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IL FINE E LA FINE DELLA PENA Sull’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale a cura di GIUDITTA BRUNELLI, ANDREA PUGIOTTO, PAOLO VERONESI 2020 Atti dei Nuovi Seminari “preventivi” ferraresi __________________________________________________________________ 17 IL FINE E LA FINE DELLA PENA Sull’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale Atti del Seminario Ferrara, 25 settembre 2020 a cura di GIUDITTA BRUNELLI, ANDREA PUGIOTTO, PAOLO VERONESI FORUM DI QUADERNI COSTITUZIONALI RASSEGNA, fasc. n. 4 del 2020 INDICE Prefazione ............................................................................................................. XI Documentazione................................................................................................... XV Traccia per la discussione ..................................................................................XIX Relazioni introduttive L’ERGASTOLO OSTATIVO È COSTITUZIONALE? di MARCO RUOTOLO ................................................................................................ 1 VERSO UN’INCOSTITUZIONALITÀ PRUDENTEMENTE BILANCIATA? SPUNTI PER UNA DISCUSSIONE di GLAUCO GIOSTRA .............................................................................................. 37 Discussione L’ ERGASTOLO OSTATIVO COME OCCASIONE (DA NON PERDERE) PER LA CORTE di MASSIMILIANO BARONI ...................................................................................... 51 NOTE MINIME SULLA RIPARTIZIONE DEI COMPITI ISTRUTTORI NEL PROCEDIMENTO DI SORVEGLIANZA di PASQUALE BRONZO ............................................................................................ 58 IL SENSO DELLA PENA: L'UOMO OLTRE IL REATO di MARIA BRUCALE ................................................................................................ 62 UN APPROCCIO PSICOLOGICO AGLI AUTOMATISMI LEGISLATIVI: IL CASO DELL’ERGASTOLO OSTATIVO ALLA LIBERAZIONE CONDIZIONALE di QUIRINO CAMERLENGO ...................................................................................... 68 IL RAPPORTO INCRINATO TRA LEGGE E GIUDICE NELLE PRESUNZIONI ASSOLUTE IN MATERIA DI LIBERTÀ di STEFANIA CARNEVALE ....................................................................................... 75 LA QUAESTIO SOLLEVATA: UN’OCCASIONE DI RIFLESSIONE SUL FONDAMENTO COSTITUZIONALE DELLA PENA di SILVIA CECCHI.................................................................................................... 80 SPUNTI PER UNA LETTURA DIALOGICA DELL’ERGASTOLO OSTATIVO IN ITALIA di SOFIA CIUFFOLETTI ............................................................................................ 84 VIII Indice UN SISTEMA PREMIALE IMPRATICABILE di FRANCO CORLEONE ............................................................................................ 96 IL “COMMIATO” DELL’ERGASTOLO OSTATIVO? LA PAROLA SPETTA ORA ALLA CORTE COSTITUZIONALE di MARILISA D’AMICO e STEFANO BISSARO .......................................................... 99 LA PRESUNZIONE ASSOLUTA DI PERICOLOSITÀ SOCIALE (DI NUOVO) ALLA PROVA DELLA CORTE COSTITUZIONALE di ILARIA DE CESARE ........................................................................................... 110 LA “FUNZIONE OSTATIVA” DELLA RIEDUCAZIONE di FEDERICA DE SIMONE ...................................................................................... 117 ERGASTOLO OSTATIVO, LIBERAZIONE CONDIZIONALE, DIRITTO ALLA SPERANZA di EMILIO DOLCINI ............................................................................................... 124 CORTE COSTITUZIONALE A “DUE VELOCITÀ” E PROSPETTIVE DE IURE CONDENDO di CARLO FIORIO .................................................................................................. 131 UN DIALOGO (IMMAGINARIO) TRA UN ERGASTOLANO OSTATIVO E UN GIUDICE COSTITUZIONALE di DAVIDE GALLIANI ............................................................................................ 134 DIRITTO ALLA SPERANZA E PRECLUSIONI ASSOLUTE. UNA COMPARAZIONE CON L’ORDINAMENTO LITUANO IN CHIAVE “PREVENTIVA” di GIACOMO GIORGINI PIGNATIELLO ................................................................... 151 NESSUNO PUÒ ESSERE OBBLIGATO AD AUTO-ACCUSARSI di PATRIZIO GONNELLA ........................................................................................ 158 ILLEGITTIMITÀ EUROUNITARIA DELL’ERGASTOLO OSTATIVO E RICADUTE SULL’ESEGUIBILITÀ DEL MANDATO D’ARRESTO EUROPEO di CIRO GRANDI ................................................................................................... 160 LIBERAZIONE CONDIZIONALE E REGIME OSTATIVO: PERCHÉ NON SI PUÒ PIÙ TORNARE INDIETRO di SARAH GRIECO ................................................................................................. 167 ANCORA UNA QUAESTIO IN TEMA DI ERGASTOLO: UN’INGRAVESCENTE IDIOSINCRASIA VERSO L’OSTATIVITÀ? di ANTONIO LEGGIERO ......................................................................................... 176 RIEDUCAZIONE, DIRITTO ALLA SPERANZA E PROSPETTIVE DELLA LIBERAZIONE CONDIZIONALE Indice IX DOPO LA “FINE” DELL’ERGASTOLO OSTATIVO di ADRIANO MARTUFI .......................................................................................... 185 I POSSIBILI ALTRI PASSI LUNGO LA VIA TRACCIATA DALLA SENTENZA N. 253/2019 di MARTA MENGOZZI ........................................................................................... 192 L’ERGASTOLO NELLA PRASSI NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE INTERNAZIONALE di ELISABETTA MOTTESE...................................................................................... 198 LA FINE È NOTA (A PROPOSITO DI UN’INNOVATIVA ORDINANZA DEL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI FIRENZE) di MICHELE PASSIONE .......................................................................................... 204 ERGASTOLO OSTATIVO: UNA DECISIONE OBBLIGATA? di IGNAZIO PATRONE ............................................................................................ 209 DOPO LA SENTENZA (DI ACCOGLIMENTO) CHE VERRÀ di ANDREA PUGIOTTO .......................................................................................... 213 UNA QUESTIONE DI CULTURA di EMILIA ROSSI ................................................................................................... 220 ERGASTOLO OSTATIVO E LIBERAZIONE CONDIZIONALE: IN ATTESA DI UNA SENTENZA “AMBIVALENTE” di ALESSANDRA SANTANGELO ............................................................................. 224 L’ERGASTOLO OSTATIVO TRA DIRITTO E RAGION DI STATO di ORLANDO SAPIA ............................................................................................... 229 CALA IL SIPARIO SULL'ERGASTOLO OSTATIVO? BREVI RIFLESSIONI SU UNA PENA NON CONFORME AI CANONI COSTITUZIONALI di EMANUELE SYLOS LABINI ................................................................................ 234 «UN PASSO DOPO L’ALTRO», È IN ARRIVO IL KNOCK-DOWN PER LA DISCIPLINA DELL’ERGASTOLO OSTATIVO? di PAOLO VERONESI ............................................................................................. 241 PREFAZIONE Se il motto per cui «non c’è il due senza il tre» fosse davvero attendibile, dopo l’edizione 2020 di Amicus curiae anche l’appuntamento del 2021 avrebbe il destino – ossia il tema – già segnato. Quanto discusso nel webinar dello scorso 25 settembre (“Il fine e la fine della pena. Sull’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale”), costituisce infatti una sorta di “Atto II”, collocandosi in ideale e perfetta continuità con l’appuntamento dell’anno precedente. Contrariamente alla nostra tradizione – per la quale ogni puntata di Amicus curiae si concentra su temi naturalmente diversi da quelli affrontati nell’edizione antecedente – sia nel 2019, sia nel settembre 2020, ci siamo invece occupati di alcuni profili normativi di dubbia costituzionalità strettamente connessi al tema, spesso rimosso, dell’ergastolo c.d. ostativo. “Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti” era infatti il titolo dell’incontro organizzato nel 2019, i cui preziosi atti potete reperire sia nel nostro sito (www.amicuscuriae.it), sia nell’ambito della rivista Forum dei Quaderni costituzionali – Rassegna (n. 10 del 2019), la quale ha collaborativamente accettato di ospitare, anno per anno, le nostre fatiche (www.forumcostituzionale.it). L’anno scorso, dunque, era collocato sotto i riflettori della Consulta il negato accesso al beneficio penitenziario del permesso premio nei confronti dei condannati all’ergastolo per i reati di cui all’art. 416-bis c.p., i quali non avessero collaborato con la giustizia. E ciò a prescindere da qualsiasi valutazione in ordine al loro percorso trattamentale, quand’anche positivo in termini di risocializzazione del detenuto. Le stimolanti riflessioni svolte in quella occasione hanno trovato – potremmo dire – il loro coronamento nella sentenza costituzionale n. 253/2019: una pronuncia d’illegittimità costituzionale che ha certamente lasciato il segno. Oggi, nel pieno corso di un 2020 funestato dalla pandemia Covid-19, il giudice a quo punta a un risultato ancora più “sensibile”, mirando addirittura al cuore del regime ostativo penitenziario. Secondo la rimettente Sez. I penale della Corte di Cassazione (ord. 3-18 giugno 2020, Pres. Mazzei, est. Santalucia) le norme ora sottoposte all’attenzione della Consulta – e discusse nel nostro Seminario preventivo – sarebbero infatti illegittime anche perché al condannato all’ergastolo per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, e che non si sia prestato a collaborare con la giustizia, viene altresì preclusa la possibilità di accedere alla liberazione condizionale. Ancora una volta, quindi, la norma configura un penalizzante automatismo che scatta del tutto a prescindere dai motivi che inducono il condannato al silenzio e dal suo, magari proficuo, percorso di rieducazione. Praticamente tutti i contributi ospitati negli Atti che seguono pongono in evidenza i punti di contatto tra la pronuncia del 2019 e quanto ci si attenderebbe dalla Corte nel momento in cui affronterà la quaestio ora sottoposta alla sua attenzione. Mutatis mutandis, sono infatti pressoché identiche le norme impugnate, gli argomenti intessuti dall’ordinanza di rinvio, le prognosi circa la futura XII Prefazione decisione costituzionale e i parametri coinvolti (ai quali quest’anno si aggiunge, molto opportunamente, l’art. 117 Cost., specialmente dopo la sentenza della Corte EDU, Viola c. Italia n. 2, anch’essa riprodotta nel nostro sito). Monitoreremo pertanto con attenzione gli esiti di quanto accadrà nel prossimo futuro. E siamo certi che non saremo i soli. *** Un altro elemento di continuità tra le edizioni 2019 e 2020 di Amicus curiae si coglie valutando il profilo dei relatori che hanno generosamente accettato il nostro invito. Non si tratta soltanto di studiosi unanimemente apprezzati nei rispettivi settori disciplinari (e anche oltre quegli stessi steccati). È sulla loro complementare “specializzazione” che conviene soffermarsi. Nel 2019 abbiamo beneficiato delle riflessioni introduttive di un penalista di chiara fama (Francesco Palazzo) e di un ex giudice della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di grande esperienza (Vladimiro Zagrebelsky). Quest’anno a cimentarsi con i problemi sollevati dall’ordinanza della Cassazione sono stati Glauco Giostra, autorevole processualpenalista e tra i principali studiosi di ordinamento penitenziario, e Marco Ruotolo, raffinato costituzionalista che, tra i primi, ha affrontato con gli strumenti della nostra disciplina i problemi della pena e della sua esecuzione. Entrambi, peraltro, già membri del Comitato di esperti per predisporre le linee di azione degli "Stati generali sull'esecuzione penale" chiamati – nel 2015 – a concepire “la riforma della riforma” penitenziaria del 1975. Siamo, insomma, di fronte a una sorta di quadratura del cerchio: in pratica, a Ferrara si sono succeduti relatori di tutte le discipline più direttamente coinvolte dalle criticità costituzionali del c.d. ergastolo ostativo, i quali hanno avuto così modo di fornirci le loro ricostruzioni (e possibili soluzioni). È quindi assai significativo che - al netto di talune sfumature spesso scaturite dalla diversa prospettiva da cui ciascuno di essi ha approcciato il problema - le loro prese di posizione si siano rivelate sostanzialmente convergenti. Tutti, insomma, si sono trovati d’accordo. È stato così l’anno scorso – non a torto, stando al giudicato costituzionale della sent. n. 253/2019 – ed è accaduto anche quest’anno: vedremo, dunque, se l’esito sarà in linea con le aspettative e – soprattutto – con le argomentazioni esposte dai nostri relatori, che hanno altresì trovato ampia eco nel dibattito ferrarese che ne è seguito. *** Come per tutti gli appuntamenti di Amicus curiae, anche quest’anno sono stati caricati nel nostro sito tutti i materiali giurisprudenziali e parlamentari utili per inquadrare al meglio la quaestio, per esaminarne i dettagli e per prevederne – per chi vorrà cimentarsi in questo “gioco” – gli esiti. Segnaliamo in particolare – nella sezione dedicata alla documentazione processuale – la fruibilità dei cinque amici curiae inoltrati alla cancelleria di Palazzo della Consulta, ai sensi dell’art. 4-ter delle nuove Norme Integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Vedremo se e quali saranno ritenuti Prefazione XIII ammissibili dal suo Presidente, sentito il giudice relatore della causa. In ogni caso, il nostro sito fin d’ora ne assicura alla comunità scientifica l’integrale conoscibilità, a tutto vantaggio di un dibattito informato. Come sempre, abbiamo inoltre già caricato la videoregistrazione del Seminario, fruibile pure nel sito di Radio Radicale (www.radioradicale.it) che, anche quest’anno, ha attentamente e pazientemente seguito i nostri lavori. L’invito rivolto a tutti è, dunque, di trascorrere qualche minuto tra le “pagine” rinnovate di www.amicuscuriae.it. Sul piano della partecipazione, infine, il Seminario non è uscito penalizzato dalle forzate modalità “in remoto”, imposte dalla pandemia ancora in corso. Nonostante la lontananza coatta e il format tecnologico – inedito per gli appuntamenti ferraresi, tradizionalmente caratterizzati da scambi d’opinione vivaci, ancorché sempre rispettosi – le adesioni sono letteralmente fioccate. Gli iscritti sono stati ben 220 e solo per motivi tecnici - dovuti alla “sostenibilità” della piattaforma che ci ospitava - non abbiamo potuto andare in overbooking, accettando l’iscrizione di almeno un’altra quarantina d’interlocutori. Peccato: se il prossimo anno saremo ancora costretti al supporto tecnologico, vedremo di eliminare questo fastidioso inconveniente. Nel frattempo, confidiamo nella comprensione degli esclusi ai quali – pur non avendo colpe – chiediamo scusa. A parziale rimedio, diversi tra loro hanno comunque accolto il nostro invito a contribuire agli atti dell’incontro, inviandoci ex post un proprio intervento scritto. *** Quanto alla dinamica dell’incontro, essa ha ricalcato le forme e i ritmi già ben oliati che abbiamo via via forgiato in questa quasi ventennale attività seminariale “preventiva”, a cominciare dalla condivisione preliminare – attraverso il sito - di una Traccia di discussione, particolarmente ricca di domande a risposte aperte, a tratteggiare i principali problemi posti dall’atto di promovimento in esame. Due ampie relazioni di poco più di mezz’ora seguite poi dagli interventi dei partecipanti, da contenere tra i sette e i dieci minuti, a pena della ghigliottina del moderatore. Ciò, come sempre, ha conferito vivacità, immediatezza e chiarezza all’esposizione e all’illustrazione delle tesi di ciascuno. All’ampio dibattito hanno poi fatto seguito le repliche dei relatori, i quali hanno tirato le fila della ricca discussione, concentrandosi sugli snodi giuridici più sensibili emersi nel corso della giornata. Affinché tutto ciò non vada perduto o non sia limitato alla sua sola videoregistrazione, vengono, ora, pubblicati questi Atti. Essi ospitano non soltanto la versione definitiva delle due relazioni introduttive e degli interventi di chi ha preso la parola durante il Seminario, ma anche i contributi di chi, stimolato proprio da quanto ascoltato durante la giornata di studi, ha successivamente maturato una propria posizione in merito. Il tutto, ci pare, va a comporre un volume che restituisce ai lettori una riflessione plurale e palpitante. *** XIV Prefazione Sono tanti i soggetti da ringraziare per l’aiuto e il sostegno che ci hanno generosamente offerto, rendendo possibile il nostro Seminario preventivo on-line. Senz’altro il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, rappresentato in forma non rituale dal suo Direttore Daniele Negri, processualpenalista particolarmente attento ai temi affrontati in queste ultime due edizioni di Amicus Curiae. E poi il Centro Studi Giuridici Europei sulla Grande Criminalità - Macrocrimes, costituito presso il Dipartimento ferrarese, rappresentato dalla sua Direttrice Serena Forlati, che – come lo scorso anno – ha incluso Amicus Curiae tra le proprie iniziative scientifiche d’eccellenza. Sul piano tecnologico, molto dobbiamo al supporto di Se@unife – in particolare ad Andrea Trevisani – che ha garantito il versante audio-video dell’iniziativa, e soprattutto a Silvia Pellino, che ha allestito e progressivamente aggiornato il sito di Amicus curiae nelle pagine dedicate all’appuntamento di quest’anno, dopo averne curato l’intero restyling l’anno scorso. Come sempre rimane valido l’auspicio, che sin dagli esordi è il vero propellente dei nostri seminari preventivi: che quanto elaborato dalla riflessione interdisciplinare, dialettica e mai ingessata, di studiosi attenti al tema di volta in volta in esame, possa tornare variamente utile alla Corte costituzionale allorché dovrà prendere la propria impegnativa decisione. E così pure ai giudici, agli avvocati, ai parlamentari, agli studiosi e a tutti coloro che si cimenteranno nell’analisi della pronuncia che verrà o ne dovranno gestire – comunque sia – il seguito. Noi abbiamo fatto la nostra parte e, guardando agli esiti qui riprodotti, possiamo ritenerci soddisfatti. Ora non ci resta che attendere. Paolo Veronesi DOCUMENTAZIONE [Tutti i documenti sono consultabili nel sito dei nuovi Seminari “preventivi” ferraresi, all’indirizzo www.amicuscuriae.it] ATTO DI PROMOVIMENTO Corte di Cassazione, Sez. I penale, ordinanza 3-18 giugno 2020 (r.o. n. 100 del 2020) AMICUS CURIAE Amicus Curiae inoltrato alla cancelleria della Corte costituzionale da Antigone Amicus Curiae inoltrato alla cancelleria della Corte costituzionale dal Garante Nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale Amicus Curiae inoltrato alla cancelleria della Corte costituzionale da L’Altro Diritto ODV Amicus Curiae inoltrato alla cancelleria della Corte costituzionale da Macrocrimes - Centro studi giuridici europei sulla grande criminalità Amicus Curiae inoltrato alla cancelleria della Corte costituzionale da Nessuno Tocchi Caino CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO Corte EDU, Prima Sezione, Viola c. Italia n°2, ricorso n°77633/16, sentenza 13 giugno 2019, def. 5 ottobre 2019 (versione italiana) GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE In tema di ergastolo comune e liberazione condizionale: Sent. n. 204/1974 Sent. n. 264/1974 Sent. n. 274/1983 XVI Documentazione Sent. n. 161/1997 Sent. n. 418/1998 In tema di ergastolo ai minorenni: Sent. n. 168/1994 In tema di ergastolo ostativo e liberazione condizionale: Ord. n. 359/2001 Sent. n. 135/2003 Sent. n. 149/2018 In tema di reati ostativi e preclusioni penitenziarie: Sent. n. 39/1994 Sent. n. 361/1994 Sent. n. 450/1998 Sent. n. 237/2001 Sent. n. 76/2014 Sent. n. 239/2014 Sent. n. 174/2018 Sent. n. 229/2019 Sent. n. 253/2019 Sent. n. 263/2019 In tema di reati ostativi e collaborazione inesigibile: Sent. n. 306/1993 Sent. n. 357/1994 Sent. n. 68/1995 Sent. n. 504/1995 Sent. n. 445/1997 Sent. n. 89/1999 Sent. n. 137/1999 Sent. n. 257/2006 Sent. n. 79/2007 In tema di discrezionalità legislativa nella selezione dei reati ostativi: Sent. n. 188/2019 Sent. n. 32/2020 Ord. n. 49/2020 Sent. n. 52/2020 GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE Manifesta infondatezza della quaestio: Sez. I pen., 7-28 novembre 2012, n. 45978, Musumeci Documentazione XVII Sez. I pen., 4 marzo 2014, n. 18206, Grassonelli Sez. I pen., 20 marzo-17 luglio 2015, n. 31203, Papalia Sez. I pen., 22 marzo-1 luglio 2016, n. 27149, Viola Sez. I pen., 17 gennaio-16 febbraio 2017, n. 7428, Pesce Giurisprudenza citata nella sentenza costituzionale n. 253/2019: Sez. I pen., 13 aprile-12 maggio 1992, n. 1639, Giampaolo Sez. I pen., 24 gennaio-12 ottobre 2017, n. 47044, Sorice Sez. I pen., 16 aprile-8 luglio 2019, n. 29869, Lamberti Sez. I pen., 27 giugno-13 agosto 2019, n. 36057, Biondolillo Seguito giurisprudenziale della sentenza costituzionale n. 253/2019: Sez. I pen., 14-27 gennaio 2020, n. 3307, P.G. Sez. I pen., 28 gennaio-12 febbraio 2020, n. 5553, Grasso Sez. I pen., 21 febbraio 2020, n. 12554, Torrisi Sez. I pen., 21 febbraio 2020, n. 12555, Guglielmino TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI FIRENZE Ordinanza n. 3341/2020, emessa il 29 ottobre 2020 COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA Relazione sull’istituto di cui all’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale (approvata nella seduta del 20 maggio 2020, relatori: sen. Grasso e dep. Ascari) TRACCIA PER LA DISCUSSIONE [In neretto sono indicati i documenti scaricabili dal sito www.amicuscuriae.it] La genesi della quaestio 1.1. In data 3-18 giugno 2020 la Corte di Cassazione, I sez. penale, Pres. Mazzei, Est. Santalucia, ha promosso questione incidentale alla Corte costituzionale dubitando della legittimità degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge n. 354 del 1975, e dell’art. 2 del decreto legge n. 152 del 1991, conv. con modificazioni in legge n. 203 del 1991, in riferimento agli artt. 3, 27 e 117 della Costituzione. Le disposizioni impugnate, nel loro combinato disposto, sarebbero incostituzionali «nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale». 1.2. Il ricorrente in Cassazione è un affiliato alla criminalità organizzata, non collaborante con la giustizia (ex art. 58-ter, comma 1, ord. penit.), cui più volte è stata respinta l’istanza volta ad accertarne la collaborazione impossibile (ex art. 4bis, comma 1-bis, ord. penit.), condannato all’ergastolo per un delitto incluso nella categoria di reati cc.dd. ostativi alla concessione di benefici penitenziari (ex art. 4bis, comma 1, ord. penit.). La sua richiesta di accesso alla liberazione condizionale è stata dichiarata inammissibile dal Tribunale di sorveglianza de L’Aquila. Contro tale ordinanza ha proposto ricorso in Cassazione. 1.3. Tra detenzione effettiva e riduzione di pena a titolo di liberazione anticipata, il ricorrente ha fin qui espiato oltre ventisette anni di carcere, superando così il termine minimo (ventisei anni) richiesto dall’art. 176 cod. pen. perché il condannato a vita possa accedere alla liberazione condizionale. Impregiudicato l’altro requisito previsto all’art. 176 cod. pen. (il «sicuro ravvedimento» del reo), la richiesta di liberazione condizionale è in limine inammissibile, trattandosi di ergastolano “ostativo” non collaborante. 1.4. È esattamente della legittimità costituzionale di tale preclusione assoluta che il giudice a quo dubita. In particolare, «il dubbio di costituzionalità trova causa nel convincimento che la collaborazione non può essere elevata ad indice esclusivo dell’assenza di ogni legame con l’ambiente criminale di appartenenza e che, di conseguenza, altri elementi possono in concreto essere validi e inequivoci indici dell’assenza di detti legami e quindi di pericolosità sociale». Diversamente, il dispositivo legislativo impugnato si sostanzia in un’irragionevole compressione dei principi costituzionali di individualizzazione, XX Traccia per la discussione progressività del trattamento e risocializzazione delle pene. Una quaestio astratta perché ipotetica? 2.1. L’inammissibilità della richiesta di liberazione condizionale – secondo il giudice a quo - è «diretta conseguenza» dell’applicazione dell’art. 2, del decreto legge n. 152 del 1991, conv. con modificazioni in legge n. 203 del 1991, in ragione dell’espresso rinvio (formale: cfr. sent. n. 39/1994) ivi operato all’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. Tanto basta per precludere «l’apprezzamento di quanto nel merito dedotto dal ricorrente» in ordine al proprio sicuro ravvedimento. Eventuale, dunque, sarà la concessione della liberazione condizionale al detenuto, anche qualora la quaestio venisse accolta. Ciò non la priva del necessario requisito della rilevanza, da intendersi come influenza che la pronuncia costituzionale è in grado di esercitare sull’esito del giudizio in corso? 2.2. Né l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza fatta oggetto di gravame in Cassazione, né le prospettazioni del ricorrente offrono utili indicazioni circa le specifiche ragioni che motivano la sua scelta di non collaborare con la giustizia. Dunque, qualora cadesse la conditio sine qua non della collaborazione, non è detto che il giudice di merito riconoscerà poi – in base ad altri indici - l’assenza di legami del reo con il sodalizio criminale, quindi il venir meno della sua pericolosità sociale e, dunque, il superamento della preclusione legislativa. Di nuovo, ciò non rende meramente ipotetica la quaestio, non essendo affatto certa un’influenza concreta della sua risoluzione nel giudizio principale? 2.3. Il giudice a quo, invece, valuta rilevante la questione perché, se accolta, «il giudice di merito, a cui sarebbe devoluto il giudizio [...] dovrebbe decidere sulla base di una diversa regola, che consentirebbe di verificare le reali ragioni della mancata collaborazione». In questa prospettiva, sarebbe dunque sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio principale, per rendere ammissibile la quaestio. In tal senso, viene citata la pertinente sent. n. 253/2019, in particolare laddove vi si legge che «il presupposto della rilevanza non si identifica con l’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare a seguito della decisione». Tanto basta per superare i prospettati dubbi di ammissibilità per difetto di rilevanza? Il precedente costituzionale della quaestio 3.1. La quaestio non è inedita. Nella giurisprudenza costituzionale è rintracciabile un puntuale precedente: la sent. n. 135/2003. Allora venne dichiarata infondata, negandosi che la preclusione discenda automaticamente dalla disciplina censurata: l’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., «subordinando l’ammissione alla liberazione condizionale alla collaborazione con Traccia per la discussione XXI la giustizia, che è rimessa alla scelta del condannato, non preclude in modo assoluto e definitivo l’accesso al beneficio». Trattasi, infatti, di una sua libera determinazione: perché «al condannato è comunque data la possibilità di cambiare la propria scelta», e perché ancorata a ipotesi (enucleate dalla giurisprudenza costituzionale, ora recepite nell’art. 4-bis, comma 1-bis, ord. penit.) in cui la collaborazione «sia naturalisticamente e giuridicamente “possibile”». Non è dunque irragionevole – concludeva la Corte costituzionale – la scelta legislativa di assumere una esigibile collaborazione con la giustizia a indice legale del sicuro ravvedimento del condannato all’ergastolo. 3.2. Poggiando prevalentemente su tale precedente - ma pure sviluppando autonomi argomenti in relazione a parametri diversi dall’art. 27, comma 3, Cost. la Cassazione, fino ad oggi, ha sempre respinto come manifestamente infondata la quaestio ora in rilievo: ex plurimis, cfr. Sez. I pen., 7-28 novembre 2012, n. 45978, Musumeci; Sez. I pen., 4 marzo 2014, n. 18206, Grassonelli; Sez. I pen., 20 marzo-17 luglio 2015, n. 31203, Papalia; Sez. I pen., 22 marzo-1 luglio 2016, n. 27149, Viola; Sez. I pen., 17 gennaio-16 febbraio 2017, n. 7428, Pesce. 3.3. Il giudice a quo ritiene superabile il precedente rappresentato dalla sent. n. 135/2003 e la conseguente giurisprudenza di legittimità. A suo avviso, la quaestio è da ritenersi non manifestamente infondata, innanzitutto, in ragione delle «evoluzioni della giurisprudenza costituzionale». Da un lato, mette a valore l’intero filone giurisprudenziale che – all’indomani della legge n. 1634 del 1962 - fa del possibile accesso alla liberazione condizionale la clausola capace di rendere compatibili ergastolo e principi di umanizzazione e rieducazione delle pene: cfr. sent. n. 264/1974 (in tema di ergastolo comune), sent. n. 274/1983 (in tema di ergastolo e liberazione anticipata) e, soprattutto, sent. n. 161/1997 (in tema di ergastolo e revoca della liberazione condizionale). Ne consegue che, se «la liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo» (sent. n. 161/1997), varrà anche il reciproco, deponendo per l’incostituzionalità di preclusioni assolute al suo accesso. Dall’altro lato, il giudice a quo capitalizza la ratio decidendi della recente sent. n. 253/2019 che, confermando «il carattere assoluto della presunzione di mantenimento dei collegamenti con l’organizzazione criminale del detenuto che non collabori», ne ha accertato l’illegittimità per violazione degli artt. 3 e 27 Cost. (vedi, infra, §5.1). 3.4. Si tratta davvero di argomentazioni congrue e sufficienti a superare la giurisprudenza di legittimità, fin qui unanime nel rigettare la quaestio? Valga, in dubbio, quanto segue. Il valorizzato filone della giurisprudenza costituzionale, incentrato sul rapporto di coesistenza necessaria tra pena perpetua e accesso alla liberazione condizionale, è precedente (dunque non sconosciuto) al pregresso orientamento della Cassazione, né contraddice il carattere libero e reversibile della scelta dell’ergastolano di non XXII Traccia per la discussione collaborare con la giustizia. Quanto alla richiamata sent. n. 253/2019, vi si legge testualmente che le censure da essa affrontate e risolte «non riguardano la legittimità costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo». Essa, infatti, concerne il tema della concedibilità del permesso premio, non di altri benefici o misure alternative, né di una causa estintiva della pena qual è la liberazione condizionale. Il precedente convenzionale della quaestio 4.1. Esiste anche un puntuale precedente della quaestio nella giurisprudenza europea: cfr. Corte EDU, Prima Sezione, Viola c. Italia n°2, sent. 13 giugno 2019, divenuta definitiva il 5 ottobre 2019, in ragione della dichiarata inammissibilità del referral presentato – inutilmente – dal governo italiano alla Grande Camera. De jure, i giudici di Strasburgo riconoscono che «la legislazione interna non vieta, in modo assoluto e con effetto automatico» un orizzonte di libertà al condannato all’ergastolo ostativo, in ragione del meccanismo di una collaborazione esigibile con la giustizia (§101). Tuttavia ritengono che, «nella sua applicazione pratica», tale meccanismo «finisca per limitare eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità per quest’ultimo di domandare il riesame della pena» (§110). Ciò che la Corte EDU contesta è la tenuta logico-giuridica della doppia presunzione legislativa, di pericolosità sociale e di mancata emenda, collegata all’assenza di collaborazione con la giustizia. La scelta del detenuto di collaborare o meno può non essere libera, perché condizionata dal pericolo di ritorsioni anche esiziali: il che impedisce di far discendere la mancata collaborazione «unicamente dalla persistenza dell’adesione ai “valori criminali” e dal mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza» (§118). Analogamente, l’equivalenza tra collaborazione e ravvedimento può non essere vera, potendo il condannato aiutare le autorità «con l’unico proposito di ottenere i vantaggi previsti dalla legge» (§119), fuori dunque da ogni autentica dissociazione o emenda. Infine, l’equivalenza tra mancata collaborazione e presunzione assoluta di pericolosità sociale, annulla il reo nel suo reato, «invece di tener conto del percorso di reinserimento e degli eventuali progressi compiuti dalla condanna» (§128). Pertanto, «questa pena perpetua non può essere qualificata come comprimibile ai sensi dell’articolo 3 CEDU» (§137). Da qui l’accertata violazione della dignità umana, «situata al centro del sistema creato dalla Convenzione, [che] impedisce di privare una persona della sua libertà, senza operare al tempo stesso per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di riguadagnare un giorno questa libertà» (§136). 4.2. Come segnala il giudice a quo, con la sentenza Viola c. Italia n° 2 la Corte EDU «ha preso in esame una vicenda pienamente sovrapponibile a quella oggetto di questo procedimento». Di più. Essa conferma una consolidata giurisprudenza dei giudici di Strasburgo Traccia per la discussione XXIII (di cui l’atto di promovimento ricorda le tappe) che ammette la compatibilità convenzionale dell’ergastolo, purché de jure e de facto riducibile: «l’esistenza, invece, di preclusioni assolute all’accesso alla liberazione condizionale si risolve in un trattamento inumano e degradante[…]; e ciò perché, in tal modo, il detenuto viene privato del diritto alla speranza» (così il giudice a quo, parafrasando la sentenza della Corte EDU, Grande Camera, Vinter e altri c. Regno Unito, 9 luglio 2013). Da qui la scelta di porre alla Corte costituzionale «il tema della compatibilità della normativa interna con la Convenzione, sì come interpretata dalla Corte EDU, alla luce del parametro costituzionale dell’art. 117». 