistenza di tre (e non due) situazioni
determinanti un diverso regime per l’accesso al permesso premio, legate alla
differente posizione di chi collabora, di chi non collabora per scelta e di chi, invece,
non potrebbe utilmente collaborare (collaborazione impossibile o inesigibile).
Moldavia dell’11 luglio 2006.
90
Secondo quanto si legge, di nuovo, nella sent. n. 253/2019.
91
In particolare, Cass. pen. Sez. I, 14 gennaio 2020, n. 3309.
92
Cass. pen, Sez. I, 12 dicembre 2019, n. 10551; 28 gennaio 2020, n. 5553; si vedano anche,
pure con diverso percorso argomentativo, Cass. pen, Sez. I, 21 febbraio 2020, nn. 12554 e 12555.
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
33
Ad ogni modo, anche per il “non collaborante per scelta” non potrebbe essere
in nessun caso aprioristicamente esclusa, ai fini della concessione della liberazione
condizionale, la rilevanza del concreto percorso di esecuzione della pena. Rendere
la presunzione superabile da prova contraria, significherebbe restituire al giudice la
possibilità di valutare il processo di risocializzazione, insieme a tutti gli altri
elementi che possano assumere rilievo per comprovare il definitivo allontanamento
dalla criminalità organizzata. Da sola, però, la positiva partecipazione al c.d.
percorso trattamentale non basta, come si vorrebbe in base alla retorica, non priva
di connotazione paternalistica, che vuole il buon detenuto di oggi buon cittadino di
domani93. Non basta nell’ottica di un bilanciamento che, specie ove riferito al
fenomeno della criminalità organizzata, non può che attribuire un peso
particolarmente consistente alle esigenze di difesa sociale, che ben possono
giustificare limitazioni anche al perseguimento della stessa finalità rieducativa94.
Ci rassicura, però, il fatto che l’affermata prevalenza di una specifica esigenza
(la difesa sociale) non può spingersi oltre il punto di estrema tensione che determini
la completa compromissione del valore in conflitto (la rieducazione), perché è
proprio tale superamento che espone le prescrizioni che lo determinano a essere
dichiarate costituzionalmente illegittime. Si ricordi che la Corte costituzionale
ammette che il legislatore possa dare la preferenza, di volta in volta, all’una o
all’altra finalità della pena (escludendo una gerarchia statica e assoluta tra le stesse),
ma «a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata»95, precisando, in particolare,
che «l’opzione repressiva» non può mai «relegare nell’ombra il profilo
rieducativo»96. Ebbene, la norma censurata si pone fuori da questa logica,
provocando proprio il travalicamento di quel confine, il completo sacrificio
dell’esigenza rieducativa, che costituisce finalità propria della pena, addirittura
l’unica espressamente menzionata nell’art. 27, terzo comma, Cost.
Non a caso, l’art. 27 del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, recante il Regolamento di esecuzione
dell’ordinamento penitenziario, prevede una più complessa «osservazione scientifica della
personalità», che va ben al di là della mera considerazione della “buona condotta”.
94
Sempre a condizione che la limitazione non abbia «valenza meramente e ulteriormente
afflittiva», come accade sicuramente allorché al «decremento di tutela di un diritto fondamentale»
«non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango». Così, ad
esempio, è stato ritenuto incostituzionale il limite quantitativo posto per i colloqui con i difensori di
detenuti in regime di 41-bis, proprio perché «alla compressione – indiscutibile – del diritto di difesa
indotta dalla norma censurata non corrisponde, prima facie, un paragonabile incremento della tutela
del contrapposto interesse alla salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini»
(sent. n. 143/2013). Più di recente possono vedersi le decisioni, sempre riguardanti la situazione di
detenuti in regime di 41-bis, che hanno rilevato l’incostituzionalità delle disposizioni normative che
sancivano il divieto di cottura dei cibi in cella (sent. n. 186/2018) e il divieto di scambiare oggetti e
beni di modico valore tra persone appartenenti al medesimo gruppo di socialità (sent. n. 97/2020).
Misure considerate sproporzionate (in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.), che, come
si legge nella sent. n. 97/2020, appaiono il frutto di un bilanciamento compiuto ex ante dal
legislatore, a prescindere da una verifica in concreto delle specifiche esigenze di sicurezza e senza
possibilità di adattamenti calibrati sulla peculiarità dei singoli casi.
95
Sent. n. 306/1993.
96
Sent. n. 257/2006. V. anche sentt. nn. 79/2007 e 189/2010.
93
34
Marco Ruotolo
12. In questo senso e in questi limiti la questione ora all’esame della Corte
sembra segnata dalla ratio decidendi della sent. n. 253/2019. Come giustificare per
l’accesso alla liberazione condizionale una tipologia di presunzione diversa da
quella delineata per la concessione del permesso premio? L’unificante universo
dell’esecuzione della pena sembra proprio imporre l’allineamento del sistema che
la questione sollevata dalla Cassazione propone di realizzare.
Si tratta, ora, di portare a compimento quanto si ricava dalla stessa
giurisprudenza costituzionale, avendo consapevolezza che la «personalità del
condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in
passato» (sent. n. 149/2018) e che il principio rieducativo caratterizza
ontologicamente la pena, «da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino
a quando in concreto si estingue» (sent. n. 313/1990). Le premesse per questo
necessario svolgimento possono persino trarsi dalla nota affermazione, contenuta
nella sent. n. 204/1974, per cui il condannato ha diritto a che «il protrarsi della
realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in
effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al fine
rieducativo». Tale considerazione ha poi costituito la ragione principale
dell’immediatamente successivo rigetto della questione di costituzionalità
riguardante l’ergastolo comune, ritenuto non incompatibile con la Costituzione
proprio in virtù della presenza nel sistema dell’istituto della liberazione
condizionale, il quale consente «l’effettivo reinserimento anche dell’ergastolano
nel consorzio civile», secondo quanto previsto dall’art 176 cod. pen., sul punto
allora modificato dall’art. 2 della legge 25 novembre 1962, n. 1634 (sent. n.
264/1974 e poi sent. n. 274/198397). Come poi è stato ribadito e ulteriormente
chiarito, la «liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua
esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e
dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo» (sent. n. 161/199798).
Si potrà discutere tale ultima affermazione, come molti hanno fatto, poiché dire
che la pena dell’ergastolo è in tanto conforme a Costituzione (de iure) in quanto sia
in concreto riducibile (de facto) può significare ammettere, che in sé, de iure, quella
sanzione è costituzionalmente inammissibile99. Ma dovrebbe essere almeno certo,
97
Pure la giurisprudenza europea considera la presenza di tale istituto quale fattore da prendere
in considerazione per apprezzare la compatibilità di una pena perpetua con l’art. 3 CEDU, come ad
esempio accaduto nella sent. 29 aprile 2008, Garagin contro Italia.
98
Con tale decisione è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 177, primo comma,
cod. pen., nella parte in cui non prevedeva che il condannato alla pena dell’ergastolo, cui fosse stata
revocata la liberazione condizionale, potesse nuovamente fruirne in presenza dei richiesti
presupposti; i contenuti di questa decisione sono stati opportunamente valorizzati nell’Amicus
Curiae depositato presso la Corte costituzionale dal “Centro studi giuridici europei sulla grande
criminalità - Macrocrimes” (anch’esso disponibile in www.amicuscuriae.it).
99
Lo ha sostenuto, in più occasioni, Luigi Ferrajoli, parlando del paradosso di una pena
perpetua dichiarata costituzionalmente legittima nella misura in cui essa sia in realtà non perpetua
(v., ad es., L. FERRAJOLI, Ergastolo e diritti fondamentali, in Dei delitti e delle pene, 1992, 79 ss.).
Simile è, oggi, la posizione di G. M. FLICK, Ergastolo: perché ho cambiato idea, in Rivista della
Associazione Italiana dei Costituzionalisti, www.rivistaaic.it, fasc. 2/2015, 8, secondo il quale «è
paradossale che si possa ritenere costituzionale l’ergastolo con la sua perpetuità in astratto, solo a
patto di eliminare quella perpetuità in concreto: una pena incostituzionale perché perpetua nella sua
comminatoria, diventa tollerabile soltanto perché non è perpetua nella sua esecuzione».
L’ergastolo ostativo è costituzionale?
35
per ciò che interessa in questa sede, che essa implichi l’incostituzionalità di
preclusioni che rendano la pena perpetua de facto non riducibile, senza che, alla
luce della più recente giurisprudenza costituzionale ed europea qui solo
parzialmente richiamata, possa assumere rilievo ancora decisivo il fatto che la
“scelta” del condannato nella decisione di non collaborare possa cambiare nel
tempo. Quel cambiamento potrà rendere meno difficile o improbabile l’accesso alla
liberazione condizionale, sempre che non si ravvisi l’attualità dei collegamenti con
la criminalità organizzata e a condizione che siano presenti gli altri elementi, più
volte richiamati, che consentano un positivo giudizio prognostico circa la futura
condotta di vita del condannato nel contesto sociale.
Il discorso sulla collaborazione come “scelta” potrebbe peraltro essere
agevolmente ribaltato: se il detenuto deve collaborare perché sia esaminata una sua
possibile liberazione, la scelta, a quei fini, non sarebbe più tale, perché la
collaborazione finirebbe per essere imposta, con coartazione della libertà di
autodeterminazione o della libertà morale del condannato100, esposto anche al
rischio dell’auto-incriminazione in spregio al principio del nemo tenetur se
detegere, la cui operatività, come si legge nell’Amicus Curiae presentato dalla
“Associazione Antigone”, non può certo dirsi confinata alla sede cautelare101.
L’accoglimento della questione attenuerebbe pure questa frizione, impedendo che
la mancata collaborazione determini in sé l’inasprimento sanzionatorio più radicale
che discende dalla qualificazione dell’immutabilità della pena perpetua.
In tal modo si restituirebbe anche all’ergastolano ostativo quel “diritto alla
speranza” di cui oggi molti parlano, seguendo la scia della giurisprudenza europea,
o, forse meglio, si attribuirebbe un peso rilevante al concetto di fiducia pure
nell’ambito dell’esecuzione della pena. È la fiducia che è tradita dalla commissione
Analogamente, Emilio Dolcini sostiene che «la possibilità di accedere alla liberazione condizionale
non elimina […] la tensione di fondo tra una pena concepita per escludere definitivamente il
condannato dalla società […] e il principio di rieducazione del condannato» (ID., La pena detentiva
perpetua nell’ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, in E. DOLCINI – E. FASSONE – D. GALLIANI
– P. PINTO DE ALBUQUERQUE – A. PUGIOTTO, Il diritto alla speranza, cit., 33). Amplia la prospettiva
F. PALAZZO, L’ergastolo ostativo nel fuoco della quaestio legitimitatis, in G. BRUNELLI, A.
PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre?, cit., in part. 5 ss., ponendo il
problema della compatibilità costituzionale dell’ergastolo (non solo ostativo) con riguardo non
esclusivo alla rieducazione, ma anche ai principi della ragionevolezza e razionalità, nonché,
soprattutto, della proporzione e della dignità.
100
Cfr. G. M. FLICK, Ergastolo ostativo: contraddizioni e acrobazie, in Riv. It. Dir. Proc. Pen.,
2017, 1507, e G. NEPPI MODONA, Ergastolo ostativo: profili di incostituzionalità e di incompatibilità
convenzionale, ivi, 1510.
101
Anche l’Amicus Curiae di Antigone è disponibile nella sezione “Documenti” del sito
www.amicuscuriae.it. In tale direzione si vedano già le considerazioni di E. DOLCINI, La pena
detentiva perpetua, cit., 25. È peraltro esplicitamente affermato nella giurisprudenza costituzionale
che il diritto al silenzio nella fase della esecuzione della pena sia corollario dell’inviolabilità del
diritto di difesa (sent. n. 165/2008, ordd. nn. 33/2002 e 282/2008). Come si legge nella sent. n.
253/2019, «garantita nel processo nella forma di vero e proprio diritto, espressione del principio
nemo tenetur se detegere, la libertà di non collaborare, in fase d’esecuzione, si trasforma infatti –
quale condizione per consentire al detenuto il possibile accesso all’ordinario regime dei benefici
penitenziari – in un gravoso onere di collaborazione che non solo richiede la denuncia a carico di
terzi (carceratus tenetur alios detegere), ma rischia altresì di determinare autoincriminazioni, anche
per fatti ancora non giudicati».
36
Marco Ruotolo
del reato, che determina sempre una lacerazione più o meno grave del legame
sociale. È alla restaurazione del legame sociale che la pena deve tendere, è alla
ricostruzione della fiducia originariamente tradita che può ambire. Ove quel
risultato sia raggiunto la presunzione di mancato ravvedimento legata alla non
collaborazione del condannato deve poter essere superata. Se il fine della pena è
perseguito ad esso dovrebbe corrispondere la fine della pena102. L’ergastolo ostativo
preclude proprio che ciò accada, rendendo la pena perpetua «pena di morte diluita
giorno per giorno»103, come ha scritto Francesco Carnelutti. Al titolo di un suo
saggio – La pena dell’ergastolo è costituzionale?104 – mi sono voluto ispirare,
adattandolo alla trattazione del tema della pena effettivamente perpetua.
L’ergastolo ostativo è costituzionale? La mia risposta è ovviamente negativa.
L’ergastolo ostativo è costituzionalmente, convenzionalmente e umanamente
intollerabile105.
102
Al riguardo, G. M. FLICK, Ergastolo: perché ho cambiato idea, cit., 3, afferma che la pena
è «sottoposta alla “condizione risolutiva” rappresentata dal reinserimento sociale del condannato».
103
F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, I, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1946, 54 s. Non
è un caso che l’ergastolo sia stato inteso, sin dalla sua previsione nel codice Zanardelli, quale
«surrogato della pena capitale» (G. CRIVELLARI, Sub art. 12, ne Il Codice penale per il Regno
d’Italia, vol. II, Unione tipografico editrice, Torino 1890, 279), e che la pena perpetua sia stata di
recente definita da Papa Francesco quale «pena di morte nascosta» (nel Discorso del Santo Padre
Francesco alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale del 23 ottobre 2014,
pubblicato, con 23 saggi di commento, in P. GONNELLA – M. RUOTOLO, Giustizia e carceri secondo
papa Francesco, Jaca Book, Milano 2016). Tale ultima definizione è stata ripresa nella Lettera
enciclica Fratelli tutti del Santo Padre Francesco sulla fraternità e l’amicizia sociale, 3 ottobre
2020, §268 (disponibile in www.vatican.va).
104
Pubblicato in Riv. dir. proc., 1956, 1.
105
Mi piace concludere ricordando le riflessioni di Aldo Moro riguardanti la pena perpetua,
registrate nel suo penultimo Corso universitario e ora pubblicate in A. MORO, Lezioni di istituzioni
di diritto e procedura penale tenute alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di
Roma – A.A. 1975-1976, raccolte e curate da Francesco Tritto, Cacucci, Bari 2005, 116: «l’ergastolo,
che privo com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al
pentimento e al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumano non meno di quanto sia la
pena di morte». E ancora: «Ci si può, anzi, domandare se, in termini di crudeltà, non sia più crudele
una pena che conserva in vita privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena
che tronca, sia pure crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto e lo libera, perlomeno, con
sacrificio della vita, di quella sofferenza quotidiana, di quella mancanza di rassegnazione o di quella
rassegnazione che è uguale ad abbrutimento, che è la caratteristica della pena perpetua. Quando si
dice pena perpetua si dice una cosa estremamente pesante, estremamente grave, umanamente non
accettabile. Quindi ci deve essere un’adeguatezza, ci deve essere una proporzione della pena nei
confronti del reato» (corsivo mio).
VERSO UN’INCOSTITUZIONALITÀ
PRUDENTEMENTE BILANCIATA?
SPUNTI PER UNA DISCUSSIONE
RELAZIONE INTRODUTTIVA
di GLAUCO GIOSTRA
SOMMARIO: 1. Una premessa di metodo. – 2. I limiti che lo Stato deve rispettare
nell’imporre condizioni di accesso alle misure rieducative. – 3. La collaborazione con
la giustizia può rientrare nel perimetro di tali condizioni? – 4. I margini per una
dichiarazione di illegittimità consequenziale. – 5. Quali livelli probatori per essere
ammessi alla liberazione condizionale? – 6. La temperie culturale in cui i giudici sono
chiamati a pronunciare giustizia. – 7. «Dimerticolare» l’equazione “+ repressione = +
sicurezza sociale”.
1. L’ottima ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione ed i pregevoli
Amicus curiae, puntualmente inseriti nei materiali di questo incontro, mi hanno
sconsigliato di riproporre in modo probabilmente meno nitido ed incisivo le
argomentazioni che vi sono svolte e che condivido pienamente. Tanto più che
Marco Ruotolo, nella sua relazione, sviscererà i temi sul tappeto in modo esauriente
e particolarmente approfondito.
Forse è meno inutile da parte mia - come ho preannunciato agli organizzatori
del presente seminario, che ringrazio sentitamente per questo invito molto gradito sottoporre al dibattito alcuni spunti di riflessione a latere, lungo questi filoni
tematici: 1) Quali limiti deve rispettare lo Stato nell’imporre condizioni di accesso
alle misure rieducative; 2) Se la collaborazione con la giustizia ricada entro il
perimetro del “richiedibile”; 3) Quali margini di ampliamento applicativo per
illegittimità consequenziale potrà/dovrà avere l’auspicata declaratoria di
incostituzionalità; 4) Se la Corte costituzionale, una volta caducata la presunzione
assoluta legata alla collaborazione, possa “compensativamente” alzare ad libitum il
livello probatorio necessario per ammettere alla liberazione condizionale.
Infine, forse fuoriuscendo dal perimetro del compito che mi è stato affidato,
vorrei abbandonare il profilo tecnico-giuridico per calare il problema de quo nel
deteriorato contesto in cui la Corte costituzionale negli ultimi tempi è stata costretta
(e verosimilmente anche nell’emananda decisione sarà costretta) a pronunciarsi.
2. La questione oggi all’esame della Corte costituzionale è stata da questa già
affrontata e risolta negando l’asserito contrasto con l’art. 27 Cost. (sentenza n.
153/2003) e, come ci ricorda con la consueta puntualità la Traccia per la
discussione, la Cassazione – poggiando prevalentemente su tale precedente – sino
a ieri l’altro l’ha sempre respinta come manifestamente infondata. Penso che quella
Ordinario di Diritto processuale penale, Università di Roma-Sapienza.
38
Glauco Giostra
pronuncia abbia esercitato un’influenza non soltanto sulla chiusura
giurisprudenziale, ma anche sull’approccio metodologico con cui, da allora, la
questione è stata affrontata.
Non è inutile, per meglio chiarire il senso di questa affermazione, un breve
rewind. Il giudice a quo di allora aveva precipuamente imperniato il suo
argomentare sulla sentenza che aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale
dell'art. 177 c.p., nella parte in cui non prevedeva che il condannato alla pena
dell'ergastolo, al quale fosse stata revocata la liberazione condizionale, potesse
essere nuovamente ammesso a fruire del beneficio (sentenza n. 161/1997). In quella
pronuncia, la Corte aveva incisivamente formulato un importante principio: «se la
liberazione condizionale è l'unico istituto che (…) rende non contrastante con il
principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell'ergastolo, vale
evidentemente la proposizione reciproca, secondo cui detta pena contrasta con la
Costituzione ove (…) fosse totalmente preclusa, in via assoluta, la riammissione del
condannato alla liberazione condizionale». Rifacendosi a questo precedente, il
giudice remittente aveva sostenuto che anche per la preclusione assoluta derivante
dalla mancata collaborazione dovesse valere lo stesso ragionamento. La Corte, nel
dichiarare non fondata la questione, ebbe buon gioco a replicare che la preclusione
prevista dall’art. 4-bis comma 1 ord. penit. «non è conseguenza che discende
automaticamente dalla norma censurata, ma deriva dalla scelta del condannato di
non collaborare pur essendo nelle condizioni per farlo» (ancora sentenza
n.153/2003).
Da questa risalente pronuncia il focus della questione si è concentrato sul
problema della effettiva libertà del condannato nell’operare tale scelta. Si è
ragionato, e in molti casi si ragiona ancora, secondo il seguente sillogismo: la pena
carceraria, la cui fine deve coincidere con quella della vita del condannato è
costituzionalmente e convenzionalmente illegittima; la liberazione condizionale
sottrae l’ergastolo a una tale censura, prospettando la possibilità di una conclusione
anticipata dell’espiazione della pena; se la concessione della liberazione
condizionale viene subordinata ad un determinato comportamento da parte del
condannato, è costituzionalmente e convenzionalmente necessario che tale
comportamento sia effettivamente rimesso alla sua libera scelta, in modo che
dipenda da lui la possibilità di tornare in libertà. Il dibattito si è dunque incentrato,
con rilievi critici beninteso molto interessanti e tutti condivisibili, sul problema se
quella di collaborare possa considerarsi davvero frutto di una libera determinazione
dell’interessato.
Credo tuttavia che, ancor prima, bisognerebbe discutere del significato e della
esigibilità della condotta pretesa. Non è che se per essere ammessi alla liberazione
condizionale fosse richiesto – lo dico per estremizzare, naturalmente – l’abiura di
un credo politico o religioso (per esempi meno irrealistici, v. nota 1), un tale
presupposto potrebbe andare esente da critiche sol perché il condannato sarebbe
libero di realizzarlo. Quando la concessione di una misura fondamentale per il
rientro in società del condannato, come la liberazione condizionale, è subordinata a
determinate condotte del beneficiario, queste devono essere funzionalmente
coerenti con la finalità della misura, così che la loro mancanza o presenza sia
inequivoca espressione del percorso riabilitativo compiuto dal condannato.
Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata?
39
Sarebbe in linea con tale principio, solo per fare qualche esempio, valorizzare
la circostanza che il condannato si sia reso disponibile ad avviare un percorso di
giustizia riparativa; non abbia rifiutato una opportunità di lavoro per riuscire a
risarcire la vittima; abbia tenuto condotte disciplinarmente e penalmente
irreprensibili. Questi comportamenti e la liberazione condizionale convergono in
sinergia funzionale verso l’obbiettivo del positivo reinserimento sociale del
soggetto. Si può, anzi si deve ponderare se e per quanto tempo la loro inosservanza
possa risultare preclusiva della concessione del beneficio; vi è comunque una
congruità teleologica tra questi e la liberazione condizionale, tale da giustificare una
scelta legislativa che costituisca gli uni come presupposti necessari per la
concessione dell’altra.
Se, invece, per concedere la liberazione condizionale si richiede al condannato
una condotta che mira ad un obbiettivo politico, magari in sé condivisibile1, ma del
tutto eccentrico rispetto al recupero sociale della persona, questa diviene mezzo e
non fine, tradendo ad un tempo l’impostazione personalistica del nostro impianto
costituzionale, in generale, e la funzione rieducativa della pena, in particolare. In
tal caso, che la collaborazione sia frutto di una effettiva libera scelta o no, non rileva
neppure: la strumentalizzazione dell’individuo, tanto più se fisicamente
assoggettato al potere autoritativo dello Stato, non dovrebbe mai trovare
cittadinanza nel nostro contesto costituzionale.
3. Se così stanno le cose, bisogna prima di tutto chiedersi: che senso ha
pretendere la collaborazione con la giustizia per concedere la liberazione
condizionale? A questo interrogativo si è data da sempre una risposta duplice: si
tratta di una scelta politica per combattere la criminalità mafiosa; si tratta di un
criterio legale vòlto a dimostrare l’avvenuto ravvedimento e/o la cessata
pericolosità.
È di tutta evidenza che la prima riconosce con ruvida franchezza il reale
obbiettivo del legislatore, mentre la seconda cerca di coprirne, senza riuscirvi
appieno, l’impresentabilità. La prima ratio corrisponde alla finalità effettivamente
perseguita, che però presenta una palese incongruità rispetto alla misura che ne è
condizionata; la seconda sarebbe invece ad essa fisiologicamente funzionale, se non
fosse scopertamente fasulla.
Verosimilmente, proprio nella consapevolezza della dubbia legittimità
costituzionale della presunzione assoluta che si accingeva ad introdurre, il
legislatore del 1992 (cfr. Relazione presentata in Senato in sede di conversione del
decreto-legge n. 306 del 1992, atto n. 328) si preoccupò di spiegare come le nuove
norme avessero inteso esprimere che, «attraverso la collaborazione, chi si è posto
1
Ad esempio: dal condannato per un grave episodio di corruzione si potrebbe pretendere di
fare il nome dei politici che prendono parte, a prescindere dall’episodio a lui addebitato, ad un
sistema di collaudate concussioni, sistema che risulta agli atti non essergli sconosciuto;
dall’immigrato condannato per un reato contro la libertà sessuale si potrebbero pretendere
informazioni circa i protagonisti e l’organizzazione del traffico di esseri umani. Contributi
investigativamente preziosi, ma non per questo esigibili, essendo privi di significato dal punto di
vista risocializzativo.
40
Glauco Giostra
nel circuito della criminalità organizzata può dimostrare per facta concludentia di
esserne uscito», e che pretendere tale scelta è in armonia con il principio della
funzione rieducativa della pena, «perché è solo la scelta collaborativa ad esprimere
con certezza quella volontà di emenda che l'intero ordinamento penale deve tendere
a realizzare».
La soluzione normativa ha poi ricevuto l’avallo, anche nelle sue motivazioni,
da parte della Corte costituzionale, che ha trovato non irragionevole, per quanto in
particolare concerne la liberazione condizionale, «che non sia possibile dimostrare
[…] il sicuro ravvedimento del condannato se non in presenza della collaborazione
con la giustizia» (sentenza n. 273/2001). La disciplina de qua, infatti, non
impedirebbe in maniera assoluta e definitiva l’ammissione alla liberazione
condizionale, ma ancorerebbe «il divieto alla perdurante scelta del soggetto di non
collaborare con la giustizia; scelta che è assunta dal legislatore a criterio legale di
valutazione di un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini di
accertare il "sicuro ravvedimento" del condannato» (sentenza n. 135/2003).
Ma è la stessa Corte costituzionale a non credere sino in fondo che le cose
stiano in questi termini. Se fosse ragionevole e costituzionalmente legittimo che la
scelta di collaborare costituisca la prova indispensabile per accertare il sicuro
ravvedimento e, quindi, per poter concedere liberazione condizionale, perché si è
poi voluto che questa possa essere concessa anche nel caso in cui la collaborazione
sia divenuta inutile (sentenze nn. 68/1995 e 357/1994)? Come può essere
ragionevole, appunto, che – a parità di determinazione a non collaborare- ad un
soggetto sia precluso a priori l’accesso al beneficio e ad un altro no, in base alla
casuale circostanza, ad esempio, che nel secondo caso i fatti criminosi siano stati
acclarati in una sentenza passata in giudicato? Ed ancora: la Corte ha sempre
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis nella parte in cui non prevede
che una certa misura rieducativa possa essere concessa ai condannati che, prima
della data di introduzione dell’onere di collaborazione a loro carico, già «abbiano
raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto» (cfr. sentenza
n. 445/1997; nonché sentenza n. 504/1997; di recente, anche sentenza n. 32/2020
con riguardo alla c.d. Spazzacorrotti). In altri termini: quando è la stessa condotta
penitenziaria ad aver consentito «di accertare il raggiungimento di uno stadio del
percorso rieducativo adeguato al beneficio da conseguire» (ancora sentenza n.
445/1997), il sopravvenuto e disatteso obbligo di collaborare non può precludere la
concessione della misura rieducativa. Il che vale quanto ammettere che la
“rieducazione” del condannato in realtà si può conseguire anche a prescindere dalla
collaborazione.
Le stesse argomentazioni dovrebbero bastare per rileggere in un’altra, più
realistica chiave, il tentativo ciclicamente riaffiorante di “penitenziarizzare” la
collaborazione, gabellandola per prova legale del venir meno della pericolosità del
soggetto. D’altra parte, c’è una spia normativa che tradisce in modo inequivoco la
vera ratio legislatoris. Se la collaborazione valesse soltanto, quale strumento
privilegiato per dimostrare il venir meno della pericolosità insita nell’appartenenza
a certi sodalizi criminali, non si vede per quale ragione il collaborante dovrebbe
essere ammesso ai benefici senza neppure dover previamente scontare la maggiore
frazione di pena prevista per il reato commesso (art. 58-ter). Il combinato disposto
Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata?
41
dell’art. 4-bis comma 1 e dell’art. 58-ter lascia affiorare un sottotesto: lo Stato
propone al condannato di barattare informazioni investigativamente preziose con la
restituzione di “pezzi di libertà”2.
Per la verità la Corte costituzionale, già in una risalente pronuncia, non mancò
di “radiografare” nitidamente la natura della collaborazione richiesta: «è
essenzialmente espressione di una scelta di politica criminale, adottata per finalità
di prevenzione generale e di sicurezza collettiva» e «l’art. 4-bis, comma 1, ord.
penit. non può essere presentato sotto le vesti di una disposizione di natura
“penitenziaria”», giacché anzi comporta «una sorta di scambio tra informazioni utili
a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale
percorso di trattamento penitenziario», con una «rilevante compressione» della
finalità rieducativa della pena. La Corte non ne trasse le dovute conseguenze in
termini di incostituzionalità, ma volle denunciare con forza la «preoccupante
tendenza alla configurazione normativa di “tipi d’autore”, per i quali la
rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita in caso di
mancata collaborazione» (sentenza n. 306/1993): un chiaro invito al legislatore a
cambiare strada. È stato come sussurrare a un sordo. Il legislatore ha proseguito
imperterrito lungo la stessa via per quasi trent’anni, sino alla recente legge c.d.
Spazzacorrotti. E niente lascia prevedere che l’abbandoni.
La sentenza n. 253/2019 in materia di permessi compie un importante passo
avanti. Condividendo la natura “eccentrica” del requisito della collaborazione
rispetto al percorso risocializzativo, la Corte ha ritenuto che per farlo rientrare
nell’alveo della costituzionalmente consentito, sia necessario, ma anche sufficiente,
che perda il suo carattere di assoluta imprescindibilità. Forse, come vedremo, lo
scomposto allarmismo politico e mediatico che ha accompagnato il suo
pronunciamento, l’ha trattenuta dall’addivenire ad una più radicale e chiarificatrice
censura, che è auspicabile, ma non realistico, attendersi dalla imminente pronuncia
in materia di liberazione condizionale: affermare, cioè, il principio secondo cui, nel
disciplinare i presupposti per la concessione di misure volte al reinserimento sociale
del condannato, lo Stato ha il diritto di esigere dallo stesso tutte e soltanto le
condotte che sono inequivoche espressione del suo percorso riabilitativo; mai può
strumentalizzarne la speranza e le aspettative per indurlo ad un collaborazionismo
che altrimenti non riuscirebbe ad ottenere.
4. Sia che la Corte decida di rimuovere in modo radicale il requisito della
collaborazione, sia che si limiti più probabilmente - sulla scia della recente sentenza
n. 253/2019 - a dichiarare l’illegittimità del suo carattere assoluto, tutto lascia
Ciò non significa, beninteso, che l’atteggiamento assunto dal condannato rispetto alla scelta
della collaborazione non possa e non debba essere preso in considerazione -soprattutto nelle sue
motivazioni- dalla magistratura di sorveglianza quale elemento significativo nel giudizio
prognostico che questa è chiamata ad esprimere. Si vuol soltanto affermare che il legislatore non
dovrebbe assegnare normativamente a tale scelta del condannato - scelta di per sé estranea al suo
processo di riabilitazione personale e sociale - il valore di un pre-giudizio, che l’interessato non
potrà non avvertire come ben più importante, per lo Stato, del proprio percorso interiore, che egli è
impegnato a percorrere.
2
42
Glauco Giostra
prevedere una pronuncia di incostituzionalità3. Sperando che non sia soltanto un
whisful thinking, conviene chiedersi allora quali siano i margini per una estensione
applicativa del suo dictum ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87
(Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale).
Se la Consulta dovesse mai risolversi a dichiarare l’incostituzionalità del
requisito-collaborazione in sé, cioè in quanto condotta che lo Stato non può esigere
dal condannato per restituirgli la libertà, gli effetti dovrebbero propagarsi pressoché
automaticamente: si tornerebbe, infatti, al sistema precedente al decreto legge n.
306 del 1992 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e
provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa) che aveva introdotto nei
confronti dei condannati per i reati appartenenti alla c.d. prima “fascia”, l’obbligo
della collaborazione per poter accedere alle misure rieducative. Come con quel
decreto legge (convertito nella legge n. 356 del 1992) si passò, «da un sistema
fondato su di un regime di prova rafforzata per accertare l’inesistenza di una
condizione negativa (assenza dei collegamenti con la criminalità organizzata), ad
un modello che introduce una preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto
attraverso una condotta qualificata (la collaborazione)», con la declaratoria di
incostituzionalità si compirebbe un percorso a ritroso, tornando “soltanto” a
pretendere che siano acquisiti «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti
con la criminalità organizzata o eversiva». Soddisfatta questa condizione, la
liberazione condizionale e tutte le misure elencate nel comma 1 dell’art. 4-bis
potrebbero essere concesse ai condannati per uno dei reati ivi previsti. Non si
tratterebbe comunque, beninteso, di un mero ritorno al passato: l’art. 4-bis si è
infatti medio tempore “infarcito” delle più eterogenee fattispecie penali, rispetto ad
alcune delle quali la condizione richiesta (come del resto l’attuale onere di
collaborazione) non ha senso alcuno, data la loro struttura monosoggettiva del tutto
estranea alla logica – discutibile, ma non irragionevole – che ne aveva ispirato
l’introduzione con riguardo alle organizzazioni criminali di stampo mafioso o
terroristico.
Qualora l’attesa pronuncia della Corte, invece, seguendo il solco tracciato dalla
sentenza n. 253/2019, si limitasse molto più probabilmente a censurare il carattere
assoluto della preclusione, il discorso in ordine ai margini per dichiarazioni di
illegittimità consequenziale dovrebbe farsi più articolato. Molto dipenderebbe dal
parametro costituzionale ritenuto eventualmente assorbente dalla Corte.
Se si dovesse limitare ad accogliere la questione sotto il profilo dell’art. 117
Cost., che pure è stato opportunamente invocato nell’ordinanza di rimessione, il
cuore della decisione sarebbe costituito dalla strutturale incompatibilità con l’art. 3
CEDU - come insegna la Corte europea nella sentenza Viola c. Italia n. 2 - della
presunzione assoluta di pericolosità fondata sull’assenza di collaborazione. Ad
essere dichiarato incostituzionale, sarebbe l’ergastolo nei fatti ostativo, che chiude
inesorabilmente alla speranza l’orizzonte del condannato, in contrasto anche col
3
È pur vero che nell’evocato precedente dello scorso anno la Corte aveva precisato, quasi ad
excusatio non petita, che non intendeva riferire i suoi ragionamenti al c.d. ergastolo ostativo, ma si
tratta di una puntualizzazione di cui non è difficile cogliere l’intento sedativo degli allarmismi
montanti (v. oltre in testo, §5).
Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata?
43
divieto di infliggere pene contrarie al senso di umanità imposto dalla nostra
Costituzione. In questo caso, la declaratoria di incostituzionalità potrebbe essere
consequenzialmente estesa a tutti i condannati all’ergastolo per uno dei reati
dell’art. 4-bis comma 1, anche se la ricaduta concreta sarebbe piuttosto limitata, dal
momento che pochissimi dei reati elencati nel primo comma dell’art. 4-bis risultano
punibili con l’ergastolo. Rimarrebbe difficile, invece, applicare lo stesso parametro
alle pene temporanee. Sarebbe arduo, ad esempio, qualificare inumana e degradante
una pena a sette anni di reclusione per reato ostativo che non ammetta alla
liberazione condizionale il condannato non collaborante. Al contempo, però,
striderebbe con la coerenza, se non addirittura con il buon senso, un sistema in cui
la mancata collaborazione fosse sempre preclusiva della liberazione condizionale,
salvo che per l’ergastolano.
La potenzialità espansiva si accrescerebbe significativamente se l’auspicata
pronuncia di incostituzionalità si imperniasse sulla incompatibilità con il finalismo
rieducativo di cui l’art. 27, comma 3, Cost. vuole siano contrassegnate tutte le pene.
Anzitutto, sarebbe difficile per la Corte discostarsi dalla linea tenuta meno di
un anno fa con la sentenza n. 253/2019, alla cui stregua «i profili di illegittimità
costituzionale relativi al carattere assoluto della presunzione attingono tanto la
disciplina (…) applicabile ai detenuti per delitti» di matrice mafiosa4, «quanto
l’identica disciplina dettata dallo stesso art. 4-bis, comma 1, ord. penit. per i detenuti
per gli altri delitti in esso contemplati». Considerazioni che non potranno non essere
traslate “in calce” alla sentenza che dovesse dichiarare l’incostituzionalità degli artt.
4-bis e 58-ter ord. penit. e dell’art. 2 decreto-legge n.152 del 1992 (convertito con
modificazioni), nella parte in cui escludono che un condannato all’ergastolo per un
reato di mafia possa essere ammesso alla liberazione condizionale, anche se non
collabora.
Accanto a questa estensione “orizzontale” dell’ambito applicativo
dell’incostituzionalità, (cioè per tipologia di reati), se ne potrebbe prospettare una,
per così dire, “verticale” (per tipologia di pena): la collaborazione, cioè, potrebbe
perdere consequenzialmente la sua imprescindibilità ai fini della liberazione
condizionale non soltanto rispetto alla pena dell’ergastolo, ma anche alla pena
temporanea (regola che dovrebbe valere – ancora per estensione “orizzontale” –
anche con riguardo alle pene temporanee inflitte per ogni reato ostativo dell’art. 4bis, sempre per evitare la paradossale disparità di cui la Corte parla con
convincente efficacia nella sentenza n. 253/2019).
Ma la Consulta, nel caso di incostituzionalità incardinata sul finalismo
rieducativo della pena, potrebbe (e credo dovrebbe) cogliere l’opportunità per
“sanificare” il sistema nel suo complesso. Infatti, come si domanda opportunamente
la Traccia per la discussione, rimossa tramite giudicato costituzionale l’ostatività
penitenziaria per la tappa iniziale (il permesso premio) e per quella finale (la
Questa ed altre improprie locuzioni di sintesi saranno nel testo usate in luogo dell’unica
formulazione tecnicamente precisa (delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli
commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare
l’attività delle associazioni in esso previste) al solo fine di non appesantire la struttura sintattica del
periodo.
4
44
Glauco Giostra
liberazione condizionale)5 del percorso risocializzativo del detenuto, non sarebbe
del tutto irragionevole mantenerla per le tappe intermedie? Direi che l’interrogativo
debba considerarsi retorico, perché altrimenti il sistema rivolgerebbe al condannato
un’incomprensibile proposta trattamentale: “non importa se non collabori con la
giustizia, gli elementi che attestano la rescissione di ogni legame criminale e il tuo
percorso di riabilitazione personale e sociale sono molto convincenti: ti ammetto ai
permessi premio; poi però sarai escluso da ogni altra misura alternativa perché non
collabori con la giustizia; infine, potrai fruire della liberazione condizionale,
nonostante la mancata collaborazione”. Il rischio è che l’ordinamento, oltre che la
coerenza, perda anche la credibilità agli occhi della persona detenuta; credibilità,
che è un presupposto essenziale di ogni “riavvicinamento” del condannato alla
legalità.
Non dovrebbe essere di ostacolo a questa operazione in grado di restituire
coerenza all’intero sistema, il self restraint che ha tenuto la Corte nella sentenza n.
253/2019, precisando ad ogni piè sospinto che si sarebbe occupata soltanto di
permessi premio, per la loro specificità che li distingue dalle altre misure
alternative: affermazione discutibile, ma non priva di una sua plausibilità. Nella
pronuncia di domani, però, l’ottica sarebbe rovesciata: si alzerebbe il passaggio a
livello della collaborazione per lasciare andare il condannato meritevole verso la
liberazione condizionale, mentre lo si terrebbe abbassato per tutte le altre misure
che tale liberazione preparano e propiziano. Se là poteva dirsi che il meno non può
estendersi al più, nel caso in esame sarebbe difficile sostenere che il più non
comprende il meno. Se l’alfa e l’omega dell’alfabeto trattamentale non sopportano
ostatività, è difficile che tutto il resto ne resti assoggettato.
5. Dobbiamo tener presente che proprio le ultime considerazioni, volte a
sottolineare il ben più rilevante significato di una pronuncia in tema di liberazione
condizionale rispetto a quella sui permessi premio, fanno intravvedere il rovescio
della medaglia. Se nella sentenza n. 253/2019 la Corte ha avvertito la necessità di
“compensare” la declaratoria di incostituzionalità con la fissazione di una serie di
ostacoli probatori, pressoché invalicabili, alla concessione dei permessi premio una
volta liberata dall’ostatività della collaborazione, le ben più rilevanti implicazioni
della liberazione condizionale potrebbero indurla a prevederne di maggiormente
impegnativi o quanto meno a ribadire quelli già indicati in quella sede.
Prospettiva molto verosimile, ma non per questo condivisibile.
I più rigorosi criteri che la Corte in quella sentenza si è impegnata ad
individuare per “surrogare” la funzione svolta dalla «presunzione assoluta
caducata» meritano di essere osservati più da vicino per verificare se possono
considerarsi costituzionalmente necessari e sistematicamente credibili, e in quanto
tali riproponibili nella futura sentenza in tema di liberazione condizionale.
Quando la Corte afferma che, caduta la condizione assolutamente preclusiva,
si impone «l’acquisizione di stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità
5
Di tappe, nello stesso senso del testo, parla la Corte costituzionale nella sent. n. 149/2018
proprio a proposito di permessi premio e di liberazione condizionale.
Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata?
45
di collegamenti con la criminalità organizzata», si riferisce giustamente ad «un
regime di prova rafforzato per accertare l’inesistenza di una condizione negativa»
(sentenza n. 68/1995) che il sistema, anzi lo stesso art. 4-bis, già conosce: in caso
di collaborazione impossibile, infatti, pretende che «siano stati acquisiti elementi
tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata,
terroristica o eversiva» (comma 1-bis)6. Correttamente, quindi, la Corte, elisa la
condizione ostativa, richiede che il giudice si attesti su questo più rigoroso livello
di accertamento dell’assenza di rapporti del condannato con il sodalizio criminale.
D’altra parte, sarebbe clamorosamente incoerente un sistema che esigesse un più
impegnativo livello probatorio in caso di collaborazione oggettivamente inesigibile,
mentre ne prescindesse in caso di collaborazione esigibile e non prestata.
Molto meno convincente appare il Giudice delle leggi, invece, quando si spinge
ad affermare7 che in assenza di collaborazione possono essere concessi permessi
premio soltanto qualora siano stati acquisiti elementi tali da escludere non soltanto
l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche il pericolo del
ripristino di tali collegamenti. Non occorrono doti divinatorie per preconizzare che
un simile rigoroso criterio verrà imposto anche nella prossima pronuncia
riguardante la liberazione condizionale8.
Non mi sento, tuttavia, di condividere questa funzione para-legislativa che la
Consulta ha finito per svolgere, estraendo dal cilindro normativo siffatto criterio di
nuovo conio. La Corte ritiene di esserne legittimata per sopperire al vuoto di tutela
(come accadde per il suicidio assistito: cfr. sentenza n. 242/2019) conseguente alla
rimozione dell’indispensabilità della collaborazione. In verità, la raccolta di
elementi per garantire che non vi sia il rischio di un ripristino in futuro dei
collegamenti con la criminalità organizzata copre un terreno probatorio che il
preesistente onere di collaborazione ignorava del tutto: prova inequivoca della
rescissione dei collegamenti attuali con la criminalità organizzata, l’assolvimento
di tale onere non poteva certo considerarsi di per sé garanzia di esclusione di ogni
loro ripristino. La caducazione di questo onere collaborativo, pertanto, non lascia
in realtà alcun vuoto di tutela. Si aggiunga che il criterio formulato dalla Corte, se
preso rigorosamente alla lettera, si tradurrà in una probatio diabolica che
vanificherà gli effetti della pronuncia di incostituzionalità dell’obbligo di
collaborazione; altrimenti, potrà risultare inutile, nel senso di ritenere insito nel
6
È discusso in effetti se, dopo la sent. n. 253/2019, che ha rimosso l’imprescindibile necessità
della collaborazione, mantenga ancora un senso il comma 1-bis, riservato alla collaborazione
impossibile. Problema delicatissimo ed aperto. Qui mi limito ad osservare che, stando almeno al
dispositivo di quella sentenza, per la collaborazione possibile ma non prestata la Corte pretende
surrogatoriamente due accertamenti negativi della pericolosità del richiedente in riferimento ai
collegamenti con l’organizzazione criminale: quello relativo all’attualità e quello relativo al
futuribile; per la collaborazione impossibile, invece, la norma pretende soltanto il primo.
7
Per non parlare delle ingerenze della Corte nelle modalità di formazione del convincimento
giudiziale, quasi a voler tener la mano alla magistratura di sorveglianza quando deve scrivere
decisioni che riguardano la prognosi di riabilitazione sociale di condannati per reati che destano
grande allarme sociale e mediatico. Ma questo aspetto rimanda verosimilmente al contesto politicoculturale con cui questa pronuncia ha dovuto misurarsi (v. oltre §5).
8
Sia per il clima culturale che accompagna ogni decisione che incide sulla pena dei condannati
per mafia, sia perché sarebbe insensato pretendere quella sorta di “accertamento impossibile” per
concedere i permessi, prescindendone per ammettere alla liberazione condizionale.
46
Glauco Giostra
positivo giudizio in ordine al percorso di riabilitazione sociale del condannato (tale
da ammetterlo al beneficio) una prognosi di irreversibile allontanamento del
soggetto dal contesto criminale di provenienza.
Un’ultima notazione. Abbiamo ricordato che giustamente la Corte, con
l’illegittimità consequenziale, ha esteso la declaratoria di incostituzionalità anche
ai condannati per gli altri reati contenuti nell’elenco del comma primo dell’art. 4bis, diversi da quello di matrice mafiosa, disponendo che anche loro, in mancanza
di collaborazione, potranno accedere ai permessi premio soltanto quando si potrà
escludere rigorosamente l’attualità di collegamenti o il pericolo del loro ripristino
(sentenza n. 253/2019). Tuttavia, in tal modo si verifica una sorta di corto circuito
nel ragionamento della Corte. Poiché, da un lato, giustifica la pretesa di questo più
rigoroso regime probatorio in ragione delle note e peculiarissime connotazioni
criminologiche dei reati di criminalità mafiosa; dall’altro, estende la rimozione
della collaborazione ostativa anche ai condannati per gli altri reati previsti nell’art.
4-bis comma 1, per evitare una «paradossale disparità», poiché rispetto ad essi non
c’è bisogno di dimostrare «l’assenza di legami con un, inesistente, sodalizio
criminale di originaria appartenenza». Difficile allora giustificare che anche per
questi condannati la concessione del beneficio sia subordinata - come si legge nel
dispositivo della sentenza - all’acquisizione di «elementi tali da escludere non
soltanto l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche il
pericolo del ripristino di tali collegamenti»: collegamenti, che la stessa Corte ritiene
inesistenti.
La verità è che i criteri probatori di maggior rigore, chiamati a prendere il posto
della prova legale della collaborazione, non dovrebbero valere quando si tratta di
concedere, oggi i permessi premio, domani (speriamo) la liberazione condizionale,
a condannati per i reati di cui al primo comma dell’art. 4-bis, diversi da quelli di
criminalità organizzata di stampo mafioso o terroristico.
Questa difficoltà di governare la materia anche a livello giurisprudenziale è
conseguenza e riprova del fatto che il 4-bis è ormai divenuto una specie di
contenitore di raccolta indifferenziata in cui il legislatore “getta” i reati
demagogicamente più à la page senza tenere nella dovuta considerazione la loro
gravità, la loro struttura e il loro profilo criminologico.
6. Limitarsi a queste considerazioni di carattere tecnico-giuridico, tuttavia,
significherebbe rassegnarsi ad una visione scotomizzata del problema: per averne
una soddisfacente intelligenza il discorso deve soffermarsi su quei fattori di degrado
culturale e di demagogia mediatica che da tempo condizionano il nostro legislatore
e nell’ultimo periodo pressano - in modo ancora indiretto, ma non per questo privo
di influenza – chi deve pronunciare giustizia.
Antologico, da questo punto di vista, il clima politico-culturale nel quale la
Corte costituzionale ha emesso la sentenza n. 253/2019: dichiarazioni di autorevoli
magistrati, allarmati caveat di noti esponenti politici, un’indegna campagna di
stampa avevano trasmesso all’opinione pubblica l’inquietante messaggio secondo
cui una pronuncia di accoglimento da parte della Consulta avrebbe costituito un
irresponsabile regalo alla mafia; foriero, oltretutto, di altri ancor più allarmanti
Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata?
47
cedimenti. La sensazione è che la Corte sia meritoriamente riuscita a resistere a
questa onda d’urto, ma abbia ritenuto di doversi far carico di un (improprio)
compito di rassicurazione sociale. Sembra confermare questa sensazione non
soltanto la particolare insistenza nel sottolineare che la pronuncia emanata non
doveva considerarsi di per sé prodromo di altri “cedimenti” in termini di ostatività,
ma soprattutto la forte determinazione nel prescrivere rigorosi rimedi compensativi
degli effetti della propria pronuncia. Dal §9 del considerato in diritto di quella
pronuncia, infatti, traspare evidente la preoccupazione di “controbilanciare”
l’eliminazione dell’assoluta ostatività legata alla mancata collaborazione; quasi un
ansioso scrupolo di precisare “è incostituzionale, però state tranquilli che…”.
Quando, per giustificare il criterio del “pericolo di ripristino”, la Corte invoca un
vago «è necessario alla luce della Costituzione»; quando si spinge a precisare che
grava sullo stesso condannato richiedente l’onere di fare specifica allegazione e che
in caso di “referti” negativi delle Autorità di sicurezza «incombe sullo stesso
detenuto (…) anche quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno», si
ha la sensazione che il Giudice delle leggi abbia avvertito l’esigenza di rassicurare
la collettività del fatto che il passo compiuto con la declaratoria di incostituzionalità
non era segno di inconsapevolezza dei rischi, tanto è vero che la Corte stessa, nel
rimuovere il divieto di accesso ai permessi per i non collaboranti, si è premurata di
predisporre stringenti guard rail alla magistratura di sorveglianza per evitare
qualsiasi sbandamento applicativo; di più: per evitare significativi scostamenti (in
termini di concessione di permessi ai non collaboranti) dalla situazione antecedente
la pronuncia. Ma se questa lettura ha un fondamento, ci dobbiamo chiedere come
siamo giunti ad un punto di “intimidazione” culturale per cui la Corte costituzionale
ritiene di doversi spingere sino al limite dell’esondazione funzionale svolgendo un
ruolo di rassicurazione sociale che, semmai, spetterebbe al legislatore. Sia pure nei
ristretti limiti di queste note è un interrogativo che non può essere ignorato, poiché
riguarda una situazione tutt’altro che contingente e che rimanda alle ragioni di un
malessere democratico grave, durevole e profondo.
Da circa trent’anni - potremmo dire, semplificando molto, dall’epoca di Mani
Pulite - si registra un subdolo, crescente stravolgimento della fisiologica dinamica
della democrazia rappresentativa e dei rapporti tra poteri; stravolgimento, che trova
la massima, preoccupante espressione nel settore della risposta punitiva dello Stato.
La politica non cerca più di scegliere tra le diverse proposte culturali espresse dal
confronto degli esperti nei vari ambiti quelle consentanee alla propria ideologia, per
poi cercare di procurarsi il consenso del popolo sulle scelte operate, dimostrandone
equità e utilità sociale.
Da troppo tempo, cultura e competenze sono percepite come espressione di
oligarchie elitarie: peggio, arnesi stantii e antidemocratici. Nell’attuale versione
caricaturale della democrazia ciò che conta è la volontà del popolo (che ovviamente
è altra cosa dalla volontà democraticamente espressa), come si manifesta nei
sondaggi, nelle manifestazioni, nei social, nella consistenza dei followers. La
politica non guida più la collettività, ma ne insegue bulimicamente il consenso, e si
limita a tradurre normativamente i desiderata del popolo: i confini della democrazia
sono stati ormai superati e ci stiamo inoltrando nell’infido terreno dell’oclocrazia.
Il politico à la page si presenta e spesso si percepisce come il ventriloquo del
48
Glauco Giostra
popolo. Ed in quanto tale, “ingiudicabile”: sempre più di frequente, ormai, quando
un’autorità indipendente, in particolare la magistratura, bussa alle porte del potere,
puntualmente si sente gridare alla giustizia ad orologeria o, peggio, si invitano
provocatoriamente i giudici a farsi eleggere prima di poter giudicare. Un grossolano
e inquietante analfabetismo costituzionale nei cui confronti però la collettività si
può dire abbastanza mitridatizzata, tanto stucchevolmente è ripetuta una tale litania.
Ma negli ultimi tempi assistiamo ad un più subdolo e più preoccupante fenomeno
di delegittimazione delle autorità indipendenti.
Poiché ormai la pandemia emotiva è l’insicurezza, una politica imbelle e alla
ricerca esclusivamente di un facile consenso si preoccupa soltanto di offrire la
risposta più facile e più inutile: inasprimento della repressione penale e restrizione
dei diritti e delle opportunità di risocializzazione dei detenuti. Tanto che si parla
giustamente di democrazia penale. Queste scelte demagogiche ed emotive trovano
spesso temperamento o censura nella giurisprudenza di autorità indipendenti che
non hanno un problema di consenso. In simile evenienze o in vista di possibili
evenienze di questo tipo, voci stentoree, talvolta purtroppo anche di alti magistrati
o di leader politici, gridano al pericolo, additano certi responsi come frutto di
pregiudizi ideologici o di cieca irresponsabilità. Basterebbe rievocare quanto di
recente accaduto alla vigilia della sentenza n. 253/2019 dello scorso anno, alle
aggressioni verbali subite dal Garante nazionale dei detenuti per aver denunciato
l’insostenibilità di certe condizioni detentive, alla magistratura di sorveglianza per
l’ampio ricorso alla detenzione domiciliare in tempo di pandemia, all’accusa rivolta
alla Corte EDU in più di una circostanza (si pensi, in particolare, alle pronunce in
tema di ergastolo) di non aver compreso la caratura della delinquenza italica. Anche
nella mia esperienza di presidente della Commissione ministeriale incaricata di
elaborare un progetto di attuazione della delega in materia penitenziaria, ho dovuto
prendere atto di quanto scomposte e immotivate siano le aggressioni nei confronti
di riforme che hanno una pur flebile intonazione garantista: tra le tante invettive
ricevute nel corso dell’elaborazione di un tale progetto, vi è stata anche l’accusa di
continuare in tal modo la trattativa Stato-mafia! Asserzione che avrebbe meritato
più una querela, che una confutazione (peraltro, neppure necessaria: per espressa
previsione di delega i reati di mafia erano esclusi dalla riforma).
Perché questo atteggiamento ci sembra molto più corrosivo dei principi dello
Stato di diritto dell’altro sopra ricordato? Perché queste voci allarmate non si levano
a tutela di interessi personali o di partito, ma si autoassegnano il ruolo di tutrici della
sicurezza sociale minacciata dalla sentenza o dalla riforma di turno. Le autorità
indipendenti chiamate a prendere provvedimenti vengono additate come soggetti
decisori irresponsabilmente disattenti all’interesse della società, se si discostano dal
rigore repressivo sostenuto da certa demagogia imperante. È difficile credere che
questi “indici mediatici” accusatoriamente puntati lascino i destinatari indifferenti.
È difficile credere, ad esempio, che, dopo l’indegna campagna contro le decisioni
della magistratura di sorveglianza durante la prima diffusione del covid, almeno
una parte dei magistrati non ripieghi su una giurisprudenza difensiva per evitare
aggressioni giornalistiche. Come pure è difficile credere che quell’aria irrespirabile
che si era venuta a creare alla vigilia della sentenza n. 253/2019 non abbia varcato
il portone del Palazzo della Consulta e non abbia indotto alcuni giudici, pur non
Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata?
49
disposti a cambiare di segno la pronuncia di incostituzionalità, a presidiarla con
temperamenti e prescrizioni limitative che potessero non esasperare la tensione e
rassicurare l’opinione pubblica.
7. Sebbene oggi possa suonare velleitario, si deve dunque cercare di
contrastare la regressiva politica securitaria sul suo terreno, trovando una strategia
di comunicazione che renda il cinico populismo penale elettoralmente meno
lucrativo. Per farlo, le ragioni del diritto non bastano, perché, pur ineccepibili, non
trovano ascolto nell’opinione pubblica: sono demagogicamente inermi. Dobbiamo
cambiare contenuti e modalità della comunicazione. Operazione per la quale siamo
meno attrezzati e per la quale abbiamo bisogno di coinvolgere gli operatori
dell’informazione, propiziandone una maggiore sensibilizzazione e fornendo loro
una credibile documentazione.
Per cercare di risalire in modo anadromo questa corrente sospinta soltanto dalle
voci della vendetta sociale, seminari come questi sono preziosissimi e irrinunciabili,
perché tra i pochi laboratori di riflessione e di confronto su importanti decisioni del
Giudice delle leggi, e non solo. Ma non possono bastare, perché sono costretti ad
intervenire “a valle”. Dobbiamo adoperarci con ogni mezzo (incontri formativi con
operatori dell’informazione, pubblicazione di dati statistici, interventi nelle scuole,
dibattiti aperti al pubblico, articoli sui giornali, prese di posizione nei social media)
per concorrere ad una bonifica culturale, in modo che il pur duro confronto delle
idee avvenga su dati di fatto condivisi e resi noti, e non sulla popolare emotività
suscitata da questo o quel pericolo agitato alla bisogna. È necessario drenare il
bacino della paura da cui assetate idrovore politiche attingono senza scrupolo, con
argomenti e dati che a quella paura sappiano parlare. È di questi giorni, per fare
soltanto un esempio recentissimo ed in qualche modo collegato al tema che ci
occupa, il mancato rientro da un permesso premio di Johnny “lo Zingaro”, da circa
trent’anni in galera per una serie di gravissimi fatti di sangue. Naturalmente, e
comprensibilmente tenuto conto della caratura criminale dell’evaso, si sono levate
molte voci contro il pericoloso lassismo nella concessione dei permessi premio;
riprende quota nell’opinione pubblica la ricorrente idea secondo cui i condannati
andrebbero sbattuti in cella “gettando via le chiavi” sino all’ultimo giorno di
espiazione della pena. Ebbene, replicare a questo slogan demagogicamente
rassicurante “la Costituzione vuole che l’esecuzione della pena tenda al
reinserimento sociale del condannato” significa opporre una risposta emotivamente
imbelle. Essa anzi finisce per accreditare la diffusa, mistificante impressione che
vede, da una parte, coloro che con rassicurante rigore pretendono che la pena
detentiva sia scontata fino in fondo, rinchiudendo ermeticamente i pericolosi
criminali entro le mura del carcere; dall’altra, i buonisti, gli indulgenzialisti, coloro
che sono ossessivamente ed esclusivamente preoccupati della sorte del condannato.
Una siffatta risposta non ha presa perché trascura l’interesse di cui, invece, mostra
di farsi carico l’opposto approccio. Mentre questo trasmette un implicito messaggio
rassicurante – “non siate preoccupati, questo pericoloso individuo verrà recluso
entro mura ben presidiate” – l’altro risponde: “è un suo diritto costituzionalmente
garantito veder abbassare i ponti levatoi di quelle mura, se dimostrerà un
50
Glauco Giostra
significativo progresso di riabilitazione sociale”.
Bisognerebbe, invece, per rimanere nell’esempio, contrapporre alle esibite
rodomontate punitive un dato e un avvertimento. Il dato: la percentuale dei permessi
che hanno fatto registrare un mancato rientro si aggira intorno al due per mille. Il
perentorio warning: la segregazione senza speranza mette a grave rischio la
sicurezza sociale. Un’affermazione perentoria di cui non sarebbe difficile alla
bisogna dimostrare il fondamento. Il proposito di lasciar marcire i detenuti in galera
sino all’ultimo giorno della pena inflitta non è solo in contrasto con la Costituzione
e con la Convenzione europea: è un attentato alla sicurezza sociale. Tornati liberi,
manifestano una tendenza a delinquere di gran lunga superiore rispetto a quella di
coloro che hanno conosciuto un progressivo rientro in società, legato alla loro
evoluzione riabilitativa. Questo è il messaggio che si deve riuscire a inoculare nelle
vene mediatiche.
Più in generale bisogna riuscire a divellere l’idea tanto profondamente diffusa
e radicata, quanto infondata, che il carcere garantisca sicurezza e che con l’indice
di carcerazione cresca l’indice di sicurezza. Un dato, eloquente: negli USA, che ha
percentualmente una popolazione carceraria che è quasi il decuplo della nostra, la
percentuale di omicidi ogni centomila abitanti (5,3) è quasi il decuplo della nostra
(0,6).
Si tratta di impresa culturale ai limiti della temerarietà, poiché come
efficacemente scriveva Christa Wolf nella Medea, «non c’è menzogna troppo
grossolana a cui la gente non crede, se essa viene incontro al suo segreto desiderio
di crederci». E tuttavia merita di essere intrapresa per scongiurare il rischio che
anche le nostre autorità di garanzia vengano delegittimate o quanto meno
culturalmente “intimidite” da certo populismo montante. Naturalmente non c’è un
rimedio di per sé risolutivo. C’è un verbo in disuso che può rendere con efficacia
l’idea di ciò che si potrebbe fare: dimercolare, cioè, tirare a sé, ondeggiandolo con
movimento basculante, il chiodo conficcato nel legno per estrarlo. Così – io credo
- dovremmo operare nei confronti della radicata convinzione che la cieca
repressione possa garantire sicurezza sociale: dati, considerazioni, smentite,
statistiche, dimostrazioni, studi comparativi, confutazioni, testimonianze, se portati
quotidianamente e nei più diversi contesti potrebbero nel medio periodo riuscire a
“sconficcare” dalla coscienza sociale la fallace idea che la sicurezza collettiva
dipenda dallo spessore e dall’impermeabilità delle mura del carcere.
Se l’estrema difficoltà dell’impresa può scoraggiare, l’importanza
democratica dell’obbiettivo non può esonerare dall’intraprenderla.
L’ ERGASTOLO OSTATIVO COME OCCASIONE
(DA NON PERDERE) PER LA CORTE
di MASSIMILIANO BARONI*
SOMMARIO: 1. La permeabilità del diritto penale alle istanze sociali, tra rieducazione
e recrudescenza. - 2. La tutela dei diritti nella (secondo la) pubblica opinione. - 3. Se
la chiave di ogni relazione è la comunicazione.
1. Le “linee guida” di un disegno sono ausili che ne facilitano la precisa
immissione nelle finestre 2D e 3D, determinando – a cascata – posizione, distanza
e direzione delle linee secondarie: permettono, insomma, il corretto e ordinato
incasellamento della figura nello spazio, fornendo all’insieme la sua
caratterizzazione definitiva1. Nessun dubbio, allora, che tra le “linea guida” di un
sistema costituzionale ben possa (rectius: debba) annoverarsi la politica criminale
statuale, lente focale attraverso cui poter leggere il complesso di quei rapporti
costituenti l’humus ove fonda le proprie radici il rapporto tra governanti e governati.
Non è certo questa la sede per ripercorrere analiticamente i – peraltro noti –
approdi dottrinali circa il fondamento della pena, essendo sufficiente ricordare il
ruolo di prim’ordine oggi rivestito dall’art. 27 comma 3 Cost., in cui pacificamente
risiede la più attuale declinazione della dimensione costituzionale della sanzione
criminale, da un lato sempre più connotata in termini polifunzionali e – dall’altro –
inevitabilmente ed innegabilmente orientata verso una funzione rieducativa, cui uno
“Stato evoluto”2 semplicemente non può rinunciare. Ed invero, Stato e (concezione
della) pena sembrano procedere (anche) in questo caso a braccetto, essendo
entrambi particolarmente sensibili alle istanze ed alle voci sociali, e pertanto
permeabili al contesto temporale di riferimento, come del resto
esemplificativamente dimostrato dai mutamenti di cui è stata protagonista la legge
penitenziaria. Tanto sul versante della giurisprudenza costituzionale, che nel 1974
scaltramente mitigava l’attrito tra afflato rieducativo e “fine pena mai”, quanto su
quello legislativo con la “legge Gozzini”, tramite cui – più di una decade dopo il
citato intervento della Consulta – la “rieducazione” si arricchiva, a livello
dispositivo, dell’ulteriore imperativo volto al “graduale reinserimento sociale” del
condannato, consentendo di riporre in soffitta (quantomeno teoricamente)
l’impronta carceraria classe 1931, rispondente a concezioni e bisogni risalenti al
regime e perciò non più attuali (oltre che, per certi profili, del tutto anacronistici).
Una permeabilità al quadro sociale di riferimento – dunque – ulteriormente
confermata, seppure in senso contrario, dagli interventi successivi, culminati nel
1991 con l’introduzione dell’art. 4-bis ord. Penit., la comparsa dell’ergastolo
ostativo e di “terzo tipo”, costituenti una “eccezione” rispetto alla ricordata sent. n.
*
Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale, Università di Parma
È così che impariamo a disegnare Mickey Mouse: partendo da un cerchio, al cui interno vanno
tratteggiate due rette tra loro perpendicolari.
2
Corte costituzionale, sent. n. 313/1990.
1
52
Massimiliano Baroni
264/1974 ed esemplificativi di una legislazione figlia dello stragismo mafioso e,
conseguentemente, del mutato contesto politico-criminale.
Il paradigma è chiaro: quando aumenta il senso di insicurezza dei cittadini, lo
strumento più immediato, oltre che simbolicamente carico di significati, di cui i
governanti possono servirsi (ed in effetti si servono) è l’inasprimento sanzionatorio.
Austerità, afflittività, e – sullo sfondo – una lata moralità di stampo punitivo
guidano in tali casi la risposta dello Stato.
A questo punto, allora, può farsi una prima considerazione: per effetto di
avvicendamenti di vario tipo e natura (che qui volutamente, per sinteticità
espositiva, non vengono approfonditi), da tali approdi il legislatore non è più tornato
indietro, e – come sovente accade – la legislazione inizialmente emergenziale è anzi
andata solidificandosi, divenendo base per una progressiva stratificazione,
accrescitiva del numero di ipotesi riconducibili alla sfera applicativa del citato 4bis. L’ipertrofia e la spiccata capacità penetrativa dell’attuale diritto penale sono,
d’altronde, caratteristiche note e difficilmente negabili.
Fa da argine ad una tale esondazione del diritto penale, oggi, l’attività delle
Corti. Ex multis, e per riferirsi solo alla cronologia più recente, Vinter e altri c.
Regno Unito; Viola c. Italia nonché, infine, Corte cost. n. 253/2019 (e prima, altresì,
Corte cost. n. 149/2018), appaiono sul punto decisioni emblematiche, e puntano –
semplificando – nella medesima direzione: verso l’affermazione della dignità
umana, nella cui cornice svolgono un ruolo centrale rieducazione del detenuto e
funzione socializzante della pena, indipendentemente dalla gravità del delitto
commesso dal reo. Dal che consegue, inevitabilmente, l’inammissibilità di qualsiasi
volontà punitiva permanente ed immutabile, si manifesti essa con automatismi3 o
presunzioni invincibili. La centralità della persona, anche ed in specie del
condannato, non possono arretrare neppure di fronte al dichiarato scopo di privare
il reo di canali comunicativi con l’organizzazione criminale di originaria
appartenenza.
2. Alla luce delle brevissime – obbligate – annotazioni di cui sopra, pare possa
dirsi non solo auspicabile, bensì anche probabile che, in occasione del prossimo
intervento sul tema, la Corte continuerà a muoversi nel solco del tracciato già
imboccato con la sent. n. 253/2019 e – complice il trattarsi di questione
costituzionale non coperta – declasserà la presunzione, ora assoluta, contenuta
nell’ordinamento penitenziario, aprendo le porte della liberazione condizionale ai
condannati all’ergastolo – non più, o non più tout court – ostativo (non solo, vien
da sé, per i condannati per reati di mafia, stante l’ovvia ed inammissibile
irragionevolezza della disciplina che ne deriverebbe).
Il che porta ad una seconda considerazione. Al netto del presunto esito del
giudizio costituzionale, è ben facile immaginare quali saranno le reazioni che simile
decisione susciterà nella pubblica opinione, in cui sembra viva e vigorosa –
differentemente (rectius: contrariamente) a quanto accade nelle Corti – la “cultura
delle manette”, percepita come unico, vero, rimedio alla criminalità. Ed invero, ogni
3
Si veda, sul punto, Corte costituzionale, sent. n. 109/2019.
L’ ergastolo ostativo come occasione (da non perdere) per la Corte
53
intervento che parzialmente diverga o si discosti da tale impostazione – poco
importano le motivazioni che ne risiedono alla base – viene inevitabilmente
catalogato, condiviso, retwittato come simbolo di una pretesa ‘sconfitta’ della
giustizia, relitto di uno Stato ostaggio delle mafie: così accadeva dopo (rectius:
prima e dopo) la sentenza Viola4 e la n. 253/20195, così è recentemente accaduto in
occasione della concessione dei domiciliari ad alcuni ‘boss’ mafiosi6, così accadrà
in coda alla decisione sull’ergastolo ostativo.
L’ho già scritto altrove, e dunque mi ripeto: in parte perché poco avvezza a
temi che sfuggono alla quotidianità, in parte perché - consapevolmente o meno continua in essa a sopravvivere l’idea della carcerazione come “punizione”, di per
sé necessariamente afflittiva, la società ‘esterna’ fatica a soppesare le esigenze dei
detenuti, privilegiando un atteggiamento di diffidenza verso chi sembri tender loro
la mano, quasi tramutando le aperture de jure (esemplificativamente, in tema di
benefici) in una asserita complicità de facto delle istituzioni con la criminalità.
Dimenticando, spesso e volentieri, il ruolo rivestito dal finalismo rieducativo in
materia di prevenzione speciale e, in una prospettiva di più ampio respiro, di
prevenzione generale. Ecco ben presto spiegate, allora, le evidenti difficoltà di
instaurazione di un dialogo partecipativo sul tema con il legislatore. Incurante delle
indicazioni e/o delle pressioni, esogene e di provenienza interna, cui è
periodicamente sottoposto, colui che dovrebbe essere il promotore delle istanze di
rivendicazione sociale sembra aver deciso, al contrario, non solo di fuggire tale
ruolo, bensì anche di rifiutare (talvolta, apertamente) la posizione di interlocutore
privilegiato di giurisprudenza e dottrina, preferendo volgere il proprio sguardo
verso acque elettoralmente più tranquille: ne è vivida fotografia
l’ipersemplificazione del linguaggio politico, in cui il carcere diviene unicamente
sinonimo di repressione, prima (invece che extrema) risposta alle grida di
allarmismo ed alle istanze di sicurezza sociale (con buona pace di un sistema
sanzionatorio “socialmente costruttivo”). L’attuale stato di salute dei processi
decisionali depone per una scelta deliberata e consapevole, in cui i principali
4
Si veda P. SIANI, Mafia, l'allarme di Paolo Siani: "I carnefici prima delle vittime", su la
Repubblica, 10 ottobre 2019 e – prima ancora della decisione della Grand Chambre – Ergastolo
ostativo, la commissione Antimafia: "Non va toccato". Di Maio: "Rischio boss fuori dal carcere",
la Repubblica, 5 ottobre 2019. Nella medesima data, l’On. Di Maio scriveva, sul proprio profilo
Facebook, che “Un condannato per mafia, o per reati gravi come il terrorismo, può usufruire di
benefici penitenziari solo se decide di collaborare con la giustizia. E chi non collabora deve
scontare la sua pena.”
5
Si veda G. PIPITONE, Ergastolo ostativo, Consulta: “E’ incostituzionale. Permessi anche a
chi non collabora con la giustizia”. I mafiosi festeggiano (di nuovo), su il Fatto Quotidiano, 31
ottobre 2019. Ancora e su tutti, la raccolta firme lanciata dal Fatto Quotidiano: Ergastolo, no
permessi premio ai boss stragisti che non collaborano. Vogliamo subito una legge!, su
ilfattoquotidiano.it, 31 ottobre 2019. Petizione poi ripresa dal medesimo quotidiano anche
riportando le dichiarazioni del Presidente della commissione Antimafia Nicola Morra, per cui
“l’indebolimento [del] sistema penitenziario volto al superamento del 4-bis dell’ordinamento
penitenziario, che fu voluto da Falcone, oggi è un dato molto preoccupante e mette a repentaglio
anni di lotta alla mafia e alla criminalità organizzata”, su ilfattoquotidiano.it, 3 giugno 2020.
6
G. FOSCHINI, Federico Cafiero de Raho: "No ai domiciliari per i mafiosi al 41-bis. Rischio
di crisi criminale al Sud", su la Repubblica. Sul punto, esemplificativo è inoltre l’intervento del
Guardasigilli, arrivato (unicamente) a seguito di polemiche politiche e civili.
54
Massimiliano Baroni
interlocutori democratici (i partiti) hanno deciso di impostare la propria attività sulla
base di rendite di posizione. Vero è che la democrazia ha sempre mostrato “una
certa parzialità nei confronti del presente”, tuttavia, nel tema in parola lo sguardo
del tempo corrente sembra rivolto, più che altro, al passato. Quel medesimo passato
che, con la riforma del 1975, si era tentato di modificare7.
Ma allora, stante l’assenza di interlocutori istituzionalmente credibili ed una
costante deresponsabilizzazione governativa (il cui riverbero istituzionale non può
lasciare – come non lascia – totalmente indifferente neppure la Corte), ed essendo
entrambe tali circostanze determinate – come sembra – da quella persistente
concezione, prettamente punitiva, della pena, da cui il sentimento popolare ancora
fatica ad affrancarsi, la chiave di volta non può che risiedere nella rinnovazione del
rapporto fiduciario dei Giudici costituzionali con il loro uditorio.
Si dirà che tale sentiero è già stato imboccato dalla Corte. Verissimo: ne sono
dimostrazioni lampanti le relazioni del Presidente Lattanzi e della Presidente
Cartabia8, in alcuni passaggi estremamente simili a dichiarazioni d’intento; e si
muovono nella medesima direzione la maggiore voce del potere di esternazione del
Presidente9 oltre che – su tutti – la nuova primavera di cui sono protagonisti i
comunicati stampa (in specie, quelli ante sententiam)10. E proprio tale ultimo
strumento, tuttavia, potrebbe non aver sfruttato ancora appieno le proprie
potenzialità.
3. Il fil rouge che collega comunicati stampa della Corte, società civile e
opinione pubblica è incontestato ed evidente, anche tecnicamente: non a caso la
genesi di un comunicato risiede non tanto e non solo nel rilievo (giuridico) della
quaestio risolta dai Giudici, quanto – e piuttosto – nel rilievo (in primis politico)
della notizia sottesa e conseguente al caso concreto11 (e non è un caso che la
redazione dei comunicati stampa sia oggi appannaggio di professionisti della
scrittura).
7
Sul punto, più diffusamente, sia consentito rinviare a M. BARONI, Amare in carcere.
Prospettive di riforma contro il rischio di destrutturazione soggettiva, in Affettività e carcere: un
binomio (im)possibile?, in Giurisprudenza Penale, fasc. 2-bis, 2019, 16.
8
Nelle Relazioni del 21 marzo 2019 e del 28 aprile 2020 si parla espressamente di una
(necessaria) più facile comprensibilità da tutti delle pronunce della Corte.
9
Più diffusamente sul punto A. MORRONE, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e
legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. Cost., 2019, 270, per cui “«Sfera privata
v. sfera pubblica», per i titolari di munera costituzionali, è distinzione che non ha un rilievo
decisivo”; e G. ZAGREBELSKY, Giustizia costituzionale, il Mulino, Bologna 1988, ca III.
10
Adotta tale classificazione A. MORRONE, Suprematismo giudiziario, cit., 277.
11
G. LATTANZI, Incontro con il Tribunale costituzionale federale tedesco: relazione sulla
comunicazione della Corte, Karlsruhe 26-28 giugno 2019. M.C. GRISOLIA segnala la necessità di
“rendere edotta con particolare immediatezza ed urgenza l’opinione pubblica del lavoro appena
svolto”, in I comunicati stampa della Corte costituzionale, Gruppo di Pisa, 363, citando A.
BALDASSARRE, Prove di riforma dell’organizzazione e del funzionamento della Corte
costituzionale: la mia esperienza, in P. COSTANZO (a cura di), L’organizzazione e il funzionamento
della Corte costituzionale, Giappichelli, Torino 1996.
L’ ergastolo ostativo come occasione (da non perdere) per la Corte
55
Con tutta probabilità, e si tratta di facile pronostico, ciò accadrà anche in
occasione della pronuncia che depotenzierà la portata applicativa dell’attuale
ergastolo ostativo.
Proprio per questo, quindi, la prossima decisione sembrerebbe essere la giusta
occasione per un’ulteriore innovazione in seno alla Corte, che potrebbe decidere di
rendere (ancor più) accessibile il proprio percorso, modificando ed opportunamente
adattando alla delicatezza e alla intrinseca politicità della questione il proprio
registro comunicativo e linguistico. In questo risiede, in ultima istanza, il cuore
dell’apertura del Palazzo all’opinione pubblica, che come ogni relazione si
compone di ascolto e di comunicazione: all’ascolto (I fase) la Corte si è già aperta,
come dichiarato nel comunicato dell’11 gennaio 2020 (e toccherà ora che gli
interlocutori facciano la loro parte), mentre sotto il profilo comunicativo è
essenziale che ad una maggiore diffusione delle decisioni, raggiunta tramite
un’attività web social-oriented e più user-friendly e mediante il diffuso utilizzo dei
comunicati stampa (II fase), segua e si accompagni una più immediata (e dunque,
vasta) fruibilità teorica delle stesse (III fase). Se dunque il senso della
comunicazione online è l’abbattimento delle barriere fra le supreme istituzioni
costituzionali e la collettività12, il traguardo non può che essere quello di riuscire a
rendere comprensibili i motivi posti alla base delle motivazioni del caso, rischiando
altrimenti di render vano lo sforzo sin qui compiuto nel superamento della
tradizionale riservatezza dell’attività collegiale.
Non sarebbe quindi peregrino ipotizzare (auspicare?) un più marcato
discostamento dal registro tradizionale, accentuando quanto possibile la diffusività
del messaggio e sancendo l’effettività dell’intento secondo cui «il comunicato non
si limita più ad anticipare il contenuto del dispositivo ma cerca di tradurlo in un
linguaggio divulgativo e soprattutto di fornire qualche indicazione sulle ragioni
della decisione per spiegarne il senso»13. Una nuova realtà comunicativa14, non
qualitativamente deteriore né necessariamente più semplice, ma –
obbligatoriamente – (sempre) più intellegibile e diretta, spiccatamente divulgativa
e tale da permettere alla Corte, pur senza abbassare i toni costituzionali della
questione, di condurre per mano l’uditorio (calza bene la formula di «impegno
morale» di natura pedagogica)15, accorciando le distanze (anche linguistiche e
terminologiche) che ancora si frappongono tra i due, rivitalizzando il relativo
rapporto. Anche – se necessario – a scapito dei media (con cui la Corte non deve
«competere»16 e che, invero, paiono contemporaneamente causa e vittima
dell’attuale infodemia17, in cui «innanzi all’evolversi delle modalità di fruizioni
12
Così già P. CARNEVALE e D. CHINNI, To be or not to be (online)? Qualche considerazione
sul rapporto fra web e organi costituzionali, in Liber Amicorum per Pasquale Costanzo, Consulta
OnLine, 2019, 15.
13
Relazione del Presidente Lattanzi, su
https://www.cortecostituzionale.it/documenti/news/CC_NW_20190902.pdf
14
M. C. GRISOLIA, I comunicati stampa della Corte costituzionale, cit., 361.
15
G. D’AMICO, Comunicazione e persuasione a palazzo della Consulta: i comunicati stampa
e le «voci di dentro» tra tradizione e innovazione, in Diritto e società, 2018, 237 ss.
16
C. SALAZAR, in I comunicati stampa della Corte costituzionale, in www.gruppodipisa.it,
377.
17
Utilizza il termine anche G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità prudentemente
56
Massimiliano Baroni
delle informazioni, le quali appaiono oggigiorno acquisite in modo sempre più
frammentario e sbrigativo»18 è essenziale offrire al pubblico il più velocemente
possibile ciò che egli vuole affinché questi altrettanto velocemente possa fruirne,
per poi stancarsene).
Il compito, evidentemente, non è dei più semplici, eppure si profila essenziale,
tanto più in un periodo storico in cui «pare aver prevalso la necessità comunque di
raggiungere un certo risultato, a prescindere da come questo sia perseguito» (anche,
potrebbe dirsi, a costo di dover utilizzare atti estranei alla sequenza processuale
legalmente predeterminata)19.
Ciononostante, si tratta in tutta evidenza di operazione che può essere
demandata unicamente alla Corte, alla quale esclusivamente può riuscire di
muoversi sul difficile confine tra una apertura alla società civile, da cui la stessa
trae consapevolmente e volutamente la propria legittimazione (di cui, per inciso,
sembra necessitare sempre più, anche per effetto del rinnovato protagonismo del
giudice delle leggi, solo in parte dovuto al progressivamente maggiore peso
specifico delle sue decisioni), e una captatio benevolentiae20 figlia della
politicizzazione propria della pubblica opinione, cui la Corte tradizionalmente
presta attenzione21.
Mi preme, prima di chiudere, evitare fraintendimenti: non si aspira ad una
volgarizzazione (né dell’Organo, né dello ‘stile’ di quest’ultimo), o – tantomeno –
ad un ‘abbassamento’ della Corte agli umori22 del Paese: i rischi sottesi ad una
crescente apertura delle porte del Palazzo sono noti, e difficilmente potrebbe
sostenersi che non colgano nel segno23.
Può comunque chiedersi ai giudici delle leggi di proseguire, con rinnovata
forza, nel contrastare quel rischio di «ottundimento della sensibilità
costituzionale»24 che – day by day – sembra farsi sempre più attuale.
Vox populi e vox Constitutionis: rendere maggiormente intelleggibili al “grande
pubblico” i presupposti logici della riclassificazione sociale e del reinserimento
nella società del detenuto, oltrepassando i più duri scetticismi popolari, è
bilanciata? Spunti per una discussione, in questo stesso volume.
18
Cass. civ., Sez. III, 16 maggio 2017.
19
R. ROMBOLI, in I comunicati stampa della Corte costituzionale, www.gruppodipisa.it, 389
e A. GRAGNANI, Comunicati-stampa dal palazzo della Consulta anziché provvedimenti cautelari
della Corte costituzionale? Sugli “effetti preliminari” della dichiarazione d’incostituzionalità, in
Rivista AIC, fasc. 2, 2013, 10. In senso parzialmente critico, anche se espressamente in relazione
(non ai comunicati stampa, bensì) alle decisioni della Corte, si v. A. RUGGERI, La
“democratizzazione” del processo costituzionale: una novità di pregio non priva però di rischi, su
Giustizia Insieme, 2020.
20
C. SALAZAR, I comunicati stampa della Corte costituzionale, cit., 375.
21
Più precisamente, si è parlato di «un organo che sta (deve stare) nella realtà politica ma che
non può (non deve) esercitare funzioni politiche»: così G. ZAGREBELSKY, La Corte in-politica, in
Quad. Cost., 2005, 273 ss.
22
G. LATTANZI, La nostra costituzione è uno scudo per i più deboli che siano italiani o
stranieri, intervista a cura di L. MILELLA, la Repubblica, 31 gennaio 2019.
23
A. MORRONE, Suprematismo giudiziario, cit. passim.
24
A. BALDASSARRE, Prove di riforma dell’organizzazione e del funzionamento della Corte
costituzionale, cit., come riportato da A. MORRONE, Suprematismo giudiziario, cit., 276.
L’ ergastolo ostativo come occasione (da non perdere) per la Corte
57
l’occasione per affermare definitivamente che «garantire la sicurezza dei diritti è il
miglior modo per assicurare anche il c.d. diritto alla sicurezza»25.
Ecco, forse, il fine cui tende la fine della pena: una rivitalizzazione del processo
democratico e un ripensamento generale degli istituti partecipativi, in ottica di
sensibilizzazione politica e, in ultima istanza, di giustizia sociale.
A. BARATTA, Diritto alla sicurezza o sicurezza dei diritti?, in M. Palma – S. Anastasia (a
cura di), La bilancia e la misura, Franco Angeli, Milano 2001, 21 ss.
25
NOTE MINIME
SULLA RIPARTIZIONE DEI COMPITI ISTRUTTORI
NEL PROCEDIMENTO DI SORVEGLIANZA
di PASQUALE BRONZO
Vorrei portare alla vostra attenzione qualche rilievo su un punto che, anche se
marginale rispetto al cuore della discussione intorno al futuro dell’ergastolo
ostativo e delle preclusioni penitenziarie, mi pare piuttosto importante.
Nella sua relazione introduttiva, Glauco Giostra segnalava un rischio molto
concreto: che per superare la presunzione di perdurante pericolosità dei detenuti per
reati ostativi, ai fini della concessione della liberazione condizionale, il Giudice
delle leggi non ‘richieda’ meno di quanto ha richiesto per la concessione dei
permessi-premio. Che, dunque, se a proposito dei permessi la Corte - quasi a
compensare l’apertura alla libertà conseguente alla dichiarata incostituzionalità
dell’automatismo assoluto - ha ritenuto di dover precisare le condizioni di fatto che
consentono di superare, se accertate, la preclusione stabilita per il detenuto non
collaborante – l’assenza di collegamenti attuali con il crimine organizzato, e
l’assenza del pericolo di ripristino di tali legami - questo stesso schema venga
riprodotto nella decisione che stiamo attendendo oggi, in relazione alla liberazione
condizionale.
Sempre Giostra avverte che da queste due condizioni negative potrebbe
derivare (in particolare dalla seconda, dice lui) uno svilimento dell’ipotetica, attesa,
declaratoria di incostituzionalità: é sicuramente vero, perciò vale la pena rifletterci
su.
In effetti, nella sentenza n. 253/2019 i giudici costituzionali hanno fatto
qualcosa di più che introdurre i due nuovi elementi prima descritti nel congegno
preclusivo dell’art. 4-bis ord. penit.: la Corte ha voluto intrattenersi anche sulla
ripartizione degli oneri istruttori relativamente a queste condizioni fattuali,
disegnando una “procedura” che presenta qualche singolarità rispetto alle
dinamiche istruttorie tipiche della giurisdizione di sorveglianza.