4.3. Diversamente da quanto accaduto in occasione della recente sent. n. 253/2019, la Corte costituzionale è così chiamata espressamente a scrutinare la normativa impugnata alla luce del rispetto degli obblighi internazionali pattizi. Quali margini di autonomia le residuano nei confronti della valutazione già compiuta dai giudici di Strasburgo? La ricaduta domestica della violazione convenzionale - in casi come questo - non è, automaticamente, l’incostituzionalità della normativa impugnata? Singolarità o continuità della quaestio? 5.1. Nell’economia dell’atto di promovimento, centrale è il richiamo alla recente sent. n. 253/2919 assunta, unitamente alla sentenza Viola c. Italia n.° 2 della Corte EDU, a «importante banco di prova su cui verificare se possa ancora dirsi valido il pregresso orientamento della Corte di Cassazione» contrario a sollevare incidentalmente la quaestio. Il giudice a quo ne riassume così la ratio decidendi: la mancata collaborazione con la giustizia, pretesa dall’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., si traduce illegittimamente, [1] in un aggravio delle modalità di esecuzione della pena; [2] trasfigura, deformandolo, il diritto al silenzio che non può disconoscersi ad alcun detenuto; [3] preclude alla magistratura di sorveglianza l’esercizio della propria funzione istituzionale di vaglio nel merito delle richieste dei detenuti; [4] ignora i possibili mutamenti della personalità del reo e del contesto esterno al carcere correlati al tempo trascorso in detenzione. Da qui la causa della dichiarata incostituzionalità: «in riferimento, dunque, alla espiazione della pena, specie se di lunga durata, presunzioni di tal fatta non possono che essere relative, dovendo sempre ammettersi la possibilità di una valutazione in concreto dell’incidenza avuta dal trattamento penitenziario sulla personalità del detenuto, proprio in conformità alle previsioni dell’art. 27, comma 3, Cost.». Qui, ad adiuvandum, l’atto di promovimento avrebbe potuto utilmente valorizzare anche la recente e ancor più radicale sent. n. 263/2019 secondo cui, nell’ordinamento penitenziario minorile, non può essere lasciato spazio alcuno a presunzioni di pericolosità di sorta, nemmeno se relative. 5.2. Nella prospettiva del giudice a quo la sent. n. 253/2019 avrebbe il suo XXIV Traccia per la discussione bersaglio principale nel carattere assoluto della presunzione legislativa incapsulata nell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., le cui ragioni di incostituzionalità varrebbero indipendentemente dal tipo di beneficio penitenziario precluso. Muovendo da questo assunto, contro l’identico meccanismo ostativo alla liberazione condizionale possono estendersi «le argomentazioni contenute in detta sentenza, benché essa abbia avuto ad oggetto soltanto – negli stretti limiti della devoluzione – il tema della concedibilità dei permessi premio e non di altri benefici». Davvero le argomentazioni della sent. n. 253/2019 possono valere anche per la questione ora in esame? O, invece, quella pronuncia presenta peculiarità tali da non giustificare l’estensione della sua ratio decidendi alla quaestio ora all’attenzione della Corte costituzionale? 5.3. La prima peculiarità – già ricordata supra, §3.4 – è la preliminare affermazione fatta dai giudici costituzionali nel definire «correttamente» il thema decidendum e i termini delle questioni di legittimità costituzionale allora in esame (che non includevano l’art. 2, decreto legge n. 152 del 1991, conv. con modificazioni nella legge n. 203 del 1991): esse «non riguardano la legittimità costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo». 5.4. La seconda peculiarità attiene al differente statuto giuridico della liberazione condizionale (art. 176 c.p.) rispetto a quello del permesso premio (art. 30-ter ord. penit.). Essa, infatti, non è un discrezionale beneficio penitenziario, bensì una causa estintiva della pena che opera sul piano del diritto sostanziale, cui il detenuto ha diritto in presenza dei requisiti di legge. La sua è una finalità strettamente correlata al reinserimento sociale del detenuto, diversamente dal permesso premio, l’accesso al quale è consentito principalmente per la cura di interessi affettivi, culturali e di lavoro (e solo in via mediata riconducibile al finalismo rieducativo delle pene). Tutto ciò si riflette sui presupposti di legge, ben diversi, necessari per la loro concessione. 5.5. Non è un indizio della differenza tra quanto la Corte costituzionale è chiamata ora a decidere e quanto ha già deciso nella sent. n. 253/2019, il suo mancato ricorso alla declaratoria di illegittimità consequenziale – ex art. 27, ult. periodo, legge n. 87 del 1953 – per estendere la rimozione dell’ostatività all’accesso al permesso premio anche a tutti gli altri benefici preclusi (liberazione condizionale compresa)? Tecniche decisorie per risolvere la quaestio 6.1. La questione promossa dalla Cassazione nasce in relazione al reato ostativo di partecipazione ad associazione di tipo mafioso e di agevolazione della stessa. Nell’ipotesi di accoglimento della quaestio, ricalcando quanto già accaduto con sent. n. 253/2019, è ipotizzabile il ricorso alla tecnica dell’illegittimità consequenziale, per allargare l’accertata incostituzionalità a tutti gli altri reati inclusi nell’elenco dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit.? Traccia per la discussione XXV 6.2. Nell’ipotesi di accoglimento della quaestio, è ipotizzabile il ricorso alla tecnica dell’illegittimità consequenziale per correggere l’automatismo dell’art. 4bis, comma 1, ord. penit., in relazione a tutte le residue misure alternative precluse al detenuto non collaborante? Rimossa tramite giudicato costituzionale l’ostatività penitenziaria per la tappa iniziale (il permesso premio) e per quella finale (la liberazione condizionale) del percorso trattamentale del detenuto, non sarebbe del tutto irragionevole mantenerla per le tappe intermedie? 6.3. Il problema di costituzionalità posto dal giudice a quo investe, nella sua declinazione più acuta, il delicato bilanciamento tra «una scelta di politica criminale, adottata per finalità di prevenzione generale e di sicurezza collettiva» (sent. n. 253/2019), da un lato, e i principi di proporzione, individualizzazione e risocializzazione della pena, dall’altro. Spetta in primo luogo al legislatore garantirne l’equilibrio. Potrebbe la Corte costituzionale limitarsi ad accertare l’illegittimità dell’attuale assetto normativo, rinviandone la formale dichiarazione ad una successiva udienza, dando così un tempo definito al Parlamento per risolvere quello che, secondo la sentenza Viola c. Italia n°2, è «un problema strutturale» (§141) che «impone allo Stato di attuare, di preferenza per iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione dell’ergastolo» (§142)? O, invece, una simile tecnica decisoria (cfr. ord. n. 207/2018 e sent. n. 249/2019 in tema di agevolazione al suicidio; ord. n. 132/2020 in tema di diffamazione a mezzo stampa) è da ritenersi tendenzialmente inadeguata in materia di diritti e di libertà, dove sul principio di leale collaborazione dovrebbe prevalere la natura contro-maggioritaria del sindacato di costituzionalità delle leggi? Nel caso di specie, infatti, la sospensione dell’udienza con suo rinvio a data certa si tradurrebbe concretamente in un prolungamento della reclusione in carcere, sia della parte privata del giudizio a quo, sia di tutti gli altri ergastolani “ostativi” non collaboranti che si trovino nelle condizioni di poter chiedere (e magari ottenere) l’accesso alla liberazione condizionale. Il seguito giurisdizionale della quaestio 7.1. Nell’ipotesi di accoglimento della quaestio, per superare l’originaria ostatività alla liberazione condizionale in caso di condanna all’ergastolo, saranno sufficienti i «criteri di particolare rigore» oggi richiesti per l’accesso al permesso premio, che il dispositivo della sent. n. 253/2019 indica nell’acquisizione di «elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti»? O, invece, si deve ritenere che una simile prova negativa circa l’inesistenza di un fatto futuro, configuri un’impraticabile probatio diabolica? 7.2. Analogamente, dovrà estendersi anche il quadro probatorio rafforzato tracciato nella sent. n. 253/2019, laddove indica l’obbligo (per la magistratura di XXVI Traccia per la discussione sorveglianza) di acquisire dettagliate informazioni da parte della Procura nazionale antimafia, della Procura distrettuale, del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, nonché l’onere (per il detenuto richiedente) di «specifiche allegazioni» se non di «veri e propri elementi di prova» a sostegno della sua richiesta? O, invece, e quanto meno per l’aggravio probatorio posto a carico del detenuto, si deve ritenere necessario un apposito intervento legislativo? Quella inversione probatoria, non presente nel dispositivo della sent. n. 253/2019 ma solo nella sua motivazione, davvero può considerarsi incluso nel relativo giudicato costituzionale, dunque capace di imporsi erga omnes e con effetti ex tunc? 7.3. A seguito della sent. n. 253/2019 si è posto il problema se la disciplina della collaborazione comunque inesigibile (ex art. 4-bis, comma 1-bis, ord. penit.) abbia ancora o meno uno spazio applicativo: che senso avrebbe, infatti, accertare una condizione necessaria a superare una preclusione assoluta che non è più tale? Sul punto, la giurisprudenza di legittimità oscilla tra la tesi dell’abrogazione per incompatibilità con il giudicato costituzionale (Cassazione, I sez. pen., 14-27 gennaio 2020, n. 3307, P.G.), la tesi della non collaborazione quale tertium genus tra collaborazione prestata e collaborazione inesigibile (Cassazione, I sez. pen., 28 gennaio-12 febbraio 2020, n. 5553, Grasso) e la tesi che reputa più confacente al rango dei valori in gioco non arrestarsi al profilo formale della persistenza o meno dell’interesse all’accertamento dell’inesigibilità della collaborazione, esaminando comunque il merito della richiesta (Cassazione, I sez. pen., 21 febbraio 2020, n. 12554, Torrisi; Cassazione, I sez. pen., 21 febbraio 2020, n. 12555, Guglielmino). Nell’ipotesi di accoglimento della quaestio ora all’esame della Corte costituzionale, a fortiori, il problema si riproporrà, specialmente se l’ostatività penitenziaria venisse meno per tutti i benefici penitenziari: come risolverlo? Potrà la sua sentenza contribuire – con un opportuno obiter dictum – a orientare costituzionalmente la giurisprudenza oggi non univoca della Cassazione? Il seguito legislativo della quaestio 8.1. La Commissione parlamentare antimafia, il 20 maggio scorso, ha approvato la Relazione sull’istituto di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale. Il documento, pur prendendo atto – alla luce della giurisprudenza più recente della Corte EDU e della Corte costituzionale – che «la preclusione assoluta in mancanza di collaborazione non è più compatibile con la Costituzione e con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo» (§3.4), ribadisce che la presunzione assoluta di pericolosità ex art. 4-bis, comma 1, ord. penit., «ha costituito un meccanismo fondamentale nel processo di smantellamento delle organizzazioni criminali» (§5). Tanto premesso, la sua trasformazione in presunzione relativa «non può che essere supportata da nuove soluzioni normative» (§5). Traccia per la discussione XXVII 8.2. A tal fine, la relazione prefigura «un altro tipo di doppio binario» (§5) nelle procedure di accertamento dei requisiti per l’ammissione del non collaborante ai richiesti benefici penitenziari. Per i reati associativi dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. – nel solco della sent. n. 253/2019 - andranno acquisiti «elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti», la cui congruità e specificità sono dettagliate – in via esemplificativa – nel testo del documento. Centrale, nella verifica di tali elementi, sarà il ruolo della Procura antimafia e antiterrorismo, e del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Per l’acquisizione, da parte del giudice di sorveglianza, dei relativi pareri, si ritiene adeguato «un termine di trenta giorni, prorogabile una sola volta». Per tutti gli altri reati non associativi inclusi nell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., ai fini della concessione del beneficio richiesto andrà valutata «l’attualità della pericolosità sociale del condannato e i rischi connessi ad un reinserimento nella società». A tal fine, si dovrà prevedere l’acquisizione dei pareri del procuratore della Repubblica e del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica competenti. La conseguente valutazione del magistrato di sorveglianza dovrà basarsi su «nuovi elementi», esemplificativamente indicati nel testo del documento. Per entrambe le categorie di delitti, la concessione del beneficio andrà condizionata anche all’«adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato […], salvo che il condannato istante dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle». 8.3. La relazione, inoltre, avanza due soluzioni alternative per la riforma delle regole sulla competenza a concedere i benefici richiesti. Una prima ipotesi – in analogia a quanto già previsto dall’art. 41-bis, comma 2-quinquies, ord. penit. – prevede «una giurisdizione esclusiva in capo al tribunale di sorveglianza di Roma», ovviando così al rischio di orientamenti giurisprudenziali eterogenei e difformi pur in situazioni identiche o analoghe. Varie sono le soluzioni prospettate per l’eventuale reclamo giurisdizionale, compresa la sua esclusione a favore di un «ricorso in Cassazione per saltum». Una seconda ipotesi introduce un ulteriore «doppio binario», differenziando la competenza in base alla tipologia dei reati: [a] per quelli associativi, di mafia e di criminalità organizzata, eversiva o terroristica e per traffico di stupefacenti, la competenza andrà attribuita «al tribunale di sorveglianza territoriale», assicurando così una valutazione collegiale, assunta peraltro in udienza partecipata dalla pubblica accusa. Anche in questo caso sono diverse le soluzioni prospettate per l’eventuale reclamo giurisdizionale, non esclusa quella di un «ricorso in Cassazione per saltum». [b] per gli altri reati di natura monosoggettiva previsti all’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., «rimarrebbe ferma l’attuale competenza del magistrato di sorveglianza con reclamo al tribunale di sorveglianza territorialmente competente». 8.4. Il nuovo assetto così prefigurato dalla Commissione varrà anche nei casi di collaborazione inesigibile o irrilevante: tutte le ipotesi di mancata collaborazione XXVIII Traccia per la discussione con la giustizia verrebbero così sottoposte a identico regime. L’ipotesi di collaborazione con la giustizia, invece, viene confermata «sia quale condizione “privilegiata” di accesso ai benefici sia ai fini di quanto previsto dall’art. 58-ter, ord. penit.». In ultimo, la Commissione sottolinea l’opportunità di coordinare l’art. 4-bis, ord penit., «con l’aggiunta del beneficio della liberazione condizionale»: par di capire, dunque, che non si escluda la possibilità di una sua concessione anche nell’ipotesi (ora al vaglio della Corte costituzionale) di non collaborazione dell’ergastolano con la giustizia. 8.5. Il nuovo assetto ordinamentale così configurato può dirsi adeguato alle indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza costituzionale e convenzionale, maturate in tema di ostatività penitenziaria? In particolare, l’introduzione in corso d’opera di oneri dimostrativi rafforzati anche in caso di collaborazione inesigibile (più gravosi di quelli oggi richiesti ex art. 4-bis, comma 1-bis, ord. penit.) non contraddice quanto deciso dalla Corte costituzionale, con sent. n. 32/2020, circa il divieto di applicazione retroattiva per le norme penitenziarie idonee a trasformare, in peius, la natura della pena e ad incidere concretamente sulla libertà personale? La caratura ordinamentale della quaestio 9.1. L’ordinamento prevede diverse tipologie di ergastolo, molte delle quali nel tempo sono venute meno, per intervento del Giudice delle leggi o del Legislatore: è accaduto all’ergastolo per i minori (sent. n. 168/1994), al c.d. ergastolo bianco per gli internati negli ospedali psichiatrici giudiziari (decreto legge n. 52 del 2014, conv. con modificazioni dalla legge n. 81 del 2014), all’ergastolo ostativo aggravato per i sequestratori-omicidi (sent. n. 149/2018). Quanto all’ergastolo comune, esso ha perso la sua natura di pena perpetua in ragione del possibile accesso del condannato alla liberazione condizionale tramite provvedimento giurisdizionale (sentt. nn. 204 e 264/1974). La quaestio ora all’esame della Corte costituzionale crea le condizioni per il superamento dell’ultima, effettiva, forma residua di carcere a vita, cioè di pena fino alla morte. Ciò non consentirebbe un allineamento con la scelta costituzionale di ripudiare la morte come pena, espressa inequivocabilmente dal riformato art. 27, comma 4, Cost.? L’ERGASTOLO OSTATIVO È COSTITUZIONALE? RELAZIONE INTRODUTTIVA di MARCO RUOTOLO SOMMARIO: 1. L’ergastolo ostativo al vaglio della Corte costituzionale: i termini della questione – 2. La specifica vicenda oggetto del giudizio a quo – 3. Gli effetti preclusivi della mancata collaborazione – 4. Un primo profilo (superabile) di possibile inammissibilità della questione, connesso al petitum dell’ordinanza di rimessione. - 5. Una questione astratta o “coperta” da specifico precedente? – 6. Verso l’accoglimento della questione: la possibile applicazione della ratio decidendi della sent. n. 253/2019 – 7. Incursus: la particolare posizione dei condannati in regime di 41-bis – 8. Da una presunzione assoluta a una presunzione “semi-assoluta”? – 9. Una soluzione compatibile con la giurisprudenza di Strasburgo? – 10. Una possibile alternativa decisoria, per consentire l’intervento del legislatore – 11. Tra collaborazione, ravvedimento e rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata. Le aporie dell’attuale sistema – 12. L’incostituzionalità della «pena di morte diluita giorno per giorno». 1. Ringrazio per l’invito gli organizzatori del Seminario preventivo ferrarese, dedicato alla questione di legittimità costituzionale sollevata il 18 giugno 2020 dalla Corte di Cassazione, I sezione penale, avente per oggetto il c.d. ergastolo ostativo1. È un’occasione (l’ennesima) per riflettere su temi a me cari, che eviterò di sfruttare per riproporre considerazioni di sistema già offerte in diversi scritti2. Queste resteranno sullo sfondo, riemergendo solo parzialmente nella parte del mio lavoro dedicata al merito della questione. Penso, così, di poter rispondere in modo più adeguato a quanto mi è stato chiesto: offrire una riflessione introduttiva al nostro Seminario, saldamente ancorata alla specifica questione di legittimità costituzionale e perimetrata attorno alle argomentazioni offerte dalla Cassazione. L’oggetto della questione riguarda la norma emergente dal concorso di più disposizioni (artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni nella legge 12 luglio 1991, n. 203), che, per l’ipotesi di mancata collaborazione con la giustizia, preclude l’accesso alla liberazione condizionale del condannato all’ergastolo per uno dei delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod.  Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Roma Tre. L’ordinanza di rimessione, pubblicata in G.U. 19 agosto 2020, n. 34, è iscritta al n. 100 del registro ordinanze del 2020 della Corte costituzionale. 2 Mi limito a richiamare M. RUOTOLO, Diritti dei detenuti e Costituzione, Giappichelli, Torino 2002, e ID., Dignità e carcere, II ed., Editoriale Scientifica, Napoli 2014. Aggiungo, per il fatto di riferirsi specificamente alla giurisprudenza costituzionale riguardante i diritti nell’esecuzione penale, la relazione che ho svolto in occasione del Convegno organizzato dalla Corte costituzionale per la celebrazione dei sessant’anni della sua attività: M. RUOTOLO, Tra integrazione e maieutica: Corte costituzionale e diritti dei detenuti, in CORTE COSTITUZIONALE, Per i sessanta anni della Corte costituzionale, Atti del Convegno svolto in Roma, nei Palazzi del Quirinale e della Consulta, il 19 e 20 maggio del 2016, Giuffrè, Milano 2017, 527 ss. (la relazione è disponibile anche nella Rivista della Associazione Italiana dei Costituzionalisti, www.rivistaaic.it). 1 2 Marco Ruotolo pen. (metodo mafioso) ovvero al fine di agevolare le attività delle associazioni in esso previste. Tale norma violerebbe, secondo il rimettente, gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. per la «irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e di progressività del trattamento», nonché l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto contrastante con l’“obbligo internazionale” di cui all’art. 3 CEDU (divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti), poiché la presunzione assoluta di pericolosità ancorata alla mancanza di collaborazione sarebbe d’ostacolo alla possibilità di riscatto del condannato, così assoggettato ad una pena “immutabile” e dunque non effettivamente riducibile, come invece richiesto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (in particolare nella sentenza Viola contro Italia n. 2, 13 giugno 2019, divenuta definitiva il 7 ottobre 2019). 2. Il giudizio a quo è originato dal ricorso in cassazione contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza de L’Aquila che ha dichiarato inammissibile la richiesta di accesso alla liberazione condizionale presentata da un condannato all’ergastolo per delitto incluso nella categoria dei reati “ostativi” alla concessione dei benefici penitenziari (ex art. 4-bis, comma 1, legge n. 354 del 1975), non collaborante con la giustizia (art. 58-ter, comma 1, legge n. 354 del 1975), che in precedenza si è visto più volte respingere l’istanza rivolta ad accertare la collaborazione impossibile (ex art. 4-bis, comma 1-bis, legge n. 354 del 1975). Nel ricorso in cassazione si lamenta l’illegittimità del provvedimento impugnato, non avendo il giudice considerato le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza sovranazionale, «secondo cui il difetto di collaborazione non può essere elevato ad indice invincibile di pericolosità sociale». Il Tribunale di sorveglianza de L’Aquila, peraltro respingendo l’istanza di parte rivolta alla sollevazione della questione di costituzionalità, non ha esaminato nel merito la richiesta del detenuto, tendente a mettere in rilievo la proficua partecipazione al percorso rieducativo, proprio in ragione della presenza di due preclusioni: quella che deriva dalle precedenti decisioni di inammissibilità dell’istanza di accertamento di impossibilità/inesigibilità della collaborazione e quella, appunto, derivante dall’applicazione della norma censurata, che non consente l’apprezzamento di quanto dedotto dal ricorrente, in ragione della natura del delitto oggetto della condanna in esecuzione e del requisito necessario della collaborazione con la giustizia (o, in sua vece, dell’impossibilità o inesigibilità della stessa). Ciò nonostante, al momento della decisione impugnata nel giudizio a quo, fosse decorso il termine minimo di ventisei anni, imposto dall’art. 176 cod. pen., per l’accesso alla liberazione condizionale di un condannato all’ergastolo, che nel caso di specie ha subito 19 anni, 9 mesi e 26 giorni di reclusione, cui si aggiungono 2655 giorni per liberazione anticipata, ormai computati nel periodo di pena espiata (per un totale di più di 27 anni)3. 3 Ciò a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale del divieto di ammettere i condannati all’ergastolo al godimento degli “sconti di pena” consentiti dal predetto istituto (sent. n. 274/1983 della Corte costituzionale, cui ha fatto seguito l’inserimento di specifica previsione in tal senso nel comma 4 dell’art. 54 della legge n. 354 del 1975, ad opera dell’art. 18 della legge 10 ottobre 1986, n. 663). L’ergastolo ostativo è costituzionale? 3 Per completezza, occorre ricordare che il ricorrente nel giudizio a quo sta espiando la pena dell’ergastolo in forza di un provvedimento di cumulo in cui sono comprese tre sentenze di condanna per i seguenti reati: omicidio, tentato omicidio, detenzione e porto illegale di armi, anche clandestine, lesioni personali e rapina aggravata (prima condanna ad anni trenta di reclusione); partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso (seconda condanna ad anni cinque e mesi quattro di reclusione); omicidio aggravato ai sensi dell’art. 7 della legge n. 203 del 1991 (metodo mafioso o agevolazione di associazioni di tipo mafioso) e delitti concernenti la violazione delle disposizioni sulle armi (terza condanna all’ergastolo con isolamento diurno per anni uno). Proprio l’ultima pronuncia – afferma il giudice a quo – «assume esclusivo rilievo nella vicenda in esame», avendo inflitto la pena dell’ergastolo per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, secondo la formula utilizzata dall’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975. L’ergastolo ostativo interessa complessivamente ben 1271 persone detenute per reati inclusi nel predetto art. 4-bis, ossia il 71% degli attuali 1800 condannati alla pena dell’ergastolo4. 3. Entro questa cornice deve essere collocata la questione di legittimità costituzionale, rivolta a “far saltare” la preclusione che in caso di mancata collaborazione impedisce di valutare “altri elementi concreti” che possano dimostrare l’assenza di legami attuali del detenuto con la criminalità organizzata, consentendo dunque una diversa valutazione prognostica sull’assenza di pericolosità sociale. Ai fini della liberazione condizionale, l’art. 176 cod. pen. richiede, tra l’altro, un accertamento giudiziale circa il «sicuro ravvedimento» del condannato, che si traduce nel riscontro in concreto di importanti traguardi 4 Dati aggiornati al 1° settembre 2020, forniti dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale nel suo Amicus Curiae depositato l’8 settembre 2020 presso la Corte costituzionale e reperibile all’indirizzo www.amicuscuriae.it. I numeri (e la relativa percentuale) potrebbero scendere ove si consolidasse l’orientamento giurisprudenziale, di recente inaugurato dal Tribunale di sorveglianza di Firenze con l’ordinanza 3 novembre 2020, n. 3341, secondo il quale la preclusione esaminata non opera ove i fatti per i quali si è subita sentenza di condanna siano stati commessi antecedentemente alla normativa che l’ha introdotta (così valorizzando un’affermazione contenuta nella sent. n. 32/2020 della Corte costituzionale, in quanto anche le norme disciplinanti l’esecuzione della pena, ove determinanti una trasformazione della pena o incidenti sulla libertà personale, sarebbero soggette al principio di irretroattività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.). Nel caso di specie, riguardante un condannato “ostativo”, “non collaborante per scelta”, per fatti commessi nel 1990 (dunque prima dell’introduzione del requisito della collaborazione con la giustizia nel testo dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, operato con l’art. 15, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 1992, n. 356), la liberazione condizionale è stata così concessa in ragione del rilevato “sicuro ravvedimento”, «considerata l’irreprensibile condotta, la piena revisione critica del fatto, il buon esito dei permessi premio, usufruiti per lungo tempo anche nei luoghi di origine di commissione dei reati, l’attuale fruizione regolare di semilibertà e, infine, la natura e il tipo del percorso esterno elaborato dagli operatori penitenziari». Su tale vicenda vedi, in questo stesso volume, M. PASSIONE, La pena è nota. (A proposito di un’innovativa ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Firenze). 4 Marco Ruotolo trattamentali, che consentano «il motivato apprezzamento della convinta revisione critica delle scelte criminali di vita anteatta e la formulazione – in termini di certezza, ovvero di elevata e qualificata probabilità confinante con la certezza – di un serio, affidabile e ragionevole giudizio prognostico di pragmatica conformazione della futura condotta di vita del condannato al quadro di riferimento ordinamentale e sociale, con cui egli entrò in conflitto con la commissione dei reati per i quali ebbe a subire la sanzione penale»5. Valutazione, questa, che è in limine impedita per l’ergastolano ostativo. La preclusione assoluta collegata alla mancata collaborazione non opera, in base alla disciplina vigente, per le ipotesi in cui la collaborazione risulti “inesigibile” (limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso), “impossibile” (per integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato nella sentenza di condanna), “oggettivamente irrilevante”6. Si tratta di ipotesi la cui considerazione si è imposta a seguito di puntuali pronunce della Corte costituzionale7, le quali si fondano sul dichiarato assunto per cui la prevista preclusione può operare solo a fronte del rifiuto di una «collaborazione oggettivamente esigibile», che sia, in sé, «naturalisticamente e giuridicamente “possibile”»8. Solo successivamente il legislatore le ha espressamente contemplate, modificando sul punto l’art. 4-bis della legge n. 354 del 19759. 4. Diversi sono i profili che meritano di essere trattati nella mia introduzione, seguendo anche i punti indicati nella traccia per la discussione messa a disposizione dagli organizzatori del Seminario10. Cercherò di affrontarli con particolare attenzione ad ogni loro implicazione, come è d’obbligo per una questione così delicata. Nella convinzione che ogni parola pesi sempre per il giurista, non soltanto per i giudici costituzionali chiamati a scrivere sentenze, ma pure per chi si appresta a svolgere una relazione o a redigere un articolo di dottrina. È un peso che va enfatizzato quale comune responsabilità del giurista, serio e coscienzioso, lasciando da parte il dato dell’ovvia diversità delle funzioni. L’esame della questione richiede una preliminare trattazione degli aspetti che interessano la sua ammissibilità. Il primo profilo di possibile inammissibilità interessa la specifica posizione del detenuto ricorrente nel giudizio a quo e si lega al petitum della questione di 5 Così Cass. pen., Sez. I: sent. 24 aprile 2007, n. 18022; sent. 4 febbraio 2009, n. 9001; sent. 17 luglio 2012, n. 34946. 6 Sempre che, in tal caso, siano state applicate circostanze attenuanti, in ragione della riparazione del danno o del compimento di azioni rivolte ad attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero perché l’opera prestata ha avuto minima importanza nella preparazione o esecuzione del reato ovvero in quanto il delitto commesso sia stato diverso da quello voluto da uno dei concorrenti. 7 Sentt. nn. 306/1993, 357/1994, 68/1995. 8 Corte cost., sent. n. 89 del 1999. 9 Dapprima con intervento sul comma 1, operato con l’art. 1 della legge 23 dicembre 2002, n. 279, poi con l’inserimento di un apposito comma 1-bis, introdotto dall’art. 3, comma 1, del decretolegge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni nella legge 23 aprile 2009, n. 38. 10 La traccia, disponibile sul sito www.amicuscuriae.it, è pubblicata anche in questo volume. L’ergastolo ostativo è costituzionale? 5 legittimità costituzionale, limitato all’ipotesi della esclusione dell’accesso alla liberazione condizionale per il condannato per delitti commessi con metodo mafioso o al fine di agevolare le associazioni previste nell’art. 416-bis cod. pen. Come già ricordato, il detenuto ha subito un cumulo di pene, che comprendono anche reati di cui all’art. 416-bis cod. pen. (partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso). Al riguardo, potrebbe ritenersi, diversamente da quanto affermato dal giudice a quo, che non assuma «esclusivo rilievo nella vicenda in esame» la condanna all’ergastolo per il reato di omicidio aggravato dal metodo mafioso o dal fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, ma che debba essere considerata anche la condizione di “partecipe” al consesso criminale che emerge (almeno) dalla seconda sentenza di condanna oggetto di cumulo (come avviene quando si debba valutare la richiesta di collaborazione inesigibile o impossibile)11. Vero è che l’eventuale accoglimento della questione permetterebbe di fuoriuscire dall’ambito della collaborazione inesigibile o impossibile consentendo l’esame dell’istanza del detenuto nella qualità di “non collaborante per scelta”, ma ciò, si potrebbe ritenere, a condizione che questi sia stato condannato esclusivamente per delitti commessi con metodo mafioso o al fine di agevolare le associazioni previste nell’art. 416-bis cod. pen. Fuori da questo perimetro, la dichiarazione di incostituzionalità, in quanto delimitata dal petitum del giudice a quo, non sarebbe idonea a rimuovere l’attuale ostacolo normativo all’ottenimento della liberazione condizionale (o meglio all’esame della relativa istanza). Ecco, probabilmente, perché, come si evince dall’ordinanza di rimessione, il ricorrente aveva prudenzialmente richiesto al giudice di sorveglianza di sollevare la questione di legittimità costituzionale in termini più ampi, riferiti alla stessa norma censurata, ma nella parte in cui, in assenza di collaborazione, «non consente alla magistratura di sorveglianza di valutare la ricorrenza dei presupposti per la concedibilità della liberazione condizionale in favore dei condannati per reati rientranti nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, l. n. 354 del 1975»12. Quanto sin qui illustrato potrebbe tradursi nell’affermazione dell’assenza di rilevanza della questione, poiché la decisione nel merito della Corte non sarebbe in grado di influire sul giudizio a quo. Si tratta, però, di un ostacolo superabile ove si riconosca rilievo esclusivo alla terza condanna subita dal detenuto (per il reato di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 7 della legge n. 203 del 1991) e dunque al fatto che le pene irrogate con le altre due pronunce comprese nel cumulo siano state ormai integralmente espiate, come i tempi indicati lasciano presagire (la prima decisione è del 1988 ed è divenuta irrevocabile nel 1989) e secondo quanto il rimettente asserisce sulla base di specifico richiamo ad una pronuncia del Tribunale di sorveglianza de L’Aquila del 14 maggio 2013. Tale superamento si giustifica ulteriormente in ragione della esigenza, già manifestata dalla Corte costituzionale, 11 Ai fini dell’accertamento della inesigibilità o impossibilità della collaborazione, la Cassazione ha più volte ritenuto, infatti, che debbano considerarsi tutti i reati rientranti nel cumulo, anche quelli non ostativi ma ad essi finalisticamente connessi: tra le altre, Cass. pen., Sez. I, sent. 3 ottobre 2014, n. 43391, sent. 3 maggio 2016, n. 44163 e, più di recente, sent. 25 maggio 2020, n. 18866. 12 Ho riportato testualmente quanto compreso all’inizio del Considerato in diritto dell’ordinanza di rimessione. 6 Marco Ruotolo per cui la disciplina del cumulo delle pene non può «mai risolversi in un danno per il condannato»; «ove determinati effetti penali negativi fossero collegati alle singole pene e non fossero altrimenti determinabili se non in rapporto ad una loro autonoma e distinta valutazione», le pene dovrebbero «riacquistare la loro individualità, previo scioglimento temporaneo e parziale del cumulo»13. Il che assume particolare rilievo con riguardo alla concessione dei benefici penitenziari14, tanto è vero che ove si debba espiare una pena inflitta anche per un reato ostativo alla loro fruizione, la pena espiata va imputata anzitutto ad esso15. Di qui la possibilità di considerare in via esclusiva, come affermato dal giudice a quo, la sola terza condanna, sui contenuti della quale è definito il petitum dell’odierna questione di legittimità costituzionale. 5. Ove si ritenga di superare l’ostacolo appena individuato, meno consistente sarebbe il più generico rilievo circa il fatto che l’eventuale decisione di accoglimento non determinerebbe, automaticamente, la concessione della liberazione condizionale a favore del detenuto ricorrente in cassazione. L’influenza della decisione della Corte costituzionale per la risoluzione del giudizio principale deve, infatti, essere apprezzata con riguardo al fatto che si restituisce al giudice la possibilità di valutare il percorso rieducativo del condannato, come elemento che può rilevare, in concorso con altri, ai fini della concessione della misura, pur in assenza di collaborazione. Sono confortato sul punto dalla recente sentenza n. 253/2019, riguardante la possibilità di concedere permessi premio ai condannati per reati ostativi, ove la Corte afferma perentoriamente, richiamando tra l’altro la sent. n. 170/2019, che, «per l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale, è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo, senza che rilevino gli effetti di una eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale per le parti in causa». Di là dall’utilità concreta di cui la parte in causa potrebbe beneficiare a seguito della decisione, l’eventuale accoglimento della questione «influirebbe di certo sul percorso argomentativo che il rimettente dovrebbe a questo punto seguire per decidere sulla richiesta del detenuto»16, proprio in ragione del fatto che verrebbe meno la norma 13 Sent. n. 361/1994. V., ad es., Cass. pen., Sez. I, sent. 18 marzo 2009, n. 15954, e, già, Cass., Sezioni Unite, sent. 30 giugno 1999, n. 14. 15 In sostanza, in applicazione del principio dello scioglimento del cumulo, la parte di pena espiata (comprensiva di quella subita a titolo cautelare e dei giorni di liberazione anticipata che siano stati maturati) va attribuita ai reati ostativi alla concessione del beneficio richiesto (c.d. scorporo). Cfr. Cass. pen., Sez. I: sent. 22 marzo 1999, n. 613; sent. 14 novembre 2001, n. 45735; sent. 12 giugno 2006, n. 14563. Nel nostro sistema è prevista una specifica eccezione normativa al principio dello scioglimento del cumulo (il che conferma, indirettamente, come lo stesso, ancorché di creazione giurisprudenziale, abbia ormai assunto valenza di principio generale): esclusivamente al fine dell’applicazione del regime della sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario, l’art. 41-bis, comma 2, della legge n. 354 del 1975, stabilisce, infatti, che, «in caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, la sospensione può essere disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nell’articolo 4-bis». 16 Come si legge nella sent. n. 253/2019; si veda, già, sent. n. 148/1983. 14 L’ergastolo ostativo è costituzionale? 7 che predetermina l’esito del processo, nel senso dell’inammissibilità della richiesta di accesso alla liberazione condizionale da parte del condannato non collaborante. Non ritengo poi preclusiva ad un esame nel merito della questione la presenza di una precedente decisione di infondatezza riguardante lo stesso tema, peraltro limitata al parametro dell’art. 27, terzo comma, Cost. Nella sent. n. 135/2003 la Corte ritenne, infatti, la questione infondata, valorizzando l’elemento della “scelta” del condannato nella decisione di non collaborare con la giustizia, la quale può cambiare nel tempo. Tale precedente non appare insuperabile anche in ragione delle successive evoluzioni giurisprudenziali, tra le quali possono senz’altro essere annoverate: la citata sentenza n. 253/2019, che ha “scardinato” il requisito dell’esercizio dell’utile collaborazione quale condizione imprescindibile (necessaria, sia pure non sufficiente) per l’accesso al permesso premio a favore dei condannati, a pena perpetua o temporanea, per reati ostativi17; la richiamata sentenza Viola della Corte EDU, che subordina la compatibilità convenzionale della normativa nazionale alla condizione che l’ergastolo sia pena de iure e de facto riducibile, perciò qualificando le preclusioni assolute all’accesso alla liberazione condizionale quali forme di trattamento inumano e degradante. Ma il discorso potrebbe estendersi e comprendere altre pronunce sia della Corte costituzionale sia della Corte EDU18, che hanno condotto ad una decisa valorizzazione dell’obiettivo della risocializzazione del condannato come componente necessaria dell’esecuzione della pena dell’ergastolo. Basti ricordare la sentenza della Grande Camera della Corte EDU del 9 luglio 2013, Vinter e altri contro Regno Unito, nella quale si indica come obbligo per gli Stati membri quello di consentire sempre che il condannato alla pena perpetua possa espiare la propria colpa, reinserendosi nella società dopo aver scontato una parte della propria pena, o la sent. n. 149/2018 della Corte costituzionale, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, legge n. 354 del 1975, nella parte in cui prevede che i condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 cod. pen. (sequestro di persona a scopo di estorsione), che abbiano cagionato la morte del sequestrato, non possano essere ammessi ai “benefici” penitenziari, se non abbiano espiato almeno ventisei anni di pena19. Tale rigida preclusione temporale è ritenuta incompatibile con l’esigenza di assicurare «progressività trattamentale e flessibilità»20, che 17 Analoga preclusione è stata poi rimossa integralmente a favore dei condannati minorenni a pena temporanea dalla sent. n. 263/2019, non potendo esprimersi, neppure in forma “relativa”, con riguardo sia ai benefici penitenziari sia alle misure alternative; si ricordi che per effetto della sent. n. 168/1994 è vietata l’applicazione della pena dell’ergastolo al minore imputabile. 18 Per un’analisi della giurisprudenza rilevante della Corte EDU si veda, in particolare, V. ZAGREBELSKY, La pena detentiva «fino alla fine» e la Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti, Atti del Seminario di Ferrara del 27 settembre 2019, in Forum dei Quaderni Costituzionali – Rassegna, 10/2019 (www.forumcostituzionale.it), 15 ss. 19 Nella sent. n. 149/2018 la dichiarazione di illegittimità costituzionale è stata estesa, in via consequenziale, alla fattispecie di sequestro di persona a scopo di terrorismo e di eversione. Con la successiva sent. n. 229/2019, la Corte ha adottato analoga decisione per tutte le richiamate fattispecie anche con riguardo ai condannati a pene detentive temporanee. 20 Secondo quanto già affermato nella sent. n. 255/2006. 8 Marco Ruotolo discende dai principi di proporzione e individualizzazione della pena21: «la personalità del condannato – scrive la Corte nella sent. n. 149/2018 – non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento». A venire in gioco è senz’altro «la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità», ma pure una «correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore – e la concreta concessione da parte del giudice – di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società». Come si usa dire, “in carcere entra la persona e non il reato che ha commesso” o, come ha affermato di recente il Garante nazionale delle persone private della libertà personale, «si va in carcere perché si è puniti e non per essere puniti»22. Per sintetizzare e chiudere questa parte dedicata ai profili preliminari, mi sentirei di escludere che la questione possa dirsi astratta o ipotetica, in ragione dell’affermata influenza che un’eventuale pronuncia di accoglimento avrebbe sul giudizio a quo, che si tradurrebbe presumibilmente nella cassazione con rinvio del provvedimento del magistrato di sorveglianza, affinché questi valuti in concreto le ragioni che hanno condotto il condannato alla scelta di non collaborare e tutti gli elementi che possano risultare utili per decidere in ordine alla concessione o meno della liberazione condizionale. Quanto al precedente rigetto, si rendono necessarie due osservazioni, una formale e l’altra, a mio avviso più consistente, per così dire sostanziale. Sotto il profilo formale, occorre sottolineare che le questioni sono tecnicamente diverse. A venire in rilievo nella questione decisa con la sent. n. 135/2003 era il solo parametro dell’art. 27, terzo comma, Cost., lamentandosi l’esclusione permanente dal processo rieducativo dell’ergastolano ostativo. Oggi, invece, il parametro dell’art. 27 è posto in connessione con l’art. 3 Cost., lamentandosi la «irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e di progressività del trattamento». A venire in rilievo è poi anche l’art. 117, primo comma, Cost., lamentandosi la violazione di un preciso “obbligo internazionale”, quale quello contenuto nell’art. 3 CEDU, per come interpretato dalla Corte EDU. Ebbene, non mancano precedenti, anche recenti, di pronunce di accoglimento che hanno seguito decisioni di non fondatezza (addirittura di manifesta infondatezza) in ragione della variazione del parametro, anche quando la “sostanza” della questione non fosse radicalmente mutata. Un esempio per tutti lo traggo dalla sent. n. 236/2016, in tema di dosimetria della pena per i delitti di alterazione di stato, che fa seguito a un’ordinanza di manifesta infondatezza, la n. 106/2007, riguardante il medesimo 21 Nella sent. n. 149/2018 la Corte ricorda il proprio orientamento che indica «come criterio “costituzionalmente vincolante” quello che esclude “rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata e caso per caso” nella materia dei benefici penitenziari (sentenza n. 436 del 1999)». 22 Relazione al Parlamento 2020, disponibile sul sito www.garantenazionaleprivatiliberta.it L’ergastolo ostativo è costituzionale? 9 oggetto. Con la questione più risalente si lamentava che la pena comminata per il reato di cui all’art. 567, secondo comma, cod. pen., fosse irragionevolmente più elevata di quella prevista per il reato di cui al primo comma del medesimo articolo, evocando come parametro il solo art. 3 Cost. La Corte rispose nel senso della manifesta infondatezza, affermando che «le fattispecie descritte dal primo comma (scambio di neonati senza commettere alcun falso) e dal secondo comma (falsa attestazione all’ufficiale dello stato civile in ordine alla identità dei genitori del neonato) dell’art. 567 del codice penale sono oggettivamente diverse perché, seppure in entrambe è tutelato il medesimo bene giuridico (l’interesse del minore alla verità dell’attestazione ufficiale della propria ascendenza), nel caso del primo comma la condotta consiste in uno scambio materiale di neonati, mentre la fattispecie prevista dal secondo comma si realizza mediante la commissione di altro reato (quello di falso ideologico, che non concorre con quello di alterazione di stato), rivelando una più intensa carica criminosa, di tal che il principio di eguaglianza appare rispettato, avendo il legislatore trattato, dal punto di vista sanzionatorio, situazioni diverse in modo diverso». A nove anni di distanza, la questione è stata accolta con una pronuncia sostitutiva che ha previsto per il reato di cui all’art. 567, secondo comma, cod. pen., la stessa pena edittale sancita per il delitto di cui al primo comma. Tale diverso esito è stato formalmente giustificato dalla Corte in ragione del fatto che il giudice a quo ha «richiesto uno scrutinio di costituzionalità imperniato sulla manifesta irragionevolezza intrinseca della risposta sanzionatoria stabilita dalla norma censurata, sotto il profilo della proporzionalità tra severità della cornice edittale e disvalore della condotta, con ulteriore riferimento alla vanificazione, determinata dall’entità eccessiva della sanzione, della finalizzazione rieducativa della pena, ai sensi dell’art. 27 Cost.». Si potrebbe dire che, pur invertendo i numeri degli articoli richiamati, il risultato non debba cambiare: nella prima vicenda è l’art. 27, terzo comma, che si aggiunge all’art. 3 Cost.; nell’attuale è l’art. 3 (oltre, come detto, l’art. 117, primo comma) che si aggiunge all’art. 27, terzo comma, Cost. Sotto il profilo, per così dire, sostanziale, ben può dirsi mutato il contesto entro il quale l’attuale questione si inserisce, senza che il precedente rigetto, di oltre quindici anni fa, sia ragione sufficiente per una decisione di manifesta infondatezza. Ma anche – è doveroso aggiungerlo – senza che i più immediati precedenti, interni ed europei, rendano la soluzione dell’accoglimento inevitabile. Da un lato, la sent. n. 253/2019 riguarda esclusivamente la questione dei permessi premio e non interessa, dunque, il problema della possibile trasformazione della pena perpetua de iure in una pena perpetua anche de facto, che è proprio della disciplina relativa all’ergastolo ostativo, come la Corte stessa precisa all’inizio della motivazione della propria decisione. Dall’altro lato, la decisione sul caso Viola non è sentenza “pilota”, né pronuncia di Grande Camera della Corte EDU, potendosi dubitare che i suoi contenuti rilevino come “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea. Vero è che nella predetta decisione si indica quale dovere incombente sullo Stato italiano, ai sensi dell’art. 46 CEDU, una riforma del regime di reclusione a vita che garantisca la possibilità del riesame della pena. Ciò non vale, però, a qualificare la decisione 10 Marco Ruotolo come sentenza “pilota”, con la quale, osservando una particolare procedura23, non si individua soltanto il problema strutturale (tipicamente oggetto di plurimi ricorsi) che il caso presenta, ma si indicano le misure più idonee che lo Stato deve adottare per porvi rimedio. Né la sentenza Viola è stata assunta dalla Grande Camera, pur essendo divenuta definitiva il 7 ottobre 2019, proprio a seguito della decisione del Collegio di cinque giudici di non accogliere la richiesta di rinvio alla Grande Camera formulata dal Governo italiano. Tale decisione potrebbe intendersi in diversi modi. Secondo quanto si legge nell’Amicus Curiae dell’Organizzazione di Volontariato “L’Altro Diritto”, sarebbe «chiaro indicatore che la sentenza del caso Viola è conforme alla giurisprudenza consolidata della Corte» («quando una sentenza di Camera si discosta in modo significativo dalla giurisprudenza precedente, il Collegio accoglie il rinvio, mentre non sono rinviate alla Grande Camera le sentenze che comportano una “normale” applicazione delle interpretazioni consolidate»). Insomma, come si legge anche nell’Amicus Curiae dell’Associazione “Nessuno Tocchi Caino”, la decisione di non rinviare la questione alla Grande Camera, avendo reso definitiva la sentenza Viola, consentirebbe di considerare la stessa «espressione di un orientamento consolidato del giudice sovranazionale», come tale vincolante per il giudice italiano, che dovrà adeguare ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto alla legge interna, secondo le indicazioni emergenti dalla sent. n. 49/2015 della Corte costituzionale24. La pronuncia appena citata della Corte costituzionale è quella in cui si legge che «è solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento ormai divenuto definitivo»25. Ebbene, si potrebbe anche ritenere, in modo opposto rispetto a quanto sopra argomentato, che la decisione di non rinviare alla Grande Camera sia piuttosto indicatrice della volontà di non consolidare, immediatamente, il diritto generato dalla sentenza Viola, in attesa di un probabile, prossimo, pronunciamento della Corte costituzionale sul medesimo tema. Ciò al fine di poter tenere in considerazione – in un’eventuale, successiva, pronuncia di Grande Camera e nella prospettiva della valorizzazione del dialogo tra le Corti – le argomentazioni offerte dai giudici costituzionali italiani. Allo stato attuale, la Corte costituzionale potrebbe, insomma, nella sua autonomia di giudizio, ritenere di nuovo la questione infondata, valorizzando ancora le esigenze di politica criminale (in particolare di natura investigativa26) che sono a fondamento del rilievo attribuito alla “scelta” di collaborare, ma, 23 2001. Disciplinata dall’art. 61 del Regolamento della Corte EDU, entrato in vigore il 21 febbraio 24 Gli Amici curiae richiamati nel testo sono reperibili in apposita sezione del sito www.amicuscuriae.it 25 In linea anche le successive ord. n. 187/2015 e sent. n. 43/2018. 26 Esigenze alle quali la disciplina dell’art. 4-bis attribuisce rilievo senz’altro preminente, come riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale nella sent. n. 239/2014, ove peraltro si ribadiscono le preoccupazioni per la «tendenza alla configurazione normativa di “tipi di autore”, individuati sulla base del titolo astratto del reato commesso, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita” (sent. n. 306/1993)». L’ergastolo ostativo è costituzionale? 11 presumibilmente, accompagnando il rigetto con un monito rivolto al legislatore affinché quell’orizzonte di libertà al condannato non vietato de iure dalla nostra legislazione in modo assoluto e con effetto automatico (come riconosciuto dalla Corte EDU nella sentenza Viola) sia reso de facto tale da non «limitare eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità per quest’ultimo di domandare il riesame della pena» (come di nuovo si legge nella citata sentenza Viola). Seguendo analogo percorso argomentativo, la Corte potrebbe addirittura pervenire ad una decisione di inammissibilità, anche questa accompagnata presumibilmente da un monito al legislatore, in quanto la questione coinvolgerebbe «scelte di politica criminale», ossia un settore «caratterizzato […] da una discrezionalità del legislatore particolarmente ampia riguardo al bilanciamento dei diversi interessi contrapposti»27. Si tratterebbe, però, di pronuncia in contro tendenza rispetto al più recente orientamento giurisprudenziale, contrassegnato dall’ispirazione a «una sempre maggiore garanzia della libertà personale e dei principi costituzionali che delineano il “volto costituzionale del sistema penale”»28, che ha condotto a una dilatazione del controllo di costituzionalità anche in tale ambito29. Ad ogni modo, entrambe le soluzioni, oltre a presentare profili di incoerenza rispetto alla ratio decidendi della sent. n. 253/2019, si tradurrebbero in una sorta di “incostituzionalità accertata ma non dichiarata” o “non dichiarabile”30, con rimessione al legislatore del compito di 27 Sent. n. 223/2015. In questa decisione, la Corte ha dichiarato inammissibile una questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 24, primo comma, Cost., sull’art. 649, primo comma, cod. pen., nella parte in cui esclude la punibilità dei congiunti della persona offesa dal reato in taluni reati contro il patrimonio. Nonostante avesse riconosciuto «l’obsolescenza che la disposizione in esame ormai sconta», la Corte non ne fa conseguire l’incostituzionalità, in quanto sono «prospettabili una molteplicità di alternative, costituzionalmente compatibili, idonee ad evitare che prevalga sempre e comunque, per determinate figure parentali, la soluzione dell’impunità, anche contro la volontà della vittima e anche quando non vi sia, nel concreto, alcuna coesione da difendere per il nucleo familiare». Non a caso questa decisione è stata commentata in dottrina con un titolo davvero eloquente: R. PINARDI, La questione è fondata, anzi è inammissibile (ovvero: la Corte e la natura incidentale del suo giudizio), in Giur. Cost., 2015, 2081 ss. Va sottolineato che, ad oltre cinque anni dal “monito” contenuto nella sent. n. 223/2015, il legislatore non è ancora intervenuto. 28 Sent. n. 179 del 2017. 29 Non è un caso che molte delle recenti pronunce nelle quali il limite della discrezionalità del legislatore è stato ritenuto meno stringente dalla Corte, con conseguente attenuazione del vincolo delle c.d. rime obbligate e ricorso a decisioni manipolative (v. nota 41), abbiano riguardato i trattamenti sanzionatori o comunque disposizioni concernenti l’esecuzione della pena (sentt. nn. 236/2016, 222/2018, 40 e 99/2019, 113/2020). Peraltro, sembra dirimente osservare come la Corte costituzionale non abbia accolto l’eccezione di inammissibilità formulata dall’Avvocatura generale dello Stato in occasione dell’esame della questione decisa con la citata sent. n. 253/2019. Ciò nonostante la difesa erariale avesse sottolineato come la previsione della collaborazione con la giustizia quale condizione per l’accesso ai permessi premio fosse una «scelta discrezionale del legislatore connessa a valutazioni di politica criminale» e che pertanto «la disciplina censurata riguarderebbe “scelte di opportunità in materia di politica penitenziaria”, su cui la Corte costituzionale non potrebbe incidere, rientrando esse nella discrezionalità riservata al legislatore, ove non esercitata in modo arbitrario». 30 Tale ultima qualificazione servirebbe a descrivere un’eventuale pronuncia di inammissibilità fondata – sulla falsariga della sent. n. 223/2015 – sulla presunta esistenza di «una molteplicità di alternative, costituzionalmente compatibili». Ma una possibilità del genere pare da escludersi nel 12 Marco Ruotolo definire in concreto le condizioni che consentano l’accesso alla liberazione condizionale per l’ipotesi di non collaborazione, sull’assunto per cui quest’ultima, dal punto di vista della valutazione del percorso trattamentale, resti indice, sia pure non inconfutabile, di una mancata revisione critica del proprio passato criminale. Non sono questi gli esiti che auspico. Né ritengo che un indizio per un possibile rigetto possa trarsi dal mancato impiego dell’istituto dell’illegittimità consequenziale nella sent. n. 253/2019, ossia nel fatto che la Corte non abbia esteso la rimozione dell’ostatività all’accesso al permesso premio anche alla liberazione condizionale. Diverso è, infatti, lo statuto giuridico degli istituti in esame, pur essendo presenti comuni elementi “funzionali”: il permesso premio è considerato, propriamente, “modalità di trattamento”, la cui esperienza è parte integrante del programma rieducativo che deve essere seguita da funzionari giuridico-pedagogici in collaborazione con gli operatori sociali del territorio (art. 58-ter, comma 2, della legge n. 354 del 1975), di cui si valorizza la specifica «funzionalità […] alla finalità di graduale reinserimento del condannato nella società»31; la liberazione condizionale – salvo revoca dovuta a condotta del soggetto che, in relazione alla condanna subita, sia incompatibile con il mantenimento del beneficio32 – è, invece, causa estintiva della pena che opera sul piano del diritto sostanziale (artt. 176 e 177 cod. pen.), pure se l’istituto può essere considerato «funzionalmente analogo alle misure alternative alla detenzione, essendo anch’esso finalizzato a consentire il graduale reinserimento del condannato nella società»33. Nonostante tali diversità, caso di specie, in quanto sembrano esservi «grandezze già rinvenibili nell’ordinamento», individuate peraltro nella sent. n. 253/2019, che consentirebbero di “sostituire” la presunzione assoluta prevista dalla norma censurata con una presunzione relativa. Non sembra dunque possibile affermare che ci si trovi qui di fronte ad uno “spazio vuoto di diritto costituzionale”, che richiede l’imprescindibile (e dunque non sostituibile) intervento del legislatore, «quale interprete della volontà della collettività», come la Corte ha di recente sostenuto nella decisione con la quale ha dichiarato l’inammissibilità della questione riguardante la preclusione della possibilità per persone dello stesso sesso, unite civilmente, di essere registrate quali genitori del figlio nato in Italia e concepito all’estero con ricorso alla procreazione medicalmente assistita (sent. n. 230/2020). 31 Corte cost., sent. n. 113/2020 e già sent. n. 235/1996. 32 Corte cost, sent. n. 418/1998, che ha così “sostituito” l’automatica revoca prevista dall’art. 177, primo comma, cod. pen., per l’ipotesi di commissione di reato della stessa indole nei cinque anni successivi. 33 Corte cost., sent. n. 32/2020 (seguita poi da sent. n. 193/2020). Si tratta di una decisione di grande rilievo, nella quale, partendo dalla considerazione per cui le misure alternative alla detenzione sono «misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena» (sent. n. 349/1993), si giunge alla generale affermazione per cui la loro collocazione “topografica” (nel codice di procedura penale e non nel codice penale) non può dirsi decisiva ai fini dell’individuazione del relativo statuto costituzionale di garanzia. In particolare, la Corte nega la persistente compatibilità con i principi costituzionali del «diritto vivente», per il quale «le norme disciplinanti l’esecuzione della pena» sono «in radice sottratte al divieto di applicazione retroattiva che discende dal principio di legalità della pena». Ciò anche in considerazione della giurisprudenza della Corte EDU per cui «le modifiche alle norme sull’esecuzione della pena non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva di cui all’art. 7 CEDU, eccezion fatta – però – per quelle che determinino una “ridefinizione o modificazione della portata applicativa della ‘pena’ imposta dal giudice”» (sentenza della Grande Camera 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna), nonché della giurisprudenza di altre Corti e della legislazione di altri Paesi (puntualmente citate nella sent. n. 32/2020) che si sono conformate agli indirizzi della Corte di Strasburgo. La «complessiva rivalutazione della tematica» porta il giudice delle leggi a «concludere nel senso che, di regola, le L’ergastolo ostativo è costituzionale? 13 analoga potrebbe essere – anche in ragione della presenza dei rilevati, comuni, elementi “funzionali” – la ratio decidendi a sostegno di un eventuale accoglimento della questione oggi sottoposta all’esame della Corte. Vediamo ora in che modo e in quali termini questo potrebbe accadere. 6. Proprio partendo dalla ratio decidendi della sent. n. 253/2019 si potrebbe pervenire all’accoglimento dell’odierna questione per violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., forse anche con estensione, in via consequenziale, della dichiarazione di illegittimità costituzionale agli altri reati inclusi nell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 197534, dunque oltre l’attuale perimetro dei delitti commessi avvalendosi del metodo mafioso o per agevolare associazioni di tipo mafioso35. pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione, salvo però che tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale. In questa ipotesi, l’applicazione retroattiva di una tale legge è incompatibile con l’art. 25, secondo comma, Cost.». Su questa linea, propensa a considerare le norme esecutive come norme sostanziali in quanto incidenti sui modi di privazione della libertà personale, si era già espresso, oltre cinquant’anni fa, F. BRICOLA, L’intervento del giudice nell’esecuzione delle pene detentive: profili giurisdizionali e profili amministrativi, in Indice pen., 1969, 279, rilevando, tra l’altro, che la necessaria connessione tra l’art. 25, secondo comma, e l’art. 27, terzo comma, Cost. «postula un adeguamento dell’esecuzione alla personalità del singolo reo o la necessaria trasformazione di essa in un “trattamento progressivo” insuscettibile di puntuale determinazione legislativa». La posizione dell’Autore è più ampiamente espressa nel commento all’Art. 25, secondo comma, Cost., in G. BRANCA (a cura di), Commentario alla Costituzione, Zanichelli, Bologna 1981, 231 ss. Proprio sulla base della sent. n. 32 del 2020 della Corte costituzionale, il Tribunale di sorveglianza di Firenze, nella ricordata ordinanza 3 novembre 2020, n. 3341, ha ritenuto di poter concedere la liberazione condizionale a un condannato “ostativo”, “non collaborante per scelta”, poiché i fatti oggetto di sanzione penale erano stati commessi prima della introduzione della specifica preclusione. Ciò in quanto dalla giurisprudenza costituzionale (sentt. nn. 20 e 193/2020) si ricaverebbe ormai «il principio di irretroattività delle norme penali incriminatrici anche in relazione alle norme disciplinanti l’esecuzione penale quando queste ultime abbiano natura giuridica più sostanziale che procedurale». 34 Si tratta degli ormai molti delitti, considerati di “prima fascia” per la loro particolare gravità, in rapporto ai quali la collaborazione con la giustizia (laddove sia valutata come possibile e rilevante) è considerata condizione per l’accesso ai benefici penitenziari. Agli originari delitti di criminalità organizzata di stampo mafioso e poi anche di matrice terroristica, si affiancano oggi, nel citato art. 4-bis, comma 1, reati di diversa natura, da quelli a carattere sessuale al sequestro di persona a scopo di estorsione, dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina all’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, fino ad alcuni delitti contro la pubblica amministrazione. 