Si tratta di precisazioni nelle quali i giudici si sono diffusi in motivazione
(senza che peraltro esse servissero a “giustificare” in modo apprezzabile la
decisione di illegittimità, tanto da sembrare fatte un pò - sia detto con rispetto - “a
favore di stampa”, per tranquillizzare l’opinione pubblica allertata da campagne
mediatiche che paventavano un imminente “regalo ai criminali”), ma
l’autorevolezza dell’organo da cui provengono non consente di sottovalutarle.
La Corte costituzionale ha fatto due distinte puntualizzazioni.
Ha detto, in primo luogo, che degli elementi dai quali dedurre l’inesistenza di
collegamenti attuali e degli elementi che rendono improbabile il loro ripristino
«grava sullo stesso condannato che richiede il beneficio l’onere di fare specifica
allegazione».
Associato di Procedura penale, Università di Roma-Sapienza
Note minime sulla ripartizione dei compiti istruttori nel procedimento di sorveglianza
59
Ha detto, poi, che – a parte l’onere di allegazione - sorge in capo al richiedente
un onere della prova nel caso in cui – come accade peraltro spesso nella pratica –
il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica abbia fatto pervenire
informazioni di segno negativo: qui il condannato «non ha il solo onere di
allegazione di elementi a favore ma anche quello di fornire elementi di prova a
sostegno».
Orbene, quanto alla prima puntualizzazione, va notato come la ricostruzione
della Corte sia in un certa misura “creativa”: è vero infatti che nella giurisprudenza
di legittimità è consolidato da tempo un orientamento secondo il quale sul
condannato “ostativo” che richieda la concessione di un beneficio penitenziario o
di una misura alternativa gravano una serie di oneri di allegazione, e tuttavia
quest’assunto è sempre stato riferito non già alle circostanze da cui può essere
desunta l’assenza di collegamenti attuali con la criminalità, ma - come la stessa
Corte riconosce - alle circostanze dalle quali sono desumibili la ‘impossibilità’ o la
‘irrilevanza’ della collaborazione, che possono surrogare il requisto della
collaborazione con la giustizia ai fini del superamento dell’ostatività. Tutti i
precedenti citati dalla Corte costituzionale appartengono, del resto, a questa
giurisprudenza1.
In realtà, la giurisprudenza di legittimità formatasi sull’art. 4-bis comma 1-bis
ord. penit., se in relazione alle circostanze che comprovano l’impossibilità della
collaborazione ritiene doverosa un’attività di allegazione di elementi specifici da
parte del richiedente2, considera invece tutta del giudice l’indagine sui collegamenti
attuali con la criminalità.
Lo stato dell’arte giurisprudenziale circa la ripartizione delle responsabilità
istruttorie nel procedimento di sorveglianza e la ricostruzione che di essa ne
suggerisce la Corte costituzionale sono perciò alquanto distanti. Tanto quanto sono
tra loro differenti le circostanze che normalmente consentono di accertare
l’inesigibilità della collaborazione - fatti del passato, spesso già ricostruiti in atti
giudiziari o da sentenze - e quelle sulle quali può fondarsi l’impegnativa
affermazione dell’inesistenza di legami attuali con la criminalità organizzata: qui salvo che risulti un fatto logicamente incompatibile con la perdurante sussistenza
del legame criminale - si tratta spesso di condizioni ambientali, le cui tracce sono
rinvenibili di solito in informative di tipo “investigativo”.
Si può pensare che nell’idea della Corte si nascondano considerazioni di buon
senso: di certi elementi fattuali per i quali è opportuno incaricare la difesa, perché
difficilmente accessibili al giudice (in effetti, nel processo gli oneri si assestano
anche secondo criteri di comodità probatoria) ma non me ne vengono in mente
molti, devo dire. Mi pare invece di vedere, nel ragionamento della decisione
1
Cfr. tra le altre Cass., Sez. I, 24 gennaio 2017, n. 47044, C.E.D. Cass., n. 271474 nonché
Cass., Sez. I, 8 luglio 2019, n. 29869, in C.E.D. Cass., n. 276405.
2
All'istante non incombe un onere probatorio in senso stretto, ma un onere di allegazione degli
elementi da cui il giudice possa trarre spunto per le acquisizioni ritenute necessarie, «di tal che
l'organizzazione del procedimento, sotto il profilo istruttorio, risulta appunto contraddistinta
dall'onere di prospettazione che grava sulla parte, cioè un dovere di prospettare e di indicare al
giudice i fatti sui quali la sua richiesta si basa, sui quali poi l'autorità giudiziaria procede agli
opportuni accertamenti» (così Cass., Sez. V, 14 novembre 2000, n. 4692, Sciuto, in C.E.D. Cass., n.
219253).
60
Pasquale Bronzo
costituzionale, un certo scostamento dalle leggi naturali del processo penale che,
dove sia in gioco la libertà personale, difficilmente tollerano discipline nelle quali
la prova di fatti – per così dire – “liberatori” sia totalmente accollata alla persona
che è assoggettata al potere dello Stato3.
Lo scostamento dai princìpi è ancora più marcato nell’altra affermazione della
Corte costituzionale, quella secondo cui, ove il Comitato provinciale faccia
pervenire una nota con elementi di preoccupazione, sorge in capo al condannato un
onere della prova. A parte la considerazione che la genericità che spesso
caratterizza queste informative rende anche di fatto problematica una controprova,
è inedita l’affermazione di un onere probatorio in capo al condannato richiedente4
Al contrario, sappiamo bene come sia tipico della giurisdizione di sorveglianza
un metodo istruttorio di tipo cooperativo (molto lontano dalla rigida ripartizione di
ruoli del processo di cognizione, ispirato ai dettami dello stile adversary), nel quale
il giudice può supplere de facto, mentre al condannato si addossano, al più, oneri di
allegazione, di prospettazione, mai di prova, o di controprova. La peculiarità di
questo assetto dipende dalle particolarità del giudizio di sorveglianza, in cui il
condannato è una parte fatalmente lontana dalle fonti di prova, e sempre
depotenziata dallo stato detentivo, e il ruolo attivo del giudice vale a riequilibrare
la debolezza dipendente della condizione di soggezione della persona
all’amministrazione penitenziaria.
L’assunto della Corte costituzionale appare perciò opinabile, e anche in questo
caso non è corroborato dal precedente di legittimità richiamato a supporto, che in
realtà non diceva affatto che l’informativa negativa del Comitato provinciale
imponesse al condannato una confutazione delle notizie trasmesse al giudice di
sorveglianza; in realtà la Suprema Corte in quella decisione - notando come al
Comitato «non compete di formulare “pareri”, ma solo di fungere da tramite per
l'acquisizione delle “dettagliate informazioni”» - diceva che il giudice, a fronte di
asserzioni apodittiche del Comitato, non potesse limitarsi a recepirle acriticamente,
con inammissibile delega della decisione ad altro organo, dovendo invece in ogni
caso sottoporle al suo vaglio «per accertare la loro logicità, compiutezza ed idoneità
o meno ai fini previsti dalla norma»; nel farlo, il giudice dovrebbe pertanto quanto
meno prendere in esame anche gli elementi eventualmente addotti dalla difesa, e
vòlti a dimostrare, in positivo, la insussistenza dei collegamenti5.
È vero che - anche la Corte lo ricorda - la disciplina vigente, per come “riscritta” dal Giudice
delle leggi, di fatto ristabilisce, quanto alla concessione dei permessi, un assetto normativo che
conoscevamo già: quello della prima versione del 4-bis, risalente al d.l. n. 152 del 1991, nel quale
l’accesso ai benefici penitenziari, per i delitti di prima fascia era subordinato alla prova di elementi
in grado di escludere dell’attualità di collegamenti con le organizzazioni. Quella disciplina non ebbe
però il tempo di vivere abbastanza né nelle aule giudiziarie né nella riflessione giurisprudenziale,
dal momento che dopo solo un anno, nel 1992, fu sostituita, ad opera di un altro decreto legge, col
diverso regime di accesso fondato sulla “collaborazione”. Riesumata oggi, essa andrebbe tuttavia
letta in modo conforme al sistema.
4
Salvo, ovviamente, che non si usi la formula per individuare la parte che sarebbe danneggiata
dal mancato raggiungimento della prova.
5
Cass., Sez. I, 12 maggio 1992, n. 1639, in Cass. pen., 1992, 2818 (in relazione alla disciplina
originaria dell’art. 4-bis ord. penit.).
3
Note minime sulla ripartizione dei compiti istruttori nel procedimento di sorveglianza
61
Al più, si può ritenere che, ove al giudice pervenga un’informativa negativa del
Comitato provinciale, incombe sullo stesso un dovere di motivazione “rafforzata”,
in caso di accoglimento della richiesta, in ordine alla ritenuta inesistenza di relazioni
attuali con l’organizzazione criminale e all’assenza di rischi apprezzabili di una loro
futura ricostituzione6.
La criticità dell’assunto della Corte si fa però ancora più esiziale se si considera
che il secondo degli elementi della fattispecie ricostruita dalla declaratoria di
illegittimità consiste nella inesistenza del pericolo di ripristino dei collegamenti con
la criminalità organizzata
Si tratta di una clausola didattica, che non prescrive nulla di nuovo: essa
conferisce veste di norma positiva ad una valutazione che è comunque sempre
effettuata dal giudice di sorveglianza, e che attiene al controllo sulla perdurante
pericolosità di qualsiasi detenuto ammesso al beneficio o alla misura alternativa.
Salvo alludere ad un vaticinio, la clausola andrebbe riferita alla valutazione di
due fattori: un cambiamento dell’ambiente, o - più facilmente - un cambiamento
della persona, la quale, in ipotesi, potrebbe aver serbato un comportamento
penitenziario impeccabile, aderito all’opera rieducativa, e finanche tenuto una
condotta collaborativa con la giustizia, ed essere tuttavia rimasta intimamente
coinvolta nelle logiche mafiose o criminali: in breve, una analisi personologica (dal
tema assai complicato: che il condannato abbia, per così dire, ucciso il mafioso che
era in lui7)
Se così è, appare singolare che in una simile indagine possano imporsi alla
persona detenuta oneri di prova, e finanche di allegazione. Si consideri, poi, che la
giurisprudenza appare incerta nel trattamento processuale di tali presupposti,
considerandoli a volte requisiti di ammissibilità, da vagliare dunque in limine, altre
volte motivi di rigetto dell’istanza.
Insomma temo che, se volessimo intendere alla lettera le digressioni contenute
nella motivazione della sentenza n. 253/2019 in materia di oneri istruttori,
dovremmo un attimo dopo rassegnarci, sconsolati, all’idea che nel motivare quella
pronuncia di incostituzionalità la Corte si sia avviluppata, come ha scritto Marco
Pellissero, in una lettura a sua volta incostituzionale8.
6
Cfr. F. FIORENTIN, Preclusioni penitenziarie e prermessi premio, in Cass. Pen., 2020, 1026.
Cfr. M. RUOTOLO, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del
2019 della Corte costituzionale, in Sistema Penale, 12 dicembre 2019: «è il detenuto a dover
dimostrare di essere una persona diversa da quella che era al momento del commesso reato».
8
M. PELLISSERO, Permessi premio e reati ostativi. Condizioni, limiti e potenzialità di sviluppo
della sent. 253/2019 della Corte costituzionale, in Legisl. Pen., 3 marzo 2020, 15.
7
IL SENSO DELLA PENA: L'UOMO OLTRE IL REATO
di MARIA BRUCALE*
SOMMARIO: 1. La sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale: limiti applicativi e
probatio diabolica - 2. La rilevanza della questione: ostacoli e ipotesi di superamento.
1. La sentenza della Consulta, n. 253/2019, è stata salutata con favore perché
ha costituito il primo momento di erosione normativa del meccanismo preclusivo
di cui all' articolo 4-bis ord. penit. A livello pratico e di attuazione, però, si è prestata
ad applicazioni non univoche da parte dei magistrati di sorveglianza che, assai
spesso, hanno interpretato il dictum della Consulta in modo esasperatamente
restrittivo ipotizzando a carico del detenuto richiedente una insuperabile probatio
diabolica.
Invero, il punto cardine della pronuncia del Giudice delle leggi costituiva
l'attribuzione, da un lato, al magistrato di sorveglianza, dall'altro, al detenuto di una
responsabilità. Dell’uno, quella di valutare finalmente l’uomo ristretto oltre il titolo
di reato, restituirgli una identità, una individualità, una storia, un percorso.
Dell’altro, quella di dimostrare la fattiva presa di distanza da qualsivoglia contesto
sodale e la scelta di modelli sociali positivi e orientati alla legalità.
Nell’aprire uno spiraglio ai condannati per reati racchiusi nell’alveo dell’art. 4bis ord. penit., ammettendo che avessero accesso al permesso premio, primo
momento facente parte del percorso trattamentale di apertura con l’esterno, la
Consulta dettava specifiche condizioni, frutto di una perequazione di valori
costituzionalmente tutelati; da una parte l’aspirazione al recupero di ogni
condannato, dall’altra la tutela sociale da fenomeni criminali estremamente
pericolosi e pervasivi. In particolare, la Corte lasciava al richiedente l’onere di
dimostrare la cessazione di contatti con il sodalizio di appartenenza e, del pari,
l’impossibilità di ripristino. Specificava, comunque, che la collaborazione con la
giustizia, per la sua natura di strumento investigativo dello Stato, debba sempre
essere una scelta libera della persona condannata e che, pertanto, ad essa non
possano essere correlate conseguenze negative che incidano sulla espiazione della
pena e sull’accesso ai benefici penitenziari.
La magistratura di sorveglianza, tuttavia, ha solo in apparenza fatto propri i
contenuti della pronuncia in discorso - che, pur con i limiti e le precauzioni
valutative esplicitati, ha inteso inequivocabilmente costituire una apertura rispetto
al passato e all’operare di una preclusione assoluta – e ha avocato a sé il ruolo di
interprete delle ragioni della mancata collaborazione con la giustizia da parte del
detenuto, pervenendo pedissequamente a valutazioni di inadeguatezza delle
motivazioni di volta in volta esplicitate dall'istante a sostegno della affermazione di
dissociazione da ogni organismo sodale. I giudici di sorveglianza finiscono, in tal
modo, per forzare e superare le indicazioni della Corte costituzionale fino a negare
*
Avvocato del Foro di Roma
Il senso della pena: l'uomo oltre il reato
63
al condannato la possibilità di accedere al beneficio. Tale metodo si nutre della
prassi distorta degli uffici delle procure distrettuali antimafia e degli organi di
controllo che, interpellati in fase istruttoria circa la capacità criminale del
richiedente e circa il suo perdurante inserimento nella associazione malavitosa di
riferimento, rassegnano del tutto assiomaticamente una perdurante pericolosità
radicata esclusivamente sulla storia giudiziaria del soggetto, lontanissima nel
tempo, cristallizzata ed immutabile. E, naturalmente, il detenuto rimane solo con la
sua richiesta di progressione trattamentale, di accesso alle opportunità premiali –
nel caso della sentenza n. 253/2019, soltanto quelle del permesso premio - e in
questa solitudine nulla può fare se non dichiarare la sussistenza delle condizioni che
lo legittimano ad aspirare a un primo passo verso la libertà e il reinserimento. Può
offrire la sua condotta di piena adesione all’offerta formativa del carcere dove si
trova, un comportamento corretto e rispettoso delle regole. Può dimostrare un
tenore di vita, proprio e dei propri congiunti, coerente ai guadagni leciti. Può
manifestare l’adesione a modelli sociali positivi studiando, lavorando, intrattenendo
con i compagni di cammino e con i propri familiari rapporti sereni e costruttivi. Ma
un onere probatorio negativo (cessazione di appartenenza e impossibilità di
ripristino) non può andare oltre l’osservazione, in un tempo a volte lunghissimo di
carcerazione, del suo agito che può essere capillare attraverso il lavoro congiunto
dei numerosi operatori tenuti a redigere la relazione di equipe intramuraria.
Appare, allora, incoerente con le finalità della pronuncia della Consulta ritenere
che al ristretto sia richiesto qualcosa di più di un mero onere di allegazione che
potrà supportare con le valutazioni dei soggetti istituzionali preposti al controllo del
suo vissuto, del suo percorso, del suo atteggiamento nel tempo, delle condizioni
sociali ed economiche della sua famiglia, dell'assenza di nuove incriminazioni.
Oltre a questo, appunto, nulla appare lecito pretendere dal recluso.
Uno sforzo di coraggio nella vocazione costituzionale di ogni pena deve,
invece, essere chiesto ai magistrati di sorveglianza che raccolgano l’invito della
Consulta a recuperare la responsabilità del loro mandato ora non più amputata,
rispetto al permesso premio, dalle preclusioni assolute di cui all’art. 4-bis ord. penit.
rispetto alla possibilità di ravvisare la meritevolezza di una persona ristretta di
accedere a un beneficio. Valuti criticamente, il giudice di sorveglianza, le
informative che corredano i fascicoli in termini di attualità e di veridicità e non le
consideri esaustive e decisive senza averle rapportate al vissuto dell’uomo privato
della libertà. Un vissuto che, assai più spesso di quanto si crede, ha nelle trame del
dolore della carcerazione la capacità di ricostruirsi e di rapportarsi in modo sano a
modelli di vita socialmente accettati. Diversamente, il ristretto verrà a trovarsi in
una condizione deteriore rispetto a quella - sentenza della Consulta. Non potrà più
chiedere l'inesigibilità della collaborazione per accedere al permesso premio e
dovrà affrontare uno sforzo dimostrativo maggiore e meno efficace rispetto al
passato. In ogni caso, una volta superato lo sbarramento normativo dell’art. 4-bis
ord. penit., si troverà davanti a un'interruzione coatta del proprio percorso
trattamentale; coatta quanto incolpevole perché, appunto, al momento la
valutazione del detenuto non collaborante è ammissibile soltanto per il permesso
premio, considerato una misura di natura differente da quelle alternative. È uno
stallo di percorso e di vita che in sé è completamente inconciliabile con l'articolo
64
Maria Brucale
27 della Costituzione. Naturalmente la questione pendente che riguarda la
liberazione condizionale spalanca le porte alla speranza. Tale istituto non a caso è
inserito nel codice penale; anzi, il dato è affatto significativo e saliente perché indica
che, nella concezione unitaria della pena, la liberazione è un momento che
ontologicamente è parte della pena, connaturato ad essa. La pena, cioè, ha senso se
ha un inizio e, ove il detenuto approfitti di tutti gli strumenti che gli consentano di
riabilitarsi, anche una fine.
2. Con ordinanza n. 18518/2020, depositata il 18 giugno 2020, la Prima
Sezione della Corte di Cassazione ha ritenuto rilevante e non manifestamente
infondata, con riferimento agli artt. 3, 27 e 117 della Costituzione, la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge n. 354 del
1975, e dell'art. 2 decreto legge n. 152 del 1991, convertito, con modificazioni, nella
legge n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all'ergastolo,
per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen.
ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, che non
abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione
condizionale.
Il reato di partecipe ad associazione mafiosa, ex art. 416-bis c.p., è rimasto
escluso dalla verifica richiesta alla Consulta. La circostanza non è di poco momento
poiché il sig. Pezzino, il ricorrente, ha in esecuzione un cumulo di pene che ha al
suo interno la condanna quale appartenente a un sodalizio criminoso.
Il problema della rilevanza della questione in ragione del petitum appare,
invero, difficilmente superabile con gli strumenti ermeneutici interni.
La Corte di Cassazione sembra dare per scontato che il giudizio della Consulta
debba investire esclusivamente i reati per i quali è stata irrogata la pena
dell'ergastolo, esclusa la fattispecie ex art. 416-bis c.p., pur presente nel cumulo,
perché la pena per essa comminata è stata interamente espiata. In realtà, però, la
giurisprudenza di legittimità della stessa Corte è tutt'altro che univoca
nell'affrontare il tema dello scioglimento del cumulo. In particolare, sia quando si è
trovata a valutare la possibilità di accedere a un beneficio premiale o a un beneficio
penitenziario per un detenuto che aveva in espiazione un cumulo di pene che
includeva ancora reati di cui all'art. 4-bis ord. penit., sia quando si è trovata a
valutare i presupposti dell’inesigibilità della collaborazione di cui all'art. 4-bis,
comma 1-bis ord. penit., sebbene fosse stata espiata la parte di pena relativa al reato
di partecipazione ad associazione mafiosa, la Corte di Cassazione ha espresso un
indirizzo altalenante, non sempre ravvisando la possibilità che si valutasse soltanto
la parte residua di pena – escludendo dunque quel reato ostativo – per consentire al
richiedente l'ammissione ad una soluzione di favore.
Oggi sembra prevalere l’orientamento secondo cui: «in presenza di un
provvedimento di unificazione di pene concorrenti ai sensi dell'art. 663 cod. proc.
pen. è legittimo procedere allo scioglimento del “cumulo” nel corso dell'esecuzione
nei casi in cui debba essere compiuto il giudizio sull'ammissibilità della domanda
di concessione di un beneficio penitenziario e qualora, tra le pene unificate, alcune
si riferiscano a reati ricompresi nel novero di quelli elencati nell'art. 4-bis ord. penit.
Il senso della pena: l'uomo oltre il reato
65
(Sez. 1, n. 2285 del 3/12/2013, dep. 2014, Di Palo, Rv. 258403; Sez. 1, n. 5158 del
17/1/2012, Marino, Rv. 251860; Sez. 1, n. 1405 del 14/12/2010, dep. 2011, Zingale,
Rv. 249425). Una volta operato lo scioglimento, deve ritenersi che vengano meno
le ostatività riferite ai reati le cui pene dovessero risultare già espiate. Qualora,
tuttavia, nel “cumulo” residuino uno o più titoli di reato anch'essi ostativi, la cui
quota-parte di pena risulti tuttora da scontare, l'accertamento delle rigorose
condizioni di accesso al beneficio, stabilite dal citato art. 4-bis, deve essere limitato
ai delitti suddetti, secondo il regime ad essi proprio, verificando, nell'ipotesi in cui
rientrino nella c.d. “prima fascia”, se il condannato abbia, rispetto ad essi,
collaborato con la giustizia ovvero se detta collaborazione, mai prestata, possa
essere ancora utile o sia diventata impossibile o inesigibile.» (Cass., Sez. I, sent. n.
48690/2019).
Non può, tuttavia, ignorarsi, in materia di collaborazione inesigibile, un diverso
indirizzo in relazione al quale i Giudici di legittimità si sono spinti anche ad
affermare che l’impossibilità o inesigibilità dovesse essere dimostrata non solo per
tutti i reati posti in esecuzione ma anche per tutti i reati avvinti dal vincolo della
continuazione seppur estromessi dal cumulo o, addirittura, non eseguibili perché,
ad esempio, indultati (Cass., Sez. I, sent. n. 43391/2014).
Non si può, dunque, a livello interpretativo, ravvisare l’esistenza di un
automatismo che consenta di scomputare dal cumulo il reato ex art. 416-bis c.p.
In assenza di un provvedimento specifico di scioglimento, dunque, la Corte di
Cassazione non aveva il potere di estromettere i reati di cui all' articolo 416-bis c.p.
sollecitando una valutazione della Consulta sui rimanenti. La situazione appare
speculare a quella già oggetto di valutazione da parte della Corte costituzionale con
la sentenza n. 253/2019 nel ricorso Pavone fortunatamente riunito al caso
Cannizzaro che, ove valutato isolatamente, sarebbe incorso probabilmente in una
pronuncia di irrilevanza preclusiva di ogni valutazione. Cannizzaro, infatti, pativa
una carcerazione unitaria per un cumulo di pene al cui interno era contenuto il reato
ex art. 416-bis c.p., seppur interamente espiato.
Riguardo alla possibilità di una pronuncia consequenziale che consenta di
investire tutti i reati di cui all' art. 4-bis ord. penit. anch’essa appare problematica,
se ancorata ai criteri generali dell’ordinamento interno. Nel caso CannizzaroPavone il più ha assorbito il meno. All’esame della Consulta c'era, infatti, il reato
di cui all' articolo 416-bis c.p. che, nella rosa dei reati previsti nella norma di cui
all’articolo 4-bis ord. penit. è indubbiamente considerato il più grave. Nella
questione oggetto di valutazione, invece, un percorso inverso appare abbastanza
difficile, stante la già palesata resistenza della Corte costituzionale nel colpire le
preclusioni dei reati ostativi quando tra essi ci sia il 416-bis c.p. Il riferimento è alle
pronunce, pur di favore, della Corte costituzionale riguardo all’operare dei
meccanismi ostativi in materia cautelare.
Riguardo alla rilevanza della questione ed alla possibilità che la Consulta si
pronunci su tutte le fattispecie criminose racchiuse nell'art. 4-bis ord. penit., il
superamento dell’ostacolo consistente nella presenza nel cumulo in esecuzione per
Pezzino del reato di partecipazione ad associazione mafiosa appare, tuttavia,
possibile.
66
Maria Brucale
Dal caso Pavone-Cannizzaro, infatti, la vicenda oggi in esame alla Consulta
pone quale spettro di indagine il paradigma convenzionale determinato dalla
pronuncia Cedu ‘Viola c. Italia’. Il diritto alla speranza di matrice convenzionale
non ammette esclusioni e nemmeno esclusi.
La giurisprudenza della Corte EDU è, infatti, ormai costante da molti anni, fin
dal 2013 con Vinter c. Regno Unito, nel riconoscere il principio che è inumana e
degradante la carcerazione senza prospettiva di rilascio, la pena senza speranza. È
il concetto ribadito dalla pronuncia della prima Sezione della Corte EDU nel ricorso
presentato da Marcello Viola che esclude, ai sensi dell'art. 3 della CEDU, la
legittimità di una condanna all'ergastolo c.d. effettivo, «life imprisonment without
hope».
La Corte EDU non si pone in termini assoluti contro l’ergastolo; non esprime
un giudizio di inadeguatezza della pena perpetua rispetto ai parametri dei diritti
fondamentali, ma censura una carcerazione che sia mutilazione definitiva di vita
senza aspirazione di reinserimento e di riabilitazione, che neghi il senso della buona
condotta in carcere, della adesione alle regole del vivere sociale, del cambiamento,
che neghi, in ultima analisi, una concreta prospettiva di libertà («prospect of release
o possibility of review»). Non nega neppure la validità della collaborazione con la
giustizia quale parametro per attestare l'intervenuta dissociazione del ristretto
dall'ambiente sodale originario, ma ritiene che il distacco dalla mafia possa essere
provato anche diversamente, attraverso la valutazione concreta dei progressi
trattamentali.
Bene, dunque, se la persona detenuta offre una collaborazione utile con la
giustizia, ma se non lo fa, la legge deve comunque prevedere - pena la violazione
della CEDU - ulteriori possibilità perché la sua riabilitazione sia rivalutata e le
consenta, in concreto, una aspirazione di ritorno alla vita libera. Così chiunque si
trovi in carcere, per qualunque crimine, potrà, trascorso un certo numero di anni,
chiedere al giudice di sorveglianza di essere ammesso a un beneficio premiale, ad
un percorso di reinserimento: permesso premio, semilibertà, affidamento in prova
ai servizi sociali, detenzione domiciliare e, infine, liberazione condizionale.
Ancora. Il superamento del problema della rilevanza della questione all’esame
della Consulta può trarsi rinvenendo nella legislazione dell’emergenza il
riconoscimento normativo dell’operare del principio dello scioglimento del
cumulo, ove determini per il recluso condizioni di favore.
Già nell'art. 41-bis, comma 2, ord. penit., il legislatore ha ravvisato la necessità
di disciplinare espressamente l'ipotesi che il ristretto nel regime detentivo di rigore
avesse espiato per intero la pena afferente al reato associativo, per escludere che
l'operare dello scioglimento del cumulo si traducesse in una revoca anticipata della
misura afflittiva disposta dal ministro della Giustizia: «In caso di unificazione di
pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, la sospensione
può essere disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura
cautelare relativa ai delitti indicati nell'art. 4-bis».
Da ultimo, nel d.l. c.d. Ristori 1, n. 137 del 28 ottobre 2020, art. 30,
(Disposizioni in materia di detenzione domiciliare), nell'individuare i casi di
esclusione dall'accesso alla misura della detenzione domiciliare nei soggetti - tra gli
altri - condannati per taluno dei delitti di cui all'art. 4-bis ord. penit., viene
Il senso della pena: l'uomo oltre il reato
67
espressamente specificato che l'esclusione opera "anche nel caso in cui i condannati
abbiano già espiato la parte di pena relativa ai predetti delitti quando, in caso di
cumulo, sia stata accertata dal giudice della cognizione o dell'esecuzione la
connessione ai sensi dell'articolo 12, comma 1, lettere b e c, del codice di procedura
penale tra i reati la cui pena è in esecuzione».
La necessità avvertita dal legislatore di precisare che il principio dello
scioglimento del cumulo non operi, in determinate circostanze, laddove si
tradurrebbe in un beneficio per la persona ristretta, dà forza al convincimento che
lo stesso sia ormai entrato nel sistema ordinamentale in ragione della importanza
dei valori da cui trae origine e fondamento: il favor rei da un lato, la necessità che
la pena, una volta espiata, smetta di produrre effetti punitivi in capo alla persona
che ha ormai pagato il suo debito con la giustizia (diritto all'oblio), dall'altro.
UN APPROCCIO PSICOLOGICO AGLI AUTOMATISMI
LEGISLATIVI: IL CASO DELL’ERGASTOLO OSTATIVO
ALLA LIBERAZIONE CONDIZIONALE
di QUIRINO CAMERLENGO
SOMMARIO: 1. Proposta di soluzione. – 2. Organismo vivente e automatismi. – 3.
Ipotesi relative alle ragioni sottese agli automatismi. – 4. Automatismi e princìpi
costituzionali in materia penale. – 5. Alcune osservazioni sull’ergastolo ostativo alla
liberazione condizionale. – 6. La “doppia pronuncia” come soluzione saggia.
1. Le riflessioni che seguiranno mirano a corroborare la tesi della opportunità
di ricorrere, anche in questo giudizio, alla tecnica della “doppia pronuncia”
lasciando al legislatore ordinario un ragionevole lasso di tempo per rivedere, in un
senso costituzionalmente sostenibile, le proprie scelte in materia.
2. Si consideri l’ordinamento giuridico alla stregua di un complesso organismo
vivente, fatto di variegati elementi che interagiscono tra di loro e che si attivano
attraverso processi cognitivi e decisionali più o meno articolati. Una componente
essenziale dell’ordinamento è il diritto positivo, le cui norme sono interpretate e
applicate da persone fisiche incardinate presso una copiosa serie di istituzioni. Le
istituzioni (organi) assumono decisioni (atti) attraverso i quali si manifesta la
vitalità dell’ordinamento (corpo).
L’ordinamento giuridico è un organismo vivente imperfetto. Pur aspirando a
trovare le soluzioni organizzative e operative più congeniali rispetto agli obiettivi
da raggiungere e rispetto ai problemi da risolvere, questo complesso organismo
vivente sconta il fatto di essere animato da decisioni poste in essere da entità per
loro natura imperfette, vale a dire gli uomini. In quanto imperfetto, anche
l’ordinamento giuridico più evoluto presenta fragilità e criticità alle quali il
medesimo cerca di porre rimedio attingendo ad un ampio spettro di possibili
strategie.
Al pari di altri organismi viventi, si suppone che anche l’ordinamento giuridico,
per gestire al meglio le proprie potenzialità e per ridimensionare il più possibile le
proprie vulnerabilità, si esprima attraverso comportamenti coscienti oppure
mediante automatismi. I primi sono il frutto di processi orientati dalla volontà, che
ne definisce gli obiettivi e ne traccia la direzione. I secondi prescindono dalla
volontà, trattandosi di atti compiuti meccanicamente e, dunque, senza la
partecipazione della coscienza e della volontà degli organi deputati ad agire 1.
Quando, come nel caso di specie, il legislatore (organo) opta per una presunzione
assoluta, così da non lasciare scelta ad altri organi (in particolare, alle autorità
1
Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Pavia
Cfr. P. JANET, L’automatisme psychologique, Alcan, Paris 1889.
Un approccio psicologico agli automatismi legislativi
69
giudiziarie), allora si è in presenza di un automatismo che, per l’appunto, opera a
prescindere da una determinazione volitiva da parte di una determinata istituzione2.
Alcuni importanti studi hanno analizzato il rapporto tra processi controllati
(comportamenti razionali) e processi immuni da ogni forma di controllo
(automatismi)3. Questo tipo di controllo presuppone l’attenzione del soggetto
agente. Gli automatismi, dunque, rifuggono da ogni forma di attenzione e
determinano una trasformazione della realtà che prescinde dalla concreta
applicazione sull’agire. L’attenzione, infatti, determinerebbe una azione non
efficace, se non persino pericolosa per il soggetto agente4.
Nel caso sottoposto alla Corte, il legislatore ha preferito sottrarre
dall’attenzione dell’autorità giudiziaria il compimento di un determinato atto (la
liberazione condizionale) preferendo sancire, attraverso una presunzione assoluta,
l’automatica preclusione per coloro che non collaborano con la giustizia. Se
l’obiettivo è quello di assecondare una politica criminale volta a recidere il legame
che avvince il singolo detenuto all’associazione a delinquere di appartenenza, e se
si teme, in relazione agli obiettivi di repressione del fenomeno in questione, che un
magistrato non possa valutare in modo cosciente rispetto a quegli obiettivi la
concessione o meno di questo beneficio, allora l’ordinamento giuridico predilige
l’automatismo per circoscrivere gli effetti negativi della propria incapacità di
estirpare quel fenomeno. Se A, allora B: se il detenuto non collabora, allora non gli
viene concessa la liberazione condizionale. Un nesso eziologico, questo, la cui
dinamica vitalità viene così rimessa ad una azione automatica che difetta, per sua
natura, della mediazione dell’organo che, di regola, dovrebbe valutare tali situazioni
in ragione della propria competenza.
3. Perché l’ordinamento giuridico, quale complesso organismo imperfetto, si
avvale degli automatismi? Per rispondere a questo interrogativo cruciale in vista
della decisione rimessa alla Corte costituzionale, soccorre ancora una volta la
psicologia.
1) Immaturità dell’organismo. Un soggetto ancora immaturo ha una spiccata
attitudine ad esprimersi tramite automatismi, non avendo ancora conseguito la
capacità di inibirli a favore di comportamenti coscienti. Gli studi condotti in materia
dimostrano che l’evoluzione del processo di maturazione determina un
cambiamento nella «flessibilità cognitiva» del soggetto5. Alla maturazione delle
strutture biologiche si abbina l’esperienza vissuta dal soggetto agente, che così
acquisisce la capacità di sostituire agli automatismi comportamenti coscienti e
volontari.
2
Cfr. A. PUGIOTTO, Due decisioni radicali della Corte costituzionale in tema di ostatività
penitenziaria: le sentenze nn. 253 e 263 del 2019, in Rivista AIC, 2020, n. 1, 501 ss.
3
Vedi, ad esempio, J.D. COHEN, K. DUNBAR, J.L. MCCLELLAND, On the control of automatic
processes: A parallel distributed processing account of the Stroop effect, in Psychological Review
1990, 332-361
4
È esperienza comune l’uso del cambio e dei pedali di una autovettura: il guidatore agisce
meccanicamente dal momento che, in caso contrario, egli non avrebbe il pieno controllo della guida.
5
Cfr. S. BONINO, S. CIAIRANO, Effetto Stroop e capacità di inibizione: una ricerca in campo
evolutivo, in Giornale italiano di psicologia 1997, 587 ss.
70
Quirino Camerlengo
Ebbene, un ordinamento giuridico che si affida agli automatismi, come quello
qui considerato, tradisce la propria immaturità rispetto quanto meno ad un
fenomeno che non è ancora riuscito a governare senza divergere in maniera così
palese dai princìpi fondamentali in materia penale. Di fronte ad attività criminali
poste in essere da organizzazioni strutturate in modo efficiente e stabile, capaci di
azioni estremamente efficaci e nocive, l’ordinamento giuridico difetta ancora di
quel livello di sviluppo e di consolidamento tale da consentire la definizione di
modalità di intervento che siano il più possibile rispettose del dettato costituzionale,
dal punto di vista di un ragionevole bilanciamento tra le ragioni dell’ordine
pubblico e le esigenze connesse ad una piena tutela delle libertà fondamentali e
della dignità umana. L’automatismo è una strategia di difesa che l’ordinamento
giuridico, quale organismo vivente imperfetto e immaturo, predispone per aggredire
una fenomenologia non ancora ben inquadrata e gestita dal punto di vista non solo
sociale e culturale, ma anche normativo6.
2) Tendenza all’omeostasi. Per limitare i danni determinati dalla propria
immaturità, un organismo vivente mette in atto azioni automatiche per la propria
sopravvivenza ed il proprio benessere, allorché tali condizioni siano minacciate da
variabili esogene. Anche un ordinamento giuridico, quale organismo immaturo,
esprime una tendenza alla omeostasi confidando sulla forza repentina degli
automatismi. La psicologia ha dimostrato che la prova di tale tendenza si ha grazie
agli esperimenti sul priming che permettono di intercettare quelle influenze alle
quali non si presta attenzione, ma che condizionano sensibilmente le scelte
comportamentali degli individui. Si registra, in questi casi, la tendenza a
«giustificare le decisioni con altre ragioni, coerenti con il nostro sistema di
preferenze, sebbene le decisioni stesse siano state guidate da fattori che avremmo
cercato di ignorare qualora ci fossero stati in precedenza presentati
esplicitamente»7. Per sopravvivere di fronte a condotte illecite provviste di un
accentuato disvalore sociale, l’ordinamento giuridico tenta di porvi rimedio con
presunzioni assolute che prescindono dalla mediazione della competente autorità
per fornire una immediata e secca risposta ad un problema che si reputa non
altrimenti risolvibile. E lo fa sulla base di una ricostruzione fattuale dai contorni
non sempre adeguatamente compresi anche se ben presenti come vedremo di qui a
poco.
3) Coscienza sociale. In effetti, spesso un automatismo è ascrivibile ad una
sorta di processo di compenetrazione tra il soggetto agente e l’ambiente che lo
circonda: una relazione talmente stretta da indurlo a non reputare necessario
esplicitare le ragioni delle proprie azioni. E tale convincimento favorisce
automatismi che, diversamente dalle azioni coscienti, non implicano alcun
confronto con gli altri sul piano delle determinazioni volitive8. L’azione automatica
6
L’automatismo come imitazione rigida posta in essere dai bambini che difendono i loro
giocattoli è analizzato, ad esempio, da P. GAROSIO, È possibile “imparare” a giocare?
Un’esperienza di play training per bambini autistici in Olanda, in Psicologia clinica dello sviluppo
1997, 141 ss.
7
A. LAVAZZA, Neuroscienze forensi: un problema di accoppiamento tra legge e soggetto
agente, in Giornale italiano di psicologia 2016, 757.
8
Cfr. M. CSIKSZENTMIHALYI, The Evolving Self, Harper Collins, New York 1993.
Un approccio psicologico agli automatismi legislativi
71
è propria di una persona che «svolge abitualmente una funzione utile [e che] è, per
questo stesso agire, parte della comunità espressa dal gruppo e non ha bisogno di
spendere tempo per dare segni del suo valore, sotto forma di intenzioni»9.
L’automatismo qui esaminato verosimilmente riflette la sensibilità
dell’ordinamento giuridico, immaturo e imperfetto, all’ascendente esercitato dalla
coscienza sociale10. La presunzione assoluta denunciata alla Corte costituzionale
riflette un convincimento diffuso nella popolazione e, cioè, che chi non collabora
con le autorità non ha alcuna intenzione di redimersi e di riconquistare il proprio
posto nella società come cittadino onesto e rispettoso delle leggi. In particolare,
l’ergastolano affiliato ad una organizzazione di stampo mafioso, che non aiuta in
alcun modo gli organi inquirenti, non merita alcun beneficio. Il legislatore,
attraverso questo automatismo, ha fatto propria tale convinzione rendendosene
interprete ufficiale e in questo modo ha sancito la propria omogeneità di vedute
rispetto alla comunità. Quando preclude la concessione della liberazione
condizionale ai detenuti non collaboranti, senza riconoscere la possibilità di provare
comunque la volontà di reinserimento sociale, il legislatore non avverte il bisogno
di motivare la propria scelta tramite decisioni dell’autorità: la scelta è buona in sé
in quanto fondata su di una tacita intesa tra il legislatore stesso e la comunità di cui
il primo si sente comunque parte integrante.
4) Abitudine. Dietro questo automatismo (ma il discorso potrebbe essere
generalizzato) si cela una abitudine alla quale l’ordinamento giuridico immaturo e
imperfetto affida la propria difesa e conservazione. Una abitudine a tentare di
sconfiggere il male con il male, a ricorrere al ricatto nei confronti di quanti, senza
avere la possibilità (o la volontà) di giustificarsi, non aderiscono alla proposta di
collaborazione con l’autorità. Una abitudine radicata nella coscienza non solo
sociale, ma anche della struttura su cui è stato eretto l’ordinamento giuridico. Una
abitudine che impedisce di affidarsi a soluzioni aperte anche a scenari diversi
rispetto a quello rigido prefigurato dall’automatismo. E ciò finisce col generare una
dipendenza, nemica della ragione e foriera di ulteriori cedimenti alla tentazione di
chiudere la partita con il nemico attraverso la muta forza dell’automatismo.
Com’è stato dimostrato in alcune ricerche di psicologia sociale, l’abitudine è
propria di un’organizzazione complessa, non necessariamente inconsapevole,
funzionale alla stabilità e regolarità del quotidiano e carica di implicazioni
identitarie11. Anche attraverso automatismi, come quelli qui analizzati,
l’ordinamento giuridico sembra quasi lasciar trasparire la propria impronta
identitaria, quale entità che pur di sconfiggere il nemico non lascia alcun margine
di scelta quanto ad eventuali azioni miti anche nei confronti di chi ha sbagliato. Da
presunzioni assolute, come quella qui considerata, affiora una chiara dimensione
meccanicistica basata sull’abitudine (punizione dei non collaboranti per ragioni
9
R.A. WICKLUND, A. DEPONTE, “Avrò il proposito di agire...”. La pubblicità delle intenzioni
come simbolo sociale, in Giornale italiano di psicologia 2005, 138.
10
In generale, N. ZANON, Corte costituzionale, evoluzione della “coscienza sociale”,
interpretazione della Costituzione e diritti fondamentali: questioni e interrogativi a partire da un
caso paradigmatico, in Rivista AIC, 2017, n. 4, 1 ss.
11
Così F. EMILIANI, G. MELOTTI, L’abitudine solo comportamento automatico? Un’analisi
nella conoscenza comune, in Psicologia sociale 2007, 295 ss.
72
Quirino Camerlengo
sociali di giustizia) quale associazione automatica fra stimolo e risposta, nel timore
che ogni forma di rappresentazione mentale propria delle determinazioni volitive
rimesse alle competenti autorità, possa frustrare quell’anelito di giustizia così
radicato nella coscienza sociale.
4. Al pari di un organismo vivente imperfetto, anche l’ordinamento giuridico –
che non ha raggiunto una piena maturità, che si preoccupa della propria
conservazione, che cerca una relazione simbiotica con la società e che riconosce la
rilevanza di abitudini consolidate – si manifesta attraverso automatismi per
sopravvivere e per realizzare le proprie finalità.
In uno Stato retto da una Costituzione rigida e superiore alle altre fonti, gli
automatismi debbono nondimeno fare i conti con princìpi il cui scopo è anche
quello di contribuire alla progressiva maturazione dell’ordinamento giuridico:
princìpi che sono guida e limite, indirizzo e vincolo, che delineano un assetto ideale
verso cui deve tendere lo sviluppo dell’ordinamento, senza con questo soffocare la
discrezionalità degli organi deputati a compiere le prime scelte di inveramento di
quei princìpi, attingendo all’interno dello spettro delle molteplici modalità
attuative.
La Costituzione impone la ricerca di un ragionevole equilibrio tra i beni
fondamentali ai fini della stabilità del patto che lega i consociati all’autorità.
Nel caso di specie, la necessità di presidiare l’ordine pubblico attraverso misure
idonee a supportare l’azione investigativa dell’autorità giudiziaria e delle forze di
polizia è messa di fronte alla cogenza dei princìpi che definiscono un regime
penitenziario e, più in generale, una accezione di sanzione penale secondo una
impostazione civile, umana, socialmente orientata: non la punizione inflitta per
riparare il danno sofferto dalle persone offese e, in qualche misura, anche dalla
comunità, ma un percorso rieducativo finalizzato al recupero sociale del detenuto.
Una sanzione, come quella dell’ergastolo, solleva non pochi dubbi circa la sua
compatibilità con il disegno costituzionale appena tratteggiato.
La negazione radicale della liberazione condizionale a quanti non collaborano
con chi amministra la giustizia, senza che si possa valutare caso per caso, è un
automatismo che tradisce l’incapacità del nostro ordinamento di gestire nel modo
costituzionalmente sostenibile la lotta a fenomeni criminali gravati da un pesante
fardello in termini di disvalore sociale e di salvaguardia della legalità. Il ricatto
sotteso a tale presunzione assoluta («se non collabori non riceverai i benefici di
legge») è sintomo di una fragilità intrinseca di un ordinamento che, nonostante la
lunga esperienza di lotta ai fenomeni criminali qui considerati (dal brigantaggio
all’attuale criminalità organizzata, così efficiente sul versante finanziario), non è
riuscito a predisporre soluzioni efficienti sul piano della tutela dell’ordine pubblico
e, nondimeno, rispettose dei princìpi costituzionali.
Ebbene, di fronte ad un automatismo che disvela l’immaturità del nostro
ordinamento giuridico l’unica strada da battere è la declaratoria secca di
incostituzionalità, ora e subito?
Un approccio psicologico agli automatismi legislativi
73
5. Intanto, contestare all’automatismo in parola la violazione del principio di
ragionevolezza e di proporzionalità può apparire improprio per il semplice fatto che
l’automatismo, proprio perché prescinde da una attenzione razionale, è per
definizione irragionevole, nel senso che ontologicamente prescinde dalla ragione.
Il parametro in questione può essere utilmente e legittimamente evocato solo
rispetto a soluzioni normative che, potendo essere ragionevoli, non si rivelano tali.
L’automatismo è per sua natura irragionevole o non-ragionevole: se non lo fosse,
non sarebbe tale.
La negazione della liberazione condizionale a chi non collabora, poi, parrebbe
confliggere con il diritto di tacere, se non addirittura di mentire che l’ordinamento
riconosce a quanti si vedono accusati di aver commesso un reato. Tuttavia, questo
diritto si esplica quando è ancora integra la presunzione di non colpevolezza, mentre
la mancanza di collaborazione, contestata a chi vorrebbe beneficiare della
liberazione condizionale, si materializza dopo il passaggio in giudicato della
sentenza di condanna. Da un lato abbiamo un imputato la cui responsabilità penale
va provata in giudizio e che, perciò, potrebbe ritenere un’ottimale strategia
difensiva non cooperare con l’accusa (accettando il rischio che il giudice tenga
conto di tale condotta processuale nella quantificazione della sanzione da irrogare).
Dall’altro abbiamo un detenuto la cui presunzione di non colpevolezza è venuta
meno e che, scontando la pena, è chiamato dalla stessa Costituzione ad accettare il
conseguente percorso rieducativo. In questo frangente, contrassegnato
dall’accertamento in via definitiva della sua responsabilità penale, la rinuncia o il
rifiuto a collaborare possono essere ragionevolmente intesi come sintomo della
indisponibilità a portare a termine positivamente quel percorso.
6. Ebbene, di fronte alla complessità della questione di costituzionalità ora
sottoposta al vaglio della Corte, e che presenta significative differenze rispetto al
caso deciso con la sent. n. 253/2019,12, considero la tecnica della “doppia
pronuncia”, sperimentata a partire dal “caso Cappato”, la soluzione più “saggia” da
adottare13.
Il tempo concesso al legislatore per rivedere la propria posizione in materia,
alla luce delle deduzioni che la Corte svolgerà nel rinviare di un anno l’udienza
pubblica, potrebbe servire a suggerire una radicale inversione di tendenza nella
elaborazione delle strategie di indagine e di repressione dei reati qui considerati. In
particolare, lo Stato potrebbe così intraprendere un percorso di rimeditazione delle
attuali e consolidate modalità operative tale da poter fare a meno della
collaborazione dei protagonisti negativi di questi fenomeni. Un padre immaturo
reagisce spesso con automatismi quando i figli non rispettano le regole non
collaborando in famiglia. Un padre autorevole e maturo prescinde dalla
collaborazione dei figli, adottando altre strategie per ottenere gli stessi risultati in
termini di mantenimento di un ragionevole “ordine” all’interno della famiglia. Se
12
Rinvio alla precisa ricostruzione di I. DE CESARE, La presunzione assoluta di pericolosità
sociale (di nuovo) alla prova della Corte costituzionale, in questo stesso volume.
13
Nel senso indicato nel mio La saggezza della Corte costituzionale, in Riv. trim. dir. pubbl.
2011, 647 ss.
74
Quirino Camerlengo
lo Stato rinunciasse a fare affidamento sulla collaborazione di chi delinque, per
cercare piuttosto da sé gli elementi di prova da far valere in giudizio,
quell’automatismo perderebbe senso e utilità.
Non è dichiarando l’incostituzionalità secca della disciplina censurata che la
Corte contribuirebbe a rendere meno immaturo il nostro ordinamento. Considerati
i beni coinvolti in questo frangente, una ragionevole fiducia verso un uso accorto
della discrezionalità del legislatore potrebbe rivelarsi la soluzione più saggia: si
lasci al legislatore il compito di immaginare una reazione diversa rispetto alle
molteplici forme di non collaborazione, che non sia quella della denunciata
presunzione assoluta. L’automatismo è un tic dell’ordinamento, una reazione
meccanica ad impulsi che non si riescono a gestire razionalmente: e un tic non si
cura intervenendo sul movimento inconsapevole, ma concedendo al paziente il
tempo necessario per rimuoverne le cause. Guidato dalla Corte il legislatorepaziente potrà (se vorrà, s’intende) trovare il modo più costituzionalmente
sostenibile per perseguire i prefissati obiettivi di tutela dell’ordine pubblico.
IL RAPPORTO INCRINATO TRA LEGGE E GIUDICE
NELLE PRESUNZIONI ASSOLUTE IN MATERIA DI LIBERTÀ
di STEFANIA CARNEVALE*
C’è un filo che lega la decisione resa dalla Corte costituzionale nel 1974 a
proposito di liberazione condizionale e quella ora oggetto di scrutinio nella stessa
materia1.
Allora, quella storica sentenza aprì la via alla legge di ordinamento
penitenziario, ne fu sprone e fondamento. Oggi, il provvedimento atteso può
segnare un’altra pietra miliare in grado di chiudere la via agli eccessi e alle storture
innestate nel sistema dalla contro-riforma degli anni novanta.
La capitale pronuncia del 1974, pur nella diversità della questione giuridica
esaminata, già racchiudeva le coordinate concettuali in cui dovrebbe inscriversi
quella odierna. Il valore tutelato, il diritto fondamentale in gioco, corrisponde infatti
a quello attualmente al vaglio della Corte. Si tratta, ora come allora, del diritto del
condannato al giudice2: non il diritto alla liberazione, bensì il diritto ad essere
valutati e giudicati per il percorso penitenziario compiuto, i progressi conseguiti, i
cambiamenti avvenuti; per il tempo trascorso e il trattamento ricevuto, per le ragioni
del silenzio serbato3. Ad essere invocata è la chance di presentarsi a un esame, non
la garanzia di superarlo. La magistratura chiede che le venga restituita la possibilità
di accertare le singolarità dei contesti e delle persone, secondo le modalità, le
garanzie e i limiti propri della giurisdizione.
Allora, nel 1974, si trattava di preferire queste modalità, garanzie e limiti
rispetto alla discrezionalità ministeriale, che poteva sfociare in arbitrio. Oggi, nel
2020, si tratta di prediligerli e valorizzarli rispetto alla rigidità della legge, quella
fissità asfittica e senza eccezioni che connota le presunzioni assolute.
Allora la questione coinvolgeva anche l’art. 13 comma 2 Cost. giacché della
libertà, per la Carta fondamentale, deve decidere un giudice e non un ministro4.
*Associato di Diritto processuale penale, Università di Ferrara.
Si allude alla sent. n. 204/1974, che aveva ad oggetto il potere attribuito dall’art. 43 del r.d.
28 maggio 1931, n. 602 (le disposizioni di attuazione dell’allora vigente codice di procedura penale)
al Ministro della Giustizia di concedere la liberazione condizionale.
2
La Corte osservava che «il precetto costituzionale» di cui all’art. 27 comma 3 Cost. fa sorgere
«il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale,
il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in
effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo; tale
diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale» (sent. n. 204/1974,
§2).
3
Silenzio che rappresenta esso stesso un diritto fondamentale, dal cui esercizio non dovrebbero
mai discendere conseguenze negative. La sentenza costituzionale n. 253/2019 ha già sottolineato
come il meccanismo di cui all’art. 4-bis ord. penit. «oper[i] una deformante trasfigurazione della
libertà di non collaborare ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., che certo l’ordinamento penitenziario
non può disconoscere ad alcun detenuto» (§8.1).
4
Il remittente si era appoggiato agli artt. 24 e 111 Cost., ma la Corte in motivazione riportava
i parametri evocati «nel quadro dei precetti contenuti nell’art. 13» (§2).
1
76
Stefania Carnevale
Oggi non è più necessario richiamare quel parametro, poiché appare scontato: dal
fecondo seme della pronuncia capostipite è germinato l’intero attuale sistema
penitenziario, ampiamente giurisdizionalizzato.
È ormai l’art. 27 Cost., con i suoi molteplici corollari sviluppati dalla
giurisprudenza costituzionale, ad implicare il ruolo centrale e ineludibile della
giurisdizione, che porta con sé quella configurazione dei rapporti fra legge e
giudice, quella dialettica fra legge e giudice, scaturente dall’art. 13 comma 2 Cost.
In forza di questa struttura portante, quando prende provvedimenti sulla libertà il
giudice non può distaccarsi dai «casi e modi» previsti dalla legge, non può muoversi
oltre la legge, né sostituirsi alla legge. Ma la legge non può a sua volta sostituirsi al
giudice e decidere in sua vece prevedendo, come nel caso oggetto di scrutinio
costituzionale, che il silenzio del condannato sia segno inconfutabile di persistente
affiliazione a un sodalizio criminoso e negando in radice vagli concreti sulla scelta,
spesso dovuta a fattori esogeni, di non rendere dichiarazioni etero-accusatorie.
È in fondo un giudizio, quello che si arroga il legislatore con la presunzione
assoluta innestata nel meccanismo di cui all’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. A fronte
di un sintomo, il riserbo tenuto dal condannato che avrebbe la possibilità di parlare,
si estrapola un elemento di prova da cui è tratta una sentenza valida ergaomnes, una
conclusione applicabile a chiunque, in ogni tempo e in ogni situazione: il legame
con il mondo criminale – sempre, in tutti i casi – non è cessato.
Per restare aderente alle coordinate costituzionali la legge può certo porre
condizioni severe in cui incardinare il vaglio giudiziale, così da valorizzare al
massimo la scelta collaborativa. Nondimeno, la decisione sulla libertà non può che
essere affrontata caso per caso, guardando alle specificità individuali. Ciò che
s’incrina nel sistema delle presunzioni assolute, e di qualunque automatismo che
coinvolga lo status libertatis, è infatti il rapporto fra legge e giudice: due cardini,
due poli, entrambi necessari per privare della libertà e per restituirne gradualmente
porzioni.
La legge di ordinamento penitenziario ha conosciuto nel tempo molteplici
automatismi tesi ad inibire l’intervento della magistratura. La tentazione d’impedire
in radice vagli giurisdizionali, la propensione a forgiare tipi ideali di criminale,
l’inclinazione a uniformare trattamenti che i canoni portanti della disciplina
vorrebbero invece individualizzati è sempre latente, ancorché ripetutamente
censurata dalla Corte costituzionale negli ultimi quarant’anni5. Una volta appurato
che una presunzione assoluta si annidi nel congegno ostativo risultante dagli artt.
4-bis e 58-ter ord. penit., come ha inequivocabilmente sancito la sentenza
costituzionale n. 253/20196, il riscontrato guasto nei rapporti fra legge e giudice non
può pertanto sopravvivere alle censure.
5
La linea di fondo dei rapporti alterati fra legge e giudice accomuna situazioni molto diverse
in cui la Corte si è trovata a pronunciarsi. Si va dalle decisioni che hanno censurato l’impossibilità
per la magistratura di rideterminare la pena residua tendo conto delle privazioni patite in caso di
revoca delle misure alternative (v. ad es. sentt. nn. 343/1987, 282/1989), a quelle aventi ad oggetto
automatismi in peius a fronte di comportamenti scorretti nel corso dell’esecuzione (v. ad es. sentt.
nn. 161/1997, 173/1997, 186/1995), a quelle che hanno investito vere e proprie preclusioni (v. ad
es. sentt. nn. 49/1995, 436/199, 189/2010, 149/2018, 253/2019). L’esigenza sempre ribadita, pur
nella differenza dei contesti, è quella di vagli «caso per caso».
6
«La generalizzazione che fonda la presunzione assoluta consiste in ciò: se il condannato per
Il rapporto incrinato tra legge e giudice nelle presunzioni assolute in materia di libertà
77
Si tratta invero di questioni generalissime e come tali le ha affrontate la
pronuncia del 2019, prendendo di petto proprio il legame incrinato fra legislazione
e giurisdizione così come si manifesta nella patologia costituzionale delle
presunzioni assolute sui comportamenti umani. Ipotizzare relazioni di causa-effetto,
insuscettibili di prova contraria, fra un contegno (la scelta di non collaborare) e una
propensione (il persistente richiamo verso il mondo criminale) è operazione
irragionevole per definizione, ossia contraria alla ragione. E contraria, a ben vedere,
anche all’umanità della pena, proprio perché umano è ciò che è singolare, ciò che è
unico, ciò che muta nel corso di un’esistenza: è questa la natura dell’uomo,
contrassegnata dalla irriducibile diversità di ciascuno e dalla continua apertura al
cambiamento7. La questione di legittimità non investe la materia tributaria o
anagrafica, dove possono forse sopravvivere presunzioni iuris et de iure, bensì il
delicatissimo campo della libertà, della valutazione della personalità e delle scelte
di vita, degli esiti sortiti da protratte e severe restrizioni.
Per queste ragioni gli argomenti della sentenza n. 253/2019 non possono non
estendersi alla questione oggi in esame8. Se l’eccezione fosse respinta, la Corte
smentirebbe se stessa, e dopo così breve tempo, in modo clamoroso, ricusando gli
stessi postulati che ha posto con tanta, sofferta cura. Occorrerebbero, per schivarli
o superarli, capriole argomentative che è oltremodo difficile prefigurare, poiché le
censure sollevate sgorgano come un corollario giuridico dal precedente
pronunciamento dei giudici costituzionali. La questione in gioco non è infatti quale
misura, frammento o segmento di libertà il giudice possa concedere, ma se sia
insopprimibile il diritto a una valutazione giudiziale sui percorsi penitenziari.
Se davvero, cimentandosi in un esercizio ipotetico, la Corte respingesse la
questione sollevata, si creerebbero nel sistema tali e tante incongruenze che sarebbe
veramente difficile riportarlo ad un’armonia sistematica. Entrerebbe in crisi quel
«tendere alla rieducazione» che imprime, per obbligo costituzionale, al percorso
penitenziario una direzione e un avanzamento verso il possibile riacquisto della
libertà, a fronte di comportamenti positivi e responsabili del condannato. La
tensione in avanti, rivolta al recupero sociale, risulterebbe interrotta,
incoerentemente spezzata.
La Corte stessa ha insistito numerosissime volte sulla centralità della
progressione nel trattamento, asse portante dell’esecuzione penale9. Tutto il sistema
il delitto di associazione mafiosa e/o per delitti di “contesto mafioso” non collabora con la giustizia,
la mancata collaborazione è indice (non superabile se non dalla collaborazione stessa) della
circostanza per cui egli non ha spezzato i legami che lo tengono avvinto all’organizzazione criminale
di riferimento» (§8.3).
7
Così, in modo potente e cristallino, Corte cost., sent. n.149/2018, che pone in luce «l’assunto
– sotteso allo stesso art. 27, terzo comma, Cost. – secondo cui la personalità del condannato non
resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma
continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento» (§7).
8
Si allude ai tre pilastri giustificativi che hanno sorretto la declaratoria di illegittimità:
l’assolutezza presuntiva distorce le caratteristiche proprie della fase esecutiva asservendola a quella
investigativa; impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la
funzione rieducativa della pena; genera irragionevoli generalizzazioni che possono invece essere
contraddette da prove contrarie.
9
V. ad es. Corte cost., sentt. nn. 227/1995, 504/1995, 445/1997, 255/2006, 257/2006,
149/2018, 229/2019.
78
Stefania Carnevale
è infatti edificato su un cammino, graduale ma incessante, verso l’obiettivo
costituzionale del reintegro in società. Come sarebbe allora possibile immaginare
che al giudice fosse consentito di valutare la positiva condotta ai fini di un permesso
premio e al contempo impedito di compiere i vagli successivi, che fisiologicamente
ne scaturiscono?
Se il primo permesso, casomai di appena qualche ora, è positivamente fruito ne
seguirà un secondo, forse più protratto nel tempo, e da quel secondo un terzo. E se
grazie a quei permessi si ponessero basi solide per una risocializzazione, come si
potrebbe impedirne il naturale compimento? Sarebbe una crudeltà, suscettibile di
sortire effetti deleteri proprio per i percorsi di recupero positivamente intrapresi,
magari dopo notevolissimi sforzi; e sarebbe conclusione inconcepibile nell’ottica
della tensione verso la reintegrazione sociale impressa dall’art. 27 Cost.
È vero che la decisione sulla liberazione condizionale è in apparenza molto più
delicata rispetto a quella sui permessi. Ma proprio per questo – tornando ancora alla
dialettica fra i due poli delineati dall’art. 13, comma 2, Cost. – la legge, che
disciplina i presupposti delle misure, stabilisce le procedure per concederle,
ripartisce le competenze fra organi deputati a decidere, delinea una cornice molto
più severa e rigorosa per l’intervento della magistratura nella materia ora oggetto
di scrutinio. Il giudice è collegiale, le condizioni richieste dall’art. 176 c.p. sono
assai più rigide e difficili da integrare10, il rito ove s’innesta il vaglio è più ricco e
garantito, perché lascia spazio al contraddittorio e ad approfondimenti
criminologici in udienza (art. 678 c.p.p.).
I presupposti del permesso, istituto sui cui la Corte si è già pronunciata, sono
più evanescenti e morbidi (art. 30-ter ord. penit.), la competenza è monocratica, la
procedura è più snella (art. 30-bis ord. penit.). Vi sono insomma indubitabili, e
condivisibili, differenze giuridiche fra i due strumenti risocializzativi, discendenti
dal diverso grado di libertà che l’accoglimento dell’istanza è in grado di schiudere.
Ma soprattutto non si può non rilevare come la decisione sulla liberazione
condizionale potrebbe proficuamente avvalersi proprio degli elementi di
conoscenza che scaturiscono dai permessi già fruiti11. Si tratta di ingredienti
conoscitivi impareggiabili per valutare l’effettivo distacco dalle organizzazioni
criminali e la solidità dei nuovi precorsi di vita intrapresi dal condannato. Nessuna
base probatoria è più eloquente dell’esito degli esperimenti di libertà già condotti,
per periodi di tempo congrui e proporzionati alla gravità dei fatti in passato compiuti
dal richiedente. La rete delle relazioni allacciate all’esterno, le attività intraprese, i
progetti coltivati, la loro realistica realizzabilità, l’andamento dei rapporti familiari,
le prospettive d’impiego sono tutti fattori di conoscenza ineguagliabili per il giudice
Il «sicuro ravvedimento» è il presupposto più esigente richiesto dall’intera costellazione
delle misure risocializzative.
11
Lo evidenzia la stessa Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 229/2019, avente ad
oggetto il meccanismo preclusivo di cui all’art. 58-quater, comma 4, ord. penit. Si osserva in
motivazione che «la disposizione opera in senso distonico rispetto all’obiettivo, costituzionalmente
imposto, di consentire alla magistratura di sorveglianza di verificare gradualmente e prudentemente,
anzitutto attraverso la concessione di permessi premio e l’autorizzazione al lavoro all’esterno,
l’effettivo percorso rieducativo compiuto dal soggetto, prima di ammetterlo in una fase successiva
dell’esecuzione – sulla base anche dell’esito positivo di quelle prime sperimentazioni – alla
semilibertà e poi alla liberazione condizionale» (§4.1).
10
Il rapporto incrinato tra legge e giudice nelle presunzioni assolute in materia di libertà
79
incaricato di rendere le difficili valutazioni a cui la Corte potrebbe chiamarlo. I
permessi offrono dati freschi, sull’oggi e sul domani, non riferiti a un lontano
passato, come troppo spesso accade con le informative provenienti dalle procure e
dagli organi di polizia. Nulla sarà più rilevante dell’andamento di quegli assaggi di
libertà già fruibili grazie alla sentenza n. 253/2019, proprio sotto il profilo che più
preoccupa – da diverse angolazioni – magistratura, classe forense, dottrina ed
opinione pubblica, ossia la concreta possibilità di effettuare prognosi sul rischio di
riannodare rapporti con le organizzazioni criminali. La base conoscitiva per questo
complesso vaglio sarà ben più salda e raggiungibile per la liberazione
condizionale12, perché potrà avvalersi delle informazioni provenienti dai periodi di
permesso premio.
Per gli argomenti già tracciati, per il contesto normativo più sorvegliato, per il
sostrato probatorio più consistente su cui lo scrutinio di persistente pericolosità può
poggiare, la decisione che è chiamata a rendere oggi la Corte è, in fondo, molto più
facile di quella precedente.
12
E per la semilibertà, se la Corte riterrà di estendere anche a questa misura, pure fruibile
astrattamente dall’ergastolano, una eventuale decisione di accoglimento della questione.
LA QUAESTIO SOLLEVATA:
UN’OCCASIONE DI RIFLESSIONE
SUL FONDAMENTO COSTITUZIONALE DELLA PENA
di SILVIA CECCHI
SOMMARIO: 1. I presupposti di accesso alla libertà condizionale: dignità e diritti della
persona, ma non solo – 2. La verifica di pericolosità del condannato: valutazione
rigorosa, individualizzata, passibile di ‘prove di resistenza’, non identificabile con
un’accezione generica di emenda e di ravvedimento – 3. Opportunità di demandare il
giudizio di ‘cessata pericolosità’ a un organo collegiale multidisciplinare. – 4. Il
significato costituzionale della funzione risocializzatrice della pena nella prospettiva
del diritto penale dei beni e dell’offesa: funzione sistematica della nozione di
rieducazione – 5. Un’occasione data alla Consulta per esplicitare fondamento e
legittimazione della sanzione penale come tale.
1. Con riguardo alla questione di cui la Corte costituzionale è stata investita
dall’ordinanza della Corte di Cassazione (ordinanza 2-18 giugno 2020: legittimità
costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 59-ter l. n. 354 del 1975 e dell’art. 2 d.l.
n. 152 del 1999, in riferimento agli artt. 3, 27 e 117 Cost.) condivido i pronostici
favorevoli a una pronuncia di incostituzionalità delle norme richiamate, nella parte
in cui prevedono una presunzione assoluta di pericolosità del condannato, vincolata
ad una prova legale: tale infatti appare ormai una scelta pressoché obbligata per la
Consulta, pena l’entrata in contraddizione con sé stessa e specificamente con i
principi enunciati nella recente sentenza n. 253/2019, così come altri relatori
intervenuti in questo seminario preventivo condividono, sulla scorta di quanto
ritenuto dalla stessa Corte rimettente e come rimarcato puntualmente nella traccia
proposta in apertura dei lavori.
Ritengo anche che sarà conservato il richiamo all’art. 27, comma 3, Cost. già
eletto a principio guida nella sentenza n. 253/2019, pur unitamente all’art. 3 Cost.,
in virtù di quella maggiore apertura che tale norma consente ai fini della decisione
della presente quaestio, come già rilevato e illustrato da Glauco Giostra in sede di
relazione introduttiva, rispetto ai principi di umanità della pena e dei diritti
inviolabili della persona consacrati nella Costituzione (artt. 2 e 3) e dall’art. 3 della
CEDU (nella declinazione specifica di diritto alla dignità, “diritto a divenire”,
diritto alla speranza, di cui alla sentenza della Corte EDU nel caso Viola c. Italia
n°2).
2. Sono convinta per converso, e mi sento di condividerne i sottesi principî
direttivi, che sarà mantenuto, e vorrei dire a maggior ragione, il «regime probatorio
rafforzato» circa i presupposti della valutazione di ravvedimento già delineato nei
Sostituto Procuratore della Repubblica, Tribunale Pesaro
La quaestio sollevata: un’occasione di riflessione
81
due icastici parametri di cui alla sentenza n. 253/2019, in relazione alla (piuttosto
che “malgrado” la) diversità fra gli istituti del permesso premio e della liberazione
condizionale, diversità già delineata compiutamente nella traccia di discussione.
Nella prospettiva da me accolta circa la legittimazione e funzione costituzionali
della sanzione penale (intesa quale istituto e strumento di tutela di beni, come
argomentato in altri miei scritti sul tema), trovo scarsamente accettabili espressioni
come quelle usate nella sentenza della Corte costituzionale n. 282/1989 (a proposito
della illegittimità costituzionale dell’art. 177 ord. penit., nella parte in cui non
prevedeva che il tempo trascorso in libertà condizionale andasse computato nella
determinazione della pena espiata), laddove la Consulta afferma che occorre - così
si esprime - «stabilire quanta afflittività sia stata sopportata dal condannato nel
tempo in cui era sottoposto alla libertà vigilata, onde occorre sottrarre quella entità
afflittiva». Non trovo per converso altrettanto inaccettabile il principio per cui
occorre verificare, ai fini della concessione - in questo caso - della libertà
condizionale al condannato al c.d. ‘ergastolo ostativo’, che non sussista «pericolo
di ripristino di collegamenti» (sent. n. 253/2019). Ritengo, al contrario che tale sia
una verifica doverosa e coerente all’interno dello statuto costituzionale della
sanzione penale.
Non temo, per conseguenza e in questa ottica, che ragioni motivate di politica
criminale (quando non politicamente strumentalizzate) facciano indebita irruzione
nel delicato e arduo processo di valutazione dei presupposti della pericolosità del
condannato, a cui la magistratura di sorveglianza è chiamata, entro l’alveo dei
principî segnati dalla Corte costituzionale con la sentenza del 2019.
Credo piuttosto che la valutazione della pericolosità concreta, attuale (sia pure
su piano pronostico) e specifica del condannato, rispetto alla protezione dei beni
protetti dalle norme per le quali è stato condannato, sia il “cuore giuridico della
questione”, così come in esso consta la ragion d’essere della sanzione penale
carceraria e il fondamento giuridico-costituzionale della stessa.
Né, personalmente, credo che la relativa prova sia una prova “diabolica”. Ho
incontrato recentemente un ergastolano che godeva di un permesso premio
trascorso presso l’abitazione del cappellano del carcere in cui era recluso, il quale
pur ritenendosi “ravveduto” personalmente (la c.d. emenda), ed anche “rieducato”,
riteneva di poter conservare tale conquistato atteggiamento solo in luoghi lontani
da quelli in cui era maturata, a suo tempo, ed era stata agita la propria affiliazione
alla criminalità organizzata. Tale fragilità e tale rischio di ricaduta, quanto meno a
determinate condizioni ambientali, erano evidentemente da attribuirsi a una non
consolidata e non irreversibile presa di distanza dal patto di affiliazione originario.
Tornando all’oggetto specifico del dibattito attuale, credo che il legislatore, e
non la Corte costituzionale - ma entro una cornice teorica ben individuata dalla
Consulta - possa introdurre degli obblighi positivi all’interno dell’istituto della
liberazione condizionale (prescrizioni specifiche, previsione di una sorta di “prova
di resistenza”, altro) e che nella stessa logica debba muoversi la valutazione assai
delicata, personalizzata ed estremamente determinata dalle peculiarità del caso
concreto, che il Tribunale di Sorveglianza è chiamato a compiere.
82
Silvia Cecchi
3. Per le medesime ragioni non ritengo percorribile la pur suggerita strada di
porre presupposti predeterminati, nel nome di un principio di tassatività a mio
vedere fuor di luogo in questa materia.
Credo che il vero nodo del problema sia l’individuazione e la creazione di
organi ad hoc (o per l’occasione integrati), a composizione collegiale e di natura
multidisciplinare, chiamati a compiere una così delicata e complessa valutazione.
A questo proposto condivido talune perplessità svolte in sede di dibattito
seminariale circa gli organi individuati dalla Commissione antimafia e di cui la
traccia introduttiva ai lavori esaurientemente ci ha ragguagliato.
4. Ciò che mi sento di auspicare è allora che la Corte costituzionale, nella
motivazione della sentenza che si accinge ad emettere, entri dentro il concetto di
«ravvedimento»; entri dentro il collegamento tra funzione risocializzatrice della
pena (che traduce la nozione di funzione rieducativa) e qualità/durata della sanzione
carceraria; entri dentro il ruolo che la funzione risocializzatrice deve svolgere
rispetto alla definizione stessa della sanzione penale (in primis quando essa sia
carceraria) così come rispetto alla sua individuazione e determinazione qualitativa
e quantitativa, e quindi anche rispetto ai presupposti della sua attenuazione in fase
esecutiva (nel cui ambito rientra con evidenza l’istituto della liberazione
condizionale e la questione oggetto del presente dibattito).
Se è vero che la sanzione penale (nelle sue tipologie che si riducono, ancor
oggi, in via pressoché esclusiva ad una differenziazione quantitativa a scalare della
sola sanzione carceraria) si giustifica costituzionalmente solo come strumento di
tutela dei beni primari (di rango costituzionale), in un rapporto di risposta necessaria
e sufficiente alla tutela preventiva e successiva dei beni stessi. E se è vero che tale
è il significato profondo dell’intera penalità intesa quale diritto penale dei beni e
diritto penale del fatto e dell’offesa, allora la funzione risocializzatrice della pena,
oltre che accogliere ed esprimere una concezione inderogabile di umanità e dignità
della persona, deve assumere una valenza sistematica di primissimo rilievo.
Si può prefigurare allora, in questa ottica, un circolo concettuale di questo tipo:
selezione dei beni primari di rango costituzionale, la cui salvaguardia identifica la
condizione minima di esistenza della vita associata; coincidenza tra tali beni-valori
e pretesa statuale che ogni cittadino li rispetti, assumendo nei loro riguardi un
dovere di tutela, garanzia e quindi di responsabilità; coincidenza tra tale dotazione
di responsabilità relazionale essenziale che incombe su ogni cittadino e il contenuto
e la finalità della nozione di risocializzazione.
Entro questo circolo ideale, la funzione risocializzatrice della pena diviene
anche, come naturale e logica conseguenza, il criterio guida nella selezione dei beni
primari passibili di presidio penale (come già prefigurò Giorgio Marinucci in un
intervento del 1983, ma sempre attuale).
La funzione sistematica della teoria del bene giuridico si riverbera così
pienamente anche sul piano della ricostruzione contenutistica e funzionale della
finalità rieducativa-risocializzatrice della sanzione penale.
La quaestio sollevata: un’occasione di riflessione
83
5. Sarebbe quanto mai auspicabile, in conclusione di questo mio limitato
contributo, che la Corte costituzionale cogliesse l’occasione della disamina della
questione presentemente rimessa alla sua cognizione, per entrare apertis verbis nel
merito del fondamento della sanzione penale e del diritto penale come tale, alla luce
dei principi consacrati nella Carta costituzionale, che ne costituiscono
indubbiamente il “genio motore”, nella misura in cui essi esprimono tanto i valori
essenziali che presiedono alla costituzione della società civile, quanto i doveri
inderogabili cui ciascun cittadino è tenuto verso l’altro, gli altri e la comunità: in
ciò consistendo l’essenza prettamente relazionale della responsabilità penale.
La ricognizione di questi principî sarà senza dubbio decisiva nel risolvere la
questione che odiernamente ci occupa e di cui la Corte costituzionale è stata
investita. Varrà la pena, io credo, esplicitarli, con l’autorità istituzionale e giuridicoesegetica che alla Corte costituzionale compete.
SPUNTI PER UNA LETTURA DIALOGICA
DELL’ERGASTOLO OSTATIVO IN ITALIA
di SOFIA CIUFFOLETTI
SOMMARIO: 1. Introduzione. - 2 L’elaborazione del primato del reinserimento sociale
nella giurisprudenza della Corte EDU e la connessione con la dignità umana. – 3.
Strasburgo-Roma: l’affermazione di un paradigma penologico comune. – 4. RomaStrasburgo: giurisprudenza costituzionale e obblighi internazionali italiani. La posta
in gioco dell’esecuzione della sentenza Viola c. Italia. – 5. Conclusioni.
1. Il tema dell’ergastolo ostativo nel sistema dell’esecuzione penale italiana è
ormai al centro di un intenso dialogo giudiziale1 tra Roma e Strasburgo. Proprio
questo dialogo, inaugurato dalla Corte EDU, prima nella sentenza Vinter c. Regno
Unito2 e poi, in confronto diretto, nella sentenza Viola c. Italia3, proseguito con la
sentenza n. 253/20194 della Corte costituzionale italiana e con la recente ordinanza
di rimessione della Corte di Cassazione5 in tema di ergastolo ostativo e liberazione
condizionale (dialogo che è destinato a proseguire con la prossima pronuncia della
Corte costituzionale proprio su questo tema), ci permette di affrontare l’argomento
della potenziale fibrillazione rispetto al dettato costituzionale e convenzionale del
sistema nostrano di ostatività, a partire da un’ottica meno condizionata da ipoteche
culturali. Sembra strano, infatti, ma è al contempo rinfrancante, ricordare, come ha
fatto durante il suo intervento orale a questo seminario l’ex giudice della Corte
EDU, Paulo Pinto de Albuquerque, che l’Italia non è l’unico paese europeo a dover
fare i conti con un ordinamento giuridico eversivo parallelo come quello mafioso.
Un utile memento contro l’idea dell’“eccezionalismo italiano”6 in tema di
criminalità organizzata.
Ricercatrice ADIR-Centro di ricerca Interuniversitario su carcere, devianza, marginalità e
governo delle migrazioni, Università degli Studi di Firenze.
1
Il concetto di dialogo fra corti ha suscitato, ormai da tempo, un dibattito che oscilla tra
l’affermazione del valore palingenetico della pratica e il rifiuto critico o negazionista della stessa.
Usiamo, qui, il concetto, aderendo a una visione giusrealista che si fonda principalmente
sull’approccio espresso da A.M. SLAUGHTER, A Typology of Transjudicial Communication, 29,
University of Richmond Law Review, 1994.
2
Vinter and others v. U.K., [GC], nos. 66069/09, 130/10 and 3896/10.
3
Viola c. Italia, n. 77633/16, 13 giugno 2019.
4
Relativa all’accesso al permesso premio, per il condannato – non collaborante con la giustizia
– per reati di associazione mafiosa e/o di contesto mafioso (e, in via consequenziale, per altri reati
contemplati nell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit.).
5
Ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione 3-18 giugno 2020 che solleva, con
riferimento agli articoli 3, 27 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli
articoli 4-bis, comma 2, e 58-ter della legge n. 354 del 1975, e dell’art. 2 del decreto-legge n. 152
del 1991, convertito, con modificazioni, nella legge n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che
il condannato all'ergastolo, per delitti ommessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis
del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste che non
abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale.
6
Riecheggiando M. IGNATIEFF, American Exceptionalism and Human Rights, Princeton
Spunti per una lettura dialogica dell’ergastolo ostativo in Italia
85
Seguendo questo monito, nelle pagine successive, saranno tracciate le linee
argomentative di alcune delle questioni che sono al centro di questo dialogo, in
primo luogo in relazione alla finalità eminentemente riabilitativa della pena. La
giurisprudenza di Strasburgo, infatti, ha costruito nel tempo una prospettiva
ermeneutica progressivamente tendente ad affermare il primato penologico del
reinserimento sociale, ma è proprio all’interno del leading case in materia di
ergastolo senza prospettiva di liberazione Vinter c. Regno Unito che la Corte EDU
proclama l’adesione alla prospettiva ermeneutica elaborata nel tempo dalla Corte
costituzionale italiana, in materia di prevalenza del principio riabilitativo. Questa
stessa elaborazione viene ripresa e ulteriormente valorizzata proprio nella sentenza
Viola per legare indissolubilmente l’ottica comune dei Paesi membri del Consiglio
d’Europa in tema di pena e reinserimento sociale alla tradizione argomentativa e
all’ideologia normativa scaturente dalla ricca e dinamica giurisprudenza
costituzionale italiana. Il prossimo passo, in questa costruzione comune che riposa
sulla illustre e preziosa elaborazione della giurisprudenza costituzionale italiana,
sarà costituito dalla decisione della Corte costituzionale sulla legittimità
costituzionale e convenzionale dell’incomprimibilità dell’ergastolo ostativo. Per
fare ciò sarà necessario ripensare e decostruire il concetto di diritto europeo
consolidato, nella consapevolezza della comune opera di protezione dei diritti
all’interno della sfera d’azione del costituzionalismo multilivello7.
2. A partire dalla sentenza Dickson c. Regno Unito8, la Corte EDU ha fatto
espresso riferimento al termine inglese rehabilitation (o al francese réinsertion)9
University Press, Princeton, 2009.
7
Il concetto viene introdotto per la prima volta da I. PERNICE, Constitutional Law Implications
for a State Participating in a Process of Regional Integration. German Constitution and Multilevel
Constitutionalism, in E. RIEDEL (a cura di), German Reports on Public Law Presented to the XV
International Congress on Comparative Law, Nomos, Baden-Baden, 1998, 40-66 e viene trasposto
sul piano europeo da N. WALKER, Multilevel Constitutionalism: Looking Beyond the German
Debate, in K. TUORI-S.SANKARI (a cura di), The Many Constitutions of Europe, Ashgate, Farnham,
2010. Più recentemente e in ambito dottrinale italiano, M. CARTABIA, La tutela multilivello, in
Fundamental Rights and the Relationship among the Court of Justice, the National Supreme Courts
and the Strasbourg Court, 50ème anniversaire de l’arrêt Van Gend en Loos: 1963-2013: actes du
colloque, Luxembourg, 13 mai 2013, Luxembourg, 2013, 155-168.
8
Dickson v. UK, [GC], no. 44362/04.
9
La terminologia non è neutra. Il concetto di rehabilitation è stato fonte di controversie in
letteratura, durante gli anni Ottanta del secolo scorso (vedi, F. ALLEN, The decline of the
rehabilitative ideal, New Haven, Yale University Press, 1981, e, in generale, D. GARLAND, The
Culture of Control, Oxford University Press, Oxford, 2001) ed è stato sostituito da termini (e
concetti) come social reintegration (reintegrazione sociale) o resocialization (risocializzazione),
specialmente nella penologia europeo-continentale. Alcuni autori hanno inteso questa diversa
terminologia come parte integrante di una diversa ideologia normativa: il concetto anglo-americano
di rehabilitation (riabilitazione) in contrapposizione al concetto continentale (principalmente
tedesco, ma anche italiano) di risocializzazione o reintegrazione sociale (si veda, in proposito, L.
LAZARUS, Contrasting Prisoners' Rights: A Comparative Examination of England and Germany,
Oxford Monographs on Criminal Law and Justice, Oxford, 2004, che spiega questo diverso
approccio e valuta perché, quando il «modello riabilitativo» stava andando incontro a una crisi di
legittimità politica, i penologi tedeschi, così come i legislatori, i politici e i riformatori,
86
Sofia Ciuffoletti
per individuare una preminenza fra le funzioni, convenzionalmente legittime,
assegnate alla pena detentiva. Se, infatti, tradizionalmente i criminologi hanno
considerato legittime funzioni come la retribuzione, la prevenzione generale
(deterrenza), la protezione della popolazione (incapacitazione) e la riabilitazione,
più recentemente, «si è registrata una tendenza a dare maggiore enfasi alla
riabilitazione, come dimostrato in particolare dagli strumenti giuridici del Consiglio
d'Europa»10.
Questa elaborazione ermeneutica si è basata su una comprensione differenziale
dello stesso concetto di riabilitazione. La Corte EDU sta, infatti, espressamente
fabbricando un concetto autonomo che non si basa più sulla versione
angloamericana (negativa) della mera riabilitazione «come mezzo per prevenire la
recidiva»11, ma piuttosto su di una «idea positiva di ri-socializzazione attraverso la
promozione della responsabilità personale»12.
La Corte EDU ha riconosciuto in più occasioni «il legittimo obiettivo di una
politica di progressivo reinserimento sociale delle persone condannate alla
reclusione»13. Nella causa Mastromatteo c. Italia la Corte ha affermato che «una
delle funzioni essenziali di una pena detentiva è quella di proteggere la società, ad
esempio impedendo a una persona condannata di recidivare e quindi di causare
ulteriore danno sociale»14, ma allo stesso tempo ha riconosciuto «il legittimo
obiettivo di una politica di progressivo reinserimento sociale delle persone
condannate alla reclusione»15.
Sulla relazione tra istanze di sicurezza sociale di tutti e di reinserimento sociale
del singolo (e sulla preminenza del principio rieducativo nella teoria della
polifunzionalità della pena), la Corte EDU offre una lettura rilevantissima che
scende nella concretezza sociologica del fenomeno criminale. Secondo la Corte
EDU, infatti, la stessa finalità di difesa sociale è, ricompresa nell’orizzonte
rieducativo. La funzione di risocializzazione, insomma, ha lo scopo ultimo di
prevenire la recidiva e proteggere la società (Murray, cit., §102). Questo è ancor
più vero quando, come in Italia, la pena è eminentemente pena detentiva.
L’orizzonte della rieducazione vale a conferire una direzione e un senso al percorso
detentivo di una persona condannata e a giustificare la complessità (e l’onerosità)
dell’apparato amministrativo e trattamentale impiegato dallo Stato.
condividevano l’impegno per la ‘risocializzazione’ come obiettivo sostanziale della detenzione). Più
recentemente sono stati usati termini come reintegration per rafforzare l’idea di una posizione
giuridica piena del detenuto (vedi, D.VAN ZYL SMIT., S., SNACKEN, Principles of European prison
law and policy, Oxford University Press, Oxford, 2009). Infine, il concetto di (re)integration è
utilizzato dall’articolo 6 della versione del 2006 (confermata dalla recente revisione del 2020) delle
European Prison Rules (Regole Penitenziaria Europee): «All detention shall be managed so as to
facilitate the reintegration into free society of persons who have been deprived of their liberty».
10
Dickson, op. cit., §28.
11
Ibidem.
12
Ibidem.
13
Boulois v. Luxembourg [GC], no. 37575/04, §83, con riferimenti a Mastromatteo v. Italy
[GC], no. 37703/97, §72, 2002‑VIII; Maiorano and Others v. Italy, no. 28634/06, §108, 15
December 2009; and Schemkamper v. France, no. 75833/01, §31, 18 October 2005.
14
Mastromatteo v. Italy, cit., §72.
15
Ibidem.
Spunti per una lettura dialogica dell’ergastolo ostativo in Italia
87
È proprio attraverso la più recente giurisprudenza in materia di pena perpetua
che la Corte EDU ha arricchito il concetto di riabilitazione sociale o di
risocializzazione, collegandolo indissolubilmente alla dignità umana. Attingendo
alla dichiarazione della Corte costituzionale federale tedesca secondo cui «l’autorità
penitenziaria ha il dovere di adoperarsi per la riabilitazione di un detenuto
condannato all’ergastolo; la riabilitazione è una richiesta costituzionale in ogni
comunità che ha posto la dignità umana come suo fulcro»16, la Corte EDU ha
stabilito lo stesso legame con la dignità umana, affermando, nella causa Vinter c.
Regno Unito, che considerazioni simili sul legame tra dignità umana e
riabilitazione: «(...) devono applicarsi nell'ambito del sistema della Convenzione,
la cui essenza, come la Corte ha spesso affermato, è il rispetto della dignità umana
(cfr., tra l'altro, Pretty c. Regno Unito, n. 2346/02, §65, CEDU 2002-III; e V.C. c.
Slovacchia, n. 18968/07, §105, CEDU 2011)»17. La Corte EDU ha affermato,
inoltre, che il principio della «dignità̀ umana» impedisce di privare una persona
della libertà, senza lavorare allo stesso tempo al suo reinserimento e senza fornire
alla stessa la possibilità di riconquistare un giorno questa libertà. Ha, poi, precisato
che «un detenuto condannato all’ergastolo incomprimibile ha il diritto di sapere (...)
che cosa deve fare perché la sua liberazione sia possibile e quali sono le condizioni
applicabili»18.
Successivamente, nella causa Murray c. Paesi Bassi19, la Corte EDU ha
affermato che la privazione della libertà può essere compatibile con la dignità
umana solo se tende verso la riabilitazione. Questa prospettiva ha contribuito
all’elaborazione della giurisprudenza europea che definisce la riabilitazione come
un obbligo positivo per gli Stati membri. La Corte ha sottolineato che nessun diritto
alla riabilitazione in quanto tale può essere imposto alle autorità come dovere
assoluto, ma esiste l’obbligo di offrire alle persone detenute una reale possibilità di
riabilitazione. Tale obbligo è quindi un obbligo di mezzi, non di risultato20 e tuttavia
si tratta di un obbligo positivo che implica uno sforzo dello Stato per consentire alle
persone detenute di progredire verso la propria riabilitazione21.
La portata dell’obbligo positivo di offrire una possibilità concreta di
riabilitazione si è ampliato ulteriormente quando la Corte ha affermato che il
paradigma penologico della riabilitazione e della reintegrazione «è diventato un
fattore obbligatorio di cui gli Stati membri devono tenere conto nella definizione
delle loro politiche penali»22.
Il paradigma della riabilitazione che scaturisce dalla elaborazione
giurisprudenziale di Strasburgo disegna un’architettura che si basa sull’articolo 3
CEDU, e in particolare sul concetto di dignità umana. Dalla dignità umana deriva
il concetto di riabilitazione come idea di risocializzazione attraverso la promozione
16
Lebenslange Freiheitsstrafe, 21 June 1977, 45 BVerfGE 187. Per la traduzione inglese degli
estratti della sentenza, si veda, D.P. KOMMERS, The Constitutional Jurisprudence of the Federal
Republic of Germany (2nd ed.), Duke University Press, Durham and London, 1997 at 306-313.
17
Vinter, cit., §113.
18
Vinter, cit., §122.
19
Murray, cit., §101.
20
Harakchiev and Tolumov v. Bulgaria, nos. 15018/11 and 61199/12, §264.
21
Murray, cit, §104.
22
Khoroshenko v. Russia, [GC], no. 41418/04), §121.
88
Sofia Ciuffoletti
della responsabilità personale, così come l’obbligo degli Stati di dare ai detenuti
una reale possibilità di riabilitazione.
Tale obbligazione è di natura positiva e tripartita, poiché riguarda il dovere
degli Stati non solo di considerare le prospettive di riabilitazione e di reinserimento
sociale come fattori obbligatori nella progettazione delle politiche penali, ma anche
di riconoscere l’obiettivo riabilitativo come scopo primario della detenzione. Infine,
l’ultima dimensione dell’obbligo positivo del paradigma riabilitativo sembra essere
la necessità di un piano trattamentale individualizzato, in base al quale valutare la
pericolosità sociale e le dimensioni ivi connesse (tra cui il sicuro ravvedimento
richiesto dall’art. 176 c.p. nell’ordinamento italiano), così come i bisogni della
persona detenuta.
In Vinter (§§119-122), poi, la Corte ha ritenuto che, nel contesto di una
condanna all’ergastolo, l’articolo 3 debba essere interpretato nel senso di richiedere
una riducibilità de iure e de facto della pena, ossia la possibilità di un riesame che
consenta alle autorità nazionali di considerare se eventuali cambiamenti nel
percorso della persona detenuta siano così significativi e i progressi verso la
riabilitazione nel corso della pena siano tali da non giustificare più il mantenimento
in detenzione per motivi di ordine penologico. Inoltre, in Vinter, la Corte EDU ha
stabilito il seguente principio: «Un detenuto condannato all’ergastolo
incomprimibile ha quindi il diritto di sapere, sin dall’inizio della pena, quello che
deve fare perché sia possibile la sua liberazione e quali sono le condizioni
applicabili» (§122). E questo non già in ossequio a un vago «diritto alla speranza»23,
quanto in considerazione di una delle dimensioni più concrete della dignità umana,
il diritto all’autodeterminazione. Il condannato, infatti, conserva la propria dignità,
non attraverso la generica speranza nell’interruzione della pena perpetua, ma
piuttosto quando può, attraverso le proprie azioni, incidere sulla propria vita futura.
A questo diritto dell’ergastolano corrisponde specularmente (e lo rende effettivo)
l’obbligo positivo dello Stato di organizzare il sistema penitenziario in modo da
promuovere e garantire il reinserimento sociale dei detenuti.
3. Come ricordato, sempre in considerazione del primato del paradigma del
reinserimento sociale, in Vinter c. Regno Unito la Corte EDU fa espresso
riferimento alla giurisprudenza della Corte costituzionale italiana (diffusamente,
analizzando l’evoluzione giurisprudenziale della Corte, §72 e poi ancora al §117
della pronuncia) e si basa («s’est appuyée» come ricorda lo stesso giudice europeo
in Viola, §94, utilizzando un termine molto forte e inequivocabile in termini di
argomentazione giuridica), inter alia (accanto all’elaborazione della Corte
costituzionale federale tedesca), su questa stessa giurisprudenza per affermare che
la prassi degli Stati contraenti riflette la volontà di agire in favore del reinserimento
dei condannati all’ergastolo e nel contempo di offrire loro una prospettiva di
liberazione. Insomma, nel leading case in materia di ergastolo senza prospettiva di
liberazione, in una sentenza contro un altro Paese membro (e non un Paese membro
23
Formulato nella sentenza Kafkaris c. Chipre [GC], n. 21906/04, del 12 febbraio 2008. Il
concetto ha avuto una certa fortuna, dovuta forse al fascino retorico, nella giurisprudenza di
Strasburgo, ma non è stato reiterato, per esempio, nella sentenza Viola c. Italia.
Spunti per una lettura dialogica dell’ergastolo ostativo in Italia
89
a caso, ma il Regno Unito), in una decisione di condanna del sistema anglosassone
del life-long sentence without parole senza precedenti, la Corte “fonda” il proprio
ragionamento sull’opera interpretativa della Corte costituzionale italiana, accanto a
quella tedesca, riconoscendo così una tradizione ermeneutica dotata di forte autorità
persuasiva, anche alla luce delle previsioni della CEDU.
È appena il caso di notare come l’elaborazione ermeneutica della Corte
costituzionale italiana si fondi su un testo costituzionale che aveva già integrato
questa prospettiva interpretativa della pena come fortemente legata al concetto di
dignità umana e, quindi, alla rieducazione e al reinserimento sociale. I lavori
preparatori della nostra Carta costituzionale, infatti, mostrano come, nella
discussione accesa sul terzo comma dell’art. 21 (poi divenuto l’art. 27 Cost.), si
scontrassero una visione che voleva evitare la introduzione di una prospettiva
privilegiata nel solco della teoria polifunzionale della pena (si ricordi
l’emendamento Leone-Bettiol, su tutti) e una (che infine prevalse), che non voleva
tanto proclamare la superiorità dell’indirizzo penologico della Scuola positiva,
quanto, come ricorda Elvio Fassone, esprimere una nuova sensibilità politica:
«Molti dei Costituenti hanno sperimentato le galere fasciste, hanno inverato la loro
funzione di intellettuali in una lunga prassi politica, e in un contatto reale con il tipo
di umanità che vive nelle prigioni (…) la “rieducazione del condannato” diventa il
concetto che meglio concilia l’esigenza di conservare una risposta al reato con
l’obiettivo di una crescente integrazione delle masse nello Stato (…) Una volta
recuperata l’identità tra Stato e cittadini, una volta assegnata al popolo la sovranità
e restituito ai cittadini il ruolo di protagonisti delle scelte politiche, il concetto di
rieducazione perde ogni impronta paternalistica e può diventare veicolo non di
“bonifica umana”, ma di promozione24».
Nell’articolato crinale interpretativo seguito, nel tempo, dalla Corte
costituzionale, l’argomentazione si è svolta, da un lato, valorizzando la concezione
polifunzionale della pena, dall’altro sancendo un vero e proprio diritto alla
rieducazione: per la prima volta con la sent. 204/1974, proprio in tema di
liberazione anticipata, la Corte costituzionale afferma che: «L'istituto della
liberazione condizionale rappresenta un particolare aspetto della fase esecutiva
della pena restrittiva della libertà personale e si inserisce nel fine ultimo e risolutivo
della pena stessa, quello, cioè, di tendere al recupero sociale del condannato (…)
Sulla base del precetto costituzionale sorge, di conseguenza, il diritto per il
condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto
sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato
al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto
positivamente al suo fine rieducativo; tale diritto deve trovare nella legge una valida
e ragionevole garanzia giurisdizionale».
È a questa tradizione culturale e a questo paradigma interpretativo della pena
come eminentemente riabilitativa che si richiama la Corte EDU nella sentenza Viola
(così come la Corte costituzionale nella decisione n. 253/2019). La Corte EDU,
infatti, nel sancire la violazione dell’art. 3 della CEDU ha ulteriormente arricchito
E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall’800 alla riforma penitenziaria, Il Mulino,
Bologna 1980, 71-72.
24
90
Sofia Ciuffoletti
il proficuo dialogo con la Corte costituzionale (un dialogo diretto, questa volta,
essendo in gioco proprio il sistema di ergastolo ostativo italiano), attraverso l’ampio
e approfondito riferimento alla giurisprudenza costituzionale italiana (con una
rassegna ragionata, all’interno della sezione sul “Diritto e le prassi interne
rilevanti”, Viola, cit., §§37-51), valorizzandone i dicta, sia per ciò che concerne
l’equilibrio tra le diverse funzioni assegnate alla pena e la progressione ermeneutica
verso un ruolo più centrale assegnato alla funzione di risocializzazione della pena,
sia in relazione alla legittimità costituzionale dell’art. 4-bis ord. penit. (ponendo
particolare rilievo alla sent. n. 306/1993, v. infra). Infine ha ripercorso le sentenze
costituzionali in materia di presunzioni legislative assolute, in particolare in
relazione all’accesso ai benefici penitenziari, facendo riferimento alla sentenza n.
149/2018, in cui la Corte costituzionale ha considerato che «previsioni che
precludano in modo assoluto, per un arco temporale assai esteso, l’accesso ai
benefici penitenziari a particolari categorie di condannati – i quali pure abbiano
partecipato in modo significativo al percorso di rieducazione e rispetto ai quali non
sussistano gli indici di perdurante pericolosità sociale individuati dallo stesso
legislatore all’articolo 4-bis – in ragione soltanto della particolare gravità del reato
commesso, ovvero dell’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei
confronti della generalità dei consociati», sono contrari ai principi costituzionali di
proporzionalità e individualizzazione della pena (si veda anche la sentenza n.
239/2014).
4. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 253/2019 richiama espressamente
gli approdi argomentativi in Viola nel passaggio in cui la Corte EDU sottopone a
critica una disposizione che assume iuris et de iure la permanenza di collegamenti
con associazioni criminali del non collaborante ed eleva aprioristicamente la
collaborazione al rango di sintomo eloquente di abbandono della scelta di vita
originaria, quando in realtà essa potrebbe essere dovuta a molte altre ragioni, non
sempre commendevoli.
Ma non si addentra oltre nella prospettiva dialogica, affermando che la
compatibilità costituzionale dell’ergastolo ostativo non è oggetto diretto di quella
sentenza, dato che le ordinanze di rimessioni non avevano censurato la previsione
contenuta nell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 13 maggio 1991, che,
richiamando l’art. 176 cod. pen., non consente di concedere la liberazione
condizionale al condannato all’ergastolo che non collabora con la giustizia e che
abbia già scontato ventisei anni effettivi di carcere, «così trasformando la pena
perpetua de iure in una pena perpetua anche de facto». Così facendo, la Corte
costituzionale indica chiaramente il successivo passaggio (oggi sub iudicem) nella
costruzione di una prospettiva costituzionalmente e convenzionalmente orientata in
tema di ergastolo ostativo e orizzonte di reinserimento sociale. Una prospettiva in
cui la Corte costituzionale si confronterà direttamente con la giurisprudenza della
Corte EDU e con quell’ottica interpretativa comune che il giudice di Strasburgo ha
chiaramente affermato proprio a partire dagli approdi ermeneutici del giudice
costituzionale italiano.
Spunti per una lettura dialogica dell’ergastolo ostativo in Italia
91
Questo engagement nella prospettiva del dialogo fra corti e fra sistemi è reso
ancor più impellente in ragione delle vicende esecutive della sentenza Viola.
Occorre, infatti, ricordare che la sentenza Viola riconosce, all’interno
dell’ordinamento italiano, un problema strutturale costituito dalla incomprimibilità
dell’ergastolo ostativo, (per cui sono pendenti davanti alla Corte EDU un elevato
numero di ricorsi). Ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, la Corte EDU afferma
che la natura della violazione accertata dell’art. 3 della CEDU «impone» allo Stato
di intervenire, in fase di esecuzione del giudizio, attraverso una riforma del regime
dell’ergastolo ostativo, che garantisca la possibilità di riesame della pena, in modo
da assicurare che la magistratura di sorveglianza possa valutare se, nel corso
dell’esecuzione della pena, vi sia stata una evoluzione del detenuto e una
progressione nel suo percorso trattamentale, al punto che «nessun motivo legittimo
di ordine penologico giustifichi più la detenzione». Inoltre, «la riforma deve
garantire la possibilità per il condannato di beneficiare del diritto di sapere cosa
deve fare perché la sua liberazione sia possibile e quali siano le condizioni
applicabili» (Viola, cit., §143).
La procedura esecutiva è tuttora aperta, ma a quasi un anno dalla data in cui la
sentenza Viola è divenuta definitiva, il legislatore italiano non è intervenuto con
alcuna riforma o progetto di riforma in adempimento dei propri obblighi
internazionali. Tanto che, secondo quanto riportato nelle comunicazioni all’organo
incaricato di vigilare sull’esecuzione della sentenza, il Comitato dei Ministri del
Consiglio d’Europa, del ricorrente Marcello Viola, così come nella comunicazione
dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, l’unica misura dello Stato italiano citata
è proprio la sentenza della Corte costituzionale n. 253/201925.
La Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa proprio
l’8 settembre (il giorno stesso della scadenza del termine per gli amici curiae alla
Corte costituzionale), ha inviato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa
l’atteso piano d’azione per l’esecuzione della sentenza Viola in vista della
successiva riunione del Comitato dei Ministri26.
Il Piano d’Azione fa ampio riferimento alla sentenza della Corte costituzionale
n. 253/2019 e infatti afferma che: «Riferendosi, seppur indirettamente, ai principi
affermati nella causa Viola, la Corte italiana ha ritenuto che la presunzione assoluta
di pericolosità sociale dei detenuti che si rifiutano di collaborare preclude la
valutazione del trattamento carcerario e il processo di risocializzazione del
detenuto, in aperto contrasto con lo scopo rieducativo della pena. La Corte
costituzionale ritiene che una valutazione individualizzata e attuale sia necessaria
Communication du requérant (11/02/2020) relative à l’affaire Marcello Viola c. Italie (n°
2) (requête n° 77633/16) [French only] [DH-DD(2020)135] e Communication from a NGO (Hands
Off Cain) (17/10/2019) in the case of Marcello Viola (No. 2) v. Italy (Application No. 77633/16.
Disponibile presso:
https://hudoc.exec.coe.int/eng#{%22EXECIdentifier%22:[%22DH-DD(2020)135F%22]}
26
DH-DD(2020)784: Plan d’action (07/09/2020) Référence du point: Communication de
l’Italie concernant l’affaire Marcello Viola c. Italie (n° 2) (requête n° 77633/16) pour la 1383e
réunion (29 septembre - 1 octobre 2020) (DH). Disponicile presso:
https://hudoc.exec.coe.int/eng#{%22fulltext%22:[%22viola%22],%22display%22:[2],%22E
XECIdentifier%22:[%22DHDD(2020)784F%22],%22EXECDocumentTypeCollection%22:[%22CEC%22]}
25
92
Sofia Ciuffoletti
per pronunciarsi sulla pericolosità e sulla possibilità di accedere alle misure
alternative. Tale valutazione deve essere basata su prove solide e accurate che
possano escludere sia l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, sia
il rischio che tali legami possano essere ristabiliti».
Tale riferimento costituisce un segnale chiaro del fatto che, a fronte dell’inerzia
del legislatore, la compliance dello Stato italiano è rimessa alla vitalità
giurisprudenziale della Corte costituzionale. Questa Corte è, infatti, (è ormai chiaro
da decenni) il giudice dei diritti delle persone detenute in Italia, ma sembra che sia
ormai diventato anche il “giudice dell’ottemperanza” in tema di esecuzione delle
sentenze europee.
L’unico segnale di vitalità che il legislatore nazionale ha restituito finora è
costituito dalla recente approvazione, in Commissione parlamentare antimafia, il 20
maggio scorso, della Relazione sull’istituto di cui all’art. 4-bis della legge n. 354
del 1975, in materia di Ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti
dalla sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale. La Relazione ricorda come
tutte le audizioni in Commissione parlamentare «abbiano concordato
sull’opportunità che una eventuale modifica legislativa riguardi tutti i benefici
penitenziari indicati nell’articolo 4-bis dell’ord. penit., oltre che la liberazione
condizionale, essendo altrimenti prevedibili ulteriori successivi interventi della
Corte costituzionale volti a censurare la presunzione assoluta ove questa venisse
mantenuta per i benefici diversi dal permesso premio».
La questione di legittimità costituzionale sollevata con ordinanza di rimessione
dalla Corte di Cassazione, si inserisce in questo quadro andando a costituire un
tassello imprescindibile (soprattutto a fronte dell’inazione legislativa) nella
procedura di esecuzione della stessa sentenza Viola c. Italia e sollecita
ulteriormente il ruolo della Corte costituzione all’interno della prospettiva dialogica
tratteggiata.
Vale la pena, da ultimo, spendere due parole sulla qualità e natura di diritto
consolidato di Viola, anche in relazione alla diversa nozione di well established
case law convenzionale27. La Grande Camera della Corte EDU, nella composizione
collegiale di 5 giudici, ha rigettato la richiesta del Governo italiano, presentata ai
sensi dell’art. 43 della CEDU, di rinvio alla Grande Camera del caso Viola c. Italia,
rendendo così definitivo il giudizio già deciso con sentenza dalla Sezione Prima
della Corte. Occorre qui osservare come, ai sensi di quanto argomentato dalla stessa
Corte costituzionale (sent. n. 49/2015), il rigetto da parte della Grande Camera della
richiesta di rinvio da parte del governo italiano, costituirebbe un indice chiaro
dell’avvenuto consolidamento giurisprudenziale europeo sul tema che qui interessa.
Nozione che si rinviene nell’art. 28 della CEDU, così come nell’Explanatory report al
Protocollo n. 14 alla Convenzione, che afferma, in relazione all'articolo 8, che la nozione di
giurisprudenza consolidata si riferisce «normalmente» alla «giurisprudenza costante di una camera»
o che «in via eccezionale», una sola sentenza di principio della Corte costituisce una «giurisprudenza
consolidata, in particolare se si tratta di una sentenza della Grande Camera». Questa nozione rileva
a fini di pura organizzazione interna e conferisce a un Comitato la competenza a decidere su una
causa invece di rinviarla a una sezione della Corte. Ciò non è dovuto al fatto che una giurisprudenza
consolidata sarebbe in un certo modo superiore o “più vincolante” rispetto al resto della
giurisprudenza convenzionale, ma semplicemente al fatto che consente il ricorso ad una procedura
semplificata per le cause ripetitive.
27
Spunti per una lettura dialogica dell’ergastolo ostativo in Italia
93
Non può negarsi che il rigetto da parte della stessa Grande Camera, nella
composizione collegiale di 5 giudici, della richiesta di rinvio formulata dal Governo
sia una prova della ratifica che la Grande Camera stessa dà all’interpretazione resa
dalla Camera semplice e valga, quindi, a costituire indice del consolidamento di
quell’orientamento giurisprudenziale. Il ruolo fondamentale del Collegio, infatti, è
quello di garantire la coerenza dei giudizi della Camera con la costante
giurisprudenza della Corte. Quando una sentenza di Camera si discosta in modo
significativo dalla giurisprudenza precedente, il Collegio accoglie il rinvio.
Sentenze che comportano una “normale” applicazione di norme consolidate dalla
giurisprudenza non sono rinviate alla Grande Camera. Ripercorrendo (a dire il vero
a contrario) gli indici idonei a orientare il giudice nazionale, richiamati dalla Corte
costituzionale nella sentenza del 2015, i principi affermati in Viola si inseriscono a
pieno nel solco tradizionale della giurisprudenza europea sul tema di pena perpetua
e riducibilità della stessa, de iure e de facto28. Appare, inoltre, evidente come il
giudice europeo sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari
dell’ordinamento giuridico nazionale, come testimoniato dalla certosina
ricostruzione della giurisprudenza costituzionale e di Cassazione, così come dei
progetti di riforma dell’art. 4-bis ord. penit., inserita nel paragrafo sul “Diritto e le
pratiche interne pertinenti” in Viola e, infine, dalle ampie e argomentate Third Party
Interventions. Infine è presente un’unica opinione dissenziente, del giudice
Wojtyczek, che, rifacendosi alla preminenza delle esigenze di difesa sociale, non
riesce a costruire un’argomentazione sostenuta da robuste deduzioni (si legga, su
tutti, il punto in cui Wojtyczek afferma che «la questione pertinente non è sapere se
la scelta in questione sia sempre libera e volontaria, ma piuttosto stabilire se la scelta
concreta del detenuto in questione sia stata libera e volontaria», dimenticandosi che
è proprio l’impossibilità di valutare a livello individuale questo elemento a sancire
la irriducibilità de facto della pena perpetua in Italia).
A fronte, quindi, del riconoscimento del grado elevato di consolidamento (di
grado, infatti, occorre parlare, trattandosi di un oggetto dinamico come il discorso
giurisprudenziale) della giurisprudenza europea espresso dalla sentenza Viola, il
risultato che ne deriva, secondo l’interpretazione dei giudici della Consulta, è la
«imprescindibilità» di tale giurisprudenza per la Corte costituzionale29, «salva
l’eventualità eccezionale di una verifica negativa circa la conformità di essa, e
dunque della legge di adattamento, alla Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 264
del 2012), di stretta competenza della Corte costituzionale stessa»30.
Tutto questo considerato, credo che valga la pena analizzare con attenzione,
magari supportate dall’opinione separata (in parte concordante, in parte
dissenziente) del giudice Pinto de Albuquerque nella sentenza G.I.E.M. c. Italia31,
la categoria di «diritto consolidato» che si avvicina molto più a quello che Paolo
Grossi chiama mitologia giuridica della modernità32 che a un concetto di pratica
28
Linea argomentativa espressa nella giurisprudenza della Corte EDU: si vedano, su tutte, le
citate Vinter and others v. U.K. e Murray v. The Netherlands.
29
Oltre alla pronuncia del 2015, si veda sent. n. 303/2011.
30
Sent. n. 49/2015, punto n. 7 cons. in dir.
31
G.I.E.M. S.R.L. and Others v. Italy, [GC], nn. 1828/06, 28 June 2018.
32
P. GROSSI, Mitologie Giuridiche della Modernità, Giuffrè, Milano 2007. Nel saggio Oltre le
94
Sofia Ciuffoletti
individuazione ermeneutica. La Corte costituzionale indica, infatti, parametri validi
soltanto in negativo che creano una gerarchia di vincolatività delle sentenze della
Corte EDU, non ammissibile, dal momento che, come ricorda la Corte in G.I.E.M.,
le sue sentenze «hanno tutte lo stesso valore giuridico. Il loro carattere vincolante e
la loro autorità interpretativa non possono pertanto dipendere dal collegio
giudicante che le ha pronunciate» (§252).
Nel prossimo futuro, sarà necessario rivedere la nozione di diritto consolidato,
distinguendola da quella di «well established case law» e contestualizzandola
all’interno della tutela multilivello dei diritti in ambito europeo, al fine di vivificare
quel dialogo fra corti che non può tradursi in un braccio di ferro su chi detiene
“l’ultima parola” sui diritti umani. Credo che i giudici europei, in Viola abbiano
aperto a questo dialogo con molteplici e ragionati riferimenti alla giurisprudenza
costituzionale italiana, riconoscendo una storia costituzionale centrata sull’art. 27,
comma 3, Cost. come preminentemente votato all’ipotesi riabilitativa, nella
polifunzionalità della pena, e così credo che la Corte costituzionale farà in relazione
alla copiosa giurisprudenza della Corte EDU sulla necessaria riducibilità de iure e
de facto della pena perpetua ex art. 3 CEDU. E questo dato che è proprio la Corte
EDU il “master”33 interpretativo della Convenzione: sono, insomma,
indiscutibilmente i giudici di Strasburgo ad avere “l’ultima parola” in termini di
interpretazione del testo convenzionale.
5. Abbiamo visto come le dimensioni del reinserimento sociale e della dignità
umana siano al centro del dialogo tra la Corte EDU e la Corte costituzionale italiana
e abbiamo verificato come gli approdi argomentativi delle due Corti vadano a
costituire una trama comune. Al tempo stesso la dimensione dialogica inaugurata
dalla Corte EDU necessita di una vivificazione, sul fronte domestico, a opera della
Corte costituzionale italiana, a partire da una riconsiderazione della nozione di
diritto europeo consolidato, nella consapevolezza di partecipare alla comune opera
di costruzione di uno spazio europeo dei diritti.
È a questa stessa trama che sarà necessario guardare per proseguire nel
cammino comune di tutela (multilivello) dei diritti, tenendo insieme la
giurisprudenza europea e la sua autorità interpretativa in relazione al testo della
CEDU, con i consolidati e ricchi sostegni ermeneutici offerti dalla giurisprudenza
costituzionale italiana, sostegni che testimoniano un approdo comune (costruito nei
mitologie giuridiche della modernità, in Quaderni Fiorentini, 29, 2000, 219, l’autore spiega: «A
questo serve il mito nel suo significato essenziale di trasposizione di piani, di processo cioè che
costringe una realtà a compiere un vistoso salto di piani trasformandosi in una metarealtà; e se ogni
realtà è nella storia, dalla storia nasce e con la storia varia, la metarealtà costituita dal mito diventa
una entità metastorica e, quel che più conta, si assolutizza, diventa oggetto di credenza piuttosto che
di conoscenza (…) L’illuminismo politico-giuridico ha bisogno del mito perché ha bisogno di un
assoluto a cui aggrapparsi; il mito supplisce egregiamente alla carenza di assoluto che si è attuata e
colma un vuoto altrimenti rischiosissimo per la stessa stabilità della nuova intelaiatura della società
civile. Le nuove ideologie politiche economiche giuridiche hanno finalmente un supporto che ne
garantisce la inalterabilità».
33
“Master” nel senso ben descritto da E. SANTORO, Diritto e Diritti, Giappichelli, Torino 2008,
267.
Spunti per una lettura dialogica dell’ergastolo ostativo in Italia
95
termini di un consensus dei Paesi membri del Consiglio d’Europa), in termini di
preminenza del paradigma penologico risocializzante nel contesto europeo.
UN SISTEMA PREMIALE IMPRATICABILE
di FRANCO CORLEONE
I ringraziamenti per l’occasione preziosa di scambio di tante espressioni di
acute intelligenze non sono affatto formali. Sarei stato semplicemente ad ascoltare
se la parte finale dell’intervento di Glauco Giostra non avesse posto alcuni temi che
non sono solo giuridici, ma a tutto tondo di politica e di rapporto con la società
italiana.
Comunque, avendo ascoltato i molti interventi interessantissimi, mi è venuta
una preoccupazione che mi pare aleggi, dal più al meno, in tutti i presenti, cioè che
«se tutto va bene siamo rovinati».
Si potrebbe tradurre così il timore della possibile o probabile ripetizione della
sentenza n. 253/2019. Ho ascoltato i suggerimenti, e d’altronde il compito di amicus
curiae è fare proprio questo, perché si correggano le interpretazioni prudenti e ci
sia più nettezza semmai nell’invitare il Parlamento ad intervenire su alcuni nodi
sostanziali.
Prima di esplicitare il nocciolo del mio pensiero, ritengo che meritino una
attenta riflessione i dati iniziali che ci ha illustrato Marco Ruotolo. Sono numeri
impressionanti per la quantità di ergastoli e, all’interno di questi, di quelli ostativi.
Nel giro di pochi anni, o comunque negli ultimi venti anni, il numero degli ergastoli
si è quadruplicato, se non di più, in presenza di un abbassamento costante del
numero di omicidi. Allora, che cosa caratterizza l’allarme sociale, il pericolo
sociale, la sicurezza? Questo atteggiamento o indicatore del senso comune,
dovrebbe spingere a un approfondimento da parte di persone e studiosi, ma
certamente testimonia che la forza della demagogia, della menzogna, della
costruzione di falsi sesquipedali (come la trattiva Stato-mafia o lo stravolgimento
degli interventi dell’allora Guardasigilli, Giovanni Conso sul 41-bis), tutto questo
ha avuto la forza di diventare egemonia, egemonia del falso, a cui non si è riusciti
a contrapporre un’egemonia della razionalità, del diritto, del garantismo.
Tutto ciò è accaduto proprio in questi ultimi anni: ho avuto modo di scrivere
un articolo sull’esperienza che ho avuto come sottosegretario alla Giustizia, e
ricordare la presenza in Parlamento e al Ministero della Giustizia di una serie di
personalità con una forza da classe dirigente che riuscì a manifestarsi in quella
stagione. Questo mi pare sia il punto su cui ragionare. In questi anni è accaduto che
una Ministra della Giustizia potesse fare in Senato non solo l’elogio del Codice
Rocco, ma anche di Alfredo Rocco, esaltandolo come “tecnico”, nascondendo il
fatto che fosse un leader politico del regime, senza che ci fosse una sollevazione di
indignazione. È potuto accadere che, prima del Covid, la Ministra dell’Interno
minacciasse un decreto-legge per eliminare i fatti di lieve entità relativi all’art. 73
della legge sulle droghe. Se cose simili sono potute avvenire, allora vuol dire che
c’è un silenzio colpevole, che consente poi a un editorialista del Corriere della Sera
Già Commissario per la chiusura degli OPG e Garante dei diritti dei detenuti della Regione
Toscana
Un sistema premiale impraticabile
97
di scrivere impunemente l’elogio della gogna, per i consumatori di cocaina, senza
alcuna ribellione.
Di fronte a questi fatti mi pare preoccupante che ci si debba affidare, anche se
meritoriamente, a organi di garanzia come la Corte costituzionale, come le Corti
europee, perché ciò certifica con nettezza che la politica e il diritto non hanno
cittadinanza nel dibattito pubblico. Ed è una assenza assai grave. Come lo è il fatto
che ogni anno, il 9 maggio, si ricordino le vittime del terrorismo nel giorno del
ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, assassinato vigliaccamente, ma nessuno
ricordi che proprio lui, due anni prima, aveva scritto parole nettissime contro
l’ergastolo: è un sintomo grave, di rimozione e di censura, di tradimento del suo
pensiero originale.
Voglio per questo ricordare solo alcune frasi, con le quali Aldo Moro aveva
chiaramente affermato che l’ergastolo, la «pena perpetua», era più disumana della
pena che più di ogni altra è stata definita tale, la pena di morte: occorre «nel nostro
ordinamento – che conosce ancora la pena dell’ergastolo anche se non conosce più
la pena di morte – una riforma che tenda a sostituire questo fatto agghiacciante della
pena perpetua (“non finirà mai, finirà con la tua vita questa pena!”), una lunga
detenzione, se volete, una lunghissima detenzione, ma che non abbia le
caratteristiche veramente pensati della pena perpetua che conduce ad identificare la
vita del soggetto con la vita priva di libertà. Questo, capite, quanto sia crudele e
disumano. […] Quando si dice pena perpetua si dice una cosa estremamente
pesante, estremamente grave, umanamente non accettabile»1.
È doloroso che il ricordo sia compiuto con cerimonie caratterizzate dalla
retorica e non come occasione di verità, anche scomoda. Ma a me risulta
insopportabile la nostra incapacità a denunciare questa violenza, a non ricordare
questo spartiacque, a far risaltare un fatto così straordinario che costituisce un
discrimine di civiltà giuridica e umana. Si tratta davvero di una responsabilità
politica cui veniamo meno troppe volte.
In conclusione, voglio sottolineare il paradosso che noi abbiamo davanti:
abbiamo costruito, e molti ne sono fieri, un sistema penitenziario premiale, basato
sul reinserimento sociale in obbedienza ai principi costituzionali. Il paradosso però
è che questo sistema premiale risulta impraticabile per gli “ultimi”, gli “scarti”, i
poveracci, i tossicodipendenti, che stanno in galera, e risulta utilizzabile dai più
potenti. Un sistema premiale che è ormai inesistente, risultando una struttura di cui
le radici sono state tagliate nel basso e le fronde in alto. Questo esito deve
costringerci a valutare il che fare. E tuttavia, volendo chiudere con una nota di
ottimismo, non cento anni fa, non nel momento dell’approvazione della legge 180,
ma solo pochi anni fa – lo ricordo anche perché ho vissuto l’esperienza di
Commissario per la chiusura degli OPG – i manicomi giudiziari sono stati chiusi.
L’ho definita una rivoluzione, gentile ma rivoluzione: è stata una cosa enorme,
straordinaria. Ci dovremmo allora chiedere come siamo stati capaci di realizzare
1
A. MORO, La funzione della pena, Lezione del 13 gennaio 1976 nella Facoltà di Scienze
Politiche dell’Università degli Studi di Roma, in F. TRITTO (a cura di), Lezioni di istituzioni di diritto
e procedura penale, Carocci, Roma 2005, riprodotta in S. ANASTASIA, F. CORLEONE (a cura di),
Contro l’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e la dignità della persona, Ediesse, Roma 2009,
137-138.
98
Franco Corleone
questa riforma e come, invece, non abbiamo ancora la forza di porre con altrettanta
determinazione la risoluzione dei problemi che oggi sono stati ricordati e che
disegnano un quadro terribile: se non c’è ravvedimento, o pentimento, vi è la
certificazione che la pena in Italia è fino alla morte in carcere. È una constatazione,
forse drastica, ma è il clou che traduce molte preoccupazioni ascoltate oggi.
IL “COMMIATO” DELL’ERGASTOLO OSTATIVO?
LA PAROLA SPETTA ORA ALLA CORTE COSTITUZIONALE
di MARILISA D’AMICO e STEFANO BISSARO
SOMMARIO: 1. Considerazioni preliminari. - 2. I nodi processuali: sulla possibile
irrilevanza della questione. - 3. Differenze e analogie con i precedenti. - 4. L’orizzonte
convenzionale e la “spada di Damocle” della sentenza Viola c. Italia. - 5. Riflessioni
conclusive, tra elementi di novità e prospettive future.
1. La traccia di discussione proposta dagli organizzatori del seminario
preventivo – suggestivamente intitolato “Il fine e la fine della pena” – si conclude
con l’indicazione della «caratura ordinamentale della quaestio» sollevata dalla
Corte di Cassazione1: da questa precisazione è utile muovere per introdurre le
riflessioni contenute nelle seguenti pagine, sottolineando, in apertura, come sullo
sfondo delle problematiche, processuali e di merito, che dovrà a breve affrontare la
Corte costituzionale, si staglia, in effetti, un bilanciamento di interessi ad altissimo
tasso di complessità: da un lato, le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza
collettiva, particolarmente sentite di fronte a fenomeni criminali che destano un
grande allarme sociale e che sono in grado di minare le stessa fondamenta
dell’ordinamento repubblicano, e, dall’altro lato, i principi di ragionevolezza e di
proporzione, individualizzazione e rieducazione della pena, i quali, concorrono, con
le ulteriori garanzie che la Costituzione detta nella materia penale, a tracciare il
«volto costituzionale» del magistero punitivo statuale2.
Entro queste coordinate di rilievo costituzionale prende corpo un ampio
ventaglio di problematiche, la cui lettura combinata consente di sottolineare,
appunto, la rilevanza ordinamentale della questione di legittimità sollevata dalla
Corte di Cassazione; problematiche, queste ultime, che investono, inter alia:
l’intensità dello scrutinio della Corte costituzionale sugli aspetti di rilievo
processuale (sul versante della rilevanza o della possibile “rilettura”, ad opera della
stessa Corte, del quadro dei parametri costituzionali evocati dal rimettente); la
tenuta degli automatismi legislativi al cospetto di una rigorosa applicazione del
canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.3; la progressiva renaissance del
Ordinaria di Diritto costituzionale, Università di Milano-Statale
Assegnista di Diritto costituzionale, Università di Milano-Statale
1
Si tratta, più precisamente, dell’ordinanza della Corte di Cassazione, Sez. I pen., n. 100 del
2020 (pubbl. in G.U. del 19 agosto 2020, n. 34), con cui è stata promossa una questione di legittimità
relativa agli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge n. 354 del 1975, e dell’art. 2 del decreto legge
n. 152 del 1991, conv. con modificazioni in legge n. 203 del 1991, per ritenuto contrasto con gli artt.
3, 27 e 117 della Costituzione.
2
Cfr., in particolare, Corte cost., sent. n. 80/1980.
3
Su cui, in particolare, A. PUGIOTTO, Conflitti mascherati da quaestiones: a proposito di
automatismi legislativi, in R. ROMBOLI (a cura di), Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo
della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella
‘giurisdizionale’, Giappichelli, Torino 2017, 497 ss; S. LEONE, Automatismi legislativi, presunzioni
100
Marilisa D’Amico e Stefano Bissaro
principio del finalismo della pena scolpito nell’art. 27, terzo comma, Cost.4; la
coerenza della giurisprudenza costituzionale rispetto ai suoi più recenti precedenti
nella materia dell’esecuzione penale; l’incidenza sul sistema italiano di una
decisione della Corte EDU, come quella assunta all’esito del caso Viola c. Italia,
che ha accertato un vulnus di tipo strutturale, non limitato ad un caso specifico5; le
diverse tecniche decisorie di cui può ora servirsi la Corte costituzionale per
rispondere alle censure avanzate dalla Corte di Cassazione; ed, infine, con una
prospettiva ancora più generale, la complessa tematica del rapporto tra la
discrezionalità legislativa e il sindacato di costituzionalità nella materia penale6.
Con le riflessioni proposte nelle seguenti pagine, si intende ragionare di alcune
di queste complesse problematiche, tentando, nella parte conclusiva dello scritto, di
avventurarsi nella disamina dei possibili esiti del giudizio di costituzionalità.
2. Un primo aspetto, di ordine processuale, che è utile mettere a fuoco prima
di entrare, in medias res, nell’analisi dei profili di merito, riguarda il carattere della
questione di legittimità sollevata dalla Corte di Cassazione e la conseguente
valutazione in punto di ammissibilità: carattere potenzialmente «astratto e
ipotetico» secondo le suggestioni contenute nella traccia di discussione.
Il giudice a quo, da parte sua, non ha mancato di prendere in esame
espressamente questo aspetto: nel richiamarsi al precedente della sentenza n.
253/20197, il rimettente ha infatti sostenuto che l’eventuale accoglimento della
questione di costituzionalità avrebbe una diretta incidenza sul giudizio principale,
dal momento che il giudice del merito, a cui sarebbe devoluto il giudizio – come
conseguenza dell’annullamento dell’ordinanza oggetto del ricorso per cassazione,
con cui è stata data applicazione alla norma censurata – potrebbe verificare in
concreto quanto la normativa impugnata oggi gli preclude in radice, ovverosia le
assolute e bilanciamento, in Rivista del Gruppo di Pisa, 2017.
4
Sul tema, v., ex multis, A. PUGIOTTO, Il volto costituzionale della pena (e i suoi sfregi), in
Rivista AIC, 2014; E. DOLCINI, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di
ergastolo (e di rieducazione del condannato), in Dir. pen. cont., 2018; V. MANES, Proporzione senza
geometrie, in Giur. cost., 2016, 2108, P. INSOLERA, Controlli di costituzionalità sulla misura della
pena e principio di proporzionalità: qualcosa di nuovo sotto il sole?, in Ind. pen., 2017, 191; S.
LEONE, Sindacato di ragionevolezza e quantum della pena nella giurisprudenza costituzionale, in
Rivista AIC, 4/2017.
5
A commento della quale, v., per tutti, E. DOLCINI, Dalla Corte Edu una nuova condanna per
l’Italia: l’ergastolo ostativo contraddice il principio di umanità della pena, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2019, 925 ss.; e D. GALLIANI – A. PUGIOTTO, L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo
(A proposito della sentenza Viola v. Italia n. 2), in Osservatorio costituzionale, fasc. 4, 2019, 191
ss.
6
Su cui sia consentito il rinvio a M. D’AMICO, Corte costituzionale e discrezionalità del
legislatore in materia penale, in Rivista AIC, fasc. 3, 2016. Sul tema, si veda da ultimo e in
particolare, il bel volume di V. MANES – V. NAPOLEONI, La legge penale illegittima. Metodo,
itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Giappichelli, Torino 2019.
7
Tra i numerosissimi commenti a disposizione, si segnalano qui le preziose riflessioni di M.
RUOTOLO, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019 della Corte
costituzionale, in Sistemapenale.it, 2019; e A. PUGIOTTO, La sent. n. 253/2019 della Corte
costituzionale: una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria, in Forum di Quaderni
costituzionali, fasc. 1, 2020.
Il “commiato” dell’ergastolo ostativo?
101
reali ragioni della mancata collaborazione del soggetto. Per il giudice a quo, in altre
parole, non rileverebbe, ai fini della valutazione sulla sussistenza del requisito della
rilevanza, la circostanza per cui gli elementi necessari per l’ottenimento della
liberazione condizionale, unitamente agli altri elementi sintomatici dell’assenza di
legami con l’ambiente criminale di appartenenza e della pericolosità del
condannato, non sono stati esplorati dal giudice.
In proposito è utile ricordare che, nella sentenza n. 253/2019, la Corte
costituzionale ha risposto ad una eccezione dell’Avvocatura dello Stato, che
lamentava proprio il carattere «ipotetico ed astratto» delle ragioni poste a
fondamento delle questioni di legittimità allora sollevate: la difesa erariale
osservava, nello specifico, come il reclamante del giudizio a quo non avesse mai
dedotto, per giustificare la propria mancata collaborazione, motivazioni connesse
al rischio per la propria incolumità e per quella dei propri congiunti, al rifiuto
morale di rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di persone a lui legate da
vincoli affettivi o amicali, o, ancora, al ripudio di una collaborazione meramente
strumentale; elementi, tutti questi, che finivano per giustificare proprio l’eccezione
di inammissibilità delle questioni sollevate poiché – osservava la difesa dello Stato
– «anche nel caso di una pronuncia di accoglimento, una tale decisione non
spiegherebbe effetti nel processo a quo»8.
La risposta della Corte è stata molto netta sul punto e merita di essere
richiamata per esteso: in linea con la propria consolidata giurisprudenza in tema di
rilevanza, il Giudice costituzionale ha osservato in termini assai chiari come, ai fini
dell’ammissibilità della questione, è sufficiente che la disposizione censurata sia
applicabile nel giudizio a quo, senza che rilevino gli effetti di una eventuale
pronuncia di illegittimità costituzionale per le parti in causa. Ed è interessante
rilevare che la Corte ha anche evidenziato – nel solco di un trend in via di
consolidamento nella più recente giurisprudenza costituzionale9 – che, nella
prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità e di una più
efficace garanzia della conformità a Costituzione della legislazione, «il presupposto
della rilevanza non si identifica con l’utilità concreta di cui le parti in causa
potrebbero beneficiare a seguito della decisione»10.
Ebbene, tra i filoni giurisprudenziali richiamati dalla Corte costituzionale in
questa parte della sentenza n. 253/2019, merita di essere segnalato quello relativo
alle cc.dd. “norme penali di favore”: il passaggio più importante dello storico
precedente rappresentato dalla sentenza n. 148/1983 viene tradizionalmente
compendiato nell’affermazione per cui «l’eventuale accoglimento […] verrebbe ad
incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui dispositivi delle
sentenze penali» e che «la pronuncia della Corte non potrebbe non riflettersi sullo
schema argomentativo della sentenza penale assolutoria, modificandone la ratio
8
Cfr. sent. n. 253/2019, Considerato in diritto, §6.
Su cui, in particolare, R. ROMBOLI, Il sistema di costituzionalità, tra momenti ‘di
accentramento’ e momenti ‘di diffusione’, in Rivista del Gruppo di Pisa, 2020; e M. RUOTOLO,
L’interpretazione conforme a Costituzione torna a casa?, in Rivista del Gruppo di Pisa, 2019.
10
Cfr., ancora, sent. n. 259/2019, Considerato in diritto, §6.
9
Marilisa D’Amico e Stefano Bissaro
102
decidendi: poiché in tal caso ne risulterebbe alterato […] il fondamento normativo
della decisione, pur fermi restando i pratici effetti di essa»11.
Insomma, anche rispetto al caso che qui ci occupa, non sembra irragionevole
proporre la medesima argomentazione: nella già citata sentenza n. 253/2019,
peraltro, la Corte ha rilevato in modo convincente, in questo preciso senso, che,
nell’ipotesi di accoglimento delle sollevate questioni, il giudice a quo sarebbe
chiamato a decidere secondo una diversa regola di giudizio, attingendola dalla
disciplina di riferimento, privata della norma in ipotesi dichiarata incostituzionale.
Ciò significa che, anche qualora l’esito del giudizio a quo fosse il medesimo – la
non concessione del permesso premio, in quel caso, e la non ammissione alla
liberazione condizionale, nel caso di specie – la pronuncia di questa Corte sarebbe
comunque tale da influire sul percorso argomentativo che il rimettente deve seguire
per decidere sulla richiesta avanzata dal detenuto. In definitiva, la valutazione che
la Corte ha espresso con riguardo al precedente relativo ai permessi premio, come
giustamente sostenuto12, sembra potersi spendere anche in relazione all’odierna
questione di costituzionalità concernente la liberazione condizionale, senza che
possano essere convintamente prospettati dubbi di ammissibilità in ragione del
supposto carattere astratto o ipotetico della questione.
3. Il precedente più diretto della questione oggi all’esame della Corte
costituzionale è costituito, come noto, della sentenza n. 135/200313, con cui è stata
dichiarata infondata un’analoga questione di costituzionalità sollevata sull’art. 4bis, comma 1, primo periodo della legge sull’ordinamento penitenziario (legge del
26 luglio 1975, n. 354): in quell’occasione, la Corte ha osservato come la scelta di
subordinare l’ammissione alla liberazione condizionale alla collaborazione con la
giustizia – che è «sempre rimessa alla scelta del condannato»14 – non preclude in
modo assoluto e definitivo l’accesso al beneficio. Si tratta, infatti, secondo quella
lettura che oggi viene messa radicalmente in discussione dal giudice a quo, di una
sua libera determinazione, dal momento che al condannato è comunque data la
possibilità di cambiare la propria scelta, essendo peraltro tale determinazione
ancorata alle sole ipotesi in cui la collaborazione sia naturalisticamente e
giuridicamente possibile.
Il meccanismo presuntivo per cui la mancata collaborazione con la giustizia
rappresenta un indice legale della persistenza di legami con l’ambiente criminale di
11
Cfr. sent. n. 148/1983.
Così, in particolare, M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo è costituzionale?, in questo stesso
volume, il quale sembra escludere che «la questione possa dirsi astratta o ipotetica, in ragione
dell’affermata influenza che un’eventuale pronuncia di accoglimento avrebbe sul giudizio a quo».
13
Non mancano, ovviamente, precedenti significativi anche nella più risalente giurisprudenza
costituzionale: come la storica sent. n. 264/1974; sul tema, v., per tutti, E. DOLCINI, La pena
detentiva perpetua nell’ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, in Dir. Pen. Cont., 2018.
14
Cfr. sent. n. 135/2003, Considerato in diritto, §4, per cui «la preclusione prevista dall’art. 4bis, comma 1, primo periodo, […] deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo
nelle condizioni per farlo: tale disciplina non preclude pertanto in maniera assoluta l’ammissione al
beneficio, in quanto al condannato è comunque data la possibilità di cambiare la propria scelta».
12
Il “commiato” dell’ergastolo ostativo?
103
appartenenza e della perdurante pericolosità del soggetto non era stata considerata,
in quel caso, come irragionevole.
Questo precedente però deve essere inscritto in un panorama giurisprudenziale
molto diverso da quello attuale, attesa, come già anticipato, la sopravvenienza di
alcuni fondamentali pronunciamenti sia della Corte EDU, sia, per quanto più
interessa, della stessa Corte costituzionale15. Tali decisioni, pur nel contesto di spazi
e strumenti valutativi differenti, hanno disinnescato alcuni ingranaggi del congegno
presuntivo costruito dal legislatore per incentivare la collaborazione dei detenuti ex
art. 4-bis. Ciò lo si ricava anche dal fatto che, in occasione del caso poi deciso con
la sentenza n. 135/2003, la Corte era stata chiamata a scrutinare una questione
sollevata unicamente con riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost. Lo scenario è
quindi mutato profondamente: con l’odierna questione, del resto, il rimettente ha
esteso le proprie censure con riferimento anche agli artt. 3 e 117, primo comma,
Cost., aprendo la strada alla giurisprudenza della Corte EDU.
Incidentalmente, su quest’ultimo profilo, può sottolinearsi un ulteriore
elemento: nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione
viene evocato proprio l’art. 117, primo comma, Cost., ma non viene fatto alcun
cenno ai parametri convenzionali che, per il tramite dello stesso art. 117, primo
comma, Cost., dovrebbero venire in rilievo nel caso di specie. I diffusi richiami alla
giurisprudenza della Corte EDU (al caso Viola c. Italia, in particolare) inducono a
ritenere, senza grandi rischi di smentita, che il giudice a quo abbia voluto fare
riferimento all’art. 3 CEDU e al divieto di trattamenti inumani e degradanti in esso
formalizzato. Alla luce di questo elemento, sembra pertanto possibile richiamare,
anche in questo caso, quel particolare indirizzo della Corte costituzionale che ha
inteso valorizzare una «lettura sistematica» dell’ordinanza di rimessione16,
attraverso una lettura coordinata del dispositivo e delle motivazioni proposte dal
rimettente (al fine di giungere ad una corretta individuazione del petitum). È quanto
accaduto, a mero titolo esemplificativo, nel recente caso Cappato, in cui la Corte,
nel sottolineare che l’assistenza di terzi nel porre fine alla vita del soggetto può
presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio
concetto di dignità, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto, ha fatto
leva all’art. 32, secondo comma, Cost., che non era stato formalmente evocato nel
dispositivo nell’ordinanza di rimessione, anche se più volte richiamato in
motivazione.
Il richiamo all’art. 117, primo comma, Cost., in ogni caso, segna una
importante differenza anche con il più recente caso deciso con la sentenza n.
253/2019, nel cui ambito, come si dirà meglio oltre, la dimensione convenzionale è
rimasta, quantomeno a livello formale, sullo sfondo.
15
Cfr., inoltre, sentt nn. 239/2014, 76/2017 e 149/2018.
Cfr., ex multis, sent. n. 170/2013, n. 203 e n. 94/2016, n. 219/2017, con cui la Corte ha
rilevato che «la corretta individuazione del petitum richiede la lettura coordinata del dispositivo
dell’ordinanza di rimessione e della motivazione»; nella prospettiva di una valorizzazione dei
parametri considerati dal giudice rimettente (non formalmente evocati nel dispositivo), può
segnalarsi anche la sent. n. 200/2015, con cui la Corte ha affermato che «l’oggetto del giudizio di
costituzionalità in via incidentale è limitato alle sole norme e parametri indicati, pur se
implicitamente, nell’ordinanza di rimessione e non possono essere presi in considerazione ulteriori
questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti».
16
Marilisa D’Amico e Stefano Bissaro
104
Le differenze con la sentenza n. 253/2019, a ben vedere, non si limitano a
questo primo, pur importante, aspetto e riguardano ulteriori profili: la questione
sollevata dalla Corte di Cassazione, infatti, investe un istituto – la liberazione
condizionale – ben diverso da quello oggetto della declaratoria di incostituzionalità
del 2019. Dal punto di vista dogmatico, il permesso premio rappresenta un
beneficio penitenziario di tipo discrezionale che il magistrato di sorveglianza può
riconoscere al condannato che ne faccia richiesta per coltivare interessi affettivi,
culturali e di lavoro; la liberazione condizionale rappresenta invece una causa
estintiva della pena con finalità direttamente correlate al reinserimento sociale del
soggetto, cui il condannato ha diritto in presenza dei requisiti stabiliti dall’art. 176
c.p. I due istituti, in altre parole, non sono totalmente sovrapponibili, pur
condividendo alcuni comuni elementi funzionali: anche la Corte costituzionale,
invero, ha ripetutamente sottolineato, nella sentenza n. 253/2019, le specificità del
beneficio del permesso premio, chiarendo come le questioni oggetto di quel
giudizio non riguardassero la disciplina del c.d. ergastolo ostativo e, quindi,
implicitamente, l’ostatività nell’accesso alla liberazione condizionale17.
Questi ultimi rilievi, peraltro, consentono di comprendere la ragione per cui la
Corte costituzionale non abbia fatto ricorso, nella sentenza n. 253/2019, allo
strumento dell’illegittimità costituzionale consequenziale per travolgere il
meccanismo dell’ostatività anche con riguardo alla liberazione condizionale.
Tanto premesso, si tratta, a questo punto, di capire se la ratio decidendi che ha
animato il recente intervento della Corte possa ora valere anche per l’odierno
caso18; in massima sintesi, si può dire che la Corte costituzionale abbia accolto la
precedente questione di legittimità censurando il carattere assoluto della
presunzione sottesa all’art. 4-bis: «non è infatti irragionevole presumere che il
condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione
criminale di originaria appartenenza, purché si prevede che tale presunzione sia
relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria» 19.
L’assolutezza di una simile preclusione, peraltro, implica necessariamente
l’inammissibilità di qualsivoglia richiesta (di concessione di benefici penitenziari
ovvero di ammissione alla liberazione condizionale) avanzata dal detenuto non
collaborante, senza che al magistrato di sorveglianza sia consentito di valutare in
concreto, attraverso criteri individualizzanti, le ragioni che hanno spinto il soggetto
a mantenere il silenzio. La presunzione assoluta, in questa prospettiva, si traduce in
un impedimento che ostacola in radice la realizzazione del percorso risocializzante
del detenuto, con conseguente violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
Simili argomentazioni, in ragione della loro portata generale, possono
senz’altro essere riproposte in riferimento all’odierna questione: la breccia che la
17
Cfr., in particolare, sent. n. 253/2019, Considerato in diritto, §5.2.
In tanti hanno evidenziato che l’odierna questione rappresenta un «naturale corollario degli
approdi della sentenza n. 253/2019» (così, per esempio, nella memoria presentata, in qualità di
amicus curiae, di Macrocrimes, Centro studi giuridici europei sulla grande criminalità); altri hanno
rimarcato che: «il thema decidendum, per esplicito riconoscimento contenuto nella stessa [ordinanza
di rimessione], si pone in linea di continuità ermeneutico-argomentativa rispetto alla decisione in
Corte cost., sent. n. 253/2019» (così nella memoria, in qualità di amicus curiae, di L’altro diritto
ODV).
19
Cfr. sent. n. 253/2019, Considerato in diritto, §8.
18
Il “commiato” dell’ergastolo ostativo?
105
Corte ha aperto nel muro dell’ostatività nell’accesso al permesso premio, in altri
termini, richiede ora un ulteriore intervento demolitorio; e ciò, a ben guardare, non
solo per ragioni legate alla auspicabile coerenza della Corte rispetto ai propri
precedenti, ma, soprattutto, sul versante del merito, perché il superamento della
presunzione assoluta rispetto al primo stadio della progressività trattamentale – il
permessi premio, appunto – vedrebbe scemato il proprio «significato sistematico»20
se per le ulteriori tappe del percorso di reinserimento sociale dovesse, viceversa,
valere ancora la preclusione ad una considerazione individualizzata del
comportamento e della personalità del condannato.
4. Nella traccia di discussione che aveva aperto il precedente seminario
preventivo sul tema dell’ostatività penitenziaria21 si osservava, a commento delle
due ordinanze di rimessione al centro di quel dibattito, come nessuna delle autorità
rimettenti avesse incluso nel thema decidendum l’art. 117, primo comma, Cost.,
integrato dall’art. 3 CEDU quale parametro interposto. E ci si chiedeva, quindi, se
una siffatta omissione formale potesse rappresentare un ostacolo all’ingresso nel
giudizio di costituzionalità della prospettiva assunta a Strasburgo, di recente proprio
con specifico riguardo al caso italiano22.
Dando risposta a simili interrogativi, la Corte costituzionale ha preso posizione
in modo esplicito su questo profilo con la sentenza n. 253/2019, mostrando una
certa premura nel chiarire che le questioni oggetto di quel giudizio non
riguarda[vano] «la legittimità costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto
ergastolo ostativo, sulla cui compatibilità con la CEDU si è, di recente, soffermata
la Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Viola c. Italia»23, chiarendo in più
passaggi, come già anticipato, che nei processi a quibus si fa[ceva] questione «della
sola possibilità di concessione, ai detenuti, di un permesso premio, non di altri
benefici»24.
Ora, è difficile ipotizzare che, in questo nuovo caso che riguarda proprio la
liberazione condizionale oggetto di scrutino a Strasburgo, la Corte costituzionale
possa bypassare un confronto diretto con la giurisprudenza convenzionale: come
20
Come precisamente osserva il giudice a quo: cfr. Corte di Cassazione, Sez. I pen., n. 100 del
2020 (pubbl. in G.U. del 19 agosto 2020, n. 34), §19.
21
Ci si riferisce al seminario preventivo ferrarese organizzato alla vigilia della sentenza n.
253/2019, i cui atti sono consultabili in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per
sempre dietro le sbarre ? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti, in Forum di Quaderni.
Costituzionali – Rassegna, fasc. n.10, 2019.
22
A tal riguardo, Vladimiro Zagrebelsky evidenziava che «la mancata menzione da parte del
giudice a quo, come motivo di possibile incostituzionalità̀ , della violazione dell’art. 117 Cost. in
rapporto all’art. 3 CEDU non sembra poter impedire alla Corte costituzionale di considerare
comunque la giurisprudenza della Corte europea e l’orientamento interpretativo della Convenzione
che emerge dalla sentenza ora pronunciata nei confronti dell’Italia (in tal senso la sentenza n.
149/2018, che richiama la sentenza Vinter c. Regno Unito pur in assenza di eccezione ex art. 117
Cost.)»: V. ZAGREBELSKY, La pena detentiva «fino alla fine» e la Convenzione europea dei diritti
umani e le libertà fondamentali, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre
dietro le sbarre ?, cit., 15 ss.
23
Cfr. sent. n. 253/2019, Considerato in diritto, §5.2.
24
Cfr. sent. n. 253/2019, Considerato in diritto, §5.3.
Marilisa D’Amico e Stefano Bissaro
106
una vera “Spada di Damocle”, il caso Viola c. Italia pare, in effetti, incombere
sull’odierno giudizio di costituzionalità.
Questa circostanza ovviamente non esclude la possibilità che la Corte decida
nel senso dell’accoglimento sulla base dei soli parametri interni, con contestuale
assorbimento dei motivi di censura formulati ai sensi dell’art. 117, primo comma,
Cost.: dal combinato disposto di cui all’artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., infatti, si
può senz’altro far discendere una trama di principi, che trovano fondamento tanto
nella Costituzione italiana quanto nella CEDU25, i quali ben possono essere posti a
fondamento della declaratoria di incostituzionalità.
Invero, non si tratterebbe di una novità assoluta nella giurisprudenza della
Corte costituzionale26: come non ricordare, a tal riguardo, il caso del divieto di
fecondazione eterologa di cui alla legge n. 40 del 2004, deciso con la storica
sentenza n. 162/2014: in quell’occasione, peraltro, la Corte giunse ad accogliere la
questione con riferimento agli artt. 2, 3, 29, 31 e 32 Cost., dichiarando assorbita la
censura ex art. 117, primo comma Cost., dopo aver disposto, con l’ordinanza n.
150/2012, la restituzione degli atti, per un rinnovato esame della questione, alla luce
della sopravvenuta sentenza della Grande Camera della Corte EDU 3 novembre
2011, S.H. e altri c. Austria.
La soluzione dell’assorbimento potrebbe poi consentire alla Corte di dribblare
un ulteriore aspetto problematico, relativo alla natura sufficientemente consolidata
dei principi espressi dalla Corte EDU nel caso Viola c. Italia, secondo il modello
definito con la sentenza n. 49/2015. Con questa importante pronuncia, come noto,
la Corte costituzionale ha affermato che soltanto un «diritto consolidato», prodotto
dalla giurisprudenza europea, potrebbe essere posto dal giudice a fondamento del
proprio processo interpretativo, non esistendo alcun obbligo in questo senso a fronte
di pronunce che non siano espressive di un orientamento well-established27.
Applicando questo canone alla sentenza Viola c. Italia si potrebbe, per vero,
giungere ad entrambe le conclusioni: la scelta di non rinviare la questione alla
Grande Chambre potrebbe essere letta – alternativamente, in modo comunque non
implausibile – come indicativa sia della volontà di rendere la sentenza Viola c. Italia
da subito vincolante (e, implicitamente, «consolidata»)28, sia della dell’opposta
Cfr. M. RUOTOLO, E’ costituzionale l’ergastolo ostativo ?, cit., il quale osserva che la
posizione da prediligere «è quella per cui l’art. 117, primo comma, Cost. dovrebbe essere evocato,
e comunque essere ‘autonomamente’ preso in considerazione dalla Corte costituzionale, soltanto
quando la violazione addotta non sia specificamente riferibile ad altro parametro costituzionale, sia
pure interpretato evolutivamente o estensivamente alla luce degli ‘obblighi internazionali’ assunti
dallo Stato».
26
Per una ricca panoramica sull’incidenza della giurisprudenza della Corte EDU sulle decisioni
del Giudice costituzionale italiano, v., ex multis, T. GROPPI, La jurisprudence de Strasbourg dans
les décisions de la Cour constitutionnelle italienne, in Federalismi.it, 2016.
27
Per un’analisi di questa pronuncia v., per tutti, F. VIGANÒ, La Consulta e la tela di Penelope.
Osservazioni a primissima lettura su Corte cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49, Pres. Criscuolo, Red.
Lattanzi, in materia di confisca di terreni abusivamente lottizzati e proscioglimento per
prescrizione, in Riv. Trim. Dir. Pen. Cont., fasc. 2, 2015; con attenzione alle conseguenze della
decisione sull’equilibrio tra la Corte costituzionale e la Corte europea, volendo, cfr. M. D’AMICO,
La Corte europea come giudice “unico” dei diritti fondamentali? Note a margine della sentenza,
27 agosto 2015, Parrillo c. Italia, in Forum di Quaderni costituzionali, 2015, 5.
28
In questo senso si esprime la memoria presentata, in qualità di Amicus curiae,
25
Il “commiato” dell’ergastolo ostativo?
107
intenzione di non consolidare immediatamente quel novum giurisprudenziale,
nell’attesa di conoscere gli sviluppi (legislativi, anzitutto) domestici. A questo fine,
non sarebbe inconferente il richiamo a quel passaggio della sentenza Viola c. Italia,
in cui la Corte EDU ha affermato che la natura – strutturale, come già segnalato –
della violazione accertata ai sensi dell’art. 3 CEDU impone allo Stato italiano di
«attuare, di preferenza per iniziativa legislativa, una riforma del regime della
reclusione dell’ergastolo, che garantisca la possibilità di riesame della pena»29.
5. Prima di ragionare dei possibili esiti del giudizio pendente davanti alla Corte,
è importante soffermarsi su un ulteriore elemento che caratterizza, in modo
assolutamente peculiare, l’odierna questione di costituzionalità.
In occasione del giudizio di costituzionalità di cui stiamo discutendo, sono state
presentati ben cinque interventi, ai sensi del nuovo art. 4-bis delle Norme
integrative, in qualità di amici curiae, rispettivamente, dal Garante nazionale delle
persone detenute o private della libertà personale, dalle associazioni Antigone e
Nessuno Tocchi Caino, dall’ODV L’altro Diritto e dal Centro Studi Macrocrimes.
Si tratta di documenti assai preziosi, che consentiranno di arricchire il patrimonio
conoscitivo a disposizione del Giudice costituzionale, offrendo elementi di
contorno significativi, che il giudice a quo non ha considerato nel proprio atto
introduttivo: vuoi attraverso diversi ed ulteriori riferimenti alla giurisprudenza
convenzionale, vuoi introducendo dati di tipo statistico tratti dalla c.d. scienza
penitenziaria, vuoi, ancora, suggerendo possibili profili di contrasto anche con il
diritto dell’Unione europea.
Da questo punto di vista, il caso de quo potrebbe allora rappresentare un valido
banco di prova delle citate modifiche, con le quali si è favorita l’apertura della Corte
costituzionale alla “società civile”.
Venendo conclusivamente al tema delle prospettive future, è possibile ritenere
come altamente improbabile – anche se comunque possibile in linea teorica – una
pronuncia di rigetto: la Corte, in effetti, ancora potrebbe, riallacciandosi al suo
precedente più diretto (rappresentato, come visto, della sentenza n. 135/2003)
ritenere non irragionevole la scelta di subordinare l’ammissione alla liberazione
condizionale alla collaborazione con la giustizia, stante la perdurante esigenza di
fronteggiare, con tutti gli strumenti possibili, le associazioni criminali di tipo
mafioso. Certo questa soluzione, oltre a rappresentare un “passo indietro” rispetto
al cammino intrapreso dalla recente giurisprudenza costituzionale (di cui, in
particolare, ma non solo, la più volte richiamata sentenza n. 253/201930), potrebbe
dall’Associazione Nessuno Tocchi Caino, §§37-38.
29
Cfr. Corte EDU, Prima Sezione, Viola c. Italia n. 2, ric. n. 77633/16, sent. 13 giugno 2019,
def. 5 ottobre 2019, §143.
30
Cfr., inoltre, Corte cost., sent. n. 32/2020, con cui la Corte ha dichiarato costituzionalmente
illegittima l’efficacia retroattiva dell’estensione dei limiti di accesso a varie misure alternative
stabiliti dall’art. 4-bis ord. penit. (compreso l’effetto indiretto rappresentato dal divieto di
sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, c.p.p.) con riguardo ai
condannati per reati contro la pubblica amministrazione commessi prima dell’entrata in vigore della
legge n. 3 del 2019; a commento della quale, v., per tutti, V. MANES, F. MAZZACUVA, Irretroattività
e libertà personale: l'art. 25, secondo comma, Cost., rompe gli argini dell'esecuzione penale, in
108
Marilisa D’Amico e Stefano Bissaro
presentare serissimi problemi di compatibilità con la sentenza Viola c. Italia, il cui
confronto a questo punto, come visto, la Corte non potrebbe più evitare.
L’accoglimento, in altre parole, si presenta a nostro avviso come la soluzione
più lineare, in ragione della connessione che lega intimamente l’odierna questione
al caso deciso con la sentenza n. 253/2019. E tuttavia, come era accaduto in
occasione della pronuncia sui permessi premio, non vi è chi non veda come un
accoglimento introdurrebbe il serio problema di una eventuale applicazione
dell’istituto della illegittimità consequenziale, per colpire anche gli ulteriori reati
contenuti nell’art. 4-bis oppure per far venire meno l’ostatività anche nei confronti
dei benefici penitenziari che si collocano, come le misure alternative, “in mezzo al
guado”, tra la tappa iniziale, il permesso premio, e la tappa finale, la liberazione
condizionale, appunto.
Vi potrebbe essere però un’altra possibilità, evidenziata anche nella relazione
introduttiva di Marco Ruotolo: il ricorso, in questo caso, alla “nuova” tecnica
decisoria della sospensione del giudizio, con rinvio a nuovo ruolo e richiesta di
intervento al legislatore.
Come è noto, la Corte ha adottato questo schema decisorio in due occasioni:
nel primo e più noto caso, relativo all’incriminazione dell’aiuto al suicidio
contenuta nell’art. 580 c.p., il legislatore non è intervenuto nel termine previsto
dalla Consulta, la quale si è quindi trovata costretta a correggere, ex se, la fattispecie
penale oggetto di censura31; in un secondo caso, in cui si discuteva della legittimità
costituzionale (e convenzionale) della comminatoria della pena detentiva per il
delitto di diffamazione a mezzo stampa32, la Corte ha analogamente rinviato la
trattazione della questione di un anno, ribadendo come spetti, in prima battuta, al
legislatore il compito di correggere il bilanciamento espresso dalla normativa
impugnata33.
Non è ovviamente questa la sede per chiedersi se in questo ulteriore caso il
Parlamento seguirà con maggior responsabilità l’indicazione della Corte
costituzionale; vi è però un elemento dell’ordinanza n. 132/2020 che fin d’ora è
possibile sottolineare e che, per certi versi, avvicina il caso in parola all’odierna
questione di costituzionalità sull’ergastolo ostativo: con la citata ordinanza, infatti,
la Corte ha ritenuto il bilanciamento sotteso al combinato disposto di cui agli artt.
595, comma 3, c.p. e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 «ormai inadeguato, anche
alla luce della copiosa giurisprudenza della Corte EDU»34. E il richiamo alla
giurisprudenza convenzionale, per quanto già detto sull’importanza del caso Viola
c. Italia, appare particolarmente appropriato se esaminato in relazione alla
questione sollevata dalla Corte di Cassazione sull’art. 4-bis; del caso Viola c. Italia
la Corte costituzionale potrebbe, infatti, valorizzare il passaggio in cui i Giudici
Sistema Penale, 2020.
31
Cfr. ord. n. 207/2018 e sent. n. 242/2019, su cui, volendo, M. D’AMICO, Il “fine vita” davanti
alla Corte costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici (Considerazioni a
margine della sent. n. 242 del 2019), in Osservatorio AIC, fasc. 1, 2020.
32
Su cui, v. G. L. GATTA, Carcere per i giornalisti: la Corte costituzionale adotta lo ‘schemaCappato’ e passa la palla al Parlamento, rinviando l'udienza di un anno, in Sistema Penale, 2020.
33
Cfr., in particolare, ord. n. 132/2020, Considerato in diritto, §8.
34
Cfr., in particolare, ord. n. 132/2020, Considerato in diritto, §7.
Il “commiato” dell’ergastolo ostativo?
109
europei hanno espresso preferenza per una modifica di tipo legislativo35 e quindi
servirsi dello strumento del rinvio dando tempo proprio al Parlamento per
modificare l’attuale disciplina in tema di ostatività nell’accesso alla liberazione
condizionale.
Si tratterebbe, peraltro, di una soluzione in grado di conciliare, ad un tempo,
sia l’esigenza di ricondurre nell’ambito della legalità costituzionale un congegno
normativo della cui illegittimità costituzionale è oggi difficile dubitare, sia
l’esigenza di rispettare lo spazio della discrezionalità legislativa, in una materia,
quella dell’esecuzione della pena, in cui valgono le garanzie formali di cui all’art.
25, secondo comma, Cost.
In conclusione, non si può trascurare un dato di ordine generale, che attiene al
particolare momento storico in cui la Corte è nuovamente chiamata a giudicare della
legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo. Da alcuni anni, infatti, la Corte
costituzionale si è ritagliata un ruolo di rilievo in quella che taluno ha definito come
una vera e propria “rivoluzione culturale” nell’approccio all’universo
penitenziario36: con le proprie pronunce37, la Corte ha contribuito ad innalzare un
argine contro la diffusione di ideologie “carcerocentriche”, in alcuni casi favorite
da improvvide scelte dello stesso decisore politico38; quest’ultimo, in effetti, sembra
talora appiattirsi, ignorando l’art. 27, terzo comma, Cost., su una visione
semplicistica dei fenomeni criminali e della loro necessaria repressione ad opera
dello Stato, lasciando così il campo all’affermarsi di tesi discutibili, di dubbia
conformità a Costituzione, come quella per cui “con i mafiosi si deve buttare la
chiave”. Il tema, in realtà, è invece molto complesso ed intreccia, come si è cercato
di evidenziare nelle precedenti pagine, una fitta ed eterogenea trama di interessi
costituzionali che non possono essere radicalmente sacrificati, l’uno in favore
dell’altro.
Anche per questa ulteriore ragione, in definitiva, i tempi sembrano ormai
maturi perché si intervenga sull’art. 4-bis per la parte relativa all’accesso alla
liberazione condizionale, così garantendo, nel solco tracciato dal titolo del
seminario, che il fine della pena, previsto dall’art. 27, terzo comma, Cost., possa
tradursi in concreto anche nella fine della pena.
35
Cfr., ancora, Corte EDU, Prima Sezione, Viola c. Italia n. 2, ric. n. 77633/16, sent. 13 giugno
2019, def. 5 ottobre 2019, §143.
36
Cfr. la memoria presentata, in qualità di amicus curiae, dall’Associazione Antigone.
37
V., in particolare, A. PUGIOTTO, Due decisioni radicali della Corte costituzionale in tema di
ostatività penitenziaria: le sentenze nn. 253 e 263 del 2019, in Rivista AIC, 1/2020.
38
Preziose le riflessioni proposte sul tema da V. MANES, L'estensione dell'art. 4-bis ord. penit.
ai delitti contro la a.: profili di illegittimità costituzionale, in Dir. Pen. Cont., 2019.
LA PRESUNZIONE ASSOLUTA DI PERICOLOSITÀ SOCIALE
(DI NUOVO) ALLA PROVA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
di ILARIA DE CESARE
SOMMARIO: 1. Quali interrogativi. - 2. Differenze tra la decisione n. 253/2019 della
Corte costituzionale e la quaestio pendente. - 3. Risocializzazione e automatismi:
perché accogliere il ricorso. - 4. Oltre l’accoglimento: la necessità di un intervento
legislativo.
1. Nel giugno 2020 la Corte costituzionale è stata investita di una questione di
legittimità costituzionale in via incidentale, con riferimento agli artt. 3, 27 e 117
Cost., «degli articoli 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge n. 354 del 1975 e
dell’articolo 2 del decreto-legge n. 152 del 1991 […] nella parte in cui escludono
che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni
di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle
associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa
essere ammesso alla liberazione condizionale»1.
Numerosi sono i profili che questa nuova rimessione, in generale riferita al c.d.
ergastolo ostativo, pone all’attenzione della Corte costituzionale2. Nelle poche
battute che seguiranno l’attenzione verrà circoscritta a due particolari aspetti: quali
differenze (e quali similitudini) intercorrono tra la questione decisa con la sent. n.
253/20193 e quella attualmente pendente e quali principi costituzionali
condurrebbero ad un accoglimento anche di quest’ultima4. Con una breve
riflessione finale sul (l’eventuale) “dopo accoglimento”.
2. In via del tutto generale, deve ricordarsi che l’art. 176 c.p. ammette i
condannati a pena detentiva alla liberazione condizionale, purché vi sia sicuro
Assegnista di ricerca di Diritto costituzionale, Università degli Studi di Pavia
Corte di Cassazione, Prima sezione penale, ordinanza 18 giugno 2020, n. 100.
2
Per un’esaustiva illustrazione dei profili derivanti dalla questione sottoposta alla Corte
costituzionale si rinvia alle relazioni introduttive di M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo è
costituzionale?, e G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? Spunti per
una discussione, in questo volume.
3
Nella quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della medesima disciplina oggetto
dell’attuale giudizio, in riferimento, però, alla misura dei permessi premio. Le argomentazioni
contenute in tale decisione sono state puntualmente richiamate dal giudice a quo per motivare la
rilevanza e la non manifesta infondatezza della quaestio ora pendente. Cfr. punti 9 e 16-17 del
Considerato in diritto, ord. n. 100/2020, Cass., I sez. Pen.
4
In passato la Corte aveva salvato l’ergastolo ostativo, in quanto «la preclusione prevista
dall’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, dell’ordinamento penitenziario non è conseguenza che
discende automaticamente dalla norma censurata, ma deriva dalla scelta del condannato di non
collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo: tale disciplina non preclude pertanto in maniera
assoluta l’ammissione al beneficio, in quanto al condannato è comunque data la possibilità di
cambiare la propria scelta». Cfr. punto 4 del Considerato in diritto, sent. 135/2003.
1
La presunzione assoluta di pericolosità sociale
111
ravvedimento ed abbiano scontato un certo limite temporale di detenzione che, per
l’ergastolo, è fissato in 26 anni. Questa possibilità viene esclusa, ai sensi dell’art. 2
d.l. 152 del 1991, per i condannati ad uno dei delitti ex art. 4-bis ord. penit., se non
collaboranti con la giustizia ex art. 58-ter ord. penit., ove possibile5. La
collaborazione deve sussistere anche per poter accedere alle misure alternative alla
detenzione ivi richiamate. Dunque, l’istituto del c.d. ergastolo ostativo è dato dagli
artt. 4-bis ord. penit. e 2 d.l. 152 del 19916.
Nella decisione n. 253/2019 la Corte costituzionale esclude che oggetto della
questione prospettatale possa essere l’ergastolo ostativo, in quanto tra le
disposizioni censurate dai giudici a quibus non figurava l’art. 2, comma 2, d.l. 152
del 19917. Ebbene, questo passaggio della motivazione non appare argomento
decisivo per prospettare una netta distinzione tra la quaestio attualmente pendente
e quella decisa nel 2019.
Ad essere ostativi, invero, sono anzitutto i delitti elencati all’art. 4-bis ord.
penit., i quali impediscono la concessione dei benefici penitenziari e della
liberazione condizionale tutte le volte in cui non vi sia collaborazione del
condannato, indipendentemente dalla pena, temporanea o perpetua, inflitta. La
questione scrutinata nella decisione del 2019 aveva ad oggetto, infatti, tutte le pene
detentive – come sottolinea la stessa Corte8 – ivi compreso, pertanto, l’ergastolo
ostativo. Anche per quest’ultimo, ad ogni modo, il giudizio di costituzionalità era
circoscritto alla concessione dei permessi premio e, dunque, non alla sua forma più
estrema di pena perpetua de facto, che consegue al mancato accesso alla liberazione
condizionale.
A ben guardare, oggetto centrale della pronuncia del 2019 è il carattere assoluto
della presunzione sul collegamento con l’organizzazione criminale (quando il reo è
condannato per un delitto associativo o per reati di «contesto mafioso»), che
consegue alla mancata collaborazione ex art. 58-ter ord. penit.9. E nel valutarla,
assumono particolare rilievo le parole della Corte, la quale, dapprima ricorda il
proprio consolidato orientamento per cui le presunzioni violano il principio di
eguaglianza se «arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondo a dati di esperienza
generalizzati», e successivamente afferma che «il decorso del tempo
L’art. 4-bis, comma 1 bis, ord. penit. stabilisce, oggi, che i benefici penitenziari possono
essere concessi ai condannati per i delitti di cui al comma 1, anche in caso di impossibilità di utile
collaborazione o di irrilevanza della medesima, sempre che sia stata esclusa l’attualità di
collegamenti con la criminalità organizzata e che per ciascuna ipotesi di collaborazione ricorrano le
ulteriori e specifiche condizioni previste dal medesimo comma.
6
L’ergastolo ostativo è quella forma di pena perpetua che «sulla base di una presunzione
assoluta di persistente pericolosità del condannato non collaborante, esclude qualsiasi possibilità di
ritorno – sia temporaneo sia definitivo – alla società libera». Così E. DOLCINI, La pena perpetua
nell’ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, in Riv. Trim. Dir. Pen. Cont., n. 3, 2018, 7.
7
Punto 5.2 del Considerato in diritto, sent. n. 253/2019.
8
Ibidem
9
Si rinvia ai punti 7.2, 7.3 e 8 del Considerato in diritto, sent. n. 253/2019 C. Cost. Sul punto
anche A. PUGIOTTO, La sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale: una breccia nel muro
dell’ostatività penitenziaria, in Stud. Iuris., 2020, 399-406; ID, Alcune buone ragioni per un
allineamento tra Roma e Strasburgo, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per
sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti, Forum di Quad. Cost.,
Rassegna n. 10/2019, 147.
5
112
Ilaria De Cesare
nell’esecuzione della pena esige una valutazione in concreto, che consideri
l’evoluzione della personalità del detenuto. Ciò in forza dell’art. 27 Cost., che in
sede di esecuzione è parametro costituzionale di riferimento»10. Aprire al
condannato non collaborante la possibilità di accedere al permesso premio significa
eliminare l’automatismo preclusivo discendente dalla mancata collaborazione.
La stessa disciplina si presenta, a bene vedere, anche quale oggetto della
quaestio attualmente pendente innanzi alla Corte costituzionale11, sebbene questa
volta in riferimento alla liberazione condizionale. Non è, dunque, la presunzione
assoluta a distinguere i due giudizi di legittimità costituzionale, quanto, piuttosto,
la natura degli istituti coinvolti e l’incidenza che sui medesimi ha la suddetta
presunzione. Come noto, infatti, i permessi premio attengono al novero dei benefici
penitenziari che possono essere concessi ai detenuti nel corso dell’esecuzione della
pena, e sono strumenti strettamente collegati alla finalità di rieducazione e
risocializzazione dei condannati12. La liberazione condizionale, invece, è una causa
di estinzione della pena, ossia un istituto che comporta l’estinzione della punibilità
in concreto, in quanto interviene a seguito di sentenza definitiva di condanna e ne
penalizza (in parte) l’esecuzione13. Nel caso dei benefici penitenziari, dunque, si ha
una modalità di esecuzione della pena. La liberazione condizionale, invece,
comporta la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva per un certo lasso di
tempo, trascorso il quale senza che il condannato abbia commesso un nuovo reato,
la pena si estingue14.
La diversità tra le misure costituisce la vera differenza tra le questioni
prospettate alla Corte costituzionale, poiché l’impossibilità di accedere alla
liberazione condizionale trasforma l’ergastolo ostativo da pena perpetua de iure a
pena perpetua de facto, dal momento che alcuno scrutinio sul ravvedimento può
essere condotto nei confronti del condannato non collaborante con la giustizia15.
Tali detenuti, dunque, per potersi vedere riconosciuta la possibilità (e di mera
possibilità si parla, restando impregiudicato l’accertamento dei requisiti disposti
dall’art. 176 c.p.) di accedere alla liberazione condizionale devono necessariamente
collaborare con la giustizia, salve le ipotesi di collaborazione impossibile.
In considerazione delle esposte conseguenze, ben più gravi, che il mancato
accesso alla liberazione condizionale produce per un condannato, sembra che
l’attenzione della Corte, nell’esaminare la quaestio attualmente pendente, debba
concentrarsi sul seguente interrogativo: è ammissibile una presunzione assoluta di
pericolosità sociale, idonea persino a trasformare l’ergastolo a pena perpetua de
facto?
10
Punto 8.3 del Considerato in diritto, sent. n. 253/2019.
In particolare, punto 17.2 del Considerato in diritto, ord. n. 100/2020, Cass., I sez. pen.
12
F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, IX ed., Wolters Kluwer-CEDAM, Padova
2015, 779-780.
13
F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 798-799.
14
F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 817.
15
Punto 17.1 del Considerato in diritto, ord. n. 100/2020, Cass., I sez. pen.
11
La presunzione assoluta di pericolosità sociale
113
3. La differenza appena descritta tra le due questioni non impedisce, ma anzi
rafforza, la possibilità di ricorrere alla ratio della sent. 253/2019. Per quanto in tale
pronuncia la Corte abbia più volte sottolineato come l’istituto attenzionato fosse
solo quello del permesso premio, le argomentazioni che hanno determinato
l’accoglimento dei ricorsi nel 2019 ben si prestano ad essere estese alla quaestio ad
oggi pendente16. Ed invero, è proprio la circostanza per cui l’ergastolo diviene pena
perpetua de facto a rafforzare l’opportunità della suggerita estensione.
Da questa prospettiva due sono i profili di illegittimità che, più di tutti17, si
prestano ad essere impiegati per un accoglimento della questione di costituzionalità:
la violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., in ragione del totale annullamento di
una valutazione del percorso di risocializzazione compiuto dal condannato (non
solo all’ergastolo), e quella dell’art. 3 Cost., legata all’illegittimità di una
presunzione assoluta che non trova fondamento nell’id quod plerumque accidit.