35 Seguendo la linea percorsa proprio nella sent. n. 253/2019, in quel caso a partire dall’intervento parzialmente ablatorio realizzato sui reati di associazione mafiosa e di “contesto mafioso”, esteso all’identica disciplina dettata dallo stesso art. 4-bis, comma 1, per tutti gli altri delitti in esso indicati: «la mancata estensione a tutti i reati previsti dal primo comma dell’art. 4-bis, ordin. penit. dell’intervento compiuto dalla presente sentenza sui reati di associazione mafiosa e di “contesto mafioso” finirebbe per compromettere la stessa coerenza intrinseca dell’intera disciplina di risulta». Peraltro, secondo quanto propone Glauco Giostra nella sua relazione al presente Seminario (ID., Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? Spunti per una discussione, in questo volume, §4), l’illegittimità costituzionale consequenziale non dovrebbe essere solo di tipo “orizzontale”, interessando i vari reati compresi nel citato art. 4-bis, comma 1, ma anche di tipo “verticale”, facendo cadere l’imprescindibilità della collaborazione ai fini della liberazione condizionale non solo con rispetto alla pena dell’ergastolo, ma anche con riguardo alla pena 14 Marco Ruotolo Proverò di seguito a ragionare come se tale estensione del perimetro della questione sia seguita dalla Corte, fermo restando che le mie considerazioni ben potranno considerarsi ristrette, in caso contrario, alla sola posizione di coloro che siano condannati per reati commessi avvalendosi del metodo mafioso o al fine di agevolare le associazioni mafiose. Mi ispirerò, insomma, alla filosofia dell’Als Ob, proposta in un noto libro del filosofo neokantiano Vaihinger36, anche per non costringere le mie riflessioni in un perimetro troppo ristretto, nella convinzione che, se non sarà già questa l’occasione, non ne mancherà una prossima nella quale la Corte sarà chiamata a decidere sulla concedibilità della liberazione condizionale in favore di tutti i condannati all’ergastolo per reati rientranti nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975. La mancata collaborazione con la giustizia non può ragionevolmente radicare la presunzione assoluta circa il permanente collegamento con l’organizzazione criminale e dunque circa la perdurante pericolosità del condannato, determinando in limine l’inammissibilità della sua richiesta di accedere alla liberazione condizionale. Ciò che è irragionevole non è, in sé, la presunzione del mantenimento dei collegamenti con l’organizzazione criminale da parte del condannato non collaborante, quanto il fatto che essa «non possa essere vinta da prova contraria». Dunque la sua assolutezza, in ragione delle «sue conseguenze afflittive ulteriori», dell’impossibilità di «valutare il percorso carcerario del condannato», «di una specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza». Tali affermazioni, contenute nella sent. n. 253/2019, ben potrebbero porsi a sostegno di una pronuncia rivolta a trasformare la presunzione in esame da assoluta in relativa, superabile dunque da prova contraria. È qui, però, come nella appena richiamata sentenza, che si gioca molto circa la reale portata di un eventuale accoglimento. È da ritenere che, anche nel nostro caso, la presunzione potrà essere contraddetta solo «a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto». Se questo è stato affermato nella sent. n. 253/2019 per la concessione dei permessi premio, non potrà che essere ribadito ove si ritenga di dover superare l’ostatività alla liberazione condizionale, sembrando realisticamente lontana l’ipotesi di una loro differente considerazione fondata sulla diversità ontologica degli istituti, dopo aver temporanea. Occorre ribadire che l’art. 4-bis comprende, ormai, per effetto di successivi interventi legislativi fattispecie penali assai eterogenee, essendo divenuto, come ancora sottolinea Giostra, una sorta di «contenitore di raccolta indifferenziata in cui il legislatore “getta” i reati demagogicamente più â la page senza tenere nella dovuta considerazione la loro gravità, la loro struttura e il loro profilo criminologico» (§5). In argomento si veda V. MANES, L’estensione dell’art. 4-bis ai delitti contro la P.A.: profili di illegittimità costituzionale, in Diritto penale contemporaneo, www.penalecontemporaneo.it, fasc. 2/2019, 108 ss., nonché, ora, la puntuale analisi offerta da V. MANCA, Regime ostativo ai benefici penitenziari. Evoluzione del “doppio binario” e prassi applicative, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano 2020. Sulle evoluzioni della giurisprudenza costituzionale riguardanti le presunzioni di pericolosità di cui all’art. 4-bis (dalla sent. n. 306/1993 alla sent. n. 253/2019) si veda la lucida disamina di L. PACE, L’adeguatezza della legge e gli automatismi. Il giudice delle leggi fra norma “astratta” e caso “concreto”, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, 195 ss. 36 H. VAIHINGER, La filosofia del «Come se» (1911), tr. it., Astrolabio Ubaldini, Roma 1967. L’ergastolo ostativo è costituzionale? 15 valorizzato la presenza di comuni elementi funzionali, nella prospettiva del reinserimento sociale, per estendere alla liberazione condizionale l’apertura effettuata per i permessi premio. Non basterà, in altri termini, la «sola regolare condotta carceraria» o la «mera partecipazione al percorso rieducativo» e nemmeno una «solo dichiarata dissociazione»; sarà necessaria anche la «acquisizione di altri, congrui e specifici elementi». Nella logica, nella motivazione e nel dispositivo della sent. n. 253/2019, questi elementi dovranno essere «tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti». E, come si legge nella motivazione della sentenza n. 253, di tali elementi grava sullo stesso condannato richiedente l’onere di fare specifica allegazione37: è il detenuto a dover dimostrare di essere una persona diversa da quella che era al momento del commesso reato. L’apertura della Corte subisce così – come ho osservato altrove38 – un brusco contenimento, determinando una sostanziale inversione dell’onere probatorio, ulteriormente “rafforzato” allorché la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo o la Procura distrettuale rilevi l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata (la determinazione del magistrato di sorveglianza richiede anche il vaglio delle relazioni della pertinente autorità penitenziaria e delle dettagliate informazioni acquisite per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente). In tal caso – si legge, ancora, nella sent. n. 253/2019 – «incombe sullo stesso detenuto non il solo onere di allegazione 37 La Corte richiama sul punto la giurisprudenza di legittimità in tema di collaborazione impossibile o inesigibile: Cass. pen., Sez. I, sent. 12 ottobre 2017, n. 47044; sent. 8 luglio 2019, n. 29869; sent. 13 agosto 2019, n. 36057. Occorre specificare che nelle predette decisioni si fa riferimento esclusivo all’onere probatorio gravante sul condannato rispetto alla collaborazione impossibile o inesigibile, non già al fatto che lo stesso coinvolga la dimostrazione dell’assenza del “pericolo del ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata”. Basti richiamare il passo di interesse contenuto nella citata sent. n. 36057 del 2019: «in rapporto all’eventuale ricorrenza di situazioni di impossibilità o inesigibilità della collaborazione, grava in linea di massima sul condannato l’onere di farne specifica invocazione, unita alla prospettazione degli opportuni elementi a sostegno dell’assunto». Com’è stato affermato da un esperto e acuto magistrato di sorveglianza, «non sembra che tale orientamento “costante” ponga a carico del richiedente (la collaborazione impossibile) l’onere di allegare elementi sull’assenza di pericolosità (condizione che peraltro non spetta accertare al Tribunale in sede di procedimento ex art. 58-ter ma solo al magistrato in sede di successiva concessione del permesso), quanto invece l’onere di allegare elementi fondanti la richiesta di accertamento della collaborazione impossibile, cioè quei fatti utili per dimostrare l’oggettiva impossibilità della collaborazione (integrale accertamento dei fatti, ruolo marginale nella compagine associativa, etc.). Altra cosa è l’allegazione di elementi che attengono all’esclusione dell’attualità dei collegamenti e, soprattutto, al pericolo di un loro ripristino e che costituisce il vero “novum” di questa sentenza: un requisito prima non esistente, da considerare, inoltre, condizione di ammissibilità dell’istanza stessa di permesso premio e che la Corte introduce per superare la presunzione (relativa) dell’ostatività discendente dalla mancata collaborazione» (M. BORTOLATO, Il futuro rientro nella società non può essere negato a chi non collabora, ma la strada è ancora lunga, in Diritto penale e processo, 2020, 636 s.). 38 M. RUOTOLO, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, in Sistema penale, www.sistemapenale.it, 12 dicembre 2019, §3, testo dell’audizione svolta presso la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere (Roma, Senato della Repubblica, 10 dicembre 2019). 16 Marco Ruotolo degli elementi a favore, ma anche quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno»39. La Corte costituzionale ha così introdotto un requisito, quello del «pericolo del ripristino» dei collegamenti con la criminalità organizzata, che non era presente nel sistema normativo, né ricavabile dalla giurisprudenza di legittimità40. Lo ha fatto con una pronuncia additiva senz’altro priva, su questo punto, delle c.d. “rime obbligate”41, sussistenti, semmai, nei termini della rinvenibilità della soluzione in È evidente che tutto ciò non riguarda quei reati che, pur compresi nell’art 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, hanno matrice estranea alla criminalità organizzata, così come a quella terroristica o eversiva, ovvero i delitti strutturalmente mono-soggettivi, pure ivi contemplati. Come si legge nella motivazione della sent. n. 253/2019, non potrebbe in tali casi dimostrarsi l’«assenza di legami con un, inesistente, sodalizio criminale di originaria appartenenza». Anche qui, dunque, il dispositivo deve essere letto alla luce della motivazione, non potendosi ritenere che l’acquisizione di «elementi tali da escludere non soltanto l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche il pericolo del ripristino di tali collegamenti» possa riferirsi, appunto, a collegamenti che la Corte stessa afferma essere “inesistenti”. D’altra parte la redazione del dispositivo è strettamente connessa ad una formulazione dell’art. 4-bis, comma 1, che aveva un senso quando i reati ivi previsti si riferivano esclusivamente alla criminalità organizzata (i “nuovi”, che non hanno a che fare con essa, sono stati inseriti in quel tessuto normativo senza alcuna revisione della sua struttura). Insomma, come la dottrina ha già rilevato, per i reati che non prevedano collegamenti con la criminalità organizzata deve senz’altro darsi per implicita la prova della loro assenza (così M. PELLISSERO, Permessi premio e reati ostativi. Condizioni, limiti e potenzialità di sviluppo della sent. 253/2019 della Corte costituzionale, ne La legislazione penale, www.lalegislazionepenale.eu, 30 marzo 2020, 16, e già M. CHIAVARIO, La sentenza sui permessi premio: una pronuncia che non merita inquadramenti unilaterali, in Osservatorio AIC, www.osservatorioaic.it, 1/2020, 222). 40 Al concetto di «pericolo» riferito, però, non al «ripristino», bensì alla «permanenza dei collegamenti» con la criminalità organizzata, si era richiamata la Corte costituzionale in una lontana pronuncia riguardante la diversa situazione concernente l’applicazione del regime differenziato di cui all’art. 41-bis, comma 2, della legge n. 354 del 1975: l’adozione di tale regime, che comporta, come si ricorderà in seguito, significative deroghe al trattamento penitenziario ordinario, non può fondarsi astrattamente sul titolo di reato, ma, appunto, «sull’effettivo pericolo della permanenza di collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa» (sent. n. 376/1997). Non v’è dubbio – come chiarito nella successiva ord. n. 417/2004, riguardante la questione delle condizioni per la proroga del regime differenziato disposta con provvedimento del Ministro della Giustizia – che si alluda qui alla necessità di una «congrua motivazione in ordine alla attuale esistenza del pericolo per l’ordine e la sicurezza derivante dalla persistenza dei vincoli con la criminalità organizzata e della capacità del detenuto di mantenere contatti con essa». Peraltro – come si legge ancora nella ord. n. 417/2004, che sul punto richiama la giurisprudenza di legittimità – «l’inciso di cui al comma 2-bis [del richiamato art. 41-bis] (“purché non risulti che la capacità del detenuto o dell’internato di mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive sia venuta meno”) non comporta una inversione dell’onere della prova, in quanto rimane intatto l’obbligo di dare congrua motivazione in ordine agli elementi da cui “risulti” che il pericolo che il condannato abbia contatti con associazioni criminali o eversive non è venuto meno». Spetterà al giudice, in sede di controllo giurisdizionale, «verificare in concreto – anche alla luce delle circostanze eventualmente allegate dal detenuto – se gli elementi posti dall’amministrazione a fondamento del provvedimento di proroga siano sufficienti a dimostrare la permanenza delle eccezionali ragioni di ordine e sicurezza che, sole, legittimano l’adozione del regime speciale». 41 Si è tanto discusso in dottrina circa il recente atteggiamento giurisprudenziale che ha determinato l’attenuazione del vincolo delle c.d. “rime obbligate”, in base al quale la Corte potrebbe direttamente colmare una lacuna, con pronuncia additiva o sostitutiva, solo quando la regola da inserire sia direttamente implicata dal testo costituzionale, non essendovi propriamente una discrezionalità al riguardo. Le principali pronunce oggetto di riflessione – sulle quali, volendo, può leggersi M. RUOTOLO, Corte costituzionale e legislatore, in Diritto e Società, fasc. 2020, 53 ss. – 39 L’ergastolo ostativo è costituzionale? 17 previsioni già presenti nell’ordinamento42, per la sola richiesta di acquisizione di «elementi tali da escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva». La più ampia “integrazione” operata con il suo dispositivo è dalla Corte giustificata esplicitamente in ragione della “necessità” costituzionale di evitare che l’«interesse alla prevenzione della commissione di nuovi reati, tutelato dallo stesso art. 4-bis ordin. penit., finisca per essere vanificato»43. Come a dire, l’apertura ai permessi premio è compensata dalla previsione della estensione del “regime probatorio rafforzato” all’acquisizione di elementi riguardanti un’ipotesi prima non prevista nel sistema normativo (il «pericolo del ripristino» dei richiamati collegamenti), la quale deve essere valutata, secondo quanto specificato dalla Corte, «tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali». Si potrebbe discutere, insomma, sulla sussistenza stessa dei necessari presupposti per operare una tale “integrazione” del tessuto normativo, legata al flebile argomento, presentato peraltro in modo apodittico, della presunta connessione logica tra la richiesta verifica dell’assenza di attualità di rapporti del condannato con il consesso criminale d’appartenenza e la necessità di acquisizione di elementi che escludano il pericolo di un loro ripristino («si tratta, del resto, di aspetto logicamente collegato al precedente», ossia alla necessità di acquisire stringenti informazioni circa l’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, al fine di prevenire la commissione di nuovi reati). Ma ciò che desta ancora maggiori perplessità sono le dichiarate e già menzionate implicazioni sono state, però, sentenze manipolative “giustificate” ora dalla presenza di un solido e specifico punto di riferimento normativo riguardante fattispecie analoga, ritenuto idoneo a sostenere l’intervento sostitutivo (sent. n. 236/2016), ora dalla presenza di un precedente monito al legislatore affinché colmasse la lacuna o comunque intervenisse per assicurare la conformità a Costituzione della situazione normativa censurata (sentt. nn. 222/2018, 40 e 99/2019, 113/2020; in un certo senso può rilevare qui anche la sent. n. 242/2019, sul c.d. caso Cappato, quale seguito di puntuale invito al legislatore, operato con ordinanza collegiale di rinvio della trattazione, affinché intervenisse per disciplinare la materia dell’aiuto al suicidio). Diversamente, nel caso della parte di addizione contenuta nella sent. n. 253/2019, che si riferisce al «pericolo del ripristino di tali collegamenti», non è possibile rinvenire né un solido e specifico punto di riferimento normativo né un precedente monito al legislatore che sia rimasto inascoltato. 42 Secondo un indirizzo chiaramente espresso nella sent. n. 40/2019, ove la soluzione «adeguata», «benché non costituzionalmente obbligata», adottata nella specifica pronuncia sostitutiva, è ritenuta non arbitraria poiché «si ricava da previsioni rinvenibili nell’ordinamento», la cui estensione si propone «in modo coerente» rispetto «alla logica perseguita dal legislatore». 43 Nella logica del richiamato e recente indirizzo giurisprudenziale che ha attenuato il vincolo delle “rime obbligate”, ritenendo sufficiente la presenza di “rime adeguate”, la “necessità” costituzionale indicata nel testo avrebbe potuto legittimare soltanto la prima parte dell’integrazione operata dalla Corte, che si riferisce all’acquisizione di «elementi tali da escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva». Ciò in quanto tale “criterio” – secondo quanto peraltro specificato nella sent. n. 253/2019 – è rinvenibile nell’ordinamento (per l’accesso ai benefici nei casi in cui la collaborazione risulti inesigibile, impossibile od oggettivamente irrilevante: art. 4-bis, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975) ed era non a caso espressamente previsto, prima dell’introduzione del requisito della collaborazione con la giustizia, per i reati della c.d. prima fascia (comprensivi di associazione di tipo mafioso e dei “delitti-satellite), richiedendosi l’acquisizione di «elementi tali da escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva» (art. 1 decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203). 18 Marco Ruotolo probatorie, ove riferite, appunto, alla dimostrazione dell’assenza del pericolo del ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata. Paradossalmente, l’effetto più “bizzarro” si determina ove non vi siano specifiche informative negative delle autorità competenti, le quali fanno “scattare” l’onere in capo al condannato di «fornire veri e proprio elementi di prova a sostegno», potendo almeno in tale caso tentare contro-deduzioni rispetto alle indicazioni ivi contenute circa il pericolo del ripristino dei predetti collegamenti. In assenza di tali informative (o in presenza di informative generiche), le “allegazioni” che sono richieste al condannato in cosa si potrebbero tradurre? Un conto è poter “rispondere” a valutazioni specifiche che riguardano l’attuale assetto dell’organizzazione criminale e la concreta probabilità di un rientro in essa del condannato, attestate, ad esempio, da indagini di carattere socio-familiare o patrimoniale riguardanti il detenuto oppure il suo nucleo familiare; altro è richiedere al condannato di fornire, in un certo senso “al buio”, elementi che, in assenza di informative negative, siano tali da “escludere” il pericolo di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata, anche perché tale materiale – presumibilmente riguardante proprio l’attuale assetto della consorteria criminale, la posizione giudiziaria del detenuto, il contesto socio-familiare di riferimento – dovrebbe già essere in possesso delle autorità pubbliche competenti. Su questo punto sarebbe auspicabile un parziale ripensamento della Corte44 che, però, come già scritto, difficilmente potrebbe fondarsi su una presunta diversità ontologica degli istituti del permesso premio e della liberazione condizionale45. Salvo che questa diventi la strada più semplice per non smentire un immediato precedente46, che, con riguardo al descritto passaggio, sarebbe invece meritevole di Ipotesi in sé assai improbabile – lo si ribadisce – proprio per la vicinanza del “precedente” costituito dalla sent. n. 253/2019. Come ha sottolineato di recente un giudice della Corte costituzionale – pur con riguardo al tema del controllo sulla legge elettorale politica – un precedente vicino nel tempo e importante nella sostanza non può essere facilmente disconosciuto: «è, in effetti, proprio la logica del precedente quella che […] conta maggiormente. La stabilità di un orientamento giurisprudenziale non è questione secondaria, per la stessa legittimazione della Corte. Essa è più importante delle legittime convinzioni personali e individuali» [N. ZANON, “Stagioni creative” della giurisprudenza costituzionale? Una testimonianza (e i suoi limiti), in C. PADULA (a cura di), Una nuova stagione creativa della Corte costituzionale, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, 362]. 45 A prescindere dalla questione dell’onere di allegazione, la disciplina della concessione della liberazione condizionale potrebbe, al contrario, più facilmente giustificare la previsione della necessità di valutare anche il pericolo di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata (o, meglio, come si dirà nel testo, dell’effettivo pericolo della permanenza dei collegamenti in parola). Ciò in quanto essa presuppone non il mero “ravvedimento” – che potrebbe alludere ad una valutazione che guardi più “al dentro” che “al fuori” del carcere – ma il «sicuro ravvedimento» (art. 176 cod. pen.), che comprende – secondo la ricordata giurisprudenza di legittimità – un giudizio prognostico sulla elevata probabilità che la futura condotta del condannato si conformi «al quadro di riferimento ordinamentale e sociale, con cui egli entrò in conflitto con la commissione dei reati per i quali ebbe a subire la sanzione penale». Di qui la rilevanza dell’atteggiamento collaborativo del condannato e, per converso, la possibilità di ritenere che la mancata collaborazione debba essere “compensata” dalla acquisizione di elementi consistenti che permettano non solo di rilevare l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche di escludere ragionevolmente il pericolo del loro ripristino (o, meglio, l’effettivo pericolo della loro permanenza). 46 Ad esempio valorizzando, con un argomento che invero non pare persuasivo, il fatto che l’accesso al permesso premio possa avvenire in tempi più prossimi alla commissione del reato o 44 L’ergastolo ostativo è costituzionale? 19 una trasparente rimeditazione, apparendo, agli occhi del lettore, un opinabile punto di mediazione per addivenire ad una più ampia convergenza sulla motivazione di una decisione il cui dispositivo, probabilmente, non era stato condiviso da una parte consistente del Collegio47. Un’alternativa plausibile sarebbe quella di precisare (con una sorta di “interpretazione autentica” del discusso passaggio della sent. n. 253/2019) che il «pericolo» debba intendersi riferito propriamente non al «ripristino», bensì alla «permanenza» dei collegamenti con la criminalità organizzata48, nella logica di un giudizio prognostico che la magistratura di sorveglianza è senz’altro tenuta a compiere (dovendosi, cioè, escludere non solo l’«attualità», ma anche l’«effettivo pericolo della permanenza» dei collegamenti in parola). Anzi, sarebbe da auspicare, già prima dell’eventuale “chiarimento” della Corte, che questa sia la linea interpretativa seguita riguardo alla concessione dei permessi premio, rimettendo al magistrato di sorveglianza la valutazione in concreto, fondata su tutti gli elementi acquisiti (messi a disposizione sia dalle autorità competenti sia dal condannato), riguardante l’attualità o l’effettivo pericolo della permanenza dei collegamenti con la criminalità organizzata49. Forse era questa l’“intenzione” della Corte meglio all’inizio della espiazione della pena (dieci anni, dai quali devono essere detratti i giorni maturati di liberazione anticipata), rispetto a quanto previsto per la liberazione condizionale (ventisei anni, sempre detratti i giorni di liberazione anticipata). Ciò sulla base della presunzione per cui il passare del tempo renda meno probabile non solo il mantenimento, ma anche la possibilità di ripristino dei rapporti con la criminalità organizzata, potendosi ritenere sufficiente, per l’accesso alla liberazione condizionale, l’acquisizione di elementi che escludano l’attualità dei collegamenti, senza spingersi a valutazioni puntuali sul concreto rischio di un loro futuro ripristino o, meglio, senza pretendere che la dimostrazione della non ricorrenza del predetto pericolo debba essere fornita dal condannato (anche in assenza di specifiche informative negative delle competenti autorità). 47 In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera si legge la notizia, non smentita, che «quella della Corte costituzionale è stata una scelta faticosa e contrastata, passata per un solo voto: 8 favorevoli, 7 contrari»: G. BIANCONI, Ergastolo ostativo, ecco i mafiosi che potrebbero chiedere i permessi (e le tre condizioni per averli), in www.corriere.it, 23 ottobre 2019. 48 Traendo spunto da una certa giurisprudenza costituzionale che peraltro riguarda lo specifico regime speciale di cui all’art. 41-bis, comma 2, della legge n. 354 del 1975. Si tratta delle decisioni citate nella precedente nota 40. 49 Sembra questa la linea seguita, ad esempio, nel decreto del Magistrato di sorveglianza di Siena n. 1170/2020 del 7 agosto 2020. Credo sia utile riportare, sinteticamente, i contenuti di questa decisione. L’istanza riguardava una persona che sta espiando la pena dell’ergastolo presso la Casa di reclusione di San Gimignano, all’esito di cumulo che assorbe condanne tra le quali quelle per associazione di tipo mafioso, concorso in omicidio plurimo e tentati omicidi, con l’aggravante di cui all’art. 7 della legge n. 203 del 1991 (metodo mafioso o agevolazione di associazioni di tipo mafioso). Arrestato in Germania il 18 aprile 1994, per reati là commessi, dal 4 agosto 1998 sta espiando la pena in Italia per reati qui posti in essere quando era ancora «alquanto giovane (è nato nel 1971 e dunque ha commesso i reati quando aveva 22-23 anni)». Nell’istanza per il permesso premio il condannato mette a diposizione una serie di elementi, dalla «specificità del fenomeno della “Stidda” di Palma di Montechiaro cui aderì», «esponendo che si è trattato di un fenomeno criminogeno soggettivizzato», alle relazioni della DIA di questi anni, che «non hanno mai interessato il detenuto o la sua famiglia», specificando che nemmeno altre indagini hanno «direttamente o indirettamente» coinvolto il soggetto, sino alla illustrazione della condizioni della famiglia di origine, che è «di modesta estrazione sociale» ma «vive onestamente». Il Magistrato di sorveglianza, oltre a richiamare il parere favorevole del Direttore dell’Istituto penitenziario, riporta i dati degli operatori del trattamento di due Case di reclusione che riconoscono una costante evoluzione nel percorso del detenuto con «acquisizione di capacità di analisi ed autocritica, rilettura 20 Marco Ruotolo costituzionale espressa nella sent. n. 253/2019, di là dalle formule specificamente impiegate («pericolo del ripristino» dei collegamenti), e, conseguentemente, questa potrebbe essere l’interpretazione preferibile dell’“aggiunta” operata con la predetta decisione. Allo stesso risultato ermeneutico si potrebbe pervenire, più radicalmente, sulla base della qualificazione della sentenza additiva quale decisione interpretativa, ritenendo che «la norma “aggiunta” dalla Corte – pur essendo frutto di interpretazione adeguatrice – non entrerebbe propriamente a far parte del c.d. diritto oggettivo vigente, se non appunto come una semplice possibilità interpretativa». Ciò perché «anche nelle sentenze aggiuntive […] la Corte, integrando con significati, con norme, gli enunciati legislativi non li altera nella loro struttura formale, non aggiunge enunciati ad enunciati allo stesso livello di linguaggio, ma desume da questi ultimi (dagli enunciati deliberati dal legislatore) significati che essa ritiene necessari per renderli costituzionalmente conformi. La parte “aggiunta” […] è sempre immancabilmente una norma (proprio perché la Corte non è un legislatore) e mai una disposizione». Di qui, addirittura, la possibilità per i giudici, e più in generale per tutti gli operatori giuridici, di optare per interpretazioni dell’enunciato legislativo – che persiste indenne, pur se con l’“aggiunta” operata della propria storia personale, autentica manifestazione di resipiscenza, con ammissione degli errori fatti e comprensione almeno in parte delle cause delle scelte». Con riguardo alle informazioni della DDA di Palermo, si riporta che le stesse ricordano i reati commessi dal detenuto e le numerose sentenze di condanna, affermando che egli «è sempre stato ritenuto soggetto di estrema pericolosità sociale, essendo uno degli esponenti di maggiore rilievo dell’organizzazione criminosa di stampo mafioso nella componente “stiddara”, operante nella provincia di Agrigento e in particolare sul territorio di Palma di Montechiaro». Si aggiunge che il condannato non ha mai collaborato né mostrato resipiscenza e che non risulterebbero valutazioni degli operatori delle strutture carcerarie che attestino «significative e positive evoluzioni della personalità del detenuto». Quest’ultima affermazione è considerata dal Magistrato «senz’altro errata», proprio in base alle richiamate relazioni degli operatori penitenziari che si esprimono in senso favorevole al condannato. Quanto alla persistenza dei collegamenti, il Magistrato sottolinea come i procedimenti elencati nella nota della DDA, concernenti il fenomeno “stiddaro”, non riguardano il condannato o i suoi familiari e che nessun procedimento penale risulta pendente nei suoi confronti presso le Procure di Palermo, Agrigento, Caltanissetta, Cuneo e Siena. Quanto al suo ruolo nell’associazione, come esponente tra quelli di “maggior rilievo”, il dato sarebbe smentito dagli accertamenti contenuti nelle sentenze di condanna, «in cui il detenuto è descritto come un “affiliato” e mai come un promotore, organizzatore, dirigente. D’altra parte era assai giovane all’epoca dei reati e difficilmente avrebbe potuto avere un ruolo già di preminenza». Si aggiunge che il gruppo criminale al quale apparteneva il condannato, dopo oltre 25 anni, è inevitabilmente cambiato e che non si hanno notizie di «sperequazioni finanziarie, che possano far ritenere presenti forme occulte di sostentamento». La «congiunta lettura degli esiti stratificati negli anni dell’osservazione penitenziaria e delle informazioni pervenute dalla DDA di Palermo e dalle Questure, […], unitamente al lungo tempo trascorso», nonché la considerazione del «ruolo in concreto rivestito dal soggetto nell’associazione» consentono di «ritenere integrati i presupposti individuati dalla Corte costituzionale nella sentenza 253/2019» ai fini della concessione di «un primo breve permesso premio [di quattro ore] in Toscana per incontrare i familiari con accompagnamento di un volontario» (lontano dai luoghi di origine e di commissione dei reati). Non può, infatti, configurarsi «un concreto pericolo di rispristino di collegamenti», «quanto meno in questa fase e alla luce delle informazioni assunte e trasmesse». Ciò in base ad una «valutazione sulla pericolosità [che] deve operarsi in concreto e caso per caso, pur nell’ambito delle cornici generali di riferimento»; «nel caso in esame tutta l’analisi della posizione, considerando ogni singolo elemento, conduce verso una soluzione positiva». L’ergastolo ostativo è costituzionale? 21 dalla Corte – «costituzionalmente conformi ma persino diverse da quelle che hanno sostenuto la decisione costituzionale, sempre che tali interpretazioni siano possibili e non si restringano ad un’alternativa secca tra l’interpretazione sostenuta dalla Corte e quella ritenuta incostituzionale». Insomma, le decisioni di accoglimento sarebbero propriamente vincolanti «nella sola parte demolitoria – in quanto incidono, cancellandoli, sui testi – e non già anche in quella ricostruttiva». Il che vuol dire che «se è possibile […] interpretare l’enunciato in modo costituzionalmente conforme, l’indicazione operata dalla Corte con l’aggiunta […] di una nuova norma potrebbe persino, al limite, essere disattesa»50. 7. Una specifica digressione merita la particolare posizione dei condannati in regime di 41-bis51. Nei loro confronti la dichiarata attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata è in re ipsa, essendo proprio il presupposto applicativo del regime cui sono sottoposti, il che dovrebbe comportare l’inaccessibilità ai benefici per il periodo nel quale è disposto. La Cassazione ha invece sostenuto che l’avvenuta applicazione di tale regime nei confronti di un detenuto «non può essere utilizzata, senza i necessari approfondimenti valutativi, per affermare sic et simpliciter che egli non possa usufruire dei permessi premio»52, per poi precisare, richiamando la sent. n. 253/2019 della Corte costituzionale, che le istanze di Tutti i passi citati tra virgolette sono di F. MODUGNO, La “supplenza” della Corte costituzionale (2007), in ID., Scritti sull’interpretazione costituzionale, Editoriale Scientifica, Napoli 2008, 132. Il contributo può essere anche letto in www.federalismi.it, n. 16/2007, 8 agosto 2007 (in tal caso il riferimento è a p. 19). 51 Si fa qui specifico riferimento al regime speciale di cui all’art. 41-bis, comma 2, della legge n. 354 del 1975, introdotto con il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 1992, n. 356 (e poi più volte rimodellato, tra l’altro, con le leggi 23 dicembre 2002, n. 279, e 15 luglio 2009, n. 94). Il decreto-legge n. 306 del 1992 fu adottato a seguito della strage di Capaci e convertito dopo l’uccisione del giudice Paolo Borsellino. Il regime introdotto consente l’adozione da parte del Ministro della Giustizia di una serie di misure limitative del trattamento penitenziario nei confronti di detenuti per reati di mafia (successivamente anche di terrorismo), al dichiarato fine di recidere i collegamenti di questi con la criminalità organizzata. Secondo quanto precisato negli anni dalla giurisprudenza costituzionale, il decreto ministeriale che impone il regime speciale deve avere una motivazione individualizzata per ciascun destinatario, incidere esclusivamente sulle modalità di esecuzione della pena ed essere sindacabile dalla magistratura di sorveglianza, anche per consentire una verifica della sua congruità rispetto ai fini perseguiti (sentt. nn. 349 e 410/1993, 351/1996). La motivazione del provvedimento – come già ricordato – non può fondarsi astrattamente sul titolo di reato oggetto della condanna o dell’imputazione, ma deve comprendere la verifica dell’«effettivo pericolo della permanenza di collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa» (sent. n. 376/1997). Attualmente, il regime speciale può essere applicato nei confronti dei detenuti e degli internati per taluno dei delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, sempre che vi siano elementi tali da far ritenere sussistenti collegamenti con la criminalità organizzata, anche terroristica o eversiva. Il che vuole dire che il provvedimento potrebbe riguardare, in astratto, anche autori di reati, ormai compresi nel predetto art. 4-bis, che hanno matrice estranea alla criminalità organizzata, così come a quella terroristica o eversiva. Ma, come dimostra la prassi applicativa, in realtà tale strumento è impiegato soltanto nei confronti di detenuti per delitti di mafia, terrorismo ed eversione dell’ordine democratico. 