Per quanto riguarda il primo aspetto, deve ricordarsi come ad oggi dottrina e
giurisprudenza tendano a convergere sulla teoria della polifunzionalità della pena,
per la quale il sistema penale, senza abbandonare l’idea retributiva e
generalpreventiva della sanzione, ne accoglie, ai sensi dell’art. 27, terzo comma,
Cost., anche la concezione specialpreventiva, volta a favorire il reinserimento del
reo nella società18. Le diverse funzioni della pena, peraltro, sono ritenute
diversamente distribuite, a seconda della fase di riferimento: per la formulazione
legislativa del reato e la commisurazione giudiziale della pena prevalgono la
funzione retributiva e generalpreventiva, per l’esecuzione assume risalto la
prevenzione speciale19.
Pertanto, se nella fase esecutiva occorre dare centralità alla rieducazione, ci si
deve domandare come possa essere conforme all’art. 27, terzo comma, Cost. la
presunzione assoluta di mancata rescissione del sodalizio criminale basata sulla
mancata collaborazione del condannato, che, impedendo l’accesso alla liberazione
condizionale, rende del tutto irrilevante il percorso rieducativo compiuto. Questo
aspetto tradisce la stessa disciplina della liberazione condizionale. Come chiarito
dalla Corte costituzionale, il sicuro ravvedimento, introdotto all’art. 176 c.p. in
sostituzione della buona condotta, è servito a riavvicinare la previsione alla
funzione rieducativa della pena, sganciandola da una logica esclusivamente
premiale20. Nel caso del condannato all’ergastolo, la presunzione ha una
16
Cfr. A. PUGIOTTO, La sent. n. 253, cit., 406.
A. PUGIOTTO, Come e perché eccepire l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, in E.
DOLCINI, E. FASSONE, D. GALLIANI, P. PINTO DE ALBUQUERQUE, A. PUGIOTTO (a cura di), Il diritto
alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, Giappichelli, Torino 2019, 110-124.
18
F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 721-722, secondo cui il punto centrale del diritto penale
della libertà resta comunque la concezione retributiva della sanzione; P. PITTARO, Art. 27, in S.
BARTOLE, R. BIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, II ed., CEDAM, Padova 2008,
280-281.
19
P. PITTARO, Art. 27, cit., 281.
20
Punto 4 del Considerato in diritto, sent. n. 273/2001. La buona condotta, infatti, si limita a
verificare il comportamento del soggetto entro le mura degli istituti di detenzione, mentre il sicuro
ravvedimento è un qualcosa di più, consistendo in un comportamento attivo del condannato che
dimostri la «convinta revisione critica delle pregresse scelte criminali e a formulare in termini di
certezza – o di elevata e qualificata probabilità confinante con la certezza – un serio, affidabile e
ragionevole giudizio prognostico» che il condannato tenga una condotta volta ad osservare le leggi.
17
114
Ilaria De Cesare
conseguenza ancora più grave, annullando del tutto la possibilità di reinserimento
nella società, fintanto che permane l’assenza di collaborazione possibile 21. In senso
opposto, la stessa Corte ha già sottolineato come nessuna ragione di prevenzione
generale o difesa sociale possa spingersi sino al punto di sacrificare la rieducazione,
sebbene le diverse finalità della pena possano essere variamente modulate a seconda
dei casi22. La presunzione assoluta in esame elide il percorso rieducativo svolto dal
condannato, limitandosi a fissare un istante23, quello dell’illecito penale,
fintantoché permanga la mancata collaborazione.
Il secondo aspetto che la Corte costituzionale potrebbe valorizzare
nell’accoglimento della quaestio è che l’irrilevanza del percorso rieducativo,
legandosi ad un automatismo legislativo in tema di esecuzione della pena, non
sembra affatto rispettare i principi richiesti dalla stessa giurisprudenza
costituzionale consolidata per superare il vaglio di proporzionalità e ragionevolezza
ex art. 3 Cost. Se le presunzioni assolute dalle quali dipende la possibilità di
riacquistare la libertà personale, andando a toccare un diritto fondamentale
dell’individuo, devono poggiare le basi sull’id quod plerumque accidit, nella
disciplina in esame questo profilo manca del tutto. L’esperienza, infatti, ci consegna
una grande varietà di situazioni, dalle quali discende che, nell’ambito del percorso
rieducativo di un soggetto condannato per delitti di associazione di stampo mafioso,
l’id quod plerumque accidit è dato dall’assunto per cui nessun caso è davvero
uguale ad un altro24.
In questo senso fornisce utili indicazioni già la decisione n. 306/1993, nella
quale la Corte evidenzia non solo come la collaborazione sia uno strumento di
politica criminale e non indice di colpevolezza o misura per individualizzare il
trattamento sanzionatorio, ma soprattutto enuncia la fallacia del ragionamento
“mancata collaborazione = mancato ravvedimento”25. Considerato che dall’assenza
di collaborazione non può discendere automaticamente la certezza di un mancato
ravvedimento, non dovrebbe impedirsi al giudice competente di andare a vagliare
il percorso rieducativo del reo, anche quando la collaborazione sia astrattamente
possibile.
Cfr. R. BETTIOL, F. TURLON, 176, in G. FORTI, S. SEMINARA, G. ZUCCALÀ, Commentario breve al
Codice Penale, IV ed., Wolters Kluwer-CEDAM, Milano-Padova 2017, 699.
21
A. PUGIOTTO, Come e perché, cit., 115.
22
Punto 10 del Considerato in diritto, sent. n. 306/1993.
23
L’espressione è tratta da P. VERONESI, Se la pena è davvero “a oltranza”: i (seri) dubbi di
costituzionalità sull’ergastolo e le preclusioni ostative, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI
(a cura di), Per sempre dietro le sbarre?, cit., 175.
24
S. CARNEVALE, Diritto al giudice e habeas corpus penitenziario: l’insostenibilità delle
presunzioni assolute sui percorsi individuali, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura
di), Per sempre dietro le sbarre?, cit., 60-62. Così anche A. PUGIOTTO, Come e perché, cit., 116117.
25
Punto 13 del Considerato in diritto, sent. n. 306/1993. In questo stesso punto, la Corte
afferma (orientamento confermato anche nella sent. n. 273/2001) che la collaborazione «consente di
presumere [corsivo aggiunto] che chi la presta si sia dissociato». Dunque, la collaborazione non è
da sola sufficiente a provare la sussistenza della dissociazione. Si noti, però, che il caso aveva ad
oggetto l’art. 15 del d.l. 306 del 1992, il quale disponeva la revoca dei benefici già concessi ai
condannati per uno dei delitti ostativi e non collaboranti con la giustizia.
La presunzione assoluta di pericolosità sociale
115
Infine, appare doveroso un accenno alla decisione di Strasburgo sul caso Viola
c. Italia26, alla quale rinvia il richiamo all’art. 117 Cost. operato dal giudice a quo
nell’ordinanza di rimessione. Sebbene i profili sin qui evidenziati siano da soli
sufficienti a fondare un eventuale accoglimento della quaestio, la pronuncia della
Corte EDU, andando a censurare proprio la presunzione di pericolosità da cui
dipende la trasformazione dell’ergastolo ostativo in pena perpetua de facto, risulta
un precedente utile per rafforzare il convincimento del giudice costituzionale. Il
caso Viola, d’altronde, si presta ad essere considerato espressione di giurisprudenza
consolidata27, volta a qualificare come trattamento inumano o degradante qualsiasi
sistema sanzionatorio che elimini o limiti eccessivamente la possibilità di un
riesame della pena. Inoltre, tale decisione si conclude con un preciso invito, rivolto
al legislatore italiano, di eliminare la violazione strutturale della CEDU.
4. Nella decisione n. 253/2019 la Corte costituzionale, però, non si è limitata a
dichiarare l’illegittimità della presunzione assoluta di cui all’art. 4-bis ord. penit.
rispetto ai permessi premio, ma ha circoscritto entro limiti molto stringenti la
possibilità di accedervi per il condannato non collaborante, imponendo anche la
prognosi di una non ripresa del legame con l’associazione mafiosa28. Difficile
immaginare che la Corte non scelga questa strada anche per una misura ben più
“permissiva” per il condannato (e quindi potenzialmente più pericolosa per la tutela
della sicurezza collettiva) quale la liberazione condizionale29.
Assumendo tale scenario come più probabile in caso di accoglimento della
quaestio, si auspica un intervento legislativo sulla collaborazione, volto a
contemperare le diverse esigenze in gioco. Non può ignorarsi, invero, la pericolosità
che ancora oggi riveste il fenomeno mafioso, che si presenta fortemente collegato
al territorio e, spesso, rafforzato dai legami familiari degli associati. Inoltre, è un
“patto di sangue”, idealmente destinato a durare per la vita. Infine, i dati
dell’esperienza mostrano come la stessa collaborazione possa essere opportunistica,
fornita entro certi limiti al solo fine di guadagnarsi la possibilità di accesso alla
liberazione condizionale o agli altri benefici penitenziari.
La collaborazione, dunque, si presenta ancora quale utile strumento di politica
criminale, volto a perseguire esigenze di tutela della collettività e repressione del
crimine. Al contempo, la sua estraneità al finalismo rieducativo della pena
determina l’opportunità di una costruzione come istituto premiale e di una
trasformazione della presunzione in relativa. Tra le possibili strade, particolarmente
interessante appare la proposta di richiedere, in caso di mancata ma possibile
collaborazione, non la prova sull’inesistenza di legami con l’associazione (come
26
Ricorso n. 77633/16, Marcello Viola c. Italia (n. 2), 13 giugno 2019.
Per le ragioni che inducono a tale convincimento si consenta di rinviare a I. DE CESARE, Il
possibile dialogo tra Corte costituzionale e Corte EDU sulla (il)legittimità dell’ergastolo ostativo,
in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre?, cit., 83-88.
28
Punto 10 del Considerato in diritto, sent. n. 253/2019: «il regime probatorio rafforzato, qui
richiesto, deve altresì estendersi all’acquisizione di elementi che escludono […] altresì il pericolo di
un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali».
29
Così M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo, cit., e G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità, cit.,
entrambi in questo volume.
27
116
Ilaria De Cesare
conclude la sent. 253/2019), ma la prova che ne accerti la sussistenza, per negare
l’accesso alla liberazione30, eventualmente anche prevedendo degli indizi di prova
qualificati. Questa soluzione, peraltro, non finirebbe per allargare le maglie della
liberazione condizionale, rimanendo impregiudicato l’accertamento dei requisiti
per la sua concessione, tra i quali vi è anche un giudizio prognostico sulla possibilità
che il condannato torni a delinquere una volta ottenuta la libertà.
30
M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo, cit.
LA “FUNZIONE OSTATIVA” DELLA RIEDUCAZIONE
di FEDERICA DE SIMONE
SOMMARIO: 1. L’ergastolo ostativo di nuovo al centro del dibattito. - 2. Un duplice
equivoco di fondo. - 3. Criticità costituzionali dell’ergastolo. - 4. I chiaroscuri della
sent. n. 253/2019. - 5. Dalla presunzione alla rieducazione.
1. La legge n. 3 del 2019, oggetto di aspre critiche a partire già dalla
denominazione di Spazzacorrotti assegnato al decreto legge da cui ha tratto origine,
nell’estendere il regime di preclusioni previsto dall’art. 4-bis ord. penit. ad alcuni
reati contro la pubblica amministrazione, ha avuto il pregio involontario di riportare
al centro del dibattito giuridico l’opportunità di espungere l’istituto dell’ergastolo
ostativo dall’ordinamento. L’equiparazione de iure dei crimini dei colletti bianchi
alla criminalità organizzata1 ha costituito, infatti, l’occasione per far emergere il
profondo disagio nei confronti della disposizione. Non che la questione non fosse
mai stata affrontata prima, tuttavia sia la Corte costituzionale2, nei suoi tentativi di
salvare l’art. 4-bis ricorrendo a pronunce di illegittimità solo parziale, sia la
giurisprudenza, con le sue costanti prese di posizione contro qualsiasi ipotesi di
interpretazione restrittiva, avevano determinato una sorta di accettazione e
contestualmente di rinuncia all’idea di un provvedimento abrogativo.
Il rinnovato interesse per la questione contribuisce a far emergere tutta la
fallacia argomentativa posta alla base dell’istituto, con la conseguenza che l’unica
opzione interpretativa possibile dovrebbe portare - ad avviso di chi scrive - a una
declaratoria di illegittimità costituzionale totale, ove il Parlamento non si assumesse
prima la responsabilità di un provvedimento abrogativo.
Il contrasto assoluto con i principi fondamentali si inserisce, infatti, in un
quadro più pregnante delle garanzie costituzionali, in cui la funzione rieducativa
della pena assume un ruolo centrale. Ciò imporrebbe anche una rilettura in senso
palidonico della natura giuridica delle norme relative all’esecuzione penale: la loro
ricollocazione nell’alveo del diritto sostanziale avrebbe importanti ricadute in
termini di operatività dei principi, a partire dall’irretroattività3. Non solo, ma si
rimedierebbe all’elusione del principio di legalità a cui a tutt’oggi si assiste, rispetto
a istituti definiti lato sensu penitenziari e affidati alla discrezionalità
dell’amministrazione nonostante le importanti ricadute sui diritti dei detenuti.
L’idea di fondo, sviluppata nel presente contributo, parte dalla considerazione
che molteplici siano i profili di illegittimità che emergono da una disamina logico
ermeneutica dell’art. 4-bis ord. penit. Tuttavia, nonostante siano percorribili due
opzioni interpretative, una in senso stretto che fa leva sugli aspetti di illegittimità
Ricercatrice in Diritto penale, Università della Campania L. Vanvitelli.
MANES V., L’estensione dell’art. 4-bis ord. penit. ai delitti contro la P.A.: profili di
illegittimità costituzionale, in Riv. Dir. pen. Cont., 2019, n. 2, 107.
2
Cfr. sentenze n. 306/1993, n. 273/2001, n. 135/2003.
3
Cfr. sentenza n. 32/2020.
1
118
Federica De Simone
parziale, una in senso ampio fondata sui motivi di illegittimità totale, si ritiene
quest’ultima prevalente4. Il mantenimento o meno dell’istituto nell’ordinamento,
infatti, può avere conseguenze idonee a incidere sulla tenuta complessiva del
sistema e il contrasto con il principio di rieducazione non può che essere totale.
2. In via preliminare, sembra opportuno sgombrare il campo da un duplice
equivoco di fondo che riguarda la fisionomia dell’ergastolo in generale e lo stesso
art. 4-bis ord. penit. Il primo fraintendimento riguarda la coesistenza di due
autonome ipotesi di sanzione detentiva perpetua, a seguito dell’introduzione del
regime preclusivo ad opera del d. lgs. n. 152 del 1991. Allo stato sarebbero vigenti,
infatti, sia l’ergastolo ordinario, in cui al condannato è ugualmente assicurato il
trattamento finalizzato alla rieducazione e alla possibilità di tornare in libertà dopo
26 anni di reclusione a seguito della concessione della liberazione condizionale, sia
l’ergastolo ostativo, per il quale nessun beneficio penitenziario è concedibile e,
conseguentemente, nessuna rieducazione è di fatto prevista. Invero, già la Corte di
Cassazione ha ritenuto «dubbia [la] configurabilità di un'autonoma tipologia di
pena qualificabile come ergastolo ostativo»5, affermazione che ha trovato l’avallo
implicito anche della Corte EDU nella pronuncia Viola c. Italia, laddove si è
affermata l’opportunità di una riforma normativa. Dal fatto che l’oggetto
dell’intervento suggerito è genericamente indicato nell’istituto dell’ergastolo,
dovrebbe dedursi che tutto il complesso di norme dettate in tema di detenzione
perpetua debba essere profondamente modificato, senza alcuna distinzione tra
ergastolo ordinario ed ostativo6. Seppure la reductio ad unum della massima
sanzione potrebbe sembrare una logica conclusione7, osta però a tale ricostruzione
la diversità di ratio posta alla base delle due diverse forme di ergastolo. Nell’istituto
ordinario, infatti, la prevalenza degli scopi di neutralizzazione del reo non comporta
la negazione della funzione rieducativa, tant’è che è assicurato un adeguato
trattamento, ivi compresa la possibilità di ottenere i benefici premiali.
Diversamente, la mancanza di tale possibilità e la minima offerta trattamentale
prevista per l’ergastolo ostativo sottintendono una valutazione normativa
esclusivamente di tipo punitivo, che non riguarda il fatto di reato quanto piuttosto
la scelta del reo di non collaborare.
Il secondo malinteso concerne l’erroneo convincimento che l’art. 4-bis ord.
penit. costituisca la disciplina di riferimento della figura dell’ergastolo ostativo. A
L’opzione restrittiva, sino ad oggi prevalsa soprattutto nelle decisioni del formante
giurisprudenziale, tiene in conto l’illegittimità parziale della norma, rilevandone singoli profili di
criticità, quali il catalogo dei reati a cui si estende il provvedimento, il carattere assoluto della
preclusione, i rapporti tra la pericolosità sociale e l’istituto della collaborazione. Diversamente, una
lettura in senso ampio pone una questione di illegittimità totale dell’ergastolo ostativo per contrasto
con i principi fondamentali. Cfr. DOLCINI E., La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano.
Appunti e riflessioni, in www.penalecontemporaneo.it, 17 dicembre 2018, 15 ss.
5
Cass. pen., sentenza n. 18206/2014.
6
Corte EDU, Viola c. Italia, sentenza del 13 giugno 2019 (ricorso n. 77633/16), §143.
7
PALAZZO F., L’ergastolo ostativo nel fuoco della quaestio legitimitatis, in BRUNELLI G.,
PUGIOTTO A., VERONESI P. (a cura di), Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo
tra le Corti, Forum. Quad. Cost. Rass., 2019, fasc. 10, 7.
4
La “funzione ostativa” della rieducazione
119
voler rispettare il dettato della rubrica, infatti, la norma contiene “solo” il divieto di
applicazione di misure premiali che in condizioni ordinarie sono concesse in virtù
della loro natura di strumenti utili alla rieducazione del reo. È pur vero che la
preclusione consegue alla commissione di reati particolarmente gravi, per i quali è
spesso irrogata la pena dell’ergastolo, tuttavia non necessariamente è così. Nel
catalogo dei reati indicati nell’art. 4-bis ord. penit. sono ormai comprese anche
fattispecie per le quali la sanzione massima prevista è di sei anni di detenzione,
come nel caso della corruzione per l’esercizio della funzione. Non si può negare
che l’impossibilità di un qualsiasi contatto con l’esterno e la conseguente perdita
anche minima di chance in termini rieducativi che l’ordinamento riserva a un
ergastolano possano destare grandi perplessità, purtuttavia si dovrebbe mostrare
scetticismo – ad avviso di chi scrive – anche e soprattutto quando un simile regime
preclusivo trovi applicazione nei confronti di un reo destinato a tornare in libertà.
In tal caso, infatti, si dovrebbero impiegare tutti gli strumenti rieducativi possibili,
ivi compresi quelli premiali per perseguire senza riserve lo scopo della rieducazione
e del reinserimento sociale del condannato.
D’altronde, in un ordinamento in cui, alla luce del progressivo affermarsi del
principio di umanità della pena, del principio della pena minima e del minimo
pregiudizio, della progressione trattamentale, del diritto a una pena dignitosa come
inderogabili corollari della rieducazione, già l’ergastolo sembra di per sé
illegittimo8, il c.d. ergastolo ostativo non può che destare ulteriori perplessità.
3. E invece, la pena dell’ergastolo non è mai stata messa realmente in
discussione9, nonostante l’evidente contrasto tra le posizioni del legislatore e quelle
della Corte costituzionale.
Mentre il potere legislativo non solo ha ritenuto opportuna l’introduzione della
forma più severa di ergastolo, ma ne ha rafforzato nel tempo l’operatività estendo
il catalogo dei reati ostativi e facendo così venire meno il carattere di eccezionalità
dell’art. 4-bis ord. penit. in relazione alla finalità di contrasto alla criminalità
organizzata, la Corte costituzionale, sia nel periodo in cui ha prevalso la teoria della
polifunzionalità della pena, sia nell’attuale in cui è stata riconosciuta la pregnanza
della funzione rieducativa, ha sempre cercato di mitigare gli effetti dell’ergastolo
ostativo limitandone l’operatività. La giurisprudenza di legittimità, dal canto suo,
ha assunto posizioni saldamente a difesa dell’istituto10, se non con rare eccezioni.
In tema di violazione dei principi fondamentali, quando si parla di art. 4-bis
ord. penit. la maggiore ipotesi di conflitto riguarda, con ogni evidenza, l’art. 27,
comma 3, Cost.
La dottrina sembra essere da sempre ben più di un passo avanti rispetto alla
giurisprudenza costituzionale. Mentre quest’ultima solo in tempi recenti ha ritenuto
FIANDACA G., Perché l’Europa può aiutare l’Italia a rendere il carcere meno ostile alla
nostra Costituzione, in Il Foglio, 10 ottobre 2019.
9
DOLCINI E., La pena detentiva, cit., 20 ss. Anche il referendum abrogativo promosso nel 1981
dal partito Radicale non ebbe un risultato favorevole, poiché il 77,37% della popolazione si espresse
contro l’abolizione della pena perpetua.
10
Ex multis, Cass. pen. sez. I, sentenza n. 27149/2016 e n. 7428/2017.
8
120
Federica De Simone
prevalente la funzione rieducativa della pena, la prima, pur non avallando in toto le
teorie abolizioniste sull’ergastolo in generale11, ha da sempre affermato
l’illegittimità assoluta della perpetuità della sanzione detentiva ancor più nella sua
speciale forma ostativa, rilevando l’evidente collisione con il fondamentale
principio previsto della rieducazione. Non solo, ma autorevoli voci sono andate
anche oltre, ritenendo che il canone costituzionale della rieducazione non sia
l’unico profilo di contrasto, dovendosi verificare la legittimità dell’istituto anche in
riferimento alla dignità, all’umanità, alla proporzione della pena, alla libertà di
autodeterminazione, alla ragionevolezza12. Sembrerebbe addirittura che il dettato
dell’art. 27, comma 3, Cost. debba cedere il passo alla previsione dell’art. 2 Cost.13,
nella misura in cui, prima ancora di porsi un problema di rieducazione,
l’ordinamento deve garantire il rispetto della dignità umana14.
Anche la Corte edu, nella sentenza Viola c. Italia, ha ribadito che la sanzione
penale in generale deve essere finalizzata alla realizzazione del principio di
rieducazione e agli obiettivi di reinserimento sociale del reo, costituendo essi il
fondamento dell’ordinamento italiano, nonché delle politiche penali europee15.
Nel ripercorrerne le alterne vicende giuridiche, i giudici europei hanno
osservato come la rilevanza costituzionale non abbia assicurato al principio
rieducativo sempre un ruolo di primo piano16. La prevalente teoria polifunzionale
della sanzione penale, infatti, non ha mai permesso di riconoscerne la portata
assoluta ed esclusiva. Neppure il recente superamento17 di una simile
interpretazione riduttiva, e il contestuale riconoscimento della centralità della
rieducazione, hanno portato all’abolizione di istituti che, come l’art. 4 bis ord.
penit., sono chiaramente in contrasto con il principio in parola18. Cionondimeno, la
violazione dell’art. 3 Cedu va ravvisata proprio nella mancata prospettiva di
rieducazione e di reinserimento sociale, connessi all’incomprimibilità
dell’ergastolo ostativo, oltre che nella mancata attuazione del principio di
progressione trattamentale. Quest’ultimo per la Corte edu costituisce una
declinazione della funzione rieducativa19 ed è inequivocabilmente uno dei
11
DOLCINI E., La pena detentiva, cit., 11 ss.; FLICK G.M., Ergastolo ostativo: contraddizioni
e acrobazie, in Riv. It. Dir. Proc. pen., 2017, 1505 ss.; PULITANÒ D., Minacciare e punire, in
PALIERO C.E., VIGANÒ F., BASILE F., GATTA G. (a cura di), La pena, ancora: tra attualità e
tradizione. Studi in onore di Emilio Dolcini, Giuffré, Milano 2018, 3 ss.
12
PALAZZO F., L’ergastolo, cit., 1.
13
DE SIMONE F., La sanzione detentiva. Dal modello securitario al modello trattamentale,
Giappichelli, Torino 2018, 199.
14
PALAZZO F., L’ergastolo, cit., 1, in cui l’autore rileva anche la difficoltà di tracciare i rapporti
di gerarchia assiologica e di derivazione logica tra gli stessi principi citati, laddove la rieducazione
stessa potrebbe essere considerata un corollario della dignità, ovvero quest’ultima costituire un
limite alla prima. Sul punto anche FIANDACA G., Perché l’Europa, cit., 2.
15
Corte EDU, Viola c. Italia, cit., §108.
16
Ibidem, §37.
17
Corte costituzionale., sentenza n. 149/2018.
18
La Corte EDU elenca le principali pronunce della Corte costituzionale in cui la questione di
legittimità dell’art. 4-bis ord. penit. è stata sempre rigettata e richiama, inoltre, i progetti di riforma
presentati e mai attuati. Cfr. Viola c. Italia, cit., §37 e 49.
19
Ivi, §112. L’orientamento era già stato anticipato nella decisione Murray e Hutchinson c.
Regno Unito, al §101.
La “funzione ostativa” della rieducazione
121
fondamenti del sistema penitenziario italiano, nonostante sia assurto al rango di
principio solo sul finire degli anni novanta, quando la Consulta lo definì principio
di non regressione trattamentale20.
Strettamente connesso al tema della progressione trattamentale è il riferimento
alla collaborazione con la giustizia, che, secondo la memoria presentata dal
Governo italiano, costituisce proprio la chance di rieducazione e soprattutto di
progressione trattamentale, mentre paradossalmente per la Corte europea fonda il
limite estrinseco dello stesso principio di progressione.
Stando a quanto affermato dai giudici europei, la possibilità offerta dall’art. 58ter ord. penit. di evitare il regime di preclusioni persegue esclusivamente finalità di
prevenzione generale e tutela della collettività, non certo di rieducazione e
progressione trattamentale.
Si sarebbe potuto non arrivare alla Corte europea, dal momento che la stessa
Corte costituzionale aveva già nel lontano 1997 affermato che «la liberazione
condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell'ordinamento
rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione,
la pena dell'ergastolo»21. La Consulta lasciava, così, intendere che ove fosse
preclusa la possibilità di ottenere la liberazione condizionale, si sarebbe dovuto
rilevare un contrasto con la previsione costituzionale dell’art. 27 Cost.22.
La totale illegittimità dell’istituto in esame, poi, rileverebbe sotto l’ulteriore
profilo della violazione dell’art. 117 Cost., nella sua veste di parametro interposto
rispetto all’art. 3 CEDU, ritenuto leso proprio dalla Corte EDU nella sentenza Viola
c. Italia. Invero, la questione non è stata ritenuta rilevante né dalla Suprema Corte
nell’ordinanza di rimessione n. 59 del 2018, né dalla stessa Corte costituzionale
nella pronuncia n. 253/2019.
Rispetto all’ipotesi di verificare tale profilo di illegittimità, nella sentenza da
ultimo citata la Corte ha operato la scelta, meramente tecnicista, di tenersi nei
confini del petitum, interpretando in maniera rigida il principio della corrispondenza
tra il chiesto e il pronunciato, laddove la prassi dimostra come la scelta avrebbe
potuto essere di segno diverso23. Probabilmente la Consulta non ha voluto
mantenersi nel solco della sentenza Viola c. Italia, preferendo discostarsene, pur
addivenendo, poi, alla identica conclusione in merito all’opportunità che il regime
preclusivo previsto dall’art. 4-bis ord. penit. si tramuti da assoluto a relativo. O,
ancora, non ha voluto porre ulteriormente l’accento su una norma convenzionale
così altamente simbolica come l’art. 3 CEDU. Prova ne è anche la circostanza che
i giudici costituzionali evitano accuratamente qualsiasi richiamo alla decisione della
Corte di Strasburgo.
Un istituto che subordina il bene supremo della libertà personale a un ricatto
non può essere considerato rispettoso dei canoni costituzionali, mentre si risolve
20
Corte costituzionale, sentenza n. 445/1997.
Corte costituzionale, sentenza n. 161/1997.
22
L’orientamento era già stato espresso in Corte costituzionale, n. 264/1974.
23
CATELANI E., La determinazione della questione di legittimità costituzionale nel giudizio
incidentale, Giuffrè, Milano 1993, 104-115; RUGGERI A., SPADARO A., Lineamenti di giustizia
costituzionale, Giappichelli, Torino 2019, 274.
21
122
Federica De Simone
senz’altro in un trattamento disumano e degradante24. Tale è anche una modifica
normativa che incide sulla qualità e quantità del trattamento sanzionatorio senza
perseguire lo scopo esclusivo e inderogabile della rieducazione, laddove la pena
può essere flessibile - soprattutto in fase di esecuzione - solo se in un’ottica di favor
rei rispetto al grado di cambiamento raggiunto dal condannato25.
4. La recente trasformazione26 della presunzione prevista nell’art. 4-bis ord.
penit. da assoluta a relativa rende meno evidente il conflitto con il principio di
umanizzazione della pena, ma a ben guardare potrebbe ridurre considerevolmente
la portata innovativa della pronuncia stessa. Il trasferimento della discrezionalità
dal potere legislativo a quello giudiziario, chiamato a valutare caso per caso
l’opportunità della concedibilità del beneficio penitenziario, oltre alla previsione a
carico del reo dell’onere della prova circa l’interruzione dei rapporti con la
criminalità organizzata, infatti, potrebbe determinare in concreto che le possibilità
di accedere alle misure premiali restino invariate o addirittura diminuiscano27.
Cionondimeno, il pericolo potrebbe essere scongiurato restituendo al momento
valutativo della pericolosità il giusto peso, valorizzando nel massimo grado il ruolo
della magistratura di sorveglianza e degli esperti ausiliari del giudice, oltre che
assicurando la possibilità di un riesame del percorso effettuato dal singolo reo alla
luce del cambiamento e dei progressi raggiunti.
Il pregio maggiore di un simile argomentare si coglie soprattutto dal punto di
vista della coerenza di sistema, in termini di ragionevolezza e proporzionalità
dell’istituto sotto il profilo dell’individualizzazione del trattamento rieducativo28.
D’altronde, già nel lontano 1990 la Corte costituzionale aveva riconosciuto un ruolo
di primo piano alla discrezionalità giudiziale, dovendo il giudice garantire in
concreto che la pena sia effettivamente funzionale alla rieducazione29.
Un simile approccio rinvia solo il problema. Ancora una volta, la sensazione è
di un eccesso di cautela, oltre che di una difficoltà a trovare il giusto equilibrio tra
il potere legislativo e quello giudiziario. Non ci vorrà molto perché anche da
Strasburgo giungano ulteriori sollecitazioni, visto che la decisione Viola c. Italia
non costituisce formalmente una sentenza pilota30, senza considerare che la
24
Cfr. ZAGREBLESKY V., La pena detentiva “fino alla fine” e la Convenzione europea dei
diritti umani e delle libertà fondamentali, in BRUNELLI G., PUGIOTTO A., VERONESI P. (a cura di),
Per sempre dietro le sbarre. cit., 16 ss. e, ivi, GALLIANI D., Ora tocca ai giudici costituzionali. Il
viaggio dell’ergastolo ostativo al capolinea?, 113.
25
Sul punto FERRAJOLI L., Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, RomaBari 2004, 404.
26
Corte costituzionale, sentenza n. 253/2019.
27
PELISSERO M., Permessi premi e reati ostativi. Condizioni, limiti e potenzialità di sviluppo
della sent. 253/19 della Corte costituzionale, in Legisl. Pen., 30 marzo 2020, 13.
28
PALAZZO F., L’ergastolo, cit., 8.
29
Corte costituzionale, sentenza n. 313/1990; PASSIONE M., Vecchie e nuove preclusioni, in
Giur. pen. web, 2019, 3, 10 ss.
30
Ciò sia perché ad aprile 2018 i giudici di Strasburgo hanno ritenuto ricevibile il ricorso
Filadelfo Ruggeri c. Italia incentrato sul contrasto tra il regime del c.d. “carcere duro” ex art. 41bis, ord. penit. e l’art. 3 CEDU, che coinvolge anche l’istituto dell’ergastolo ostativo nella sua
generale portata, sia perché, nel rilevare un problema strutturale in ordine al sistema sanzionatorio
La “funzione ostativa” della rieducazione
123
giurisprudenza di merito si adeguerà pacificamente ai recenti approdi della Corte
costituzionale31.
5. Tirando le fila del discorso, quanto è cambiato lo scenario del regime
preclusivo dopo la decisione Viola c. Italia e le ultime pronunce della Corte
costituzionale? Forse molto, forse poco, dal momento che il risultato ottenuto è
misurabile solo in termini di un temperamento rispetto al rigore imposto dall’art. 4
bis, ma non costituisce affatto un passo in avanti rispetto alla rieducazione, non
potendo questa essere assoggettata alla logica del caso per caso.
Emerge, invece, ben chiara l’esigenza di recuperare una visione d’insieme che
sposti il fulcro della questione dalla tipologia della presunzione alla rieducazione,
dai singoli benefici penitenziari alla premialità nella sua funzione di
individualizzazione del trattamento, dal tipo di reato alle garanzie uguali per tutti.
Non è condivisibile neanche l’idea, propugnata da alcuni, di lasciare intatta la
presunzione assoluta solo per le fattispecie che pongono eccezionali esigenze di
contrasto come quelle relative alla criminalità organizzata e ai fatti di terrorismo32.
Non dovrebbero essere ammesse, infatti, presunzioni legali di irrecuperabilità
sociale in base al titolo di reato e il percorso risocializzativo [dovrebbe] essere
modulato sull’uomo e non sul fatto commesso33. A tutti i condannati alla pena
perpetua va riconosciuto il diritto alla speranza di reinserirsi in società, sia perché
ciò è espressione della dignità umana, sia perché l’affermazione dell’endiadi
rieducazione/speranza costituisce quella stessa spinta motivazionale in grado di
realizzare il dettato dell’art. 27, comma 3, Cost.
Resta ineludibile il suggerimento della Corte EDU di procedere a una riforma
legislativa che ripensi tutto il complesso delle norme dettate in tema di detenzione
perpetua, senza che intervengano condizionamenti di politica criminale, né
strumentalizzazioni ad uso di un diritto penale populistico, non essendo altrimenti
eliminabili i profili di contrasto con l’art. 3 CEDU e l’art. 27 Cost.34.
italiano, la stessa Corte ravvisa la possibilità che in un immediato futuro giungano numerosi altri
casi della stessa specie all’esame della Corte. Ne conseguirebbero ripetute condanne per l’Italia per
violazione quanto meno dell’art. 3 CEDU. Sul valore di sentenza pilota si veda ESPOSITO A., Giochi
di luce: quando il mostro diventa riconoscibile, in Arch. pen. web, 2, 2020, 4.
31
Come dimostra la recente sentenza della Cass. pen. sez. I, sentenza n. 18518/2020.
32
BIONDI F., Il 4-bis all’esame della Corte costituzionale: le questioni sul tappeto e le possibili
soluzioni, in BRUNELLI G., PUGIOTTO A., VERONESI P. (a cura di), Per sempre dietro le sbarre?, cit.,
44 ss.; TARTAGLIA R., La sentenza della Corte EDU sull’ergastolo ostativo ci pone un problema
importante, che però siamo preparati a risolvere. Dalle presunzioni assolute a quelle relative, in
Giur. pen., 2019, 10; Corte EDU, Pantano c. Italia, decisione 6/11/2003 (ricorso n. 60851/00).
33
Stati generali dell’esecuzione penale, documento finale, in
www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_19_3.page, 11.
34
RISICATO L., La pena perpetua tra crisi della finalità rieducativa e tradimento del senso di
umanità, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2015, 1238 ss., secondo cui «nella calcificata emergenza
penitenziaria l’ergastolo non può essere strumento rinunciabile in cambio della collaborazione ma
deve tornare a essere pena: finita e definita come il nostro stesso orizzonte esistenziale, inaccettabile
senza una speranza».
ERGASTOLO OSTATIVO, LIBERAZIONE CONDIZIONALE,
DIRITTO ALLA SPERANZA
di EMILIO DOLCINI*
SOMMARIO: 1. Ergastolo, ergastolo bianco, ergastolo giudiziario. – 2. L’ergastolo
ostativo alla resa dei conti. – 3. Corte EDU, Viola contro Italia. – 4. Corte
costituzionale, 4 dicembre 2019, n. 253. – 5. L’ordinanza Pezzino. – 6. Che cosa
attendersi dalla Corte costituzionale?
1. Se si va oltre il disposto dell’art. 22 c.p., ci si avvede che nel nostro
ordinamento l’ergastolo ha più volti1: in primo luogo, quello dell’ergastolo comune
(pena perpetua riducibile, secondo la terminologia della Corte EDU) e quello
dell’ergastolo ostativo (pena perpetua non riducibile, destinata a una vasta gamma
di condannati non collaboranti, autori di gravi reati, tutti originariamente ambientati
nella criminalità organizzata, ma ora connotati soltanto da un intenso allarme
sociale)2. Esisteva poi una sorta di ergastolo di terzo tipo, che riguardava il
condannato collaborante autore di alcune forme di sequestro di persona seguito
dalla morte della vittima (art. 289-bis c.p. e art. 630 c.p.), al quale era consentito di
accedere, senza passaggi intermedi, alla sola liberazione condizionale, una volta
effettivamente espiati almeno ventisei anni di pena (art. 58-quater, comma 4, ord.
penit.). Alla Corte costituzionale3 va il merito di aver estromesso dall’ordinamento
questa forma di ergastolo, tanto irragionevole quanto incompatibile con qualsiasi
prospettiva di rieducazione.
* Emerito di diritto penale, Università di Milano.
1
Nella vastissima letteratura sull’ergastolo, v. per tutti F. CORLEONE, A. PUGIOTTO (a cura di),
Il delitto della pena. Pena di morte ed ergastolo, Ediesse, Roma 2012; E. DOLCINI, E. FASSONE, D.
GALLIANI, P. PINTO DE ALBUQUERQUE, A. PUGIOTTO, Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto
penale costituzionale, Giappichelli, Torino 2019; E. DOLCINI, F. FIORENTIN, D. GALLIANI, R. MAGI,
A. PUGIOTTO, Il diritto alla speranza davanti alle corti. Ergastolo ostativo e articolo 41-bis,
Giappichelli, Torino 2020; M. PISANI, La pena dell’ergastolo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 575
ss.
2
Secondo un tagliente rilievo di Giostra, «il 4-bis è ormai divenuto una specie di contenitore
di raccolta indifferenziata in cui il legislatore “getta” i reati demagogicamente più à la page senza
tenere nella dovuta considerazione la loro gravità, la loro struttura e il loro profilo criminologico»:
così G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? Spunti per una discussione,
in questo volume.
3
Corte costituzionale, 21 giugno 2018, n. 149. A commento, cfr., fra gli altri, E. DOLCINI,
Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di rieducazione del
condannato), in Dir. pen. cont., fasc. 7, 2018, 145 ss.; F. FIORENTIN, La Consulta svela le
contraddizioni del "doppio binario penitenziario" e delle preclusioni incompatibili con il principio
di rieducazione del condannato, in Giur. cost., 2018, 1657 ss.; A. GALLUCCIO, Ergastolo e
preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari: dalla Corte costituzionale un richiamo alla
centralità del finalismo rieducativo della pena, in Quest. Giust., 16 luglio 2018,
https://www.questionegiustizia.it; M. PELISSERO, Ergastolo e preclusioni: la fragilità di un
automatismo dimenticato e la forza espansiva della funzione rieducativa, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2018, 1359 ss.
Ergastolo ostativo, liberazione condizionale, diritto alla speranza
125
Di ergastolo si parla anche, talora, in senso metaforico.
Si parla di ergastolo bianco4, per alludere alla condizione di chi, magari autore
di un reato bagatellare, veniva sottoposto a una misura di sicurezza detentiva –
spesso, l’ospedale psichiatrico giudiziario – la cui esecuzione si protraeva per anni,
o per decenni: la mancanza di cure adeguate non di rado creava il rischio di una
privazione di libertà protratta per tutta la vita della persona. È merito, questa volta,
del legislatore (d.l. 31 marzo 2014, n. 52, convertito con l. 30 maggio 2014, n. 81,
recante “Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici
giudiziari”) l’aver eliminato questo rischio, stabilendo che la durata delle misure di
sicurezza detentive non possa superare la durata massima della pena detentiva
comminata per il reato oggetto del procedimento.
Di recente, è affiorata in dottrina un’ulteriore metafora: si è parlato di ergastolo
giudiziale5, al quale verrebbe potenzialmente consegnato qualsiasi imputato per
effetto della disciplina della prescrizione dettata dalla c.d. legge spazzacorrotti (l. 9
gennaio 2019, n. 3), in vigore dal 1° gennaio 2020.
Non è questa la sede per entrare nel merito della rovente polemica innescata
dalla riforma Bonafede6. Mi limito ad osservare che è un’evidente forzatura
affermare, come si è fatto, che «la riforma varata nel 2019… ha sostanzialmente
abrogato la prescrizione»7; aggiungo che è quanto meno discutibile individuare «la
più vitale funzione” della prescrizione nel «contenimento della ‘pena
processuale’»8 (a mio avviso, il terreno di elezione della prescrizione è invece
rappresentato dai reati che non vengono a conoscenza dell’autorità giudiziaria) 9;
aggiungo, ancora, che mi ha fatto sorridere vedere che si è arrivati ad arruolare
Giorgio Marinucci (ed io con lui) in una schiera di penalisti che coltivano
un’«ideologia retributivo-populista», un «odio viscerale per la categoria della non
punibilità», nonché «l’avversione per qualunque meccanismo che si prefigga di
comporre il conflitto aperto dal fatto offensivo in modo diverso dalla dispensazione
di ulteriore sofferenza: dai provvedimenti di clemenza alle cause di non punibilità,
dalle misure alternative alle cause di estinzione»10.
2. Una realtà multiforme quella dell’ergastolo, una pena il cui nome viene
dunque evocato – a proposito o a sproposito – per alludere a momenti patologici
4
Cfr. per tutti G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. GATTA, Manuale di dir. pen., pt. gen., IX ed.,
Giuffrè, Milano 2020, 845.
5
Così D. MICHELETTI, Il regime intertemporale delle cause di sospensione della prescrizione
penale, in DisCrimen, 4 luglio 2020, 5.
6
Cfr. fra molti, su posizioni diverse, R. BARTOLI, Le modifiche alla disciplina della
prescrizione: una sovversione dei principi, in Dir. pen. proc., 2019, 900 ss.; G. L. GATTA, Sulla
riforma della prescrizione del reato, bloccata dopo il giudizio di primo grado, in Riv. it. dir. proc.
pen., 2018, 2345 ss.; V. MANES, Sulla riforma della prescrizione, ivi, 2019, 557 ss., nonché, da
ultimo, G. SPANGHER (a cura di), Prescrizione: opinioni a confronto, in Giur. it., 2020, 971 ss., con
contributi di G. SPANGHER, D. PULITANÒ, P. FERRUA, O. MAZZA, A. MARANDOLA, V. MONGILLO,
L. IANDOLO.
7
Così D. MICHELETTI, Il regime intertemporale, cit., 5.
8
Ibidem.
9
Cfr. G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. GATTA, Manuale di dir. pen., pt. gen., IX ed., cit., 494.
10
Cfr. D. MICHELETTI, Il regime intertemporale, cit., 1 s.
126
Emilio Dolcini
del sistema penale, nella sua accezione più vasta. Mi conforta, in ogni caso, che la
parola ‘ergastolo’ abbia assunto una connotazione pacificamente negativa, almeno
per la grande maggioranza dei penalisti.
Lasciando da parte metafore e forme di ergastolo non più presenti
nell’ordinamento, fermo l’attenzione sull’ergastolo ostativo: sulla pena detentiva
ineluttabilmente perpetua, che interessa – come ci ha ricordato poco fa Marco
Ruotolo11– oltre il 70% dei condannati all’ergastolo12.
Per l’ergastolo ostativo sembra ormai giunta la resa dei conti: è sottoposto a un
tiro incrociato da parte della Corte EDU e della Corte costituzionale. Spiccano per
importanza: nella giurisprudenza europea, Corte EDU, Prima Sezione, Viola c.
Italia, 13 giugno 2019, definitiva dal 7 ottobre 2019; nella giurisprudenza
costituzionale, la sentenza 4 dicembre 2019, n. 25313.
3. Di Viola c. Italia14, relativa a un condannato all’ergastolo per delitti di mafia
la cui istanza di ammissione alla liberazione condizionale era stata giudicata
inammissibile, mi limito qui a sottolineare come la sentenza stabilisca uno stretto
collegamento fra il principio di umanità della pena (enunciato sia nella CEDU, sia
nella Costituzione italiana) e il principio della rieducazione (presente, in forma
espressa, nel solo art. 27, comma 3, Cost.): l’anello di congiunzione viene
Cfr. M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo è costituzionale?, in questo stesso volume.
«Per il 75% degli ergastolani italiani la liberazione condizionale è un istituto che rimane
‘sulla carta’, sanno che esiste, ma non la otterranno mai»: così D. GALLIANI, “La forza della
democrazia è non avere paura”. L’ergastolo ostativo e Viola v. Italia n. 2 della Corte di Strasburgo,
in Giust. insieme, 18 giugno 2019, https://www.giustiziainsieme.it.
13
Un ulteriore precedente di rilievo è rappresentato da Corte cost. 6 dicembre 2019, n. 263,
che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2, comma 3, d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, recante
“Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della
delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103”: tale
disposizione, estendendo l’applicabilità dell’art. 4-bis, comma 1 e comma 1-bis, ord. penit. ai
condannati minorenni e ai giovani-adulti, rendeva accessibili le misure penali di comunità, i
permessi-premio e il lavoro all’esterno ai soli condannati che collaborano con la giustizia, o per i
quali la collaborazione sia impossibile o inesigibile. Come ha rilevato la Corte, tale estensione
integrava un eccesso di delega ex art. 76 Cost. e una violazione del principio della rieducazione del
condannato: ne segue, per la Corte, che nei confronti dei minori «non può essere lasciato spazio a
presunzioni di pericolosità di sorta, nemmeno se relative». Cfr. S. BERNARDI, L’ostatività ai benefici
penitenziari non può operare nei confronti dei condannati minorenni: costituzionalmente illegittimo
l’art. 2 comma 3 d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, in Sistema pen., 26 gennaio 2020,
https://www.sistemapenale.it.
14
Cfr., fra gli altri, D. GALLIANI, “La forza della democrazia è non avere paura”, cit., 16; D.
GALLIANI, A. PUGIOTTO, L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo (A proposito della
sentenza Viola v. Italia n. 2), in Osservatorio AIC, fasc. 4, 2019, 191 ss.,
http://www.associazionedeicostituzionalisti.it; D. MAURI, Nessuna speranza senza collaborazione
per i condannati all’ergastolo ostativo? Un primo commento a Viola c. Italia, in SIDIBlog, 20
giugno 2019, http://www.sidiblog.org; M. PELISSERO, Verso il superamento dell’ergastolo ostativo:
gli effetti della sentenza Viola c. Italia sulla disciplina delle preclusioni in materia di benefici
penitenziari, in SIDIBlog, 21 giugno 2019, http://www.sidiblog.org; N. ROMBI, Dopo il caso "Viola"
nuove prospettive per un superamento dell'ergastolo ostativo, in Dir. pen. proc., 2020, 565 ss.,
11
12
Ergastolo ostativo, liberazione condizionale, diritto alla speranza
127
individuato nella dignità umana, diritto inviolabile della persona secondo la
Costituzione e fulcro dell’intero sistema della CEDU15.
Muovendo da tali principi, rilevato che «il c.d. ergastolo ostativo limita
eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame
della pena»16, la Corte condanna l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU. In breve:
per la Corte di Strasburgo l’ergastolo ostativo è una pena inumana, la cui disciplina
deve essere radicalmente riformata. La riforma dovrà eliminare l’attuale
automatismo legislativo, dando atto che «la dissociazione dall’ambiente mafioso»
può «esprimersi con strumenti diversi dalla collaborazione con la giustizia»17.
4. Quanto alla sentenza della Corte costituzionale n. 253/201918, va detto
subito che riguarda aspetti della normativa dettata dall’art. 4-bis co. 1 ord. penit. in
larga parte diversi da quelli presi in considerazione dalla Corte EDU nella sentenza
Viola c. Italia: riguarda infatti la condizione di tutti i detenuti per un reato ‘di prima
fascia’ dell’art. 4-bis, che scontino una pena detentiva perpetua o temporanea;
d’altra parte, fa riferimento non alla liberazione condizionale, istituto che segna il
punto di arrivo di un percorso di rieducazione avviato in carcere, bensì ad uno
specifico beneficio penitenziario – il permesso-premio – che di quel percorso
rappresenta soltanto un momento intermedio, accanto al lavoro all’esterno e alle
misure alternative alla detenzione.
Al di là delle diversità di oggetto, la Corte costituzionale è peraltro in piena
sintonia con la Corte EDU nel punto nodale della sua pronuncia. Nel dichiarare
l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., nella parte in cui
non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati possano essere concessi
permessi-premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, la Corte
15
Come si legge, tra l’altro, in Corte EDU, Grande Camera, 9 luglio 2013, Vinter c. Regno
Unito, §113.
16
Corte EDU, Prima Sezione, Viola c. Italia, cit., §137.
17
Corte EDU, Prima Sezione, Viola c. Italia, cit., §143.
18
Cfr., fra molti, S. BERNARDI, Per la Consulta la presunzione di pericolosità dei condannati
per reati ostativi che non collaborano con la giustizia è legittima solo se relativa: cade la
preclusione assoluta all’accesso ai permessi premio ex art. 4-bis comma 1 ord. penit., in Sistema
pen., 28 gennaio 2020, https://www.sistemapenale.it; ID., Sull’incompatibilità con la Costituzione
della presunzione assoluta di pericolosità dei condannati per reati ostativi che non collaborano con
la giustizia: in margine a Corte cost., sentenza del 23 ottobre 2019 (de 4 dicembre 2019), n. 253, in
Osservatorio AIC, fasc. 1, 2020, 1 ss., 3 marzo 2020, http://www.associazionedeicostituzionalisti.it;
M. BORTOLATO, Il futuro nella società non può essere negato a chi non collabora, ma la strada è
ancora lunga. Brevi riflessioni sulla sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale, in Dir. Pen.
Proc., 2020, 632 ss.; M. CHIAVARIO, La sentenza sui permessi-premio: una pronuncia che non
merita inquadramenti unilaterali, in Osservatorio AIC, fasc. 1, 2020, 4 febbraio 2020, 211 ss.,
http://www.associazionedeicostituzionalisti.it; G. DODARO, L’onere di collaborazione con la
giustizia per l’accesso ai permessi premio ex art. 4-bis ord. penit. di fronte alla Costituzione, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2020, 259 ss.; A. PUGIOTTO, La sent. n. 253/2019 della Corte costituzionale: una
breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria, in Studium Iuris, 2020, 399 ss.; ID., Due decisioni
radicali della Corte costituzionale in tema di ostatività penitenziaria: le sentenze nn. 253 e 263 del
2019, in Giur. cost., 2019, 3345 ss.; M. RUOTOLO, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze
della sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, in Sistema pen., 12 dicembre 2019,
https://www.sistemapenale.it.
128
Emilio Dolcini
costituzionale afferma a chiare lettere che l’illegittimità riguarda non la presunzione
in sé che sta alla base del divieto, bensì il carattere assoluto della presunzione: ed è
proprio «tale assolutezza che impedisce di valutare il percorso carcerario del
condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come
recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27 co. 3 Cost.»19. Al centro della
propria pronuncia la Corte colloca dunque un principio costituzionale – quello della
rieducazione del condannato – del quale la Corte EDU si era, per così dire,
appropriata nella sentenza Viola attraverso una lettura del principio di umanità della
pena tanto convincente quanto non banale.
Rileva inoltre la Corte costituzionale che, quando la condanna sia pronunciata
per uno dei reati dell’art. 4-bis, il contenuto della pena risulta largamente modellato
su esigenze investigative e di sicurezza collettiva che emergono successivamente
alla condanna e poco o nulla hanno a che vedere con la gravità del reato e con la
stessa capacità a delinquere del suo autore20. Evidenzia così una violazione del
principio di proporzionalità, e dunque, nel quadro costituzionale, una violazione del
principio di eguaglianza-ragionevolezza, nonché, ancora una volta, del principio
della rieducazione del condannato: richiamo, in proposito, una precedente
pronuncia della Corte costituzionale, secondo la quale al raggiungimento
dell’obiettivo della rieducazione «è di ostacolo l’espiazione di una pena
oggettivamente non proporzionata alla gravità del fatto, quindi, soggettivamente
percepita come ingiusta e inutilmente vessatoria»21.
5. Nelle tormentate vicende dell’ergastolo ostativo è intervenuta da ultimo la
Corte di Cassazione, investendo nuovamente della questione di legittimità la Corte
costituzionale: mi riferisco all’ordinanza Pezzino, del 3 giugno 202022.
Dell’ordinanza sottolineo la completezza e l’ordine sistematico (condivido il
giudizio di Glauco Giostra, che ha parlato di «un’ottima ordinanza di
rimessione»23).
L’ordinanza fornisce in primo luogo un’accurata ricostruzione della storia
processuale e penitenziaria del ricorrente: la condanna all’ergastolo per omicidio
aggravato dal contesto mafioso, la fattiva e costante partecipazione da parte del
detenuto all’opera di rieducazione, l’esecuzione della pena in corso – tenuto conto
delle detrazioni ex art. 54 ord. penit. – da oltre 27 anni.
Acclarata, dunque, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale24,
la Corte di Cassazione affronta il tema cruciale della sua non manifesta
19
Corte costituzionale, 4 dicembre 2019, n. 253, punto 8 del Considerato in diritto.
Corte costituzionale, 4 dicembre 2019, n. 253, ibidem.
21
Corte cost. 8 marzo 2019, n. 40, punto 5.2. del Considerato in diritto, e ivi ulteriori richiami
a precedenti pronunce nelle quali la Corte affermava che «allorché le pene comminate appaiano
manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato, si profila un
contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., giacché una pena non proporzionata alla gravità del fatto si risolve
in un ostacolo alla sua funzione rieducativa» (così Corte costituzionale n. 222/2018, punto 7.1 del
Considerato in diritto).
22
Cass. Sez. I, ord. 3 giugno 2020, n. 18518, Pezzino.
23
Così G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità, cit., 1.
24
Per una attenta analisi dei profili di rilevanza della questione di legittimità costituzionale
20
Ergastolo ostativo, liberazione condizionale, diritto alla speranza
129
infondatezza. Dato atto di una propria precedente giurisprudenza orientata in senso
opposto – nel senso cioè della manifesta infondatezza della questione –, sulla scia
di diverse pronunce della Corte costituzionale, la Corte di Cassazione evidenzia il
ruolo centrale che a partire dalla sentenza n. 264/1974 la Corte costituzionale
attribuisce alla liberazione condizionale per affermare la compatibilità
dell’ergastolo con il quadro costituzionale.
Passa quindi in rassegna la giurisprudenza della Corte EDU, che ammette la
compatibilità convenzionale della pena perpetua solo a condizione che non privi il
detenuto del «diritto alla speranza»: una condizione che, come rilevato nella
sentenza Viola c. Italia, non si realizza per l’ergastolo ostativo. Decisivo il rilievo
che la dissociazione dall’ambiente criminale può essere desunta altrimenti che dalla
collaborazione con la giustizia.
L’analisi della Corte di Cassazione si rivolge, da ultimo, alla più recente
giurisprudenza della Corte costituzionale, nella quale, ovviamente, spicca per
importanza la sentenza n. 253/2019.
In definitiva, l’ordinanza Pezzino mette alle strette la Corte costituzionale. Una
pronuncia di rigetto esporrebbe la Corte ad un duplice rischio: quello di porsi in
contraddizione con se stessa e quello di dare adito a nuove condanne dell’Italia da
parte della Corte EDU.
Anche la Corte di Cassazione, dunque, ha fatto la sua parte nel tiro incrociato
sull’ergastolo ostativo.
6. Dalla Corte costituzionale possiamo in definitiva attenderci una pronuncia
di accoglimento: a chi sconta l’ergastolo ostativo, anche in assenza di
collaborazione con la giustizia, sta per essere riconosciuto, credo e mi auguro, il
«diritto alla speranza», di cui la liberazione condizionale è elemento essenziale.
Rimangono in ogni caso incertezze relative alla portata che avrà la
dichiarazione di illegittimità costituzionale, un problema di cui le relazioni
introduttive ci hanno mostrato le molteplici sfaccettature. In proposito, sottolineo,
con una piccola manipolazione, uno stringente rilievo contenuto nella Traccia per
la discussione e già richiamato da Glauco Giostra25: «rimossa… l’ostatività
penitenziaria per la tappa iniziale (il permesso-premio) e per quella finale (la
liberazione condizionale) del percorso trattamentale del detenuto… sarebbe del
tutto irragionevole mantenerla per le tappe intermedie», in primo luogo per le
misure alternative alla detenzione. La Corte costituzionale dovrebbe compiere ora
quel passo che non ha compiuto, in termini di illegittimità consequenziale, nella
sentenza n. 253/2019.
A maggior ragione mi attendo che la dichiarazione di illegittimità
costituzionale si estenda in via consequenziale a tutti i delitti di cui all’art. 4-bis,
comma 1, ord. penit., dunque andando oltre i delitti commessi avvalendosi del
metodo mafioso o per agevolare associazioni di tipo mafioso ai quali fa riferimento
l’ordinanza di rimessione: basterà in proposito rammentare che una scelta di
sollevata dall’ordinanza Pezzino, cfr. M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo è costituzionale?, cit.,
25
G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità, cit.
130
Emilio Dolcini
analogo tenore è stata compiuta dalla Corte costituzionale, a proposito dei permessipremio, nella sentenza n. 253/201926.
L’interrogativo più delicato che si pone per la Corte costituzionale riguarda
però il regime probatorio rafforzato che la stessa Corte ha previsto per il condannato
‘non collaborante’ in ordine «all’acquisizione di elementi che escludono non solo
la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo
di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e
ambientali». Sul piano sistematico non è pensabile che per l’accesso alla liberazione
condizionale vengano dettate regole meno stringenti di quelle stabilite per la
concessione dei permessi-premio. Tuttavia, a proposito dell’onere di
allegazione/prova riferito al pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità
organizzata, come è stato acutamente osservato, «il criterio formulato dalla Corte,
se preso rigorosamente alla lettera, si tradurrà in una probatio diabolica che
vanificherà gli effetti della pronuncia di incostituzionalità dell’obbligo di
collaborazione»27. Di qui l’esigenza di un’attenta riconsiderazione del problema:
per la condizione imposta al condannato si impongono, a mio avviso, maglie più
larghe.
Su questo punto è venuto un forte richiamo da parte di questo Seminario: se
otterremo attenzione al problema ad opera della Corte, avremo fatto oggi un lavoro
davvero prezioso.
26
La questione di legittimità costituzionale era stata infatti sollevata in relazione ai «delitti
commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare
l’attività delle associazioni in esso previste», mentre la dichiarazione di illegittimità ha riguardato,
in via consequenziale, tutti i delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, c.p.
27
Così G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità, Per una penetrante analisi della questione,
vedi inoltre D. GALLIANI, Un dialogo (immaginario) fra un ergastolano ostativo e un giudice
costituzionale, in questo stesso volume.
CORTE COSTITUZIONALE A “DUE VELOCITÀ”
E PROSPETTIVE DE IURE CONDENDO
di CARLO FIORIO*
SOMMARIO: 1. Una Corte mutevole? – 2. Soluzioni (minime) prospettabili.
1. In questo breve contributo non mi azzarderò a profetizzare i “futuribili”, né
a formulare congetture o a esprimere desiderata in riferimento alla valutazione
giurisdizionale della quaestio. Le due relazioni introduttive1 hanno già
compiutamente delineato tutte le ipotesi in modo esaustivo, preconizzando gli
scenari possibili.
Tuttavia, vorrei sottolineare – quale tema di possibile esplorazione – che la
giurisprudenza costituzionale dell’ultimo biennio, non solo ha evidenziato un
marcato disorientamento interpretativo in tema di “4-bis e dintorni”, ma, per certi
aspetti, ha confermato una preoccupante tendenza (esponenzialmente aggravatasi
in tempi di Covid) di progressiva neutralizzazione del convincimento giudiziale (e
quindi dell’indipendenza della magistratura) a favore dell’autoritarismo del potere
esecutivo.
Mi spiego. Quanto al primo aspetto (disomogeneità interpretativa) è agevole
rilevare come, ad eccezione di Corte costituzionale, sent. n. 32/2020, che ha
sconfessato il diritto vivente in tema di applicazione retroattiva di modifiche
penitenziarie peggiorative, le altre coeve pronunce (sent. n. 253/2019) siano state –
quantomeno nell’applicazione pratica – assolutamente meno decisive, vuoi per (e
uso un eufemismo) un’estrema prudenza nel calibrare gli oneri probatori2, vuoi per
l’occasione perduta di fare chiarezza all’interno della disordinata categoria dei
condannati “collaboranti”3.
Ma anche un altro fronte della giurisprudenza costituzionale – apparentemente
marginale a livello applicativo, ma assolutamente centrale quale indice di una Corte
a “due velocità” – è rappresentato dalle sentenze n. 188/2019 e n. 52/2020, ove è
stata prima affermata e poi ribadita l’irrilevanza dell’attenuante della «lieve entità»
del fatto nel subprocedimento di concessione dei benefici penitenziari disciplinato
dall’art. 4-bis ord. penit.
In queste due recenti decisioni, è significativo che i giudici costituzionali –
segnando una battuta d’arresto nell’opera di bonifica dei meccanismi preclusivi
caratterizzanti il “doppio binario” penitenziario – abbiano proposto una rilettura
funzional-strumentale della norma penitenziaria, disancorandola dalla sua
*
Ordinario di Diritto processuale penale, Università di Perugia.
V. G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? Spunti per una
discussione; M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo è costituzionale?, entrambi in questo volume.
2
Cfr. G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità, cit.
3
In prospettiva generale e di fondo, si rinvia a A. RICCI, Collaborazione impossibile e sistema
penitenziario, Cedam, Padova 2013, passim.
1
132
Carlo Fiorio
originaria – e tuttora rivendicata in sede politica – funzione di strumento principe
di contrasto al crimine organizzato.
Dipanate intorno al (discutibile) assunto del «contenitore» eterogeneo, in forza
del quale la primitiva vocazione emergenziale dell’art. 4-bis ord. penit. avrebbe
progressivamente lasciato spazio ad una macronorma «speciale» per fronteggiare
la pericolosità sociale di talune categorie di persone in vinculis, le due decisioni
hanno (troppo) sbrigativamente liquidato le quaestiones, reputando inconferente sia
il ruolo dell’attenuante sia il riferimento alla «criminalità organizzata».
2. Vorrei, tuttavia, soffermarmi maggiormente sul §8.1. della Traccia per la
discussione, relativa al «seguito legislativo della quaestio».
Come noto, la Relazione della Commissione parlamentare antimafia4, preso
atto dell’incompatibilità costituzionale delle preclusioni assolute in materia
penitenziaria (sent. n. 253/2019), delinea delle allarmanti prospettive de iure
condendo, prefigurando un nuovo “doppio binario”.
In particolare, per i delitti di “Champions” (associativi et similia) essa postula
il soddisfacimento degli onera probandi imposti dalla sentenza costituzionale n.
253/2019 (cioè a dire: l’acquisizione di «elementi tali da escludere, sia l’attualità di
collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali
collegamenti»); mentre, per quelli di “Europa League” (non associativi), rimane
vigente il comma 1-ter dell’art. 4-bis ord. penit., che richiede la prova
dell’insussistenza di elementi denotativi di collegamenti con la criminalità
organizzata, terroristica o eversiva.
Al di là della diversificazione degli oneri probatori, continua a destare
perplessità l’accentuazione del ruolo istruttorio delle procure antimafia e degli
organi prefettizi (CPOS), ai quali si aggiunge – sulla falsariga dell’esperienza
applicativa dell’art. 41-bis ord. penit.), il generalizzato (ed allarmante)
riconoscimento di una giurisdizione esclusiva del tribunale (speciale?) di
sorveglianza di Roma, motivata dall’esigenza di fugare «disorientamenti
giurisprudenziali», nonché la divaricazione tra giudice naturale e giudice “speciale”
in ragione del nomen delicti.
Sul piano delle ingerenze degli organi antimafia nella giurisdizione rieducativa
assicurata dalla magistratura di sorveglianza, le recenti novelle emanate nel pieno
dell’emergenza Covid hanno poi evidenziato un preoccupante deficit nella tutela
dei diritti delle persone detenute.
Segnatamente, i provvedimenti d’urgenza varati in tempo di pandemia,
imponendo alla magistratura di decidere «previa acquisizione» di pareri
amministrativi, mostrano come la prevalenza di logiche autoritarie sulla tutela
giurisdizionale dei diritti degradi la “fondamentalità” di taluni diritti di rango
costituzionale (nella specie: diritto alla salute) a mero interesse legittimo,
4
Cfr. COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL FENOMENO DELLE MAFIE E SULLE
ALTRE ASSOCIAZIONI CRIMINALI, ANCHE STRANIERE, Relazione sull’istituto di cui all’articolo 4-bis
della legge n. 354 del 1975 in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti
dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, consultabile nel sito dedicato al presente
Seminario, www.amicuscuriae.it
Corte costituzionale a “due velocità” e prospettive de iure condendo
133
condizionato dalle risorse – sempre più scarse e scadenti – messe a disposizione
dall’amministrazione penitenziaria e dalla sanità regionale5.
In una prospettiva de iure condendo, se, alla luce dell’attuale panorama
politico, l’abrogazione dell’art. 4-bis ord. penit. potrebbe apparire operazione
fantascientifica, al contrario, l’eliminazione delle prove “diaboliche” (ivi comprese
quelle coniate dal giudice costituzionale: sent. n. 253/2019) appare doverosa.
Personalmente, non mi limiterei all’introduzione di un onere di una non meglio
definita prova positiva circa l’attualità dei collegamenti con la criminalità
organizzata: si è già visto come la stessa, in tema di proroga dell’art. 41-bis ord.
penit. si sia rilevata poco più che una farsa nell’applicazione giurisprudenziale, ma
opterei per due soluzioni tra loro alternative.
La prima, a mio parere preferibile perché abrogativa dei gironi danteschi e
assolutamente rispettosa del principio del libero convincimento del giudice,
potrebbe prevedere l’eliminazione di tutte le forme collaborative [reali o
surrogatorie (irrilevante, impossibile, inesigibile ovvero inesistente)] e sancire che
i benefici compressi dai commi 1 e 1-ter dell’art. 4-bis ord. penit. possano essere
negati solo «nei casi in cui sia fornita la prova della sussistenza di elementi attuali,
concreti e specifici, fondati su circostanze di fatto espressamente indicate a pena di
nullità dell’ordinanza, che dimostrino in maniera certa l'attualità di collegamenti
con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».
Se, invece, “doppio binario” dev’essere, doppio binario sia.
La seconda soluzione6 potrebbe, più efficacemente, prendere in considerazione
[anche] comportamenti indicativi di un’effettiva risocializzazione, quali, ad
esempio, per i delitti di “Champions”, «i comportamenti oggettivamente ed
univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo, ripudiando la
violenza e la forza di intimidazione come metodo per la commissione dei reati [e
dimostrando] il definitivo distacco dall’organizzazione criminale di appartenenza»,
mentre, per quelli di “Europa League”, la dimostrazione, «con comportamenti
concreti, di volersi adoperare in condotte riparative in favore delle vittime del reato,
dei loro familiari o della comunità civile, generando significativi risultati in termini
di ricomposizione dei conflitti, di mediazione sociale e di positivi cambiamenti di
vita».
5
Così, da ultimo e per tutti, A. NATALONI, Pandemie e carcere: diritto alla salute ed esigenze
di ordine e sicurezza pubblica, in Proc. pen. e giust., 2020 (in corso di pubblicazione).
6
Testualmente, M. BORTOLATO, La libertà di 'non collaborazione': verso l’abolizione
dell’ergastolo ostativo, in G. GIOSTRA- P. BRONZO (a cura di), Proposte per l’attuazione della
delega penitenziaria, Sapienza Università Editrice, Roma 2017, 155-156.
UN DIALOGO (IMMAGINARIO)
TRA UN ERGASTOLANO OSTATIVO
E UN GIUDICE COSTITUZIONALE
di DAVIDE GALLIANI*
- Buongiorno giudice.
- Buongiorno a lei.
- Complimenti per la n. 253/2019.
- Perché?
- Per i suoi argomenti, tanto incisivi.
- Davvero?
- Sul diritto al silenzio Viola n. 2 v. Italia era stata in silenzio. Voi no. Lasciamo
alla cognizione il silenzio come diritto, avete scritto. Ma nessuno può negare che
ogni detenuto, ergastolano ostativo compreso, abbia la libertà di non collaborare.
- Ci crediamo. L’ordinamento penitenziario non può disconoscere ad alcuno la
libertà di non collaborare.
- Sembra di ascoltare Cesare Beccaria. Non lo amo moltissimo, per ciò che
pensava della pena perpetua. Ma ne capiva di tortura e dignità umana.
- Discendiamo tutti dagli illuministi.
- Non vi siete risparmiati nemmeno sul regime ostativo. Riscrivereste ogni
cosa?
- Ho già capito dove vuole arrivare.
- Della liberazione condizionale, se vuole, ne parliamo dopo. Però sul regime
ostativo siete stati incisivi come un punteruolo: prefigura una sorta di scambio, tra
informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di
accedere al normale percorso di trattamento penitenziario.
- Sembrano tutto sommato ovvietà.
- Meglio tardi che mai.
- Le decisioni in questi ambiti non sono facili.
- Sono tutto orecchie.
- La Corte ha diversi interlocutori: legislatori, giudici, avvocati, pubblici
ministeri, professori universitari, anche il Capo dello Stato quando promulga o
emana con rilievi. E poi l’opinione pubblica. Quando trattiamo questioni
riguardanti la mafia ogni cosa è più complicata. E se qualcuno ci descrive come un
inutile carrozzone, da chiudere al più presto? Lo sa che a Strasburgo gli Stati
iniziano a non pagare più il contributo, che significa meno giuristi in quella Corte?
- Sta dicendo che a Palazzo della Consulta il clima sui giornali gioca un qualche
ruolo, e che state a sentire le sparate di qualche politico?
- Non sto dicendo questo. Noi abbiamo i nostri precedenti: siamo nani sulle
spalle di giganti. Partiamo da una ordinanza di remissione, che, tranne rare
eccezioni, costituisce il perimetro entro il quale possiamo muoverci. Ad esempio,
*
Associato di diritto pubblico, Università degli Studi di Milano.
Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale
135
usiamo la illegittimità consequenziale solo se il sistema perderebbe di coerenza o
se il vulnus di tutela risulterebbe insopportabile.
- Il peculato ostativo insegna. E poi?
- Ascoltiamo le parti, oggi anche i nuovi terzi intervenienti, importanti come
una buona scarpa per un maratoneta.
- Immagino, anche se non posso correre.
- Amiamo la collegialità, una straordinaria risorsa. Ci ritiriamo in camera di
consiglio e dentro non entra niente. A volte litighiamo, a volte va liscia. Ma,
mettiamola così: non siamo marziani, la Consulta non sta su Marte. Per quanto sia
massimo il tentativo dell’indipendenza, non siamo robot, ma uomini e donne in
carne e ossa.
- Lo scriveva Carlo Esposito rispetto al Capo dello Stato, l’altra garanzia
costituzionale rimasta.
- Non vorrei passare per uno psicologo, ma il nostro cervello ragiona sempre
influenzato da qualcosa. Serve governare l’influenza, nasconderla o negarla non
serve a nulla. Uno psicologo israeliano ha vinto il Nobel per l’economia sostenendo
che la scelta razionale cede il passo al nostro essere troppo umani.
- Sta dicendo che l’indipendenza del giudice è prima di tutto un valore morale?
- Lo abbiamo anche scritto in una sentenza del 1989 sulla responsabilità civile
del giudice.
- Mi ha rassicurato. Iniziavo a pensare che il §9 del Considerato in diritto della
n. 253 fosse una sorta di rassicurazione rivolta al contesto. Una specie di istinto di
sopravvivenza della Corte, onde evitare di essere paragonata ad un inutile
carrozzone, che nulla capisce di mafia. Vi avrei compreso: un quotidiano, dopo
Viola n. 2, ha scritto in prima pagina «hanno riammazzato Falcone e Borsellino»,
con tanto di foto che ritraeva l’aula di udienza pubblica a Strasburgo, seduti cinque
giudici, al cui fianco primeggiavano due gigantografie, una di Falcone e l’altra di
Borsellino.
- Le ripeto. Siamo esseri umani, non robot, ma non esageri, altrimenti dialoghi
con un giornalista.
- Provo a riformulare. Esistono due anime nella n. 253. Una di queste sembra
spaventata, preoccupata. Magari sbaglio riferendomi al contesto, forse è l’influsso
di Leonardo Sciascia, del quale ho letto tutto. Ma allora è una sorta di compromesso
raggiunto in camera di consiglio?
- Insinua che il §9 sia stato inserito perché altrimenti la sentenza sarebbe stata
di rigetto magari con monito o di incostituzionalità differita?
- Più o meno. Esiste un modo per eliminare dalla faccia della terra le
insinuazioni: introducete le opinioni separate.
- Pensa che siamo insensibili al tema?
- No, ma prima lo fate prima potrete evitare le insinuazioni.
- Un giudice costituzionale, quando era in carica, nel 1964, curò un libro intero
sulle opinioni dissenzienti. Membro della Costituente, era uno dei più importanti
costituzionalisti del secondo dopoguerra. Delle opinioni dissenzienti ne parliamo
da tempo, ma le opinioni sono differenti.
- Capisco bene che la collegialità sia una risorsa straordinaria, e che alcuni di
voi penseranno che, introducendo le opinioni separate, possa danneggiarsi.
136
Davide Galliani
Tuttavia, non è vero che, potendo scrivere in dissenso, un giudice non miri alla
collegialità. Dove esistono le opinioni dissenzienti continuano ad esistere le
decisioni unanimi.
- Dice che un giudice prima ascolta i colleghi e dopo cerca di convincerli e,
solo alla fine, se rimane della sua idea, vota contro e stende la sua opinione
separata? In questo modo, la ricerca della collegialità sarebbe garantita.
- E la conseguenza sarebbe anche quella di evitare la presenza in sentenza di
due anime contrastanti.
- Se ne intende di giustizia costituzionale.
- Tutto avrei pensato, tranne che di occuparmi di giustizia costituzionale.
- Non faccia del sentimentalismo.
- Per il diritto posso smettere di essere un delinquente, ma per la gente è
difficile comprendere che anche un detenuto può masticare la giustizia
costituzionale. Però, pure voi, quanto a sentimentalismo, non scherzate, andando
nelle scuole e nelle carceri.
- Lasciamo stare. Pensi che inizio a leggere commenti che quasi ci rinfacciano
questi viaggi.
- Non dia retta. Ci sarà sempre chi dirà che la Corte va preservata, tutelata, che
non si deve aprire. Lasciate stare gli amici curiae, i viaggi nelle carceri e nelle
scuole, le opinion dissenzienti: chiudetevi a Palazzo, fate il vostro lavoro, e basta.
- A me interessa che le aperture siano meditate. In ogni caso, chi vivrà vedrà.
- Si vede che non ha mai parlato con un ergastolano ostativo. Per me, e per
molti come me, chi vivrà vedrà è un augurio di sventura. Ogni giorno che resto in
vita è un giorno in più di galera, non uno in meno. Non la farò finita, anche se il
pensiero mi è balenato nella mente tante volte.
- Non ho parole.
- Ho visto di tutto. Praticamente tutte le carceri italiane, basta fossero lontane
da casa. Direttori coraggiosi e altri semplici burocrati. Lo stesso gli educatori:
alcuni bravi, altri meno. E la polizia penitenziaria: non posso dire di aver trovato
una seconda famiglia, ma a volte mi sembra che anche loro siano detenuti. Ho visto
tanto, a parte i magistrati di sorveglianza.
- Volevo dire che per ogni modifica serve tempo, che usiamo per valutare pregi
e difetti.
- Non si preoccupi. In ogni caso, mi ha convinto. Ci manca solo che anche la
Consulta finisca nel tritacarne mediatico, che ci si metta a fare le pulci nella vita
personale di un giudice costituzionale, partendo da un suo dissenso.
- Immagini poi le nomine di origine parlamentare.
- Però, una cosa voglio dirla. Voi usate il ragionamento, la persuasione.
Argomentate, non stramazzate. Potete sbagliare (mi vergogno a dirlo), ma insomma
usate gli strumenti del diritto, che non implicano sete di vendetta. Non dovete
arringare nessuna folla, se non quella della ragione. Leggere una vostra sentenza è
interessante.
- Secondo lei tutti leggono le nostre sentenze?
- A leggere quello che certi giornalisti scrivono, direi di no. Io le posso dire
solo una cosa: in carcere le vostre sentenze sono lette. Ogni singola parola, frase,
pagina. Se entrano, ovvio. A volte mi capita di trovare più piacere nel leggere una
Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale
137
vostra sentenza che un romanzo di Charles Dickens, il mio autore preferito. Con
Grandi speranze e La piccola Dorrit sono evaso.
- Mi fa piacere, per le nostre sentenze intendo.
- Non esageriamo. Non sempre è un piacere.
- Ci saranno cose migliori da fare nella vita.
- Lei ha una immagine strana del carcere. Non la biasimo. La verità è che solo
un detenuto ha reale contezza di cosa sia la privazione della libertà personale, altro
che lockdown.
- Già.
- E la Costituzione è così penetrante sul tema perché scritta da persone che in
carcere ci sono state. Tanti nostri costituenti hanno poi lasciato memorie, diari,
autobiografie. Scrivono che, nonostante tutto, hanno appreso molto dal carcere, ad
esempio l’importanza della forma.
- Tutti kelseniani i nostri costituenti.
- Anche quando hai un solo millimetro di libertà residuale, a quel millimetro ti
aggrappi e lo fai valere, proprio perché scritto nero su bianco. L’autorità di un
regolamento, scriveva Giancarlo Paietta.
- Si chiama legalità.
- L’ho conosciuta stando in carcere. Ho imparato pure ad usare il diritto per
scrivermi i ricorsi, fino a quando la Cassazione per la legittimità non mi ha
obbligato ad avere un avvocato. Tocca ammettere che la galera mi ha salvato la vita.
- Strano a dirsi, ma ho compreso.
- Piuttosto. Posso abusare della sua pazienza e chiederle chiarimenti sul §9 del
Considerato in diritto?
- Non è chiaro?
- Perché lo avete scritto? Il Professor Glauco Giostra ha notato una cosa.
Sostenete che è la stessa Costituzione il fondamento dal quale siete partiti per
introdurre, accanto alla già esistente attualità dei collegamenti con la criminalità
organizzata, anche il nuovissimo pericolo di ripristino. Ma, dice il Professor
Giostra, non è un caso che la Corte non indichi da quale articolo della Costituzione
prende le mosse.
- Capisco. Prevenire la commissione di nuovi reati, quindi difendere la società,
non ha esplicita base costituzionale. Alcuni discutono iniziando dall’art. 2, altri
dalla carcerazione preventiva. Di certo, la Costituzione è reo-centrica, quindi
concetti come difesa della società possono essere estrapolati solo in chiave di
interpretazione sistematica. In ogni caso, mi sento di dirle che, nel momento in cui
la sorveglianza svolge il bilanciamento, uno dei due piatti della bilancia misura la
pericolosità sociale.
- Siamo alle prese con una immanenza, categorica. Mi viene in mente Kant: la
mia libertà finisce dove inizia la tua. Se la persona è socialmente pericolosa, il
magistrato negherà il beneficio o la misura. Mi spingo avanti, se posso.
- Prego.
- Intanto, le chiederei subito questo. Per lei è giusto considerare inammissibile
una istanza nella quale il detenuto non allega granché sul pericolo di ripristino? Che
il detenuto abbia un onere di allegazione è giusto. Se chiedo una cosa, devo anche
allegare del materiale per permettere di decidere. Tuttavia, la sorveglianza può
138
Davide Galliani
procedere d’ufficio, nel momento in cui le allegazioni sono insufficienti. Ma una
cosa è procedere d’ufficio, integrare la documentazione e rigettare l’istanza. Altra
cosa dichiararla inammissibile. Del resto, non a caso le cause di inammissibilità
sono tassative.
- Mi sembra abbia ragione, anche se lo dico da giurista, non da giudice
costituzionale.
- Bella distinzione.
- Ogni cosa che dico deve essere calibrata.
- Come quella di ogni giurista.
- D’altro canto, il convincimento del giudice è frutto di un laborioso mettere
insieme materiale di diversa provenienza: le allegazioni di chi domanda, le note e
le informative delle autorità coinvolte e, appunto, gli approfondimenti operati dallo
stesso giudice. E poi, lei è un detenuto: non per questo ha sempre ragione,
assolutamente no, ma, proprio perché detenuto, un lavoro importante di
completamento rispetto a quello che allega spetterà ad altri, la parte pubblica e
specie il giudice.
- Come la ascolto volentieri. Sa cosa mi è capitato una volta? Ho fatto reclamo
ex art. 35-ter ord. penit.: per due anni e mezzo ero stato detenuto nel carcere X in
cella di 10 metri quadrati con quattro detenuti. Vuole sapere cosa mi ha risposto il
giudice?
- Che il trattamento era inumano e degradante.
- Mi ha detto che il carcere gli aveva risposto che non teneva gli archivi dei
detenuti passati di lì.
- Non ci credo.
- Potrei raccontarle per ore storie simili, nelle quali chiedono a me di provare
una cosa senza che io possa farlo.
- Mi piacerebbe leggere queste sentenze.
- Siamo al medioevo informatico, in sorveglianza.
- Ho capito. Ma a me sembra evidente. Una cosa è una istanza del tutto priva
di allegazioni. Qui sarei per la inammissibilità. Ma in tutti gli altri casi, nel momento
in cui le allegazioni sono scarne, ma esistenti, il giudice deve decidere nel merito.
- Perfetto. Ne approfitto. Non serve essere un rinomato giurista per rendersi
conto che provare l’inesistenza di qualcosa, ossia l’inesistenza dell’attualità dei
collegamenti, non è la cosa più facile del mondo. Alcuni la chiamano diabolica.
- Può avere anche ragione, ma sul punto nulla abbiamo detto nella n. 253.
Rivolga le sue rimostranze al legislatore, a quello del 1991, un legislatore
costituzionalmente orientato. Il primo decreto legge, appunto quello del 1991, che
ha introdotto il 4-bis, è stato proposto dal Ministro di Grazia e Giustizia, il cui
direttore degli affari penali era Giovanni Falcone.
- Su questo, niente da dire. Giovanni Falcone aveva una intelligenza non
comune, in terza media tradusse Pinocchio in latino. Strano, non lo ricorda mai
nessuno, ma Falcone, agli inizi, svolse anche funzioni di magistrato di sorveglianza.
Di sicuro, aveva il senso del limite, il senso costituzionale. Però, non posso
rivolgermi al legislatore rispetto al pericolo di ripristino. Se fosse previsto in una
legge, ci sarebbero dubbi di costituzionalità, il primo dei quali per violazione della
Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale
139
legalità intesa come tassatività. Avendolo inserito voi della Corte, ho solo una
possibilità: convincervi che qualcosa non torna.
- Mi vengono in mente le infinte vie del Signore.
- Siete la cuspide. Dopo di voi non esiste più nulla. Altro non posso fare che
esprimerle alcune perplessità. Non vorrei tirare in ballo la Corte di Strasburgo,
anche perché, quando ci condanna, nove volte su dieci ce la siamo cercata.
- Mi dica, il nostro è un dialogo vero, quello cui pensava Guido Calogero.
- Cosa è il principio di tassatività? Anzi, vorrei prenderla larga. Le piace
ragionare per principi?
- Bella domanda. La interpretazione della legge e quella della Costituzione
hanno tratti comuni. Non di meno, lo abbiamo scritto in alcune sentenze, se si
interpreta la Costituzione, la lettera è la partenza.
- Lo start di una corsa ad ostacoli.
- Questo anche perché, a differenza della legge, la Costituzione, per
definizione, è un testo pieno di quelli che lei chiama principi. Anche sostenendo,
correttamente, che la Costituzione si deve interpretare in modo sistematico, il punto
non cambia. Pertanto, la mia risposta è questa: non interessa se piaccia o meno, con
i principi si deve fare i conti, quando si interpreta la Costituzione.
- Ci sono principi o anche regole, in Costituzione?
- Ha una laurea in legge, in scienze politiche?
- Alcuni detenuti che conosco, anche ergastolani ostativi, sì. Entrambe. Io no.
Ma, come le ho detto, in carcere si leggono le sentenze della Corte. Impariamo in
cella il diritto costituzionale penale.
- Torniamo a noi.
- Le chiedevo dei principi e delle regole.
- Per alcuni, la regola è qualcosa di immediatamente operativo, specie in
termini di sanzione. Un principio chiede specificazione. Ad esempio: quando la
Costituzione afferma che è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone
comunque sottoposte a restrizioni di libertà, sembra di essere al cospetto di una
regola, non di un principio, che ritroviamo altrove.
- E che regola, l’unico istinto punitivo dei nostri costituenti del quale è rimasta
traccia nel testo.
- Sempre alle regole mi viene da pensare quando si legge che le pene non
possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Come vede, non
serve alcuna specificazione.
- Basta essere un detenuto o anche una persona libera, ma con buon senso.
- Lasciamo stare i sensi.
- Prendiamo il metro?
- Proviamo a forgiare una massima di questo tipo.
- Non stimo i forgiatori, figurarsi di massime.
- Se li faccia andare bene, ogni tanto. Quando la Costituzione nega che si possa
fare qualcosa, il campo è delle regole. Altrimenti, dei principi. Prenda l’art. 25: ogni
suo comma inizia con nessuno può essere. Siamo vicini alle regole, è qualcosa più
dei principi.
- Ma la tassatività è una regola o un principio?
140
Davide Galliani
- Sarei per dire un principio, nonostante tutto. Non perché non esiste
esplicitamente in Costituzione, quanto perché necessita di una qualche
precisazione, come i principi. Forse ha un suo nocciolo duro, la prevedibilità. Direi
che la tassatività è un principio composto da componenti più e meno forti.
- Come i semafori: esiste il rosso, il giallo, il verde. Al rosso ti fermi, al giallo
ti dovresti fermare, al verde non ti fermi. A cosa serve il giallo, la tassatività?
- La prima funzione è permettere ad una persona di orientare liberamente il
proprio comportamento, al fine di non incorrere in una sanzione, in qualsiasi
sventura non prevedibile. La tassatività sta al libero arbitrio come il salvagente ad
una persona che non sa nuotare.
- Il libero arbitrio. Esiste?
- Per quanto la realtà stia lì a dimostrarci che nascere nel posto X non è eguale
che nascere nel posto Y, noi dobbiamo credere al libero arbitrio. Altrimenti salta
tutto il sistema. Ma proprio perché dobbiamo credere di essere tutti e sempre in
grado di scegliere, dobbiamo essere tassativi nel prevedere ciò che non si può fare,
quindi la sanzione in caso di violazione.
- Una sanzione penale o una sanzione in generale?
- La Costituzione, quando afferma che nessuno può essere punito, se non in
forza di una legge, entrata in vigore prima del fatto commesso, si riferisce al campo
penale.
- E quello penitenziario? Queste somme distinzioni mi inquietano. Sembrano
fatte apposta per dividere la seria A dalla serie B. Il penale sostanziale dal
processuale, la cognizione dall’esecuzione, la legittimità dal merito, i vincoli
comunitari dagli obblighi internazionali. La più grande castroneria è la distinzione
tra fatto e diritto, entrambi, senza persone, gusci vuoti. Non so dove ci condurrà
questo estenuante bisogno di classificare.
- Vede un futuro nero?
- Per fortuna, Alessandro Pizzorusso ha scritto che il diritto costituzionale è
una disciplina di frontiera. L’esigenza di specializzazione ha scavato una fossa
mortale al sapere. Conosciamo tutti di più, ma sappiamo tutti di meno.
- Le piace Ferdinando Camon. Comunque. Mi sta domandando se la tassatività,
figlia della madre legalità, riguarda anche la fase esecutiva, il trattamento
penitenziario?
- Mi interessa saperlo.
- Fino a poco tempo fa, rispetto alla irretroattività, la risposta era negativa. Di
recente, presumo lo sappia, abbiamo rimeditato la tematica, a fronte di un diffuso
disagio nella giurisprudenza. Nella n. 32 del 2020, risolvendo una dozzina di
ordinanze, e usando Strasburgo, casi statunitensi, riferimenti alla Francia, diciamo
questo: quando una legge non prevede alcuna disposizione sul regime temporale, e
quando gli effetti di questa legge incidono su natura, qualità e quantità della pena
in concreto applicabile al momento del reato, deve valere la irretroattività.
- Deve valere significa che è una regola?
- Lei è curioso, e testardo.
- Sono stato un delinquente, e tra i delinquenti ci sono persone curiose, e
testarde. E altre meno.
- Va bene, la perdono.
Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale
141
- Che verbo significativo.
- Mi lascia finire?
- Certo. Non si arrabbi però. Tra i delinquenti o gli ex delinquenti esistono
anche quelli che ogni tanto scherzano. Come tra i magistrati. Mica sono tutti seriosi,
esistono anche gli spiritosi seriali.
- Dicevamo. Di recente, la Corte ha esteso il divieto di retroattività anche al
campo dell’esecuzione penale. Ci siamo subito ritornati. La soluzione è stata la
stessa, anzi la n. 193 del 2020, sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina,
è ancora più netta. Esiste una sola interpretazione possibile, una sola compatibile
con la legalità-irretroattività: la questione di costituzionalità non è fondata, deve
valere il divieto di retroattività. Non tornate più alla Corte, interpretate il silenzio
del legislatore escludendo la retroattività.
- Che coraggio.
- Un principio di civiltà, di uno Stato di diritto.
- Allora siamo d’accordo. La tassatività, essendo un principio di civiltà al pari
della madre legalità, deve valere anche in fase di esecuzione della pena. Non
aggiungo altro sul divieto di retroattività. Basti pensare al concorso esterno. Agli
ostativi che diventano tali per volere della sorveglianza, non perché scritto in
condanna. Per non dire dell’aggravante dell’art. 7, valida retroattivamente, con ciò
che ne consegue sul regime penitenziario. D’altro canto, commetto un reato nel
1980, nel 1991 nasce l’ostatività, bizzarro (incostituzionale) applicarla anche a me:
non è che si riducono le ore al passeggio, cambia e di molto la natura della pena.
Qui mi fermo, se no dovrei parlare pure dei reati non associativi, ma di gruppo,
come ha fatto la Cassazione.
- Meglio fermarsi.
- Sulla tassatività qualcosa ancora. Se significa possibilità di prevedere la
conseguenza dei propri comportamenti, non le sembra che il pericolo di ripristino
del quale parlavamo sia un poco carente?
- Mi chiarisca la sua idea.
- Il discorso sull’attualità dei collegamenti è semplice, si fa per dire. So che la
sorveglianza, se intrattengo oggi dei collegamenti, mi negherà il permesso. Posso
ora concederti un permesso, anche se non hai collaborato e potevi farlo, ma non ho
acquisito elementi tali da escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità
organizzata. Partiamo pure dal presupposto, solo presupposto, che le autorità
coinvolte forniscano informazioni dettagliate, individualizzate, riguardanti la mia
persona. Io cercherò di dimostrare le mie ragioni, ma alla fine funziona sempre così:
a volte convinci il giudice, altre volte no. Farò ricorso al tribunale e poi in
Cassazione. Normale amministrazione, che riguarda i miei problemi di oggi, i fatti
attuali.
- Quindi?
- Se ora si chiede di provare anche l’esclusione del pericolo di ripristino dei
collegamenti, non riesco a capire. Mi sembra evidente il problema tassatività. Che
non è solo mio, ma anche del giudice.
- Continui.
142
Davide Galliani
- Io posso allegare, con difficoltà, per escludere l’attualità dei collegamenti. Ma
non ho chiaro cosa significhi escludere il pericolo di ripristino. Cosa devo fare, cosa
mi si chiede di fare?
- Vada avanti, la ascolto.
- Sono in crisi. Il pericolo di qualcosa che potrebbe capitare non comprendo
bene cosa sia. Ma questo sono io. E il giudice che dovrà valutare? Dove è il
perimetro, il limite della sua discrezionalità? Torniamo al punto: e la tassatività? In
tanti dicono che i giudici si allargano troppo, di fronte alla legge cercano giustizia.
Io non generalizzerei. Ma ammettiamo la preoccupazione: è il caso di aprire ai
giudici una prateria?
- Proviamo a fare chiarezza.
- Serve.
- Partiamo da un assunto. Anche se la Corte non è il legislatore, pure su di noi
incombe l’onere della tassatività. Non solo quando scriviamo una motivazione, ma
anche e soprattutto quando redigiamo il dispositivo, che spesso è un pezzettino
aggiunto ad una disposizione. Incastoniamo in una disposizione un altro pezzettino
di disposizione, quindi onori (siamo legislatori positivi) ed oneri (dobbiamo essere
tassativi).
- Non sapevo della vostra somiglianza così stretta con il legislatore, ma voglio
capire il suo discorso.
- Anche in carcere si deve sapere come comportarsi. Però non sarei allarmato,
come sembra lei. In fondo, quando abbiamo scritto il pericolo di ripristino
intendevamo introdurre una sorta di pericolosità specifica. Qualcosa in più della
pericolosità già presente nell’attualità.
- Siamo al terzo binario della pericolosità. Quello normale, vagliato dal giudice
per ogni beneficio o misura. Quello specifico, sull’attualità. E poi questo nuovo, sul
pericolo di ripristino. Un binario tira l’altro, il doppio diventa triplo. In ogni caso,
il pericolo di ripristino non si riesce a provare perché è una valutazione, non un
fatto, e le prove o allegazioni che siano concernono fatti.
- Mi lasci finire. Per noi il pericolo di ripristino significa chiedere alla
sorveglianza una prognosi particolarmente rigorosa.
- Questo l’ho capito.
- Quindi di cosa si lamenta?
- La discrezionalità del giudice è come il buco di una ciambella. Grande o
piccolo, lo decidono i pasticcieri (legislatore, Consulta), ma senza il contorno la
ciambella sparisce, diviene altro, un bombolone. A me sembra che il requisito del
pericolo di ripristino sfumi talmente tanto il perimetro da trasformare la ciambella
in un bombolone. E quindi la discrezionalità del giudice in qualcosa di diverso. Non
mi faccia dire in arbitrio, ma la discrezionalità senza tassatività consegna un potere
enorme al giudice.
- Legge Ronald Dworkin.
- Quando sente dire che in carcere il tempo non manca è vero. Se sei
ergastolano ostativo ti auguri che la durata della vita media torni a essere quella
degli anni cinquanta del Novecento. Mi facessero lavorare. Invece leggo, dalla
mattina alla sera, roba tosta: Alberto Moravia, Ignazio Silone, Blaise Pascal,
Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale
143
Norbert Elias, Herman Hesse, Emmanuel Mounier, Pierre Bourdieu, Marilynne
Robinson, ovviamente Charles Péguy.
- Allora non faccia troppo la vittima.
- Vero, io sono il reo. O ero reo?
- Gioca con le parole.
- Non è vietato.
- Direi che è un suo diritto.
- Finché non lo dicono le sezioni unite, sto cauto.
- Torniamo ai nostri discorsi. Sono sicuro, a questo punto, che abbia letto come
è andata a finire la storia del vivere onestamente e rispettare le leggi.
- Dopo Raymond Carver, non ho letto niente che mi abbia più impressionato,
per l’accumulo di dettagli particolari e specifici.
- Ammetto. La I sezione della Cassazione si era data da fare per tassativizzare
quella prescrizione che nulla prescriveva. Sia lodata la I sezione.
- Sempre sia lodata.
- Ad un certo punto, per motivi incomprensibili agli umani, si tirano in ballo le
sezioni unite, che sganciano la bomba. Ordinano ai giudici di disapplicare la legge,
nella parte in cui prescrive di vivere tutti buoni e acquattati, rispettando le ottime
leggi. A questo punto, sempre per motivi che non tutti gli umani possono
comprendere, un’altra sezione, di quella stessa Corte, solleva questione di
costituzionalità, e arriviamo noi della Consulta che mettiamo la parola fine:
incostituzionale.
- Un romanzo, tra il gotico e il romantico. Non vorrei però aspettare anni di
giurisprudenza di legittimità tassativizzante, anche perché non ho idea se tutto possa
essere tassativizzato, iniziando dal pericolo di ripristino. Spero mi comprenda: sono
entrato ventenne, ne ho quaranta, non è che possa attendere i sessanta. Altrimenti
meglio fare come in America Latina, abolire l’ergastolo e introdurre una pena
determinata di quaranta anni.
- Ne parli al legislatore.
- Buonanotte.
- Non disperi. E non abbia fretta, che diamine. Deve avere fiducia nella
magistratura.
- Facile a dirsi, ma ci provo. Ma il problema del pericolo di ripristino non
riguarda solo il detenuto, spaesato. Non riguarda nemmeno solo il giudice, che
potrebbe sentirsi, in alternativa, il giudice Ercole (che tutto può) o il giudice Aergia
(la dea greca della pigrizia). Ho timore che, se non si ripensa il pericolo di ripristino,
la conseguenza sarà che il comitato ordine pubblico, le procure, le direzioni
antimafia e la procura nazionale, che potrebbero intervenire in materia, senza mai
potere di veto, riprodurranno note e informative generiche, standardizzate,
stereotipate.
- Abbiamo scritto anche questo: le informazioni devono essere dettagliate,
stringenti.
- Entra da un orecchio ed esce dall’altro, se entra. D’altro canto, siete entrati a
gamba tesa negli ambiti della sorveglianza, quasi trattandola come una magistratura
minorenne. Non dico inaffidabile, ma sembra che qualcosa vi abbia autorizzato a
trattarla come magistratura sotto osservazione.
144
Davide Galliani
- Dice?
- Come no. A volte comunque penso sia la stessa sorveglianza a cercarselo.
- Che strano mondo, iniziando dal nome, che tutti rinnegano, ma poi nessuno
cambia.
- Sia quel che sia, dato che in sorveglianza non tutti sono Sandro Margara, che
rispediva al mittente le informative che non informavano, il giudice avrà di fronte
questo scenario. Io che allego chissà cosa per dire che non esiste pericolo di
ripristino dei collegamenti e le autorità che diranno che il clan non è distrutto, anzi
è ancora attivo. Nulla su di me, nulla di individuale, ma appunto: se il tema è il
pericolo di ripristino, basterà dire che il clan non è smantellato.
- Non era così anche per l’attualità?
- Si e no. Intanto, non abbiamo molta giurisprudenza a proposito. E questo
perché le collaborazioni impossibili, irrilevanti, inesigibili, riconosciute ad
ergastolani ostativi, sono poche. Così come pochi sono coloro che hanno utilmente
collaborato con la giustizia, grosso modo lo stesso numero degli ergastolani ostativi.
In ogni caso, ci sono delle cose che quelle sono e quelle rimarranno. Ad esempio,
l’indagine patrimoniale, il sostentamento della famiglia. Continuerà a non mancare
il nostro albero genealogico: se ho avuto un colloquio con un mio parente, risultato
imputato per un reato della galassia di quelli mafiosi (non le dico condannato, basta
l’imputazione), ecco che arriva l’attualità dei collegamenti. La vedo perplesso.
- Sta pensando al divorzio o a cambiare cognome?
- La mia è una corsa ad ostacoli, ma non demordo, cerco di allegare. Quello
che mi si chiede è dimostrare, o meglio, convincere il giudice che oggi, lo
sottolineo, oggi, i collegamenti (che sono fatti) non esistono più.
- Mi sta dicendo che se questo è complicato con l’attualità, diviene
particolarmente difficile nel momento in cui lei deve allegare per dimostrare che è
escluso il pericolo di ripristino dei collegamenti.
- Intendo dire che non vedo come si possa tassativizzare. Non mi riferisco tanto
al ripristino, ma proprio al pericolo di ripristino. Sa cosa penso?
- Cosa?
- La sorveglianza sta diventando sempre più giudice della pericolosità e sempre
meno della rieducazione. Lo ha scritto il Professor Francesco Palazzo, una grande
persona, un grande giurista, un grande penal-costituzionalista.
- D’accordissimo. A parte la brutta parola.
- Il penale moderno nasce costituzionale. Oggi non vi è penalista serio che non
possa dirsi anche costituzionalista serio. La parola è brutta, ma il senso è che ha
vinto Franco Bricola.
- Anche Ettore Gallo, partigiano, presidente della Consulta.
- Che stima.
- E i costituzionalisti, come li vede?
- Se si interessano di penale come i penalisti di costituzionale, siamo a posto.
- Riprendiamo.
- Almeno, nella collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile, la sentenza
di condanna era il limite della discrezionalità della sorveglianza. Ora il limite dove
sta? Il pericolo di ripristino non ha limiti. Ha presente la medicina difensiva, il
medico che, per paura di sbagliare, prescrive ogni medicina, così se ne lava le mani?
Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale
145
Noi in carcere la conosciamo. Temo che sarà così anche in sorveglianza: per non
saper né leggere né scrivere, il pericolo di ripristino sarà la medicina difensiva dei
giudici.
- Si stava meglio quando si stava peggio?
- Spero si sia capito che non avete cancellato la impossibile, inesigibile,
irrilevante. Ma converrà: dire che è più semplice la collaborazione impossibile,
inesigibile, irrilevante della non collaborazione suona come una beffa. Come a dire:
la n. 253 non serve a niente, visto che nel primo caso basta l’attualità, mentre nel
secondo serve anche il pericolo di ripristino. Tutto questo mi rende perplesso, anche
perché non ho mai stimato la collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante, da
voi introdotta.
- Che criticone.
- Una clamorosa violazione dell’eguaglianza. Se il reato per il quale puoi
collaborare è prescritto, entri nel girone del purgatorio, in vista del paradiso. Se non
è prescritto, resti in quello dell’inferno. Da cosa dipende? Dal caso, dalla fortuna.
- Il problema prescrizione non esiste più.
- Vedremo. Poi guardi, ma è meglio lasciare stare.
- Dica.
- Esisteranno sempre due cose. La prima sono i giudici della cognizione precisi
e profondi, e quelli confusi e superficiali. Capisce cosa significa in termini di
collaborazione impossibile?
- La seconda?
- Esisteranno delle zone d’ombra fino a quando esisterà lo Stato.
- Non la seguo.
- Capita che non si dia la collaborazione impossibile perché restano da chiarire
delle cose, che spesso hanno a che fare con gli intrecci tra mafia e Stato.
- Continuo a non seguirla, anche se ho sempre ammirato moltissimo Pippo
Fava.
- Pensi ai mandanti di un omicidio di mafia, alla capacità delle mafie di riunirsi
a grappolo e disarticolarsi in ogni via di ogni paese. Ha presente cosa significa
ragionare in termini di zone d’ombra?
- Mi sta dicendo che, se vuole, il giudice, in un modo o nell’altro, troverà il
modo per negargli la collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante?
- Perfetto. E mi rassicura la giurisprudenza di legittimità più recente, secondo
la quale, in caso di zone d’ombra, non bisogna riconoscere l’impossibilità della
collaborazione, ma serve una motivazione rinforzata per negarla, in ossequio al
favor rei e all’oltre ogni ragionevole dubbio.
- Come ci stiamo allargando.
- Per quanto mi possa rassicurare la Cassazione, resta il fatto che le
organizzazioni criminali di stampo mafioso sono un intreccio di reticoli
inestricabili, che toccano i piani alti del potere. Si figuri, quindi: io posso anche
essere una persona ricreduta, ma siccome, per quanto piccolo o grande, ero dentro
questo infernale ingranaggio, qualcosa da dire alla giustizia ci sarà sempre. Si stava
meglio quando si stava peggio? Se prima esistevano confini sfumati, con il pericolo
di ripristino vedo una prateria, non vedo alcun confine, non vedo il fine e quindi la
fine della mia pena.
146
Davide Galliani
- Ma se in condanna vi è scritto che non è chiaro se sul luogo del delitto è
andato da solo a piedi o accompagnato in auto, mi sta dicendo che questa zona
d’ombra porta a negare la collaborazione impossibile?
- Le dico che non dovrebbe essere così, ma vada lei a spiegare in sorveglianza
e in alcune sezioni della Cassazione che il favor rei e l’oltre ogni ragionevole dubbio
riguardano anche la serie B, la fase esecutiva, non solo la seria A, la cognizione.
- Non ama le distinzioni, le classificazioni. Sembra studiare all’università.
Comunque, una cosa mi sembra chiara: lei vuole uscire di galera. Converrà con me
che, se frapponiamo al suo ritorno in società qualche cautela, non stiamo attentando
alla Costituzione.
- Sarà, ma il secondo capoverso del §9 del Considerato in diritto della n. 253
mi turba.
- Non esageri.
- Come superare la presunzione non più assoluta? Scrivete: non certo in virtù
della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso
rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione. Mi
sembra di leggere una intervista ad uno dei soliti pubblici ministeri o ex pubblici
ministeri, quelli che sanno solo loro di mafia.
- Offende.
- Se si offende vuol dire che il problema esiste. Intanto, va bene, la regolare
condotta non basta, ma se in carcere combino un danno dopo l’altro, forse è meglio
la regolare condotta.
- Alcuni dicono: i mafiosi sono tutti buoni ed educati in carcere.
- Una fesseria. Si pensa siano tutti uguali, invece non sono tutti uguali. Fossero
tutti uguali, avremmo sconfitto la mafia da tempo.
- Andiamo avanti.
- La mera partecipazione al percorso rieducativo? Che significa mera? Di quale
percorso parlate? Ho sbagliato, questo lo dice la condanna e lo dico anche io. Ma
sul percorso rieducativo non esageriamo. Se mi avessero dato più trattamento avrei
fatto di più. Non scrivete più la mera partecipazione alla rieducazione. Una briciola
di pane in carcere vale al pari di un diamante, a chi piacciono.
- Non volevamo sminuire niente.
- Dovevate scrivere diversamente.
- E poi?
- Discutete di una soltanto dichiarata dissociazione. A voi sembra facile fare
quella che chiamate una soltanto dichiarata dissociazione? Le mura delle carceri
parlano. Se intendete che non basta un pezzo di carta con scritto mi dissocio, non
era necessario dirlo. In sorveglianza non sono fessi.
- Ci mancherebbe.
- Decidono sul 41-bis, sulla collaborazione impossibile, sul 35-bis ord. penit.,
insomma, si occupano dalla mattina alla sera di mafia.
- Non facile il mestiere di giudice in sorveglianza.
- Quanto parlano i fenomeni dell’antimafia. Pensi che Giovanni Falcone,
quando era già al Ministero, prima di accettare una collaborazione con un
quotidiano, andò a casa di Norberto Bobbio a chiedere consigli.
- Non dilatiamoci.
Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale
147
- Ha ragione. Però quel capoverso appena citato è strano. L’ho ricordato perché
stavamo parlando di pericolo di ripristino. Vedrà che arriveranno le decisioni della
sorveglianza che diranno: l’attualità non esiste, esiste il pericolo di ripristino. In
fondo, stai in carcere da venti anni, a centinaia di chilometri da dove abitavi, anche
per questo il comitato ordine pubblico mi ha detto che non sa chi sei. Attualità zero.
Però dalle informative (non sempre univoche) si può desumere che esistono dei
movimenti per ricostituire il clan al quale appartenevi o che è ancora esistente.
Meglio non rischiare, del resto non è che mi posso basare sulla sola regolare
condotta e sulla mera partecipazione alla rieducazione. Poi non hai mai collaborato,
il permesso si nega: pericolo di ripristino.
- Ho capito il ragionamento. Non di meno, non capisco cosa c’entri il fatto che
non abbia collaborato, dato che è una sua libertà farlo.
- Nemmeno io. Come pure non capisco perché si voglia desumere qualcosa
dalla professione di innocenza.
- In quanto tale è un fatto, coperto dalla libertà di non collaborare.
- Non dico che la professione di innocenza debba essere sempre intesa come
distacco dal clan, ma intenderla come non ancora matura rieducazione mi pare assai
sbagliato.
- Siamo verso la fine, devo tornare in Corte.
- Anche io devo tornare, in cella. Volevo chiederle qualcosa sul prossimo caso,
riguardante la liberazione condizionale, non il permesso premio.
- Non si pone limiti, ma probabile che, se fossi al suo posto, farei ancora più
domande. Essere giurista è essere curiosi, inquisitori, indiscreti.
- Quando mi ricapita di dialogare con un giudice costituzionale. Lo sa che dei
1.271 ergastolani ostativi credo che il 90% abbia chiesto almeno una volta la
collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante? E lo sa che, facendo due calcoli,
sempre di questi 1.271, la maggioranza è in carcere da più di due decenni?
- Traduca.
- Non sto dicendo che oggi tutti gli ergastolani ostativi hanno soddisfatto il
requisito temporale per domandare la liberazione condizionale. Tutti no, ma quasi
tutti probabile. Di certo quello del permesso, quasi certo quello della semilibertà,
verosimile quello della liberazione condizionale. Ne conosco alcuni che hanno
anche sei anni di liberazione anticipata, che non ti danno in automatico, ma se hai
dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione.
- Che parole nell’ordinamento penitenziario. Opera di rieducazione, ad
esempio.
- L’altro giorno ho letto Arthur Schopenhauer, secondo il quale la prima regola,
e forse l’unica, del bello stile è che si abbia qualcosa da dire.
- I dati che citava li conosco, il problema è strutturale. La Corte di Strasburgo
non ha usato la pilota solo perché erano depositati pochi ricorsi.
- Sarà d’accordo che basta la nostra Costituzione.
- Rispettarla significa rispettare la Convenzione.
- Avrei moltissime altre cose.
- Ci sto prendendo gusto. A volte curiosare è curare. Magari ancora due o tre
cose.
148
Davide Galliani
- Ho capito che il permesso è un beneficio, mentre la liberazione condizionale
una misura alternativa, che, se va bene, estingue la pena. La liberazione
condizionale modifica la natura della pena, a differenza del permesso.
- Casi uguali trattamenti uguali, casi differenti trattamenti differenti. Permesso
e liberazione condizionale sono differenti, quindi trattamenti differenti. Però esiste
l’ambito riservato al legislatore.
- Vero, ma esisteva anche rispetto ai permessi.
- Prendo nota.
- A proposito. Conosce il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia?
- Non è un tema del quale si discute molto.
- Mi basta dirle una cosa. In commissione antimafia è andato il procuratore
nazionale antimafia, dicendo che il sistema protezione va riformato. Servono
personale, esperienza, professionalità. Uno dei problemi maggiori è l’automatismo.
- Anche lì?
- Proprio così. Ti fanno indossare un camice non ritagliato su chi sei, ma uguale
per tutti i 1.200 collaboratori e i 4.800 famigliari. Poi vi è dell’altro, la burocrazia,
la sensazione di essere abbandonato.
- Che peccato.
- Non lo dica a me. In molti decidono di non collaborare anche perché lo Stato
italiano non è in grado di essere più forte della mafia. La mafia è intelligente, lo
Stato a fasi alterne. La mafia non dimentica, lo Stato ti spreme e una volta spremuto
si dimentica di te. Caro giudice, la mafia è una montagna di merda, come diceva
Peppino Impastato. Ma a volte mi viene da pensare che la vita di un collaboratore
di giustizia sia un inferno tanto quella di un ergastolano ostativo, quindi faccia lei.
- Io non faccio niente, prendo appunti.
- E allora le dico ancora che sulla liberazione condizionale la competenza è
sempre collegiale, del tribunale. Magari questo potrebbe indurvi a non estendere il
pericolo di ripristino dal permesso alla liberazione condizionale.
- Non le dico che la strada sia segnata. Le dico che alla Corte saremo cauti.
- Ho detto del tribunale, invece del magistrato, perché in apertura ha detto che
la collegialità è una risorsa straordinaria. In sorveglianza è pure multidisciplinare.
- Mi segno tutto.
- Inoltre, esiste la libertà vigilata, automatica e fissa per ogni ergastolano.
Sempre e comunque, dura cinque anni. Non è la stessa cosa di avere delle
prescrizioni da rispettare, come nel permesso. La libertà vigilata è esattamente
quello che sembra: una libertà a metà. Non un secondo carcere, ma se fai un
minuscolo errore, arrivederci, quasi addio.
- Mi vuole dire che la diversa natura, i diversi requisiti sostanziali, la
collegialità e la libertà vigilata automatica di cinque anni dovrebbero indurci a
ripensare il pericolo di ripristino, nel momento in cui la questione sarà la liberazione
condizionale, non il permesso?
- Sempre non vogliate sollevare questione di costituzionalità dell’automatismo
e della fissità della libertà vigilata per gli ergastolani. Potrebbe essere coerenza con
la vostra giurisprudenza in tema di automatismi e fissità, che stanno alla
individualizzazione come Victor Hugo alla superficialità.
- Lasciamo stare la fantascienza.
Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale
149
- Vero, anche perché, dovesse lasciarsi campo libero alla sorveglianza, ci
ritroveremo con liberi vigilati a vita, e così l’americanizzazione della penisola
sarebbe completa.
- L’idea mi solletica. Non gli americani, non la loro cultura penalistica. Ma
qualcosa di sensato in quello che dice esiste. Esisteranno ergastolani da vigilare per
tre anni, altri per cinque, altri per sette. Che bella cosa l’individualizzazione.
Teniamoci l’automatismo, eliminiamo la fissità.
- Accetto. Per me è una sfida. Convincerò il giudice che bastano tre anni invece
di cinque, sapendo che potrebbe vigilarmi per sette. Ma altri automatismi proprio
non li sopporto. In quanto ergastolano, mi hanno privato della potestà genitoriale.
Quasi a dirmi che tanto sarò un cattivo padre e tanto dal carcere non uscirò mai.
- Chi era questo legislatore?
- Quello fascista.
- Esiste ancora quella previsione?
- Sì, anche se a nessuno interessa, eppure la cognizione dovrebbe essere la serie
A.
- Stiamo al tema, però.
- Dimenticavo, il nostro tema è l’ergastolo ostativo, non quello ordinario, sul
quale stranamente si fa fatica anche solo a domandare una opinione.
- In che senso?
- Si può chiedere ad un magistrato cosa ne pensa della pena di morte, ma le
cose cambiano rispetto alla pena perpetua. Per non imbarazzare nessuno abbiamo
finito di porci le domande. Pazzesco. Una volta un pubblico ministero mi ha detto
che chiedeva l’ergastolo per evitare una guerra civile.
- Il silenzio forse dipende anche dal fatto che la pena capitale non è ammessa
dalla Costituzione, mentre della pena perpetua non se ne parla.
- Come avviene con la tortura.
- Comunque, stiamo andando in lungo e in largo.
- Tornando a noi. Non fate rientrare dalla finestra quello che avete fatto uscire
dalla porta, il tipo di autore non può tornare a vivere sotto forma di pericolo di
ripristino. Il pericolo è il ripristino della presunzione assoluta, il partecipe sempre
partecipe.
- Possiamo fermarci. Il dialogo è stato interessante.
- La ringrazio. Mi sono sentito importante.
- Non si dimentichi le vittime.
- Ha ragione. La Costituzione è uno scudo per i detenuti, ma anche per le
vittime.
- La Costituzione è di tutti.
- Ho tradito la Costituzione. Non ho mostrato alcuna solidarietà, nei confronti
di nessuno. Ho messo davanti a tutti solo me stesso. Ho trattato le persone come
oggetti, finendo in questo modo per ledere la loro e la mia dignità.
- Proprio così.
- Vorrei dimostrare che la persona del reato è lontana, cambiata. Non è facile,
ho distrutto vite. Mi chiedo però a cosa serva tenermi rinchiuso qui dentro fino alla
fine dei miei giorni. L’ergastolo ostativo non ha niente di retributivo. Posto che, per
me, la scelta di collaborare non sempre dipende dalla sua utilità, se avessi
150
Davide Galliani
collaborato sarei fuori da decenni. Non posso fare altro che chiedere scusa,
spiegando perché ho capito di aver sbagliato.
- Esatto.
- Che sia scritto o meno in una legge, è la cosa giusta da fare. Tocca il nostro
essere persone. Ho un sacco di dubbi a proposito. Ho paura di far soffrire ancora i
famigliari delle vittime.
- Lo comprendo, è umano.
- Il timore è la premessa della concentrazione. Ce la metterò tutta. Ho capito
che la comunità è costituita in larga misura da un amore immaginativo per persone
che non conosciamo o conosciamo appena. Che la comunità non sopravvive se
ragioniamo in termini di noi e loro.
- Ineccepibile.
- Non voglio fare del sentimentalismo, che va evitato. Non voglio però
rinnegare i sentimenti, che sono inevitabili. I miei sono questi, una profonda
irrequietezza per come potranno i famigliari delle vittime comprendere ciò che ho
da dire.
- Lina Merlin diceva che la vita è un continuo trascendersi, porsi dei limiti e
superarli. Continui a leggere i nostri costituenti e della buona letteratura.
- Ora sto leggendo un diario di un direttore di carcere. Non vedo l’ora di leggere
libri scritti da giudici sulla loro esperienza alla Corte.
- Quali sono i suoi orizzonti?
- Qualunque siano, sono ristretti.
- Ma lei ha fede?
- Ho speranza.
- Prosegua il ravvedimento.
- Sicuro.
DIRITTO ALLA SPERANZA E PRECLUSIONI ASSOLUTE.
UNA COMPARAZIONE CON L’ORDINAMENTO LITUANO
IN CHIAVE “PREVENTIVA”
di GIACOMO GIORGINI PIGNATIELLO1
SOMMARIO: 1. La quaestio legitimitatis. – 2. Il peso specifico del precedente Viola n°
2 nell’ordinamento italiano. – 3. Parlamento e Giudice delle Leggi: un rapporto
complesso. – 4. Suggestioni baltiche: la Repubblica di Lituania. – 5. La disciplina
dell’ergastolo nell’ordinamento lituano ante 2019. – 6. Il caso Matiošaitis. – 7. Le
riforme della Seimas. – 8. La sentenza Dardanskis. – 9. Questioni aperte e auspici.
1. A meno di un anno di distanza dalla pronuncia Viola c. Italia n° 2 della Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo e dalla sentenza n. 253/2019 della Corte
costituzionale italiana, il Giudice delle Leggi in data 3-18 giugno 2020 veniva
nuovamente adito con ricorso incidentale dalla prima sezione penale della Corte di
Cassazione. Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale della presunzione
assoluta di legge che preclude in specifiche ipotesi l’accesso alla liberazione
condizionale del condannato non collaborante con la giustizia che abbia commesso
alcuno dei gravi reati, detti appunto “ostativi”, indicati all’art. 4-bis
dell’ordinamento penitenziario (l. n. 354 del 1975). Assume il legislatore che la
mancata utile collaborazione, laddove possibile e oggettivamente non irrilevante,
costituisca di per sé prova invincibile, non soggetta all’accertamento giurisdizionale
– caso per caso - da parte della magistratura di sorveglianza, della mancata assenza
di ogni legame con l’ambiente criminale di appartenenza. Da tale circostanza
l’ordinamento fa discendere iuris et de iure la perdurante pericolosità sociale del
condannato, il quale, di conseguenza, non può beneficiare della liberazione
condizionale, che, è bene rammentarlo, costituisce un momento fondamentale per
la graduale risocializzazione del detenuto. Il combinato disposto degli articoli 4bis, comma 1 e 58-ter l. n. 354 del 1975 e art. 2 d.l. n. 152 del 1991, convertito con
modificazioni in l. n. 203 del 1991, che preclude l’accertamento in concreto della
pericolosità sociale del condannato, si porrebbe allora – ad avviso del giudice a quo
– in contrasto con gli articoli 3, 27 e 117 della Costituzione, che delineano il volto
costituzionale della sanzione penale nell’ordinamento repubblicano.
2. L’incidente di costituzionalità in commento tuttavia non giunge come un
fulmine a ciel sereno, ma anzi era ampiamente atteso.
Nel più ampio contesto del Consiglio d’Europa, infatti, si è andata
consolidando una nutrita giurisprudenza della Corte EDU in tema di diritto alla
speranza (Right to hope), che ha di fatto contribuito in parte a demolire e in parte a
Dottorando di ricerca in Scienze Giuridiche, Università di Foggia-Siena.
152
Giacomo Giorgini Pignatiello
riscrivere la disciplina del carcere a vita (Life imprisonment) nel Vecchio
Continente, relegandolo a ipotesi del tutto residuali.
Proprio recentemente l’Italia nel caso Viola sopra ricordato è stata condannata
per la preclusione assoluta di legge che non permetteva all’ergastolano ostativo non
collaborante di accedere alle misure, quali permessi premio e liberazione
condizionale, che ne consentono un graduale reinserimento nella società. Osservano
i Giudici di Strasburgo che, da una parte, «la mancanza di collaborazione potrebbe
essere non sempre legata ad una scelta libera e volontaria, né giustificata
unicamente dalla persistenza dell’adesione ai “valori criminali” e dal mantenimento
di legami con il gruppo di appartenenza»; dall’altra «si potrebbe ragionevolmente
essere messi di fronte alla situazione dove il condannato collabora con le autorità,
senza che tuttavia il suo comportamento rifletta un cambiamento da parte sua o una
“dissociazione” effettiva dall’ambiente criminale, in quanto l’interessato potrebbe
agire con l’unico proposito di ottenere i vantaggi previsti dalla legge». Ne deriva
che «l’immediata equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione
assoluta di pericolosità sociale finisce per non corrispondere al reale percorso
rieducativo del ricorrente». Precludendo in forza di una irragionevole equivalenza
l’accesso del condannato a percorsi per il reinserimento nella società, il legislatore
finisce per congelarne la personalità al momento della commissione del reato e nega
ogni speranza di liberazione futura, in patente violazione dell’art. 3 CEDU.
La decisione Viola pende dunque come una spada di Damocle sulla disciplina
italiana che non è stata interessata da alcuna riforma legislativa sul punto. Allo
stesso tempo, esercita sulla giurisprudenza costituzionale una notevole influenza
posto che l’art. 3 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, assurge a parametro
interposto di costituzionalità, giusta l’invocazione da parte del giudice a quo
dell’art. 117 Cost. D’altro canto, la Consulta con la sent. n. 253/2019, dichiarando
l’incostituzionalità della preclusione assoluta che negava agli ergastolani ostativi
non collaboranti l’accesso ai permessi premio, operando un significativo revirement
del proprio consolidato orientamento, sembra aderire senza eccezioni di sorta ai
principi enunciati in tema di diritto alla speranza dai Giudici di Strasburgo.
3. In via preliminare occorre anzitutto rilevare l’insostenibile inerzia del
legislatore italiano rispetto ad una riforma complessiva del sistema delle pene, che
in determinate ipotesi portano ancora i segni di una tecnica normativa di
derivazione autoritaria o emergenziale, in palese contrasto coi principi di un
ordinamento costituzionale democratico, come ben dimostra il caso della
collaborazione con la giustizia per l’ergastolano ostativo, che si pone per
quest’ultimo come una condicio sine qua non, processualmente invincibile, per
poter sperare in un graduale reinserimento nel consorzio civile. La propensione alla
“delega” al Giudice delle Leggi da parte di un Parlamento, che decide di non
decidere quando è il momento di disciplinare temi cc.dd. sensibili, finisce inoltre
per generare una forte tensione con il principio democratico e il principio di
separazione dei poteri dello Stato.
Le operazioni di ortopedia giuridica della Consulta, anche in tema di ergastolo,
sono ormai note e l’ordinanza in commento non smentisce questa tendenza. Per
Diritto alla speranza e preclusioni assolute
153
ragioni di spazio non è possibile in questa sede soffermarsi con la dovuta attenzione
sullo strumento dell’ordinanza (sentenza?) a tempo, profondamente divisiva in
dottrina. Recentemente coniata ex novo dalla Corte costituzionale, in risposta alle
sempre più frequenti questioni ad alta densità politica “delegatele”, non può più
essere considerata un mezzo riservato a casi eccezionalissimi, come dimostra la sua
ultima applicazione (ord. 132/2020).
Posto che l’ostatività costituisce nell’ordinamento italiano un tema
politicamente molto delicato, poiché rappresenta il più potente strumento di
incentivo alla collaborazione con la giustizia nel caso di reati ritenuti
particolarmente pericolosi per la stessa esistenza dello Stato, viene spontaneo
chiedersi se la Consulta riterrà anche in questo caso di offrire al legislatore
un’ultima chance per riformare l’istituto in parola. In caso affermativo, in che
termini deferirà la questione al legislatore e cioè quanto la Corte nella propria
ordinanza entrerà nel merito in ordine alla legittimità/non legittimità costituzionale
delle norme impugnate? L’ordinanza a tempo è uno strumento rispettoso del
principio di separazione dei poteri oppure svilisce la libertà del Parlamento di non
decidere? Eccede i poteri costituzionalmente attribuiti alla Corte costituzionale o
rientra in una fisiologica evoluzione dell’armamentario del Giudice delle Leggi?
4. In ottica “preventiva”, la comparazione ben si presta in questa occasione ad
offrire interessanti spunti di riflessione per un eventuale superamento di quelle
preclusioni legislative assolute che in materia di ergastolo ostativo ostacolano de
iure e de facto una piena affermazione del diritto alla speranza nell’ordinamento
italiano.
A tal proposito recentemente la Repubblica di Lituania è stata destinataria di
alcune pronunce della Corte EDU che hanno indotto la Seimas, il Parlamento
monocamerale lituano, a riformare la disciplina dell’ergastolo, in modo da rendere
la legislazione nazionale conforme agli standards di cui all’art. 3 CEDU. Dopo una
prima condanna (Matiošaitis and Others v. Lithuania, 2017), in un secondo tempo
la Corte EDU ha constatato il rispetto dei parametri convenzionali da parte della
nuova normativa lituana (Dardanskis v. Lithuania, 2019). Il legislatore nazionale
ha infatti avuto il coraggio di assumere decisioni politiche impopolari, in un
momento di cavalcante populismo penale, non rimettendo tale spinosa operazione
nelle mani della Corte costituzionale. La dinamica tutta parlamentare che ha portato
alla riforma dell’ergastolo nel sistema lituano, nel solco di una fisiologica centralità
del legislatore, rende la nuova disciplina della liberazione condizionale per i
condannati al carcere a vita un caso di studio degno di approfondimento in
prospettiva de iure condendo per l’Italia, chiamata presto a prendere posizione sul
punto.
5. Nel 1990, dopo un lungo periodo di occupazioni straniere e resistenza
armata, la Lituania proclamava la propria indipendenza e nel 1992 entrava in vigore
la Costituzione della Repubblica di Lituania. Nel 1998 la Corte costituzionale
dichiarava l’incostituzionalità della pena di morte prevista dal vecchio codice
154
Giacomo Giorgini Pignatiello
penale del 1961, ritenendola in contrasto con l’art. 21 §3 della Costituzione, che
proibisce le punizioni crudeli. Pochi giorni dopo, la Seimas approvava un
emendamento col quale convertiva tutte le ipotesi di pena di morte in ergastolo.
Il nuovo codice penale del 2003, attualmente in vigore, prevede l’ergastolo solo
nei casi più gravi, quali l’omicidio aggravato, i crimini contro l’umanità e i crimini
di guerra, i reati che offendono l’unità o la stessa esistenza dello Stato e alcune
fattispecie legate alla tutela della sicurezza pubblica. L’articolo 77 del nuovo codice
penale prevedeva altresì che il condannato all’ergastolo non potesse usufruire né
della liberazione condizionale, né di altro beneficio penitenziario che potesse
attenuare il regime carcerario. La preclusione a tali benefici per l’ergastolano era
confermata anche da una successiva riforma del 2012 in tema di liberazione
condizionale (Probacijos įstatymas) e dall’art. 158 §1(3) del Codice
dell’esecuzione penale.
Gli unici casi in cui l’ergastolano poteva sottrarsi al carcere a vita erano la
malattia terminale, la disabilità mentale e la grazia presidenziale. Disciplinata
dall’art. 84 della Costituzione e dall’art. 79 del Codice penale, quest’ultima si
configura come un provvedimento di carattere morale fondato su ragioni di
umanità. Nell’ultima formulazione del 2011 la stessa poteva essere richiesta
dall’ergastolano solo dopo 10 anni di reclusione. Sentito il parere non vincolante
della Commissione per la grazia, il Presidente della Repubblica, parte del potere
esecutivo come chiarito dalla Corte costituzionale, nell’assumere la propria
decisione, visto il d.P.R. “Sull’esame delle richieste di grazia” (Dėl malonės
prašymų nagrinėjimo tvarkos) del 1993 e successive modificazioni ed integrazioni,
doveva tener conto di fattori quali: la natura del reato commesso e la sua pericolosità
per la società, la personalità del condannato, la sua condotta e la sua attitudine al
lavoro, il tempo già passato in prigione, l’opinione delle autorità carcerarie,
l’opinione delle organizzazioni non governative e dei precedenti datori di lavoro
del condannato, l’avvenuto risarcimento del danno causato e altre circostanze. Il
provvedimento di grazia non è motivato e in caso di diniego non può essere
riproposta una nuova istanza prima di sei mesi. Non sono previste forme di appello.
6. Con la pronuncia Matiošaitis la Corte EDU ribadiva alcuni principi, tra i
quali in questa sede vale soprattutto la pena ricordare che:
1) La legge, qualora ne sussistano i presupposti, deve consentire a tutti i
detenuti, inclusi gli ergastolani, l’accesso alla libertà condizionale2.
2) La possibilità di convertire l’ergastolo in altra pena più mite a causa di una
malattia terminale del condannato non può essere considerata una prospettiva di
liberazione (prospect of release).
3) L’amnistia non può essere vista come una misura in grado di offrire al
detenuto una prospettiva di mitigazione della condanna o di liberazione. Inoltre, in
quanto provvedimento di portata generale, non interviene sulla riabilitazione e sulla
risocializzazione del condannato;
Cfr. Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sulla libertà
condizionale, Rec(2003)22 del 24 settembre 2003.
2
Diritto alla speranza e preclusioni assolute
155
4) In base al diritto internazionale il termine massimo per il riesame delle
ragioni di difesa sociale che legittimano il mantenimento del condannato in carcere
è fissato dalla Corte in venticinque anni.
5) Il diritto del detenuto ad un riesame della sua situazione (Right to review)
comporta una verifica effettiva delle informazioni rilevanti che lo riguardano per
valutare se sussistono legittime ragioni penologiche che giustificano il suo
mantenimento in carcere.
6) La riabilitazione nella società del condannato è un principio sancito in
molteplici fonti internazionali e nella consolidata giurisprudenza della Corte di
Strasburgo. Gli Stati membri sono dunque incoraggiati a perseguire tale obiettivo.
La Corte ha altresì sottolineato che il fatto che un detenuto abbia già trascorso
molto tempo in carcere non incide in alcun modo sul dovere dello Stato di
proteggere la collettività, se la sua pericolosità sociale perdura. Allo stesso tempo,
però, riconosce che anche chi si è macchiato dei crimini più efferati conserva la
propria dignità umana e la capacità di cambiare. Ne consegue che per quanto possa
essere lunga e meritata la reclusione, i condannati non possono comunque essere
privati del diritto di sperare che un giorno i reati da loro commessi potranno
considerarsi estinti. Negare loro la speranza equivarrebbe ad annientare una parte
fondamentale della loro umanità e ciò sarebbe degradante ed inumano.
Gli Stati contraenti – aggiungono i Giudici di Strasburgo - godono in materia
di politica criminale e penitenziaria di un ampio margine di apprezzamento. Spetta
dunque a questi ultimi scegliere quale forma - governativa o giudiziaria – deve
assumere il procedimento di riesame della situazione del condannato. Affinché
quest’ultimo possa conoscere che cosa deve fare per potere accedere alla
liberazione e a quali condizioni, dovrebbero essergli rese note le motivazioni della
decisione assunta dall’Autorità procedente e ciò dovrebbe essere garantito –
afferma la Corte - in forza di un procedimento giudiziario (by access to judicial
review). Strasburgo, lungi dall’essere neutrale, sembra dunque esprimere una chiara
preferenza per il controllo giurisdizionale.
Nel caso Matiošaitis la grazia presidenziale è stata infine ritenuta non conforme
agli standards dell’art. 3 CEDU, in ragione della poca trasparenza dei parametri
adottati per valutarne la concessione, dell’insufficienza delle garanzie procedurali
e dell’insussistenza de facto di una reale prospettiva di liberazione dell’ergastolano.
7. Cogliendo le censure mosse dalla Corte EDU, la Seimas nel marzo 2019
approvava una serie di emendamenti che hanno dato vita ad un procedimento
bifasico di riduzione della pena. Dapprima, l’Autorità giudiziaria può convertire
l’ergastolo in pena a tempo determinato. Successivamente, il condannato può
chiedere di essere ammesso alla liberazione condizionale (release on parole).
L’attuale disciplina prevede che l’ergastolano, dopo almeno venti anni di
reclusione, può presentare istanza all’amministrazione penitenziaria affinché
formuli una proposta di conversione della pena, da perpetua a termine, al Tribunale
del luogo in cui il condannato si trova detenuto.
Svolta un’indagine sociale sul condannato (socialinis tyrimas), se ricorrono i
presupposti necessari, entro venti giorni dalla ricezione dell’istanza,
156
Giacomo Giorgini Pignatiello
l’amministrazione penitenziaria formula la proposta di conversione al Tribunale,
che si pronuncia in composizione collegiale (tre giudici). La Corte si pronuncia
sempre con sentenza motivata. Il pubblico ministero e un rappresentante
dell’amministrazione penitenziaria devono essere presenti all’udienza, mentre il
condannato o il suo avvocato, così come la vittima del reato o il suo avvocato è
sufficiente che siano citati a comparire. In caso di diniego della conversione,
l’istanza non può essere riproposta prima di un anno dalla decisione. Tutte le parti
processuali possono però appellare la sentenza della Corte.
In caso di conversione, la nuova pena da scontare non può essere inferiore a 5
né superiore a dieci anni di reclusione. Nel proprio giudizio la Corte deve tener
conto: del rischio di recidiva, della condotta tenuta dal condannato durante
l’esecuzione della pena in carcere, dello scopo della condanna e del suo impatto sul
condannato, della riparazione da parte del condannato del danno causato o in caso
in cui solo parte di esso sia stato risarcito che si sia civilmente obbligato all’integrale
risarcimento.
Ai sensi dell’art. 157 del Codice penale l’ergastolano al quale è stata convertita
la pena può proporre istanza di liberazione condizionale solo dopo aver scontato
almeno metà della nuova sanzione a tempo irrogata e solo qualora stia
correttamente seguendo le misure predisposte nel piano individuale di
riabilitazione, il rischio di recidiva è basso e/o i progressi fatti durante il programma
per la riduzione del grado di recidiva consentono di ritenere che seguirà le
prescrizioni impartite e non commetterà nuovi reati.
8. Nella successiva sentenza Dardanskis v. Lithuania i Giudici di Strasburgo,
prendendo atto delle riforme intraprese dalla Seimas, hanno giudicato all’unanimità
la nuova disciplina conforme agli standards previsti dall’art. 3 CEDU. La Corte in
particolare ha valutato positivamente che:
1) La conversione della pena avviene con decisione giurisdizionale.
2) Il termine minimo di 20 anni per il riesame è congruo rispetto ai parametri
internazionali.
3) L’ergastolano può partecipare attivamente alla procedura di riesame.
4) Il Tribunale si pronuncia con sentenza motivata.
5) La decisione del Tribunale può essere appellata.
6) I criteri per verificare il ravvedimento del condannato e la sussistenza di
legittime ragioni penologiche che ne consentano il mantenimento in carcere sono
oggettivi.
La Corte EDU ha altresì apprezzato il fatto che la Seimas ha saputo valorizzare
l’esigenza dell’ergastolano di un continuo processo di riabilitazione e
risocializzazione, consentendo l’adozione di misure individualizzate sempre più
progredite per raggiungere tali obiettivi, anche dopo che la condanna perpetua è
stata convertita in pena a tempo determinato, con la prospettiva di una possibile
liberazione condizionale e di un eventuale reinserimento dello stesso nella società.
Diritto alla speranza e preclusioni assolute
157
9. Il caso lituano dimostra dunque la possibile realizzazione, in conformità col
diritto alla speranza delineato dalla Corte EDU, di un controllo giurisdizionale
effettivo, non ostacolato da preclusioni assolute ex lege, che permette ai giudici di
valutare in concreto la sussistenza delle legittime ragioni penologiche che
giustificano il mantenimento in carcere dell’ergastolano.
L’assenza di automatismi sanzionatori non comporta affatto un indebolimento
dei mezzi per la lotta al crimine. Al contrario consente un più rigoroso controllo
sulla reale pericolosità sociale dei detenuti, evitando distorsioni e abusi di una
disciplina legale che rischia di essere miope, perché rigida e predeterminata, come
evidenziato dalla stessa Corte EDU nel caso Viola. Il diritto alla speranza non si
pone dunque in contrasto con le necessità di difesa sociale perseguite dallo Stato,
semmai le rafforza.
In questo senso il lungo cammino intrapreso dalla Corte costituzionale italiana
verso la piena attuazione del principio rieducativo della pena sembra andare proprio
in tale direzione, come da ultimo dimostrato con la sent. n. 253/2019. La perdurante
minaccia allo Stato proveniente da una criminalità organizzata in continua
trasformazione ed espansione rende tuttavia estremamente difficile per il legislatore
italiano emanciparsi da previsioni normative che, seppur irragionevolmente
afflittive, conservano dal 1992 un’alta valenza simbolica e rassicurante per la
società. Nel bilanciamento dei valori in gioco prevarrà dunque, anche in questo
caso, il razionale elemento risocializzante della pena oppure verranno rievocate le
teorie polifunzionali della sanzione criminale, che facendo leva su fumose logiche
legate alla sicurezza dell’ordine giuridico pongono in secondo piano la dignità
umana? L’Italia riterrà preminente il diritto alla speranza, principio di civiltà
giuridica condiviso dagli Stati membri del Consiglio d’Europa, oppure farà valere
ragioni di specialità della nostra criminalità, isolandosi e differenziandosi in peius
dalle altre politiche penitenziarie europee, rischiando così anche possibili dinieghi
di estradizione?
L’auspicio è che il Parlamento italiano si riappropri delle funzioni che
costituzionalmente gli appartengono, provvedendo ad una riforma strutturale
dell’esecuzione penale. Nel caso in esame, la preclusione iuris et de iure impugnata
dal giudice a quo merita di essere espunta dall’ordinamento, in quanto radicalmente
incompatibile con il principio di rieducazione della pena, pilastro dello Stato
costituzionale democratico di diritto. Mi pare che l’ordinanza a tempo, nella
fisiologica evoluzione delle tecniche decisorie della Corte costituzionale, richiami
il potere legislativo, in uno spirito di leale collaborazione, ai propri compiti
istituzionali, non lasciando allo stesso tempo impregiudicate le istanze di giustizia
costituzionale che le pertengono e delle quali, attraverso tale nuovo strumento, non
rischia di spogliarsi.
NESSUNO PUÒ ESSERE OBBLIGATO
AD AUTO-ACCUSARSI
di PATRIZIO GONNELLA
Prima di tutto intendiamo ringraziare gli organizzatori del Seminario per
l’invito e per i contenuti emersi oggi dalle relazioni e dagli interventi.
Avvalendosi della recente riforma delle Norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale - introdotta dalla Corte con sua deliberazione dell'8
gennaio 2020 - che consente a «le formazioni sociali senza scopo di lucro e [a]i
soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione
di costituzionalità» di presentare alla Corte un’opinione scritta, Antigone ha
utilizzato questo nuovo importante strumento di vera e propria democrazia,
depositando il proprio “amicus curiae”.
Abbiamo rilevato con piacere che non siamo stati i soli a farlo, segno di una
comunanza di scopi e di fiducia nella attività della Corte costituzionale che, in
questo momento tanto difficile per il Paese e le sue istituzioni non può che essere
preso come un segnale positivo.
Ovviamente, Antigone ha chiesto alla Corte di dichiarare l'illegittimità
costituzionale delle disposizioni della cui compatibilità con gli artt. 3, 27 e 117 della
Costituzione dubita la Cassazione.
Come è arcinoto, l’ordinanza prende le mosse da due recenti pronunce, la
sentenza della Corte EDU nel caso Viola c. Italia e la sentenza della stessa Corte
costituzionale n. 253/2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.
4-bis, comma 1, dell'Ordinamento Penitenziario, nella parte in cui non prevede che,
ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del Codice penale e per quelli commessi
avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di
agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi
permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma
dell’art. 58-ter del medesimo ordinamento penitenziario, allorché siano stati
acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità
organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.
A sua volta la Corte europea, seguendo una propria consolidata
giurisprudenza in materia di compatibilità dell'ergastolo con la CEDU, ha ritenuto
che la condizione prevista dalla legislazione italiana per accedere alla liberazione
condizionale, e cioè la collaborazione con la giustizia, violi i principi della dignità
della persona condannata.
Antigone ha ritenuto, visto che le due pronunce citate sono molto recenti e
che il quadro normativo nazionale ed europeo è ben conosciuto della Corte
costituzionale, di incentrare il proprio intervento su due punti rimasti, per forza di
cose, estranei alla motivazione dell’ordinanza di rimessione: (a) la realtà
dell'ergastolo e dell’ergastolo ostativo oggi in Italia: (b) la contraddizione a nostro
Presidente di Antigone.
Nessuno può essere obbligato ad auto-accusarsi
159
parere esistente nell'ordinamento tra le disposizioni impugnate dalla Corte di
Cassazione ed il principio secondo il quale nessuno può essere obbligato ad
autoaccusarsi.
Quanto al primo punto, rinviando per i particolari alla lettura della nostra
opinione e di quella del Garante Nazionale, densa di riferimenti e dati, qui diremo
solo che la pena della reclusione a vita è largamente usata e che le relative condanne
sono in costante aumento, pur nel calo generale della criminalità in Italia: gli
ergastolani in regime ostativo sono la netta maggioranza tra coloro i quali scontano
la condanna al “fine pena: mai”, a noi risultando essere 1250 su 1802: persone
escluse da qualsiasi speranza di rieducazione e reinserimento sociale, salvo che
decidano di collaborare, nella maggior parte dei casi, inevitabilmente, anche
autoaccusandosi di ulteriori delitti e mettendo a repentaglio la propria famiglia.
Relativamente al secondo profilo che abbiamo voluto portare alla attenzione
della Corte costituzionale, abbiamo rilevato che esiste una contraddizione tra un
principio generalmente rispettato e previsto sia dall'art. 274, comma 1, lett. a) del
codice di procedura penale che dalla direttiva (UE) del 9 marzo 2016 n. 343,
secondo il quale non si possono prevedere aggravamenti di pena per il condannato
che sia rimasto in silenzio, rifiutandosi di collaborare, e la situazione del soggetto
già condannato ed in esecuzione di pena, la cui posizione viene resa deteriore
proprio dalla circostanza esclusa in sede cautelare.
La Corte costituzionale ha di recente mostrato una grande (ed inedita)
sensibilità a quel “mondo separato” costituito dagli istituti di pena e – soprattutto –
dalle persone in esso ristrette e ad a quelle che là operano tra le note difficoltà che
qui non è il caso evocare. Confidiamo che tale sensibilità sorregga anche la
pronuncia di illegittimità costituzionale che auspichiamo.
ILLEGITTIMITÀ EUROUNITARIA
DELL’ERGASTOLO OSTATIVO E RICADUTE
SULL’ESEGUIBILITÀ DEL MANDATO D’ARRESTO EUROPEO
di CIRO GRANDI
SOMMARIO: 1. Inquadramento. – 2. Basta la liberazione condizionale per garantire
all’Italia la consegna dell’ergastolano? – 3. I riflessi della decisione Viola c. Italia n.
2 sul piano eurounitario. – 4. La “relativizzazione” della presunzione sul comune
standard di garanzie nel sistema del mutuo riconoscimento. – 5. I benefici multilivello
di una pronuncia di accoglimento.
1. Il fiume in piena delle “buone ragioni” per le quali è auspicabile
l’accoglimento della questione in esame scorre oltre i confini del thema decidendum
tracciati nella convincente ordinanza della Corte di Cassazione del 3-18 giugno
2020, fino ad attraversare il terreno dei rapporti tra ordinamenti interno e
dell’Unione europea, sinora meno perlustrato dalla letteratura sull’ergastolo
ostativo.
L’incompatibilità
convenzionale
dell’istituto
in
questione,
incontrovertibilmente sancita dalla Corte di Strasburgo nella decisione Viola c.
Italia n. 21, si riverbera infatti non solo sul piano costituzionale, ove consente di
reclutare (anche) il parametro dell’art. 117 comma 1 Cost.; ma anche su quello
eurounitario, con potenziali ricadute negative, in particolare, sulla piena operatività
del principale meccanismo di cooperazione giudiziaria interstatuale nello spazio
europeo di libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione2, ovvero il mandato d’arresto
europeo, introdotto e disciplinato dalla Decisione quadro n. 584 del 20023.
Si consideri l’ipotesi di un mandato d’arresto spiccato da un giudice italiano
nei confronti di un soggetto latitante all’estero, condannato in Italia a pena perpetua4
e assoggettabile alla disciplina ostativa c.d. di “prima fascia”, di cui all’art. 4-bis,
comma 1, della legge n. 354 del 1975.
Come si dovrà regolare l’autorità giudiziaria dello stato partner competente a
deliberare sull’esecuzione del mandato d’arresto? Più precisamente, quali effetti
esplicherà sulla relativa decisione il sigillo apposto dalla pronuncia Viola n. 2
sull’incompatibilità con l’art. 3 della CEDU dell’attuale fisionomia dell’ergastolo
ostativo, proprio il regime applicabile al destinatario del mandato una volta
Associato di Diritto penale, Università di Ferrara.
Sulla quale v., per tutti, D. GALLIANI, A. PUGIOTTO, L’ergastolo ostativo non supera l’esame
a Strasburgo (A proposito della sentenza Viola v. Italia n.2), in Rivista AIC, 2019, n. 4, 191 ss. e,
ivi, note 7-8 per ulteriore bibliografia.
2
Titolo V del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea.
3
Decisione quadro del Consiglio 2002/584/GAI, del 13 giugno 2002, relativa al mandato
d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri.
4
Le osservazioni svolte in seguito valgono parimenti in relazione all’ipotesi del soggetto – non
già condannato all’ergastolo, bensì – ricercato “ai fini dell'esercizio di un’azione penale” (art. 1.1
della Decisione quadro) in quanto indagato per un delitto punibile con l’ergastolo.
1
Illegittimità eurounitaria dell’ergastolo ostativo
161
trasferito in Italia? In breve, la consegna al nostro Paese di un condannato
all’ergastolo ostativo correrà davvero il rischio di essere rifiutata5, in deroga
all’obbligo di esecuzione del mandato d’arresto sancito dall’art. 17 della Decisione
quadro6?
2. La risposta a tale ultimo quesito parrebbe assumere segno negativo qualora
l’analisi si limiti alla lettera della Decisione quadro, dal cui articolato il ruolo dei
diritti fondamentali nella procedura di esecuzione del mandato d’arresto risulta
notoriamente piuttosto sbiadito7.
Gli unici riferimenti testuali alle garanzie dell’individuo si rinvengono infatti
nel considerando n. 12, che si limita alla petizione di principio secondo cui la
Decisione quadro «rispetta i diritti fondamentali ed osserva i principi sanciti
dall'articolo 6 del trattato sull'Unione europea e contenuti nella Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea»; e nell’art. 1 par. 3, la cui sibillina formulazione
prevede invece che « [l]'obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i fondamentali
principi giuridici sanciti dall'articolo 6 del trattato sull'Unione europea non può
essere modificato per effetto della presente decisione quadro».
Badando al sodo, però, tra i motivi che giustificano il rifiuto di eseguire il
mandato d’arresto, elencati agli artt. 3, 4 e 4-bis della Decisione quadro, la
potenziale violazione dei diritti fondamentali della persona destinataria del
provvedimento non compare: esempio plastico della presunzione (inizialmente)
assoluta dell’esistenza di un livello minimo, e adeguato, di tutela dei diritti
fondamentali in tutti gli ordinamenti dei Paesi membri, scaturigine della mutual
trust (fiducia reciproca) sul quale il meccanismo di mutuo riconoscimento venne
eretto8.
Ancor più significativa, nel quadro di queste brevi osservazioni, è invero la
disciplina riservata ai condannati all’ergastolo dal successivo art. 59, ove si precisa
che se il reato in base al quale il mandato d'arresto europeo è stato emesso è punibile
con pene o misure di sicurezza detentive a vita, la sua esecuzione può essere
subordinata alla condizione per cui l’ordinamento dello Stato membro emittente
preveda meccanismi di revisione della condanna o misure di clemenza che
consentano di escludere, in concreto, la perpetuità della sanzione.
Il combinato disposto tra questa previsione – che peraltro lascia alla
discrezionalità dello Stato di esecuzione la scelta di subordinare la consegna alle
condizioni appena riassunte – e la semplice esistenza dell’istituto della liberazione
Si tratta di un interrogativo già formulato in modo sintetico, ma perspicuo, nell’Amicus curiae
redatto dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute (cfr., in particolare, §4.5), reperibile
nella sezione Documenti del sito del seminario preventivo http://www.amicuscuriae.it/.
6
In base al quale il “mandato d'arresto europeo deve essere trattato ed eseguito con la massima
urgenza”.
7
V. B. PIATTOLI, La tutela dei diritti fondamentali: i principi della Decisione quadro e le
garanzie della normativa derivata, in M. BARGIS, E. SELVAGGI (a cura di), Mandato d’arresto
europeo. Dall’estradizione alle procedure di consegna, Giappichelli, Torino 2005, 153 ss.
8
Ex multis, J. SPENCER, Il principio del mutuo riconoscimento, in R. KOSTORIS (a cura di),
Manuale di procedura penale europea, Giuffrè, Milano 2019, 341 ss.
9
Rubricato “Garanzie che lo Stato emittente deve fornire in casi particolari”.
5
162
Ciro Grandi
condizionale potrebbe apparire sufficiente a garantire all’Italia la consegna degli
ergastolani arrestati all’estero; compresi quelli assoggettabili al regime ostativo, ai
quali l’accesso alla liberazione condizionale non sarebbe precluso in senso assoluto,
residuando la via d’uscita della collaborazione10.
3. Questa ricostruzione sembra tuttavia essere sovvertita dalla già rievocata
pronuncia della Corte EDU nel caso Viola c. Italia n. 2, per le seguenti ragioni.
Sul piano generale, è appena il caso di rammentare che, nell’attuale sistema
multilivello di tutela delle garanzie individuali, l’incompatibilità di una normativa
nazionale con la CEDU si riverbera sul terreno dell’Unione europea, la cui Carta
dei diritti fondamentali recita, all’art. 52 par. 3, che « [l]addove la presente Carta
contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la
portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione»11.
Passando dal generale al particolare, la protezione garantita dall’art. 4 della
Carta dovrà di conseguenza equivalere a quella assicurata dall’art. 3 della
Convenzione, la cui formulazione viene peraltro pedissequamente replicata:
«Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o
degradanti». Tale conclusione, avvalorata dalla Spiegazione relativa all’art. 4 della
Carta12, viene messa in pratica dalla scarna giurisprudenza della Corte di Giustizia
sul medesimo articolo, che si avvale ampiamente dell’elaborazione della Corte di
Strasburgo sull’art. 3 CEDU13.
Non resta allora che completare il sillogismo: una normativa nazionale che la
Corte di Strasburgo ha ritenuto incompatibile con l’art. 3 della Convenzione (il
regime ostativo alla luce della decisione Viola c. Italia n. 2) non potrà che
confliggere anche con l’art. 4 della Carta14.
Si veda, ad esempio, l’assai complessa vicenda affrontata da C. Ass. Santa Maria Capua
Vetere, sez. I, ord. 4 giugno 2018, in www.penalecontemporaneo.it, 21 novembre 2018, con
commento di F. MANFREDINI, Ergastolo e consegna condizionata nella disciplina dell’estradizione
e del mandato d’arresto europeo, al cui preciso compendio della decisione ci si affida: «la Corte
d’assise giunge alla conclusione che la condizione contemplata dalla disciplina sull’euromandato
risulta rispettata dall’ordinamento giuridico nazionale, anche nell’ipotesi del c.d. ergastolo ostativo,
delineato dall’art. 4-bis ord. penit., in considerazione del fatto che, in tale caso, il beneficio della
liberazione condizionale non risulta essere aprioristicamente precluso al condannato, il quale può,
infatti, accedervi qualora tenga una condotta di collaborazione con la giustizia».
11
A mente dell’art. 51 della Carta, l’ambito applicativo dei diritti ivi sanciti coincide con i
settori di attuazione del diritto dell’Unione: nulla quaestio, pertanto, sull’obbligo per gli Stati
membri di rispettare la Carta stessa, ove chiamati a dare esecuzione ad un mandato d’arresto
europeo, principale strumento attuativo del principio del mutuo riconoscimento, elevato ad
architrave della cooperazione nel settore penale dall’art. 82 TFUE.
12
Secondo cui il diritto di cui all’art. 4 CDFUE «corrisponde a quello garantito dall’articolo 3
della CEDU, la cui formulazione è identica […]. Ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 3 della Carta,
esso ha pertanto significato e portata identici a quelli del suddetto articolo».
13
Cfr., per tutti, E. FRONZA, P. PUSTORINO, sub Art. 4, in R. MASTROIANNI, O. POLLICINO, S.
ALLEGREZZA, F. PAPPALARDO, O. RAZZOLINI (a cura di), Carta dei Diritti Fondamentali
dell’Unione europea, Giuffrè, Milano 2017, 73 ss.
14
Prefigurava in nuce tale scenario, alla vigilia della decisione Viola n. 2, anche F.
MANFREDINI, Ergastolo e consegna condizionata, cit., §9.
10
Illegittimità eurounitaria dell’ergastolo ostativo
163
4. L’interrogativo di partenza può essere ora riproposto, arricchito di dettagli:
qual è la sorte del mandato d’arresto europeo spiccato nei confronti di un soggetto
condannato in Italia a pena perpetua, la disciplina della quale (il regime ostativo),
in quanto inconciliabile con l’art. 3 CEDU, risulta altresì incompatibile con l’art. 4
della Carta dei diritti UE? Dunque, esiste lo spazio per rifiutare l’esecuzione del
mandato d’arresto, nonostante, come ricordato, la Decisione quadro non contempli
espressamente alcun motivo di rifiuto incentrato sul rischio di violazione dei diritti
fondamentali del destinatario del provvedimento?
L’elevazione del punto prospettico dell’analisi, dal piano della Decisione a
quello del diritto primario, inclusa la Carta dei diritti fondamentali, sminuisce le
perplessità manifestate in precedenza, lasciando intravedere una risposta
affermativa; i contorni della quale divengono sempre più nitidi alla luce
dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Giustizia sul ruolo dei diritti
sanciti nella Carta stessa all’interno del procedimento di esecuzione del mandato
d’arresto.
Risulta infatti oramai archiviata la tesi della natura inattaccabile dell’obbligo
di esecuzione del mandato, sol che non ricorrano i motivi di rifiuto specificamente
previsti dalla Decisione quadro: si allude alle argomentazioni spese dalla Corte di
Giustizia nelle note sentenze Melloni e Radu15, secondo le quali, al di fuori delle
ipotesi contemplate in quei motivi di rifiuto, le esigenze di speditezza della
cooperazione giudiziaria e di effettività dei relativi meccanismi prevalgono,
tendenzialmente senza riserve, su quelle di tutela dei diritti individuali; tutto in
nome di una fiducia reciproca tra gli Stati membri nei rispettivi standard garantistici
che autorevole dottrina non esitava a definire «cieca»16.
È noto come questo orientamento sia stato superato da diverso tempo17.
Più precisamente, sin dal leading case Aranyosi e Căldăraru18, la Corte di
Giustizia ha ammesso che il principio del mutuo riconoscimento possa subire
limitazioni «in circostanze eccezionali»19, qualora vi siano «motivi gravi e
comprovati» per ritenere sussistente un rischio concreto di violazione dei diritti
fondamentali. In quel celebre caso i diritti esposti erano proprio quelli sanciti
nell’art. 4 CDFUE: due soggetti di nazionalità rumena e ungherese, arrestati in
Germania, erano attesi da una condanna definitiva nei rispettivi Paesi di
appartenenza, i cui sistemi carcerari non offrivano però sufficienti garanzie sugli
standard delle condizioni detentive, anche a causa del sovraffollamento.
15
Corte di Giustizia, Grande Sezione, 29 gennaio 2013, C-396/11, Radu e 26 febbraio 2013,
C-399/11, Melloni.
16
Si veda la raccolta di scritti di V. MITSILEGAS, Justice and Trust in the European Legal
Order, a cura di C. GRANDI, Jovene, Napoli 2016.
17
Per un’efficace sintesi ricostruttiva, v. V. MANES, M. CAIANIELLO, Introduzione al diritto
penale europeo, Giappichelli, Torino 2020, 74 ss.
18
Corte di Giustizia, Grande Sezione, 5 aprile 2016, cause riunite C-404/15 e C-659/15 PPU,
Aranyosi e Căldăraru, su cui v., ex multis, A. MARTUFI, La Corte di Giustizia al crocevia tra
effettività del mandato d’arresto e inviolabilità dei diritti fondamentali, in Dir. pen. proc., 2016,
1243 ss.
19
Eventualità per vero già prefigurata dalla Corte di Giustizia, sebbene al di fuori dell’attività
giurisdizionale, nel parere n. 2/13, §191.
164
Ciro Grandi
Nella pronuncia in questione, la Corte di Giustizia ha quindi elaborato un test
di verifica dei rischi di lesione dei diritti fondamentali – che il giudice competente
a decidere sull’esecuzione del mandato deve esperire – articolato essenzialmente in
due passaggi:
a) In primo luogo, la “prognosi di rischio generico”, volta a verificare la
sussistenza, nell’ordinamento dello Stato emittente, di carenze sistemiche,
strutturali, fonte di rischi generalizzati di violazione dei diritti fondamentali: nel
caso Aranyosi, si trattava di accertare l’eventuale diffusività delle poor prison
conditions nei sistemi carcerari dei Paesi di destinazione. Secondo le indicazioni
della Corte di Lussemburgo, questa prognosi può fondarsi su elementi ricavati da
«decisioni giudiziarie internazionali, quali le sentenze della Corte EDU, da
decisioni giudiziarie dello Stato membro emittente, nonché da decisioni, relazioni
e altri documenti predisposti dagli organi del Consiglio d’Europa o appartenenti al
sistema delle Nazioni Unite» (§89).
b) In secondo luogo, la “prognosi di rischio specifico”, necessaria a stabilire se
le carenze sistemiche rilevate sul piano generale comportino un rischio tangibile di
violazione dei diritti fondamentali per la singola persona destinataria del mandato
d’arresto, quale conseguenza della consegna. A questo fine, il giudice competente
a decidere sull’esecuzione del mandato deve richiedere all’autorità giudiziaria
emittente tutte le informazioni necessarie a “concretizzare” la prognosi in relazione
al caso individuale: ad esempio, notizie sulla situazione dell’istituto carcerario al
quale il condannato sarebbe destinato (§93 ss.).
Questo schema decisionale è stato in seguito replicato e messo a punto in casi
ulteriori, nell’ambito dei quali venivano in gioco anche altri diritti fondamentali20.
Il suo progressivo consolidamento, pur al netto di qualche incertezza, ha segnato il
congedo dalla blind mutual trust: la fiducia reciproca non è (più) «cieca»21, giacché
l’esistenza di un livello minimo condiviso di osservanza dei diritti fondamentali non
è (più) oggetto di una presunzione assoluta, bensì relativa.
Pur in assenza di una situazione tipizzata in uno specifico motivo di rifiuto
contemplato dalla Decisione quadro, si è dunque aperto uno spazio effettivo per
rifiutare la consegna: anzi, dal tenore dei dispositivi delle decisioni richiamate, la
Corte di Giustizia ha sancito l’obbligo per il giudice dello Stato di esecuzione di
esperire il test appena descritto, nonché di attenersi ai relativi risultati anche
sospendendo l’attuazione del mandato, ove sussistano indizi solidi di un pericolo
concreto di violazione dei diritti fondamentali del destinatario del provvedimento22.
20
V. anzitutto Corte di Giustizia, Grande Sezione, 25 luglio 2018, C-216/18 PPU, Minister for
Justice and Equality v. LM, in relazione alle garanzie del giusto processo (Art. 47 CDFUE, diritto a
un giudice indipendente e imparziale), messe a repentaglio nell’ordinamento polacco da riforme
compressive dell’autonomia della magistratura. Per aggiornati riferimenti, giurisprudenziali e
bibliografici, v. l’accurata analisi di V. SCALIA, Il principio del rule of law nella giurisprudenza
delle corti europee. Umanità della pena e indipendenza del sistema giudiziario: presupposti
necessari della fiducia reciproca e dell’esecuzione del mandato d’arresto europeo nell’ambito dello
spazio di libertà, sicurezza e giustizia, in Ind. pen., 2020, n. 2, 376 ss.
21
K. LENAERTS, La vie après l’avis: Exploring the principle of mutual (yet not blind) trust, in
Common Market Law Review, vol. 54, n. 3, 2017, 805 ss.
22
«Nel caso in cui le informazioni che l’autorità giudiziaria emittente […] ha comunicato
all’autorità giudiziaria dell’esecuzione non inducano quest’ultima a escludere l’esistenza di un
Illegittimità eurounitaria dell’ergastolo ostativo
165
5. Non resta ora che immaginare l’esito della somministrazione del test
predisposto dalla Corte di Giustizia al caso del mandato d’arresto pendente sul
soggetto condannato in Italia a pena perpetua per un delitto compreso nell’elenco
dei reati “ostativi di prima fascia”.
a) Quanto alla “prognosi di rischio generico”, la verifica delle carenze
sistemiche nell’ordinamento italiano, fonte di rischi diffusi di lesione dei diritti
fondamentali, è servita sul proverbiale vassoio d’argento dalla sentenza Viola n. 2,
nella quale si certifica l’incompatibilità del regime ostativo con l’art. 3 CEDU e, di
riflesso, con l’art. 4 della Carta. Si tratta senz’altro di un deficit strutturale, poiché
contrassegna una disciplina legislativa che colpisce un’intera categoria di
condannati: più di 1200 detenuti, più del 70% del totale degli ergastolani23; numeri
capaci di generare, come è stato osservato a margine della sentenza Viola n. 2, «uno
tsunami di ricorsi siamesi»24.
b) Quanto poi alla “prognosi di rischio specifico”, a ben vedere anch’essa è già
confezionata dalla sentenza Viola n. 2. Nel caso di specie, infatti, il deficit
strutturale non dipende da una situazione di fatto – come il sovraffollamento
carcerario – la cui esistenza e persistenza necessita di accertamento caso per caso,
in quanto potenzialmente mutevole nel tempo (a seguito di un calo del numero dei
detenuti) o nello spazio (potendo riguardare, ad esempio, solo alcuni, e non tutti, gli
istituti penitenziari). Qui, invece, il deficit strutturale dipende da una situazione di
diritto, ovvero l’incompatibilità della disciplina dell’ergastolo ostativo con le
disposizioni gemelle della Convenzione e della Carta: situazione che genera ipso
facto il rischio specifico, poiché tutti e nessuno escluso gli ergastolani autori di reati
di prima fascia restano assoggettabili, in mancanza di collaborazione, all’ergastolo
ostativo.
La risposta all’interrogativo di partenza è sotto dettatura: il giudice dello stato
partner potrà, se non addirittura dovrà rifiutare l’esecuzione del mandato d’arresto
europeo che colpisce l’ergastolano assoggettabile in Italia al regime ostativo nella
versione vigente. O, quanto meno, potrà sospenderne l’esecuzione e sollevare una
questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia sull’art. 5 della Decisione
quadro, volta a chiarire se davvero – come è del tutto logico ritenere – tale
disposizione consenta di rifiutare l’esecuzione del mandato, nonostante la presenza
di un istituto – come la liberazione condizionale – che, pur prefigurando una chance
di “fine pena”, la subordina a condizioni così restrittive da non scongiurare la
violazione dell’art. 3 CEDU25.
Per una sorta di contrappasso, l’intercorsa relativizzazione – ad opera dalla
Corte di Giustizia – della presunzione di esistenza di uno standard garantistico
minimo, condiviso tra i Paesi UE, potrebbe intralciare la consegna all’Italia
rischio reale che la persona interessata subisca, in detto Stato membro, una violazione del suo diritto
fondamentale a un giudice indipendente e, quindi, del contenuto essenziale del suo diritto
fondamentale a un equo processo, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve astenersi dal dare
seguito al mandato d’arresto europeo di cui è oggetto tale persona» (Corte di Giustizia, 25 luglio
2018, cit., §78).
23
Secondo i dati raccolti nell’Amicus curiae redatto dal Garante nazionale dei diritti delle
persone detenute, cit. (§2.2.).
24
D. GALLIANI, A. PUGIOTTO, L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo, cit., 205.
25
In senso analogo F. MANFREDINI, Ergastolo e consegna condizionata, cit., §9.
166
Ciro Grandi
dell’ergastolano assoggettabile al regime ostativo, proprio a causa della
presunzione assoluta che nega a costui una chance effettiva di liberazione
condizionale. La relativizzazione (anche) di quest’ultima presunzione
consentirebbe dunque non solo di proseguire nel solco tracciato dalla sentenza n.
253/2019, ma anche di intaccare il più evidente profilo di attrito della disciplina
ostativa con la Convenzione e con la Carta, diradando così le ombre che si sono
profilate sulla piena operatività del principale strumento di cooperazione giudiziaria
nell’Unione europea. Ecco dunque un’ulteriore buona ragione per auspicare una
pronuncia di accoglimento che, unitamente ai profili di illegittimità costituzionale
e convenzionale, rimuova anche quelli di matrice eurounitaria.
LIBERAZIONE CONDIZIONALE E REGIME OSTATIVO:
PERCHÉ NON SI PUÒ PIÙ TORNARE INDIETRO
di SARAH GRIECO*
SOMMARIO: 1. Le recenti evoluzioni della giurisprudenza costituzionale e
sovranazionale: il “banco di prova” dell’ergastolo ostativo. - 2. Una riflessione a
margine dei valori costituzionali compromessi. – 3. I criteri probatori per superare la
preclusione. - 4. La necessità di consegnare una risposta trattamentale coerente e
comprensibile. – 5. La fine dell’ergastolo ostativo: i tempi sono maturi.
1. Per tentare di dare una risposta alla domanda insita nel titolo stesso di questo
contributo, credo sia utile partire proprio da alcuni interrogativi: quali sono le
ragioni che sottendono alla scelta del legislatore di impedire la concessione della
liberazione condizionale in assenza di collaborazione con la giustizia, per i reati
compresi nell’art.4-bis dell’ordinamento penitenziario? Perché la collaborazione
con la giustizia, ad eccezione delle ipotesi di impossibilità e di inesigibilità, è stata
elevata a presupposto di ogni valutazione del percorso di reinserimento del
condannato1 - e quindi anche del sicuro ravvedimento richiesto dalla legge n. 203
del 1991 - quale dimostrazione tangibile della dissociazione?
Una prima risposta ce la fornisce la stessa Corte costituzionale con la storica
sentenza n. 306/1993. Con l’inserimento dell’articolo di legge in discussione, il
legislatore, privilegiando le finalità di prevenzione generale, si è fissato un chiaro
obiettivo di politica criminale, congegnando un meccanismo di pressione per i
condannati, inducendoli a fornire prova di collaborazione, strumento rilevatosi di
straordinaria efficacia nella lotta contro il sistema mafioso2.
A questa motivazione, che ha conferito alla norma un’anima “opportunistica”3,
se ne aggiunge un’altra dettata da considerazioni più legate alle necessità del
momento, visto il periodo storico in cui si innesta la riforma. Prendendo a prestito
le parole del Procuratore nazionale antimafia, dott. Cafiero De Raho, in un
convegno tenutosi lo scorso gennaio 2020, proprio a margine della sentenza n.
253/2019: «Il contesto storico imponeva allo Stato di muoversi con strumenti
efficaci e di dare messaggi non equivoci nei confronti della lotta alla mafia; mafia
che intratteneva rapporti con la politica e che, da quei rapporti, ricavava la sua
potenza. Era necessario che una legge dura, rigorosa, chiara desse il segno della
totale assenza di rapporti di quella politica con la mafia»4.
* Dottoranda di ricerca in Procedura penale, Università degli Studi di Cassino e del Lazio
Meridionale; Delegata del Rettore al Polo Universitario Penitenziario dell’Ateneo.
1
L’Altro Diritto Onlus, Osservazioni del Centro di documentazione, Università degli studi di
Firenze, terzi intervenienti in sentenza Viola C. Italia (n. 2), 13 giugno 2019.
2
Cfr. anche Corte costituzionale, sentenza n. 68/1995.
3
F. PALAZZO, L’ergastolo ostativo nel fuoco della quaestio legitimitatis, in G. BRUNELLI, A.
PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo
tra le due Corti, in Forum Quad. Cost.-Rassegna, fasc. 10, 2019, 10.
4
F. CAFIERO DE RAHO, Un intervento legislativo urgente nell’esigenza del contrasto ampio
168
Sarah Grieco
Da questa urgenza di non equivocità di criteri e giudizi, nasce l’altra esigenza
da soddisfare: l’individuazione di un criterio legale, volto a dimostrare l’avvenuto
ravvedimento e/o la cessata pericolosità. La collaborazione con la giustizia,
all’epoca, venne individuato come l'unico requisito certo, chiaro, dimostrativo
dell'interruzione dei rapporti con l'associazione mafiosa di provenienza. Elevata la
collaborazione, anche in materia di liberazione condizionale della pena, a
presunzione assoluta di accertamento del sicuro ravvedimento del condannato5, di
fatto, la riforma ha reso l’art.4-bis lo strumento privilegiato per una differenziazione
esecutiva fondata sul titolo di reato6; ciò nonostante l’art. 13 dell’ordinamento
penitenziario7 – in ideale contrappunto all’art. 220, comma 2 c.p.p.8, che invece
richiama l’attenzione a fatti storici puntuali - sia chiaramente prescrittivo di un
trattamento e di una conseguente giurisdizione che mettano a fuoco non più la
fotografia di un accadimento storico, ma la personalità dell’uomo, la sua
costruzione fisica, esistenziale e sociale, il suo sviluppo e le auspicabili
trasformazioni.
E’ indubbio tuttavia che, come correttamente evidenziato dall’ordinanza di
remissione della prima sezione della Corte di Cassazione del 3-18 giugno 2020, sia
la recente pronuncia della Corte costituzionale n. 253/2019 che la sentenza della
Corte EDU, Viola c. Italia del 13 giugno 2019, rappresentano un notevole “banco
di prova” per l’impostazione intrapresa nel ‘92 e perpetrata, anche nel recente
passato9, dalla giurisprudenza che, per uscire dall’empasse, ha posto l’accento sulla
libertà della scelta personale di collaborare con la giustizia da parte del condannato,
anche nel corso dell’espiazione della pena10.
Non potrebbe essere altrimenti. La sentenza Viola, infatti - oltre ad aver
ristretto i limiti di legittimità della pena dell’ergastolo, relegando quest’ultimo a
trattamento inumano e degradante ogniqualvolta si rileva de jure e de facto
incompressibile, attraverso una pericolosità cristallizzata nel passato, - ha svelato
con realismo ciò che la presunzione legale maschera e nasconde11: l’assenza di
collaborazione non può rappresentare un segnale certo della mancata rieducazione;
alle mafie, in S. GRIECO, S. SCALERA (a cura di), Verso il superamento dell’ergastolo ostativo? EUC,
Cassino 2020, 104.
5
Cass. Pen, Sez. I, sentenza n. 135 del 24 aprile 2003.
6
Cfr. G. DELLA MONICA, La irragionevolezza delle presunzioni che connotano il modello
differenziato di esecuzione della pena per i condannati pericolosi. Riflessioni a margine della
sentenza n.253/2019 della Corte costituzionale, in http://www.dirittifondamentali.it, 4 aprile 2020.
7
Art. 13 ord. penit.: «Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della
personalità di ciascun soggetto. Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta
l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del
disadattamento sociale».
8
È una norma, questa, che al di là della sua rilevanza pratica, presidia giudizi basati sulla
concreta offensività delle condotte e ammonisce sulla necessità di evitare decisioni che possano
trarre argomenti risolutivi, sia pure a livello di sfondo alogico della motivazione, dalla personalità
dell’imputato e dalle sue qualità.