52 Cass. pen., Sez. I, sent. 10 ottobre 2016, n. 9660. 50 22 Marco Ruotolo permesso premio non possono in limine essere dichiarate inammissibili neppure per i detenuti in regime di 41-bis53. Quest’ultimo orientamento suscita più di una perplessità. Se il permesso premio (e, in prospettiva di un eventuale accoglimento dell’odierna questione, la liberazione condizionale) presuppone la valutazione di assenza di pericolosità sociale, la sua concessione potrebbe addirittura ritenersi concettualmente incompatibile con il regime di 41-bis, che è disposto dal Ministro della Giustizia, assunte tutte le informazioni necessarie (ovviamente anche dalla Direzione nazionale antimafia), qualora ricorrano gravi motivi di ordine e sicurezza e vi siano elementi tali da far ritenere la «sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva». Il provvedimento del Ministro che dispone la sospensione dell’applicazione delle normali regole di trattamento ha durata temporanea (quattro anni, con possibilità di proroghe biennali, subordinate, ovviamente, alla verifica della persistenza degli elementi che ne avevano legittimato l’adozione) e può formare oggetto di reclamo dinanzi al Tribunale di sorveglianza di Roma (cui l’art. 2, comma 25, della legge 15 luglio 2009, n. 94, attribuisce competenza esclusiva in materia). Nella vigenza del regime di 41-bis, l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata deve dunque darsi per attestata, il che implicherebbe, ove si ritenga possibile la presentazione di un’istanza per l’ottenimento del permesso premio, l’automatica applicazione del rafforzamento dell’onere probatorio richiesta dalla sent. n. 253/2019 (fornire veri e propri elementi di prova a sostegno dell’assenza di quei collegamenti). Ma, ove il detenuto fosse in grado di fornire tali elementi, questi non dovrebbero essere preliminarmente proposti a sostegno di un reclamo per ottenere la revoca del provvedimento ministeriale? Per rispondere occorre ricordare che la concessione di un permesso premio espone al rischio di vanificare le prescrizioni del provvedimento ministeriale che impone una serie di cautele le quali, limitando in particolare i contatti con altre persone, sono rivolte a interrompere possibili collegamenti (anche indiretti) con esponenti della criminalità organizzata54. Non solo: la sede per valutare il venir meno della attualità dei In tal senso Cass. pen., Sez. I, sent. 8 giugno 2020, n. 21946, che ha annullato un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Sassari, rinviando per un nuovo giudizio, proprio perché l’istanza del condannato non era stata esaminata nel merito. 54 I contenuti delle possibili limitazioni sono ora elencati nel comma 2-quater dell’art. 41-bis della legge n. 354 del 1975. Tra queste: la collocazione in sezioni dell’istituto penitenziario isolate dal resto della struttura; la previsione di un solo colloquio al mese con familiari e conviventi, sottoposto a controllo auditivo e a registrazione, da svolgere in locali attrezzati per evitare il passaggio di oggetti; il controllo sulla corrispondenza e sulla stampa; la quantificazione e definizione di somme, beni e oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno; la permanenza all’aria aperta per non più di due ore, in gruppi non superiori a quattro persone individuate dall’amministrazione (c.d. gruppi di socialità). A ciò si aggiunga la generale (e generica) previsione riguardante «l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna, con riguardo principalmente alla necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate», la cui concreta determinazione lascia ampio spazio di intervento all’amministrazione penitenziaria (si veda, in particolare, la circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 2 ottobre 2017, n. 3676/6126). Più volte – come meglio si preciserà nella successiva nota 90 – la Corte costituzionale è intervenuta per rilevare 53 L’ergastolo ostativo è costituzionale? 23 collegamenti sarebbe surrettiziamente mutata rispetto alla prescrizione legislativa che la individua nel Tribunale di sorveglianza di Roma, per essere identificata, stante la richiesta di concessione del beneficio, nell’Ufficio di sorveglianza del territorio in cui la persona detenuta è reclusa. E come potrebbe conciliarsi la concessione del beneficio con l’eventuale rigetto di un contestuale o successivo reclamo della stessa persona rivolta ad ottenere la revoca del regime di 41-bis? Specie alla luce di questi ultimi argomenti, la soluzione più ragionevole mi sembra, allora, quella di ritenere che la concessione del permesso premio (e, in prospettiva, della liberazione condizionale) presupponga la revoca del provvedimento ministeriale, la sua mancata proroga ovvero la “declassificazione” del detenuto con passaggio ad altro circuito detentivo. Il che vorrebbe dire – per offrire una fotografia della realtà – che ove saltasse la preclusione contenuta nella norma censurata (non solo con riguardo ai condannati per reati di “agevolazione mafiosa” o commessi con utilizzo del “metodo mafioso”) residuerebbero, comunque, 198 ergastolani “ostativi” (pari al numero di persone condannate in via definitiva all’ergastolo attualmente in regime di 41-bis, secondo i dati fornitimi dal DAP, aggiornati al 31 agosto 2020), la cui condizione non sarebbe però irreversibile, potendo mutare nei casi appena prima indicati ossia quando vengano meno gli elementi che abbiano fatto ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva. 8. Di là dalla specifica questione dei condannati in regime di 41-bis, l’eventuale presenza di relazioni delle autorità competenti che attestino l’attualità o il pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata rende oggettivamente complesso l’accoglimento dell’istanza rivolta ad ottenere il permesso premio, già in sé problematico per la generale e presupposta inversione probatoria, prevista in ogni caso. Salvo ad aderire all’interpretazione “riduttiva” prima proposta, che almeno ne depotenzierebbe le implicazioni, non potrebbe ritenersi che la predetta inversione, per il solo fatto di essere richiesta nella motivazione senza essere esplicitata nel dispositivo della sent. n. 253, possa ritenersi incapace di imporsi con effetti erga omnes, perché, come scriveva Emilio Betti, «motivazione e dispositivo costituiscono […] elementi dello stesso atto giuridico e formano tra loro un corpo unitario», in ossequio, peraltro, al «canone elementare della “totalità” della sentenza», quale esplicitazione del canone della totalità nell’interpretazione giuridica55. Proprio alla luce di tutti gli elementi qui descritti, all’esito di una prima lettura della sent. n. 253/2019, ho definito la trasformazione della presunzione da assoluta l’illegittimità costituzionale di restrizioni previste dalla legislazione e applicabili a prescindere dalle esigenze del caso concreto, qualora le stesse avessero «significato meramente afflittivo», non essendo funzionali né congrue «rispetto alla finalità tipica ed essenziale del provvedimento di sottoposizione del singolo detenuto al regime differenziato, consistente nell’impedire le sue comunicazioni con l’esterno» (di recente sent. n. 97/2020, ma anche, tra le altre, sentt. nn. 186/2018 e 143/2013). 55 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (1949), II ed. riv. e ampl. a cura di G. Crifò, Giuffrè, Milano 1971, 361 ss. 24 Marco Ruotolo a semi-assoluta (piuttosto che relativa)56 e sinora i fatti sembrano dare ragione alla mia analisi. A quanto risulta all’esito di una mia ricerca che riguarda i provvedimenti adottati sino alla fine del mese di agosto 2020, sulla base della pronuncia costituzionale sono stati concessi pochissimi permessi premio a condannati per reati ostativi che possano dirsi “non collaboranti per scelta”, rispetto ai quali peraltro le autorità competenti avevano quasi sempre affermato di non essere in possesso di elementi in grado di confermare o di escludere la persistenza di collegamenti con la criminalità organizzata57. Un discorso non dissimile varrebbe, probabilmente, per le conseguenze dell’eventuale accoglimento, nei termini sopra specificati, dell’attuale questione, che determinerebbe un’apertura minima alla liberazione condizionale per i condannati all’ergastolo ostativo, lasciando in piedi il meccanismo della collaborazione con la giustizia quale “via maestra” per accedere alla stessa. Il che – come ho altrove scritto58 – è in un certo senso fisiologico, in quanto la collaborazione, se non garantisce inequivocabilmente la presa di distanza del condannato dal consesso criminale, lascia presumere un allentamento significativo del vincolo nella prevedibile forma della presa di distanza dell’associazione nei confronti del collaborante (oltre a rappresentare elemento da considerare nella valutazione della residua pericolosità sociale, secondo la linea indicata, tra l’altro, nella sent. n. 273/2001 della Corte costituzionale). Peraltro, l’eventuale accoglimento dell’odierna questione restituirebbe coerenza ad un passaggio della sent. n. 253/2019, nel quale si sottolinea la rilevanza della concessione dei permessi premio a fini rieducativi, quali «primi spazi di libertà»59. Attualmente, per l’ergastolano ostativo il permesso premio sembra, invece, assumere rilievo solo per il mantenimento o il ristabilimento delle relazioni con la famiglia, non già in una dimensione di reinserimento sociale60, la quale 56 M. RUOTOLO, Reati ostativi e permessi premio, cit., §3. Si vedano, in particolare: Magistrato di sorveglianza di Sassari, provvedimento del 28 maggio 2020, che ha concesso un permesso premio di due giorni; Tribunale di sorveglianza di Firenze, ordinanza del 18 giugno 2020, che ha concesso un permesso della durata di un giorno; Tribunale di sorveglianza di Perugia, ordinanza del 16 luglio 2020, che ha concesso un permesso della durata di giorni uno, con decorrenza dalle ore 8.00 e scadenza alle ore 20.00 della stessa giornata; Magistrato di sorveglianza di Lecce, provvedimento del 24 luglio 2020, che ha concesso un permesso premio di tre giorni; Magistrato di sorveglianza di Siena, decreto n. 1170/2020 del 7 agosto 2020, che ha concesso un permesso premio di quattro ore, già citato in nota 45; tale non è il caso, invece, del decreto, che ha avuto una certa attenzione mediatica, del Magistrato di sorveglianza di Padova del 17 luglio 2020, in quanto riguardante un condannato per il quale era stata accertata la collaborazione “impossibile”, che dunque avrebbe potuto usufruire del permesso già prima della decisione della Corte costituzionale e a prescindere da essa. 58 M. RUOTOLO, loc. ult. cit. 59 Secondo quanto, d’altra parte, già affermato nella sent. n. 227/1995, preceduta dalla considerazione di essi quali strumenti per un «iniziale reinserimento del condannato nella società», espressa nella sent. n. 188/1990. 60 Al contrario, per definizione normativa, l’istituto del permesso premio si inserisce perfettamente in quella dimensione di reinserimento sociale richiamata nel testo, quale «parte integrante del programma del trattamento» (art. 30-ter, comma 3, della legge n. 354 del 1975). Né va dimenticato, entro tale logica, che lo stesso può essere “concesso” non soltanto per coltivare interessi affettivi, ma anche «culturali o di lavoro» (art. 30-ter, comma 1, della legge n. 354 del 1975). 57 L’ergastolo ostativo è costituzionale? 25 richiederebbe di essere agganciata ad una non impossibile, ancorché difficile (improbabile) prospettiva di liberazione61. 9. Tale eventuale assetto, determinato da una decisione di accoglimento nei termini sopra descritti, potrebbe soddisfare quanto richiesto dalla Corte EDU? La domanda merita una risposta anche in ragione del fatto che, diversamente da quanto accaduto per le questioni decise con la sent. n. 253/2019, la violazione dell’obbligo internazionale di cui all’art. 3 CEDU è ora dedotta per il tramite dell’invocazione quale parametro dell’art. 117, primo comma, Cost. A ben vedere la giurisprudenza europea richiede, come si è già sottolineato, che la pena dell’ergastolo sia de iure e de facto comprimibile, pretendendo che l’equilibrio tra le esigenze di punizione, dissuasione, difesa sociale e reinserimento sociale sia dinamicamente ricercato nell’evoluzione dell’esecuzione della pena (in tal senso la citata sentenza Vinter). Anche se vi è il rischio che la pena dell’ergastolo sia scontata integralmente, ciò che rileva è che il sistema dello Stato membro preveda la possibilità di un riesame della sanzione, consentendo che essa sia commutata o sospesa ovvero prevedendo la concessione della liberazione condizionale, secondo le determinazioni poste da ciascun ordinamento. Se però, inizialmente, sembrava sufficiente la presenza nel sistema di misure discrezionali del potere politico o della grazia presidenziale62, la giurisprudenza europea si va sempre più orientando verso la necessità di una previsione legale che consenta il riesame della pena perpetua, permettendo alle «autorità nazionali di verificare se, durante l’esecuzione della pena, il detenuto abbia fatto dei progressi sulla via del riscatto tali che nessun motivo legittimo relativo alla pena permetta più di giustificare il suo mantenimento in detenzione»63. 61 Non credo invece, diversamente da quanto sostenuto da G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata?, cit., §4, che la Corte possa (o addirittura debba) cogliere l’occasione della decisione sulla questione sottoposta al suo esame per «“sanificare” il sistema nel suo complesso». Sono d’accordo sul fatto che possa ritenersi irragionevole rimuovere l’ostatività penitenziaria per «la tappa iniziale (il permesso premio) e per quella finale (la liberazione condizionale) del percorso trattamentale del detenuto», mantenendola, invece, per «le tappe intermedie», ossia per «tutte le altre misure che tale liberazione preparano o propiziano». Ma credo che sia il legislatore a dover procedere nell’opera di “sanificazione” complessiva del sistema, potendo la Corte intervenire solo chirurgicamente, di volta in volta, per rimuovere le ostatività che ancora precluderebbero le predette “tappe intermedie”. Non sembra, infatti, per quanto si vogliano rinvenire comuni elementi funzionali, che il permesso premio (così come la liberazione condizionale) possa dirsi integralmente assimilabile alle misure alternative (in particolare alla semilibertà), il che dovrebbe precludere il ricorso alla illegittimità consequenziale, non sussistendo quel rapporto di stretta condizionalità tra le norme che disciplinano i rispettivi istituti che potrebbe giustificarne l’impiego, in deroga al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. 62 Corte EDU, Grande Camera, sent. 12 febbraio 2008, Kafkaris contro Cipro. 63 Sent. Vinter, ove si afferma significativamente che l’ergastolano ha diritto di sapere, sin dall’inizio della sua pena, quando e come il riesame della stessa potrà essere richiesto, secondo una procedura – si legge nella sent. Trabelsi contro Belgio del 4 settembre 2014 – fondata su «criteri oggettivi e prestabiliti» che consentano di apprezzare i progressi “trattamentali” della persona detenuta. Si vedano anche le seguenti decisioni della Corte EDU: sent. 18 marzo 2014, Ôcalan contro Turchia; sent. 4 aprile 2016, T.P. e A.T. contro Ungheria; Grande Camera, sent. 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi. Di particolare interesse è la vicenda riguardante la Lituania, in 26 Marco Ruotolo La stessa sentenza Viola sembra però ancora ammettere un margine di apprezzamento statale significativo nel perseguimento delle finalità di prevenzione generale e di protezione della collettività, al fondo ritenendo che la violazione dell’art. 3 CEDU possa essere evitata soltanto facendo applicazione del principio già espresso nella sentenza Pantano contro Italia del 6 novembre 2003, per cui «una presunzione legale di pericolosità può essere giustificata, in particolare quando non è assoluta, ma si presta ad essere contraddetta dalla prova contraria». È qui che viene in rilievo l’argine della dignità umana, imponendo un impegno statale nella prospettiva del reinserimento del detenuto, che non potrebbe essere privato della sua libertà «senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà». In particolare, non può escludersi che la “dissociazione” possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia, ma il regime probatorio richiesto per la sua valutazione non può che essere rimesso alla determinazione statale. Ebbene, nel suo “contenuto essenziale”, la sent. n. 253/2019 rispetta le condizioni minime richieste dalla Corte EDU e altrettanto potrebbe dirsi per un’analoga decisione assunta con riguardo alla questione della preclusione alla concessione della liberazione condizionale. Al fondo, una simile decisione garantirebbe che la presunzione di pericolosità che si lega alla mancata collaborazione non possa essere considerata “inconfutabile”. Basti sul punto ricordare che a seguito della sent. Vinter la Corte europea ha ritenuto il sistema inglese conforme alla Convenzione, ancorché la liberazione anticipata per gli ergastolani sia ammessa solo in circostanze eccezionali e «on compassionate grounds», costituendo, secondo la locale giurisprudenza, un evento anomalo64. Se così stanno (o stessero) le cose, sarebbe persino possibile che la questione della compatibilità con l’art. 117, primo comma, Cost, sia assorbita da un accoglimento fondato esclusivamente sugli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. Non escluderei questa ipotesi, anche perché dalle citate disposizioni costituzionali è ben possibile ricavare quello che definirei come il diritto del detenuto ad un’esecuzione di una pena non disumana, espressione di quel principio del rispetto della dignità della persona umana che trova fondamento tanto nella Costituzione italiana quanto nella CEDU. Come ho altrove sostenuto e qui non ho modo di compiutamente dimostrare65, la posizione che prediligo è quella per cui l’art. 117, primo comma, Cost. dovrebbe essere evocato, e comunque essere «autonomamente» preso in quanto, dopo la decisione della Corte EDU 23 maggio 2017, Matiošaitis e altri contro Lituania, la disciplina dell’ergastolo è stata modificata consentendo la commutazione in pena detentiva di durata determinata, all’esito di esame dei progressi compiuti dal condannato dopo venti anni di espiazione; la nuova disciplina è stata ritenuta conforme a Convenzione nella sent. 18 giugno 2019, Dardanskis e altri contro Lituania. Sul caso lituano vedi, in questo stesso volume, G. GIORGINI PIGNATIELLO, Diritto alla speranza e preclusioni assolute. Una comparazione con l’ordinamento lituano in chiave “preventiva”. 64 Corte EDU, Grande Camera, sent. 17 gennaio 2017, Hutchinson contro Regno Unito. Su tale decisione si veda, in prospettiva critica, D. GALLIANI, Il problema della pena perpetua dopo la sentenza Hutchinson della Corte EDU, in E. DOLCINI – E. FASSONE – D. GALLIANI – PINTO DE ALBUQUERQUE – A PUGIOTTO, Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, Giappichelli, Torino 2019, 125 ss. 65 Rinvio a M. RUOTOLO, L’incidenza della CEDU sull’interpretazione costituzionale. Il “caso” dell’art. 27, comma 3, Cost. in Rivista telematica dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, www.rivistaaic.it, fasc. 2/2013, 19 aprile 2013, 1 ss. L’ergastolo ostativo è costituzionale? 27 considerazione dalla Corte costituzionale, soltanto quando la violazione addotta non sia specificamente riferibile ad altro parametro costituzionale, sia pure interpretato evolutivamente o estensivamente alla luce degli «obblighi internazionali» assunti dallo Stato66. Ciò non vuol dire che la Corte non debba prendere in considerazione quanto sancito nella normativa internazionale pattizia, potendo anzi questa essere richiamata a sostegno di una certa interpretazione del parametro anche quando non evocata dal remittente (o, nel caso del giudizio in via principale, dal ricorrente), come d’altra parte accadeva prima della riforma del Titolo V e come talora avvenuto anche dopo la riforma. Il limite di cui all’art. 117, primo comma, Cost. dovrebbe, insomma, intendersi come «residuale», concretamente evocabile o comunque utilizzabile quale autonoma ragione della dichiarazione di incostituzionalità, solo ove il vincolo da esso discendente non sia ricavabile da altro disposto costituzionale e sempre che il suo rispetto non sia «causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno», costituendo, viceversa, uno «strumento efficace di ampliamento della tutela stessa»67. Entro questi limiti e nello spirito di una «integrazione delle tutele» che tenga conto delle esigenze sistemiche, ben può aprirsi quel confronto prefigurato dalla nostra Corte «tra tutela prevista dalla Convenzione e tutela costituzionale dei diritti fondamentali», effettuato «mirando alla massima espansione delle garanzie»68, «anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetti i medesimi diritti»69. Ad essere valorizzata sarebbe la portata degli apporti sovranazionali (normativi e giurisprudenziali) per il tramite privilegiato dell’interpretazione costituzionale, nella logica di un completamento reciproco tra Carte dei diritti e Costituzioni nazionali, che non pregiudichi il primato di queste ultime. 10. Vi è però un passaggio della sentenza Viola che potrebbe contribuire a far maturare nella Corte italiana un diverso orientamento quanto alla possibile tecnica decisoria da impiegare. La Corte europea ha sottolineato come la questione dell’ergastolo ostativo determini un «problema strutturale», che «impone allo Stato di attuare, di preferenza per iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione dell’ergastolo». Il nostro sistema prevede, come noto, che il controllo di legittimità della Corte costituzionale escluda «ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento» (art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87), ancorché tale limite sia stato ritenuto nei fatti meno penetrante, specie nella giurisprudenza più recente, caratterizzata da manipolazioni talora significative dei testi normativi per conseguire il risultato della loro conformità a Costituzione. La Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e delle altre associazioni criminali similari, anche straniere70, ha elaborato il 20 maggio 2020 una relazione sull’istituto di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, nella quale, prendendo 66 Si tratta di una linea poi seguita dalla Corte costituzionale nella sent. n. 278/2013. Corte cost., sentt. nn. 317/2009 e 264/2012. 68 Corte cost., sent. n. 264/2012. 69 Corte cost., sent. n. 317/2009. 70 Istituita con legge 7 agosto 2018, n. 99. 67 28 Marco Ruotolo atto dei contenuti della sent. n. 253/2019, si sottolinea, tra l’altro, l’opportunità di coordinare il disposto normativo con le recenti pronunce della Corte costituzionale e «con l’aggiunta del beneficio della liberazione condizionale»71. Tenendo conto di tutti questi elementi, che inducono a rendere auspicabile un intervento legislativo tale da garantire la ricerca di un bilanciamento ragionevole tra le esigenze in gioco, non potrebbe escludersi il ricorso alla già praticata tecnica dell’ordinanza collegiale e motivata di rinvio della trattazione della questione, al fine di consentire l’esercizio della funzione legislativa, pur entro linee direttive enucleate dalla Corte72. L’ipotesi costituisce, tuttavia, soltanto una subordinata rispetto all’accoglimento immediato nei termini sopra indicati, anche perché, probabilmente, se la Corte avesse voluto sollecitare un intervento sistematico, di tipo strutturale, avrebbe potuto impiegare la già sperimentata tecnica in occasione della decisione sulla questione relativa ai permessi premio. Vi è però da ribadire che soltanto un intervento legislativo permetterebbe di mettere in campo soluzioni diverse da quelle già indicate dalla Corte costituzionale nella sent. n. 25373. Ciò vale, anzitutto, per l’ipotesi, da alcuni suggerita, di sostituire la prova negativa circa l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata con una prova in positivo a seguito di attività istruttoria della magistratura di sorveglianza74; così come per la proposta di valorizzare, in caso di mancata collaborazione, la tenuta di condotte riparative in favore delle vittime del reato75. A maggior ragione, l’intervento legislativo sarebbe necessario per le seguenti, più ambiziose, proposte, che invero paiono lontane dalla realtà nelle attuali condizioni politico-istituzionali76: eliminazione del requisito della collaborazione come condizione per l’accesso privilegiato ai benefici penitenziari (che sarebbe basato esclusivamente sulla verifica dell’assenza di attuali legami con la criminalità organizzata)77; radicale superamento del sistema a doppio binario, Anche il testo di questa relazione è disponibile nella sezione “Documenti” del sito www.amicuscuriae.it 72 V. ordd. nn. 207/2018 e 132/2020; si veda anche, a seguito dell’inerzia legislativa successiva alla ord. n. 207, la sent. n. 249/2019. 73 Le possibili proposte in campo sono sintetizzate da A. PUGIOTTO, Criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, in C. MUSUMECI – A. PUGIOTTO, Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, Editoriale Scientifica, Napoli 2016, 169 ss. 74 Nella proposta del Tavolo 16 degli Stati generali sull’esecuzione penale si prevedeva il capovolgimento dell’attuale formulazione dell’art. 4-bis, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975: «salvo che siano stati acquisiti elementi tali da far ritenere sussistenti attuali collegamenti...» anziché «purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità dei collegamenti…» (il documento è disponibile sul sito del Ministro della Giustizia, www.giustizia.it). 75 Sempre contenuta nella relazione del predetto Tavolo 16. Indicazioni in tal senso anche nella proposta della c.d. Commissione Palazzo (istituita con d.m. 10 giugno 2013). 76 Non si dimentichi che il Parlamento ha di recente approvato una riforma che esclude l’applicabilità del rito abbreviato ai delitti puniti con l’ergastolo: legge 12 aprile 2019, n. 33. 77 La c.d. Commissione Palazzo aveva proposto, a conclusione dei suoi lavori (relazione reperibile in www.giustizia.it), di consentire l’accesso ai benefici penitenziari in tutte le ipotesi in cui risulti che «la mancata collaborazione non escluda il sussistere dei presupposti, diversi dalla collaborazione medesima, che permettono la concessione dei benefici summenzionati». 71 L’ergastolo ostativo è costituzionale? 29 con l’abolizione dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 197578; abolizione dell’ergastolo e sua sostituzione con una pena a data certa79. Peraltro, un accoglimento della questione potrebbe indurre, come già da alcuni auspicato a seguito della sent. n. 253/201980, ad una riforma dei meccanismi processuali riguardanti la concessione dei c.d. benefici penitenziari al dichiarato fine di assicurare omogeneità, se non uniformità, di valutazione. Il mio timore è, però, che riforme in tale ambito possano mettere in discussione il principio della prossimità del giudice rispetto al condannato, fondamentale nel contesto dell’esecuzione penale, il quale richiede e presuppone la conoscenza del percorso trattamentale del singolo detenuto (anche attraverso un puntuale dialogo con gli operatori penitenziari). In particolare, accentrare in un’unica sede (presumibilmente il Tribunale di Sorveglianza di Roma) i giudizi che riguardano le richieste dei cc.dd. benefici per i condannati per i reati di cui all’art. 4-bis sarebbe un non senso anche per l’inevitabile aggravio di lavoro che ne discenderebbe. Ciò tanto più ove si intendesse distinguere le richieste dei condannati per reati di cui all’art. 4-bis, da trattare “territorialmente” solo ove non si traducano in istanze concernenti i cc.dd. benefici (con una sorta di bizzarro “doppio binario” processuale)81. Una tale deroga agli ordinari criteri di riparto della competenza giurisdizionale sarebbe quanto meno irragionevole oltre che espressiva di una immotivata diffidenza nei confronti della magistratura di sorveglianza operante a livello locale. Peraltro, giova ricordare che, diversamente da quanto accade per i permessi premio, con riguardo alla concessione della liberazione condizionale la decisione è da subito affidata ad una ponderazione collegiale, essendo rimessa al Tribunale di sorveglianza competente territorialmente sull’istituto penitenziario in cui è ristretto l’interessato al momento della richiesta (art. 682 cod. proc. pen.)82. 78 O sua riconduzione alla «ratio originaria di prevenzione, relativa ai (soli) condannati per delitti di matrice mafiosa o di terrorismo», come si legge nella Relazione della Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza, istituita il 26 luglio 2012 dal CSM (la relazione è stata pubblicata nel giugno 2013 nei Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura). 79 Non sono mancate proposte in tal senso nei Progetti Riz (1995), Grosso (2001) e Pisapia (2007). Nel già richiamato contributo di A. PUGIOTTO, Criticità costituzionali, cit., 175, l’Autore propone di cristallizzare la durata massima della pena, conservando i livelli sanzionatori attualmente vigenti per accedere alle misure alternative, di modo che, riprendendo un suggerimento di Elvio FASSONE, Fine pena ora, Sellerio, Palermo 2015, 188, nota 2, «l’innovazione renderebbe temporanea la pena perpetua, ma il percorso penitenziario al suo interno continuerebbe ad avere le stesse cadenze di oggi». 80 Si veda la citata relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere. 81 Nella richiamata relazione della Commissione parlamentare di inchiesta la prima ipotesi prospettata è proprio di affidare la competenza in materia di permessi premio al Tribunale di sorveglianza di Roma, individuando come organo di seconda istanza o una sezione della Corte d’appello di Roma integrata dalla presenza di esperti o lo stesso Tribunale di sorveglianza di Roma in composizione diversa rispetto al collegio che ha emesso il provvedimento impugnato. Salvo a prevedere, esclusivamente, il ricorso in Cassazione per saltum. 82 Il problema della assenza della ponderazione collegiale è stato posto proprio con riguardo alla concessione dei permessi premio ai condannati per reati di cui all’art. 4-bis, ad oggi affidata alla sede monocratica. Per rispondere a tale esigenza, in alternativa alla attribuzione della competenza al Tribunale di sorveglianza di Roma, la Commissione parlamentare di inchiesta ha ipotizzato lo 30 Marco Ruotolo 11. Vengo ora a qualche considerazione più specifica relativa all’istituto della collaborazione, senz’altro strumentale ad ottenere informazioni utili alle esigenze investigative, e alle sue implicazioni in ambito penitenziario. Tenuta in debita considerazione la gravità e la peculiarità dei reati legati alla criminalità organizzata, sarei portato a dire che la collaborazione con la giustizia ben possa radicare, ai fini dell’art. 176 cod. pen., una presunzione di “ravvedimento”, così come la mancata collaborazione una presunzione di “non ravvedimento”. Tali presunzioni devono però essere sempre superabili (in quanto relative), in un senso e nell’altro: la collaborazione non è, in sé, indice di “sicuro ravvedimento”, così come la non collaborazione non può essere indice di “sicuro non ravvedimento” (come sembra ammettere la stessa Corte costituzionale nella sent. n. 306/199383). Certamente, in principio, la collaborazione può essere intesa come manifestazione di sincero ravvedimento, indizio significativo – come già si è sostenuto – dell’interruzione dei collegamenti del dichiarante con il consesso criminale di appartenenza, del quale fornisce alle autorità di polizia e giudiziaria notizie utili per la ricostruzione dei fatti, per l’individuazione o la cattura di autori di reati, anche adoperandosi concretamente per evitare che le attività delittuose siano portate a conseguenze ulteriori84. Tale atteggiamento non può non rilevare nella valutazione sulla pericolosità sociale, producendo anche “utilità” per la situazione processuale e penitenziaria dell’interessato, considerato pure l’elevato rischio di ritorsioni al quale espone sé e i suoi familiari85. Dall’altro lato, la mancata collaborazione può ben essere indizio della perdurante condivisione degli obiettivi propri della criminalità organizzata, espressione del rifiuto della rivisitazione critica del proprio passato, indice, insomma, di perdurante pericolosità sociale. La collaborazione, però, può essere anche meramente opportunistica, così come la non collaborazione può essere dovuta a ragioni varie, dall’innocenza del spostamento della competenza a decidere sulle istanze di permesso premio dal Magistrato di sorveglianza al Tribunale di sorveglianza, con reclamo o alla Corte d’appello del distretto o al Tribunale di sorveglianza di Roma. Anche tale soluzione suscita non poche perplessità, dovendosene peraltro valutare la praticabilità, tenuto conto del presumibile incremento di lavoro conseguente alle “aperture” determinate dalla sent. n. 253/2019 e considerata la consistenza e la distribuzione dell’organico nel territorio. 83 Nella sent. n. 306/1993 la Corte afferma, infatti, che se «è ben vero che la collaborazione consente di presumere che chi la presta si sia dissociato dalla criminalità e che ne sia perciò più agevole il reinserimento sociale», tuttavia «dalla mancata collaborazione non può trarsi una valida presunzione di segno contrario, e cioè che essa sia indice univoco di mantenimento dei legami di solidarietà con l’organizzazione criminale: tanto più, quando l’esistenza di collegamenti con quest’ultima sia stata altrimenti esclusa». 84 In termini simili sono definite le attività delle «persone che collaborano con la giustizia» nell’art. 58-ter della legge n. 354 del 1975. 85 Si tratta di considerazioni espresse da Giovanni Falcone alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Senza la previsione di un possibile “alleviamento” della situazione processuale – sosteneva Falcone – «nessun soggetto può ritenere utile di collaborare, perché gliene deriverebbe soltanto un gravissimo rischio per la sua persona e per quella dei famigliari». E, ancora: «occorre finalmente riconoscere che, senza la previsione di effetti favorevoli in termini di quantità di pena discendenti direttamente dalla collaborazione, non ci sarà più nessuno, in un ordinamento disciplinato dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, disposto a confessare i propri crimini e ad indicare i correi». Tali passaggi sono ora contenuti in G. FALCONE, La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia, BUR Rizzoli, Milano 2010, 46. L’ergastolo ostativo è costituzionale? 31 condannato, ipotesi che non può realisticamente essere scartata86, al timore di ritorsioni nei suoi confronti o dei suoi affetti. Anche se pure quest’ultimo argomento non può essere enfatizzato, perché il sistema italiano offre speciali misure di protezione, estese ai familiari e solitamente apprezzate quanto a efficacia ed efficienza, che possono tradursi in un programma speciale di protezione che comprende il cambiamento delle generalità del collaborante e forme di sostegno al reddito. Ciò, comunque, nella consapevolezza – che merita di essere ribadita e che è stata espressa anche nel citato Amicus Curiae dell’Organizzazione “L’Altro Diritto” – che l’inserimento nel programma di protezione comporta un’inevitabile e significativa compressione della libertà e dell’autonomia non del solo condannato, ma anche di persone incolpevoli appartenenti al suo nucleo familiare. Tutte queste considerazioni impongono la ricerca di una soluzione equilibrata, che la Corte costituzionale, con il comunicato stampa emesso in occasione del deposito della sent. n. 253/2019, ha inteso sintetizzare nei seguenti termini: «“giusto” premiare il detenuto che collabora, inammissibile “punirlo” ulteriormente per la mancata collaborazione»87. Resta, tuttavia, particolarmente delicata la questione di come superare la permanente (e condivisibile) presunzione di non ravvedimento conseguente alla mancata collaborazione. Probabilmente, come si è già sostenuto, la soluzione offerta nella sent. n. 253/2019, nella parte in cui si riferisce al pericolo di ripristino (e non solo all’attualità) dei collegamenti con la criminalità organizzata, appare eccessiva, specie ove riferita alla posizione di condannati per reati che non presuppongano propriamente l’affiliazione all’organizzazione criminale. Forse per questi ultimi la presunzione potrebbe essere resa meno stringente, ammesso che lo non lo sia già nei fatti. Il profilo del capo clan (che peraltro, di solito, resta in regime di 41-bis anche a distanza di tempo dal commesso reato o dalla condanna) o dell’affiliato è ben diverso da quello di chi abbia agevolato l’associazione o si sia avvalso del metodo mafioso, come d’altra parte affermato dalla stessa Corte costituzionale con riferimento alle presunzioni di pericolosità per l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere88. Sia consentito al riguardo ricordare, per inciso, come la predetta giurisprudenza costituzionale abbia rilevato l’irragionevolezza di presunzioni assolute che determinino, nella fase cautelare, la limitazione di un diritto fondamentale della persona89, secondo un argomento 86 Ancorché non possa essere normativamente contemplata, non potendo certo il legislatore prefigurare una tale ipotesi in contraddizione con quanto accertato in sentenza di condanna, con la c.d. verità processuale. 87 Questo il titolo completo del comunicato stampa pubblicato il 4 dicembre 2019 sul sito della Corte costituzionale (www.cortecostituzionale.it): Reati ostativi e permessi: “giusto” premiare il detenuto che collabora, inammissibile “punirlo” ulteriormente per la mancata collaborazione. Il “corrispondente” passo contenuto nella sent. n. 253/2019 è il seguente: «alla stregua dei principi di ragionevolezza, di proporzionalità della pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, un conto è l’attribuzione di valenza premiale al comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti una collaborazione utile ed efficace, ben altro è l’inflizione di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante, presunto iuris et de iure quale persona radicata nel crimine organizzato e perciò socialmente pericolosa» 88 Si vedano sentt. nn. 57/2013 e 48/2015, nonché ord. n. 136/2017. 89 Indicazioni non dissimili, con riferimento alla violazione dell’art. 5 CEDU, provengono dalla Corte di Strasburgo: sent. S.B.C. contro Regno Unito del 19 giugno 2001; sent. Boicenco contro 32 Marco Ruotolo ritenuto valido, a maggior ragione, nella fase dell’esecuzione della pena, per il ruolo centrale ivi assunto dal «trascorrere del tempo, che può comportare trasformazioni rilevanti, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere»90. Tornando al punto che stavamo approfondendo, in base ai dati di esperienza, i vincoli operativi e di omertà e anche il livello di pericolosità del “partecipe” sembrano assumere una diversa consistenza rispetto a quelli dell’“estraneo”, che si è reso responsabile di reati di “contesto mafioso” pur non avendo legami strutturali con il sodalizio criminale. È qui che, forse più con un auspicabile intervento normativo che non attraverso una pronuncia della Corte costituzionale, si potrebbe introdurre, con riguardo alla posizione dell’“estraneo”, la prova in positivo in luogo della prova negativa, non precludendo, anche in assenza di collaborazione, l’accesso alla liberazione condizionale “salvo che siano stati acquisiti elementi tali da far ritenere sussistenti attuali collegamenti con la criminalità organizzata” [“o il pericolo del loro ripristino”, ove s’intenda ribadire tale condizione, “introdotta” dalla sent. n. 253/2019, pure per la liberazione condizionale]. Per il “partecipe”, viceversa, tale accesso resterebbe possibile “allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata” [e “il pericolo del ripristino di tali collegamenti”, sempre ove, come già scritto, s’intenda ribadire tale condizione pure per la liberazione condizionale]. Dovrebbe, comunque sia, essere tenuta per ferma la perdurante rilevanza dell’accertamento della impossibilità o della inesigibilità della collaborazione pure ove sia ammessa, alle stringenti condizioni indicate, la possibilità della concessione della liberazione condizionale a favore di chi sia “non collaborante per scelta”. Il descritto regime probatorio per accedervi dovrebbe valere soltanto per quest’ultimo, altrimenti introducendosi un paradossale aggravamento delle condizioni per l’ottenimento a carico di chi non abbia collaborato perché non ha potuto farlo, stante la sua limitata partecipazione al fatto criminoso o per l’ormai intervenuto integrale accertamento delle circostanze e delle responsabilità ad esso connesse. In tal senso pare orientarsi, con riguardo alla concessione dei permessi premio e non senza iniziali esitazioni91, la giurisprudenza di legittimità che opportunamente afferma la perdurante operatività, pur dopo la sent. n. 253/2019, degli istituti della collaborazione impossibile o inesigibile, proprio in ragione del fatto che il loro accertamento «consente di circoscrivere la dimostrazione probatoria al parametro della “esclusione di attualità dei collegamenti”», senza coinvolgere quello “aggiuntivo” e più complesso da dimostrare della «assenza del pericolo di ripristino di tali collegamenti», che interessa, perciò, solo il “non collaborante per scelta”92. Ne discenderebbe, dunque, l’esistenza di tre (e non due) situazioni determinanti un diverso regime per l’accesso al permesso premio, legate alla differente posizione di chi collabora, di chi non collabora per scelta e di chi, invece, non potrebbe utilmente collaborare (collaborazione impossibile o inesigibile). Moldavia dell’11 luglio 2006. 90 Secondo quanto si legge, di nuovo, nella sent. n. 253/2019. 91 In particolare, Cass. pen. Sez. I, 14 gennaio 2020, n. 3309. 92 Cass. pen, Sez. I, 12 dicembre 2019, n. 10551; 28 gennaio 2020, n. 5553; si vedano anche, pure con diverso percorso argomentativo, Cass. pen, Sez. I, 21 febbraio 2020, nn. 12554 e 12555. L’ergastolo ostativo è costituzionale? 33 Ad ogni modo, anche per il “non collaborante per scelta” non potrebbe essere in nessun caso aprioristicamente esclusa, ai fini della concessione della liberazione condizionale, la rilevanza del concreto percorso di esecuzione della pena. Rendere la presunzione superabile da prova contraria, significherebbe restituire al giudice la possibilità di valutare il processo di risocializzazione, insieme a tutti gli altri elementi che possano assumere rilievo per comprovare il definitivo allontanamento dalla criminalità organizzata. Da sola, però, la positiva partecipazione al c.d. percorso trattamentale non basta, come si vorrebbe in base alla retorica, non priva di connotazione paternalistica, che vuole il buon detenuto di oggi buon cittadino di domani93. Non basta nell’ottica di un bilanciamento che, specie ove riferito al fenomeno della criminalità organizzata, non può che attribuire un peso particolarmente consistente alle esigenze di difesa sociale, che ben possono giustificare limitazioni anche al perseguimento della stessa finalità rieducativa94. Ci rassicura, però, il fatto che l’affermata prevalenza di una specifica esigenza (la difesa sociale) non può spingersi oltre il punto di estrema tensione che determini la completa compromissione del valore in conflitto (la rieducazione), perché è proprio tale superamento che espone le prescrizioni che lo determinano a essere dichiarate costituzionalmente illegittime. Si ricordi che la Corte costituzionale ammette che il legislatore possa dare la preferenza, di volta in volta, all’una o all’altra finalità della pena (escludendo una gerarchia statica e assoluta tra le stesse), ma «a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata»95, precisando, in particolare, che «l’opzione repressiva» non può mai «relegare nell’ombra il profilo rieducativo»96. Ebbene, la norma censurata si pone fuori da questa logica, provocando proprio il travalicamento di quel confine, il completo sacrificio dell’esigenza rieducativa, che costituisce finalità propria della pena, addirittura l’unica espressamente menzionata nell’art. 27, terzo comma, Cost. Non a caso, l’art. 27 del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, recante il Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario, prevede una più complessa «osservazione scientifica della personalità», che va ben al di là della mera considerazione della “buona condotta”. 94 Sempre a condizione che la limitazione non abbia «valenza meramente e ulteriormente afflittiva», come accade sicuramente allorché al «decremento di tutela di un diritto fondamentale» «non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango». Così, ad esempio, è stato ritenuto incostituzionale il limite quantitativo posto per i colloqui con i difensori di detenuti in regime di 41-bis, proprio perché «alla compressione – indiscutibile – del diritto di difesa indotta dalla norma censurata non corrisponde, prima facie, un paragonabile incremento della tutela del contrapposto interesse alla salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini» (sent. n. 143/2013). Più di recente possono vedersi le decisioni, sempre riguardanti la situazione di detenuti in regime di 41-bis, che hanno rilevato l’incostituzionalità delle disposizioni normative che sancivano il divieto di cottura dei cibi in cella (sent. n. 186/2018) e il divieto di scambiare oggetti e beni di modico valore tra persone appartenenti al medesimo gruppo di socialità (sent. n. 97/2020). Misure considerate sproporzionate (in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.), che, come si legge nella sent. n. 97/2020, appaiono il frutto di un bilanciamento compiuto ex ante dal legislatore, a prescindere da una verifica in concreto delle specifiche esigenze di sicurezza e senza possibilità di adattamenti calibrati sulla peculiarità dei singoli casi. 95 Sent. n. 306/1993. 96 Sent. n. 257/2006. V. anche sentt. nn. 79/2007 e 189/2010. 93 34 Marco Ruotolo 12. In questo senso e in questi limiti la questione ora all’esame della Corte sembra segnata dalla ratio decidendi della sent. n. 253/2019. Come giustificare per l’accesso alla liberazione condizionale una tipologia di presunzione diversa da quella delineata per la concessione del permesso premio? L’unificante universo dell’esecuzione della pena sembra proprio imporre l’allineamento del sistema che la questione sollevata dalla Cassazione propone di realizzare. Si tratta, ora, di portare a compimento quanto si ricava dalla stessa giurisprudenza costituzionale, avendo consapevolezza che la «personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato» (sent. n. 149/2018) e che il principio rieducativo caratterizza ontologicamente la pena, «da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» (sent. n. 313/1990). Le premesse per questo necessario svolgimento possono persino trarsi dalla nota affermazione, contenuta nella sent. n. 204/1974, per cui il condannato ha diritto a che «il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al fine rieducativo». Tale considerazione ha poi costituito la ragione principale dell’immediatamente successivo rigetto della questione di costituzionalità riguardante l’ergastolo comune, ritenuto non incompatibile con la Costituzione proprio in virtù della presenza nel sistema dell’istituto della liberazione condizionale, il quale consente «l’effettivo reinserimento anche dell’ergastolano nel consorzio civile», secondo quanto previsto dall’art 176 cod. pen., sul punto allora modificato dall’art. 2 della legge 25 novembre 1962, n. 1634 (sent. n. 264/1974 e poi sent. n. 274/198397). Come poi è stato ribadito e ulteriormente chiarito, la «liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo» (sent. n. 161/199798). Si potrà discutere tale ultima affermazione, come molti hanno fatto, poiché dire che la pena dell’ergastolo è in tanto conforme a Costituzione (de iure) in quanto sia in concreto riducibile (de facto) può significare ammettere, che in sé, de iure, quella sanzione è costituzionalmente inammissibile99. Ma dovrebbe essere almeno certo, 97 Pure la giurisprudenza europea considera la presenza di tale istituto quale fattore da prendere in considerazione per apprezzare la compatibilità di una pena perpetua con l’art. 3 CEDU, come ad esempio accaduto nella sent. 29 aprile 2008, Garagin contro Italia. 98 Con tale decisione è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 177, primo comma, cod. pen., nella parte in cui non prevedeva che il condannato alla pena dell’ergastolo, cui fosse stata revocata la liberazione condizionale, potesse nuovamente fruirne in presenza dei richiesti presupposti; i contenuti di questa decisione sono stati opportunamente valorizzati nell’Amicus Curiae depositato presso la Corte costituzionale dal “Centro studi giuridici europei sulla grande criminalità - Macrocrimes” (anch’esso disponibile in www.amicuscuriae.it). 99 Lo ha sostenuto, in più occasioni, Luigi Ferrajoli, parlando del paradosso di una pena perpetua dichiarata costituzionalmente legittima nella misura in cui essa sia in realtà non perpetua (v., ad es., L. FERRAJOLI, Ergastolo e diritti fondamentali, in Dei delitti e delle pene, 1992, 79 ss.). Simile è, oggi, la posizione di G. M. FLICK, Ergastolo: perché ho cambiato idea, in Rivista della Associazione Italiana dei Costituzionalisti, www.rivistaaic.it, fasc. 2/2015, 8, secondo il quale «è paradossale che si possa ritenere costituzionale l’ergastolo con la sua perpetuità in astratto, solo a patto di eliminare quella perpetuità in concreto: una pena incostituzionale perché perpetua nella sua comminatoria, diventa tollerabile soltanto perché non è perpetua nella sua esecuzione». L’ergastolo ostativo è costituzionale? 35 per ciò che interessa in questa sede, che essa implichi l’incostituzionalità di preclusioni che rendano la pena perpetua de facto non riducibile, senza che, alla luce della più recente giurisprudenza costituzionale ed europea qui solo parzialmente richiamata, possa assumere rilievo ancora decisivo il fatto che la “scelta” del condannato nella decisione di non collaborare possa cambiare nel tempo. Quel cambiamento potrà rendere meno difficile o improbabile l’accesso alla liberazione condizionale, sempre che non si ravvisi l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e a condizione che siano presenti gli altri elementi, più volte richiamati, che consentano un positivo giudizio prognostico circa la futura condotta di vita del condannato nel contesto sociale. Il discorso sulla collaborazione come “scelta” potrebbe peraltro essere agevolmente ribaltato: se il detenuto deve collaborare perché sia esaminata una sua possibile liberazione, la scelta, a quei fini, non sarebbe più tale, perché la collaborazione finirebbe per essere imposta, con coartazione della libertà di autodeterminazione o della libertà morale del condannato100, esposto anche al rischio dell’auto-incriminazione in spregio al principio del nemo tenetur se detegere, la cui operatività, come si legge nell’Amicus Curiae presentato dalla “Associazione Antigone”, non può certo dirsi confinata alla sede cautelare101. L’accoglimento della questione attenuerebbe pure questa frizione, impedendo che la mancata collaborazione determini in sé l’inasprimento sanzionatorio più radicale che discende dalla qualificazione dell’immutabilità della pena perpetua. In tal modo si restituirebbe anche all’ergastolano ostativo quel “diritto alla speranza” di cui oggi molti parlano, seguendo la scia della giurisprudenza europea, o, forse meglio, si attribuirebbe un peso rilevante al concetto di fiducia pure nell’ambito dell’esecuzione della pena. È la fiducia che è tradita dalla commissione Analogamente, Emilio Dolcini sostiene che «la possibilità di accedere alla liberazione condizionale non elimina […] la tensione di fondo tra una pena concepita per escludere definitivamente il condannato dalla società […] e il principio di rieducazione del condannato» (ID., La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, in E. DOLCINI – E. FASSONE – D. GALLIANI – P. PINTO DE ALBUQUERQUE – A. PUGIOTTO, Il diritto alla speranza, cit., 33). Amplia la prospettiva F. PALAZZO, L’ergastolo ostativo nel fuoco della quaestio legitimitatis, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre?, cit., in part. 5 ss., ponendo il problema della compatibilità costituzionale dell’ergastolo (non solo ostativo) con riguardo non esclusivo alla rieducazione, ma anche ai principi della ragionevolezza e razionalità, nonché, soprattutto, della proporzione e della dignità. 100 Cfr. G. M. FLICK, Ergastolo ostativo: contraddizioni e acrobazie, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, 1507, e G. NEPPI MODONA, Ergastolo ostativo: profili di incostituzionalità e di incompatibilità convenzionale, ivi, 1510. 101 Anche l’Amicus Curiae di Antigone è disponibile nella sezione “Documenti” del sito www.amicuscuriae.it. In tale direzione si vedano già le considerazioni di E. DOLCINI, La pena detentiva perpetua, cit., 25. È peraltro esplicitamente affermato nella giurisprudenza costituzionale che il diritto al silenzio nella fase della esecuzione della pena sia corollario dell’inviolabilità del diritto di difesa (sent. n. 165/2008, ordd. nn. 33/2002 e 282/2008). Come si legge nella sent. n. 253/2019, «garantita nel processo nella forma di vero e proprio diritto, espressione del principio nemo tenetur se detegere, la libertà di non collaborare, in fase d’esecuzione, si trasforma infatti – quale condizione per consentire al detenuto il possibile accesso all’ordinario regime dei benefici penitenziari – in un gravoso onere di collaborazione che non solo richiede la denuncia a carico di terzi (carceratus tenetur alios detegere), ma rischia altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti ancora non giudicati». 36 Marco Ruotolo del reato, che determina sempre una lacerazione più o meno grave del legame sociale. È alla restaurazione del legame sociale che la pena deve tendere, è alla ricostruzione della fiducia originariamente tradita che può ambire. Ove quel risultato sia raggiunto la presunzione di mancato ravvedimento legata alla non collaborazione del condannato deve poter essere superata. Se il fine della pena è perseguito ad esso dovrebbe corrispondere la fine della pena102. L’ergastolo ostativo preclude proprio che ciò accada, rendendo la pena perpetua «pena di morte diluita giorno per giorno»103, come ha scritto Francesco Carnelutti. Al titolo di un suo saggio – La pena dell’ergastolo è costituzionale?104 – mi sono voluto ispirare, adattandolo alla trattazione del tema della pena effettivamente perpetua. L’ergastolo ostativo è costituzionale? La mia risposta è ovviamente negativa. L’ergastolo ostativo è costituzionalmente, convenzionalmente e umanamente intollerabile105. 102 Al riguardo, G. M. FLICK, Ergastolo: perché ho cambiato idea, cit., 3, afferma che la pena è «sottoposta alla “condizione risolutiva” rappresentata dal reinserimento sociale del condannato». 103 F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, I, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1946, 54 s. Non è un caso che l’ergastolo sia stato inteso, sin dalla sua previsione nel codice Zanardelli, quale «surrogato della pena capitale» (G. CRIVELLARI, Sub art. 12, ne Il Codice penale per il Regno d’Italia, vol. II, Unione tipografico editrice, Torino 1890, 279), e che la pena perpetua sia stata di recente definita da Papa Francesco quale «pena di morte nascosta» (nel Discorso del Santo Padre Francesco alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale del 23 ottobre 2014, pubblicato, con 23 saggi di commento, in P. GONNELLA – M. RUOTOLO, Giustizia e carceri secondo papa Francesco, Jaca Book, Milano 2016). Tale ultima definizione è stata ripresa nella Lettera enciclica Fratelli tutti del Santo Padre Francesco sulla fraternità e l’amicizia sociale, 3 ottobre 2020, §268 (disponibile in www.vatican.va). 104 Pubblicato in Riv. dir. proc., 1956, 1. 105 Mi piace concludere ricordando le riflessioni di Aldo Moro riguardanti la pena perpetua, registrate nel suo penultimo Corso universitario e ora pubblicate in A. MORO, Lezioni di istituzioni di diritto e procedura penale tenute alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma – A.A. 1975-1976, raccolte e curate da Francesco Tritto, Cacucci, Bari 2005, 116: «l’ergastolo, che privo com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumano non meno di quanto sia la pena di morte». E ancora: «Ci si può, anzi, domandare se, in termini di crudeltà, non sia più crudele una pena che conserva in vita privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena che tronca, sia pure crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto e lo libera, perlomeno, con sacrificio della vita, di quella sofferenza quotidiana, di quella mancanza di rassegnazione o di quella rassegnazione che è uguale ad abbrutimento, che è la caratteristica della pena perpetua. Quando si dice pena perpetua si dice una cosa estremamente pesante, estremamente grave, umanamente non accettabile. Quindi ci deve essere un’adeguatezza, ci deve essere una proporzione della pena nei confronti del reato» (corsivo mio). VERSO UN’INCOSTITUZIONALITÀ PRUDENTEMENTE BILANCIATA? SPUNTI PER UNA DISCUSSIONE RELAZIONE INTRODUTTIVA di GLAUCO GIOSTRA SOMMARIO: 1. Una premessa di metodo. – 2. I limiti che lo Stato deve rispettare nell’imporre condizioni di accesso alle misure rieducative. – 3. La collaborazione con la giustizia può rientrare nel perimetro di tali condizioni? – 4. I margini per una dichiarazione di illegittimità consequenziale. – 5. Quali livelli probatori per essere ammessi alla liberazione condizionale? – 6. La temperie culturale in cui i giudici sono chiamati a pronunciare giustizia. – 7. «Dimerticolare» l’equazione “+ repressione = + sicurezza sociale”. 1. L’ottima ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione ed i pregevoli Amicus curiae, puntualmente inseriti nei materiali di questo incontro, mi hanno sconsigliato di riproporre in modo probabilmente meno nitido ed incisivo le argomentazioni che vi sono svolte e che condivido pienamente. Tanto più che Marco Ruotolo, nella sua relazione, sviscererà i temi sul tappeto in modo esauriente e particolarmente approfondito. Forse è meno inutile da parte mia - come ho preannunciato agli organizzatori del presente seminario, che ringrazio sentitamente per questo invito molto gradito sottoporre al dibattito alcuni spunti di riflessione a latere, lungo questi filoni tematici: 1) Quali limiti deve rispettare lo Stato nell’imporre condizioni di accesso alle misure rieducative; 2) Se la collaborazione con la giustizia ricada entro il perimetro del “richiedibile”; 3) Quali margini di ampliamento applicativo per illegittimità consequenziale potrà/dovrà avere l’auspicata declaratoria di incostituzionalità; 4) Se la Corte costituzionale, una volta caducata la presunzione assoluta legata alla collaborazione, possa “compensativamente” alzare ad libitum il livello probatorio necessario per ammettere alla liberazione condizionale. Infine, forse fuoriuscendo dal perimetro del compito che mi è stato affidato, vorrei abbandonare il profilo tecnico-giuridico per calare il problema de quo nel deteriorato contesto in cui la Corte costituzionale negli ultimi tempi è stata costretta (e verosimilmente anche nell’emananda decisione sarà costretta) a pronunciarsi. 2. La questione oggi all’esame della Corte costituzionale è stata da questa già affrontata e risolta negando l’asserito contrasto con l’art. 27 Cost. (sentenza n. 153/2003) e, come ci ricorda con la consueta puntualità la Traccia per la discussione, la Cassazione – poggiando prevalentemente su tale precedente – sino a ieri l’altro l’ha sempre respinta come manifestamente infondata. Penso che quella  Ordinario di Diritto processuale penale, Università di Roma-Sapienza. 38 Glauco Giostra pronuncia abbia esercitato un’influenza non soltanto sulla chiusura giurisprudenziale, ma anche sull’approccio metodologico con cui, da allora, la questione è stata affrontata. Non è inutile, per meglio chiarire il senso di questa affermazione, un breve rewind. Il giudice a quo di allora aveva precipuamente imperniato il suo argomentare sulla sentenza che aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 177 c.p., nella parte in cui non prevedeva che il condannato alla pena dell'ergastolo, al quale fosse stata revocata la liberazione condizionale, potesse essere nuovamente ammesso a fruire del beneficio (sentenza n. 161/1997). In quella pronuncia, la Corte aveva incisivamente formulato un importante principio: «se la liberazione condizionale è l'unico istituto che (…) rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell'ergastolo, vale evidentemente la proposizione reciproca, secondo cui detta pena contrasta con la Costituzione ove (…) fosse totalmente preclusa, in via assoluta, la riammissione del condannato alla liberazione condizionale». Rifacendosi a questo precedente, il giudice remittente aveva sostenuto che anche per la preclusione assoluta derivante dalla mancata collaborazione dovesse valere lo stesso ragionamento. La Corte, nel dichiarare non fondata la questione, ebbe buon gioco a replicare che la preclusione prevista dall’art. 4-bis comma 1 ord. penit. «non è conseguenza che discende automaticamente dalla norma censurata, ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare pur essendo nelle condizioni per farlo» (ancora sentenza n.153/2003). Da questa risalente pronuncia il focus della questione si è concentrato sul problema della effettiva libertà del condannato nell’operare tale scelta. Si è ragionato, e in molti casi si ragiona ancora, secondo il seguente sillogismo: la pena carceraria, la cui fine deve coincidere con quella della vita del condannato è costituzionalmente e convenzionalmente illegittima; la liberazione condizionale sottrae l’ergastolo a una tale censura, prospettando la possibilità di una conclusione anticipata dell’espiazione della pena; se la concessione della liberazione condizionale viene subordinata ad un determinato comportamento da parte del condannato, è costituzionalmente e convenzionalmente necessario che tale comportamento sia effettivamente rimesso alla sua libera scelta, in modo che dipenda da lui la possibilità di tornare in libertà. Il dibattito si è dunque incentrato, con rilievi critici beninteso molto interessanti e tutti condivisibili, sul problema se quella di collaborare possa considerarsi davvero frutto di una libera determinazione dell’interessato. Credo tuttavia che, ancor prima, bisognerebbe discutere del significato e della esigibilità della condotta pretesa. Non è che se per essere ammessi alla liberazione condizionale fosse richiesto – lo dico per estremizzare, naturalmente – l’abiura di un credo politico o religioso (per esempi meno irrealistici, v. nota 1), un tale presupposto potrebbe andare esente da critiche sol perché il condannato sarebbe libero di realizzarlo. Quando la concessione di una misura fondamentale per il rientro in società del condannato, come la liberazione condizionale, è subordinata a determinate condotte del beneficiario, queste devono essere funzionalmente coerenti con la finalità della misura, così che la loro mancanza o presenza sia inequivoca espressione del percorso riabilitativo compiuto dal condannato. Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? 39 Sarebbe in linea con tale principio, solo per fare qualche esempio, valorizzare la circostanza che il condannato si sia reso disponibile ad avviare un percorso di giustizia riparativa; non abbia rifiutato una opportunità di lavoro per riuscire a risarcire la vittima; abbia tenuto condotte disciplinarmente e penalmente irreprensibili. Questi comportamenti e la liberazione condizionale convergono in sinergia funzionale verso l’obbiettivo del positivo reinserimento sociale del soggetto. Si può, anzi si deve ponderare se e per quanto tempo la loro inosservanza possa risultare preclusiva della concessione del beneficio; vi è comunque una congruità teleologica tra questi e la liberazione condizionale, tale da giustificare una scelta legislativa che costituisca gli uni come presupposti necessari per la concessione dell’altra. Se, invece, per concedere la liberazione condizionale si richiede al condannato una condotta che mira ad un obbiettivo politico, magari in sé condivisibile1, ma del tutto eccentrico rispetto al recupero sociale della persona, questa diviene mezzo e non fine, tradendo ad un tempo l’impostazione personalistica del nostro impianto costituzionale, in generale, e la funzione rieducativa della pena, in particolare. In tal caso, che la collaborazione sia frutto di una effettiva libera scelta o no, non rileva neppure: la strumentalizzazione dell’individuo, tanto più se fisicamente assoggettato al potere autoritativo dello Stato, non dovrebbe mai trovare cittadinanza nel nostro contesto costituzionale. 3. Se così stanno le cose, bisogna prima di tutto chiedersi: che senso ha pretendere la collaborazione con la giustizia per concedere la liberazione condizionale? A questo interrogativo si è data da sempre una risposta duplice: si tratta di una scelta politica per combattere la criminalità mafiosa; si tratta di un criterio legale vòlto a dimostrare l’avvenuto ravvedimento e/o la cessata pericolosità. È di tutta evidenza che la prima riconosce con ruvida franchezza il reale obbiettivo del legislatore, mentre la seconda cerca di coprirne, senza riuscirvi appieno, l’impresentabilità. La prima ratio corrisponde alla finalità effettivamente perseguita, che però presenta una palese incongruità rispetto alla misura che ne è condizionata; la seconda sarebbe invece ad essa fisiologicamente funzionale, se non fosse scopertamente fasulla. Verosimilmente, proprio nella consapevolezza della dubbia legittimità costituzionale della presunzione assoluta che si accingeva ad introdurre, il legislatore del 1992 (cfr. Relazione presentata in Senato in sede di conversione del decreto-legge n. 306 del 1992, atto n. 328) si preoccupò di spiegare come le nuove norme avessero inteso esprimere che, «attraverso la collaborazione, chi si è posto 1 Ad esempio: dal condannato per un grave episodio di corruzione si potrebbe pretendere di fare il nome dei politici che prendono parte, a prescindere dall’episodio a lui addebitato, ad un sistema di collaudate concussioni, sistema che risulta agli atti non essergli sconosciuto; dall’immigrato condannato per un reato contro la libertà sessuale si potrebbero pretendere informazioni circa i protagonisti e l’organizzazione del traffico di esseri umani. Contributi investigativamente preziosi, ma non per questo esigibili, essendo privi di significato dal punto di vista risocializzativo. 