9
Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 7428 del 17/01/2017, Pesce, Rv. 271399 e, prima, negli stessi
termini Sez. I, sentenza n. 27149 del 22/03/2016, Viola, Rv. 271232.
10
Corte costituzionale, sentenze n. 135/2003 e n. 273/2001.
11
D. GALLIANI, A. PUGIOTTO, L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo (A
proposito della sentenza Viola v. Italia n. 2), in Osservatorio Cost., fasc. 6, 2019, 195.
Liberazione condizionale e regime ostativo
169
non può sempre essere ricondotta ad una scelta libera e volontaria o, comunque, al
fatto che siano mantenuti i legami con il gruppo criminale di appartenenza. In questa
prospettiva, la sentenza ha indubbiamente sancito quel diritto al silenzio, corollario
del diritto di difesa.
A proposito dell’interpretazione del silenzio, si apre anche un altro
preoccupante scenario nel nostro ordinamento, poco evidenziato a dire il vero, ma
non per questo di scarsa rilevanza. La valutazione del silenzio rimessa al legislatore
e sottratta al giudizio discrezionale del magistrato, come finora accaduto, conduce
ad una chiara interferenza tra due funzioni: quella legislativa e quella giudiziaria.
Al magistrato, di fatto, non viene solo precluso, de facto, la valutazione su
evoluzione e progressi del detenuto, congelandone la personalità al momento del
reato commesso, ma gli è anche impedito di analizzare i motivi che hanno spinto il
reo alla non collaborazione in quanto, quest’ultima, è già oggetto di giudizio della
norma stessa. Tuttavia, nel campo delle libertà, alla legge è consentito fissare limiti,
casi e modi, porre paletti, non certo giudicare condotte, che siano contestuali o
successive al processo.
Glauco Giostra, nella sua relazione introduttiva ricorre molto efficacemente al
termine «dimercolare», inteso come piegare un chiodo per scardinarlo. È
esattamente questo il lavoro portato avanti dai giudici della Corte costituzionale con
la sentenza n. 253/201912.
Pur non essendovi traccia dell’art. 117 Cost. - benché il riferimento agli
orientamenti convenzionali sul tema della pena perpetua aleggi, in qualche modo,
nelle argomentazioni dei giudici a quibus, che citano, entrambi, i principi espressi
nella sentenza Vinter della Corte EDU del 2013 – i giudici rompono definitivamente
l’equivalenza tra il silenzio del reo e la permanente pericolosità sociale. Ribadita la
natura tutt’altro che penitenziaria dell’art.4-bis – istituto teso, piuttosto, a barattare
informazioni investigative con momenti di libertà – la Corte rileva alcuni decisivi
punti di incostituzionalità: l’ineguaglianza e l’irragionevolezza di un aggravamento
di pena, fondato su una scelta ex post del detenuto; l’incapacità risocializzante del
percorso trattamentale, quando i benefici penitenziari non sono ancorati
all’osservazione e alla valutazione individualizzata della sua condotta;
l’irrazionalità di una presunzione assoluta che non rinviene conferme nella
generalizzazione degli accadimenti reali. Trova, inoltre, un’adeguata
valorizzazione il ruolo che il trascorrere del tempo ricopre per la pena in executivis,
a differenza del procedimento cautelare: esclusa l’immutabilità, sia della
personalità del condannato che del contesto esterno di riferimento, diventa
indispensabile la valutazione in concreto della personalità del condannato, della sua
evoluzione e degli accadimenti esterni; specie se si considera il trascorre di molti
anni, come nel caso della tipologia di delitti in discussione.
Pur avendo deciso di limitare la propria portata oggettiva al solo permesso
premio, trincerandosi dietro la sua natura di modalità di trattamento, e non di misura
12
A cui, peraltro, a distanza di pochi giorni, ha fatto seguito una pronuncia ancora più
pervasiva, la n. 263/2019, nei confronti dei condannati minorenni: la presunzione della mancata
collaborazione viene infatti integralmente caducata, facendo venir meno la preclusione con riguardo
a tutte le misure alternative e premiali previste dal d.lgs. n. 121 del 2018.
170
Sarah Grieco
alternativa13, la pronuncia costituzionale ha, di fatto, scardinato il carattere assoluto
della presunzione legislativa incapsulata nell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., le cui
ragioni di incostituzionalità finiscono con l’essere valide indipendentemente dal
tipo di beneficio penitenziario precluso. E’ come se la Corte, da un lato, si fosse
preoccupata di confinare il thema decidendum, specificando che non comprende la
legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo, attesa la differente portata della
questione in esame (che non attiene all’applicazione di un istituto che trasforma la
pena perpetua de iure in una pena perpetua anche de facto, come la liberazione
condizionale); i giudici di legittimità, infatti, si sono guardati bene dall’applicare, a
differenza con quanto accaduto in passato14, il meccanismo di illegittimità
conseguenziale ex art. 27 della legge n. 87 del 1953. Eppure, dall’altro, la sentenza
getta inequivocabilmente le basi per rimuovere il meccanismo ostativo, diventando
il corollario giuridico di tutti i meccanismi preclusivi presenti nel nostro
ordinamento penitenziario. In buona sostanza, è come se si volesse negare nella
forma quanto si realizza, poi, nella sostanza, con una motivazione che ben si confà
anche alla liberazione condizionale, così come a tutti gli altri benefici penitenziari.
Né il differente status giuridico tra i due istituti parrebbe essere d’intralcio
all’applicazione di questo ragionamento. Al contrario. È noto, innanzitutto, come
la liberazione condizionale, oltre ad essere subordinata a residui di pena da scontare
di gran lunga superiori rispetto agli altri benefici, richieda una procedura ben più
articolata rispetto al permesso premio, con competenza collegiale dell’organo
giudicante e spazio per il contraddittorio tra le parti. Questo grado di maggior
complessità e di ponderazione collegiale, a ben guardare, rappresentano
un’ulteriore garanzia alla discrezionalità di giudizio riconsegnata alla magistratura
di sorveglianza. Inoltre, il lungo pregresso detentivo richiesto per la sua
concessione, consente un adeguato periodo di osservazione del detenuto, per la
valorizzazione della sua condotta inframuraria e la formulazione del giudizio
prognostico di pericolosità.
Con le due sentenze citate viene minata irreparabilmente l’architrave stessa
dell’ostatività penitenziaria. Questo è un dato a partire dal quale non si può più
tornare indietro, senza esporsi al rischio di nuove condanne da parte della Corte
EDU e ad una palese contraddizione, in seno alla stessa Corte, tra i due giudicati
costituzionali. E ciò non solo per la assoluta sovrapponibilità tra la vicenda de quo
e quella oggetto di giudizio della sentenza Viola, ma proprio per il cuore
argomentativo della sentenza n. 253/2019, sopra tracciato nei suoi passaggi più
significativi.
13
Più precisamente la liberazione condizionale è causa estintiva della pena che opera sul piano
del diritto sostanziale (artt. 176 e 177 c.p.), pure se l’istituto può essere considerato «funzionalmente
analogo alle misure alternative alla detenzione, essendo anch’esso finalizzato a consentire il
graduale reinserimento del condannato nella società» (sent. n. 32/2020).
14
Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 68/1995 una volta dichiarato incostituzionale il 1°
comma dell'art. 4-bis ord. penit., nella parte in cui, in riferimento al permesso premio, non prevedeva
la possibilità di concederlo anche nel caso di integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità,
la Consulta, formalmente, utilizza l'illegittimità consequenziale, in riferimento alla liberazione
condizionale: “caducata (...) la preclusione normativa (...) automatici ne risultano gli effetti anche
per ciò che concerne l'istituto della liberazione condizionale”.
Liberazione condizionale e regime ostativo
171
Ancora a proposito della citata dimensione teleologica dell’istituto, un’ultima
considerazione è d’obbligo, dovendo la Corte decidere, sulla scia di quanto già
accaduto con la sentenza n. 253/2019, se ricorrere alla tecnica dell’illegittimità
consequenziale, per allargare l’accertata incostituzionalità a tutti gli altri reati
inclusi nell’elenco dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit.
L’ordinanza di remissione, - avendo ad oggetto i delitti commessi avvalendosi
delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività
delle associazioni in esso previste - ha opportunamente sottolineato come il
meccanismo preclusivo del primo comma dell’art. 4-bis ord. penit., applicato alla
liberazione condizionale, incida sull’unica condizione che permette a quella pena
di essere considerata compatibile sia con l’impianto costituzionale che con quello
comunitario. È solo grazie alla liberazione condizionale, infatti, che il condannato
a pena potenzialmente perpetua, può operare per il suo reinserimento sociale e avere
delle possibilità di recuperare, un giorno, la libertà (c.d. right to hope); prospettiva
che rappresenta una spinta motivazionale in grado di promuovere positive
evoluzioni psico-comportamentali.
Tuttavia, non meno grave è l’effetto che la preclusione produce sulle pene
detentive temporanee, rispetto alle quali è comunque garantita al condannato
l’uscita dal carcere al termine della pena. In caso di accoglimento per i soli delitti
rimessi dal giudice a quo, oltre all’incoerenza di un sistema dove si stabilisce che
una mancata collaborazione è sempre preclusiva della liberazione condizionale, ad
eccezione che per l’ergastolano15, una pena che deve essere scontata per tutta la sua
durata all’interno dell’istituto penitenziario, senza che sia possibile – stante il
regime ostativo – che il condannato possa accedere a benefici graduali e
responsabili fino alla sua liberazione, è una pena che rischia di rivelarsi
completamente inutile; che riconsegna un soggetto - presunto pericoloso e non
collaborante, a cui non sono stati forniti strumenti di reinserimento alla società completamente impreparato e ad alto rischio di recidiva. Con buona pace delle
esigenze di difesa sociale.
2. L’ordinanza di remissione avrebbe potuto richiamare, in maniera più diretta,
un’altra riflessione che non trova chiara esplicitazione nel corpo della motivazione
della pronuncia n. 253/2019, ma che è un tema certamente connaturato alla sua
complessiva visione culturale.
Come acutamente osservato dallo stesso Giudice redattore della sentenza,
Nicolò Zanon16, nella disposizione in commento «non vi è solo un contrasto con
l’idea della funzione risocializzante della pena, quella tendenziale funzione che è
esplicitamente prevista nell’art. 27 Cost., bensì anche con la stessa funzione
retributiva della pena, che pure esiste e di cui non si parla quasi più» e che, invece,
è legata a doppio filo proprio con quella rieducativa. È appena il caso di rammentare
G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? Spunti per una
discussione, in questo volume.
16
N. ZANON, Il lavoro della Corte nell’elaborazione e nella scrittura della sentenza
n.253/2019, in S. GRIECO, S. SCALERA (a cura di) Verso il superamento dell’ergastolo ostativo?, cit.,
117.
15
172
Sarah Grieco
come la teoria retributiva, partorendo il principio di proporzionalità tra pena e
delitto, ha dato alla luce quello che si è rilevata una delle colonne portanti della
teoria rieducativa, cristallizzata nella nostra Costituzione all’articolo 27 e riletta
dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 364/1988: una pena, infatti, per potere
rieducare un colpevole non può che essere avvertita come giusta, e la pena è giusta
quando proporzionata al reato commesso. Il requisito della collaborazione si
risolve, inevitabilmente, in un aggravamento retributivo rispetto alla sanzione
contenuta nella sentenza di condanna. La mancata collaborazione finisce col
diventare un’ulteriore afflizione del percorso penitenziario; un surplus
sanzionatorio costituito dal divieto di accesso ai benefici, finalizzato appunto a
premere sulla volontà del condannato, stravolgendo il rapporto tra cittadino e
autorità nel campo della giustizia penale.
3. Restano sullo sfondo i diversi parametri probatori, alla cui stregua condurre
l’accertamento dei requisiti richiesti dalla legge n. 203 del 1991 ed, in particolare,
il sicuro ravvedimento del condannato.
A ben guardare, la sentenza n. 253/2019, nel delineare gli oneri probatori per
accedere ai permessi premio, sembra far ritorno al sistema adottato nella prima
versione – introdotta dall’art. 1 del d.l. n. 152 del 1991, come convertito – dell’art.
4-bis ord. penit.: reintroduce un regime di prova rafforzata per accertare
l’inesistenza di una condizione negativa (assenza dei collegamenti con la
criminalità organizzata e/o della pericolosità sociale), abbandonando il modello che
aveva introdotto una preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto
attraverso una condotta qualificata (la collaborazione). Tale impostazione non
implica necessariamente, a parere di chi scrive, l’eliminazione di qualunque spazio
applicativo per l’inesigibilità/impossibilità/irrilevanza della collaborazione. Pur
non potendo condividere l’orientamento dei regimi probatori differenziati (tra
potenziali collaboranti che scelgono di non collaborare e coloro che invece non
possono farlo), espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 5553/202017,
ric. Grasso, all’interno dello spazio valutativo del giudizio, potranno trovare il
giusto peso anche le ragioni che hanno indotto il condannato a scegliere il silenzio,
ivi inclusa l’inesigibilità o l’impossibilità della collaborazione; senza, tuttavia, che
sia possibile, in astratto, attribuire maggiore meritevolezza a tali elementi piuttosto
che ad altri. Esemplificando: l’attuale condizione di ammissibilità dell’esame
dell’istanza di liberazione condizionale per i non collaboranti, si trasforma in uno
degli elementi da porre all’attenzione del magistrato unitamente agli altri, congrui
e specifici, che siano presenti e rilevanti nel caso concreto.
Tuttavia, forse mossa dall’esigenza – attesa la delicatezza del tema – di fornire
rassicurazioni alla collettività, preoccupata di un possibile crollo della difesa
sociale, la Corte introduce, con un’insolita iniziativa legislativa, un parametro
probatorio totalmente nuovo, che neppure la tanto rassicurante collaborazione con
la giustizia era in grado di garantire: il ripristino di possibili collegamenti nel futuro.
La prova negativa che il richiedente dovrebbe fornire, quanto meno come
17
Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 55533 del 28 gennaio 2020.
Liberazione condizionale e regime ostativo
173
“specifiche allegazioni”, per di più proiettata in uno spazio temporale futuro,
indubbiamente, rende il beneficio difficilmente applicabile, se non lo si interpreta
come una mera valutazione probabilistica che il soggetto non commetta in futuro
nuovi reati della stessa indole.
Ridimensionato il carico probatorio potenzialmente insito nella sentenza n.
253/2019, in attesa di un puntuale intervento legislativo, così come indicato dalla
sentenza Viola e definito nella relazione della Commissione parlamentare antimafia
dello scorso 20 maggio18, anziché imporre alla Magistratura di Sorveglianza un
binario rigidamente segnato, quasi a volerla porre sotto tutela nel suo giudizio,
sarebbe auspicabile valorizzare adeguatamente quegli assaggi di libertà
rappresentati dai permessi premio, a cui il detenuto, proprio a seguito della sentenza
n. 253/2019, può essere ammesso. Quale miglior banco di prova della
sperimentazione concreta extramuraria e dei suoi risultati, per stabilire, unitamente
ad altri indici sintomatici19, la rottura del vincolo associativo e, più in generale per
le altre tipologie di reati (cc.dd. di seconda e terza fascia), l’attualità della
pericolosità sociale?
4. Quando il trattamento penitenziario a cui è sottoposto il condannato perde
credibilità e significato ai suoi occhi, viene messa a rischio l’efficacia dell’intero
percorso penitenziario, percepito come incomprensibile e privo di senso, così come
tutta l’istituzione carceraria in sé.
Con la caduta dell’ostatività per i permessi premio, al detenuto è stata concessa
la possibilità di sperimentare momenti di libertà, destinati a diventare, col tempo (e
in caso di esito positivo), sempre più lunghi e di maggiore impegno nell’attività
extramuraria, sul presupposto di un giudizio slegato da presunzioni assolute, che
esclude la pericolosità ed elementi di collegamento con la criminalità organizzata
nonché la possibilità futura di riallacciarli. È come se il sistema avesse ammesso
che la rieducazione del condannato, in realtà, si può conseguire anche a prescindere
dalla collaborazione. Maturati i requisiti della liberazione condizionale, non sarebbe
più comprensibile vincolare nuovamente il giudizio, già esperito con successo per
la concessione dei permessi premio, al criterio legale della collaborazione, come
dimostrazione tangibile della dissociazione. Il sopravvenuto, e disatteso, obbligo di
collaborare non può più precludere la concessione della misura rieducativa, quando
è stata la sola condotta penitenziaria ad aver consentito di accertare il
raggiungimento di uno stadio del percorso rieducativo adeguato al beneficio da
conseguire. Il sistema penitenziario deve mantenere una sua coerenza intrinseca, in
grado di garantire al condannato il diritto di sapere cosa deve fare perché la sua
liberazione sia possibile e quali siano le condizioni applicabili.
18
Cfr. Commissione parlamentare antimafia, Relazione sull’istituto di cui all’art. 4-bis della
legge n. 354 del 1975, in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla
sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale.
19
Alcuni indici tratti dalla giurisprudenza sono: la dissoluzione del gruppo criminale di
appartenenza o dalla sua mancanza di operatività; dall’eventuale estromissione dell’affiliato
dall’associazione criminale; le condotte rivelative della dissociazione poste durante l’esecuzione
della pena detentiva; il tenore di vita dello stesso detenuto e dei suoi familiari.
174
Sarah Grieco
Del resto l’art. 4-bis, 1° comma, ord. penit stabilisce che tutte le misure
alternative possono essere concesse solo nei casi di utile collaborazione con la
giustizia. Venuta meno la regola base espressa in quel solo, sarebbe difficile
fermarsi al primo gradino della progressività trattamentale, costituito dal permesso
premio, o ipotizzare di inserire anche l’ultimo, la libertà condizionale, lasciando nel
mezzo l’ostatività per tutti quegli istituti del diritto penitenziario che,
progressivamente, segnano il percorso rieducativo e che preparano il condannato
proprio alla liberazione condizionale. Non è da sottovalutare, inoltre, il
cortocircuito che tale impostazione creerebbe anche nella sua applicazione pratica:
è noto, infatti, come, nella prassi, istituti più flessibili come l’affidamento in prova
e, soprattutto, la semi-libertà siano divenuti delle precondizioni rispetto alla
concessione del beneficio de quo; l’impossibilità di una loro applicazione per i
condannati non collaboranti ex art 4-bis, escluderebbe, di fatto, per questi ultimi la
concessione della stessa liberazione condizionale.
Infine il deficit di razionalità dell’impianto normativo, così come congegnato
oggi, emerge, a ben vedere, anche da un altro istituto: il beneficio della liberazione
anticipata applicato (in astratto) anche all’ergastolano senza scampo, e non
intenzionato a (o non in grado di) svolgere una fattiva collaborazione. Un tale
riconoscimento è del tutto inutile, se non può influire sulla durata della detenzione,
ad esclusione della sola riduzione dei limiti temporali per accedere al permesso
premio; né potrà svolgere lo scopo di favorire il reinserimento sociale del reo, per
cui è stato effettivamente concepito, qualora egli, pur avendo diritto al beneficio (e
avendolo ottenuto), non potrà comunque farne uso se non dopo aver collaborato20.
5. È giunto il momento per la Consulta di compiere un significativo passo in
avanti rispetto a quanto fatto con la sentenza n. 253/2019. Anziché limitarsi a
dichiarare l’incostituzionalità del carattere assoluto della collaborazione per
l’istituto in esame, spianando la strada ad altre future decisioni a grappolo, la Corte
dovrebbe applicare l’istituto dell’illegittimità conseguenziale per tutti i benefici
penitenziari, demolendo la preclusione ostativa in sé ed espellendo
dall’ordinamento penitenziario una disposizione che “penitenziaria” non è.
E questo non solo perché, diversamente dal passato, la Corte è investita
direttamente dalla disciplina concernente l’ergastolo ostativo, atteso che
l’ordinanza di remissione concerne un istituto che trasforma la pena perpetua de
iure in una pena perpetua anche de facto21, ma perché i tempi sono orami maturi
A. PUGIOTTO, Criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, in C. MUSUMECI, A. PUGIOTTO,
Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo,
Editoriale Scientifica, Napoli 2016, 81-82.
21
Sul punto si veda la stessa motivazione della sentenza n. 253/2019 in cui la Corte, nello
specificare che oggetto del thema decidendum non è l’ergastolo ostativo ma il singolo permesso
premio, espressamente afferma: «le questioni di legittimità costituzionale sollevate non riguardano
la legittimità costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo, sulla cui
compatibilità con la CEDU si è, di recente, soffermata la Corte europea dei diritti dell’uomo,
sentenza 13 giugno 2019, Viola c. Italia. Questo sarebbe stato l’oggetto delle presenti questioni se
le ordinanze di rimessione avessero censurato – oltre che l’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. – anche
la previsione contenuta nell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152
20
Liberazione condizionale e regime ostativo
175
per scrivere la parola fine ad un meccanismo che appare fortemente lesivo dei diritti
fondamentali delle persone recluse, privandole di quel residuo di speranza e di
responsabilità verso il proprio futuro che nessuna pena può legittimamente
cancellare.
(Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon
andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991,
n. 203, che, richiamando l’art. 176 cod. pen., non consente di concedere la liberazione condizionale
al condannato all’ergastolo che non collabora con la giustizia e che abbia già scontato ventisei anni
effettivi di carcere, così trasformando la pena perpetua de iure in una pena perpetua anche de facto».
ANCORA UNA QUAESTIO IN TEMA DI ERGASTOLO:
UN’INGRAVESCENTE IDIOSINCRASIA
VERSO L’OSTATIVITÀ?
di ANTONIO LEGGIERO
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Un excursus storico-giuridico. – 3. Il vincolo della Corte
EDU. – 4. Riverberi ordinamentali interni. – 5. Ipotesi, prospettive, sviluppi. – 6.
Conclusioni.
1. Seguendo la poderosa e catarifrangente scia (foriera di storiche novità
ordinamentali) prodotta dal passaggio epocale della sentenza della Corte
costituzionale n. 253/2019 la quale, de facto, ha prodotto un penetrante vulnus nella
tenuta dell’ergastolo ostativo, una nuova quaestio si affaccia sulla scena, avente
l’impostazione teleologica ultima, mal dissimulata, di inchiodare gli ultimi tasselli
al sarcofago funerario dell’ergastolo ostativo.
Infatti, in data 3-18 giugno 2020 la Prima Sezione Penale della Suprema Corte
di Cassazione ha promosso questione incidentale alla Corte costituzionale avente
ad oggetto la legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1 e dell’art. 58-ter
della legge n. 354 del 1975 (ordinamento penitenziario) nonché dell’art. 2 del d.l.
n. 152 del 1991 convertito in legge n. 203 del 1991, in riferimento all’asserita
lesione dei fondamentali artt. 3, 27 e 117 della Costituzione. Nello specifico, in
punto di stretto diritto, le norme portate all’attenzione della Consulta
arrecherebbero un grave vulnus ai parametri costituzionali indicati, «nella parte in
cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi
delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle
associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa
essere ammesso alla liberazione condizionale».
Dal punto di vista squisitamente fattuale, la vicenda trae origine da un ricorso
in Cassazione da parte di un affiliato alla criminalità organizzata - non collaborante
con la giustizia (ex art. 58-ter, comma 1, ord. penit.) – al quale reiteratamente è
stata rifiutata l’istanza volta all’accertamento della collaborazione impossibile (ex
art. 4-bis, comma 1-bis, ord. penit.). Nello specifico trattasi di detenuto che sta
scontando la pena dell’ergastolo per un crimine sussunto nel paradigma normativo
dei reati cc.dd. ostativi al rilascio di benefici penitenziari. Segnatamente, la sua
istanza è finalizzata all’ottenimento della liberazione condizionale, avendo scontato
ventisette anni di reclusione e trovandosi nella potenziale condizione giuridica di
poter fruire del beneficio ex lege previsto dall’art.176 c.p. La domanda, in prima
istanza, è stata respinta dal Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila (per competenza
territoriale) e successivamente, in seconda istanza, dalla Suprema Corte di
Cassazione (alla quale aveva inoltrato regolare e successivo ricorso di rito contro
Criminologo.
Ancora una quaestio in tema di ergastolo
177
la decisione de qua). Ancora una volta, l’insormontabile ostacolo che funge da
impenetrabile barriera verso la libertà, è costituito dal fatto che il soggetto in
questione è ristretto per l’esecuzione dell’ergastolo ostativo, in quanto non
collaborante con la giustizia.
Nuovamente, si pone il problema della compatibilità costituzionale di un ordito
normativo che preclude in modo assoluto la concessione del beneficio in questione,
sulla scorta dell’assenza del dirimente elemento della collaborazione.
Nell’ordinanza del giudice a quo si legge: «il dubbio di costituzionalità trova causa
nel convincimento che la collaborazione non può essere elevata ad indice esclusivo
dell’assenza di ogni legame con l’ambiente criminale di appartenenza e che, di
conseguenza, altri elementi possono in concreto essere validi e inequivoci indici
dell’assenza di detti legami e quindi di pericolosità sociale».
Conseguentemente, il criterio vincolante dell’assenza di collaborazione,
tradotto in una soggiogante forca caudina per il detenuto (a parere del giudice
rimettente) produrrebbe una pretermissione di ogni valutazione dell’ambito
personale di recupero e risocializzazione, vulnerando pesantemente l’intelaiatura
della Grundnorm con la violazione degli articoli della stessa evocati nella relativa
ordinanza di rimessione.
2. Sebbene il thema decidendum, oggetto della nostra attuale disamina
ontologica e normativa, sia apparentemente connotato da una marcata innovatività
- caratterizzato da una stringente ed assoluta vivacità (stante il forte nexum con la
tematica dell’ergastolo ostativo e delle sue recenti vicissitudini) - lo stesso non
costituisce un assoluto outsider giuridico nel panorama ordinamentale (in special
modo giurisprudenziale).
Infatti, già in passato si erano interessati di tale spinosa argomentazione sia la
Corte di Cassazione che la Corte costituzionale. Addirittura, nelle decisioni della
Consulta esiste un preciso antecedente, la sentenza n. 135/2003, che rappresenta
una sorta di macroscopica pietra miliare pretoria in materia. Ebbene, diciassette
anni or sono, il Giudice delle Leggi ritenne infondata la quaestio dell’ergastolo
ostativo in rapporto preclusivo alla concessione della liberazione condizionale,
fugando ogni sprazzo di perplessità portato dal vento della sospetta
incostituzionalità. Infatti, in quel precedente si legge che l’art. 4-bis, comma 1, ord.
penit., «subordinando l’ammissione alla liberazione condizionale alla
collaborazione con la giustizia, che è rimessa alla scelta del condannato, non
preclude in modo assoluto e definitivo l’accesso al beneficio».
Con maggiore impegno esplicativo, che il detenuto abbia a disposizione una
così forte e tranciante chance ordinamentale non produce alcuna distonia né di tipo
legislativo ordinario, né di rilievo costituzionale. Quindi, in definitiva, il fatto che
le leve dei pulsanti decisionali siano concentrate proprio nelle mani del condannato,
rappresenta la garanzia migliore della legittimità (oltre che della congruità in
termini di politica criminale) della norma, eleggendolo supremo dominus del suo
destino penitenziario.
Conseguentemente, la Consulta non ha ritenuto irragionevole l’opzione
normativa di lasciare al detenuto la possibilità di fruire dell’istituto ex art. 176 c.p.
178
Antonio Leggiero
in base alle sue decisioni. Fra l’altro, la sua eventuale opzione di recidere ogni
legame con il sodalizio criminale di appartenenza rende evidente e sicuro (a detta
della Corte costituzionale) il tanto dibattuto e controverso ravvedimento del reo. In
altri termini, rappresenta un potente ed incontrovertibile indice legale che resiste ad
ogni eventuale ipotesi contraria di segno controfattuale.
Seguendo - pedissequamente e minuziosamente - il leit motiv della Consulta,
anche la Suprema Corte di Cassazione si è adeguata ai desiderata giurisprudenziali
enunciati. Ragion per cui, il Giudice di Legittimità, in diverse e reiterate occasioni,
ha sempre rigettato - considerandola manifestamente infondata - l’attuale questione
(ex multis Sez. I pen. 17 gennaio-16 febbraio 2017 n. 7428; Sez. I pen. 22 marzo 1 luglio 2016 n. 27149; Sez. I pen. 20 marzo – 17 luglio 2015 n. 31203). Pertanto,
la Corte nomofilattica ha eretto negli anni un insormontabile baluardo difensivo a
tutela e protezione dell’assunto dei Giudici costituzionali, i quali avevano
proclamato la perfetta compatibilità ordinamentale (ordinaria e costituzionale) fra
l’istituto della liberazione condizionale e la sua inapplicabilità agli ergastolani
ostativi, in assenza di un sicuro ravvedimento evidenziato plasticamente ed
icasticamente dalla collaborazione con la giustizia.
Le sue ripetute sentenze, tutte di uguale segno, sembravano assumere la forma
simile alle invalicabili mura giustinianee di Costantinopoli. Eppure, nonostante
questo granitico sostrato giurisprudenziale (costituito da notevoli ed autorevoli
precedenti tutti deponenti in senso univoco ed uniforme), in questa occasione, la
Corte di Cassazione (medesima sezione: la Prima) ha ritenuto di infrangere tali
rigide e consolidate regole di “diritto vivente”, considerando questa volta non
manifestamente infondata la questione pervenuta alla sua attenzione e promovendo
giudizio di legittimità davanti alla Consulta.
I binari lungo i quali il Giudice di Legittimità ha incanalato le sue
argomentazioni sono nitidamente marcati.
In primo luogo, il sempre più considerato, enfatizzato e valorizzato principio
di rieducazione del condannato in connubio con la progressiva tendenza di
accentuazione dell’umanizzazione della pena (al riguardo è stato ricordato un
lontano antecedente della Consulta, la sent. n. 161/1997, secondo cui «la liberazione
condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento
rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione la
pena dell’ergastolo»), sulla scorta del quale il giudice a quo ha argomentato a
contrario l’inconfigurabilità di preclusioni assolute in materia.
In secondo luogo (e non poteva essere diversamente) è stata evidenziata la
portata dirompente e fortemente innovativa della storica (ancorché recente)
sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale, la quale ha rimarcato il «carattere
assoluto della presunzione di mantenimento dei collegamenti con l’organizzazione
criminale del detenuto che non collabori», considerandola costituzionalmente
illegittima ex artt. 3 e 27 Cost.
Pertanto, per la Prima Sezione della Corte di Cassazione, stavolta, i tempi
sembrano maturi per una rivalutazione ed una riconsiderazione melius re perpensa
di una vexata questio sulla quale tanto negli anni si è dibattuto. In altre parole, per
un significativo revirement dei propri precedenti arresti in tema.
Ancora una quaestio in tema di ergastolo
179
3. Com’è noto, i giudici della Corte EDU si sono già espressi in materia di
ergastolo ostativo nella celeberrima sentenza Prima Sezione Viola c. Italia n.2 del
13 giugno 2019.
In quell’occasione la Corte di Strasburgo, da un lato, ha ben considerato che
«la legislazione interna non vieta in modo assoluto e con effetto automatico» uno
spiraglio di libertà per il detenuto caduto sotto la scure dell’ergastolo ostativo,
rendendolo astrattamente fruibile attraverso il pur complesso e difficoltoso percorso
di collaborazione con la giustizia. Al tempo stesso, però, ha considerato che il
suddetto iter collaborativo «nella sua applicazione pratica finisca per limitare
eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità per
quest’ultimo di domandare il riesame della pena».
La Corte, quindi, in maniera nemmeno dissimulata, contesta il legame a filo
doppio della presunzione di pericolosità embricata con la mancata dissociazione
dalla societas sceleris. Secondo la Corte di di Strasburgo l’opzione necessitata della
collaborazione può non essere agevolmente praticabile dal detenuto dal momento
che, imboccando questo percorso, espone se stesso ed i suoi familiari a pesanti
rischi di gravi ritorsioni anche mortali. Al tempo stesso, la tanto decantata
dissociazione-collaborazione, non necessariamente è sicuro indice di ravvedimento
da parte del condannato, dal momento che la stessa può essere posta in essere dal
condannato in modo esclusivamente finalistico-strumentale, al fine di fruire dei noti
e cospicui benefici di legge. Ancora, l’enfatizzazione della collaborazione ed il
pesante stigma consequenziale dell’assenza della stessa scotomizza il concreto,
reale ed eventualmente proficuo percorso di risocializzazione e ravvedimento dallo
stesso posto in essere.
Conseguentemente, dopo un atteggiamento in qualche misura altalenante e
pendolare - a tratti di segno antitetico, a tratti di segno conciliativo - la Corte EDU
alla fine, ha disvelato il suo reale atteggiamento di disfavore nei confronti
dell’ergastolo ostativo, ritenendolo lesivo della dignità umana, dal momento che in
ultima analisi non predispone per il soggetto ristretto una concreta chanche
ordinamentale (che non sia quella forzosa e potenzialmente non genuina della
collaborazione) di riacquisto della propria libertà.
Riportando pedissequamente le parole della Corte EDU, si legge nella sentenza
della Grande Camera Vinter ed altri c. Regno Unito del 9 luglio 2013: «l’esistenza,
invece, di preclusioni assolute alla liberazione condizionale si risolve in un
trattamento inumano e degradante (…) e ciò perché, in tal modo, il detenuto viene
privato del diritto alla speranza».
Ecco dunque, uno dei punti-chiave della questione oggetto di dibattito, che ne
rappresenta il vero punctum dolens: così impostato il problema, la pena
dell’ergastolo ostativo è compatibile con la CEDU e, per l’effetto mediato, con
l’articolo 117, comma 1, Cost. che quella Convenzione (fra le altre) tutela con
l’usbergo della costituzionalità?
4. Scrutinando l’ordinanza di rimessione del giudice a quo e sottoponendola ad
attenta disamina esegetico-giuridica nonché di politica penale, si colgono quattro
180
Antonio Leggiero
punti fermi che costituiscono importanti pietre miliari lungo lo snodarsi del
cammino giurisprudenziale della Cassazione. Analizziamoli partitamente.
In primo luogo si ritiene che, eleggendo la collaborazione con la giustizia ad
esclusivo parametro discriminatorio ai fini della concessione del beneficio della
liberazione condizionale (ex art. 176), si finisce per porre un pesante ed
ingiustificato fardello sulle già oberate spalle dell’ergastolano ostativo ai fini
dell’espiazione della pena e delle sue correlate modalità.
In secondo luogo, si enfatizza negativamente (fino agli estremi della
criminalizzazione) un dato di per sé intrinsecamente neutro come il silenzio,
caricandolo di una valenza negativa che il nostro ordinamento non prevede, anche
e soprattutto alla luce del fondamentale principio penalistico (di conio sostanziale
e processuale) del nemo tenetur se detegere.
In terzo luogo, uno sbarramento de plano così consistente, a monte, impedisce
il congruo ed obiettivo esercizio della propria funzione alla Magistratura di
Sorveglianza, posta in condizioni di non poter valutare ciò che è consustanziale al
suo ruolo: vale a dire i naturali ed eventuali progressi compiuti dal detenuto nel
corso dell’esecuzione della sua pena.
In quarto ed ultimo luogo si obliterano pesantemente gli eventuali cambiamenti
della personalità del condannato, soprattutto in relazione alla realtà esterna
all’universo penitenziario.
Ne deriva, secondo il giudice a quo, l’incostituzionalità dell’art. 4-bis, comma
1 e dell’art. 58-ter dell’ordinamento penitenziario nonché dell’art. 2 del d.l. n. 152
del 1991 convertito nella legge n. 203 del 1991, dal momento che «in riferimento,
dunque, alla espiazione della pena, specie se di lunga durata, presunzioni di tal fatta
non possono che essere relative, dovendo sempre ammettersi la possibilità di una
valutazione in concreto dell’incidenza avuta dal trattamento penitenziario sulla
personalità del detenuto, proprio in conformità alle previsioni dell’art. 27, comma
3, Cost.».
Analizzando perspicuamente ed argutamente l’ordinanza di rimessione, si
coglie l’assunto dei giudici della Prima Sezione Penale di Cassazione in base ai
quali la notissima e dirompente sentenza n.253/2019 non si sarebbe limitata a
stigmatizzare il divieto della concessione del permesso premio agli ergastolani
ostativi (come sembrerebbe prima facie), ma avrebbe avuto una portata molto più
ampia e totalizzante comprendendo un generale atteggiamento istituzionale e
costituzionale di disvalore e di idiosincrasia normativa verso la figura dell’ergastolo
ostativo tout court.
Tuttavia, è vero quanto affermano i giudici rimettenti o si tratta di una capziosa
e surrettizia forzatura pretoria (sebbene autorevolissima) di quanto affermato dalla
Consulta? Non è che si tratti di un «Cicero pro domo sua»?
A ben vedere, la Corte costituzionale, nell’excursus dell’ormai arcinota
sentenza, ha avuto modo e tempo di affermare espressis verbis ed in maniera
incontrovertibile che le sue argomentazioni «non riguardavano la legittimità
costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo». In altri
termini, il thema decidendum non poneva il generale problema dell’ergastolo
ostativo, ma soltanto il particulare (permesso premio legato alla pena aggravata) di
machiavellico sapore.
Ancora una quaestio in tema di ergastolo
181
Approfondendo la disamina, dal punto di vista ontologico, i due istituti oggetto
di attenzione da parte della Consulta (il permesso premio e la liberazione
condizionale) sono di conio normativo e spessore dogmatico completamente
diversi. Dal punto di vista della loro intrinseca natura, la liberazione condizionale è
una causa estintiva della pena alla quale il condannato accede de plano in base ai
requisiti di legge; il permesso premio, invece, consta in una concessione
discrezionale di un beneficio di legge nel corso dell’esecuzione della pena. Anche
dal punto di vista dell’assetto teleologico di politica criminale, mentre l’istituto ex
art. 176 è finalizzato al progressivo reinserimento sociale, il permesso premio è
finalizzato al perseguimento di molto meno impegnative finalità di interessi
culturali, lavorativi ed affettivi (seppure in qualche modo, ma molto liminarmente,
egualmente connessi alla rieducazione ed al reinserimento).
5. Indubbiamente, si profilano diversi scenari al riguardo della soluzione di
quest’ulteriore questio concernente l’ergastolo ostativo, portata all’attenzione dei
Giudici costituzionali.
Vi potrà essere un’ulteriore declaratoria di incostituzionalità (magari di tipo
consequenziale, auspicata da molti), così come vi potrà essere una decisione
interlocutoria (sulla falsariga della tematica concernente il suicidio assistito) che
consenta ancora margini per una soluzione legislativa (fisiologica) de jure
condendo, o vi potrà essere un improbabile rigetto della questione sollevata (ipotesi
minoritaria, dal momento che è ancora fortemente luminosa – nel firmamento
giuridico - la scia della cometa della sentenza sui permessi premio). Tuttavia, è
impossibile misconoscere come il vero obiettivo di tutta questa levata di scudi sia
l’istituto dell’ergastolo ostativo in sé. Se ciò è vero (e vi sono pochi dubbi al
riguardo), la soluzione più congrua e maggiormente virtuosa di tale vicenda non
può che essere quella di calare la spinosa questione dell’ergastolo ostativo
nell’emiciclo parlamentare, sede per definizione a ciò preposta.
Non è ipotizzabile che la Corte costituzionale venga investita di un potere in
parte ultroneo alle sue attribuzioni, calando sotto la scure dell’incostituzionalità
l’ergastolo ostativo tout court. Anche se, ad onor del vero, la storia è densa di
interventi simili della Consulta su tematiche giuridiche di primissimo piano,
spessore ed interesse.
Al riguardo, non è inopportuno ricordare che la Commissione Parlamentare
Antimafia, nella seduta del 20 maggio scorso, ha approvato un apposito documento
ad hoc dal titolo «Relazione sull’istituto di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del
1975, in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze determinanti
dalla sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale».
Ivi si legge testualmente che, in base agli asserti della Corte costituzionale e
della Corte EDU, «la preclusione assoluta in mancanza di collaborazione non è più
compatibile con la Costituzione e con la Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo». Al tempo stesso, in una sorta di sdoppiamento di personalità
istituzionale - che assume l’amaro sapore del compromesso - si apprende, leggendo
altre righe del testo in commento, che la preclusione assoluta di pericolosità ex art.
182
Antonio Leggiero
4-bis, comma 1, ord. penit. «ha costituito un meccanismo fondamentale nel
processo di smantellamento delle organizzazioni criminali».
Sempre la Commissione Antimafia nel medesimo contesto afferma che la
collaborazione con la giustizia deve essere conservata e mantenuta come
«condizione “privilegiata” di accesso ai benefici», al tempo stesso però
dischiudendo rivoluzionarie ipotesi, per le quali il varco - fortemente presidiato
dall’art. 4-bis - deve potersi raccordare normativamente con la possibilità di
fruizione del beneficio della libertà condizionale ex art.176 c.p. Naturalmente, in
quest’ultima ipotesi, anche in condizioni di assenza di percorso collaborativo e
dissociativo del condannato.
Al di là di queste affermazioni, certamente veritiere ma dai connotati simili a
quelli dell’antico Giano bifronte, il vero ubi consistam è rappresentato dalla
lapidaria affermazione (oltremodo condivisibile ed auspicabile al fine di risolvere
la vexata questio) per la quale la conversione ontologica e dogmatica, ma
soprattutto pragmatica, della presunzione assoluta in relativa, con dismissione delle
anguste catene del vincolo assolutistico «non può che essere supportata da nuove
soluzioni normative». Tale affermazione sembra perfettamente in linea ed in
sintonia con la migliore (nonché certamente e maggiormente desiderabile) delle
soluzioni in tema di ergastolo ostativo, ormai assediato da troppi eserciti e
compresso in ogni pietra angolare del suo bastione difensivo.
6. Sfrondato da tutte le foglie progressiste ed umanitarie, nonché depurato dal
forzato seguito della poderosa e tumultuosa corrente dell’art. 27, comma 3, Cost.,
il problema – funditus - concerne la mal tollerata convivenza della nostra
impalcatura ordinamentale con l’istituto dell’ergastolo, così come variamente
declinato dal legislatore in tutte le sue articolazioni.
In effetti, com’è agevole constatare anche da un quivis de populo, con il
trascorrere dei decenni, la presenza della pena del carcere a vita nel nostro sistema
penale - tranne nei casi dove la linfa a favore del mantenimento era alimentata da
diverse contingenze emergenziali di taglio mafioso e terroristico (che si nutrivano
di un forte spirito emozionale della collettività) - è sempre stata poco e mal digerita.
Con il passare degli anni, è divenuto sempre di più un ospite tanto sgradito quanto
indesiderato. Una sorta di convitato di pietra.
Conseguentemente, nel tempo, si è proceduto ad una progressiva erosione
dell’istituto in oggetto - sia a colpi di frequenti picconate della Consulta che di
decisioni (talvolta anche avventate) di politica-criminale - creando un sistema
ordinamentale dove la pena perpetua esiste soltanto de jure ma non de facto. In
sostanza, creando un simulacro di ergastolo (tranne, si ripete, per alcune categorie
di criminali). Con il tempo, la pena perpetua è diventato un vuoto tabernacolo,
malfermo, continuamente oggetto di incaute e, spesso inopinate, aggressioni.
Ciononostante, si sono registrate anche positive modifiche normative in tema,
ragionevoli ed equilibrate. Per ricordare le più importanti, basti citare la sentenza
della Corte costituzionale n. 168/1994 che ha considerato illegittimo
costituzionalmente l’ergastolo per i minori. Oppure l’espunzione ordinamentale del
cosiddetto e famigerato “ergastolo bianco” degli internati negli ospedali psichiatrici
Ancora una quaestio in tema di ergastolo
183
giudiziari, avvenuta con il d.l. n. 52 del 2014 convertito nella legge n. 81 del 2014.
O ancora e soprattutto, le storiche decisioni della Consulta n. 204 e n. 264/1974 le
quali, in buona sostanza, hanno eliminato la reale natura indeterminata ed indefinita
della pena a vita, demolendone la caratura di perpetuità, dal momento che si è
riconosciuta anche agli ergastolani comuni la possibilità di fruire della liberazione
condizionale.
Seguendo questo leit motiv, da qualche decennio, si registrano periodiche
mobilitazioni di massa (che ricordano le infinite crociate in Terra Santa) finalizzate
all’eradicazione della pena dell’ergastolo tout court dal nostro codice penale. Le
motivazioni sono le più svariate e disparate. Si parte da argomentazioni umanitarie
(non di rado anche intrise di considerazioni fideistiche-teologiche) per transitare in
valutazioni sulla congruità di una politica criminale senza possibilità di
reinserimento, finendo per riconoscere un’asserita obsolescenza normativa di un
“fine pena mai”, considerato non più in linea con i tempi nonché fortemente
distonica rispetto alle altre norme costituzionali.
Su tutte spicca, per importanza e spessore normativo, l’art. 27, comma 3, Cost.,
per il quale la pena deve tendere alla rieducazione ed al reinserimento del
condannato, non ammettendo sanzioni contrarie a tale dettato legislativo.
Indubbiamente si tratta di un disposto costituzionale importantissimo, ma che nel
tempo si è prestato a svariate e distorte forzature ermeneutiche, divenendo un po’ il
leggendario letto elastico del brigante Procuste. Seguendo questo assunto,
l’ergastolo, non consentendo alcun tipo di reinserimento e di rieducazione, stante la
sua condizione consustanziale di detenzione sine die, sarebbe chiaramente
incostituzionale. Addirittura - secondo un’interpretazione certamente suggestiva ed
accattivante, ma al tempo stesso artata - l’ergastolo integrerebbe una violazione del
divieto della pena di morte previsto dal comma 4 dell’art. 27 Cost, dal momento
che produrrebbe nei condannati una pena fino alla morte.
È ovvio che così impostata la questione, sensibile alle sirene
indulgenzialistiche e di matrice buonista (le quali, da molto tempo, sono arroccate
fermamente sui diversi scogli delle nostre coste ordinamentali), si colgono soltanto
alcuni aspetti del fenomeno, non riuscendo a valutarne in modo distaccato ed
asettico le condizioni ed il relativo sostrato. In altri termini, ci si arresta ad una sua
valutazione epifenomenica.
La pena dell’ergastolo non è un sadico capriccio del legislatore. Non è una
iattura che si abbatte a caso, in maniera arbitraria, su alcune categorie di condannati.
Al contrario, si tratta di una pena (estrema) per dei crimini (estremi). Uno Stato
degno di tal nome e che voglia tutelare adeguatamente la sicurezza dei propri
cittadini non può non prevedere - come extrema ratio nonché come una sorta di
norma di chiusura del sistema sanzionatorio - una pena del genere. Diversamente,
verrebbe vanificata ogni esigenza general-preventiva e special-preventiva. Ferma
restando, naturalmente, la necessità di bilanciare tali primari valori con altri di
uguale levatura e caratura, come la dignità della persona e del condannato, e
perseguendo l’obbligo di cercare di realizzare per ogni detenuto forme di
reinserimento sociale (diversamente declinate, in base al contesto soggettivo, ed
opportunamente modulate, in base allo scenario oggettivo).
184
Antonio Leggiero
Proprio alla luce dei sopra esposti fondamentali doveri statuali di protezione e
tutela dei consociati, sono da considerare legittime (e finanche opportune) tutte le
misure sanzionatorie diversificatamente applicabili ai vari soggetti, anche
procedendo ad una gradazione ed a una limitazione della fruizione delle chance
ordinamentali.
Del resto, se è vero che l’art. 27, comma 3, Cost. prevede una tendenziale
rieducazione mista a reinserimento sociale del detenuto, proprio in quanto
tendenziale non esiste nessun divieto di prevederne delle deroghe per reati di
notevole spessore criminale, così come impone l’immanente principio di
retribuzione presente anche nel nostro ordinamento, sebbene in forma mitigata e
dimessa, con tratti da oblio della finalità della pena in parola. Con maggiore
impegno esplicativo, si potrebbe dire che il reinserimento sociale del condannato è
sensibile a varie controistanze di sicurezza e difesa sociale, elementi certamente
non di minor peso, ed è diversamente modulato in base al contesto stesso ed alla
tipologia di detenuto-criminale.
Francamente non sembra eccessivo né ingiusto prevedere per determinate
categorie di criminali efferati, condannati all’ergastolo nella sua forma ostativa per
reati gravissimi (come stragi ed omicidi plurimi), chiedere come contropartita
all’ottenimento di alcuni benefici (come la liberazione condizionale) la rescissione
di ogni legame con la societas sceleris di appartenenza ed un netto distacco con
l’humus sociale di provenienza. Si potrà obiettare che si tratta di scelte difficili e
gravose, le quali non vanno esenti da rischi, ma è la carriera del criminale di per sé
ad essere intrinsecamente oberata da fattori di pericolosità di vario tipo. E non va
dimenticato che al triste genus dell’ergastolo ostativo appartengono soggetti che
hanno eletto il crimine ad una scelta consapevole di vita, soppesando
preliminarmente vantaggi e rischi. Fra questi, anche quelli dell’ergastolo ostativo.
Conseguentemente, hanno commesso reati feroci e ripetuti che strutturano delle
carriere criminali spaventose ed orribili.
Ragion per cui, mentre l’ordinamento - giustamente e doverosamente - si
interroga sulla pena del detenuto (rectius criminale) e sui risvolti che la sanzione
stessa dispiega sulla vita e sulla morte del soggetto in questione, nessuna profonda
e scrupolosa perplessità (di genere ontologico o normativo) ha sfiorato
minimamente la mente del reo, quando ha soppresso le vite delle proprie vittime,
sovente in giovane età ed in modo cruento e raccapricciante.
RIEDUCAZIONE, DIRITTO ALLA SPERANZA
E PROSPETTIVE DELLA LIBERAZIONE CONDIZIONALE
DOPO LA “FINE” DELL’ERGASTOLO OSTATIVO
di ADRIANO MARTUFI*
SOMMARIO: 1. La liberazione condizionale: il convitato di pietra al cospetto
dell’ergastolo ostativo? – 2. Alcune considerazioni in punto di rilevanza: l’abbraccio
mortale tra collaborazione e ravvedimento. – 3. Le prospettive di un intervento
manipolativo: liberazione condizionale e legalità penale.
1. Questo breve contributo, a margine dell’ordinanza di rimessione della Prima
Sezione Penale della Corte di cassazione1, si concentra sui profili riguardanti
l’istituto della liberazione condizionale, per molti aspetti il «convitato di pietra»
nella discussione sulla legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo. Dopo una
breve introduzione, si affronta il tema dei rapporti tra collaborazione (ex artt. 4-bis,
comma 1 e art. 58-ter ord. penit.) e ravvedimento del reo (ex art. 176, comma 1,
c.p.) con particolare riferimento all’ammissibilità della quaestio. In seguito,
ipotizzando un eventuale accoglimento della questione di legittimità, il contributo
volge lo sguardo alle prospettive future della liberazione condizionale con riguardo
alle pene detentive di lunga durata e all’ergastolo.
La liberazione condizionale, occorre dirlo subito, è istituto ibrido – o, se si
preferisce – polimorfo: improntato in origine a una logica spiccatamente premiale,
era concesso fino all’intervento della Corte costituzionale (con la nota sentenza n.
204/1974) dal ministro della Giustizia sul presupposto della «buona condotta» del
condannato 2. Nel corso del tempo, e segnatamente per effetto della riforma
introdotta con legge n. 1634 del 1962, la liberazione condizionale è venuta a mutare
le proprie fattezze al fine di riflettere in modo più fedele il «volto costituzionale
della pena» tratteggiato dall’art. 27, comma 3, Cost. Ancorato oggi al presupposto
del «sicuro ravvedimento» del condannato, l’istituto resta tuttavia contraddistinto
da talune ambiguità che riflettono la tumultuosa evoluzione storica della sua
disciplina legislativa.
Nell’originario disegno del codice Rocco, la liberazione condizionale si
configurava quale unico strumento suscettibile di restituire flessibilità
all’esecuzione penitenziaria. Con l’avvento delle misure alternative previste
dall’ordinamento penitenziario, l’istituto ha finito inevitabilmente per perdere
centralità ritagliando il proprio ambito applicativo all’ultimo segmento
dell’espiazione della pena. Come noto, tuttavia, la giurisprudenza costituzionale
individua nella liberazione condizionale l’architrave da cui dipende la legittimità
*
Assistant Professor of Criminal Law, Università di Leida (Paesi Bassi)
Cass. Sez. I penale, ord. 3-18 giugno 2020 Corte di Cassazione, I sez. penale, Pres. Mazzei,
Est. Santalucia, in GU n. 34 del 19 ottobre 2020.
2
Cfr., per tutti, M. CANEPA, S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Giuffré, Milano 2004,
178.
1
186
Adriano Martufi
costituzionale dell’ergastolo comune3. Rendendo nei fatti soltanto eventuale la
perpetuità di tale pena4, la liberazione condizionale apre lo spazio alla progressività
e alla necessaria individualizzazione del trattamento.
In modo per certi aspetti più sorprendente, la Consulta ha nuovamente fatto
leva sull’accesso alla liberazione condizionale per rigettare l’illegittimità
costituzionale dell’ergastolo ostativo nella sentenza n. 135/2003. Ad avviso della
Corte, la «riducibilità» della pena sarebbe comunque possibile, risultando
ostacolata non già dalla preclusione normativa dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit.,
ma soltanto dalla scelta dell’ergastolano di rifiutare (al di fuori dai casi di
impossibilità e inesigibilità) la collaborazione con la giustizia. In tale scelta
risiederebbe, in ipotesi, un indice legale «della persistenza dei collegamenti con la
criminalità organizzata»5: una presunzione assoluta che cementa la preclusione
rigida dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. e inibisce l’esercizio della discrezionalità
giudiziale al fine di valutare l’evoluzione personologica del reo.
E su questo snodo argomentativo che punta a fare breccia l’ordinanza di
rimessione, cercando di scindere l’identità logica tra mancata collaborazione e
mancato ravvedimento al fine di appalesarne l’irragionevolezza. Appare evidente,
infatti, che una volta rimesso in discussione tale assioma la presunzione in discorso
offre il fianco a insormontabili censure di costituzionalità: a partire
dall’impossibilità per la liberazione condizionale di assolvere alla funzione
costituzionalmente doverosa di strumento del trattamento progressivo e
individualizzato per tutti gli ergastolani.
Insomma: a differenza di quanto avvenuto in occasione della sentenza n.
253/2019, la liberazione condizionale è oggi direttamente investita dalla questione
di legittimità costituzionale, rimanendo purtuttavia estranea al petitum (l’art. 176
c.p. non figura tra le norme censurate dal giudice a quo). Il richiamo all’istituto in
esame appare comunque decisivo nell’economia del sindacato di costituzionalità
sull’ergastolo ostativo, sollecitando una riflessione circa l’ammissibilità della
quaestio e le prospettive della liberazione condizionale nell’eventualità di un suo
accoglimento.
2. Il tema dell’ammissibilità va in questa sede declinato sotto il profilo della
rilevanza, come opportunamente evidenziato dalla traccia di discussione. Il testo
proposto dai curatori del volume, infatti, avanza il dubbio che la questione sollevata
possa risultare meramente ipotetica, dal momento che la concessione della
liberazione condizionale, preclusa dalle norme censurate (artt. 4-bis e 58-ter ord.
penit. e art. 2, comma 2 del d.l. n. 152 del 1991), non è destinata ad operare in modo
automatico in caso di accoglimento. Tale perplessità sarebbe inoltre corroborata
3
Impossibile non richiamare la sentenza Corte costituzionale n. 264/1974 ove si afferma «che
l'istituto della liberazione condizionale disciplinato dall'art. 176 c. - nel testo modificato dall'art. 2
della legge 25 novembre 1962, n. 1634 - consenta l'effettivo reinserimento anche dell'ergastolano
nel consorzio civile».
4
Cfr. A. BERNARDI, Ergastolo: verso una effettiva «pluridimensionalità» della pena
perpetua?, in Arch. Giur. Serafini, 1984, 406.
5
Corte costituzionale, sent. 5 luglio 2001 (de 20 luglio 2001), n. 273, §5.
Rieducazione, diritto alla speranza e prospettive della liberazione condizionale
187
dalla mancata prospettazione nel giudizio a quo di utili indicazioni circa le ragioni
che motivano la scelta dell’ergastolano di non collaborare con la giustizia.
Ad avviso di chi scrive tali perplessità paiono superabili. Secondo un
orientamento ormai consolidato, la rilevanza dipende infatti dal requisito
dell’applicabilità della norma nel giudizio a quo e dalla circostanza che
un’eventuale pronuncia di accoglimento possa produrre effetti nel giudizio
principale6. Ad un attento esame, entrambe le condizioni sembrano soddisfate nel
caso di cui si dibatte allorché si ponga mente al rapporto giuridico-strutturale tra le
norme censurate e l’art. 176 c.p.
Secondo un’interpretazione ricorrente, suffragata dalla già citata sentenza n.
135/2003, vi sarebbe infatti identità logica tra mancata collaborazione esigibile e
ravvedimento. Tale assunto sembrerebbe in tal modo fornire un solo e assorbente
«criterio legale» a cui ancorare il giudizio sulla rieducazione dell’ergastolano
ostativo. In quest’ottica, in effetti, sembra possibile sostenere che un’eventuale
dichiarazione di incostituzionalità nel caso di specie non condurrebbe a un
significativo mutamento nel giudizio a quo, posto che l’art. 176 c.p. resterebbe pur
sempre applicabile: a mutare sarebbero, al più, i criteri di fondo da cui dipende il
giudizio sul ravvedimento del reo. All’unico «criterio legale» della collaborazione
verrebbero a sostituirsi i molteplici fattori individuati – non senza incertezze – dalla
giurisprudenza di legittimità per dare sostanza al concetto di «ravvedimento». Ciò,
tuttavia, lascerebbe impregiudicato l’esito del giudizio principale, in assenza di
elementi idonei a motivare la mancata collaborazione con la giustizia.
Sennonché, al di là del rilievo espresso dalla Corte nella sentenza n. 253/2019
(e in alcune pronunce recenti7) secondo cui la rilevanza non coincide con «l’utilità
concreta per le parti in causa» a seguito della decisione, va osservato che nel caso
di specie un eventuale accoglimento determinerebbe l’insorgere di una diversa
regula iuris, con implicazioni per il «conseguente esercizio della funzione
giurisdizionale»8. A nostro avviso, infatti, il complesso normativo censurato, non si
limita a offrire una presunzione di mancato ravvedimento ma, come correttamente
rivelato dai rimettenti, impedisce in limine un giudizio sul percorso risocializzativo
dell’ergastolano ostativo. Se ciò accade, è perché le norme oggetto di censura
ostano a una cognizione piena da parte dei giudici di sorveglianza, derogando alla
disciplina di cui all’art. 176, comma 1, c.p. limitatamente ai presupposti soggettivi
per l’accesso alla liberazione condizionale.
Sotto questo profilo è decisivo il riferimento nell’atto di promovimento all’art.
2 del d.l. 152 del 1991, norma che incardina la concessione della liberazione
condizionale ai presupposti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. Trattasi di
rinvio mobile, da intendersi quindi come richiamo alla collaborazione con la
giustizia ex 58-ter ord. penit: in tal modo, il complesso di norme censurate deroga
esplicitamente alla comune disciplina della liberazione condizionale applicabile
6
Cfr., anche per ulteriori riferimenti giurisprudenziali, S. CATALANO, Valutazione della
rilevanza della questione di costituzionalità ed effetto della decisione della Corte sul giudizio a quo
in www.gruppodipisa.it, 10 luglio 2017.
7
Corte costituzionale, sent. 10 gennaio 2018 n. 10 (de 2 febbraio 2018) §3.
8
Il richiamo è alla pronuncia con cui la Consulta ha aperto al sindacato costituzionale delle
norme penali di favore cfr. Corte costituzionale, sent. n. 148/1983, §3.
188
Adriano Martufi
alla generalità dei condannati, configurandosi perciò come lex specialis riferibile
agli autori di reati ritenuti portatori di maggior allarme sociale. Tale ultima
disciplina, se dichiarata incostituzionale, permetterebbe la riespansione dell’art.
176, comma 1, c.p., norma ora inapplicabile alla sotto-fattispecie degli ergastolani
ostativi per quanto riguarda i presupposti soggettivi che consentono la concessione
della misura.
L’analisi dei rapporti strutturali tra le norme oggetto del thema decidendum e
l’art. 176, comma 1, c.p. permette dunque di ritenere che, in caso di accoglimento,
il giudice rimettente dovrebbe applicare una nuova regula iuris: nella fattispecie,
annullando con rinvio l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza de l’Aquila.
Quest’ultimo si troverebbe allora a maneggiare un diverso complesso normativo e,
liberatosi dalla camicia di forza dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., potrebbe
finalmente prendere in considerazione aspetti la cui cognizione risultava sin qui
preclusa: in primis, quei profili da cui è possibile inferire una rottura dei legami con
l’organizzazione criminale di riferimento e dunque il venir meno della pericolosità
sociale.
Una volta dissolto l’abbraccio mortale che lega ravvedimento e collaborazione,
l’esito del giudizio di costituzionalità sembra in qualche modo segnato. L’ergastolo
può infatti conciliarsi con il volto costituzionale (e convenzionale) della pena solo
ove si restituisca alla magistratura di sorveglianza il compito di effettuare un
giudizio sulla personalità del detenuto e sulla sua evoluzione nel tempo. Del resto,
l’approccio della giurisprudenza costituzionale nella subiecta materia è da sempre
quello di valorizzare la dimensione dinamica, più che quella statica, della pena
perpetua al fine di affermarne la compatibilità a Costituzione9. Orbene, nel caso di
specie è proprio l’assenza di qualsivoglia dinamismo nell’esecuzione carceraria a
far pendere la bilancia in favore di un accoglimento.
3. Sembra opportuno da ultimo svolgere talune considerazioni circa le tecniche
decisorie che potrebbero corredare un’eventuale pronuncia di incostituzionalità. Si
è scritto come in occasione della sentenza n. 253/2019, la portata rivoluzionaria del
principio di diritto ivi sancito (il superamento della presunzione assoluta in
relazione ai permessi premio) sia stata in qualche modo attenuata dall’introduzione
di un onere di allegazione di congrui e specifici elementi, idonei ad escludere
l’attualità e il pericolo di rispristino di collegamenti con la criminalità organizzata10.
Tale onere di allegazione si traduce nell’obbligo di fornire veri e propri elementi di
prova a sostegno dell’istanza qualora le informazioni pervenute dal comitato
provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica depongano a sfavore di una
concessione del permesso premio.
La scelta della Consulta di corredare la decisione con «criteri di particolare
rigore» è stata (a nostro avviso correttamente) oggetto di critiche: tra queste,
particolarmente abrasiva è l’osservazione secondo cui l’indicazione di un onere
E. DOLCINI, La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano in Dir. pen. cont. – Riv.
trim., 2018, 21 e ss.
10
M. RUOTOLO, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019
della Corte costituzionale, in Sistema pen., 12 dicembre 2019, §3.
9
Rieducazione, diritto alla speranza e prospettive della liberazione condizionale
189
probatorio (peraltro singolarmente posto a carico del solo detenuto) fuoriesce dal
thema decidendum, derogando al principio della corrispondenza tra chiesto e
dichiarato, fino a sostituire la discrezionalità della Corte con quella del legislatore11.
Tale componente della pronuncia risponde, peraltro, alla necessità di calibrare gli
effetti del dictum in funzione delle «specifiche connotazioni criminologiche» che
contraddistinguono il reato di affiliazione a una associazione mafiosa (e i reati ad
essa collegati).
Nell’ipotesi in cui la Corte decidesse di mutuare la ratio decidendi dalla
sentenza n. 253/2019 al fine di superare l’ostatività nell’accesso alla liberazione
condizionale, è dunque ragionevole attendersi un nuovo intervento di tipo additivo.
Ciò, a più forte ragione, in virtù delle differenze tra permesso premio e liberazione
condizionale: quest’ultima è infatti una causa di estinzione della pena sul piano del
diritto sostanziale, opera cioè quale «vera e propria rinuncia, sia pure sottoposta a
condizioni prestabilite, da parte dello Stato alla ulteriore realizzazione della pretesa
punitiva nei riguardi di determinati condannati»12. Inevitabile che questo aspetto
solleciti una riflessione circa gli effetti di una pronuncia di accoglimento sul piano
pratico-applicativo.
Sennonché, è auspicabile che un tale scrupolo non si traduca nuovamente nella
pretesa di un più gravoso onere probatorio per il detenuto, anche in ragione delle
criticità evidenziate al riguardo da parte della dottrina. Piuttosto sarebbe preferibile
un intervento capace di dare sostanza all’evanescente e mutevole requisito del
«sicuro ravvedimento» del reo, offrendo criteri certi in grado di guidare la
discrezionalità dei giudici di sorveglianza. Come noto, infatti, l’accertamento di tale
presupposto si traduce, secondo la giurisprudenza di legittimità, nella verifica
sull’avvenuta revisione critica da parte del condannato (giudizio ex post) ma
richiede altresì una difficile prognosi circa la condotta futura di quella persona
(giudizio ex ante). Tale giudizio di prognosi deve essere «serio, affidabile e
ragionevole», permettendo di prevedere la conformazione «al quadro di riferimento
ordinamentale e sociale»13.
Trattasi di un giudizio oltremodo impegnativo per il giudice, per di più alla luce
delle scarne informazioni contenute nelle relazioni di sintesi comunemente
acquisite dal Tribunale di sorveglianza. Sotto questo profilo, inoltre, è ricorrente
l’affermazione secondo cui le caratteristiche personologiche degli autori dei «reati
di mafia» mettono in guardia da una sopravvalutazione di aspetti quali la spontanea
conformazione alle regole della vita penitenziaria. A ben vedere, tuttavia, i rarissimi
studi empirici sui profili comportamentali dei condannati per il delitto dell’art. 416bis c.p. suggeriscono una maggiore predisposizione all’impegno nei percorsi
risocializzativi rispetto alla generalità dei detenuti, unitamente a un alto grado di
empatia e coinvolgimento emotivo: un presupposto necessario per massimizzare gli
effetti del trattamento rieducativo14.
A. PUGIOTTO, La sent. 253/2019: una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria, in
Forum Quad. Cost.- rassegna, 2020, 174 ss.
12
Corte costituzionale, sent. 27 giugno 1974, n. 204 (de 4 luglio 1974).
13
Cfr. per tutti, Cass. Sez. I penale, 24 aprile 2007, n. 18022 in Cass. pen., 2008, 2648.
14
A. SCHIMMENTI, C. CAPRÌ, D. LA BARBERA, V. CARRETTI, Mafia and psychopathy in Crim.
behaviour ment. health, 2014, 321-33, lo studio raffronta i risultati del test denominato Psychopathy
11
190
Adriano Martufi
In assenza di criteri idonei a valutare il «ravvedimento» degli ergastolani non
collaboranti, il rischio è quello paventato da Giovanni Fiandaca in un intervento
precedente alla sentenza n. 253/201915: si rischia cioè di perseverare nella prassi
(già diffusa con riferimento ai summenzionati tipi d’autore) consistente nel
richiedere una sorta di «pentimento civile» capace di mettere a nudo il cambiamento
interiore del reo. Una modalità di accertamento, questa, che segue però cadenze ben
lontane da quell’approccio laico alla rieducazione come recupero alla vita sociale
fatto proprio dalla Corte costituzionale, da ultimo nella sentenza n. 149/2018.
In assenza di un intervento manipolativo volto a chiarire i concetti di
ravvedimento e rieducazione – concetti che, sia detto per inciso, non possono
configurarsi certo secondo un approccio one-size-fits-all, ma richiedono di essere
declinati caso per caso in funzione delle caratteristiche personologiche del reo – si
potrebbe quanto meno sperare in un monito al legislatore perché ponga mano alla
disciplina della liberazione condizionale. Quest’ultima, infatti, necessita di essere
riportata in linea con la giurisprudenza di Strasburgo. Solo implicitamente in Viola
c. Italia, più chiaramente in altre pronunce recenti (segnatamente in Trabelsi c.
Belgio e Murray c. Paesi Bassi), i giudici della Corte EDU sembrano ormai aver
stabilito il principio secondo cui la verifica dei presupposti per l’accesso alla
liberazione condizionale deve farsi secondo criteri «oggettivi e prestabiliti».
Da tale assunto deriva per il condannato il diritto «di sapere cosa fare perché
sia esaminata una sua possibile liberazione e quali siano le condizioni
applicabili»16. Più in generale, se ne può ricavare il principio della necessaria
prevedibilità e conoscibilità dei presupposti della liberazione condizionale, del resto
già presente nei testi di soft law del Consiglio d’Europa i quali riconoscono
l’obbligo di stabilire tali presupposti in modo chiaro e prevedibile: si allude,
segnatamente, al paragrafo 10 della risoluzione del Comitato dei Ministri (76) 2 e
ai paragrafi 3, 4 e 20 della raccomandazione del Comitato dei Ministri (2003) 22.
Non pare che, allo stato attuale, l’ondivaga giurisprudenza in tema di «sicuro
ravvedimento» ex art. 176, comma 1, c.p. sia in grado di soddisfare i requisiti
summenzionati o comunque permetta al detenuto (specie se ergastolano o
condannato a lunga pena detentiva) di conoscere in anticipo a quali criteri adeguare
la propria condotta.
Un ripensamento complessivo della disciplina de qua che valorizzi la capacità
di autodeterminarsi del reo nella fase esecutiva, del resto, sembra espressione non
solo dei principi della politica penitenziaria europea, ma financo corollario
dell’applicazione dell’art. 25, comma 2, Cost. alla materia dell’esecuzione penale
(o perlomeno alle norme «materialmente sanzionatorie» come quelle riguardanti la
liberazione condizionale e le misure alternative) così come riconosciuto dalla
sentenza n. 32/2020 della Corte costituzionale. Non v’è più dubbio, infatti, che la
Checklist-Revised (PCL-R) tra un gruppo di 30 detenuti condannati per il delitto dell’art. 416-bis
c.p. e un «gruppo di controllo» di 39 condannati per reati non riconducibili alla criminalità
organizzata.
15
G. FIANDACA, Ergastolo ostativo: è il momento di chiarire il concetto di rieducazione, in
IlSole24Ore, 17 ottobre 2019.
16
Corte EDU, I sez., sent. 13 giugno 2019 (def. 7 ottobre 2019), Viola c. Italia, ric. n. 77633/16,
§126.
Rieducazione, diritto alla speranza e prospettive della liberazione condizionale
191
calcolabilità delle conseguenze penali nell’ambito del segmento esecutivo
costituisca una delle guarentigie individuali accordate dal nullum crimen. In
conclusione: il richiamo nell’atto di promovimento all’art. 117, comma 1, Cost.
potrebbe consentire alla Consulta di aprire finalmente una riflessione sulle discrasie
sempre più evidenti con il diritto europeo e gettare le basi per un più moderno
utilizzo della liberazione condizionale proprio a partire da un caso «difficile» come
quello dei condannati non collaboranti per i reati di cui all’art. 4-bis, comma 1, ord.
penit.
I POSSIBILI ALTRI PASSI LUNGO LA VIA
TRACCIATA DALLA SENTENZA N. 253/2019
di MARTA MENGOZZI*
SOMMARIO: 1. La strada segnata dalla sentenza n. 235/2019: a) il percorso
argomentativo. 2. b) il parametro. 3. c) la tipologia decisoria a «rime possibili». 4. …e
il problema della rima mancante.
1. La Corte costituzionale con la sentenza n. 253/2019, sebbene abbia scelto di
utilizzare in modo assai parsimonioso l’istituto dell’illegittimità consequenziale
rimanendo strettamente all’interno dei confini del petitum quanto alla questione dei
benefici accessibili, limitati allora ai permessi premio, ha tuttavia segnato la strada
per le ulteriori decisioni intorno al regime della c.d. ostatitività di cui all’art. 4-bis
dell’ordinamento penitenziario, compiendo una serie di scelte rispetto alle quali
apparirebbe assai problematico e difficilmente spiegabile un ritorno indietro e che,
dunque, è prevedibile che definiscano anche gli ulteriori passi che la Consulta è
oggi chiamata a fare, confrontandosi con l’applicazione del medesimo regime
rispetto alla liberazione condizionale.
In primo luogo, vi è la stessa scelta di privilegiare il percorso argomentativo
fondato sull’irragionevolezza degli automatismi legislativi e delle presunzioni
assolute, tra cui deve annoverarsi l’insuperabile equiparazione posta dal
meccanismo sub judice tra la scelta di non collaborare e la perdurante pericolosità
sociale, rispetto a quello incentrato sul tema della pena perpetua e della sua
problematica compatibilità con diverse norme della Carta costituzionale.
Il giudice delle leggi, come è noto, ha orientato il suo vaglio nella prima
direzione, optando per un ragionamento più ampio e anche in qualche modo più
tecnico, fondato su una giurisprudenza ampia e consolidata che, specie quando
vengono in gioco diritti costituzionali, restituisce al giudice la valutazione del caso
concreto1, declinando la ragionevolezza come «razionalità pratica»2.
Si tratta di una strada diversa da quella intrapresa, sul già citato art. 4-bis, dalla
Corte EDU nella sentenza Viola c. Italia (n.2) del 13 giugno 2019, che ha invece
censurato il meccanismo adottato dall’ordinamento italiano non in sé considerato,
ma esclusivamente con riferimento alla sua possibile applicazione alla pena
perpetua, considerando l’ergastolo ostativo in violazione del divieto convenzionale
* Ricercatrice in Istituzioni di Diritto Pubblico, Università di Roma Tor Vergata.
1
L’indirizzo in parola si è affermato già negli anni novanta del secolo scorso (cfr., tra le altre,
sentt. n. 297/1993; 220/1995; n. 303/1996; n. 240/1997; n. 2/1999) e poi si è sviluppato nell’ultimo
ventennio (ad esempio, sentt. n. 253/2003; nn. 78 e 144/2005, n. 265/2010, nn. 164 e 231/2011, n.
31/2012), fino ad anni molto recenti (sentt. nn. 48 e 185/2015, n. 286/2016 e n. 149/2018). Molti
precedenti, peraltro, sono riportati dalla stessa sentenza n. 253/2019 (punto 8.3 del Considerato in
diritto).
2
M. CARTABIA, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza
costituzionale italiana, in www.cortecostituzionale.it, 2013, 17.
I possibili altri passi lungo la via tracciata dalla sentenza n. 253/2019
193
di trattamenti inumani o degradanti in quanto sanzione a vita. Anche in questo caso,
la motivazione della decisione non può non confrontarsi con il tema della
(ir)ragionevolezza della previsione della collaborazione utile come unica strada per
ottenere i benefici; ma l’angolo visuale è quello della non riducibilità altrimenti
della pena a vita.
Tuttavia, con la questione pendente oggi davanti alla Corte, che riguarda la
possibilità di far cessare la detenzione attraverso l’istituto della liberazione
condizionale anche per i condannati all’ergastolo, le due strade finiscono per
convergere.
La Corte arriverà però presumibilmente al punto di intersezione attraverso la
via già tracciata, svolgendo un ragionamento di portata più estesa ma anche più
rigoroso, perché se l’assolutezza della presunzione è inaccettabile perché
irragionevole – sia in sé, in quanto non rispondente all’id quod plerumque accidit,
sia in rapporto al finalismo rieducativo della pena – lo è sempre, a prescindere dalla
durata della condanna.
2. Se la Corte rimarrà coerente con il suo più diretto precedente in materia,
sembra anche segnata la scelta di far leva sul parametro di solo diritto interno,
riferibile agli articoli 3 e 27, comma 3, Cost., piuttosto che su quello costituito
dall’art. 117, comma 1, Cost. e dalle norme della CEDU.
Anche sotto tale profilo non resta che osservare che se il meccanismo
presuntivo in esame, nella sua assolutezza, è incompatibile con i già evocati artt. 3
e 27 Cost., non vi è ragione per chiamare in causa il parametro interposto; ma anzi,
si dà l’occasione per riaffermare la pienezza e la centralità della tutela dei diritti
offerta dalla nostra Costituzione.
Del resto, poiché le norme apicali interne dettano una disciplina più completa
riguardo ai caratteri della pena rispetto a quelle convenzionali, non limitandosi a
vietare i trattamenti contrari al senso di umanità – con una previsione di portata
analoga a quella internazionale che proibisce la tortura e i trattamenti inumani e
degradanti – ma indicandone anche, positivamente, la finalità rieducativa, sarebbe
in qualche modo paradossale che la tutela dei soggetti coinvolti vada ricercata nelle
più generiche norme esterne al nostro ordinamento3. Per cui il riferimento all’art.
117, comma 1, Cost. dovrebbe essere ritenuto assorbito dagli altri.
Tuttavia, la sentenza Viola resta sullo sfondo e non potrà non avere un suo peso
nel rinsaldare gli approdi della sentenza n. 253/2019, mettendoli al riparo
dall’eventualità (invero assai poco probabile)4 di ripensamenti che finirebbero per
3
Resta, peraltro, da precisare che la Corte EDU riconosce comunque la finalità di
risocializzazione della pena come necessaria nell’ambito della propria giurisprudenza che prende le
mosse dall’art. 3 CEDU (in tal senso, v. anche l’affermazione contenuta nella sentenza Viola, al par.
108).
4
Ma comunque possibile, avendo la Corte voluto precisare, nella sent. n. 235/2019, che
limitava il proprio scrutinio sull’art. 4-bis alla sua applicazione al permesso premio non solo per
rimanere entro i confini del petitum, ma anche per la «connotazione peculiare» di questo istituto
«che lo distingue dagli altri benefici pure elencati nella disposizione censurata» (punto 11 del
Considerato in diritto). Si tratta, tuttavia, di un’affermazione cui fanno riscontro altre che depongono
in senso opposto, quale quella relativa alla funzione «pedagogico-propulsiva» del permesso premio
194
Marta Mengozzi
imporre, comunque, un confronto con il parametro che richiede il rispetto degli
obblighi internazionali e, dunque, delle norme CEDU per come interpretate dalla
relativa Corte.
E giungendo a tale passo, non sarebbe facile discostarsi dalle chiare posizioni
espresse da quest’ultima con l’arresto in parola, tanto più che esse sembrano doversi
considerare espressione di un «diritto consolidato». Piuttosto problematica appare,
infatti, ogni diversa lettura del rigetto da parte del Collegio di cinque giudici della
richiesta di referral alla Grande Camera formulata dal Governo italiano. Pur
dovendosi riconoscere che la mancanza di motivazione esplicita di tale tipologia di
decisioni lascia inevitabilmente spazio a interpretazioni di altro segno5, sembrano
infatti assumere rilievo decisivo le indicazioni che la Corte EDU ha fornito sulle
proprie prassi, in un documento redatto nell’ottobre 2011 (pubblicato sul suo sito
istituzionale6) proprio per facilitare la comprensione delle relative scelte: esse non
lasciano alcuno spazio a valutazioni meramente politiche, ma si incentrano piuttosto
sulla lettura dei presupposti giuridici del rinvio, legati a gravi problemi di
interpretazione della Convenzione o ad una importante questione di carattere
generale, precisando che il collegio si pronuncia «in funzione dei criteri stabiliti»7.
Appare significativo, peraltro, che nel citato documento la Corte EDU esemplifichi
puntualmente proprio con riferimento alle questioni legate agli articoli 2 e 3 della
CEDU, chiarendo che il collegio «rigetta sistematicamente le richieste che
contestano le conclusioni tratte dalla camera in merito ai fatti relativi a controversie
sulle condizioni di detenzione in carcere o su altre questioni poste ai sensi degli
articoli 2 e 3 della Convenzione, quando la giurisprudenza è consolidata»,
accogliendole solo in alcune circostanze «quando i pareri dissenzienti sono, agli
occhi del collegio, ben argomentati in merito a questioni chiavi ai sensi della
Convenzione e/o segnalano incoerenze nella giurisprudenza»8.
Se, dunque, la richiesta con riferimento alla sentenza Viola è stata rigettata,
vuol dire che non sono stati ritenuti esistenti i presupposti normativi e che, dunque,
essa è stata considerata non incoerente con i precedenti, ma piuttosto espressione di
una giurisprudenza consolidata, del resto ampiamente citata nella stessa decisione
e ricostruibile in un percorso lineare a partire dalla sentenza della Grande Camera
del 2013, nel caso Vinter e altri c. Regno Unito.
3. La strada, poi, pare segnata anche rispetto alla tecnica decisoria utilizzata.
Nella decisione n. 235/2019, infatti, la Corte ha optato per un intervento che non
richiamasse in gioco il legislatore, utilizzando la formula recentemente coniata
dell’ordinanza di rinvio «ad incostituzionalità differita»9, ma piuttosto ha impiegato
(punto 8.2 del Considerato in diritto), considerato una tessera di un quadro più ampio, da riportare a
coerenza.
5
Come prospettato da M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo è istituzionale?, in questo volume.
6
All’indirizzo https://www.echr.coe.int/Documents/Note_GC_ITA.pdf. Il documento è titolato
«La prassi seguita dal collegio della Grande Camera nel deliberare sulle richieste di rinvio formulate
ai sensi dell’articolo 43 della Convenzione».
7
Così il documento citato alla nota precedente, pag. 5.
8
Ibidem; corsivi aggiunti.
9
Si fa riferimento, naturalmente, alle ordd. n. 207/2018 e n. 132/2020 (la prima seguita dalla
I possibili altri passi lungo la via tracciata dalla sentenza n. 253/2019
195
direttamente la formula additiva10 a rime «possibili»11. La Consulta, invero, non si
preoccupa di precisare esplicitamente se il regime che indica per le decisioni del
giudice di sorveglianza sia tratto da indicazioni costituzionalmente obbligate
(secondo la tradizionale ricostruzione che per decenni ha giustificato e limitato le
addizioni per via giurisprudenziale) o solo da soluzioni già rinvenibili
nell’ordinamento e costituzionalmente compatibili, secondo il nuovo corso indicato
espressamente dalla sentenza n. 222/201812, ma cita in effetti i precedenti più
identificativi di tale più recente indirizzo e ragiona sempre in termini coerenti con
quest’ultimo.
Anche su questo fronte apparirebbe difficilmente giustificabile un
cambiamento di rotta, ove la Corte si limitasse a prendere tempo in attesa di
auspicati quanto improbabili13 interventi legislativi. Del resto, l’ulteriore modello
del “rinvio con monito” pone molteplici problemi e criticità, che la dottrina non ha
mancato di evidenziare, tra i quali spicca la contraddittorietà di fondo tra l’idea che
spetti solo al legislatore definire gli interventi necessari e quella che sia possibile,
per il giudice delle leggi, decidere per un accoglimento14 laddove il termine
assegnato al Parlamento scada infruttuosamente; tale contraddittorietà sarebbe, in
questo caso, particolarmente evidente proprio alla luce della pronuncia già adottata
dalla Consulta rispetto al regime dell’ostatività con la sentenza n. 253/2019.
4. In questo quadro di auspicata continuità con il diretto precedente, resta
tuttavia aperto il problema di un’operazione additiva che la Corte ha ivi compiuto,
in mancanza di qualsiasi punto di riferimento già presente nell’ordinamento e,
dunque, ulteriormente spostando l’asticella del possibile rispetto all’impostazione
teorizzata nella sentenza n. 222/2018. Ci si riferisce all’indicazione che non sia
sentenza di accoglimento n. 242/2019, una decisione additiva anch’essa a rime non obbligate).
Moltissimi i commenti a tali decisioni, dei quali in questa sede non si può dare neppure
sommariamente conto; la definizione virgolettata nel testo è, comunque, presa a prestito da M.
BIGNAMI, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in
Quest. Giust., 19 novembre 2018.
10
Si tratta, in effetti, di una additiva ad effetti sostitutivi, come precisato da S. TALINI,
Presunzioni assolute e assenza di condotta collaborativa: una nuova sentenza additiva ad effetto
sostitutivo della Corte costituzionale, in Consulta OnLine, fasc. III, 2019, 737, impiegando una
classificazione di M. RUOTOLO, Interpretare nel segno della Costituzione, Editoriale Scientifica,
Napoli 2015.
11
Secondo la felice espressione di A. PUGIOTTO, Cambio di stagione nel controllo di
costituzionalità sulla misura della pena, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2019, 791.
12
Anticipato dalla sent. n. 236/2016 e ulteriormente utilizzato nelle sentenze n. 40 e n.
242/2019.
13
Cfr. anche C. GIUNTA, Riflessioni sui confini del giudizio di legittimità costituzionale a
partire dall’“ordinanza Cappato”, in Dirittifondamentali.it, 13 marzo 2019, 5, per il rilievo che
l’esperienza insegna come una decisione di accoglimento si riveli spesso assai più efficace nel
determinare il legislatore ad agire piuttosto che i moniti della Consulta; tale osservazione, peraltro,
non è stata certo smentita, ma anzi ha trovato puntuale conferma nella vicenda che ha seguito
l’ordinanza n. 207/2018.
14
Così, A. RUGGERI, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la
Consulta dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito (a prima lettura di Corte
cost. n. 242 del 2019), in Giustizia insieme, 27 novembre 2019.
196
Marta Mengozzi
sufficiente per il giudice indagare l’esistenza di collegamenti del condannato con
organizzazioni criminali, ma che occorra escludere il pericolo di un loro ripristino.
Che tale pretesa si collochi al di fuori dei limiti, pur ampi, del nuovo corso della
giurisprudenza costituzionale in tema di sentenze manipolative pare dimostrato in
modo lampante proprio dai problemi interpretativi che si sono subito posti riguardo
alla permanenza o meno, dopo l’intervento del giudice costituzionale, del regime
relativo ai casi di collaborazione inesigibile. Se, da un lato, infatti, il venir meno
dell’assolutezza della presunzione determinata dalla scelta non collaborativa, con il
riconoscimento di un vera e propria «libertà di non collaborare» 15 in capo al
condannato, dovrebbe far venir meno la necessità di accertare il carattere
impossibile o irrilevante della collaborazione16, dall’altro lato, si è ritenuto che la
relativa disciplina permanga inalterata proprio in ragione della circostanza che il
regime della collaborazione esigibile ma non prestata appare comunque
caratterizzata in modo deteriore, implicando la necessità di oneri dimostrativi
aggiuntivi altrimenti inesistenti17. Ciò rende palese come detti oneri siano stati
indicati dalla Corte in assenza di alcun punto di riferimento normativo già presente
nell’ordinamento.