40 Glauco Giostra nel circuito della criminalità organizzata può dimostrare per facta concludentia di esserne uscito», e che pretendere tale scelta è in armonia con il principio della funzione rieducativa della pena, «perché è solo la scelta collaborativa ad esprimere con certezza quella volontà di emenda che l'intero ordinamento penale deve tendere a realizzare». La soluzione normativa ha poi ricevuto l’avallo, anche nelle sue motivazioni, da parte della Corte costituzionale, che ha trovato non irragionevole, per quanto in particolare concerne la liberazione condizionale, «che non sia possibile dimostrare […] il sicuro ravvedimento del condannato se non in presenza della collaborazione con la giustizia» (sentenza n. 273/2001). La disciplina de qua, infatti, non impedirebbe in maniera assoluta e definitiva l’ammissione alla liberazione condizionale, ma ancorerebbe «il divieto alla perdurante scelta del soggetto di non collaborare con la giustizia; scelta che è assunta dal legislatore a criterio legale di valutazione di un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini di accertare il "sicuro ravvedimento" del condannato» (sentenza n. 135/2003). Ma è la stessa Corte costituzionale a non credere sino in fondo che le cose stiano in questi termini. Se fosse ragionevole e costituzionalmente legittimo che la scelta di collaborare costituisca la prova indispensabile per accertare il sicuro ravvedimento e, quindi, per poter concedere liberazione condizionale, perché si è poi voluto che questa possa essere concessa anche nel caso in cui la collaborazione sia divenuta inutile (sentenze nn. 68/1995 e 357/1994)? Come può essere ragionevole, appunto, che – a parità di determinazione a non collaborare- ad un soggetto sia precluso a priori l’accesso al beneficio e ad un altro no, in base alla casuale circostanza, ad esempio, che nel secondo caso i fatti criminosi siano stati acclarati in una sentenza passata in giudicato? Ed ancora: la Corte ha sempre dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis nella parte in cui non prevede che una certa misura rieducativa possa essere concessa ai condannati che, prima della data di introduzione dell’onere di collaborazione a loro carico, già «abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto» (cfr. sentenza n. 445/1997; nonché sentenza n. 504/1997; di recente, anche sentenza n. 32/2020 con riguardo alla c.d. Spazzacorrotti). In altri termini: quando è la stessa condotta penitenziaria ad aver consentito «di accertare il raggiungimento di uno stadio del percorso rieducativo adeguato al beneficio da conseguire» (ancora sentenza n. 445/1997), il sopravvenuto e disatteso obbligo di collaborare non può precludere la concessione della misura rieducativa. Il che vale quanto ammettere che la “rieducazione” del condannato in realtà si può conseguire anche a prescindere dalla collaborazione. Le stesse argomentazioni dovrebbero bastare per rileggere in un’altra, più realistica chiave, il tentativo ciclicamente riaffiorante di “penitenziarizzare” la collaborazione, gabellandola per prova legale del venir meno della pericolosità del soggetto. D’altra parte, c’è una spia normativa che tradisce in modo inequivoco la vera ratio legislatoris. Se la collaborazione valesse soltanto, quale strumento privilegiato per dimostrare il venir meno della pericolosità insita nell’appartenenza a certi sodalizi criminali, non si vede per quale ragione il collaborante dovrebbe essere ammesso ai benefici senza neppure dover previamente scontare la maggiore frazione di pena prevista per il reato commesso (art. 58-ter). Il combinato disposto Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? 41 dell’art. 4-bis comma 1 e dell’art. 58-ter lascia affiorare un sottotesto: lo Stato propone al condannato di barattare informazioni investigativamente preziose con la restituzione di “pezzi di libertà”2. Per la verità la Corte costituzionale, già in una risalente pronuncia, non mancò di “radiografare” nitidamente la natura della collaborazione richiesta: «è essenzialmente espressione di una scelta di politica criminale, adottata per finalità di prevenzione generale e di sicurezza collettiva» e «l’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. non può essere presentato sotto le vesti di una disposizione di natura “penitenziaria”», giacché anzi comporta «una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario», con una «rilevante compressione» della finalità rieducativa della pena. La Corte non ne trasse le dovute conseguenze in termini di incostituzionalità, ma volle denunciare con forza la «preoccupante tendenza alla configurazione normativa di “tipi d’autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita in caso di mancata collaborazione» (sentenza n. 306/1993): un chiaro invito al legislatore a cambiare strada. È stato come sussurrare a un sordo. Il legislatore ha proseguito imperterrito lungo la stessa via per quasi trent’anni, sino alla recente legge c.d. Spazzacorrotti. E niente lascia prevedere che l’abbandoni. La sentenza n. 253/2019 in materia di permessi compie un importante passo avanti. Condividendo la natura “eccentrica” del requisito della collaborazione rispetto al percorso risocializzativo, la Corte ha ritenuto che per farlo rientrare nell’alveo della costituzionalmente consentito, sia necessario, ma anche sufficiente, che perda il suo carattere di assoluta imprescindibilità. Forse, come vedremo, lo scomposto allarmismo politico e mediatico che ha accompagnato il suo pronunciamento, l’ha trattenuta dall’addivenire ad una più radicale e chiarificatrice censura, che è auspicabile, ma non realistico, attendersi dalla imminente pronuncia in materia di liberazione condizionale: affermare, cioè, il principio secondo cui, nel disciplinare i presupposti per la concessione di misure volte al reinserimento sociale del condannato, lo Stato ha il diritto di esigere dallo stesso tutte e soltanto le condotte che sono inequivoche espressione del suo percorso riabilitativo; mai può strumentalizzarne la speranza e le aspettative per indurlo ad un collaborazionismo che altrimenti non riuscirebbe ad ottenere. 4. Sia che la Corte decida di rimuovere in modo radicale il requisito della collaborazione, sia che si limiti più probabilmente - sulla scia della recente sentenza n. 253/2019 - a dichiarare l’illegittimità del suo carattere assoluto, tutto lascia Ciò non significa, beninteso, che l’atteggiamento assunto dal condannato rispetto alla scelta della collaborazione non possa e non debba essere preso in considerazione -soprattutto nelle sue motivazioni- dalla magistratura di sorveglianza quale elemento significativo nel giudizio prognostico che questa è chiamata ad esprimere. Si vuol soltanto affermare che il legislatore non dovrebbe assegnare normativamente a tale scelta del condannato - scelta di per sé estranea al suo processo di riabilitazione personale e sociale - il valore di un pre-giudizio, che l’interessato non potrà non avvertire come ben più importante, per lo Stato, del proprio percorso interiore, che egli è impegnato a percorrere. 2 42 Glauco Giostra prevedere una pronuncia di incostituzionalità3. Sperando che non sia soltanto un whisful thinking, conviene chiedersi allora quali siano i margini per una estensione applicativa del suo dictum ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale). Se la Consulta dovesse mai risolversi a dichiarare l’incostituzionalità del requisito-collaborazione in sé, cioè in quanto condotta che lo Stato non può esigere dal condannato per restituirgli la libertà, gli effetti dovrebbero propagarsi pressoché automaticamente: si tornerebbe, infatti, al sistema precedente al decreto legge n. 306 del 1992 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa) che aveva introdotto nei confronti dei condannati per i reati appartenenti alla c.d. prima “fascia”, l’obbligo della collaborazione per poter accedere alle misure rieducative. Come con quel decreto legge (convertito nella legge n. 356 del 1992) si passò, «da un sistema fondato su di un regime di prova rafforzata per accertare l’inesistenza di una condizione negativa (assenza dei collegamenti con la criminalità organizzata), ad un modello che introduce una preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto attraverso una condotta qualificata (la collaborazione)», con la declaratoria di incostituzionalità si compirebbe un percorso a ritroso, tornando “soltanto” a pretendere che siano acquisiti «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva». Soddisfatta questa condizione, la liberazione condizionale e tutte le misure elencate nel comma 1 dell’art. 4-bis potrebbero essere concesse ai condannati per uno dei reati ivi previsti. Non si tratterebbe comunque, beninteso, di un mero ritorno al passato: l’art. 4-bis si è infatti medio tempore “infarcito” delle più eterogenee fattispecie penali, rispetto ad alcune delle quali la condizione richiesta (come del resto l’attuale onere di collaborazione) non ha senso alcuno, data la loro struttura monosoggettiva del tutto estranea alla logica – discutibile, ma non irragionevole – che ne aveva ispirato l’introduzione con riguardo alle organizzazioni criminali di stampo mafioso o terroristico. Qualora l’attesa pronuncia della Corte, invece, seguendo il solco tracciato dalla sentenza n. 253/2019, si limitasse molto più probabilmente a censurare il carattere assoluto della preclusione, il discorso in ordine ai margini per dichiarazioni di illegittimità consequenziale dovrebbe farsi più articolato. Molto dipenderebbe dal parametro costituzionale ritenuto eventualmente assorbente dalla Corte. Se si dovesse limitare ad accogliere la questione sotto il profilo dell’art. 117 Cost., che pure è stato opportunamente invocato nell’ordinanza di rimessione, il cuore della decisione sarebbe costituito dalla strutturale incompatibilità con l’art. 3 CEDU - come insegna la Corte europea nella sentenza Viola c. Italia n. 2 - della presunzione assoluta di pericolosità fondata sull’assenza di collaborazione. Ad essere dichiarato incostituzionale, sarebbe l’ergastolo nei fatti ostativo, che chiude inesorabilmente alla speranza l’orizzonte del condannato, in contrasto anche col 3 È pur vero che nell’evocato precedente dello scorso anno la Corte aveva precisato, quasi ad excusatio non petita, che non intendeva riferire i suoi ragionamenti al c.d. ergastolo ostativo, ma si tratta di una puntualizzazione di cui non è difficile cogliere l’intento sedativo degli allarmismi montanti (v. oltre in testo, §5). Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? 43 divieto di infliggere pene contrarie al senso di umanità imposto dalla nostra Costituzione. In questo caso, la declaratoria di incostituzionalità potrebbe essere consequenzialmente estesa a tutti i condannati all’ergastolo per uno dei reati dell’art. 4-bis comma 1, anche se la ricaduta concreta sarebbe piuttosto limitata, dal momento che pochissimi dei reati elencati nel primo comma dell’art. 4-bis risultano punibili con l’ergastolo. Rimarrebbe difficile, invece, applicare lo stesso parametro alle pene temporanee. Sarebbe arduo, ad esempio, qualificare inumana e degradante una pena a sette anni di reclusione per reato ostativo che non ammetta alla liberazione condizionale il condannato non collaborante. Al contempo, però, striderebbe con la coerenza, se non addirittura con il buon senso, un sistema in cui la mancata collaborazione fosse sempre preclusiva della liberazione condizionale, salvo che per l’ergastolano. La potenzialità espansiva si accrescerebbe significativamente se l’auspicata pronuncia di incostituzionalità si imperniasse sulla incompatibilità con il finalismo rieducativo di cui l’art. 27, comma 3, Cost. vuole siano contrassegnate tutte le pene. Anzitutto, sarebbe difficile per la Corte discostarsi dalla linea tenuta meno di un anno fa con la sentenza n. 253/2019, alla cui stregua «i profili di illegittimità costituzionale relativi al carattere assoluto della presunzione attingono tanto la disciplina (…) applicabile ai detenuti per delitti» di matrice mafiosa4, «quanto l’identica disciplina dettata dallo stesso art. 4-bis, comma 1, ord. penit. per i detenuti per gli altri delitti in esso contemplati». Considerazioni che non potranno non essere traslate “in calce” alla sentenza che dovesse dichiarare l’incostituzionalità degli artt. 4-bis e 58-ter ord. penit. e dell’art. 2 decreto-legge n.152 del 1992 (convertito con modificazioni), nella parte in cui escludono che un condannato all’ergastolo per un reato di mafia possa essere ammesso alla liberazione condizionale, anche se non collabora. Accanto a questa estensione “orizzontale” dell’ambito applicativo dell’incostituzionalità, (cioè per tipologia di reati), se ne potrebbe prospettare una, per così dire, “verticale” (per tipologia di pena): la collaborazione, cioè, potrebbe perdere consequenzialmente la sua imprescindibilità ai fini della liberazione condizionale non soltanto rispetto alla pena dell’ergastolo, ma anche alla pena temporanea (regola che dovrebbe valere – ancora per estensione “orizzontale” – anche con riguardo alle pene temporanee inflitte per ogni reato ostativo dell’art. 4bis, sempre per evitare la paradossale disparità di cui la Corte parla con convincente efficacia nella sentenza n. 253/2019). Ma la Consulta, nel caso di incostituzionalità incardinata sul finalismo rieducativo della pena, potrebbe (e credo dovrebbe) cogliere l’opportunità per “sanificare” il sistema nel suo complesso. Infatti, come si domanda opportunamente la Traccia per la discussione, rimossa tramite giudicato costituzionale l’ostatività penitenziaria per la tappa iniziale (il permesso premio) e per quella finale (la Questa ed altre improprie locuzioni di sintesi saranno nel testo usate in luogo dell’unica formulazione tecnicamente precisa (delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste) al solo fine di non appesantire la struttura sintattica del periodo. 4 44 Glauco Giostra liberazione condizionale)5 del percorso risocializzativo del detenuto, non sarebbe del tutto irragionevole mantenerla per le tappe intermedie? Direi che l’interrogativo debba considerarsi retorico, perché altrimenti il sistema rivolgerebbe al condannato un’incomprensibile proposta trattamentale: “non importa se non collabori con la giustizia, gli elementi che attestano la rescissione di ogni legame criminale e il tuo percorso di riabilitazione personale e sociale sono molto convincenti: ti ammetto ai permessi premio; poi però sarai escluso da ogni altra misura alternativa perché non collabori con la giustizia; infine, potrai fruire della liberazione condizionale, nonostante la mancata collaborazione”. Il rischio è che l’ordinamento, oltre che la coerenza, perda anche la credibilità agli occhi della persona detenuta; credibilità, che è un presupposto essenziale di ogni “riavvicinamento” del condannato alla legalità. Non dovrebbe essere di ostacolo a questa operazione in grado di restituire coerenza all’intero sistema, il self restraint che ha tenuto la Corte nella sentenza n. 253/2019, precisando ad ogni piè sospinto che si sarebbe occupata soltanto di permessi premio, per la loro specificità che li distingue dalle altre misure alternative: affermazione discutibile, ma non priva di una sua plausibilità. Nella pronuncia di domani, però, l’ottica sarebbe rovesciata: si alzerebbe il passaggio a livello della collaborazione per lasciare andare il condannato meritevole verso la liberazione condizionale, mentre lo si terrebbe abbassato per tutte le altre misure che tale liberazione preparano e propiziano. Se là poteva dirsi che il meno non può estendersi al più, nel caso in esame sarebbe difficile sostenere che il più non comprende il meno. Se l’alfa e l’omega dell’alfabeto trattamentale non sopportano ostatività, è difficile che tutto il resto ne resti assoggettato. 5. Dobbiamo tener presente che proprio le ultime considerazioni, volte a sottolineare il ben più rilevante significato di una pronuncia in tema di liberazione condizionale rispetto a quella sui permessi premio, fanno intravvedere il rovescio della medaglia. Se nella sentenza n. 253/2019 la Corte ha avvertito la necessità di “compensare” la declaratoria di incostituzionalità con la fissazione di una serie di ostacoli probatori, pressoché invalicabili, alla concessione dei permessi premio una volta liberata dall’ostatività della collaborazione, le ben più rilevanti implicazioni della liberazione condizionale potrebbero indurla a prevederne di maggiormente impegnativi o quanto meno a ribadire quelli già indicati in quella sede. Prospettiva molto verosimile, ma non per questo condivisibile. I più rigorosi criteri che la Corte in quella sentenza si è impegnata ad individuare per “surrogare” la funzione svolta dalla «presunzione assoluta caducata» meritano di essere osservati più da vicino per verificare se possono considerarsi costituzionalmente necessari e sistematicamente credibili, e in quanto tali riproponibili nella futura sentenza in tema di liberazione condizionale. Quando la Corte afferma che, caduta la condizione assolutamente preclusiva, si impone «l’acquisizione di stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità 5 Di tappe, nello stesso senso del testo, parla la Corte costituzionale nella sent. n. 149/2018 proprio a proposito di permessi premio e di liberazione condizionale. Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? 45 di collegamenti con la criminalità organizzata», si riferisce giustamente ad «un regime di prova rafforzato per accertare l’inesistenza di una condizione negativa» (sentenza n. 68/1995) che il sistema, anzi lo stesso art. 4-bis, già conosce: in caso di collaborazione impossibile, infatti, pretende che «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva» (comma 1-bis)6. Correttamente, quindi, la Corte, elisa la condizione ostativa, richiede che il giudice si attesti su questo più rigoroso livello di accertamento dell’assenza di rapporti del condannato con il sodalizio criminale. D’altra parte, sarebbe clamorosamente incoerente un sistema che esigesse un più impegnativo livello probatorio in caso di collaborazione oggettivamente inesigibile, mentre ne prescindesse in caso di collaborazione esigibile e non prestata. Molto meno convincente appare il Giudice delle leggi, invece, quando si spinge ad affermare7 che in assenza di collaborazione possono essere concessi permessi premio soltanto qualora siano stati acquisiti elementi tali da escludere non soltanto l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Non occorrono doti divinatorie per preconizzare che un simile rigoroso criterio verrà imposto anche nella prossima pronuncia riguardante la liberazione condizionale8. Non mi sento, tuttavia, di condividere questa funzione para-legislativa che la Consulta ha finito per svolgere, estraendo dal cilindro normativo siffatto criterio di nuovo conio. La Corte ritiene di esserne legittimata per sopperire al vuoto di tutela (come accadde per il suicidio assistito: cfr. sentenza n. 242/2019) conseguente alla rimozione dell’indispensabilità della collaborazione. In verità, la raccolta di elementi per garantire che non vi sia il rischio di un ripristino in futuro dei collegamenti con la criminalità organizzata copre un terreno probatorio che il preesistente onere di collaborazione ignorava del tutto: prova inequivoca della rescissione dei collegamenti attuali con la criminalità organizzata, l’assolvimento di tale onere non poteva certo considerarsi di per sé garanzia di esclusione di ogni loro ripristino. La caducazione di questo onere collaborativo, pertanto, non lascia in realtà alcun vuoto di tutela. Si aggiunga che il criterio formulato dalla Corte, se preso rigorosamente alla lettera, si tradurrà in una probatio diabolica che vanificherà gli effetti della pronuncia di incostituzionalità dell’obbligo di collaborazione; altrimenti, potrà risultare inutile, nel senso di ritenere insito nel 6 È discusso in effetti se, dopo la sent. n. 253/2019, che ha rimosso l’imprescindibile necessità della collaborazione, mantenga ancora un senso il comma 1-bis, riservato alla collaborazione impossibile. Problema delicatissimo ed aperto. Qui mi limito ad osservare che, stando almeno al dispositivo di quella sentenza, per la collaborazione possibile ma non prestata la Corte pretende surrogatoriamente due accertamenti negativi della pericolosità del richiedente in riferimento ai collegamenti con l’organizzazione criminale: quello relativo all’attualità e quello relativo al futuribile; per la collaborazione impossibile, invece, la norma pretende soltanto il primo. 7 Per non parlare delle ingerenze della Corte nelle modalità di formazione del convincimento giudiziale, quasi a voler tener la mano alla magistratura di sorveglianza quando deve scrivere decisioni che riguardano la prognosi di riabilitazione sociale di condannati per reati che destano grande allarme sociale e mediatico. Ma questo aspetto rimanda verosimilmente al contesto politicoculturale con cui questa pronuncia ha dovuto misurarsi (v. oltre §5). 8 Sia per il clima culturale che accompagna ogni decisione che incide sulla pena dei condannati per mafia, sia perché sarebbe insensato pretendere quella sorta di “accertamento impossibile” per concedere i permessi, prescindendone per ammettere alla liberazione condizionale. 46 Glauco Giostra positivo giudizio in ordine al percorso di riabilitazione sociale del condannato (tale da ammetterlo al beneficio) una prognosi di irreversibile allontanamento del soggetto dal contesto criminale di provenienza. Un’ultima notazione. Abbiamo ricordato che giustamente la Corte, con l’illegittimità consequenziale, ha esteso la declaratoria di incostituzionalità anche ai condannati per gli altri reati contenuti nell’elenco del comma primo dell’art. 4bis, diversi da quello di matrice mafiosa, disponendo che anche loro, in mancanza di collaborazione, potranno accedere ai permessi premio soltanto quando si potrà escludere rigorosamente l’attualità di collegamenti o il pericolo del loro ripristino (sentenza n. 253/2019). Tuttavia, in tal modo si verifica una sorta di corto circuito nel ragionamento della Corte. Poiché, da un lato, giustifica la pretesa di questo più rigoroso regime probatorio in ragione delle note e peculiarissime connotazioni criminologiche dei reati di criminalità mafiosa; dall’altro, estende la rimozione della collaborazione ostativa anche ai condannati per gli altri reati previsti nell’art. 4-bis comma 1, per evitare una «paradossale disparità», poiché rispetto ad essi non c’è bisogno di dimostrare «l’assenza di legami con un, inesistente, sodalizio criminale di originaria appartenenza». Difficile allora giustificare che anche per questi condannati la concessione del beneficio sia subordinata - come si legge nel dispositivo della sentenza - all’acquisizione di «elementi tali da escludere non soltanto l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche il pericolo del ripristino di tali collegamenti»: collegamenti, che la stessa Corte ritiene inesistenti. La verità è che i criteri probatori di maggior rigore, chiamati a prendere il posto della prova legale della collaborazione, non dovrebbero valere quando si tratta di concedere, oggi i permessi premio, domani (speriamo) la liberazione condizionale, a condannati per i reati di cui al primo comma dell’art. 4-bis, diversi da quelli di criminalità organizzata di stampo mafioso o terroristico. Questa difficoltà di governare la materia anche a livello giurisprudenziale è conseguenza e riprova del fatto che il 4-bis è ormai divenuto una specie di contenitore di raccolta indifferenziata in cui il legislatore “getta” i reati demagogicamente più à la page senza tenere nella dovuta considerazione la loro gravità, la loro struttura e il loro profilo criminologico. 6. Limitarsi a queste considerazioni di carattere tecnico-giuridico, tuttavia, significherebbe rassegnarsi ad una visione scotomizzata del problema: per averne una soddisfacente intelligenza il discorso deve soffermarsi su quei fattori di degrado culturale e di demagogia mediatica che da tempo condizionano il nostro legislatore e nell’ultimo periodo pressano - in modo ancora indiretto, ma non per questo privo di influenza – chi deve pronunciare giustizia. Antologico, da questo punto di vista, il clima politico-culturale nel quale la Corte costituzionale ha emesso la sentenza n. 253/2019: dichiarazioni di autorevoli magistrati, allarmati caveat di noti esponenti politici, un’indegna campagna di stampa avevano trasmesso all’opinione pubblica l’inquietante messaggio secondo cui una pronuncia di accoglimento da parte della Consulta avrebbe costituito un irresponsabile regalo alla mafia; foriero, oltretutto, di altri ancor più allarmanti Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? 47 cedimenti. La sensazione è che la Corte sia meritoriamente riuscita a resistere a questa onda d’urto, ma abbia ritenuto di doversi far carico di un (improprio) compito di rassicurazione sociale. Sembra confermare questa sensazione non soltanto la particolare insistenza nel sottolineare che la pronuncia emanata non doveva considerarsi di per sé prodromo di altri “cedimenti” in termini di ostatività, ma soprattutto la forte determinazione nel prescrivere rigorosi rimedi compensativi degli effetti della propria pronuncia. Dal §9 del considerato in diritto di quella pronuncia, infatti, traspare evidente la preoccupazione di “controbilanciare” l’eliminazione dell’assoluta ostatività legata alla mancata collaborazione; quasi un ansioso scrupolo di precisare “è incostituzionale, però state tranquilli che…”. Quando, per giustificare il criterio del “pericolo di ripristino”, la Corte invoca un vago «è necessario alla luce della Costituzione»; quando si spinge a precisare che grava sullo stesso condannato richiedente l’onere di fare specifica allegazione e che in caso di “referti” negativi delle Autorità di sicurezza «incombe sullo stesso detenuto (…) anche quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno», si ha la sensazione che il Giudice delle leggi abbia avvertito l’esigenza di rassicurare la collettività del fatto che il passo compiuto con la declaratoria di incostituzionalità non era segno di inconsapevolezza dei rischi, tanto è vero che la Corte stessa, nel rimuovere il divieto di accesso ai permessi per i non collaboranti, si è premurata di predisporre stringenti guard rail alla magistratura di sorveglianza per evitare qualsiasi sbandamento applicativo; di più: per evitare significativi scostamenti (in termini di concessione di permessi ai non collaboranti) dalla situazione antecedente la pronuncia. Ma se questa lettura ha un fondamento, ci dobbiamo chiedere come siamo giunti ad un punto di “intimidazione” culturale per cui la Corte costituzionale ritiene di doversi spingere sino al limite dell’esondazione funzionale svolgendo un ruolo di rassicurazione sociale che, semmai, spetterebbe al legislatore. Sia pure nei ristretti limiti di queste note è un interrogativo che non può essere ignorato, poiché riguarda una situazione tutt’altro che contingente e che rimanda alle ragioni di un malessere democratico grave, durevole e profondo. Da circa trent’anni - potremmo dire, semplificando molto, dall’epoca di Mani Pulite - si registra un subdolo, crescente stravolgimento della fisiologica dinamica della democrazia rappresentativa e dei rapporti tra poteri; stravolgimento, che trova la massima, preoccupante espressione nel settore della risposta punitiva dello Stato. La politica non cerca più di scegliere tra le diverse proposte culturali espresse dal confronto degli esperti nei vari ambiti quelle consentanee alla propria ideologia, per poi cercare di procurarsi il consenso del popolo sulle scelte operate, dimostrandone equità e utilità sociale. Da troppo tempo, cultura e competenze sono percepite come espressione di oligarchie elitarie: peggio, arnesi stantii e antidemocratici. Nell’attuale versione caricaturale della democrazia ciò che conta è la volontà del popolo (che ovviamente è altra cosa dalla volontà democraticamente espressa), come si manifesta nei sondaggi, nelle manifestazioni, nei social, nella consistenza dei followers. La politica non guida più la collettività, ma ne insegue bulimicamente il consenso, e si limita a tradurre normativamente i desiderata del popolo: i confini della democrazia sono stati ormai superati e ci stiamo inoltrando nell’infido terreno dell’oclocrazia. Il politico à la page si presenta e spesso si percepisce come il ventriloquo del 48 Glauco Giostra popolo. Ed in quanto tale, “ingiudicabile”: sempre più di frequente, ormai, quando un’autorità indipendente, in particolare la magistratura, bussa alle porte del potere, puntualmente si sente gridare alla giustizia ad orologeria o, peggio, si invitano provocatoriamente i giudici a farsi eleggere prima di poter giudicare. Un grossolano e inquietante analfabetismo costituzionale nei cui confronti però la collettività si può dire abbastanza mitridatizzata, tanto stucchevolmente è ripetuta una tale litania. Ma negli ultimi tempi assistiamo ad un più subdolo e più preoccupante fenomeno di delegittimazione delle autorità indipendenti. Poiché ormai la pandemia emotiva è l’insicurezza, una politica imbelle e alla ricerca esclusivamente di un facile consenso si preoccupa soltanto di offrire la risposta più facile e più inutile: inasprimento della repressione penale e restrizione dei diritti e delle opportunità di risocializzazione dei detenuti. Tanto che si parla giustamente di democrazia penale. Queste scelte demagogiche ed emotive trovano spesso temperamento o censura nella giurisprudenza di autorità indipendenti che non hanno un problema di consenso. In simile evenienze o in vista di possibili evenienze di questo tipo, voci stentoree, talvolta purtroppo anche di alti magistrati o di leader politici, gridano al pericolo, additano certi responsi come frutto di pregiudizi ideologici o di cieca irresponsabilità. Basterebbe rievocare quanto di recente accaduto alla vigilia della sentenza n. 253/2019 dello scorso anno, alle aggressioni verbali subite dal Garante nazionale dei detenuti per aver denunciato l’insostenibilità di certe condizioni detentive, alla magistratura di sorveglianza per l’ampio ricorso alla detenzione domiciliare in tempo di pandemia, all’accusa rivolta alla Corte EDU in più di una circostanza (si pensi, in particolare, alle pronunce in tema di ergastolo) di non aver compreso la caratura della delinquenza italica. Anche nella mia esperienza di presidente della Commissione ministeriale incaricata di elaborare un progetto di attuazione della delega in materia penitenziaria, ho dovuto prendere atto di quanto scomposte e immotivate siano le aggressioni nei confronti di riforme che hanno una pur flebile intonazione garantista: tra le tante invettive ricevute nel corso dell’elaborazione di un tale progetto, vi è stata anche l’accusa di continuare in tal modo la trattativa Stato-mafia! Asserzione che avrebbe meritato più una querela, che una confutazione (peraltro, neppure necessaria: per espressa previsione di delega i reati di mafia erano esclusi dalla riforma). Perché questo atteggiamento ci sembra molto più corrosivo dei principi dello Stato di diritto dell’altro sopra ricordato? Perché queste voci allarmate non si levano a tutela di interessi personali o di partito, ma si autoassegnano il ruolo di tutrici della sicurezza sociale minacciata dalla sentenza o dalla riforma di turno. Le autorità indipendenti chiamate a prendere provvedimenti vengono additate come soggetti decisori irresponsabilmente disattenti all’interesse della società, se si discostano dal rigore repressivo sostenuto da certa demagogia imperante. È difficile credere che questi “indici mediatici” accusatoriamente puntati lascino i destinatari indifferenti. È difficile credere, ad esempio, che, dopo l’indegna campagna contro le decisioni della magistratura di sorveglianza durante la prima diffusione del covid, almeno una parte dei magistrati non ripieghi su una giurisprudenza difensiva per evitare aggressioni giornalistiche. Come pure è difficile credere che quell’aria irrespirabile che si era venuta a creare alla vigilia della sentenza n. 253/2019 non abbia varcato il portone del Palazzo della Consulta e non abbia indotto alcuni giudici, pur non Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? 49 disposti a cambiare di segno la pronuncia di incostituzionalità, a presidiarla con temperamenti e prescrizioni limitative che potessero non esasperare la tensione e rassicurare l’opinione pubblica. 