Si tratta, peraltro, di una imposizione non soltanto assai problematica dal punto
di vista dei limiti ai poteri additivi della Corte costituzionale, ma anche piuttosto
discutibile quanto al suo contenuto, richiedendosi un grado di predizione più
intenso rispetto a quello già implicito nella valutazione relativa alla pericolosità
sociale che spetta al giudice di sorveglianza in sede di decisione sui permessi
premio (ex art. 30-ter ord. penit.) e di dubbia ragionevolezza, considerati i suoi
contorni sfuggenti e, utilizzando le parole della Corte di Cassazione, la sua
«problematica aderenza a canoni epistemologici basati sulla materialità
dell’oggetto della prova»18.
Del resto, l’interesse costituzionalmente tutelato «alla prevenzione della
commissione di nuovi reati» da cui la Consulta ricava la necessità di tale elemento
non esiste, in fase di esecuzione, se non nel quadro della pena, la cui funzione
rieducativa non può venirne radicalmente schiacciata19. Di qui le perplessità che il
requisito in parola solleva e la necessità che le relative valutazioni siano
quantomeno compiute esclusivamente alla luce delle circostanze concrete,
personali e ambientali, come in effetti la stessa Corte precisa; e, dunque, anche
tenendo conto della durata e delle modalità del permesso richiesto.
Sebbene appaia nel complesso poco probabile che la Corte voglia correggere il
tiro al riguardo, deve tuttavia osservarsi che rispetto alla questione relativa alla
liberazione condizionale c’è una possibilità ulteriore, legata ai diversi presupposti
per l’accesso a tale istituto, che si colloca all’ultimo gradino della progressione
trattamentale, potendo raggiungere l’effetto di far cessare la pena.
Esso, infatti, già nella disciplina codicistica e nella sua prassi applicativa
implica una valutazione prognostica particolarmente piena e ponderata, essendo
15
Cfr. sent. n. 253/2019, punto 8.1 del Considerato in diritto.
Così, ad esempio, Cass. Pen., sez. I, 27 gennaio 2020, n. 3307.
17
Cfr. Cass. Pen., sez. I, 12 febbraio 2020, n. 5553.
18
Cfr. ancora Cass. Pen, sez. I, n. 5553 del 2020.
19
Cfr. già Corte costituzionale, sent. n. 313/1990.
16
I possibili altri passi lungo la via tracciata dalla sentenza n. 253/2019
197
richiesto un comportamento del condannato che faccia ritenere «sicuro il suo
ravvedimento» (art. 176 c.p.).
Per l’accesso a tale beneficio è, dunque, prevista una predizione implicante un
maggiore grado di certezza rispetto a quella presupposta per la concessione del
permesso premio. Ciò, del resto, corrisponde alla circostanza che ad esso si arriva,
fisiologicamente, al termine di un graduale percorso di reinserimento del detenuto
nel consesso sociale, progressivamente accompagnato dalla fruizione dei vari
benefici che l’ordinamento penitenziario prefigura per attenuare via via il rigore
della pena. La stessa giurisprudenza costituzionale ha, anche in passato,
apertamente riconosciuto che il presupposto normativo del ravvedimento «sicuro»
sia logicamente saldato con la collocazione “terminale” dell’istituto nella scala
delle misure premiali20.
Per cui il giudizio prognostico aggiuntivo richiesto dalla Corte nella sent. n.
253/2019 potrebbe essere considerato assorbito dal requisito già posto dall’art. 176
c.p. o comunque finire per sovrapporsi ad esso.
In questo quadro, al contempo, si può osservare che le relative valutazioni
troverebbero comunque qualche più saldo punto di riferimento nel principio di
progressione trattamentale.
I benefici di minore portata costituiscono, infatti, importanti occasioni di
osservazione, attraverso cui si acquisiscono elementi di ponderazione per i passaggi
successivi (non a caso, la stessa Corte costituzionale nella sent. n. 253/2019, ha
parlato di funzione «pedagogico-propulsiva» del permesso premio). La
progressività del sistema è in grado, quindi, di fornire dati che possono costituire
una solida base per il giudizio prognostico del giudice in sede di concessione della
liberazione condizionale, agevolando la valutazione del «sicuro ravvedimento» e
dando dimostrazione empirica dell’assenza di pericoli di ripristino di legami
associativi criminali.
Naturalmente, il rilievo di tale principio, di cui la Consulta si è più volte
mostrata consapevole, implica che il sistema nel suo complesso vada ricondotto a
coerenza con un’utilizzazione della illegittimità costituzionale consequenziale che,
fatta venire meno l’assolutezza della presunzione con riferimento ai due benefici
che si collocano agli estremi opposti della scala, estenda il medesimo risultato a
tutti i benefici penitenziari “intermedi”.
20
Corte costituzionale, sent. n. 138/2001.
L’ERGASTOLO NELLA PRASSI NORMATIVA
E GIURISPRUDENZIALE INTERNAZIONALE
di ELISABETTA MOTTESE•
SOMMARIO: 1. Ergastolo e diritti umani, oltre il cortile di casa. – 2. Dalle UN Rules
alle Nelson Mandela Rules. – 3. La Convenzione americana sui diritti umani e la
giurisprudenza della Corte interamericana. – 4. Uno sguardo sulla prassi della
comunità internazionale. – 5. Life imprisonment e human rights secondo il Consiglio
d’Europa. – 6. La giurisprudenza della Corte EDU.
1. L’obiettivo di questo breve contributo è quello di fornire un quadro delle
norme e della prassi di diritto internazionale intorno al tema della compatibilità tra
ergastolo e diritti umani, muovendo dalla consapevolezza che sul tema la disciplina
extra e sovra-statuale è apparsa nel tempo più attenta di quanto non lo sia stata
quella statuale, non solo italiana.
Non esiste alcuna disposizione di diritto internazionale che espressamente vieti
l’ergastolo ed anzi, a partire dalla metà del secolo scorso, molti Paesi hanno
convertito la pena capitale nella pena detentiva senza fine, in ragione di una
presunta maggiore compatibilità di quest’ultima con uno human rigths based
approach.
Se questo dato è senza dubbio vero altrettanto lo è la considerazione che tutte
le fonti del diritto internazionale, sia hard che soft, collegano l’applicabilità di
questo istituto con una idea pressoché universale di giustizia penale come
prevalentemente, se non esclusivamente, finalizzata alla riabilitazione e
rieducazione del condannato.
Proveremo, allora, a tracciare una sintetica ricognizione degli strumenti
internazionalistici nel settore in modo da fornire all’interprete un quadro globale
sullo stato dell’arte del rapporto tra life imprisonment e human rights.
2. Il 30 agosto del 1955 l’Organizzazione delle Nazioni Unite approvò il primo
corpus internazionale di regole, redatto dall’International Penal and Penitentiary
Commission (IPPC), sul trattamento penitenziario dei detenuti.
Quel set di regole, oggi meglio note come United Nations Standard Minimum
Rules for the Treatment of Prisoners1, (di seguito UN Rules) conteneva specifiche
previsioni in ordine al trattamento penitenziario, già allora rimarcando la necessità
di assicurare che il detenuto che ritorna in libertà riesca non solo a desiderare di
vivere nella legalità, ma concretamente a riuscirci; per fare questo chiedeva che le
•
Dottore di ricerca in Profili della Cittadinanza nella costruzione dell’Europa, Università di
Catania.
1
United Nations Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners, United Nations
publications, Sales no. 1956 IV.4. Le UN Rules furono successivamente approvate dal Consiglio
economico e sociale con la Risoluzione 663 C (XXIV) del 31 luglio 1957.
L’ergastolo nella prassi normativa e giurisprudenziale internazionale
199
istituzioni penitenziarie approntassero percorsi trattamentali personalizzati sulle
specifiche necessità del detenuto.
Le UN Rules sono state oggetto di una importante opera di revisione che nel
2015 ha condotto all’adozione delle note Nelson Mandela Rules2 in cui la
riabilitazione sociale del condannato - che passa in primis dal rispetto della dignità
umana del detenuto e dei sui diritti fondamentali - diviene sempre più l’obiettivo
principale dei sistemi di politica penale.
Questi principi non sono nuovi nel diritto internazionale in quanto già enunciati
nel Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 che, all’articolo 10, par.
1, sancisce che tutte le persone private della libertà devono essere trattate con
umanità e rispetto della dignità umana e, al par. 3, che i sistemi penitenziari devono
essere improntati alla riabilitazione del condannato. Il principio è ulteriormente
ribadito dal General Comment n. 213 – non a caso richiamato nel preambolo delle
sopra citate Mandela Rules – in cui si statuisce che «no penitentiary system should
be only retributory; it should essentially seek the reformation and social
rehabilitation of the prisoner».
3. Non dissimili sono i principi dettati dalla Convenzione americana sui diritti
umani che all’art. 5 (Right to Human Treatment) sancisce che: «2. No one shall be
subjected to torture or to cruel, inhuman, or degrading punishment or treatment.
All persons deprived of their liberty shall be treated with respect for the inherent
dignity of the human person. [...] 6. Punishments consisting of deprivation of liberty
shall have as an essential aim the reform and social readaptation of the prisoners».
La prassi giurisprudenziale della Corte interamericana in realtà non ha, sino ad
oggi trattato casi in cui è stata chiamata a valutare la compatibilità dell’ergastolo
con i diritti riconosciuti dalla citata Carta, se non con riferimento a detenuti minori
di età. Nel noto caso Mendoza e altri contro Argentina4 la Corte, nel richiamare
espressamente le UN Rules, ha ribadito come il principio di risocializzazione del
condannato incarnato dall’art. 5.6 della Convenzione debba essere considerato
fondante di qualsiasi sistema penale, evidenziando, altresì, come l’ergastolo
costituisca, nei confronti dei minori, un trattamento crudele, inumano e degradante
e, in quanto tale, contrario ai diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione.
4. In linea generale, nella comunità internazionale la questione della
protezione dei diritti umani rispetto alla pena detentiva dell’ergastolo si è posta
prevalentemente con riguardo a casi di ergastolani minorenni. Nel 2014 il Comitato
ONU sui diritti umani, nel caso Blessington and Elliot v Australia5, ha riscontrato
2
Assemblea generale, UN Doc. A/RES/70/175 del 17 dicembre 2015.
Comitato dei diritti umani, General Comment No. 21 - Article 10: Humane Treatment of
Persons Deprived of Their Liberty del 10 aprile 1992.
4
Corte interamericana dei diritti umani, César Alberto Mendoza Y Otros c. Argentina, ricorso
n. 12.651, sentenza 2 novembre 2010.
5
Comitato dei diritti umani, Blessington and Elliot c. Australia, Communication No.
1968/2010, Views del 22 ottobre 2014, UN Doc. CCPR/C/112/D/1968/2010 del 17 novembre 2014.
3
200
Elisabetta Mottese
la violazione degli articoli 7, 10.3 e 24 del Patto internazionale sui diritti civili e
politici, basandosi su argomentazioni – tali in principio da poterne estendere
l’applicabilità anche agli adulti – assai vicine a quelle elaborate dalla CEDU nella
celebre sentenza Vinter c. Regno Unito6: «the imposition of life sentences on the
authors as juveniles can only be compatible with article 7, read together with
articles 10, paragraph 3, and 24 of the Covenant if there is a possibility of review
and a prospect of release, notwithstanding the gravity of the crime they committed
and the circumstances around it. That does not mean that release should
necessarily be granted. It rather means that release should not be a mere theoretical
possibility and that the review procedure should be a thorough one, allowing the
domestic authorities to evaluate the concrete progress made by the authors towards
rehabilitation and the justification for continued detention»7.
Sebbene la Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli non contenga
disposizioni specificamente rivolte al trattamento penitenziario dei detenuti o alla
finalità della sanzione penale, nel continente africano si comincia a cogliere qualche
segnale sulla problematicità dell’ergastolo in relazione alla protezione dei diritti
umani.
Sudafrica8 e Zimbabwe hanno introdotto meccanismi di early release e parole
al fine di rendere riducibile l’ergastolo e detto principio è stato di recente ribadito
dalla Corte costituzionale dello Zimbabwe che ha sottolineato, con importanti
richiami alla giurisprudenza della Corte EDU, come l’ergastolo non possa e non
debba violare la dignità umana assurgendo a un trattamento inumano e degradante9.
5. Nel tracciare la cornice giuridica di matrice internazionalistica sul tema de
quo non si può non fare riferimento alla prassi normativa e giurisprudenziale
europea.
Le norme della CEDU e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo10 sono
particolarmente rappresentative del dibattito su life imprisonment e human rights e
ciò a dimostrazione di come il silenzio del testo convenzionale non abbia precluso
la possibilità di affermare comunque, da più di un decennio, l’illegittimità
dell’ergastolo quale pena irriducibile, dunque in contrasto coi principi della
Convenzione.
Sin dalla sua istituzione il Consiglio d’Europa ha svolto un ruolo centrale nella
protezione dei diritti umani delle persone private della libertà, promuovendo la
diffusione di condizioni di detenzione sempre meno afflittive e sempre più
finalizzate alla realizzazione degli scopi rieducativi e risocializzanti della sanzione
penale.
6
Corte europea dei diritti umani, Vinter e altri c. Regno Unito [GC], ricorsi nn. 66069/09,
130/10 e 3896/10, sentenza del 9 luglio 2013.
7
V. par. 7.7 del parere del Comitato dei diritti umani, Blessington and Elliot c. Australia, cit.
8
Cfr. Republic of South Africa, Correctional Services Act no. 111, 1998, art. 73, disponibile
su www.gov.za.
9
Corte costituzionale Zimbabwe, Obediah Makoni c. Commissioner of prisons and Minister
of Justice Legal & Parliamentary Affairs, ricorso n. CCZ 48/15, sentenza del 13 luglio 2016.
10
Per un elenco completo delle pronunce rese dalla Corte EDU sul tema dell’ergastolo, si rinvia
al Factsheet, Life imprisonment, disponibile su www.hudoc.echr.coe.int.
L’ergastolo nella prassi normativa e giurisprudenziale internazionale
201
Nel 1973 il Consiglio d’Europa, sull’esempio delle citate UN Rules, ha
formulato le proprie Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners
successivamente aggiornate, prima nel 198711 e poi nel 200612, e oggi denominate
European Prison Rules.
Le European Prison Rules costituiscono uno strumento di diritto internazionale
soft di estrema importanza, ponendosi come un corpus organico di norme
disciplinanti lo standard minimo dell’assetto penitenziario dei condannati e dei non
condannati, espressamente mirando ad «obbligare i governi ad iscrivere nel diritto
interno delle norme specifiche in questo settore»13. Si tratta di 108 regole rette dai
principi fondamentali declamati nelle prime nove disposizioni, e ispirate all’idea di
fondo che «All detention shall be managed so as to facilitate the reintegration into
free society of persons who have been deprived of their liberty»14.
Nel 2003 il Consiglio d’Europa ha adottato una Raccomandazione rivolta alle
istituzioni penitenziarie coinvolte nella gestione proprio di detenuti condannati
all’ergastolo o a lunghe pene detentive: «[c]onsidering that the enforcement of
custodial sentences requires striking a balance between the objectives of ensuring
security, good order and discipline in penal institutions, on the one hand, and
providing prisoners with decent living conditions, active regimes and constructive
preparations for release, on the other»15. La Raccomandazione evidenzia come
anche gli ergastolani debbano beneficiare di un sistema penitenziario diretto a
prepararli alla vita fuori dal carcere e come anche a loro debba essere riconosciuto
il diritto ad accedere alla libertà condizionale16 secondo il principio di progressività
del trattamento17.
6. Nel sistema regionale europeo il problema della compatibilità, o meno,
dell’ergastolo con la CEDU si è posto e risolto in via pretoria, stante il silenzio della
Convenzione sul punto.
La giurisprudenza sul tema è copiosa ed è culminata nella sentenza resa nel
caso Viola c. Italia18 con cui la Corte di Strasburgo ha aggiunto un ulteriore tassello
Il 12 febbraio 1987 la 404a riunione dei delegati dei Ministri del Consiglio d’Europa
approvava la raccomandazione Rec (87)3 contenente la versione aggiornata delle Regole
Penitenziarie Europee.
12
La versione ulteriormente aggiornata delle Regole Penitenziarie Europee è stata adottata dal
Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa l’11 gennaio 2006, con l’approvazione della
raccomandazione Rec (2006)2.
13
Vedi commento alla regola n. 18 delle Regole Penitenziarie Europee.
14
Regola n. 6; nello stesso senso la Regola n. 102, par. 1, evidenzia che «the regime for
sentenced prisoners shall be designed to enable them to lead a responsible and crime free life».
15
Consiglio d’Europa, Comitato dei Ministri, Recommendation of the Committee of Ministers
to member states on the management by prison administrations of life sentence and other long-term
prisoners, Rec (2003) 23, del 9 ottobre 2003.
16
Sul punto si veda un’altra rilevante raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio
d’Europa, Recommendation of the Committee of Ministers to member states on conditional release
(parole), Rec (2003) 22, del 24 settembre 2003; in particolare cfr. par. 20.
17
Vedi par. 8 della Raccomandazione citata alla nota 15.
18
Corte europea dei diritti umani, Viola c. Italia, ricorso n. 77633/16, sentenza del 13 giugno
2019.
11
202
Elisabetta Mottese
al percorso di verifica della suddetta compatibilità, avviato più di dieci anni orsono
con la pronuncia resa nel noto caso Kafkaris19. In tale leading case del 2008 la Corte
ha considerato l’ergastolo, in assenza di un sistema di early release, compatibile
con il divieto di cui all’art. 3, purché al condannato fosse riconosciuta la astratta
possibilità di tornare in libertà.
Nel caso Vinter c. Regno Unito la Corte ha poi precisato che «per rimanere
compatibile con l’articolo 3 CEDU, una pena perpetua deve offrire sia una
possibilità di liberazione che una possibilità di riesame»20. Possibilità concreta e
non solo teorica: «[u]n detenuto condannato all’ergastolo effettivo ha il diritto di
sapere, sin dall’inizio della sua pena, cosa deve fare perché sia esaminata una sua
possibile liberazione e quali siano le condizioni applicabili. Egli ha il diritto, in
particolare, di conoscere il momento in cui il riesame della sua pena avrà luogo o
potrà essere richiesto»21.
Il principio è stato ulteriormente puntualizzato in due successive sentenze. La
prima, resa nel caso Trabelsi c. Belgio22, ha accertato la violazione dell’art. 3 CEDU
da parte del Belgio per l’avvenuta estradizione del ricorrente negli Stati Uniti stante
l’assenza, in quel sistema penale, di criteri oggettivi e predeterminati23 al ricorrere
dei quali chiedere e ottenere la liberazione. La seconda, pronunciata sul caso
Murray c. Olanda24, ha specificato come i meccanismi di parole, per essere
convenzionalmente compatibili, debbano conformarsi con alcuni principi
fondamentali e vincolanti per gli Stati parti della Convenzione, secondo i quali,
inter alia, la valutazione della insussistenza di motivi legittimi in ordine alla pena
che giustifichino il mantenimento in detenzione deve avvenire secondo regole che
abbiano un sufficiente grado di chiarezza e certezza e tenendo in considerazione
che la funzione riabilitativa della sanzione penale è centrale tanto nel diritto
internazionale che nel diritto e nella giurisprudenza del Consiglio d’Europa.
Come si diceva, la riducibilità dell’ergastolo e la sua conseguente compatibilità
con la CEDU deve essere tale de facto e de jure. La concreta opportunità di
liberazione va, pertanto, valutata alla luce degli sforzi compiuti dal detenuto per il
reinserimento in società, e così argomentando la Grande Camera ha posto l’accento
in maniera netta e definitiva sulla finalità risocializzante della pena25, principio
guida della esecuzione penale dal quale discendono una serie di corollari (la
prospettiva di liberazione, la flessibilità e progressività trattamentale, la garanzia di
condizioni di detenzione tali da permettere la correzione ed il reinserimento del
detenuto26, il riesame costante della condotta e della personalità del detenuto) che
19
Corte europea dei diritti umani, Kafkaris c. Cipro [GC], ricorso n. 21906/04, sentenza del 2
febbraio 2008.
20
Cfr. par. 122.
21
Ibidem.
22
Corte europea dei diritti umani, Trabelsi c. Belgio, ricorso n. 140/4, sentenza del 4 settembre
2014.
23
Cfr. par. 137 della sentenza Trabelsi già citata alla nota 30.
24
Corte europea dei diritti umani, Murray c. Olanda [GC], ricorso n. 10511/2010, sentenza del
26 aprile 2016.
25
Cfr. par. 122 della sentenza Vinter.
26
Cfr. par. 264 della pronuncia resa dalla Corte EDU nel caso Harakchiev e Tolumov c.
Bulgaria, ricorsi nn. 15018/11 e 61199/12, sentenza dell’8 luglio 2014.
L’ergastolo nella prassi normativa e giurisprudenziale internazionale
203
inevitabilmente conducono a dichiarare l’ergastolo c.d. irriducibile contrario alla
dignità umana e ai diritti fondamentali riconosciuti e tutelati dalla CEDU e dal
diritto internazionale in generale.
Le coordinate del discorso giuridico erano, quindi, già ampiamente tracciate
quando alla Corte è stato sottoposto il caso Viola; ma la peculiarità dell’ergastolo
ostativo, fattispecie tutta italiana, ha richiesto ai giudici di Strasburgo di entrare nel
merito di quella ostatività e di esaminare «se l’equilibrio tra le finalità di politica
criminale e la funzione di risocializzazione della pena non finisca, nella sua
applicazione pratica, per limitare eccessivamente la prospettiva di liberazione
dell’interessato e la possibilità per quest’ultimo di chiedere il riesame della sua
pena»27. La Corte, in sostanza, si è chiesta se davvero la scelta di collaborare o meno
con la giustizia fosse una scelta libera e scevra da condizionamenti, e se la
presunzione assoluta, posta dalla normativa italiana circa l’equivalenza tra
l’assenza di collaborazione e la pericolosità sociale del soggetto, fosse o meno
compatibile coi richiamati principi di diritto fissati dalle proprie pronunce.
Nel rispondere negativamente a quei quesiti, la Corte ha evidenziato che «il
ricorrente si trova nell’impossibilità di dimostrare che non sussiste più alcun motivo
legittimo in ordine alla pena che giustifichi il suo mantenimento in detenzione»
poiché «il regime vigente riconduce in realtà la pericolosità dell’interessato al
momento in cui i reati sono stati commessi, invece di tenere conto del percorso di
reinserimento e dei progressi eventualmente compiuti a partire dalla condanna»28.
L’Italia non garantirebbe, pertanto – secondo i criteri della giurisprudenza
Harachiev e Tolumov c. Bulgaria e Murray c. Olanda – regimi penitenziari
compatibili con l’obiettivo di correzione e di reale reinserimento e risocializzazione
dei detenuti ergastolani.
La evidente preclusione del c.d. right to hope e del diritto a riabilitarsi, anche
attraverso la positiva valutazione degli eventuali progressi nel trattamento, si
risolvono, secondo la Corte europea, in una lesione del principio della dignità
umana, «che si trova al centro stesso del sistema messo in atto dalla
Convenzione»29; l’ergastolo ostativo, in quanto pena de jure e de facto non
riducibile, configura, pertanto, un trattamento inumano e degradante come tale
vietato dall’art. 3 CEDU.
Pur non avendo a disposizione un omologo dell’art. 27 della Costituzione
italiana, i giudici di Strasburgo, come si è visto, si sono comunque ormai da tempo
fatti portavoce di un consenso che si sta via via consolidando, a livello
internazionale e sovranazionale, intorno all’idea che la più importante – seppur non
ancora l’unica – finalità della sanzione penale sia quella della riabilitazione del
condannato e che tale fine precluda in nuce la possibilità di configurare la pena
dell’ergastolo e, a fortiori, quella dell’ergastolo ostativo, come compatibile con gli
standard internazionali ed europei di protezione dei diritti umani.
27
Cfr. par. 110 della sentenza Viola c. Italia; traduzione italiana a cura del Ministero della
Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani.
28
Cfr. par. 128 della sentenza Viola c. Italia.
29
Cfr. par. 136 della sentenza Viola c. Italia.
LA FINE È NOTA
(A PROPOSITO DI UN’INNOVATIVA ORDINANZA
DEL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI FIRENZE)
di MICHELE PASSIONE
Non possiamo scegliere da dove veniamo,
ma possiamo scegliere dove andare, da lì in poi
(S. Chbosky, Noi siamo infinito, 2012)
SOMMARIO: 1. Un’innovativa ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Firenze (n.
3341/2020, emessa il 29 ottobre 2020) – 2. Percorsi orientati nel labirinto – 3. Il fine
della pena è la fine della pena.
1. Le note presenti traggono origine da un caso concreto positivamente
risoltosi con l'ordinanza n. 3341/2020, emessa il 29 ottobre 2020 dal Tribunale di
Sorveglianza di Firenze, successiva dunque allo svolgimento del seminario
preventivo ferrarese1.
Preceduta di poco da analogo provvedimento assunto il 13 ottobre 2020 dallo
stesso Tribunale, in quel caso però con rigetto della richiesta, la decisione adottata
dal Collegio fiorentino si segnala come un novum giurisprudenziale che, aderendo
alla richiesta di liberazione condizionale avanzata dalla difesa il 28 luglio 2020,
perviene (per la prima volta) alla concessione del beneficio per un detenuto
condannato all'ergastolo ostativo, non collaborante e non rientrante nelle ipotesi di
cui all'art. 4 bis, comma 1-bis, ord. penit.
Per chiarezza, la tesi espressa dal sottoscritto nel corso del seminario svoltosi
lo scorso 25 settembre, prospettante l'opportunità dell'incidente di costituzionalità
stante la (dubbia) lettera della legge (art.2, comma 1, decreto legge n. 152 del 1991,
convertito con modificazioni nella legge n. 203 del 1991) ha ceduto il passo a fronte
di una rimeditata riflessione sulla possibilità di pervenire all'esito auspicato con
interpretazione costituzionalmente (e convenzionalmente) orientata, vieppiù
rafforzata dal provvedimento (sia pur reiettivo) sopra citato. Metodologicamente,
ho sempre creduto che non si debbano commentare le vicende di cui ci si è occupati
professionalmente; questa deroga al principio nasce proprio a chiarimento delle
opinioni pubblicamente espresse, è confortata dal provvedimento preso ed è
giustificata (così mi auguro che venga accolta) dall'impegno assunto con la raccolta
di contributi a corredo delle decisioni che la Corte costituzionale è chiamata a
prendere all'udienza del prossimo 24 marzo 2021.
Avvocato del Foro di Firenze, già membro dell’Osservatorio Carceri dell’UCPI.
Nel suo sito www.amicuscuriae.it, sezione documentazione processuale, è pubblicato il testo
integrale dell’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Firenze, qui fatta oggetto d’esame.
1
La fine è nota
205
2. Nel caso di specie, l'interessato (detenuto dal 24 maggio 1993) è stato
condannato alla pena dell'ergastolo per duplice omicidio (ritenuta la continuazione
con i reati satellite, in materia di armi) aggravato dal numero di persone superiore
a 5, dalla premeditazione, da motivi di mafia, commesso in data 23 e 24 luglio 1990,
nonché alla pena di anni sette di reclusione per il reato di cui all'art. 416-bis c.p.,
commesso fino al 24 novembre 1990 [il dato temporale è cruciale, N.d.A.].
Nel corso della sua detenzione era già stata segnalata la prova di «un
orientamento positivo all'autocritica» e di «atteggiamenti collaborativi ed
autocritici nel rapportarsi e nella disamina articolata sulle circostanze correlate alla
commissione del reato», nonché verificata «l'assenza di pericolosità sociale, né
elementi concreti in ordine al mantenimento di collegamenti con la criminalità
organizzata». Nel 2018 il condannato si è messo in contatto con i parenti delle
vittime del reato omicidiario, ricevendo risposta con la quale veniva accettata la
richiesta di perdono, senza alcuna riserva e con aperta comprensione del contesto
in cui era avvenuto l'efferato delitto.
Così, verificata la sussistenza del requisito temporale di cui all'art. 176, comma
3, c.p., sia in relazione alla carcerazione effettivamente patita che per effetto di più
di cinque anni di liberazione anticipata concessa e dell'indulto applicato, il
Tribunale ha ritenuto del pari esistere prova del sicuro ravvedimento (al di là della
ridondante aggettivazione, ché in realtà, più che un presupposto, esso costituisce lo
scopo del beneficio), per il verificato abbandono di scelte criminali e l'acquisita
consapevolezza dei valori fondamentali della vita sociale, tali da consentire una
prognosi fausta rispetto alla decisione da assumere. Quanto al profilo risarcitorio,
come giustamente segnalato in dottrina2 il requisito dell'adempimento delle
obbligazioni civili derivanti da reato, cioè il risarcimento del danno patrimoniale e
non (art. 185 c.p.), il pagamento delle spese processuali e di mantenimento in
carcere, non ha una rilevanza autonoma rispetto al presupposto del sicuro
ravvedimento. Più precisamente, il soddisfacimento delle esigenze della vittima,
salva l'impossibilità a provvedervi, è considerato non tanto in funzione oggettiva di
reintegrazione patrimoniale del danno causato, quanto come indice rivelatore del
ravvedimento del condannato3. Questo il motivo per cui la giurisprudenza, da un
lato, interpreta in modo ampio l'impossibilità di adempimento, facendoci rientrare
non solo l'impossibilità materiale assoluta e ogni causa non imputabile al
condannato, ma anche quella comportante un sensibile sacrificio per l'interessato;
e, dall'altro, ritiene che la dimostrazione dell'obiettiva impossibilità non esonera
l'interessato dal compimento di gesti di riparazione4, i quali, se non sul piano
materiale, quanto meno su quello morale, possono essere legittimamente valutati
dal giudice ai fini del giudizio in ordine alla sussistenza o meno del ravvedimento.
Nel caso di specie, il Tribunale ha altresì valorizzato l'assenza di pretese
economiche avanzate dai parenti delle vittime, e non necessaria (anche alla luce del
richiamato scambio epistolare) alcuna forma di offerta reale, da ritenersi «ultronea
M. G. COPPETTA, in F. DELLA CASA – G. GIOSTRA (a cura di), Manuale di diritto
penitenziario, Giappichelli, Torino 2020, 226.
3
Ex multis, Cass. Sez.I, 11.12.1992, Di Miccoli; vedi anche Corte costituzionale, sentenza.
n.138/2001.
4
Cass. Sez.I, 8 maggio1989, Vitale; Cass. Sez.I, 3 aprile 1985, Lettieri.
2
206
Michele Passione
in relazione alle finalità dell'esecuzione penale (...) se non addirittura dannosa in
relazione alla ricomposizione della relazione vittime-reo, anche sotto il profilo di
una possibile vittimizzazione secondaria delle prime». Parole chiare.
Quanto all'ammissibilità, con riferimento al beneficio richiesto, stante la natura
dei delitti commessi il Tribunale ha giustamente fatto riferimento all'art. 2, comma
1, decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, nella legge
12 luglio 1991, n. 203, nonché al decreto legge n. 306 del 1992, convertito in legge
n. 356 del 1992, che ha introdotto il requisito della collaborazione per l'accesso alla
liberazione condizionale
Sul punto, occorre rilevare che, mentre a mente di quanto previsto dall'art. 4,
comma 1, del citato decreto legge, il comma 2 dell'art. 2, col suo maggior segmento
di pena per l'accesso alla liberazione condizionale ivi previsto, opera solo per delitti
commessi dopo la data di entrata in vigore del presente decreto, nulla si dice sulla
previsione del comma 1. Ciò implica che per la concessione della liberazione
condizionale, a quella data, si sarebbe dovuto verificare l'assenza di collegamenti
con la criminalità organizzata, e non altro (questi i presupposti dell'epoca per i
delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater dell'art. 4-bis ord. penit.). Ed infatti, è
solo con l'art. 15, comma 1, del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito con
modificazioni nella legge 7 agosto 1992, n. 356, che fu introdotto l'istituto della
collaborazione con la giustizia nel testo dell'art. 4-bis ord. penit., con un richiamo
all'art. 58-ter ord. penit, quale condizione di accesso ai benefici penitenziari per i
delitti “di prima fascia”, lasciando invariata la condizione della non sussistenza di
elementi probanti la sussistenza di collegamenti criminosi per quelli “di seconda
fascia”.
Diversamente tuttavia (ed è argomento trattato e risolto positivamente dal
Tribunale) avrebbe potuto dirsi che il comma 1 dell'art. 2 citato, per il suo rinvio
mobile all'art. 4-bis ord. penit., finirebbe col determinare la necessità di valutare
anche l'apporto collaborativo (e per converso la sua assenza, non vicariata dai casi
di cui al comma 1-bis) anche per i delitti ante 8 giugno 1992.
Viceversa, ciò che ha consentito di superare definitivamente ogni impasse sulla
concedibilità del beneficio richiesto, deve ora tenersi conto degli effetti spiegati
dalla storica sentenza n. 32/2020 della Corte costituzionale, nonché della successiva
pronuncia n. 193/2020 (entrambe redatte dallo stesso estensore, il giudice
Francesco Viganò).
Come già segnalato autorevolmente in dottrina5 «per i condannati ostativi
qualificati per delitti di mafia, finalità o contesto mafioso, finalità di terrorismo o di
eversione dell'ordinamento costituzionale, nonché per quelli previsti dagli artt. 630
c.p. e 74 d.P.R. n. 309 del 1990 (cioè tutti quelli previsti nella originaria
formulazione del 1992 dell'art. 4-bis ord. penit.) se si tratta di delitti commessi
prima del 8 giugno 1992 l'accesso alle misure alternative alla detenzione non sarà
più subordinato all'applicazione del comma 1 o, in alternativa, del comma 1-bis
dell'art. 4-bis ord. penit., e quindi alla verifica di una collaborazione effettivamente
5
A. RICCI, Nel labirinto dell'art. 4-bis: guida pratica per il condannato ostativo all'accesso a
permessi premio e misure alternative alla detenzione dopo le sentenze costituzionali n.253/2019 e
32/2020 (e in attesa di ulteriori sviluppi), in Giur. Pen Web, 2020, 6.
La fine è nota
207
prestata o della sussistenza di una situazione c.d. equipollente di impossibilità o
inesigibilità di utile collaborazione”6.
Si tratta, per l'appunto, di considerazione del tutto condivisibile, che deriva
naturaliter dalle sentenze costituzionali citate.
Com'è noto, l'overruling rispetto al consolidato principio del tempus regit
actum delle Sezioni Unite del 2006, n. 24561 (Aloi), per vero tralaticiamente
recepito dal diritto vivente, ha modificato in radice l'impostazione previgente,
mettendo al sicuro riparo dell'art. 25, comma 2, Cost. la natura sostanziale delle
pene anche in subiecta materia.
Dando per conosciuta la lunga cadenza motivazionale, ci si limita qui a
richiamare in particolare i §§4.1 e sgg. del Considerato in diritto, in particolare
laddove si afferma (§4.3) che «alla luce di tutte le considerazioni che precedono
questa Corte ritiene necessario procedere a una complessiva rimeditazione della
portata del divieto di retroattività sancito dall'art. 25, comma 2, Cost., in relazione
alla disciplina dell'esecuzione della pena» e la parte in cui (fermi i distinguo tra i
benefici del permesso premio ed il lavoro all'esterno rispetto alle misure alternative)
al §4.4.3, si segnala come «la medesima conclusione si impone – in forza del rinvio
mobile (sentenza n. 39/1994) di cui all'art. 2 del decreto legge n. 152 del 1991) –
per ciò che concerne la liberazione condizionale, istituto disciplinato dagli artt. 176
e 177 c.p., ma funzionalmente analogo alle misure alternative alla detenzione,
essendo anch'esso finalizzato a consentire il graduale reinserimento del condannato
nella società, attraverso la concessione di uno sconto di pena a chi abbia, durante il
percorso penitenziario, tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo
ravvedimento».
Sono, dunque, queste le ragioni per le quali si è ritenuto che la sentenza n.
32/2020 vada ben oltre la quaestio scrutinata e risolta (concernente l'assenza di
disciplina transitoria della legge n. 3 del 2019, per reati contro la pubblica
amministrazione), consentendo (ed anzi imponendo) di rivisitare tutte le
disposizioni e le condizioni ostative attratte dalla calamita della Grundnorm
penitenziaria (sul punto, quale prima applicazione della sentenza costituzionale, è
già stata richiamata in nota Cass. Sez. I, n. 12845/2020, a proposito della
generalizzata portata della sentenza n. 32/2020, con le dirette conseguenze da trarsi
per ogni singolo caso). Del resto, a fugare ogni dubbio, il Tribunale richiama la
successiva pronuncia del Giudice delle leggi (sent. n. 193/2020), secondo cui (§4.2
del Considerato in diritto) «nella sentenza n. 32 del 2020 questa Corte, ritenendo
necessario procedere a una complessiva rimeditazione della portata del divieto di
retroattività sancito dall'art. 25, comma 2, Cost., in relazione alla disciplina
dell'esecuzione della pena, ha affermato che la regola secondo cui le pene devono
essere eseguite in base alla legge in vigore al momento dell'esecuzione, e non in
base a quella in vigore al tempo della commissione del reato, deve […] soffrire
un'eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche
delle modalità esecutiva della pena prevista dalla legge al momento del fatto, bensì
una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla
6
Cfr. Cass. Sez.I, 20 marzo 2020, n.12845.
208
Michele Passione
libertà personale del condannato. In questa ipotesi l'applicazione retroattiva di una
tale legge è incompatibile con l'art. 25, comma 2, Cost.».
La parola fine, che crediamo metta in sicurezza l'approdo ermeneutico sopra
citato per tutti i casi a venire (questo l'auspicio) si rinviene da ultimo al §4.3 del
Considerato in diritto, ove si afferma che «nessun ostacolo si oppone più a che il
giudice adotti […] l'unica interpretazione della disposizione censurata compatibile
con il principio di legalità della pena di cui all'art. 25, comma 2, Cost., così come
declinato da questa Corte nella sentenza n. 32/2020».
2. Lo scorso 8 settembre, il Garante Nazionale dei diritti dei detenuti e delle
persone private della libertà personale ha presentato un Amicus Curiae in previsione
nel giudizio di legittimità costituzionale promosso con l'ordinanza n. 100 del 18
giugno 2020, sollevata dalla Corte di Cassazione, Sez.I.; in quell'atto si legge che
«alla data del 1° settembre 2012 le persone condannate all'ergastolo presenti negli
istituti penitenziari risultano 1.800. Di esse, 1.271 sono detenute per reati inclusi
nell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., e che, in ragione di ciò, scontano un ergastolo
ostativo. L'entità della posizione giuridica determinata dal regime dell'ostatività,
pari al 71% del totale dei detenuti a vita, certifica un dato di fatto: l'ergastolo nel
sistema ordinamentale attuale è, principalmente, ergastolo ostativo».
Come si sa7, «non sono mai stati forniti dati a proposito di quanti imputati o
condannati all'ergastolo ostativo hanno deciso dal 1991 a oggi di collaborare con la
giustizia», e tuttavia è certo che una buona parte degli ergastolani ostativi sono in
carcere da due decenni, e anche più, e hanno già chiesto, senza successo,
l'accertamento della collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante.
Impregiudicata la valutazione del merito, dopo tanto tempo è il diritto alla speranza
che si impone con la forza dirompente che proviene da nord, e che consente di
aggiungere un accento al titolo del seminario ferrarese: non sappiamo di preciso per
quanti, ma per molti senza volto, dopo l'ordinanza fiorentina, può finalmente dirsi
che «il fine della pena è la fine della pena»8.
7
Cfr. Amicus Curiae – Università degli Studi di Milano, Corte europea dei diritti umani, I
Sezione, Viola c. Italia n.2, n.77633/16, 13 giugno 2019, pubblicato in E. DOLCINI, E. FASSONE, D.
GALLIANI, PINTO DE ALBUQUERQUE, A. PUGIOTTO, Il diritto alla speranza. L'ergastolo ostativo nel
diritto penale costituzionale, Giappichelli, Torino 2019, 239 ss.
8
A. SOFRI, Il cosiddetto senso della pena, in S. ANASTASIA- F. CORLEONE- L. ZEVI (a cura di),
Il corpo e lo spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie, Ediesse, Roma
2011, 259.
ERGASTOLO OSTATIVO: UNA DECISIONE OBBLIGATA?
di IGNAZIO PATRONE
Essendo tra gli ultimi ad intervenire dopo una giornata tanto intensa ed
interessante, ho il dovere di svolgere solamente alcune brevi considerazioni.
Devo anzitutto ringraziare chi ha organizzato questa giornata di studi e tutti
coloro che hanno dato il loro contributo ad un dibattito che, a mio avviso, non ha
riguardato solo la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di
Cassazione ma, più in generale, le prospettive che essa apre per una discussione su
“cos’è” oggi la pena in Italia, quali funzioni essa debba adempiere, quale sia in
concreto la finalità rieducativa indicata dall’art. 27 della Costituzione.
Mi è parso che nella maggior parte degli interventi sia stata data, se per non
scontata, quantomeno per assai probabile una decisione della Corte costituzionale
nel senso della fondatezza della questione: ciò in forza della precedente sentenza n.
253/2019, della sentenza della Corte EDU Viola c. Italia n.2 (che, come è stato
osservato, viene en passant citata nella stessa sentenza della nostra Corte) e - anche
se l’argomento non è stato esplicitamente speso - di un nuovo approccio culturale
della Consulta che ha portato di recente alla assoluta novità delle visite dei suoi
giudici nelle carceri, a diretto contatto con la realtà della pena e della vita dei
detenuti.
Non voglio giocare il ruolo del pessimista ad oltranza, ma non sono così
convinto che la soluzione che viene qui da tutti auspicata ed attesa sarà anche
necessariamente quella che avremo.
Il partito del “gettate via la chiave”, quello della antimafia dura e pura, è più
vivo che mai e, per ricordarcelo, basta pensare alle reazioni, anche isteriche, che
hanno accompagnato alcuni, pur se assai limitati, provvedimenti dei magistrati di
sorveglianza all’esplodere della pandemia (anche) nelle carceri e ad alcune reazioni
scomposte registrate (soprattutto, se non solo, da parte di magistrati del pubblico
ministero) alla pubblicazione della sentenza Viola: non si è esitato addirittura a
gridare che con quella decisione si uccidevano una seconda volta Giovanni Falcone
e Paolo Borsellino, che era un regalo fatto alla mafia, che si dava un colpo di
piccone al sistema di prevenzione. La Corte costituzionale – pur nella sua
confermata e giustamente rivendicata indipendenza – come tutti i giudici di questo
mondo non lavora in una sfera di cristallo e non può non sentire le voci che arrivano
dall’esterno e, con esse, le preoccupazioni che molti nutrono per la tenuta
complessiva di un quadro normativo che, scaturito dalla reazione alle stragi
mafiose, è in piedi da quasi un trentennio. Queste voci e queste preoccupazioni, al
di là delle urla dei pasdaran dell’antimafia militante, si faranno sentire.
Una eco di quanto sopra si può trovare nella Relazione della Commissione
parlamentare antimafia del 20 maggio 2020, qui già da alcuni ricordata, sul cui
contenuto non ora vi è lo spazio ed il tempo per argomentare, ma la cui finalità
sembrerebbe essere una sola: attenuare gli effetti delle sentenze, Viola c. Italia e n.
Ex magistrato, Collaboratore della Associazione Antigone.
210
Ignazio Patrone
253/2019, introducendo comunque binari speciali per l’esame delle istanze dei
condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis.
Ricordo ancora, sulla scia di quanto ha osservato anche Franco Corleone nel
suo intervento odierno, che il clima politico generale non è oggi quello di una
riforma nel senso indicato dalla ordinanza della Cassazione, quanto piuttosto quello
di una controriforma sulla spinta delle tante emergenze, vecchie e nuove, che
vengono di volta in volta agitate: dalla criminalità, alla corruzione, al terrorismo,
sino alla immigrazione. Il segno della volontà delle pur mutevoli maggioranze di
questa legislatura è del resto reso evidente dalla legge c.d. spazzacorrotti, quasi un
manifesto del law and order nostrano, e dalla ripetuta cieca fiducia nella sanzione
detentiva manifestata in ogni occasione dal Guardasigilli. Oggi, le maggioranze
parlamentari di qualsiasi colore ben difficilmente si allineerebbero alle posizioni
espresse dai partecipanti a questo seminario.
Questo è l’ambiente, culturale prima ancora che politico, nel quale la Corte sarà
chiamata a prendere una decisione che la esporrà a critiche e non solo a quelle
strettamente tecnico-giuridiche. I binari entro i quali andrà presa la decisione non
sono perciò obbligati, si tratta di questione almeno in parte aperta.
Ecco allora affacciarsi due possibilità. La prima potrebbe essere rappresentata
da una decisione sulla falsariga della ordinanza relativa al “caso Cappato”, n.
207/2018: un rinvio lungo per rimettere la palla al legislatore, rinvio che sarebbe
qui legittimato dalla stessa motivazione della sentenza Viola c. Italia, ove la Corte
europea (§143) ha affermato (§143) che «la natura della violazione riscontrata dal
punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione indica che lo Stato deve mettere a
punto, preferibilmente su iniziativa legislativa [l’enfasi è mia], una riforma del
regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena,
il che permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione di
quest’ultima, il detenuto si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi tali verso la
propria correzione che nessun motivo legittimo in ordine alla pena giustifichi più il
suo mantenimento in detenzione, e al condannato di beneficiare così del diritto di
sapere ciò che deve fare perché la sua liberazione sia presa in considerazione e quali
siano le condizioni applicabili. La Corte considera, pur ammettendo che lo Stato
possa pretendere la dimostrazione della “dissociazione” dall’ambiente mafioso, che
tale rottura possa esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la
giustizia e l’automatismo legislativo attualmente vigente». Quel riferimento alla
iniziativa legislativa, unito all’inadempimento – ad oggi – della sentenza definitiva
della Corte europea, potrebbe anche consigliare un invito al Legislatore a
provvedere, visto anche che la Commissione parlamentare antimafia le sue proposte
le ha già formulate.
La seconda possibilità (che forse è anche la più probabile) è quella di una
sentenza che, sulla falsariga del precedente nazionale rappresentato dalla sentenza
n. 253/2019 (si veda in particolare il punto 9 del Considerato in diritto), dichiari
l’incostituzionalità delle disposizioni denunciate dalla ordinanza della Corte di
Cassazione, ma indicando una griglia di condizioni e cautele tale da ridurre al
minimo i casi di accoglibilità, da parte della magistratura di sorveglianza, delle
domande dei condannati: una soluzione “sì, però… ”, come del resto testualmente
scritto nella sentenza citata: «Nel caso di specie, però, trattandosi del reato di
Ergastolo ostativo: una decisione obbligata?
211
affiliazione a una associazione mafiosa (e dei reati a questa collegati), caratterizzato
dalle specifiche connotazioni criminologiche prima descritte, la valutazione in
concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di
collegamenti con la criminalità organizzata – da parte di tutte le autorità coinvolte,
e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza – deve rispondere a criteri
di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio
criminale del quale si esige l’abbandono definitivo» [l’enfasi è mia]. Dove ognuno
può vedere che il ragionamento della Corte è retto proprio da quel cautissimo
«però», congiunzione avversativa che anche in questo caso potrebbe giocare un
ruolo determinante nella decisione.
Voglio a questo punto aggiungere solo un paio di considerazioni, riprendendole
in parte dal testo dell’amicus curiae che Antigone ha presentato alla Corte.
La prima concerne il crescente ricorso in Italia alla pena detentiva, ed alla pena
detentiva lunga sino all’ergastolo, pur se in un contesto di decrescita costante della
criminalità nel Paese, secondo le stesse statistiche del Ministero dell’interno: si
veda la relazione al Parlamento per l’anno 2018 dal sito del Ministero
www.interno.gov.it/, dalla quale risulta un calo nel decennio, per alcuni reati,
veramente impressionante. Difficile stabilire quanto in questo ricorso alla
detenzione lunga contino le scelte del legislatore e quanto la cultura dei giudici, ma
certamente esso non è determinato da un aumento dei reati, specie di quelli violenti.
Di sicuro, la cosa deve preoccupare perché in ogni caso costituisce l’indice di uno
iato profondo tra la realtà del crimine e la percezione dello stesso, compresa la
risposta inversamente proporzionale dei tribunali e delle corti.
Va inoltre considerato che la recente riforma del rito abbreviato introdotta
dall'art. 1, comma 1, lett. a), della legge 12 aprile 2019, n. 33, esclude per i reati
commessi dalla data della sua entrata in vigore (20 aprile 2019) l'applicabilità della
riduzione di pena prevista da tale rito ai delitti puniti con l'ergastolo (art. 438,
comma 1-bis, c.p.p.). Essa avrà quindi come inevitabile conseguenza che in un
rilevante numero di casi, in cui la disciplina previgente rendeva applicabile la
reclusione nella misura di trent'anni, si applicherà ora la pena perpetua.
La seconda osservazione riguarda l’uso della collaborazione in fase di
esecuzione come strumento – improprio – di prevenzione generale: il Governo
italiano davanti alla Corte di Strasburgo ha sostenuto con lodevole chiarezza che la
disciplina vigente ha lo scopo (§103 della motivazione) di chiedere ai condannati
«la dimostrazione tangibile della loro “dissociazione” dall’ambiente criminale e
dell’esito positivo del percorso di risocializzazione, attraverso una collaborazione
utile con la giustizia volta alla “disintegrazione” dell’associazione mafiosa e al
ripristino della legalità (…) il legislatore ha espressamente privilegiato le finalità di
prevenzione generale e di protezione della collettività, chiedendo ai condannati per
i delitti in questione di dare prova di collaborazione con le autorità, uno strumento
considerato fondamentale nella lotta contro il fenomeno mafioso».
Crediamo che questa sorta di obbligo di collaborazione in sede esecutiva
mediante il rafforzamento del trattamento punitivo, sino ad un effettivo “fine pena
mai” prospettato in vista dell'ottenimento di fini esclusivamente processuali e senza
escludere (anzi favorendo) l'auto-incriminazione, si ponga in radicale contrasto con
principi costituzionali ben indicati nella ordinanza della Cassazione. La
212
Ignazio Patrone
collaborazione, della cui utilità nessuno discute, dovrebbe essere lo strumento
attraverso il quale si ottengono vantaggi processuali, sia nella determinazione della
pena irrogata, sia nella sua esecuzione: ma il far discendere dalla mancata
collaborazione un trattamento deteriore (addirittura l’immutabilità della pena
perpetua) appare francamente ai limiti (e forse oltre) di un trattamento inumano.
DOPO LA SENTENZA (DI ACCOGLIMENTO) CHE VERRÀ
di ANDREA PUGIOTTO
SOMMARIO: 1. La Corte costituzionale non ha scelta, perché ha già scelto. – 2. Le
prevedibili resistenze al dispositivo di accoglimento che verrà. - 3. I rischi di una
probatio diabolica. – 4. Il pericolo di una eterogenesi dei fini. – 5. La trappola
dell’obbligo di collaborare come requisito indispensabile al «necessario
ravvedimento». - 6. Il fine della pena esige la fine della pena, ma in concreto.
1. A mio modo di vedere, la Corte costituzionale non ha scelta perché ha già
scelto.
Nessuno, infatti, può credibilmente negare la portata generale, dunque
sistemica, della ratio decidendi della sent. n. 253/2019 (ribadita, con effetti ancor
più radicali, nella successiva sent. n. 263)1: il volto costituzionale della pena e della
sua esecuzione esige che l’originaria presunzione assoluta di pericolosità sociale e
di mancata emenda del reo non collaborante lasci il posto ad una presunzione
relativa, superabile ove sia accertata in concreto la rescissione con l’originario
sodalizio criminale.
Infatti, se può essere fallace l’equivalenza normativa tra collaborazione e
ravvedimento2, può esserla anche quella tra mancata collaborazione e pericolosità
sociale3. Su questo, la convergenza tra le Corti di Roma e Strasburgo è totale.
Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Ferrara
A commento di entrambe le decisioni sia consentito rinviare – anche per le ulteriori
indicazioni bibliografiche – ad A. PUGIOTTO, Due decisioni radicali della Corte costituzionale in
tema di ostatività penitenziaria: le sentenze nn. 253 e 263 del 2019, in Giur. Cost., 2019, 3345 ss.
Per una riflessione preventiva sulla quaestio poi decisa con sent. n. 253/2019, il rinvio
bibliografico è agli atti del seminario di Ferrara del 27 settembre 2019: cfr. G. BRUNELLI - A.
PUGIOTTO - P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo
tra le Corti, in Forum di Quad. Cost. - Rassegna, n. 10, 2019.
Alla sent. n. 253/2019 è stata in seguito dedicata un’intera giornata di studio presso la Casa
circondariale di Cassino, il 20 gennaio 2020: cfr. S. GRIECO- S. SCALERA (a cura di), Verso il
superamento dell’ergastolo ostativo?, EUC, Cassino, 2020, con relazioni – tra le altre – del
Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, F. CAFIERO DE RAHO, Un intervento legislativo
urgente nell’esigenza del contrasto ampio alle mafie, ivi, 103 ss., e del Giudice costituzionale
relatore e redattore della decisione, N. ZANON, Il lavoro della Corte nell’elaborazione e nella
scrittura della sentenza n. 253 del 2019, ivi, 113 ss.
2
Come osserva la Corte di Strasburgo, il detenuto può essere indotto a collaborare con le
autorità «con l’unico proposito di ottenere i vantaggi previsti dalla legge» (§116), senza che il suo
comportamento rifletta un’autentica dissociazione dall’ambiente criminale di provenienza (§119):
cfr. Corte EDU, Prima Sezione, Viola c. Italia n°2, sentenza 13 giugno 2019, def. 5 ottobre 2019.
Prima ancora, non diversamente era stata la Corte costituzionale a riconoscere che una condotta
collaborativa con la giustizia «ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei
vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione.» (sent. n.
306/1993).
3
Nella già citata sentenza Viola c. Italia n°2 si legge che «la mancanza di collaborazione
potrebbe essere non sempre legata a una scelta libera e volontaria, né giustificata unicamente dalla
persistenza dell’adesione ai “valori criminali” e dal mantenimento di legami con il gruppo di
1
214
Andrea Pugiotto
Tutto ciò, peraltro, si inserisce in un orizzonte di senso – di cui la Consulta
mostra piena consapevolezza, avendo contribuito a tracciarlo progressivamente in
modo sempre più nitido – secondo cui «il volto costituzionale del sistema penale»
vincola il legislatore a esercitare la punizione «sempre allo scopo di favorire il
cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale» del reo4,
perché «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile
dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile, ma continua ad essere
aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento»5.
E poiché anche per i giudici costituzionali deve valere un obbligo di coerenza
(secondo la regola aurea del fare ciò che si è detto), personalmente non ho dubbi:
come ieri è caduta l’ostatività al permesso premio, così oggi cadrà quella alla
liberazione condizionale6.
2. Ecco perché i nodi su cui vorrei concentrare la mia attenzione sono altri, tutti
di prospettiva7. Nodi che è bene segnalare fin d’ora, a evitare che un fecondo
dispositivo di accoglimento si riveli sterile nel suo concreto seguito
giurisprudenziale, in ragione di una prevedibilissima resistenza a un giudicato
costituzionale che temo sgradito ai più8.
Non dimentichiamoci, infatti, che presunzioni legali assolute nascondono, con
la maschera dell’id quod plerumque accidit, scelte squisitamente di politica
appartenenza», potendo – ad esempio – derivare dal timore di ritorsioni contro la propria vita o dei
propri familiari (§118).
Analogamente, già nella sent. n. 306/1993 della Corte costituzionale si leggeva che «dalla
mancata collaborazione non può trarsi una valida presunzione di segno contrario, e cioé che essa sia
indice univoco di mantenimento dei legami di solidarietà con l'organizzazione criminale: tanto più,
quando l'esistenza di collegamenti con quest'ultima sia stata altrimenti esclusa». Nella più recente
sent. n. 253/2019, l’equivalenza tra condotta non collaborante e pericolosità sociale è censurata
(anche) perché la presunzione di una «immutabilità, sia della personalità del condannato, sia del
contesto esterno di riferimento», può essere contraddetta in concreto, in ragione del lungo tempo
trascorso in detenzione e alla luce di una valutazione individualizzata e attualizzata della personalità
del detenuto.
4
Sent. n. 179/2017.
5
Sent. n. 149/2018.
6
La più recente ricostruzione – diacronica e critica – del regime ostativo di cui all’art. 4-bis,
ord. penit., è di V. MANCA, Regime ostativo ai benefici penitenziari. Evoluzione del ‘doppio binario’
e prassi applicative, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano 2020, sulla quale vedi anche l’interessante
recensione di F. GIANFILIPPI, Intorno al 4-bis: un viaggio nella complessità, che non perde mai di
vista le persone, in Quest. Giust., 31 ottobre 2020.
7
Quanto alle possibili valutazioni specificamente suggerite dall’atto di promuovimento della
Cassazione, rinvio – per quel che mi riguarda – ad A. PUGIOTTO, L’ergastolo ostativo al capolinea?
Una mappa per orientarsi, in attesa della sentenza costituzionale, in Studium Iuris, fasc. 2, 2021 (in
corso di pubblicazione).
8
E’ facile prevedere il remake delle abrasive polemiche che hanno accompagnato la sent. n.
253/2019, se possibile ancora più esasperate, essendo questa volta in gioco non un beneficio
penitenziario (il permesso premio) ma, addirittura, una causa estintiva della pena (la liberazione
condizionale). Per una ricostruzione analitica di quel polemico e scomposto dibattito, cfr. A.
PUGIOTTO, La sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale: una breccia nel muro dell’ostatività
penitenziaria, in Studium Iuris, 2020, 403-405.
Dopo la sentenza (di accoglimento) che verrà
215
criminale9. E rappresentano il miglior rifugio per il giudice riluttante, che nulla ha
da eccepire contro automatismi legislativi, anche se erodono la sua funzione10,
quando in cambio gli assicurano deresponsabilità e quieto vivere: si spiega così il
ritardo con cui la quaestio legitimitatis di un ergastolo ostativo alla liberazione
condizionale viene riproposta al Giudice delle leggi solo ora, diciassette anni dopo
il suo diretto ed unico precedente, la sent. n. 135/200311.
3. Per prima cosa, andrà evitato che, come l’araba fenice, la presunzione
assoluta di pericolosità sociale torni a rinascere dalle sue ceneri attraverso
machiavelliche formule giurisprudenziali.
Penso, innanzitutto, all’esclusione del pericolo di una ripresa futura dei
pregressi collegamenti con la criminalità organizzata: accertamento già imposto
dalla sent. n. 253/2019 per la concessione del beneficio premiale, a fortiori lo sarà
per la concessione della liberazione condizionale.
Sul rischio di farne una probatio diabolica, in quanto pretesa dimostrazione
dell’inesistenza di un pericolo in astratto, molto si è detto: sia in sede di commento
9
«Sotto il manto delle presunzioni legali si nascondono non già comuni esperienze, ma astratte
scelte di politica legislativa»: questo il lapidario giudizio, espresso oltre cinquant’anni fa, da A.
PACE, Misure di sicurezza e Costituzione, in Giur. Cost., 1966, 193. È certamente vero per
l’automatismo normativo dell’art. 4-bis, 1° comma, ord. penit., che «rappresenta un forte incentivo
alla collaborazione» ed è «essenzialmente espressione di una scelta di politica criminale, e non
penitenziaria»: così la sent. n. 306/1993, la cui valutazione è suffragata dalla dichiarazione del
Guardasigilli proponente che, a suo tempo, la rappresentò come «l'arma più efficace... per
contrastare la criminalità organizzata», dato che «praticamente tutti i processi che hanno ottenuto
qualche risultato...sono stati fondati...sulla collaborazione di ex appartenenti alle associazioni di
stampo mafioso» (Senato, seduta del 6 agosto 1992, resoconto stenografico, 61). Di «esigenze
investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’ordinario svolgersi
dell’esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non
collaborante» parla ora – sempre in riferimento all’art. 4-bis, 1° comma, ord. penit. – la sent. n.
253/2019.
10
Sulla possibilità di leggere in controluce, nelle impugnazioni incidentali di automatismi
legislativi, vere e proprie liti interorganiche, cfr. A. PUGIOTTO, Conflitti mascherati da quaestiones:
a proposito di automatismi legislativi, in R. ROMBOLI (a cura di), Ricordando Alessandro
Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’
e quella ‘giurisdizionale’, Giappichelli, Torino 2017, 497 ss.
L’ipotesi viene ora ripresa – con specifico riferimento al regime dell’art. 4-bis, ord. penit. – da
O. PINI, La giurisprudenza costituzionale sui reati ostativi: bilanciamento di valori ed equilibrio tra
poteri, in Dirittifondamentali.it, 2020, fasc. 1, 53-55.
11
Cfr. A. PUGIOTTO, Tre telegrammi in tema di ergastolo ostativo, in Riv. It. Dir. Proc. Pen.,
2017, 1519-1520, contributo al seminario di studi svoltosi il 16 novembre 2017 presso l’Università
degli Studi di Milano sul tema Ergastolo ‘ostativo‘: profili di incostituzionalità e di incompatibilità
convenzionale. Un dibattito.
Per la pregressa giurisprudenza di legittimità, granitica nel rigettare la quaestio in esame perchè
ritenuta manifestamente infondata, cfr., ex plurimis, Cass., sez. I pen., 7-28 novembre 2012, n.
45978, Musumeci; Id., 20 marzo-17 luglio 2015, n. 31203, Papalia; Id., 22 marzo-1 luglio 2016, n.
27149, Viola; Id., 17 gennaio-16 febbraio 2017, n. 7428, Pesce. Il dato giurisprudenziale era così
radicato da indurre la Corte di Cassazione ad affermare la «dubbia configurabilità di un’autonoma
tipologia di pena qualificabile come ‘ergastolo ostativo’»: Id., 4 marzo 2014, n. 18206, Grassonelli.
Tutte le sentenze qui citate sono consultabili nella sezione documenti del sito dedicato al presente
seminario (www.amicuscuriae.it).
216
Andrea Pugiotto
della sentenza dello scorso anno12, sia oggi in questa occasione di dibattito. Sul
punto, lo stesso giudice di legittimità ha avuto modo di riconoscere, senza
infingimenti, la sua «problematica aderenza a canoni epistemologici basati sulla
materialità dell’oggetto della prova»13.
Per parte mia, segnalo che è un rischio tanto più elevato se dovesse
accompagnarsi a quell’inversione probatoria – prefigurata in motivazione, ma non
nel dispositivo della sent. n. 253/2019 anche perché estranea al thema decidendum
introdotto dal giudice a quo – secondo cui graverebbe sul richiedente tale prova
negativa, a fronte di un parere delle procure antimafia contrarie alla concessione del
beneficio14.
12
La denuncia dottrinale - sia della concreta impraticabilità del criterio probatorio introdotto
dalla Corte costituzionale, sia della sua matrice autopoietica - è un vero e proprio refrain: cfr., in
particolare, M. BORTOLATO, Il futuro rientro nella società non può essere negato a chi non
collabora, ma la strada è ancora lunga, in Diritto Pen. e Proc., 2020, 635-637; S. BARALDI,
Sull’incompatibilità con la Costituzione della presunzione assoluta di pericolosità dei condannati
per reati ostativi che non collaborano con la giustizia: in margine a Corte cost., sentenza del 23
ottobre 2019 (de 4 dicembre 2019) n. 253, in Osservatorio Cost., 2020, fasc. 2, 349 nota 63; G.
CIRIOLI, Bertoldo e la presunzione assoluta di pericolosità sociale: entrambi impiccati a una pianta
di fragole ? Un breve commento alla sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale, ivi, fasc. 4,
248-251; M. MENGOZZI, Il meccanismo dell’ostatività alla sbarra. Un primo passo da Roma verso
Strasburgo, con qualche inciampo e altra strada da percorrere (nota a Corte cost., sent. n. 253 del
2019), ivi, fasc. 2, 369-371; A. MENGHINI, La Consulta apre una breccia nell’art. 4-bis o.p. Nota a
Corte cost. n. 253/2019, ivi, fasc. 2, 321; E. FASSONE, L’ergastolo e il diritto alla speranza, in
Quest.Giust., 24 febbraio 2020, §21; F. FIORENTIN, Una decisione ‘storica’ dal grande impatto
sistematico, in Cass. Pen., 2020, 1025 ss.; D. GALLIANI- R. MAGI, Permesso premio e regime
ostativo. La Corte costituzionale si è espressa, ora la parola passa ai giudici, in Quad. Cost., 2020,
137; V. MANCA, Regime ostativo ai benefici penitenziari, cit., 113-114 e 163-166; M. MICHETTI,
L’accesso ai permessi premio tra finalità rieducativa della pena ed esigenze di politica criminale,
in Giur. Cost., 2019, 3129; M. PELISSERO, Permessi premio e reati ostativi. Condizioni, limiti e
potenzialità di sviluppo della sent. n. 253/2019 della Corte costituzionale, in Legisl. Pen., 30 marzo
2020, 12-15; M. RUOTOLO, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del
2019 della Corte costituzionale, in Sistema Penale, 12 dicembre 2019, §3; S. TALINI, Presunzioni
assolute e assenza di condotta collaborativa: una nuova sentenza additiva ad effetto sostitutivo, in
Consulta Online, Studi, 2019, fasc. III, 741.
13
Cass., Sez. I pen., 28 gennaio-12 febbraio 2020, n. 5553, Grasso, pres. Siani, est. Magi: la si
può leggere tra il materiale giurisprudenziale predisposto per questo seminario, nel sito
www.amicuscuriae.it.
14
La dissociazione – sul punto - tra motivazione e dispositivo nella sent. n. 253/2019 è
ridimensionata fino all’irrilevanza da Marco Ruotolo, nella sua relazione introduttiva a questo
seminario (ID., L’ergastolo ostativo è costituzionale?, §8), in nome del «canone elementare della
“totalità” della sentenza, quale esplicitazione del canone della totalità nell’interpretazione
giuridica», secondo il noto insegnamento di Emilio Betti.
Sia consentito replicare. Trattandosi di decisione manipolativa, la sent. n. 253/2019 manca, sul
punto, di quella precisione chirurgica necessaria a renderne autoapplicativo il dispositivo. Di più:
manipolando una disciplina formalmente penitenziaria ma sostanzialmente penale (cfr. sent. n.
32/2020, su cui infra, nota 21), quel dispositivo – proprio perché omissivo sul punto - proietta un
deficit di tassatività-determinatezza sulla normativa di risulta che la rende inidonea a imporre erga
omnes una simile richiesta probatoria. Il tutto, a mio modo di vedere, nasce dall’assenza di un
aggancio costituzionale che renda obbligata l’inversione dell’onere probatorio prefigurata nella
parte motiva della sent. n. 253/2019, diversamente dai due altri requisiti (la valutazione
giurisdizionale individualizzata e l’acquisizione di elementi che escludano il pericolo di un futuro
ripristino dei collegamenti con il sodalizio criminale) entrambi costituzionalmente giustificabili e,
Dopo la sentenza (di accoglimento) che verrà
217
Cinematograficamente, non siamo molto lontani dall’invettiva di papa Pio XIII
(alias Lanny Belardo), il pontefice di The Young Pope, rivolta ai fedeli riuniti in
Piazza San Pietro15:
«A quelli che hanno il minimo dubbio su Dio, io non ho nulla da
dire. Posso solo ricordare loro il mio disprezzo. E la loro miseria.
Io non devo provare l’esistenza di Dio. Sono loro che devono
provarmi che Dio non esiste. Siete in grado di dimostrarmi che Dio
non esiste? Se non siete in grado di dimostrarmelo, allora significa
che Dio esiste».
4. Contro la sentenza di accoglimento che verrà potrà essere giocata un’altra
machiavellica strategia. Quella secondo cui la liberazione condizionale non può
comunque concedersi a chi, prima, non ha mai usufruito di alcun beneficio
pentenziario o misura alternativa. Ne andrebbe, altrimenti, della necessaria
progressività trattamentale, che – come accade in natura - non ammette salti.
Così, secondo la più classica eterogenesi dei fini, la progressività del
trattamento, traduzione legislativa del principio costituzionale che vuole la pena
finalizzata alla risocializzazione del reo, diventerebbe un ostacolo al suo stesso fine.
Qui è in piena attività un cortocircuito cognitivo, che scambia la causa con
l’effetto. L’impossibilità per un ergastolano ostativo di accedere alle tappe di un
percorso trattamentale che ha nella liberazione condizionale il suo traguardo, è
dovuta (non necessariamente a una sua libera scelta16, bensì) all’irragionevole
preclusione assoluta dell’art. 4-bis, 1° comma, ord. penit. Negargli per questo
l’accesso alla liberazione condizionale significherebbe, dunque, fargli pagare le
conseguenze incostituzionali di persistenti automatismi incostituzionali.
A interrompere questo circolo vizioso è chiamato il Giudice delle leggi. Come
osservato nell’Amicus Curiae del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti e delle
persone private della libertà personale (alla cui redazione chi scrive, invero, non è
stato estraneo), l’attesa sentenza di accoglimento dovrà estendere i suoi effetti
anche nei confronti dell’ostatività al lavoro esterno e alla semilibertà, quali benefici
intermedi tra il permesso premio e la liberazione condizionale17.
proprio per questo, travasati nel dispositivo della pronuncia.
Ha dunque ragione Franco della Casa quando (nel suo intervento orale al presente seminario,
fruibile nella relativa registrazione audiovideo in www.amicuscuriae.it) segnala che la mancata
allegazione, da parte del detenuto, di elementi probanti l’assenza del pericolo di ripristino di
collegamenti con il sodalizio criminale non può essere motivo d’inammissibilità della richiesta di
liberazione condizionale, che l’art. 666, 2° comma, c.p.p., prevede solo «per difetto delle condizioni
di legge» o perché «riproposizione di una richiesta già rigettata, basata su medesimi elementi».
15
P. SORRENTINO, Il peso di Dio. Il vangelo di Lanny Belardo, Einaudi, Torino 2017, 33.
16
Come ora riconoscono all’unisono sia la Corte EDU che la Corte costituzionale: vedi, supra,
nota 3.
17
Cfr. §3, ultimo cpv. Il testo integrale dell’Amicus Curiae inoltrato alla cancelleria della Corte
costituzionale dal Garante Nazionale è fruibile nel sito (www.amicuscuriae.it) predisposto per
questo seminario, nella sezione dedicata alla documentazione processuale.
218
Andrea Pugiotto
In altre parole, si tratta di rimuovere un identico meccanismo incostituzionale
applicato ad altre ipotesi normative, oltre a quella impugnata. La tecnica
dell’illegittimità consequenziale - ex art. 27, legge n. 87 del 1953 – è lì per questo,
a disposizione della Consulta indipendentemente dalla richiesta o meno del giudice
a quo di farvi ricorso18.
5. L’ultimo nodo è il più intricato, perché riposa su una pregressa e duratura
giurisprudenza costituzionale.
Torno al mio postulato iniziale. L’accoglimento della quaestio dovrebbe
consentire agli ergastolani non collaboranti di accedere, previo positivo vaglio
giurisdizionale, alla liberazione condizionale, causa estintiva di una pena altrimenti
perpetua. Che però questo accada non è detto. E il perché è presto detto.
Come insegna la giurisprudenza costituzionale a far data almeno dalla sent. n.
273/200119, la mancata collaborazione con la giustizia altro non è che un «indice
legale della persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata», sufficiente
ad escludere il «necessario ravvedimento» del reo, conditio sine qua non per
ottenere la liberazione condizionale.
Così inquadrato, l’obbligo di collaborare con la giustizia introdotto con
decretazione d’urgenza nel 1992, non avrebbe integrato una novazione alla
disciplina codicistica della liberazione condizionale, rappresentandone un mero
elemento di fatto già incapsulato nell’art. 176 c.p. (disposizione peraltro estranea al
thema decidendum del giudizio di costituzionalità pendente).
Ecco il nodo scorsoio. L’obbligo di una collaborazione esigibile, assorbito nel
presupposto codicistico del sicuro ravvedimento, sopravviverebbe grazie a un
diritto vivente giurisprudenziale che lo pretenderebbe comunque: non più a monte,
quale condizione di ammissibilità per richiedere una liberazione condizionale, ma
a valle, come requisito necessario per concederla.
Tocca di nuovo alla Corte costituzionale rimediare, con un obiter dictum che
corregga senza equivoci quella sua pregressa giurisprudenza, peraltro priva ormai
della sua ratio originaria. Serviva, infatti, a giustificare l’applicazione dell’inasprito
Così adoperata, l’incostituzionalità derivata si confermerebbe tecnica a tutela dei diritti
fondamentali, più volte utilizzata in riferimento al regime ostativo ai benefici penitenziari (cfr. le
sentt. nn. 357/1994, 68/1995, 253/2019): in tal senso, vedi già D. GALLIANI - A. PUGIOTTO,
L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo. (A proposito della sentenza Viola v. Italia n.
2), in Osservatorio Cost., 2019, n. 4, 208.
L’uso della dichiarazione d’illegittimità consequenziale a garanzia di una tutela effettiva di
beni costituzionali di particolare spessore, capace così di assicurare piena risoluzione al problema di
giustizia costituzionale sottoposto al Giudice delle leggi, è riscontrato da S. BARTOLE, Una
dichiarazione di incostituzionalità consequenziale qualificata dalla speciale importanza della
materia, in Le Regioni, 1996, 313 ss.; G. BRUNELLI, L’illegittimità derivata di norme analoghe come
tecnica di tutela dei diritti fondamentali, in Giur. Cost., 2002, 3644 ss.; ID., Significative
convergenze: illegittimità derivata di norme analoghe e sentenze manipolative, in Scritti in memoria
di Livio Paladin, Jovene, Napoli 2004, 352 ss. Per una ricostruzione sistematica dell’istituto di cui
all’art. 27, legge n. 87 del 1953, lo studio di riferimento è certamente quello di A. MORELLI,
L’illegittimità conseguenziale delle leggi. Certezza delle regole ed effettività della tutela,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2008.
19
Ma vedi anche, nello stesso senso, le ordd. nn. 280/2001, 308/2001, 108/2004.
18
Dopo la sentenza (di accoglimento) che verrà
219
art. 4-bis, 1° comma, ord. penit., a tutti i detenuti per reati ostativi commessi anche
anteriormente alla sua entrata in vigore, dribblando così la censura di violazione
dell’art. 25, 2° comma, Cost.20 Oggi, dopo la storica sent. n. 32/2020, si tratterebbe
invece di un’indiscutibile violazione del divieto costituzionale d’irretroattività, ora
esteso anche a norme penitenziarie “materialmente” penali21.
6. Questi i tre nodi che mi auguro vengano sciolti dai giudici costituzionali,
così da mettere in sicurezza la loro prevedibile sentenza di accoglimento. Come è
giusto che sia.
Infatti, se l’orizzonte costituzionale è quello del «recupero del reo alla vita
sociale»22, allora davvero il fine della pena esige la fine della pena23. In concreto, e
non solo nella formula astratta di un dispositivo.
20
Cfr. C. MUSUMECI- A. PUGIOTTO, Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità
costituzionali dell’ergastolo ostativo, Napoli, Editoriale Scientifica, 2016, 157-165.
21
È proprio il decisum della sent. n. 32/2020 (ribadito nella sua ratio dalla successiva sent. n.
193/2020) ad aver aperto un varco per la concessione della liberazione condizionale ad un
ergastolano ostativo, benchè non collaborante e in assenza di collaborazione impossibile o
inesigibile (ex art. 4-bis, comma 1-bis, ord. penit.): condannato per un reato ostativo commesso
anteriormente all’entrata in vigore del d.l. n. 306 del 1992 introduttivo dell’obbligo di collaborare
utilmente con la giustizia, il giudice di sorveglianza ne ha escluso l’applicazione retroattiva;
l’accertata assenza di pericolosità sociale del reo, il suo sicuro ravvedimento e una detenzione
espiata per oltre 26 anni hanno reso possibile l’accoglimento dell’istanza: cfr. Trib. Sorveglianza di
Firenze, n. 2020/3341 del 29 ottobre 2020 (pres. Bortolato, est. Caretto, Ventura), sulla quale vedi
D. ALIPRANDI, Liberazione condizionale a ergastolano ostativo: è la prima volta, in Il Dubbio, 4
novembre 2020; A. STELLA, Ergastolano ostativo esce anche se non ha collaborato, in Il Riformista,
4 novembre 2020. Sulla genesi di tale provvedimento vedi, in questo stesso volume, M. PASSIONE,
La fine è nota (A proposito di un’innovativa ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Firenze).
Copiosa, ovviamente, è la dottrina a commento della sent. n. 32/2020: vedi, almeno, A.
APOLLONIO, I guardiani della legge: le ragioni dell’intervento della Consulta sulla
«spazzacorrotti», in Giustizia Insieme, 13 febbraio 2020; G. CERNESI, La portata del divieto di
applicazione retroattiva di norme incidenti sull’esecuzione della pena: brevi note a margine della
sentenza n. 32/2020 della Corte costituzionale, in Dirittifondamentali.it, 2020, n. 3, 116 ss.; R. DE
VITO, Corte costituzionale e «Spazzacorrotti»: cronaca di una rivoluzione (non) annunciata, in
Quest. Giust., 13 febbraio 2020; A. GARGANI, L’estensione “selettiva” del principio di
irretroattività alle modifiche in pejus in materia di esecuzione della pena: profili problematici di
una decisione “storica”, in Giur. Cost., 2020, 263 ss.; G.L. GATTA, Art. 4-bis o. e legge
«Spazzacorrotti», in Sistema Penale, 17 febbraio 2020; I. GIUGNI, La differenza fra “dentro” e
“fuori” il carcere è radicale: la Corte costituzionale dichiara illegittimo l’art. 1, co. 6, lett. b), della
legge c.d. spazzacorrotti, in Diritti Com, 11 marzo 2020; F. LAZZERI, La sentenza della Corte
costituzionale sul regime intertemporale delle modifiche all’art. 4-bis ord. penit. introdotte dalla l.
3/2010 (“spazzacorrotti”), in Sistema Penale, 26 febbraio 2020; V. MANES – F. MAZZACUVA,
Irretroattività e libertà personale: l’art. 25, secondo comma, Cost., rompe gli argini dell’esecuzione
penale, ivi, 23 marzo 2020; A. PUGIOTTO, Divieto di retroattività penale, ma non solo: i tanti profili
d’interesse della sentenza n. 32/2020, in Quad. Cost., 2020, 395 ss.
22
Così, testualmente, la sent. n. 253/2019.
23
La fulminante affermazione secondo la quale «il fine della pena è la fine della pena» si deve
alla penna di A. SOFRI, Il cosiddetto senso della pena, in S. ANASTASIA- F. CORLEONE- L. ZEVI (a
cura di), Il corpo e lo spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie, Ediesse,
Roma, 2011, 259. Ad essa hanno attinto gli organizzatori del presente seminario, per la scelta del
suo titolo.
UNA QUESTIONE DI CULTURA
di EMILIA ROSSI*
SOMMARIO: 1. La necessità di una promozione culturale – 2. Dal parametro
costituzionale dell’articolo 117 alla coerenza del sistema di riabilitazione.
1. La finalità risocializzante della pena, di ogni pena: al cuore della questione
rimessa al giudizio della Corte costituzionale con l’ordinanza 18 giugno 2020 della
Prima sezione penale della Corte di Cassazione c’è l’affermazione del rispetto, non
solo formale, del principio dettato dall’articolo 27, comma 3 della Costituzione. In
tanto si può ritenere, infatti, che tale principio ha effettivo valore, in quanto il
percorso riabilitativo compiuto nel corso dell’esecuzione della pena può
concretamente assumere rilevanza e dispiegare gli effetti previsti dall’ordinamento
per riportare la persona condannata al recupero dell’integrità della sua vita nel
contesto sociale.
La preclusione automatica della valutazione da parte del giudice di questo
percorso, imposta dal combinato disposto degli articoli 4-bis, 58-ter della legge 26
luglio 1975, n.354 e dell’articolo 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n.152, mette
in crisi, quindi, l’effettività concreta del principio costituzionale, impedendo,
innanzitutto, l’apprezzamento giurisdizionale di quel cammino riabilitativo, se non
a condizione di una attività di collaborazione con la giustizia che, sola, assurge a
parametro certificatore di avvenuta riabilitazione.
Se si guarda a una prospettiva di reintegrazione armonica del sistema, la
questione in discussione può avere una rilevanza fondativa, sul piano dei principi,
analoga a quella determinata dalla “pietra miliare” della sentenza della Corte
costituzionale n. 204/1974 che ha inscritto nell’impianto dell’ordinamento penale
«il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di
diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga
riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno
assolto positivamente al suo fine rieducativo»1 e il principio che «tale diritto deve
trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale»2.
Dalla pronuncia della Corte può venire, pertanto, il passo decisivo per
ristabilire l’assetto costituzionale rispetto a profili toccati da decenni di legislazione
“emergenziale” in progressiva crescita ipertrofica, secondo le emergenze di volta
in volta individuate dal legislatore, spesso anche in relazione all’interpretazione
dell’allarme, concreto o supposto, dell’opinione pubblica.
Quest’ultima considerazione dà ragione del fatto che la questione di cui si
discute è, sostanzialmente, questione politica nel senso ampio del termine, di
impostazione della politica criminale e della giustizia nel Paese: e, quindi, è
*
Componente del Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private
della libertà personale, Avvocata del Foro di Torino.
1
Sentenza 27 giugno-4 luglio 1974, n. 204.
2
Ibidem.
Una questione di cultura
221
questione culturale che non potrà risolversi, in una prospettiva futura e di ricostruita
integrità del sistema, se non investirà il patrimonio culturale comune.
Con questa consapevolezza, il Garante nazionale dei diritti delle persone
private della libertà ha voluto offrire il proprio contributo di conoscenza alla Corte
costituzionale con l’atto di intervento di Amicus Curiae - alla cui elaborazione
hanno reso fondamentale apporto i professori Davide Galliani e Andrea Pugiotto nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dalla Prima sezione della Corte
di Cassazione3.
Si è inteso rappresentare, infatti, in primo luogo, come sul piano
fenomenologico, prodotto dell’impostazione della politica criminale fin qui seguita
da decenni, la questione proposta al giudizio della Corte abbia natura sistemica: i
dati statistici ufficiali, forniti al Garante dal Dipartimento dell’Amministrazione
penitenziaria, attestano che l’ergastolo, nel sistema ordinamentale attuale, è
principalmente ergastolo ostativo. Delle 1800 persone condannate all’ergastolo
presenti negli istituti penitenziari alla data del 1° settembre 2020, infatti, 1271 sono
quelle che scontano un ergastolo ostativo, in ragione dei reati compresi nell’articolo
4-bis della legge 26 luglio 1975, n.354 loro ascritti. Inoltre, gli stessi dati indicano
che il costante incremento del numero degli ergastolani presenti in carcere,
riscontrabile negli ultimi quindici anni, è dovuto quasi completamente a quelli che
scontano un ergastolo ostativo4.
La natura sistemica della questione della preclusione ostativa alla liberazione
condizionale per la pena dell’ergastolo, evidenziata dal quadro fenomenologico, è
tale, pertanto, da investire integralmente l’impianto di questa pena, di una delle tre
pene principali previste dall’ordinamento: e quando si tratta di mettere mano a un
impianto integrale, la promozione di una condivisione culturale, che prenda le
mosse dal più alto organo di giustizia e si articoli nella coscienza giuridica e
collettiva, è assolutamente imprescindibile per scongiurare il rischio che i princìpi
rimangano soltanto scritti sulla, pur nobile, carta.
2. Quando il Garante nazionale ha proposto il proprio intervento di Amicus
Curiae, la sua designazione di Meccanismo nazionale di prevenzione della tortura
per l’Italia, nell’ambito del Protocollo Opzionale alla Convenzione ONU contro la
tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti (Opcat), ratificato
con la legge 9 novembre 2012, n. 195, discendeva ancora dalla lettera diplomatica
della Permanent Mission of Italy alle Nazioni Unite del 25 aprile 20145. Con il
decreto-legge 21 ottobre 2020, n. 1306 tale designazione è entrata nella norma di
Il testo dell’Amicus Curiae del Garante Nazionale, 8 settembre 2020, è consultabile nel sito
www.amicuscuriae.it dedicato al presente seminario, nella sezione “documentazione processuale”.
4
Cfr. Amicus Curiae del Garante nazionale, 8 settembre 2020, §2. Dati statistici in tema di
ergastolo ostativo e liberazione condizionale.
5
Note Verbale 1105, 25 April 2014 – Permanent Mission of Italy to the International
Organizations in Geneva.
6
Articolo 13, recante «Modifiche urgenti alla disciplina sul Garante nazionale dei diritti delle
persone private della libertà personale», comma 1, lettera b). Il decreto-legge che, alla lettera a) dello
stesso articolo, è anche intervenuto sulla denominazione del Garante nazionale, eliminando il
riferimento specifico alle «persone detenute» e comprendendo, così, nel termine ampio di «Garante
3
222
Emilia Rossi
rango primario dell’articolo 7 del decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146,
convertito dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10.
La nuova cornice normativa dell’Istituzione ne rafforza la funzione di vigilanza
sulla conformità dell’esecuzione delle pene alle norme e ai princìpi stabiliti, oltre
che dalla Costituzione, dalle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate
dall’Italia, assegnatale dalla legge istitutiva. A tale funzione consegue la specifica
titolarità in capo al Garante nazionale degli interessi collettivi attinenti alla
questione di legittimità costituzionale della preclusione della liberazione
condizionale per l’ergastolo ostativo, in ragione della sua competenza a presidiare
il rispetto dei vincoli derivanti da obblighi comunitari e internazionali, dettato
dall’articolo 117, comma 1, della Costituzione.
Il parametro dell’articolo 117, comma 1, Cost., invocato nell’ordinanza di
remissione della Prima sezione della Corte di Cassazione, assume, pertanto,
particolare rilevanza nella considerazione del Garante nazionale in merito alla
questione proposta all’esame della Corte costituzionale.
Il riferimento prescrittivo, vincolante la potestà legislativa, poggia sulla lettura
dell’articolo 3 CEDU data dalla Corte di Strasburgo con la sentenza Viola v. Italia
n. 2, I Sez, 13 giugno 2019, divenuta definitiva il 5 ottobre 2019. Sentenza
significativamente qualificata nell’atto di Amicus Curiae del Garante nazionale
quale pronuncia “quasi-pilota” per la configurazione della presunzione assoluta di
pericolosità, in assenza di collaborazione con la giustizia, come «problema
strutturale» dell’ordinamento italiano, cui consegue la possibilità che siano
presentati «numerosi altri ricorsi aventi ad oggetto la stessa problematica», oltre a
quelli già pendenti7.
Il risultato dettato dalla Corte EDU, al paragrafo 143 della sentenza, può essere
perseguito dalla Corte costituzionale, ancorché l’organo di giustizia sovranazionale
indichi come preferibile un intervento legislativo, di cui, va rilevato, al momento
attuale non si intravedono cenni. La dichiarazione di incostituzionalità della
preclusione dell’accesso alla liberazione condizionale per chi è condannato
all’ergastolo ostativo consentirebbe, infatti, di pervenire al duplice obiettivo di
garantire un riesame della pena alla luce della progressione sul cammino
riabilitativo maturata dal condannato nel corso della sua esecuzione e di prevedere
che la dimostrazione della rottura con l’ambiente mafioso possa esprimersi
altrimenti che con la collaborazione con la giustizia e l’automatismo legislativo
attualmente in vigore.
La pronuncia della Corte costituzionale, anche in considerazione dell’attuale
inerzia dell’organo legislativo, può essere determinante, quindi, per ristabilire il
rispetto del vincolo derivante dall’obbligo internazionale fissato all’articolo 3
CEDU nella disciplina della pena perpetua.
Questo non sarebbe un approdo esaustivo, tuttavia, nella visione proposta dal
Garante nazionale nel suo Amicus Curiae, se non investisse tutto il quadro
normativo che determina la progressione trattamentale, portandolo alla dovuta
nazionale dei diritti delle persone private della libertà» tutte le aree della privazione della libertà, de
jure e de facto, su cui si estende il mandato dell’Autorità di garanzia, è attualmente in fase di
conversione in legge.
7
Sentenza Corte EDU Viola v. Italia, cit., §141.
Una questione di cultura
223
coerenza di sistema. Il rischio che può configurarsi, in caso diverso, è che
l’impossibilità di accedere agli istituti intermedi del percorso riabilitativo impedisca
di fatto l’apprezzamento da parte del giudice di quel cambiamento che, in assenza
dell’automatismo connesso alla collaborazione con la giustizia, potrà giustificare la
compressione della pena perpetua attraverso la liberazione condizionale.
Per questa ragione il Garante nazionale ha proposto l’estensione
consequenziale, in forza dei poteri officiosi previsti dall’articolo 27 della legge 11
marzo 1953, n. 87, degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità delle norme
impugnate nell’ordinanza di remissione anche alla preclusione assoluta di
ammissione ai benefici penitenziari del lavoro esterno e della semilibertà8.
La permanenza di un ‘cortocircuito’ normativo che di fatto vanifica la
progressione trattamentale va superata trovando soluzione nell’assetto della
coerenza costituzionale.
La questione è di nuovo questione di promozione di una cultura diffusa,
specificamente giuridica in questo caso: se non si rendono ai Giudici gli strumenti
per avviare gradualmente un percorso di riabilitazione che sarà, poi, oggetto della
loro valutazione, si corre il pericolo che la giurisprudenza entri in un circolo vizioso
dal quale le conquiste faticosamente raggiunte sul piano dei princìpi escano, di
fatto, pregevoli enunciazioni teoriche.
8
Amicus Curiae del Garante nazionale, cit., §3, punto 4, e §5.
ERGASTOLO OSTATIVO E LIBERAZIONE CONDIZIONALE:
IN ATTESA DI UNA SENTENZA “AMBIVALENTE”
di ALESSANDRA SANTANGELO*
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Un arresto conclusivo per la pena perpetua. - 3. Un
arresto in divenire per la disciplina ostativa.
1. La pronuncia della Corte costituzionale, chiamata a verificare la legittimità
dell’ergastolo ostativo in relazione all’istituto della liberazione condizionale,
appare decisiva in una duplice prospettiva. Su un primo versante, infatti, la sentenza
in questione potrebbe portare a compimento un percorso interpretativo – incalzato
dalla giurisprudenza convenzionale1 ma, invero, già ampiamente tracciato dai più
recenti arresti costituzionali2 – che valorizza il principio rieducativo quale presidio
posto a tutela della dignità della persona avverso forme di esercizio arbitrario del
potere punitivo3. Su un secondo versante, invece, si tratta di un approdo tutt’altro
che conclusivo in relazione all’interrogativo di portata più generale che mira a
definire la funzione che l’ostatività sanzionatoria è chiamata a svolgere
nell’ordinamento nazionale4.
Di qui, l’opportunità di soffermarsi sul carattere ambivalente del compito
affidato ai giudici costituzionali. Da un lato, infatti, occorre preservare il legittimo
affidamento circa la coerenza sistematica dello statuto penitenziario rispetto sia al
dettato costituzionale che al parametro convenzionale interposto. Dall’altro, è
altresì da rilevare che la imminente decisione si inserisce in un percorso
ermeneutico piuttosto articolato, e avviato da tempo, volto a chiarire il fondamento
di legittimazione del regime ostativo, a prescindere dalla sanzione perpetua o
temporanea prevista per il singolo fatto di reato.
2. Quanto al primo profilo, è utile premettere che la disciplina dell’ergastolo
ostativo non pare, allo stato attuale, de iure e de facto riducibile: nonostante le
*Assegnista di ricerca in Diritto penale, Università di Bologna.
1
Corte EDU, Sez. I, 1° giugno 2019, Marcello Viola c. Italia (n. 2).
2
Corte costituzionale, 11 luglio 2018, n. 149, §7. In argomento, inter multis, A. PUGIOTTO, Il
“blocco di costituzionalità” nel sindacato della pena in fase esecutiva, in Giur. cost., 2018, 1646
ss.; M. PELISSERO, Ergastolo e preclusioni: la fragilità di un automatismo dimenticato e la forza
espansiva della funzione rieducativa, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2018, 1359 ss., in particolare 1362
ove l’A. considera gli argomenti posti a sostegno della decisione come «un sasso lanciato nello
stagno del sistema sanzionatorio».
3
V. MANES-V. NAPOLEONI, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della
questione di costituzionalità in materia penale, Giappichelli, Torino 2019, 262.
4
D. PULITANÒ, Problemi dell’ostatività sanzionatoria. Rilevanza del tempo e diritti della
persona, in G. BRUNELLI - A. PUGIOTTO – P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre?
L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti. Atti del seminario, Ferrara, 27 settembre 2019, in
Forum Quaderni cost.- Rassegna, 10, 2019, 156.
Ergastolo ostativo e liberazione condizionale
225
recenti aperture culminate nella sentenza n. 253/2019, l’ordinamento nazionale
rimane lontano dagli standard minimi riconosciuti dalla giurisprudenza
convenzionale consolidata ex art. 3 CEDU in punto di pena perpetua5. Riprova ne
sia il fatto che, come chiarito dagli stessi giudici costituzionali, eventuali modifiche
della disciplina dei permessi premio ex art. 30-ter ord. penit., non
condizionerebbero la natura del castigo da eseguire, che conserva la propria
dimensione intramuraria ancorché il condannato trascorra brevi frangenti di tempo
al di fuori dell’istituto penitenziario6. Detto altrimenti, la questione di legittimità al
momento pendente riveste tutt’altro rilievo ai fini dell’art. 46 CEDU, atteso che
investe uno strumento capace di incidere concretamente sulla libertà del detenuto
nonché di trasformare la natura della sanzione7. In tale prospettiva, sembra del tutto
condivisibile l’auspicio che il vaglio di legittimità sia esteso in via consequenziale
ai benefici penitenziari non direttamente attinti dalla ordinanza di rimessione ma
che si frappongono, offrendo progressive occasioni di reinserimento sociale,
proprio tra permessi premio8 e liberazione condizionale9.
Un simile scenario, tuttavia, alimenta alcuni interrogativi quanto alle
conseguenze che ne deriverebbero rispetto alla coerenza sistematica dello statuto
penitenziario e, in particolare, in relazione alle soluzioni, per molti aspetti differenti,
adottate per il settore minorile. Con riguardo alle misure di cui all’art. 30-ter ord.
penit., infatti, i giudici costituzionali hanno avvertito l’esigenza di potenziare il
meccanismo di presunzione relativa10 attraverso il riferimento a un regime di prova
rafforzato capace di fronteggiare «le specifiche connotazioni criminologiche» delle
fattispecie connesse ad associazioni di stampo mafioso11. Per contro, appena due
giorni dopo il deposito della sentenza n. 253, la Corte costituzionale ha escluso
l’applicabilità del regime ostativo qualora il reato sia commesso da un soggetto
minore12, non solo elidendo il carattere assoluto della presunzione ma rinunciando
5
Solo si pensi a Corte EDU, Grande Camera, 12 febbraio 2008, Kafkaris c. Cipro, §§95-99;
Grande Camera, 9 luglio 2013, Vinter et al. c. Regno Unito, §§103-122; Grande Camera, 26 aprile
2016, Murray c. Paesi Bassi, §§99-104; Grande Camera, 17 gennaio 2017, Hutchinson c. Regno
Unito, §§42-45. Senza citare il caso Marcello Viola c. Italia (n. 2), del resto, la centralità della
rieducazione quale declinazione della stessa dignità della persona è stata di recente ribadita dai
giudici di Strasburgo nelle decisioni Sez. IV, 12 marzo 2019, Petukhov c. Ucraina, §181, nonché
Sez. III, 2 giugno 2020, N.T. c. Russia, §§38-41.
6
Corte costituzionale, 26 febbraio 2020, n. 32, §4.4.1. Sul punto, si rinvia a V. MANES-F.
MAZZACUVA, Irretroattività e libertà personale: l'art. 25, secondo comma, Cost., rompe gli argini
dell'esecuzione penale, in Dir. pen. cont.-Riv. trim., 1, 2020, 32.
7
Ivi, §4.4.3.
8
Quanto alla possibilità di inquadrare i permessi premio all’interno del programma di
trattamento quale istituto a «carattere polifunzionale», si rinvia alle riflessioni di F. FIORENTIN, sub
Art. 30-ter, in F. DELLA CASA-G. GIOSTRA, Ordinamento penitenziario commentato, Cedam, Padova
2019, 422 s.
9
Si rinvia alle riflessioni formulate da G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità prudentemente
bilanciata? Spunti per una discussione, in questo stesso volume.
10
La Corte di Strasburgo, del resto, ha chiarito che «una presunzione legale di pericolosità può
essere giustificata, in particolare quando non è assoluta, ma si presta ad essere contraddetta dalla
prova contraria» (Sez. I, 6 novembre 2003, Pantano c. Italia, §69, come poi ribadito in Marcello
Viola c. Italia (n. 2), cit., §131).
11
Corte costituzionale, 4 dicembre 2019, n. 253, §9.
12
Corte costituzionale, 6 dicembre 2019, n. 263.
226
Alessandra Santangelo
allo stesso giudizio di pericolosità qualificata pur a fronte dei medesimi fatti di
reato. Pertanto, ove i giudici costituzionali dovessero confermare tale indirizzo in
relazione alla previsione di cui all’art. 176 c.p., il divario tra i rimedi proposti in
action per correggere l’ordinamento penitenziario di adulti e minori verrebbe a
delinearsi con maggiore nettezza. Sicché, mentre la continuità temporale tra i due
enunciati normativi esclude l’ipotesi di un difetto di coordinamento tra le pronunce,
rimane da indagare la ratio che legittima una simile disparità interpretativa.
Sul punto, è noto, la Corte costituzionale ha compiuto sforzi considerevoli per
contrastare la “parificazione” normativa tra le due categorie di autori, attingendo
alla lettura combinata degli articoli 27, comma 3, e 31, comma 2, Costituzione. Il
risultato di tale lungimirante operazione ermeneutica mira, invero, ad assicurare la
«individualizzazione del trattamento punitivo» nonché la «preminenza della finalità
rieducativa»13 allo scopo di favorire il primo inserimento dei minori devianti nel
contesto sociale. Tuttavia, anche con riguardo al modello penitenziario riservato ai
detenuti adulti, il principio rieducativo costituisce ad oggi un «imperativo
costituzionale» che non può essere sacrificato «sull’altare di ogni altra, pur
legittima, funzione della pena»14. La valorizzazione della dignità umana in fase
detentiva si traduce nel rilievo che la personalità del detenuto, a prescindere dalla
età, «continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento»15, da
attuarsi attraverso la promozione di schemi trattamentali individualizzati nonché
attraverso il divieto di regressione incolpevole del regime penitenziario.
Pertanto, ancorché il dettato costituzionale riservi «una speciale protezione per
l’infanzia e la gioventù»16, è possibile riscontrare direttrici comuni che attraversano
entrambi i modelli, in linea con il primato riconosciuto alla rieducazione da parte
della più recente giurisprudenza europea. Ne discende la necessità di chiarire se, a
fronte del medesimo fatto di reato, l’aggravio normativo imposto all’ordinamento
penitenziario degli adulti si giustifichi solo in ragione della garanzia di cui all’art.
31, comma 2, Costituzione, o, piuttosto, persegua una ratio differente. D’altro
canto, una simile esigenza di coerenza sistematica si ritrova nella relazione da
ultimo depositata dalla Commissione parlamentare antimafia alle Camere: seppur
in termini piuttosto laconici, si auspica, infatti, il coordinamento tra la disciplina di
cui all’art. 4-bis ord. penit., il decisum della sentenza n. 253/2019 e quanto ancora
da decidere in tema di liberazione condizionale17, rivelando in filigrana l’essenziale
contributo sistematico che può essere offerto dalla pronuncia a venire.
3. Tale relazione, del resto, si occupa di prospettare un possibile dualismo
normativo con riguardo al regime di prova rafforzato – introdotto dal giudice delle
leggi per i permessi premio – a seconda che venga in rilievo una fattispecie
13
Ivi, §3.1 s., ove i giudici richiamano, a chiare lettere, la decisione n. 168/1994.
Corte costituzionale, 11 luglio 2018, n. 149, cit., §7.
15
Ibidem.
16
Corte costituzionale, 6 dicembre 2019, n. 263, cit., §3.2.
17
Relazione sull’istituto di cui all’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 in materia di
ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte
costituzionale, disponibile all’indirizzo www.senato.it, 36.
14
Ergastolo ostativo e liberazione condizionale
227
plurisoggettiva oppure una tra le ipotesi di reato successivamente inserite dal
legislatore nel catalogo di cui all’art. 4-bis ord. penit.18. Il progressivo dilagare di
tale disciplina particolarmente restrittiva, infatti, è giunto a coinvolgere categorie
disparate di reati, finanche in assenza di qualunque connessione con le
organizzazioni di stampo mafioso, terroristico o eversivo il cui peculiare disvalore
giustificava, almeno nella versione originaria, l’aggravio trattamentale. Ebbene,
proprio riguardo alla formulazione astratta del novero dei reati ostativi, si
rinvengono due linee interpretative difficili da armonizzare.
Su un primo versante, trova legittimazione un paradigma che ostracizza
particolari “tipi di autore” per i quali, attribuendo nuovo vigore alla preoccupazione
espressa tempo addietro dagli stessi giudici costituzionali, «la rieducazione non
sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita»19. In merito, infatti, la
discrezionalità legislativa è stata riconosciuta conforme a Costituzione allorché
«determinate categorie di detenuti o internati si presum[a]no socialmente pericolosi
unicamente in ragione del titolo di reato»20 allo scopo di placare l’allarme sociale
avvertito dalla comunità di riferimento.
Per contro, su un secondo versante, sia la giurisprudenza convenzionale21 sia –
almeno in parte – quella costituzionale22 hanno chiarito che il mero titolo di reato
non assurge a indicatore che possa, di per sé, giustificare l’annientamento della
dignità della persona detenuta cui è da riconoscere quanto meno la speranza di
riacquistare un giorno la propria libertà. Se una simile affermazione vale con
riferimento alle fattispecie dotate di maggiore disvalore, come accade per i reati
connessi alle associazioni di stampo mafioso23, non si vede come sia possibile – a
fortiori – non estendere tali conclusioni a incriminazioni meno offensive, il cui
inserimento nell’art. 4-bis ord. penit., ha generato un «complesso, eterogeneo e
stratificato elenco di reati»24.
Ne discende che, se il mero titolo di reato non è sufficiente, in quanto tale, a
giustificare l’aggravio normativo, la legittimità del catalogo ostativo appare quanto
meno dubbia non solo sulla base del giudizio triadico di ragionevolezza bensì pure
considerando la razionalità intrinseca dei più recenti interventi legislativi tesi ad
ampliarne la portata applicativa. Riprova ne sia il fatto che il sospetto di
irragionevolezza dell’elenco ex art. 4-bis ord. penit., è stato portato all’attenzione
del giudice delle leggi rispetto sia ai reati contro la pubblica amministrazione sia
all’ipotesi di cui all’art. 12, commi 1 e 3, t.u. immigrazione. A dispetto della
soluzione contingente che si è imposta in entrambi i casi25, è verosimile che la Corte
18
Ivi, in particolare 31 ss.
Corte costituzionale, 7 agosto 1993, n. 306.
20
Corte costituzionale, 18 luglio 2019, n. 188, §3.
21
Corte EDU, Marcello Viola c. Italia (n. 2), cit., §130.
22
Corte costituzionale, 11 luglio 2018, n. 149, cit., §7.
23
La gravità del titolo di reato per cui era stato condannato Marcello Viola è, del resto, uno
degli argomenti centrali della opinione dissenziente (§1) del giudice Krzysztof Wojtyczek che
rimane, tuttavia, nettamente minoritaria in seno al collegio decidente.
24
Corte costituzionale, 4 dicembre 2019, n. 253, cit., §12.
25
In entrambi i casi, infatti, la Corte ha ritenuto necessario restituire gli atti ai giudici a quibus
in ragione del mutato assetto normativo: si vedano, rispettivamente, le ordinanze 11 marzo 2020, n.
49, e 30 luglio 2020, n. 183.
19
228
Alessandra Santangelo
costituzionale si troverà di nuovo a fronteggiare simili questioni: la già menzionata
relazione della Commissione parlamentare antimafia, del resto, nel descrivere il
“doppio binario” in relazione al regime probatorio dei reati ostativi conferma
indirettamente la volontà di conservare l’assetto attuale del catalogo. Pertanto,
appare decisivo chiarire quale sia il fondamento della disciplina ostativa e, nel
dettaglio, se sia possibile per il legislatore escludere, a monte, l’applicazione del
principio rieducativo per tipi di autore percepiti come particolarmente pericolosi –
in base a inafferrabili pulsioni dettate dall’allarme sociale – oppure se le ragioni di
prevenzione generale siano da ritenere, in ogni caso, subordinate così da evitare
indebite strumentalizzazioni del singolo per finalità di carattere collettivo26.
D’altronde, che il raccordo tra i due percorsi interpretativi sia piuttosto
complesso si evince da un obiter dictum della stessa Corte costituzionale: chiamati
una seconda volta a esaminare una questione sostanzialmente analoga a quella
decisa dalla pronuncia n. 188/2019, i giudici avvertono l’esigenza di precisare che
l’impianto argomentativo prospettato dal giudice a quo è «del tutto diverso da
quell[o] che ha ispirato le questioni di legittimità costituzionale accolte da questa
Corte nella citata sentenza n. 253/2019»27. È in questa direzione, allora, che la
decisione imminente può fornire un contributo decisivo per risolvere gli
interrogativi tuttora aperti. Considerando il rilievo degli interessi in gioco, occorre
sgombrare il campo da incertezze sulla funzione che legittima la disciplina ostativa
così da assicurare coerenza allo statuto penitenziario e, al contempo, definire, a
prescindere dal carattere perpetuo o meno della sanzione, quale utilità possa
ricavare dall’art. 4-bis ord. penit., un ordinamento senz’altro incentrato sul rispetto
della dignità della persona.
26
Si veda, sul punto, L. CARACENI, sub Art. 4-bis, in F. DELLA CASA-G. GIOSTRA,
Ordinamento penitenziario commentato, cit., 47.
27
Corte costituzionale, 12 marzo 2020, n. 52, §3.2.
L’ERGASTOLO OSTATIVO
TRA DIRITTO E RAGION DI STATO
di ORLANDO SAPIA
SOMMARIO: 1. La questione di legittimità al vaglio della Corte costituzionale – 2. La
costituzionalizzazione dell’ergastolo e il regime dell’ostatività – 3. Ostatività,
tolleranza zero e ruolo dello Stato – 4. Tra diritto penale massimo e diritto penale del
nemico – 5. La giurisprudenza ed i recenti indirizzi: Corte costituzionale, sentenze nn.
149/2018 e 253/2019; Corte EDU, sentenza Viola c. Italia n.2. – 6. L’art. 4-bis ord.
penit., e il circuito penitenziario differenziato.
1. La questione di legittimità rimessa dalla Corte di Cassazione, I Sezione, con
ordinanza del 3 giugno 2020 alla Corte costituzionale ha ad oggetto le disposizioni
di cui agli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter, legge n. 354/ 1975 e art. 2, decreto legge
n. 152 del 1991 convertito in legge n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che
il condannato all’ergastolo, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di
cui all’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in
esso previste, possa godere della liberazione condizionale, salvo il caso in cui sia
avvenuta la collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter della medesima
legge o, in alternativa, l’accertamento dell’impossibile o inesigibile collaborazione.
Visto, nel caso oggetto di rimessione alla Corte costituzionale, l’essersi
formato il c.d giudicato esecutivo di segno negativo in ordine all’impossibile e/o
inesigibile collaborazione, la circostanza della mancata collaborazione ha precluso
il vaglio di quanto dedotto nel merito, a sostegno della richiesta di liberazione
condizionale, da parte del ricorrente. Con ciò, si è elevata la presenza o meno della
collaborazione a criterio, da un lato, esclusivo al fine di vagliare l’assenza di legami
con l’ambiente criminale di appartenenza e, dall’altro, escludente rispetto ad altri
elementi che in concreto potrebbero essere validi al fine di valutare la presenza dei
sopraddetti legami criminali e, quindi, escludere la pericolosità sociale del
condannato. Ne consegue che l’esistenza di preclusioni assolute alla
valutazione/concessione della liberazione condizionale realizza, pur laddove vi
siano progressi del condannato in termini di risocializzazione, una violazione del
dettato costituzionale in riferimento agli artt. 3, 27 e 111 Cost.
La Corte di Cassazione nell’ordinanza di rimessione, anche sulla scia della
recente giurisprudenza convenzionale (Corte EDU, Viola c. Italia n. 2) e
costituzionale (sentenza n. 253/2019) ha ritenuto la quaestio rilevante e non
manifestamente infondata, dal momento che le vigenti disposizioni realizzano «una
irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e progressività del
trattamento» che cedono il passo alle finalità di politica criminale e di difesa sociale,
egemoni rispetto al principio della finalità rieducativa della pena che – come
riconosciuto dalla sentenza n. 313/1990 – è «una delle qualità essenziali e generali
Avvocato, Responsabile dell’Osservatorio Carceri della Camera penale “Alfredo
Cantìfora”di Catanzaro.
230
Orlando Sapia
che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e, l’accompagnano da
quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si
estingue».
Ancora una volta si pone un confronto tra principi sottostanti ad istituti
giuridici posti a tutela di differenti e, forse, antitetici interessi sociali, prima, e beni
giuridici, dopo.
Da una parte le ragioni dello Stato nell’esercizio del potere legittimo della
forza, dall’altra le ragioni del cittadino nel pretendere che questo esercizio legittimo
della forza non sia egemonizzato dalle esigenze di sicurezza sociale, ma trovi il suo
baricentro nella funzione di rieducazione/ risocializzazione della pena.
2. L’ostatività ai benefici penitenziari e l’ergastolo ostativo costituiscono uno
di quei casi in cui lo stato d’eccezione diventa regola. Un istituto giuridico nato in
un tempo di emergenza, che non solo ha continuato a vivere sino ad oggi, ma
continua ad allargarsi a dismisura. Tant’è che, paradossalmente, potrebbe essere più
semplice domandarsi quali siano i reati per cui non è prevista l’ostatività per la
concessione dei benefici penitenziari, piuttosto che elencare i cc.dd. reati ostativi,
vista la crescita esponenziale nel corso degli anni di quest’ultima categoria.
Allorquando si vieta l’accesso ai benefici penitenziari (salvo il ricorrere della
collaborazione ex art. 58-ter ord. penit. o della collaborazione
impossibile/oggettivamente irrilevante) a soggetti condannati alla pena
dell’ergastolo, si entra in contrasto con quel percorso di costituzionalizzazione della
pena perpetua che in Italia si è iniziato a realizzare con l’introduzione della
liberazione condizionale per i condannati all’ergastolo nel 1962, per poi continuare
con le disposizioni dettate dalla riforma penitenziaria del 1975 e dalla miniriforma
Gozzini del 1986.
Tale cammino normativo ha reso l’ergastolo una pena ad esecuzione
progressiva, in cui sono previste varie finestre che, nel caso di successo nell’opera
di rieducazione, si possono aprire, fino a giungere in presenza del sicuro
ravvedimento alla liberazione condizionale, oggetto della questione di legittimità al
vaglio della Corte. Di fatto ed in diritto, avviene che il regime dell’ostatività di cui
all’art. 4-bis ord. penit., per i condannati all’ergastolo ripristina una disciplina che
è quella anteriore al 1962, così riprendendo i connotati della pena perpetua, come
concepita dal legislatore del 1930, con ciò in aperto contrasto al lungo e tortuoso
percorso di costituzionalizzazione del diritto penale e della funzione della pena.
3. È probabile che il sistema dell’ostatività e l’ergastolo ostativo non siano solo
il frutto di una emergenza che si è protratta oltre i limiti dovuti ed in violazione
della Carta costituzionale, ma costituiscano un nuovo modo di intendere la funzione
dello Stato.
Uno Stato che diviene minimo nella funzione di welfare, nella sua funzione
sociale, per divenire massimo nella funzione securitaria. Ciò comporta una crescita
esponenziale del ruolo del diritto penale, non più inteso come extrema ratio, non
più concepito come uno degli strumenti di governo del conflitto sociale, ma come
L’ergastolo ostativo tra diritto e ragion di Stato
231
lo strumento principale, soprattutto durante l’eterna campagna elettorale per
l’attrazione del consenso.
In ordine a tale mutamento strategico dello Stato e dei suoi apparati, scriveva
Norberto Bobbio: «L’accusa che il neoliberalismo muove allo stato del benessere
non è soltanto quella di aver violato il principio dello Stato minimo ma anche di
aver dato vita a uno Stato che non riesce più a svolgere la propria funzione, che è
quella di governare (Stato debole). L’ideale del neoliberalismo diventa allora quello
dello Stato insieme minimo e forte»1.
4. Così il diritto penale si agita tra la forma del diritto penale massimo, ossia
la sua implementazione che consiste nella creazione di sempre nuove fattispecie,
spesso non necessarie, e l’aumento degli edittali delle pene, la cui diretta
conseguenza è rappresentata dalla vertiginosa crescita, avvenuta nel corso degli
ultimi trent’anni, della popolazione detenuta e coinvolta nell’esecuzione penale, e
il diritto penale del nemico, ossia la creazione di istituti giuridici il cui obiettivo è
chiaramente la neutralizzazione di alcune categorie di rei, non certo il recupero
degli stessi. Chiaramente, la neutralizzazione del reo cede il passo dinanzi alla
prospettiva del recupero degli elementi info-investigativi, necessari per il successo
delle inchieste, in una realtà di sistema penale sempre più votato alla “lotta” che
all’accertamento dei fatti e all’eventuale irrogazione/esecuzione di pene conformi
alla Costituzione.
La pratica di differenziazione del diritto penale, sino a giungere ad un diritto
penale del nemico accanto a quello del cittadino, è fondamentalmente una tipologia
aggiornata del diritto penale per “tipo d’autore”. In questa direzione, si inseriscono
quegli istituti giuridici, presenti in quasi tutti i paesi europei, che rispetto alla
criminalità di natura terroristica/eversiva e al crimine organizzato comportano il
venir meno del sistema, generalmente riconosciuto, di garanzie in campo penale,
processuale e penitenziario.
5. Nonostante il divieto di cui all’art. 4-bis ord. penit. sia stato salvato più volte
dalla Consulta, nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un’inversione di tendenza
da parte della giurisprudenza costituzionale.
Ci si riferisce alla sentenza n. 149/2018, dove si ha la prima pronuncia di
illegittimità costituzionale riguardante direttamente una forma di ergastolo ostativo,
quella prevista dall’art. 54-quater ord. penit. Una tipologia di ergastolo, peraltro,
che, riferendosi ad una ristretta cerchia di detenuti, si pone, perlomeno sotto il
profilo numerico, ai margini del sistema penitenziario (trattasi dei condannati per i
delitti di cui agli articoli 289-bis e 630 c.p., che abbiano cagionato la morte del
sequestrato). A supporto della propria pronuncia, la Corte adduce argomenti che
involvono contestualmente i principi di eguaglianza e di rieducazione del reo (artt.
3 e 27 comma 3 Cost.), valorizzando in modo particolare il secondo principio. Ciò
in continuità con la storica sentenza n. 313/1990 della Corte costituzionale in tema
1
N. BOBBIO, Il Futuro della democrazia, RCS, Milano 2011, 141.
232
Orlando Sapia
di funzione della pena. Importantissime sono anche le pronunce da parte della Corte
EDU; tra queste la recente sentenza nel procedimento Viola c. Italia n. 2, in cui la
Corte ha condannato lo Stato italiano per trattamenti inumani e degradanti, quindi
in violazione dell’art. 3 CEDU, proprio nel caso dell’ergastolo ostativo a carico del
ricorrente Viola.
In particolare, la Corte EDU in sentenza afferma: «la Corte dubita della libertà
della predetta scelta e anche dell’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la
mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato». Si prende, in
tal senso, in considerazione la possibilità che la scelta della mancata collaborazione
possa dipendere da altri fattori, ad esempio il timore di mettere a repentaglio la
propria vita e quella dei prossimi congiunti, e non sia necessariamente sintomatica
di un’adesione ai valori del consorzio criminale o di rifiuto del percorso rieducativo.
Così stando le cose l’ergastolo c.d. ostativo priva i condannati, in caso di assenza
di collaborazione, di qualsivoglia prospettiva di rilascio e di riesame della pena,
così divenendo “l’ergastolo senza speranza”.
Gli effetti della sentenza Viola comportano a carico dello Stato italiano
l’obbligo di porre fine alla causa della violazione dell’art. 3 CEDU e, quindi, «di
attuare, di preferenza per iniziativa legislativa, una riforma del regime della
reclusione dell’ergastolo, che garantisca la possibilità di riesame della pena; cosa
che permetterebbe alle autorità di determinare se, nel corso dell’esecuzione della
pena, vi è stata una evoluzione del detenuto e se è progredito nel percorso di
cambiamento».
In questo solco è da inquadrare la sentenza della Corte costituzionale n.
253/2019 in cui è stata dichiarata «l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis,
comma 1, ord. penit., nella parte in cui non prevede la concessione di permessi
premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti
elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione
criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la
criminalità organizzata. Sempre che ovvio il condannato abbia dato piena prova di
partecipazione al percorso rieducativo».
6. L’art. 4-bis ord. penit. è la norma baricentro di un circuito differenziato.
Essa traccia un perimetro nel quale si può subire l’esclusione, totale o parziale dei
benefici penitenziari (misure alterative, permessi premio, lavoro all’esterno) e della
liberazione condizionale. Tale norma descrive varie categorie di detenuti in virtù
del reato per cui scontano la pena e crea un sistema di cerchi concentrici, ognuno
dei quali rappresenta un differente livello di sottrazione/limitazione dei diritti, sino
a giungere al livello di garanzia zero, ovverosia nessun diritto garantito, che è in
definitiva la condizione che subisce chi è recluso in regime di 41-bis ord. penit. In
sostanza gli artt. 4-bis, 41-bis, 58-ter ord. penit. e altre disposizioni sparse
nell’ordinamento penitenziario compongono un capo non scritto apertamente, ma
in concreto esistente, ovverosia il circuito penitenziario differenziato2.
2
T. PADOVANI, La pena carceraria, Pisa University Press, Pisa 2015, 297 ss.
L’ergastolo ostativo tra diritto e ragion di Stato
233
La creazione di tale circuito penitenziario differenziato pone chiaramente un
problema rispetto alla garanzia dei diritti dei detenuti e alla funzione rieducativa
della pena, soprattutto nel caso della condanna all’ergastolo. Difatti, nel caso in cui
il soggetto condannato alla pena perpetua non collabori e non sia in grado di fornire
prova in ordine alla propria “incolpevole” mancata collaborazione (perché magari
conseguenza di altri fattori, quali il timore di mettere a repentaglio la propria vita e
quella dei prossimi congiunto), resta comunque bloccato nel vicolo cieco dell’art.
4-bis e delle preclusioni che ne scaturiscono, pur non essendo la scelta di non
collaborare necessariamente sintomatica di un adesione ai valori del consorzio
criminale o di rifiuto del percorso rieducativo.
Ne discende che per garantire la conformità convenzionale e costituzionale
della normativa, oggetto della questione di legittimità, la presunzione
dell’equivalenza tra mancata collaborazione e pericolosità sociale, o tra la prima e
l’assenza del sicuro ravvedimento, deve necessariamente caratterizzarsi in termini
di relatività; così garantendo in concreto la possibile valutazione della prova in
ordine alla pericolosità sociale, da un lato, e al sicuro ravvedimento, dall’altro.
Si tratterebbe di una pronuncia di civiltà a garanzia dello stato di diritto. È di
tutta evidenza che le ragioni giustificatrici dell’attuale regime differenziato sono
estranee alla funzione costituzionalmente riconosciuta della pena, venendo ad
incidere pesantemente sulle condizioni detentive per scopi estranei al sistema
penitenziario.
Le finalità perseguite, in verità, appaiono ben diverse da quelle consacrate nel
dettato costituzionale: istituzionalizzando, al di là dei limiti dell’emergenza, ed
implementando a dismisura il regime differenziato, da un lato si mira a
tranquillizzare l’opinione pubblica, creando un senso di maggiore e solo apparente
sicurezza, dall’altro si tenta di sollecitare condotte collaborative in detenuti che
soffrono la sospensione delle regole trattamentali e, quindi, una considerevole
compressione di diritti garantiti dalla Costituzione e dalle Convenzioni
internazionali.
CALA IL SIPARIO SULL'ERGASTOLO OSTATIVO?
BREVI RIFLESSIONI SU UNA PENA NON CONFORME
AI CANONI COSTITUZIONALI
di EMANUELE SYLOS LABINI
SOMMARIO: 1. L'ergastolo ostativo ai tempi del populismo securitario – 2. Il punto di
partenza: la sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale – 3. Il punto di non
ritorno: la sentenza Viola c. Italia (n.2) del 2019.
1. Nella stagione del populismo penale, il primato della sanzione è il tema
ricorrente che domina gli aspri dibattiti pubblici, ove si alternano le voci degli
esponenti di più forze politiche, i cui programmi sovente sono improntati alla
ricerca spasmodica di un consenso popolare, attraverso politiche criminali per certi
versi illusorie improntate al rigore punitivo. Invero, nella odierna società “liquida”,
dominata dalla paura e dall'insicurezza, il popolo esasperato e con un'emotività
trasbordante definisce ogni situazione in termini emergenziali e direziona le
decisioni politiche verso la rassicurazione sociale che, per apparire effettiva, si deve
caratterizzare per la durezza delle misure, eccedendo così i limiti del sistema penale
liberale1.
In questo clima dominato da un accanito “moralismo punitivo”2, si assiste
inesorabilmente a sfilate di importanti leader politici, i quali accentrano la loro
azione di governo sagomandola sui sondaggi, cavalcando il malcontento popolare
attraverso l'utilizzo di politiche di emergenza, incentrate sulla severità della pena e
sull'effettività della sua espiazione.
In un tale contesto, l'idea del carcere come panacea di tutti i mali viene
sbandierata brutalmente, finanche attraverso l'utilizzo di beceri slogan
propagandistici, quali “chi sbaglia paga”, “buttiamo via le chiavi” o peggio ancora,
“i delinquenti devono marcire in galera”. Il principio di legalità viene reinterpretato
(rectius: travisato) in certezza della pena intesa come carcere3; di talché, come
sostenuto da autorevole dottrina, la sola preoccupazione governativa diviene quella
di esibire una muscolatura sanzionatoria, che ovviamente non risolve alcuna
emergenza, ammesso che ne esista una, ma che ha il vantaggio di ostentare, a costo
zero, una sollecita attenzione per le preoccupazioni dei cittadini-elettori4.
Avvocato del Foro di Bari.
In questi termini A. CERETTI, R. CORNELLI, Il diritto a non avere paura. Sicurezza, populismo
penale e questione democratica, Dir. pen. e proc., 2019, 1487.
2
L'espressione è di F. PALAZZO, Un “nuovo corso” della Corte costituzionale, in Cass. pen.,
2019, 2399.
3
Cfr. D. PULITANÒ, Sicurezza e diritti. Quale ruolo per il diritto penale?, in Dir. pen. e proc.,
2019, 1546.
4
Cfr. G. GIOSTRA, Un grande futuro dietro alle spalle. Qualche riflessione introduttiva, in AA.
VV., La riforma penitenziaria: novità e omissioni del nuovo “garantismo” carcerario, Giappichelli,
Torino 2019, XIV.
1
Cala il sipario sull'ergastolo ostativo?
235
Nel complesso, non è agevole procedere all'individuazione dei motivi per i
quali si è giunti, nel giro di pochi anni, ad una così radicale involuzione delle
politiche criminali; peraltro, questa non appare la sede appropriata per affrontare
considerazioni lato sensu sociologiche. Pur tuttavia, per quel che qui più interessa,
è indubbio come il vento della demagogia populista abbia soffiato sulle scelte
operate dal legislatore delegato della riforma penitenziaria, alla ricerca di una
soluzione di compromesso tra due diverse linee di pensiero: una volta alla
conservazione del primato del carcere in funzione di neutralizzazione del
condannato; l'altra, al contrario, aderente agli obiettivi di semplificazione delle
procedure di accesso alle misure alternative. La preferenza per la prima ha
rappresentato il tramonto di un'ideale, quello di un trattamento penitenziario che
guarda al futuro, improntato sugli eventuali progressi del condannato, in perfetta
aderenza a quanto delineato dal terzo comma dell'art. 27 Cost.
Tanto premesso, non è possibile ipotizzare, francamente, in che misura il
quadro particolarmente ostile appena abbozzato, influenzerà o meno la decisione
dei giudici della Consulta, chiamati dopo ormai più di un decennio a vagliare la
legittimità costituzionale di un sistema che parte della dottrina pone in discussione
da diverso tempo5. Senonché, preso atto della demagogia populistica che
contraddistingue l'attività del legislatore contemporaneo, a cui si accompagnano le
aspre campagne mediatiche di disinformazione orientate alla demonizzazione sia
della pronuncia della Corte EDU nel caso Viola (n.2), sia della recente sentenza n.
253/2019 della Corte costituzionale6, è auspicabile che a sbrogliare la matassa sia
proprio il Giudice delle leggi, sulla scorta del dialogo fecondo tra Corte nazionale
e Corte europea.
2. Come evidenziato nell'ordinanza di rimessione, le argomentazioni
contenute nelle su menzionate sentenze costituiscono un importante banco di prova
su cui verificare se possa ancora dichiararsi valido il pregresso orientamento della
Corte di Cassazione, che uniformandosi alle indicazioni date anni prima dalla
Consulta (sentenza n. 135/2003), ha ritenuto manifestamente infondata la questione
ora in rilievo7.
Ad ogni modo, diversi sono i profili che meritano approfondimento e che
consentono di ritenere superabile tale orientamento.
Il punto di partenza può individuarsi nella coraggiosa sentenza n. 253/2019,
con la quale la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del regime
speciale di cui all'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., nella parte in cui non consente
5
Cfr. Corte costituzionale, n. 135/2003, ove venne dichiarata l'infondatezza di analoga
questione. A parere della Consulta, la preclusione di cui all'art. 4-bis ord. penit., subordinando
l'ammissione della liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia, che è rimessa alla
scelta del condannato, non preclude in modo assoluto e definitivo l'accesso al beneficio. Cosicché,
l'ergastolo ostativo non è de jure una pena perpetua.
6
Cfr., tra gli altri, la petizione online lanciata da Il Fatto Quotidiano il 31 ottobre 2019, in un
momento in cui non si conoscevano ancora le motivazioni della sentenza n. 253/2019 della Corte
costituzionale, che peraltro sarebbero state depositate “solo” il 4 dicembre 2019.
7
Cfr. Cass. pen., Sez. I, 17 gennaio 2017, n. 7428, Rv. 271399; Cass. pen., Sez. I, 22 marzo
2016, n. 27149, Rv. 271232.
236
Emanuele Sylos Labini
che ai detenuti condannati per i reati ostativi possano essere concessi permessi
premio, anche in assenza di utile collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter ord.
penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l'attualità di
collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo
del ripristino di tali collegamenti.
Ora, come già ipotizzato in dottrina, muovendo dalle argomentazioni proposte
in detta sentenza, il Giudice delle leggi potrebbe pervenire all'accoglimento della
quaestio per violazione degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., con possibile estensione,
in via consequenziale, della dichiarazione di illegittimità costituzionale a tutti gli
altri reati inclusi nel catalogo dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit.8.
D'altronde, come più volte valorizzato dalla stessa Corte, quello trattamentale
è un percorso costruito a tappe, il cui primo stadio è rappresentato dal beneficio del
permesso premio, quello finale dalla liberazione condizionale, quale causa estintiva
della pena9. L'ergastolo ostativo, dunque, vietando la concessione di tutti i principali
strumenti che caratterizzano la progressione trattamentale, delinea un regime rigido,
che non consente alcun vaglio specifico da parte dell'autorità giudiziaria –
nemmeno in ordine alle ragioni per le quali il condannato abbia scelto di non
collaborare –, bloccando, di fatto, la valorizzazione del percorso intramurario del
condannato. Da tale assunto, ne consegue la violazione del combinato disposto
degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost.
Ebbene, anche alla luce della recente evoluzione della giurisprudenza
costituzionale, quanto appena evidenziato consente di decretare l'insostenibilità di
un sistema, ove la mancata collaborazione con la giustizia si risolve sostanzialmente
in un aggravamento delle modalità di esecuzione della pena. Ciò nonostante, deve
espressamente ribadirsi come non sia la presunzione in sé stessa a risultare
costituzionalmente illegittima, atteso che, nel caso in cui il condannato decida di
non collaborare, non appare irragionevole presumere il mantenimento dei
collegamenti tra il suddetto e l'organizzazione criminale. Ex adverso, a contrastare
con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., è una disciplina che assegni carattere assoluto
a tale presunzione, improntata all'equazione “collaborazione=volontà di
reinserimento sociale del reo”, la quale non ammetta una prova contraria.
In tale prospettiva, così come avvenuto per i permessi premio, non sembra
irragionevole ritenere che la Corte possa intervenire sulla presunzione di
permanenza del vincolo associativo in caso di mancata collaborazione,
trasformandola da assoluta in relativa, poiché unica costituzionalmente compatibile
con gli obiettivi di prevenzione speciale e gli imperativi di risocializzazione insiti
nella pena. A questo punto, però, è ipotizzabile che la Consulta, seguendo il
ragionamento espletato nella sentenza n. 253/2019, estenda alla disciplina in analisi
i criteri di particolare rigore gravanti sul richiedente i permessi premio. In
quest'ottica, quindi, sarebbe errato affermare che la presunzione di pericolosità
sociale del detenuto che non collabora possa essere superata prendendo in
considerazione soltanto la dichiarazione di dissociazione, ovvero la regolare
condotta carceraria, o ancora la mera partecipazione al percorso rieducativo.
8
9
Cfr. M. RUOTOLO, L'ergastolo ostativo è costituzionale?, in questo stesso volume.
Cfr. Corte costituzionale, sent. n. 229/2019 e sent. n. 149/2018.
Cala il sipario sull'ergastolo ostativo?
237
Tuttavia, seguendo tale linea di pensiero, vi è il concreto rischio che l'obbligo di
allegazione delle prove contrarie dirette ad escludere sia l'attualità dei collegamenti
con il sodalizio di appartenenza, sia il pericolo di un loro ripristino, che incombe
sullo stesso detenuto, possa trasformarsi in una sorta di probatio diabolica. Il
riferimento va a quei casi in cui, a seguito del parere negativo rilasciato dalle
autorità competenti, incombe in capo all'interessato l'onere di fornire veri e propri
elementi di prova a sostegno della richiesta, idonei a contrastare quanto fornito dagli
organi appena richiamati.
3. Se, dunque, il punto di partenza da cui prendere le mosse per una
dichiarazione di incostituzionalità dell'ergastolo ostativo può individuarsi nella
citata sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale, fuor di dubbio, quello di non
ritorno è rappresentato dai principi espressi dalla Corte EDU nella sentenza Viola
c. Italia (n. 2). Ne consegue che la Consulta, nell'esaminare la quaestio legitimitatis
presentata dalla Corte di Cassazione, dovrà tener conto non solo degli ultimi
orientamenti della giurisprudenza interna, ma altresì dell'interpretazione evolutiva
e definitiva dell'art. 3 CEDU accolta dalla giurisprudenza sovranazionale, in
relazione alla violazione del parametro costituzionale di cui all'art. 117, comma 1,
Cost.
Com'è noto, il 13 giugno del 2019 sono state depositate le motivazioni della
sentenza con la quale i giudici europei hanno sancito l'incompatibilità dell'istituto
dell'ergastolo ostativo con l'art. 3 CEDU, poiché viola il principio della dignità
umana. La pronuncia de qua, divenuta definitiva il 7 ottobre 2019, in ragione della
dichiarata inammissibilità dell'inutile referral proposto dal Governo italiano, ha
certificato un «problema strutturale», legato alla sussistenza all'interno del nostro
ordinamento di una presunzione iuris et de iure di immutata pericolosità –
superabile esclusivamente attraverso la collaborazione con la giustizia –, che
impedisce al detenuto l'accesso ai benefici penitenziari, rendendo, di fatto, la pena
perpetua un “ergastolo senza fine”.
Orbene, la mortificante condanna dell'Italia avvenuta da parte della Corte EDU
è stata foriera di un aspro dibattito interno, in ordine alla prospettiva di un futuro
mutamento del sistema penitenziario. La questione è emersa già l'indomani
dell'affaire Viola c. Italia, i cui principi avrebbero potuto (rectius: dovuto)
rappresentare l'input per la realizzazione di una “rivoluzione copernicana”,
orientata al superamento dell'ergastolo ostativo, la cui incompatibilità con l'art. 3
CEDU ne aveva tratteggiato, come appunto prima accennato, un punto di non
ritorno.
Pertanto, se risulta necessario un intervento legislativo, al riguardo, occorre
evidenziare come non si tratti di sostenere una battaglia abrogazionista
dell'ergastolo10, quanto, più semplicemente, di favorire ogni tentativo di reductio
ad Constitutionem di un istituto piuttosto controverso, presente solo
nell'ordinamento italiano. Lo scopo è quello di garantire all'ergastolano ostativo
10
In questi termini F. FIORENTIN, Il passo coraggioso che ancora resta da compiere, in G.
BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di) Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo
nel dialogo tra le Corti, in Forum Quad. Cost. – Rassegna, fasc. 10, 2019, 108.
238
Emanuele Sylos Labini
quel diritto alla speranza, tutelato dal sistema dei diritti convenzionali, che gli
consentirebbe di conoscere sin dal momento dell'inflizione della sentenza di
condanna come agire, per poter richiedere in futuro la riduzione della pena.
Detta precisazione risulta essenziale, al fine di introdurre il primo dei due
aspetti che maggiormente meritano approfondimento.
Poggiando prevalentemente su tale precedente, ma più in generale sulla
consolidata giurisprudenza europea sul punto, la disposizione censurata appare
incostituzionale, giacché introduce una pena perpetua non riducibile che viola l'art.
3 CEDU. Invero, come peraltro riassume il giudice a quo, la Corte EDU ha sempre
ammesso la compatibilità convenzionale della pena perpetua, così come configurata
anche nel nostro ordinamento, ossia per mezzo di istituti che la rendono
sostanzialmente temporanea. Ne consegue che la Convenzione non proibisce la
comminatoria dell'ergastolo per crimini particolarmente gravi, a condizione, però,
che siano rispettate le garanzie dell'art. 3 CEDU, e sia pertanto riducibile de iure e
de facto, attraverso la possibilità di un riesame che consenta di verificare se, durante
l'esecuzione, si siano ottenuti significativi progressi trattamentali, in modo tale che
nessuna ragione possa giustificare seriamente la prosecuzione della detenzione11.
Il principio della «dignità umana» impedisce di privare una persona della sua
libertà con la costrizione senza operare, nel contempo, per il suo reinserimento e
senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà. In buona
sostanza, al detenuto spetta il diritto di essere informato, sin dall'inizio
dell'esecuzione della pena, in ordine alle modalità e alle condizioni per poter
presentare domanda di liberazione condizionale, a prescindere dalla propria scelta
di collaborare o meno con la giustizia.
Tale affermazione, avvalorata dalla giurisprudenza sovranazionale e
costituzionale, si fonda sulla convinzione che la personalità di un condannato non
rimanga fissata al momento in cui il reato è stato commesso, potendo evolversi
durante la fase di esecuzione della pena, come previsto dalla funzione di
risocializzazione, che permette all’individuo di rivedere in maniera critica il proprio
percorso criminale e di ricostruire la sua personalità.
Ebbene, quanto appena sostenuto consente di introdurre il secondo aspetto su
cui vale la pena soffermarsi. In breve, la Corte EDU, nella sentenza Viola c. Italia
(n.2) ha poggiato il proprio ragionamento sulla libertà o volontarietà della scelta
collaborativa che accompagna l'ergastolano ostativo nella fase esecutiva della pena.
Sicché, come già brillantemente osservato in dottrina12, non può allora negarsi
rilevanza ad una questione che deve essere affrontata non solo dal punto di vista
giuridico, ma seguendo anche un approccio sociologico e che deve fornire una
risposta ad un semplice quesito: siamo davvero convinti che solo la scelta di
collaborare con la giustizia esprima con certezza la volontà di emenda del reo?
11
Cfr. Corte EDU, 12 marzo 2019, Petukhov c. Ucraina; Corte EDU, 17 gennaio 2017,
Hutchinson c. Regno Unito; Corte EDU, Grande Camera, 26 aprile 2016, Murray c. Paesi Bassi;
Corte EDU, 15 dicembre 2015, Gurban c. Turchia; Corte EDU, Grande Camera, 9 luglio 2013,
Vinter e altri c. Regno Unito; Corte EDU, Grande Camera, 12 febbraio 2008, Kafkaris c. Cipro.
12
Cfr. D. GALLIANI, Ponti, non muri. In attesa di Strasburgo, qualche ulteriore riflessione
sull'ergastolo ostativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 1173.
Cala il sipario sull'ergastolo ostativo?
239
Emerge, così, in maniera lapalissiana, il difetto strutturale intrinseco che
colpisce il regime ostativo; in buona sostanza, allo stato attuale, considerate le
presunzioni assolute stabilite ex lege, all'autorità giudiziaria è precluso esaminare
nel merito l'istanza presentata dal detenuto che ambisce ad un differente trattamento
penitenziario, perfino allorquando costui abbia dato prova di sicuro ravvedimento.
Trattasi di questioni tutt'altro che ipotetiche, che peraltro ineriscono al caso di
specie oggetto dell'ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione, su cui la
Consulta si dovrà esprimere. Il ricorrente, invero, ha addotto di aver preso parte in
modo proficuo all'opera di rieducazione di cui si ha conferma dai provvedimenti di
liberazione anticipata; di essersi avvalso con profitto delle possibilità di lavoro e di
studio offerte dai programmi di trattamento operativi nei vari istituti di detenzione;
di aver conseguito il titolo di agronomo e di essere stato inserito, con risultati
positivi, in un progetto agricolo; di aver frequentato assiduamente corsi di studio e
di aver partecipato a concorsi letterari con riconoscimento di premi. In aggiunta, ha
richiamato i contenuti della relazione di sintesi in cui si dà atto della rivisitazione
critica del suo vissuto e dell'avvenuto riconoscimento degli errori commessi, con
parziale ammissione delle proprie responsabilità, a cui si aggiunge la volontà di
allontanamento dal contesto mafioso.
Il quadro appena dipinto, ci porta così a riflettere nella direzione opposta a
quella attinente al primo quesito. Sicché, in base ai dati di esperienza, possiamo
ancora ritenere che la mancata collaborazione con la giustizia sia il risultato di una
scelta libera e volontaria, ma soprattutto, sia indice univoco dell'attualità dei
collegamenti con l'organizzazione criminale di appartenenza?
A ben guardare, le argomentazioni sostenute dalla Corte EDU ricalcano quelle
già svolte dalla Corte costituzionale in epoca anteriore, allorché nella sentenza n.
306/1993, seppur confermando la compatibilità costituzionale dell'ergastolo
ostativo, ha affermato che la condotta di collaborazione ben può essere frutto di
mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non
anche segno di effettiva risocializzazione, riconoscendo altresì come dalla mancata
collaborazione non può trarsi una valida presunzione di segno contrario, ossia che
essa sia indice univoco di mantenimento dei legami di solidarietà con
l'organizzazione criminale, tanto più, nel caso in cui l'esistenza di collegamenti con
quest'ultima sia sta stata altrimenti esclusa. Invero, secondo il canone dell'id quod
plerumque accidit, dietro la scelta di non collaborare, possono riscontrarsi svariate
motivazioni; ad esempio di natura etica, come il non esporre se stessi e i propri
familiari a ritorsioni, ovvero prettamente processuale, quali l'esercizio del diritto al
silenzio come legittima esigenza difensiva, al fine di non aggravare la propria
posizione.
Appare evidente, dunque, che in un sistema così delineato, l'opzione repressiva
finisce per relegare nell'ombra il profilo rieducativo, in violazione dell'art. 27,
comma 3, Cost. Il parametro della pericolosità sociale del soggetto è scolpito sul
momento della commissione del fatto di reato, evidenziando quella tendenza alla
configurazione di “tipi d'autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile
o potrebbe non essere perseguita.
Il principio di progressività trattamentale viene sacrificato, a vantaggio
esclusivo delle esigenze di difesa sociale – particolarmente avvertite rispetto ad
240
Emanuele Sylos Labini
alcune categorie di reati –, che sono a fondamento dell'introduzione della disciplina
di cui all'art. 4-bis ord. penit.
Di conseguenza, mantenere ancora in vita l'ergastolo ostativo significherebbe
“sconfessare” il cambio di rotta – avviato di recente dai giudici costituzionali con
la sentenza n. 149/2018 –, ancorato al principio della non sacrificabilità della
funzione rieducativa della pena sull'altare di ogni altra, pur legittima, funzione della
stessa. Così facendo, la Corte smentirebbe sé stessa, prima ancora che i giudici di
Strasburgo, continuando a trasmettere a chi entra in carcere quel deplorevole tacito
avvertimento di dantesca memoria che recita «lasciate ogni speranza voi
ch'entrate».
«UN PASSO DOPO L’ALTRO», È IN ARRIVO IL KNOCK-DOWN
PER LA DISCIPLINA DELL’ERGASTOLO OSTATIVO?
di PAOLO VERONESI*
SOMMARIO: 1: Le coordinate della quaestio. – 2. La rilevanza che c’è. – 3. A ogni
“beneficio” il suo giudizio (di legittimità)? Oppure questa è “la volta buona”? – 4. La
“sostanza” della quaestio. – 5. Italia contro CEDU. – 6. Le possibili “prognosi”
(comunque “riservate”).
1. Mutatis mutandis, è assai difficile non cogliere la pressoché perfetta
sovrapponibilità delle valutazioni (processuali e sostanziali) che la Corte ha fatto
proprie nella recente sent. n. 253/20191, con quelle potenzialmente utili a risolvere
i profili problematici emergenti dall’ordinanza di rimessione in esame2.
A essere in discussione sono, oggi, gli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge
n. 354 del 1975, nonché l’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991, convertito nella legge n.
203 del 1991. I parametri utilizzati sono i classici artt. 3 e 27, assieme al senz’altro
significativo art. 117 Cost.
A parere del remittente, le norme oggetto della quaestio si porrebbero in
contrasto con la Costituzione «nella parte in cui escludono che il condannato
all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso
previste», e «che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla
liberazione condizionale».
Nella sent. n. 253/2019 la Corte ha dichiarato invece l’illegittimità
costituzionale dello stesso art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella
parte in cui non prevede(va) la concessione dei permessi premio ai detenuti di cui
all’art. 416-bis c.p., anche in assenza di collaborazione con la giustizia, ove «siano
(…) acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la
criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti»3.
* Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Ferrara
1
Si rinvia agli atti del Seminario preventivo ferrarese dello scorso anno: G. BRUNELLI, A.
PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo
tra le Corti, in Forum di Quad. Cost. - Rassegna, n. 10, 2019. Per un’ampia congerie di commenti
alla sentenza n. 253/2019, centrale nel panorama delle pronunce sui reati ostativi, si vedano quelli
pubblicati al sito www.giurcost.org nello spazio ad essa dedicato.
2
L’ordinanza di rimessione 3-18 giugno 2020 è stata presentata dalla Corte di Cassazione, sez.
I pen.
3
Con un’ulteriore dichiarazione di illegittimità conseguenziale la Corte ha dichiarato altresì
l’incostituzionalità della stessa norma nella parte in cui escludeva la concessione del beneficio del
permesso premio per tutti gli ulteriori reati ostativi. La Corte ribadisce e adatta poi queste sue
conclusioni nella successiva sent. n. 263/2019, relativa ai condannati minorenni a pena temporanea:
si rinvia al commento di A. PUGIOTTO, Due decisioni radicali della Corte costituzionale in materia
di ostatività penitenziaria: le sentenze nn. 253 e 263 del 2019, in www.rivistaaic.it (20 marzo 2020).
242
Paolo Veronesi
Nonostante l’obiettiva differenza tra gli istituti coinvolti, i quali senz’altro
operano su piani diversi – il permesso premio è un provvedimento pur sempre
discrezionale, laddove la liberazione condizionale configura addirittura una causa
estintiva della pena legata a più stringenti presupposti4 – le argomentazioni
giuridico-costituzionali già adottate nel 2019 e ora eventualmente spendibili per
definire la quaestio sotto giudizio appaiono, come si scriveva supra, pressoché
identiche.
In questa direzione muove altresì la sempre più robusta filiera della
giurisprudenza costituzionale tesa a valorizzare la necessaria individualizzazione e
personalizzazione della pena. Nel tempo, si sono così potuti abbattere molti
automatismi e presunzioni assolute forgiati al fine di bloccare l’applicazione di una
pletora di benefici penitenziari, del tutto a prescindere dai risultati effettivamente
raggiunti dal reo sul fronte della sua rieducazione e risocializzazione5.
Lo stesso “clima” si evince altresì dalla più recente giurisprudenza della Corte
EDU, la quale trova nella sentenza Viola c. Italia n.2 un suo più che solenne
approdo6.
I rimandi e le parentele tra quanto sin qui deciso dalla Corte e quanto rimane
ancora da “ricalibrare” – compresa la materia oggi pendente – paiono, insomma,
talmente profondi da rendere credibile che venga finalmente portato alle più logiche
conseguenze ciò che il Giudice delle leggi è andato sin qui elaborando man mano
che abbandonava le sue più risalenti prese di posizione7.
La risposta che la Corte appronterà a fronte della quaestio ora in esame potrà,
insomma, rappresentare un autorevole (e forse decisivo) passo in avanti nell’opera
di assestamento costituzionalmente compatibile dell’intera disciplina dedicata ai
reati ostativi. Una sorta di “punto di non ritorno” da declinare poi in numerose altre
fattispecie rimaste ancora intonse e il cui destino diverrebbe necessariamente
“segnato” (sempre che la Corte non adotti per loro quell’autentico “colpo di grazia”
rappresentato dall’illegittimità costituzionale conseguenziale).
4
Sulle diverse caratteristiche dei due istituti si veda la sent. n. 188/1990. È’ peraltro vero che
la giurisprudenza costituzionale ha via via messo in luce lo stringente continuum che apparenta i
permessi premio, la semilibertà e la liberazione condizionale. Sul punto si veda, nel dettaglio, il §3.4
dell’Amicus Curiae presentato dal Centro Macrocrimes, reperibile in www.amicuscuriae.it, nella
sezione dedicata a questo Seminario.
5
Si veda, tra le moltissime, le sentt. nn. 418/1998, 57/2013, 105 e 239/2014, 149/2018,
229/2019 e la già citata 263/2019.
6
Corte EDU, sez. I, 13 giugno 2019, ric. n. 77633/2016, Viola c. Italia n. 2, sulla quale vedi,
tra gli altri, M. PELISSERO, Verso il superamento dell’ergastolo ostativo. Gli effetti della sentenza
Viola c. Italia sulla disciplina delle preclusioni in materia di reati ostativi, in SIDIBlog 21 giugno
2019 (www.sidiblog.org). Se ne tratterà più oltre.
7
Con riguardo alle passate “chiusure” della Corte costituzionale valga il rinvio, per tutte, alla
sent. n. 135/2003. Dopo le più recenti prese di posizione della Consulta e le stesse decisioni della
Corte EDU, questa pronuncia ci appare però oggi sin troppo “grossolana” e “semplicistica”
nell’escludere ogni vizio di costituzionalità dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., in quanto
quest’ultimo, subordinando la concessione della liberazione condizionale alla collaborazione con la
giustizia, non precluderebbe in modo assoluto la liberazione del condannato. Se ne accennerà anche
infra.
«Un passo dopo l’altro», è in arrivo il knock-down?
243
2. In ordine logico, il primo ostacolo da superare concerne il rispetto del
pregiudiziale requisito della rilevanza, in assenza del quale – com’è noto – la
quaestio sarebbe evidentemente inammissibile (a prescindere dalle sue più o meno
convincenti ragioni sostanziali). Nonostante i tentativi di escluderne l’esistenza8,
pare invece sostenibile, con buona approssimazione, che la quaestio in discorso non
sia affatto priva di tale requisito.
È senz’altro vero che l’eventuale dichiarazione d’illegittimità della norma che
esclude la liberazione condizionale per gli ergastolani “senza scampo” (e non
collaboranti con la giustizia), non assicura per nulla che, nel caso concreto, il
beneficio sia infine esteso al richiedente. Tuttavia, desumere da questa circostanza
“di fatto” l’inammissibilità della questione prova davvero troppo.
La concreta influenza che l’eventuale accoglimento della quaestio produrrà nel
giudizio a quo si palesa, appunto, nella circostanza per cui quello stesso giudizio, a
seguito di una potenziale decisione d’incostituzionalità, dovrà giocoforza procedere
di almeno uno step. L’accoglimento renderà cioè indispensabile che il Magistrato
di sorveglianza valuti distesamente (e nel merito) la richiesta del condannato di
giovarsi della misura in discussione; senza una simile pronuncia tale sviluppo
sarebbe, invece, del tutto precluso e alla domanda del richiedente dovrebbe invece
rispondersi, sin da subito, nel senso dell’inammissibilità9.
Questo possibile scenario costituisce dunque un’influenza più che tangibile sul
percorso processuale del giudizio a quo, la quale troverebbe il proprio “motore”
nella decisione richiesta, appunto, alla Corte. Esso evidenzia, insomma, come, in
questo caso, possa comunque ritenersi rispettato il requisito della rilevanza assunto
sia come applicabilità “allo stato degli atti”10, sia – al contempo – come necessaria
influenza che la decisione della Corte produrrà, in caso di accoglimento, nel
giudizio a quo (e, dunque, sulla concreta decisione che dovrà poi assumere il
giudice).
In senso stretto, non può neppure dirsi che, nella circostanza, si verserebbe in
una situazione in cui l’ipotetico accoglimento della quaestio non produrrebbe, a ben
vedere, alcun risultato utile per il rimettente. Nel caso, l’«utilità concreta» per le
parti – la quale non è comunque essenziale per ritenere esistente il requisito11 – si
rinviene proprio nella possibilità, altrimenti esclusa in modo assoluto, di vedere
esaminata nel merito (e a tutto tondo) la richiesta di accedere alla liberazione
condizionale. Non sarebbe un risultato da poco: si segnerebbe in tal modo la
distanza che separa l’assolutamente impossibile dal possibile (anche se non certo).
Si può, insomma, sostenere che, con un’eventuale decisione
d’incostituzionalità, si darebbe opportuno spazio a quel “diritto alla speranza” che
è sempre da soppesare nelle situazioni in cui i diritti fondamentali siano condotti
8
Ragionando, ad esempio, del fatto che l’eventuale accoglimento della quaestio non
garantirebbe affatto che il condannato coinvolto nella vicenda si veda poi senz’altro concessa la
liberazione condizionale. Su questo punto si tornerà tra brevissimo nel testo.
9
Così argomentavano anche i giudici remittenti della quaestio sui permessi premio poi decisa
con la sent. n. 253/2019.
10
Secondo la nota tesi di Vezio Crisafulli.
11
Così la Corte ragiona espressamente nella sent. n. 253/2019.
244
Paolo Veronesi
“al limite”12. E ciò vale, a maggior ragione, discutendo del percorso di rieducazione
del condannato all’ergastolo ostativo: la possibilità di “farcela”, e tornare così alla
vita fuori dal carcere, può infatti divenire, in tali casi, un carburante potentissimo
per il raggiungimento di un’autentica risocializzazione.
Accogliendo questa prospettiva si evince, pertanto, che la quaestio ora
promossa non appare né astratta, né, men che meno, ipotetica. Senza dire che è stata
la stessa Corte, nella sent. n. 253/2019 – davvero “gemella” alla quaestio ora in
esame (almeno per il profilo in discorso) – a valorizzare soprattutto l’idea di
rilevanza come mera “applicabilità della norma nel giudizio a quo”13, ribadendo
altresì che, a seguito dell’accoglimento della questione, il giudice si troverà
comunque costretto a «decidere secondo una diversa regola di giudizio». Ma anche
in caso di mancata concessione del beneficio, come si è appena cercato di
argomentare, la pronuncia della Corte produrrà comunque effetti sul percorso
argomentativo che il rimettente dovrà adottare per decidere sulla richiesta del
detenuto14.
3. Il pur importantissimo passaggio, contenuto nella sent. n. 253/2019, ove la
Corte afferma che le valutazioni da essa svolte in quella sede non incidono sulla
disciplina dell’ergastolo tout court, bensì soltanto sulla concessione dei permessi
premio in caso di condanna per delitti ostativi15, non pare potersi assumere quale
argomento definitivo per giungere a conclusioni ultronee e non strettamente
consequenziali.
Insomma, desumere dalle parole che la Corte ha utilizzato nella pronuncia sui
permessi premio una chiusura sul fronte della concessione di altri benefici
penitenziari (e della stessa liberazione condizionale) per il condannato all’ostatività
risulta del tutto esorbitante.
Da quanto sostenuto dalla Consulta si evince cioè che in un così delicato settore
dell’ordinamento qual è il regime penitenziario – intessuto di valutazioni
discrezionali riservate solo e soltanto al legislatore, nonché da istituti dal
“patrimonio genetico” assai diverso – essa avverte di dover procedere con i “piedi
di piombo” pur mentre ribadisce i suoi orientamenti giurisprudenziali più innovativi
e ormai consolidati.
Proprio per la delicatezza dei contesti che è chiamata a giudicare, è
comprensibile che la Corte non si distanzi – volta per volta – dal perimetro del
thema decidendum, riservandosi eventualmente di giudicare in separata sede – se e
quando si presenterà l’occasione – la compatibilità costituzionale di altri
meccanismi e istituti normativamente collegati certo all’ostatività, ma assai “diversi
dentro”.
12
Parafrasando quanto la Corte ha sostenuto in tutt’altro contesto (la sent. n. 185/1998, punto
9 del Considerato in diritto, sulla c.d. multiterapia Di Bella), c’è da chiedersi se la disciplina dei
reati ostativi (e dell’ergastolo in primis) non finisca per violare «aspettative comprese nel contenuto
minimo» del diritto costituzionale alla rieducazione e alla risocializzazione del condannato.
13
Si veda il punto 6 del Considerato in diritto.
14
Cfr. ancora il punto 6 del Considerato in diritto.
15
Si rinvia al punto 5.2 del Considerato in diritto.
«Un passo dopo l’altro», è in arrivo il knock-down?
245
Ciascuno di questi ultimi possiede, insomma, caratteristiche (e sorge da
valutazioni legislative), che, agli occhi della Consulta, potrebbero esigere un esame
distinto e puntuale. Un’analisi, cioè, il cui ancoraggio alla fattispecie concreta
faciliti la messa in risalto dell’eventuale incoerenza dello strumento contestato con
il sistema normativo via via ricalibrato dagli interventi della stessa Consulta (e della
Corte EDU).
Resta tuttavia che, com’è stato bene messo in luce nel dibattito svoltosi durante
questo Seminario (e si tratta di un argomento “notevole”), approdare all’illegittimità
della liberazione condizionale in rapporto ai reati ostativi pare, in realtà, assorbire
anche l’incostituzionalità degli attuali presupposti di erogazione – per i medesimi
detenuti – degli altri benefici prodromici alla concessione di questa misura “finale”.
Sembrerebbe dunque del tutto irrazionale che il godimento di tali misure
“intermedie” rimanesse comunque escluso per i condannati “senza speranza” pur
quando fosse loro (eventualmente) estesa la possibilità di godere dell’istituto ora
sotto i riflettori. Un simile dato di fatto potrebbe quindi indurre la Corte ad adottare
scelte decisorie anche più “coraggiose” rispetto al suo recente passato, con le
conseguenze che saranno menzionate più oltre16.
4. Con riguardo al merito in senso stretto della quaestio, non rilevano, nella
circostanza, le nette “chiusure” che la Corte ha frapposto alle pretese di chi avrebbe
voluto che essa ridisegnasse il novero dei reati sottoposti alla disciplina
dell’ostatività17. Le è infatti richiesto tutt’altro.
Risultano, invece, efficacemente spendibili, anche in riferimento al problema
sul tappeto – e con pochissimi aggiustamenti – le esatte parole che la Corte ha
utilizzato per tessere la trama della sua sentenza n. 253/2019, riguardante, come
detto, un problema limitrofo e altrettanto calibrato.
Più in particolare – e in estrema sintesi – ciò vale senz’altro per quanto la Corte
ha sostenuto (anche nel 2019) in merito alla valenza premiale riconosciuta alla
collaborazione del reo. Quest’ultima era infatti assunta – prima del riassestamento
prodotto dalla Consulta – quale unico e ineludibile presupposto per la concessione
del beneficio allora in discussione. Senza cioè adeguatamente tutelare i diritti del
condannato di tacere e di non autoincriminarsi18, nonché senza tener conto del suo
terrore di generare pesanti ritorsioni sui familiari rimasti in libertà19 e persino – non
va mai del tutto escluso – dell’ulteriore dramma così riservato ai condannati
innocenti (ed evidentemente impossibilitati a collaborare se non mentendo).
In aggiunta, «la presunzione assoluta» per cui chi non collabora è escluso di
per sé dalla possibilità di vedersi applicata la liberazione condizionale, «impedisce
proprio» la verifica, «secondo criteri individualizzanti» del percorso di
risocializzazione eventualmente battuto dal reo. I Magistrati di sorveglianza non
possono quindi «valutare le ragioni che hanno indotto il detenuto a mantenere il
16
Vedi infra §6.
Così chiedendole di sostituirsi al legislatore: da ultimo si veda la sent. n. 52/2020.
18
Si veda la sent. n. 253/2019, punto 8.1 del Considerato in diritto.
19
Come già opportunamente sottolineava il Tribunale di sorveglianza di Perugia, ossia il
giudice a quo che ha “provocato” la sent. n. 253/2019.
17
246
Paolo Veronesi
silenzio», le quali potrebbero essere della più varia natura e non tutte da
disprezzare20.
Si tratta dunque di una presunzione senza scampo, mentre, per la Corte,
«l’irragionevolezza di una presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia
possibile formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta
a base della presunzione stessa»21: occorre dunque una valutazione particolarmente
stretta per ritenere che simili automatismi siano costituzionalmente ammissibili. Ed
è quanto essa non ha affatto ritrovato nelle maglie delle norme sui permessi premio
(proprio per questo sensibilmente “riorientate” nel 2019).
Anche per la liberazione condizionale può inoltre ribadirsi che «il decorso del
tempo della esecuzione della pena esige una valutazione in concreto, che consideri
l’evoluzione della personalità del detenuto», a prescindere dalla mancata
collaborazione (che, come detto, potrebbe scaturire da motivazioni non incidenti
sulla bontà del percorso di recupero). Ciò in «forza dell’art. 27 Cost.», il quale
costituisce il perno costituzionale dell’intera fase di esecuzione della pena e pone
al centro del sistema la rieducazione del condannato, non la sua loquacità22.
Se non si vuole poi (ulteriormente) cozzare contro i crismi della ragionevolezza
(e, quindi, con l’art. 3 Cost.), occorre concludere «che la presunzione di pericolosità
del detenuto che non collabora» debba ritenersi sempre superabile prendendo in
esame una serie di altri «congrui e specifici elementi» tali da escludere l’attualità
dei suoi concreti collegamenti con la criminalità organizzata e la genuinità della sua
emenda. Ciò, dunque, a prescindere da una collaborazione che potrebbe essere
anche fittizia o meramente interessata23, e, dunque, radicalmente aliena da istanze
rieducative24.
5. Ai medesimi risultati si giunge valorizzando e adattando al caso gli
argomenti centrali della già menzionata sentenza della Corte EDU, sez. I, 13 giugno
2019, Viola c. Italia n. 2.
Del tutto in linea con quanto affermato nella sent. n. 253/2019, la Corte di
Strasburgo rileva qui l’incongruenza contenuta nella legislazione italiana, per cui
risulta “vincibile” l’ergastolo nei casi de quibus solo e soltanto in presenza di una
collaborazione con la giustizia da parte del condannato.
Un simile approccio – per il giudice sovranazionale – non pone però mente alle
ragioni che possono consigliare il detenuto a non esporsi (se ne è già scritto supra),
o – all’opposto – non prende affatto in considerazione l’uso potenzialmente
strumentale e utilitaristico della collaborazione da parte di soggetti per nulla
rieducati e benintenzionati.
Di contro, la cruna dell’ago della collaborazione non permette di fornire
adeguato risalto al tasso di rieducazione effettivamente raggiunto dal condannato e
al suo effettivo affrancamento dalla criminalità organizzata. Ciò si può, infatti,
20
Cfr. il punto 8.2 del Considerato in diritto.
Punto 8.3 del Considerato in diritto.
22
Punto 8.3 del Considerato in diritto.
23
Così già nella sent. n. 306/1993, punto 9 del Considerato in diritto.
24
Si veda, diffusamente, il punto 9 del Considerato in diritto della sent. n. 253/2019.
21
«Un passo dopo l’altro», è in arrivo il knock-down?
247
desumere da altri indici autorevoli, congrui e significativi che, nonostante la loro
efficacia in tal senso, sono però del tutto trascurati dal legislatore italiano (e quindi
sottratti all’armamentario del giudice)25.
È poi senz’altro vero che la scelta di collaborare rende l’ergastolo non più
effettivamente tale, ma – afferma la Corte EDU – il concreto funzionamento di un
simile meccanismo – in base a quanto appena detto – finisce per ridurre o addirittura
escludere le possibilità di un concreto ridimensionamento della pena perpetua.
Trasformandosi, cioè, in una mera (e teorica) foglia di fico.
Da qui la condanna dell’Italia per la violazione del principio di dignità umana
e l’opportunità di utilizzare da parte dei giudici a quibus interni – quale ulteriore
parametro delle quaestiones in linea con quella ora portata all’esame della Consulta
– anche l’art. 117 Cost. Denunciando, cioè, la violazione del parametro interposto
rappresentato dalle norme CEDU, come interpretate e applicate dalla Corte di
Strasburgo26. La limpida sostanza della decisione Viola c. Italia n. 2 sembrerebbe,
dunque, non lasciare alcuno scampo anche su questo versante.
6. Da quanto precede scaturisce una possibile (si spera non audace) prognosi
in relazione a quanto potrà concretamente decidere la Corte costituzionale:
procedendo ovviamente con tutte le cautele del caso, com’è opportuno che sia.
Assumendo che – in linea con quanto appena argomentato – la Corte si risolva
per una dichiarazione d’illegittimità, risulta credibile auspicare una pronuncia di
accoglimento parziale che ripercorra sostanzialmente, anche su questo tornante, i
“fasti” e lo stile della sent. n. 253/2019.
Analogamente a quanto deciso in quel precedente, risulta comunque possibile
prevedere che – se così fosse – la Corte dichiari altresì l’illegittimità costituzionale
conseguenziale, ex art. 27, legge n. 87 del 1953, della disciplina della liberazione
condizionale in quanto applicabile anche agli altri reati ostativi non coinvolti nel
giudizio a quo, ma contemplati all’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. Anche a essi si
estende infatti la disciplina ora impugnata dal rimettente con (opportuno) riguardo
alla sola fattispecie rilevante nel giudizio a quo.
Ma, forse, la Corte potrebbe decidere di non procedere oltre.
In tal modo – ossia limitando la portata espansiva della propria decisione – la
Consulta lascerebbe aperta la porta ad altre impugnazioni con riguardo ad ulteriori
benefici, misure alternative e istituti coinvolti nell’orizzonte dell’ostatività,
riservandosi di decidere caso per caso. Essa potrà in tal modo calibrare le proprie
pronunce sui tratti distintivi delle singole misure in oggetto, evitando un troppo
evidente muro contro muro nei confronti delle scelte del legislatore. Ovvierebbe
così anche alle scontate critiche di chi senz’altro ribadirà – con argomenti sempre
meno credibili – che la Corte si starebbe sostituendo al Parlamento.
25
Di «congrui e specifici elementi», al di là della mera buona condotta e della partecipazione
al percorso rieducativo, si ragiona espressamente nella sent. n. 253/2019.
26
Secondo una giurisprudenza costituzionale che, su questo punto, si è andata via via e più
intensamente definendo: si veda, ad esempio, le note sentenze gemelle nn. 348 e 349/2007, e poi, di
recente, la n. 210/2013 e, soprattutto, la n. 49/2015 (poi ribadita, tra le altre, dalla n. 43/2018).
248
Paolo Veronesi
Ferma restando la credibilità di questo possibile approdo, resta che, ove volesse
– e come si è anticipato supra27 – nulla vieterebbe alla Corte di appoggiarsi alla
fattispecie sub iudice per pronunciare altresì un’illegittimità costituzionale
conseguenziale che demolisca l’ostatività anche con riguardo ad altri benefici (non
a caso) prodromici alla concessione della liberazione condizionale.
Un’altra alternativa vedrebbe invece la Corte farsi ancor più carico del
problema di non menomare in modo competitivo le prerogative del legislatore,
ribadendo una strategia decisoria coniata di recente. È quanto emerge dalla
soluzione del c.d. “caso Cappato”28 nonché, successivamente, dall’ord. n. 132/2020
(la cui “trama” è ancora in fieri): in tali casi la Corte ha utilizzato la nuova tecnica
dell’“incostituzionalità differita”29 o “prospettata”30, con il contestuale rinvio
dell’udienza a una data fissa (nella quale scatterà senz’altro la “ghigliottina”
dell’accoglimento) e adottando altresì, in prima battuta, un’ordinanza alquanto ricca
di precisazioni sulla più che certa illegittimità della norma impugnata. Si è così
lasciato a disposizione del legislatore un tempo sufficiente affinché questi potesse
(e possa) provvedere di suo31. Si tratta di una tecnica decisoria che senz’altro
presenta potenziali inconvenienti, subito sottolineati dalla dottrina32, ma anche
indubbi profili positivi, come dimostrato dalla stessa vicenda che ha condotto alla
dichiarazione d’illegittimità costituzionale parziale del delicatissimo art. 580 c.p.33.
Se così facesse, oltre a preservare (sia pur solo temporaneamente) gli ambiti
d’azione del Parlamento, la Corte potrebbe adeguatamente sottolineare le
peculiarità dell’istituto della liberazione condizionale, sollecitando altri giudici a
quibus a sollevare la medesima quaestio e suggerendo contestualmente al
legislatore una serie di specifiche cautele. Alla scadenza, di fronte all’inerzia
parlamentare, la Corte potrebbe invece adottare, nel quadro di una pronuncia
27
Vedi il §3 in fine.
Si veda l’“uno/due” rappresentato dall’ord. n. 207/2018 e dalla successiva sent. n. 242/2019.
29
L’espressione è di M. BIGNAMI, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad
incostituzionalità differita, in www.questionegiustizia.it (19 novembre 2018), §1.
30
Così il Presidente della Corte, Giorgio Lattanzi, nella sua Relazione annuale sull’attività
svolta dalla Corte nel 2018.
31
A tal proposito potrà tornare utile, allorché si dovessero elaborare soluzioni normative
adeguate, le proposte contenute alle 29 ss. della Relazione dell’istituto di cui all’art. 4-bis della
legge n. 354 del 1975 in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla
sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, elaborata dalla Commissione parlamentare
d’inchiesta sul fenomeno della mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere e completata
nel giugno 2020 (la si può leggere in www.amicuscuriae.it, nella sezione dedicata al presente
Seminario).
32
Tra i commenti più critici si v. A. RUGGERI, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo
costituzionale (a margine della ordinanza n. 207 del 2018 sul caso Cappato), in www.giurcost.org
(20 novembre 2018, fasc. 3), §1; ID., Pilato alla Consulta: decide di non decidere, perlomeno per
ora (a margine di un comunicato sul caso Cappato), in www.giurcost.org 2018, fasc. 3 (26 ottobre
2018), nonché la maggior parte dei commenti ospitati negli Atti del Seminario Dopo l’ord. n.
207/2019 della Corte costituzionale: una nuova tecnica di giudizio? Un seguito legislativo (e
quale)?, promosso dalla rivista Quaderni costituzionali e svoltosi presso la casa editrice Il Mulino
di Bologna, il 27 maggio 2019 (in Forum di Quaderni Costituzionali, Rassegna, 2019).
33
Per un attento esame dei profili positivi di questa tecnica decisoria si rinvia, per tutti, a G.
BATTISTELLA, La nuova tecnica decisoria sul “caso Cappato” tra diritto processuale e sostanziale,
in Rivista del Gruppo di Pisa n. 2/2020, 110 ss. (www.gruppodipisa.it).
28
«Un passo dopo l’altro», è in arrivo il knock-down?
249
d’accoglimento vero e proprio, una disciplina “provvisoria” pur sempre superabile
dal legislatore.
Tuttavia, lasciare aperti, sia pur solo per un anno circa (com’è avvenuto sin
qui), questioni simili, così strenuamente connesse al nucleo più profondo di una
serie di diritti fondamentali, presenta inconvenienti che balzano agli occhi. Se
optasse per l’incostituzionalità della previsione impugnata, sarebbe dunque
consigliabile che la Corte ribadisse, sin da subito, quanto praticato nella sentenza
sui permessi premio, ponendosi cioè sulla scia di quel suo precedente (oltre che
degli altri analoghi che l’hanno anticipato e seguito) e senza lasciare ancora nel
limbo persone che attendono un simile responso da troppo tempo: si trattasse anche
di un solo condannato al carcere (oggi davvero) a vita.
1. Elettori legislatori? Il problema dell’ammissibilità del quesito referendario
elettorale (Ferrara, 13 novembre 1998), Giappichelli, Torino 1999, pp. XII-284
2. Il “caso Previti”. Funzione parlamentare e giurisdizionale in conflitto davanti alla
Corte (Ferrara, 28 gennaio 2000), Giappichelli, Torino 2000, pp. XIV-298
3. Stranieri tra i diritti. Trattenimento, accompagnamento coattivo, riserva di
giurisdizione (Ferrara, 26 gennaio 2001), Giappichelli, Torino 2001, pp. XVIII-250
4. Rogatorie internazionali e dintorni. La legge n. 367 del 2001 tra giudici e Corte
costituzionale (Ferrara, 29 gennaio 2002), Giappichelli, Torino 2002, pp. XVIII-294
5. La parità dei sessi nella rappresentanza politica. In occasione della visita della
Corte costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza di Ferrara (Ferrara, 16 novembre
2002), Giappichelli, Torino 2003, pp. X-254
6. Il “caso Cossiga”. Capo dello Stato che esterna o privato cittadino che offende?
(Ferrara, 14 febbraio 2003), Giappichelli, Torino 2003, pp. XX-460
7. La laicità crocifissa? Il nodo costituzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici
(Ferrara, 28 maggio 2004), Giappichelli, Torino 2004, pp. XXiI-340
8. Ai confini del “favor rei”. Il falso in bilancio davanti alle Corti costituzionale e di
giustizia (Ferrara, 6 maggio 2005), Giappichelli, Torino 2005, pp. XXIV-388
9. La grazia contesa. Titolarità ed esercizio del potere di clemenza individuale
(Ferrara, 24 febbraio 2006), Giappichelli, Torino 2006, pp. XXXII-340
10. All’incrocio tra Costituzione e CEDU. Il rango delle norme della Convenzione e
l’efficacia interna delle sentenze di Strasburgo (Ferrara, 9 marzo 2007), Giappichelli,
Torino 2007, pp. XXII-270 [e-book]
11. Dalla provetta alla Corte. La legge n. 40 del 2004 di nuovo a giudizio (Ferrara,
19 aprile 2008), Giappichelli, Torino 2008, pp. XXVI-232 [e-book]
12. Il lodo ritrovato. Una quaestio e un referendum sulla legge n. 124 del 2008
(Ferrara, 27 marzo 2009), Giappichelli, Torino 2009, pp. XXIII-319 [e-book]
13. La società naturale e i suoi nemici. Sul paradigma eterosessuale del matrimonio
(Ferrara, 26 febbraio 2010), Giappichelli, Torino 2010, pp. XXII-401 [e-book]
14. Nel “limbo” delle leggi. Abrogazione referendaria della legge Calderoli e
reviviscenza delle leggi Mattarella? (Ferrara, 16 dicembre 2011), Giappichelli, Torino
2012, pp. XXIV-337 [e-book]
15. Il Presidente intercettato. Un inedito conflitto tra il Capo dello Stato e la
magistratura requirente, 2012 (Seminario on line ospitato sulla piattaforma web del
Forum di Quaderni Costituzionali)
****
16. Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti, (Ferrara,
27 settembre 2019), 2019, pp. XXVII-178 [in Forum di Quaderni Costituzionali,
Rassegna, n. 10 del 2019]
17. Il fine la fine della pena. Sull’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale,
(Ferrara, 25 settembre 2020), 2020, pp. XXVIII-249 [in Forum di Quaderni
Costituzionali, Rassegna, n. 4 del 2020]