7. Sebbene oggi possa suonare velleitario, si deve dunque cercare di contrastare la regressiva politica securitaria sul suo terreno, trovando una strategia di comunicazione che renda il cinico populismo penale elettoralmente meno lucrativo. Per farlo, le ragioni del diritto non bastano, perché, pur ineccepibili, non trovano ascolto nell’opinione pubblica: sono demagogicamente inermi. Dobbiamo cambiare contenuti e modalità della comunicazione. Operazione per la quale siamo meno attrezzati e per la quale abbiamo bisogno di coinvolgere gli operatori dell’informazione, propiziandone una maggiore sensibilizzazione e fornendo loro una credibile documentazione. Per cercare di risalire in modo anadromo questa corrente sospinta soltanto dalle voci della vendetta sociale, seminari come questi sono preziosissimi e irrinunciabili, perché tra i pochi laboratori di riflessione e di confronto su importanti decisioni del Giudice delle leggi, e non solo. Ma non possono bastare, perché sono costretti ad intervenire “a valle”. Dobbiamo adoperarci con ogni mezzo (incontri formativi con operatori dell’informazione, pubblicazione di dati statistici, interventi nelle scuole, dibattiti aperti al pubblico, articoli sui giornali, prese di posizione nei social media) per concorrere ad una bonifica culturale, in modo che il pur duro confronto delle idee avvenga su dati di fatto condivisi e resi noti, e non sulla popolare emotività suscitata da questo o quel pericolo agitato alla bisogna. È necessario drenare il bacino della paura da cui assetate idrovore politiche attingono senza scrupolo, con argomenti e dati che a quella paura sappiano parlare. È di questi giorni, per fare soltanto un esempio recentissimo ed in qualche modo collegato al tema che ci occupa, il mancato rientro da un permesso premio di Johnny “lo Zingaro”, da circa trent’anni in galera per una serie di gravissimi fatti di sangue. Naturalmente, e comprensibilmente tenuto conto della caratura criminale dell’evaso, si sono levate molte voci contro il pericoloso lassismo nella concessione dei permessi premio; riprende quota nell’opinione pubblica la ricorrente idea secondo cui i condannati andrebbero sbattuti in cella “gettando via le chiavi” sino all’ultimo giorno di espiazione della pena. Ebbene, replicare a questo slogan demagogicamente rassicurante “la Costituzione vuole che l’esecuzione della pena tenda al reinserimento sociale del condannato” significa opporre una risposta emotivamente imbelle. Essa anzi finisce per accreditare la diffusa, mistificante impressione che vede, da una parte, coloro che con rassicurante rigore pretendono che la pena detentiva sia scontata fino in fondo, rinchiudendo ermeticamente i pericolosi criminali entro le mura del carcere; dall’altra, i buonisti, gli indulgenzialisti, coloro che sono ossessivamente ed esclusivamente preoccupati della sorte del condannato. Una siffatta risposta non ha presa perché trascura l’interesse di cui, invece, mostra di farsi carico l’opposto approccio. Mentre questo trasmette un implicito messaggio rassicurante – “non siate preoccupati, questo pericoloso individuo verrà recluso entro mura ben presidiate” – l’altro risponde: “è un suo diritto costituzionalmente garantito veder abbassare i ponti levatoi di quelle mura, se dimostrerà un 50 Glauco Giostra significativo progresso di riabilitazione sociale”. Bisognerebbe, invece, per rimanere nell’esempio, contrapporre alle esibite rodomontate punitive un dato e un avvertimento. Il dato: la percentuale dei permessi che hanno fatto registrare un mancato rientro si aggira intorno al due per mille. Il perentorio warning: la segregazione senza speranza mette a grave rischio la sicurezza sociale. Un’affermazione perentoria di cui non sarebbe difficile alla bisogna dimostrare il fondamento. Il proposito di lasciar marcire i detenuti in galera sino all’ultimo giorno della pena inflitta non è solo in contrasto con la Costituzione e con la Convenzione europea: è un attentato alla sicurezza sociale. Tornati liberi, manifestano una tendenza a delinquere di gran lunga superiore rispetto a quella di coloro che hanno conosciuto un progressivo rientro in società, legato alla loro evoluzione riabilitativa. Questo è il messaggio che si deve riuscire a inoculare nelle vene mediatiche. Più in generale bisogna riuscire a divellere l’idea tanto profondamente diffusa e radicata, quanto infondata, che il carcere garantisca sicurezza e che con l’indice di carcerazione cresca l’indice di sicurezza. Un dato, eloquente: negli USA, che ha percentualmente una popolazione carceraria che è quasi il decuplo della nostra, la percentuale di omicidi ogni centomila abitanti (5,3) è quasi il decuplo della nostra (0,6). Si tratta di impresa culturale ai limiti della temerarietà, poiché come efficacemente scriveva Christa Wolf nella Medea, «non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non crede, se essa viene incontro al suo segreto desiderio di crederci». E tuttavia merita di essere intrapresa per scongiurare il rischio che anche le nostre autorità di garanzia vengano delegittimate o quanto meno culturalmente “intimidite” da certo populismo montante. Naturalmente non c’è un rimedio di per sé risolutivo. C’è un verbo in disuso che può rendere con efficacia l’idea di ciò che si potrebbe fare: dimercolare, cioè, tirare a sé, ondeggiandolo con movimento basculante, il chiodo conficcato nel legno per estrarlo. Così – io credo - dovremmo operare nei confronti della radicata convinzione che la cieca repressione possa garantire sicurezza sociale: dati, considerazioni, smentite, statistiche, dimostrazioni, studi comparativi, confutazioni, testimonianze, se portati quotidianamente e nei più diversi contesti potrebbero nel medio periodo riuscire a “sconficcare” dalla coscienza sociale la fallace idea che la sicurezza collettiva dipenda dallo spessore e dall’impermeabilità delle mura del carcere. Se l’estrema difficoltà dell’impresa può scoraggiare, l’importanza democratica dell’obbiettivo non può esonerare dall’intraprenderla. L’ ERGASTOLO OSTATIVO COME OCCASIONE (DA NON PERDERE) PER LA CORTE di MASSIMILIANO BARONI* SOMMARIO: 1. La permeabilità del diritto penale alle istanze sociali, tra rieducazione e recrudescenza. - 2. La tutela dei diritti nella (secondo la) pubblica opinione. - 3. Se la chiave di ogni relazione è la comunicazione. 1. Le “linee guida” di un disegno sono ausili che ne facilitano la precisa immissione nelle finestre 2D e 3D, determinando – a cascata – posizione, distanza e direzione delle linee secondarie: permettono, insomma, il corretto e ordinato incasellamento della figura nello spazio, fornendo all’insieme la sua caratterizzazione definitiva1. Nessun dubbio, allora, che tra le “linea guida” di un sistema costituzionale ben possa (rectius: debba) annoverarsi la politica criminale statuale, lente focale attraverso cui poter leggere il complesso di quei rapporti costituenti l’humus ove fonda le proprie radici il rapporto tra governanti e governati. Non è certo questa la sede per ripercorrere analiticamente i – peraltro noti – approdi dottrinali circa il fondamento della pena, essendo sufficiente ricordare il ruolo di prim’ordine oggi rivestito dall’art. 27 comma 3 Cost., in cui pacificamente risiede la più attuale declinazione della dimensione costituzionale della sanzione criminale, da un lato sempre più connotata in termini polifunzionali e – dall’altro – inevitabilmente ed innegabilmente orientata verso una funzione rieducativa, cui uno “Stato evoluto”2 semplicemente non può rinunciare. Ed invero, Stato e (concezione della) pena sembrano procedere (anche) in questo caso a braccetto, essendo entrambi particolarmente sensibili alle istanze ed alle voci sociali, e pertanto permeabili al contesto temporale di riferimento, come del resto esemplificativamente dimostrato dai mutamenti di cui è stata protagonista la legge penitenziaria. Tanto sul versante della giurisprudenza costituzionale, che nel 1974 scaltramente mitigava l’attrito tra afflato rieducativo e “fine pena mai”, quanto su quello legislativo con la “legge Gozzini”, tramite cui – più di una decade dopo il citato intervento della Consulta – la “rieducazione” si arricchiva, a livello dispositivo, dell’ulteriore imperativo volto al “graduale reinserimento sociale” del condannato, consentendo di riporre in soffitta (quantomeno teoricamente) l’impronta carceraria classe 1931, rispondente a concezioni e bisogni risalenti al regime e perciò non più attuali (oltre che, per certi profili, del tutto anacronistici). Una permeabilità al quadro sociale di riferimento – dunque – ulteriormente confermata, seppure in senso contrario, dagli interventi successivi, culminati nel 1991 con l’introduzione dell’art. 4-bis ord. Penit., la comparsa dell’ergastolo ostativo e di “terzo tipo”, costituenti una “eccezione” rispetto alla ricordata sent. n. * Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale, Università di Parma È così che impariamo a disegnare Mickey Mouse: partendo da un cerchio, al cui interno vanno tratteggiate due rette tra loro perpendicolari. 2 Corte costituzionale, sent. n. 313/1990. 1 52 Massimiliano Baroni 264/1974 ed esemplificativi di una legislazione figlia dello stragismo mafioso e, conseguentemente, del mutato contesto politico-criminale. Il paradigma è chiaro: quando aumenta il senso di insicurezza dei cittadini, lo strumento più immediato, oltre che simbolicamente carico di significati, di cui i governanti possono servirsi (ed in effetti si servono) è l’inasprimento sanzionatorio. Austerità, afflittività, e – sullo sfondo – una lata moralità di stampo punitivo guidano in tali casi la risposta dello Stato. A questo punto, allora, può farsi una prima considerazione: per effetto di avvicendamenti di vario tipo e natura (che qui volutamente, per sinteticità espositiva, non vengono approfonditi), da tali approdi il legislatore non è più tornato indietro, e – come sovente accade – la legislazione inizialmente emergenziale è anzi andata solidificandosi, divenendo base per una progressiva stratificazione, accrescitiva del numero di ipotesi riconducibili alla sfera applicativa del citato 4bis. L’ipertrofia e la spiccata capacità penetrativa dell’attuale diritto penale sono, d’altronde, caratteristiche note e difficilmente negabili. Fa da argine ad una tale esondazione del diritto penale, oggi, l’attività delle Corti. Ex multis, e per riferirsi solo alla cronologia più recente, Vinter e altri c. Regno Unito; Viola c. Italia nonché, infine, Corte cost. n. 253/2019 (e prima, altresì, Corte cost. n. 149/2018), appaiono sul punto decisioni emblematiche, e puntano – semplificando – nella medesima direzione: verso l’affermazione della dignità umana, nella cui cornice svolgono un ruolo centrale rieducazione del detenuto e funzione socializzante della pena, indipendentemente dalla gravità del delitto commesso dal reo. Dal che consegue, inevitabilmente, l’inammissibilità di qualsiasi volontà punitiva permanente ed immutabile, si manifesti essa con automatismi3 o presunzioni invincibili. La centralità della persona, anche ed in specie del condannato, non possono arretrare neppure di fronte al dichiarato scopo di privare il reo di canali comunicativi con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza. 2. Alla luce delle brevissime – obbligate – annotazioni di cui sopra, pare possa dirsi non solo auspicabile, bensì anche probabile che, in occasione del prossimo intervento sul tema, la Corte continuerà a muoversi nel solco del tracciato già imboccato con la sent. n. 253/2019 e – complice il trattarsi di questione costituzionale non coperta – declasserà la presunzione, ora assoluta, contenuta nell’ordinamento penitenziario, aprendo le porte della liberazione condizionale ai condannati all’ergastolo – non più, o non più tout court – ostativo (non solo, vien da sé, per i condannati per reati di mafia, stante l’ovvia ed inammissibile irragionevolezza della disciplina che ne deriverebbe). Il che porta ad una seconda considerazione. Al netto del presunto esito del giudizio costituzionale, è ben facile immaginare quali saranno le reazioni che simile decisione susciterà nella pubblica opinione, in cui sembra viva e vigorosa – differentemente (rectius: contrariamente) a quanto accade nelle Corti – la “cultura delle manette”, percepita come unico, vero, rimedio alla criminalità. Ed invero, ogni 3 Si veda, sul punto, Corte costituzionale, sent. n. 109/2019. L’ ergastolo ostativo come occasione (da non perdere) per la Corte 53 intervento che parzialmente diverga o si discosti da tale impostazione – poco importano le motivazioni che ne risiedono alla base – viene inevitabilmente catalogato, condiviso, retwittato come simbolo di una pretesa ‘sconfitta’ della giustizia, relitto di uno Stato ostaggio delle mafie: così accadeva dopo (rectius: prima e dopo) la sentenza Viola4 e la n. 253/20195, così è recentemente accaduto in occasione della concessione dei domiciliari ad alcuni ‘boss’ mafiosi6, così accadrà in coda alla decisione sull’ergastolo ostativo. L’ho già scritto altrove, e dunque mi ripeto: in parte perché poco avvezza a temi che sfuggono alla quotidianità, in parte perché - consapevolmente o meno continua in essa a sopravvivere l’idea della carcerazione come “punizione”, di per sé necessariamente afflittiva, la società ‘esterna’ fatica a soppesare le esigenze dei detenuti, privilegiando un atteggiamento di diffidenza verso chi sembri tender loro la mano, quasi tramutando le aperture de jure (esemplificativamente, in tema di benefici) in una asserita complicità de facto delle istituzioni con la criminalità. Dimenticando, spesso e volentieri, il ruolo rivestito dal finalismo rieducativo in materia di prevenzione speciale e, in una prospettiva di più ampio respiro, di prevenzione generale. Ecco ben presto spiegate, allora, le evidenti difficoltà di instaurazione di un dialogo partecipativo sul tema con il legislatore. Incurante delle indicazioni e/o delle pressioni, esogene e di provenienza interna, cui è periodicamente sottoposto, colui che dovrebbe essere il promotore delle istanze di rivendicazione sociale sembra aver deciso, al contrario, non solo di fuggire tale ruolo, bensì anche di rifiutare (talvolta, apertamente) la posizione di interlocutore privilegiato di giurisprudenza e dottrina, preferendo volgere il proprio sguardo verso acque elettoralmente più tranquille: ne è vivida fotografia l’ipersemplificazione del linguaggio politico, in cui il carcere diviene unicamente sinonimo di repressione, prima (invece che extrema) risposta alle grida di allarmismo ed alle istanze di sicurezza sociale (con buona pace di un sistema sanzionatorio “socialmente costruttivo”). L’attuale stato di salute dei processi decisionali depone per una scelta deliberata e consapevole, in cui i principali 4 Si veda P. SIANI, Mafia, l'allarme di Paolo Siani: "I carnefici prima delle vittime", su la Repubblica, 10 ottobre 2019 e – prima ancora della decisione della Grand Chambre – Ergastolo ostativo, la commissione Antimafia: "Non va toccato". Di Maio: "Rischio boss fuori dal carcere", la Repubblica, 5 ottobre 2019. Nella medesima data, l’On. Di Maio scriveva, sul proprio profilo Facebook, che “Un condannato per mafia, o per reati gravi come il terrorismo, può usufruire di benefici penitenziari solo se decide di collaborare con la giustizia. E chi non collabora deve scontare la sua pena.” 5 Si veda G. PIPITONE, Ergastolo ostativo, Consulta: “E’ incostituzionale. Permessi anche a chi non collabora con la giustizia”. I mafiosi festeggiano (di nuovo), su il Fatto Quotidiano, 31 ottobre 2019. Ancora e su tutti, la raccolta firme lanciata dal Fatto Quotidiano: Ergastolo, no permessi premio ai boss stragisti che non collaborano. Vogliamo subito una legge!, su ilfattoquotidiano.it, 31 ottobre 2019. Petizione poi ripresa dal medesimo quotidiano anche riportando le dichiarazioni del Presidente della commissione Antimafia Nicola Morra, per cui “l’indebolimento [del] sistema penitenziario volto al superamento del 4-bis dell’ordinamento penitenziario, che fu voluto da Falcone, oggi è un dato molto preoccupante e mette a repentaglio anni di lotta alla mafia e alla criminalità organizzata”, su ilfattoquotidiano.it, 3 giugno 2020. 6 G. FOSCHINI, Federico Cafiero de Raho: "No ai domiciliari per i mafiosi al 41-bis. Rischio di crisi criminale al Sud", su la Repubblica. Sul punto, esemplificativo è inoltre l’intervento del Guardasigilli, arrivato (unicamente) a seguito di polemiche politiche e civili. 54 Massimiliano Baroni interlocutori democratici (i partiti) hanno deciso di impostare la propria attività sulla base di rendite di posizione. Vero è che la democrazia ha sempre mostrato “una certa parzialità nei confronti del presente”, tuttavia, nel tema in parola lo sguardo del tempo corrente sembra rivolto, più che altro, al passato. Quel medesimo passato che, con la riforma del 1975, si era tentato di modificare7. Ma allora, stante l’assenza di interlocutori istituzionalmente credibili ed una costante deresponsabilizzazione governativa (il cui riverbero istituzionale non può lasciare – come non lascia – totalmente indifferente neppure la Corte), ed essendo entrambe tali circostanze determinate – come sembra – da quella persistente concezione, prettamente punitiva, della pena, da cui il sentimento popolare ancora fatica ad affrancarsi, la chiave di volta non può che risiedere nella rinnovazione del rapporto fiduciario dei Giudici costituzionali con il loro uditorio. Si dirà che tale sentiero è già stato imboccato dalla Corte. Verissimo: ne sono dimostrazioni lampanti le relazioni del Presidente Lattanzi e della Presidente Cartabia8, in alcuni passaggi estremamente simili a dichiarazioni d’intento; e si muovono nella medesima direzione la maggiore voce del potere di esternazione del Presidente9 oltre che – su tutti – la nuova primavera di cui sono protagonisti i comunicati stampa (in specie, quelli ante sententiam)10. E proprio tale ultimo strumento, tuttavia, potrebbe non aver sfruttato ancora appieno le proprie potenzialità. 3. Il fil rouge che collega comunicati stampa della Corte, società civile e opinione pubblica è incontestato ed evidente, anche tecnicamente: non a caso la genesi di un comunicato risiede non tanto e non solo nel rilievo (giuridico) della quaestio risolta dai Giudici, quanto – e piuttosto – nel rilievo (in primis politico) della notizia sottesa e conseguente al caso concreto11 (e non è un caso che la redazione dei comunicati stampa sia oggi appannaggio di professionisti della scrittura). 7 Sul punto, più diffusamente, sia consentito rinviare a M. BARONI, Amare in carcere. Prospettive di riforma contro il rischio di destrutturazione soggettiva, in Affettività e carcere: un binomio (im)possibile?, in Giurisprudenza Penale, fasc. 2-bis, 2019, 16. 8 Nelle Relazioni del 21 marzo 2019 e del 28 aprile 2020 si parla espressamente di una (necessaria) più facile comprensibilità da tutti delle pronunce della Corte. 9 Più diffusamente sul punto A. MORRONE, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. Cost., 2019, 270, per cui “«Sfera privata v. sfera pubblica», per i titolari di munera costituzionali, è distinzione che non ha un rilievo decisivo”; e G. ZAGREBELSKY, Giustizia costituzionale, il Mulino, Bologna 1988, ca III. 10 Adotta tale classificazione A. MORRONE, Suprematismo giudiziario, cit., 277. 11 G. LATTANZI, Incontro con il Tribunale costituzionale federale tedesco: relazione sulla comunicazione della Corte, Karlsruhe 26-28 giugno 2019. M.C. GRISOLIA segnala la necessità di “rendere edotta con particolare immediatezza ed urgenza l’opinione pubblica del lavoro appena svolto”, in I comunicati stampa della Corte costituzionale, Gruppo di Pisa, 363, citando A. BALDASSARRE, Prove di riforma dell’organizzazione e del funzionamento della Corte costituzionale: la mia esperienza, in P. COSTANZO (a cura di), L’organizzazione e il funzionamento della Corte costituzionale, Giappichelli, Torino 1996. L’ ergastolo ostativo come occasione (da non perdere) per la Corte 55 Con tutta probabilità, e si tratta di facile pronostico, ciò accadrà anche in occasione della pronuncia che depotenzierà la portata applicativa dell’attuale ergastolo ostativo. Proprio per questo, quindi, la prossima decisione sembrerebbe essere la giusta occasione per un’ulteriore innovazione in seno alla Corte, che potrebbe decidere di rendere (ancor più) accessibile il proprio percorso, modificando ed opportunamente adattando alla delicatezza e alla intrinseca politicità della questione il proprio registro comunicativo e linguistico. In questo risiede, in ultima istanza, il cuore dell’apertura del Palazzo all’opinione pubblica, che come ogni relazione si compone di ascolto e di comunicazione: all’ascolto (I fase) la Corte si è già aperta, come dichiarato nel comunicato dell’11 gennaio 2020 (e toccherà ora che gli interlocutori facciano la loro parte), mentre sotto il profilo comunicativo è essenziale che ad una maggiore diffusione delle decisioni, raggiunta tramite un’attività web social-oriented e più user-friendly e mediante il diffuso utilizzo dei comunicati stampa (II fase), segua e si accompagni una più immediata (e dunque, vasta) fruibilità teorica delle stesse (III fase). Se dunque il senso della comunicazione online è l’abbattimento delle barriere fra le supreme istituzioni costituzionali e la collettività12, il traguardo non può che essere quello di riuscire a rendere comprensibili i motivi posti alla base delle motivazioni del caso, rischiando altrimenti di render vano lo sforzo sin qui compiuto nel superamento della tradizionale riservatezza dell’attività collegiale. Non sarebbe quindi peregrino ipotizzare (auspicare?) un più marcato discostamento dal registro tradizionale, accentuando quanto possibile la diffusività del messaggio e sancendo l’effettività dell’intento secondo cui «il comunicato non si limita più ad anticipare il contenuto del dispositivo ma cerca di tradurlo in un linguaggio divulgativo e soprattutto di fornire qualche indicazione sulle ragioni della decisione per spiegarne il senso»13. Una nuova realtà comunicativa14, non qualitativamente deteriore né necessariamente più semplice, ma – obbligatoriamente – (sempre) più intellegibile e diretta, spiccatamente divulgativa e tale da permettere alla Corte, pur senza abbassare i toni costituzionali della questione, di condurre per mano l’uditorio (calza bene la formula di «impegno morale» di natura pedagogica)15, accorciando le distanze (anche linguistiche e terminologiche) che ancora si frappongono tra i due, rivitalizzando il relativo rapporto. Anche – se necessario – a scapito dei media (con cui la Corte non deve «competere»16 e che, invero, paiono contemporaneamente causa e vittima dell’attuale infodemia17, in cui «innanzi all’evolversi delle modalità di fruizioni 12 Così già P. CARNEVALE e D. CHINNI, To be or not to be (online)? Qualche considerazione sul rapporto fra web e organi costituzionali, in Liber Amicorum per Pasquale Costanzo, Consulta OnLine, 2019, 15. 13 Relazione del Presidente Lattanzi, su https://www.cortecostituzionale.it/documenti/news/CC_NW_20190902.pdf 14 M. C. GRISOLIA, I comunicati stampa della Corte costituzionale, cit., 361. 15 G. D’AMICO, Comunicazione e persuasione a palazzo della Consulta: i comunicati stampa e le «voci di dentro» tra tradizione e innovazione, in Diritto e società, 2018, 237 ss. 16 C. SALAZAR, in I comunicati stampa della Corte costituzionale, in www.gruppodipisa.it, 377. 17 Utilizza il termine anche G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità prudentemente 56 Massimiliano Baroni delle informazioni, le quali appaiono oggigiorno acquisite in modo sempre più frammentario e sbrigativo»18 è essenziale offrire al pubblico il più velocemente possibile ciò che egli vuole affinché questi altrettanto velocemente possa fruirne, per poi stancarsene). Il compito, evidentemente, non è dei più semplici, eppure si profila essenziale, tanto più in un periodo storico in cui «pare aver prevalso la necessità comunque di raggiungere un certo risultato, a prescindere da come questo sia perseguito» (anche, potrebbe dirsi, a costo di dover utilizzare atti estranei alla sequenza processuale legalmente predeterminata)19. Ciononostante, si tratta in tutta evidenza di operazione che può essere demandata unicamente alla Corte, alla quale esclusivamente può riuscire di muoversi sul difficile confine tra una apertura alla società civile, da cui la stessa trae consapevolmente e volutamente la propria legittimazione (di cui, per inciso, sembra necessitare sempre più, anche per effetto del rinnovato protagonismo del giudice delle leggi, solo in parte dovuto al progressivamente maggiore peso specifico delle sue decisioni), e una captatio benevolentiae20 figlia della politicizzazione propria della pubblica opinione, cui la Corte tradizionalmente presta attenzione21. Mi preme, prima di chiudere, evitare fraintendimenti: non si aspira ad una volgarizzazione (né dell’Organo, né dello ‘stile’ di quest’ultimo), o – tantomeno – ad un ‘abbassamento’ della Corte agli umori22 del Paese: i rischi sottesi ad una crescente apertura delle porte del Palazzo sono noti, e difficilmente potrebbe sostenersi che non colgano nel segno23. Può comunque chiedersi ai giudici delle leggi di proseguire, con rinnovata forza, nel contrastare quel rischio di «ottundimento della sensibilità costituzionale»24 che – day by day – sembra farsi sempre più attuale. Vox populi e vox Constitutionis: rendere maggiormente intelleggibili al “grande pubblico” i presupposti logici della riclassificazione sociale e del reinserimento nella società del detenuto, oltrepassando i più duri scetticismi popolari, è bilanciata? Spunti per una discussione, in questo stesso volume. 18 Cass. civ., Sez. III, 16 maggio 2017. 19 R. ROMBOLI, in I comunicati stampa della Corte costituzionale, www.gruppodipisa.it, 389 e A. GRAGNANI, Comunicati-stampa dal palazzo della Consulta anziché provvedimenti cautelari della Corte costituzionale? Sugli “effetti preliminari” della dichiarazione d’incostituzionalità, in Rivista AIC, fasc. 2, 2013, 10. In senso parzialmente critico, anche se espressamente in relazione (non ai comunicati stampa, bensì) alle decisioni della Corte, si v. A. RUGGERI, La “democratizzazione” del processo costituzionale: una novità di pregio non priva però di rischi, su Giustizia Insieme, 2020. 20 C. SALAZAR, I comunicati stampa della Corte costituzionale, cit., 375. 21 Più precisamente, si è parlato di «un organo che sta (deve stare) nella realtà politica ma che non può (non deve) esercitare funzioni politiche»: così G. ZAGREBELSKY, La Corte in-politica, in Quad. Cost., 2005, 273 ss. 22 G. LATTANZI, La nostra costituzione è uno scudo per i più deboli che siano italiani o stranieri, intervista a cura di L. MILELLA, la Repubblica, 31 gennaio 2019. 23 A. MORRONE, Suprematismo giudiziario, cit. passim. 24 A. BALDASSARRE, Prove di riforma dell’organizzazione e del funzionamento della Corte costituzionale, cit., come riportato da A. MORRONE, Suprematismo giudiziario, cit., 276. L’ ergastolo ostativo come occasione (da non perdere) per la Corte 57 l’occasione per affermare definitivamente che «garantire la sicurezza dei diritti è il miglior modo per assicurare anche il c.d. diritto alla sicurezza»25. Ecco, forse, il fine cui tende la fine della pena: una rivitalizzazione del processo democratico e un ripensamento generale degli istituti partecipativi, in ottica di sensibilizzazione politica e, in ultima istanza, di giustizia sociale. A. BARATTA, Diritto alla sicurezza o sicurezza dei diritti?, in M. Palma – S. Anastasia (a cura di), La bilancia e la misura, Franco Angeli, Milano 2001, 21 ss. 25 NOTE MINIME SULLA RIPARTIZIONE DEI COMPITI ISTRUTTORI NEL PROCEDIMENTO DI SORVEGLIANZA di PASQUALE BRONZO Vorrei portare alla vostra attenzione qualche rilievo su un punto che, anche se marginale rispetto al cuore della discussione intorno al futuro dell’ergastolo ostativo e delle preclusioni penitenziarie, mi pare piuttosto importante. Nella sua relazione introduttiva, Glauco Giostra segnalava un rischio molto concreto: che per superare la presunzione di perdurante pericolosità dei detenuti per reati ostativi, ai fini della concessione della liberazione condizionale, il Giudice delle leggi non ‘richieda’ meno di quanto ha richiesto per la concessione dei permessi-premio. Che, dunque, se a proposito dei permessi la Corte - quasi a compensare l’apertura alla libertà conseguente alla dichiarata incostituzionalità dell’automatismo assoluto - ha ritenuto di dover precisare le condizioni di fatto che consentono di superare, se accertate, la preclusione stabilita per il detenuto non collaborante – l’assenza di collegamenti attuali con il crimine organizzato, e l’assenza del pericolo di ripristino di tali legami - questo stesso schema venga riprodotto nella decisione che stiamo attendendo oggi, in relazione alla liberazione condizionale. Sempre Giostra avverte che da queste due condizioni negative potrebbe derivare (in particolare dalla seconda, dice lui) uno svilimento dell’ipotetica, attesa, declaratoria di incostituzionalità: é sicuramente vero, perciò vale la pena rifletterci su. In effetti, nella sentenza n. 253/2019 i giudici costituzionali hanno fatto qualcosa di più che introdurre i due nuovi elementi prima descritti nel congegno preclusivo dell’art. 4-bis ord. penit.: la Corte ha voluto intrattenersi anche sulla ripartizione degli oneri istruttori relativamente a queste condizioni fattuali, disegnando una “procedura” che presenta qualche singolarità rispetto alle dinamiche istruttorie tipiche della giurisdizione di sorveglianza. Si tratta di precisazioni nelle quali i giudici si sono diffusi in motivazione (senza che peraltro esse servissero a “giustificare” in modo apprezzabile la decisione di illegittimità, tanto da sembrare fatte un pò - sia detto con rispetto - “a favore di stampa”, per tranquillizzare l’opinione pubblica allertata da campagne mediatiche che paventavano un imminente “regalo ai criminali”), ma l’autorevolezza dell’organo da cui provengono non consente di sottovalutarle. La Corte costituzionale ha fatto due distinte puntualizzazioni. Ha detto, in primo luogo, che degli elementi dai quali dedurre l’inesistenza di collegamenti attuali e degli elementi che rendono improbabile il loro ripristino «grava sullo stesso condannato che richiede il beneficio l’onere di fare specifica allegazione».  Associato di Procedura penale, Università di Roma-Sapienza Note minime sulla ripartizione dei compiti istruttori nel procedimento di sorveglianza 59 Ha detto, poi, che – a parte l’onere di allegazione - sorge in capo al richiedente un onere della prova nel caso in cui – come accade peraltro spesso nella pratica – il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica abbia fatto pervenire informazioni di segno negativo: qui il condannato «non ha il solo onere di allegazione di elementi a favore ma anche quello di fornire elementi di prova a sostegno». Orbene, quanto alla prima puntualizzazione, va notato come la ricostruzione della Corte sia in un certa misura “creativa”: è vero infatti che nella giurisprudenza di legittimità è consolidato da tempo un orientamento secondo il quale sul condannato “ostativo” che richieda la concessione di un beneficio penitenziario o di una misura alternativa gravano una serie di oneri di allegazione, e tuttavia quest’assunto è sempre stato riferito non già alle circostanze da cui può essere desunta l’assenza di collegamenti attuali con la criminalità, ma - come la stessa Corte riconosce - alle circostanze dalle quali sono desumibili la ‘impossibilità’ o la ‘irrilevanza’ della collaborazione, che possono surrogare il requisto della collaborazione con la giustizia ai fini del superamento dell’ostatività. Tutti i precedenti citati dalla Corte costituzionale appartengono, del resto, a questa giurisprudenza1. In realtà, la giurisprudenza di legittimità formatasi sull’art. 4-bis comma 1-bis ord. penit., se in relazione alle circostanze che comprovano l’impossibilità della collaborazione ritiene doverosa un’attività di allegazione di elementi specifici da parte del richiedente2, considera invece tutta del giudice l’indagine sui collegamenti attuali con la criminalità. Lo stato dell’arte giurisprudenziale circa la ripartizione delle responsabilità istruttorie nel procedimento di sorveglianza e la ricostruzione che di essa ne suggerisce la Corte costituzionale sono perciò alquanto distanti. Tanto quanto sono tra loro differenti le circostanze che normalmente consentono di accertare l’inesigibilità della collaborazione - fatti del passato, spesso già ricostruiti in atti giudiziari o da sentenze - e quelle sulle quali può fondarsi l’impegnativa affermazione dell’inesistenza di legami attuali con la criminalità organizzata: qui salvo che risulti un fatto logicamente incompatibile con la perdurante sussistenza del legame criminale - si tratta spesso di condizioni ambientali, le cui tracce sono rinvenibili di solito in informative di tipo “investigativo”. Si può pensare che nell’idea della Corte si nascondano considerazioni di buon senso: di certi elementi fattuali per i quali è opportuno incaricare la difesa, perché difficilmente accessibili al giudice (in effetti, nel processo gli oneri si assestano anche secondo criteri di comodità probatoria) ma non me ne vengono in mente molti, devo dire. Mi pare invece di vedere, nel ragionamento della decisione 1 Cfr. tra le altre Cass., Sez. I, 24 gennaio 2017, n. 47044, C.E.D. Cass., n. 271474 nonché Cass., Sez. I, 8 luglio 2019, n. 29869, in C.E.D. Cass., n. 276405. 2 All'istante non incombe un onere probatorio in senso stretto, ma un onere di allegazione degli elementi da cui il giudice possa trarre spunto per le acquisizioni ritenute necessarie, «di tal che l'organizzazione del procedimento, sotto il profilo istruttorio, risulta appunto contraddistinta dall'onere di prospettazione che grava sulla parte, cioè un dovere di prospettare e di indicare al giudice i fatti sui quali la sua richiesta si basa, sui quali poi l'autorità giudiziaria procede agli opportuni accertamenti» (così Cass., Sez. V, 14 novembre 2000, n. 4692, Sciuto, in C.E.D. Cass., n. 219253). 60 Pasquale Bronzo costituzionale, un certo scostamento dalle leggi naturali del processo penale che, dove sia in gioco la libertà personale, difficilmente tollerano discipline nelle quali la prova di fatti – per così dire – “liberatori” sia totalmente accollata alla persona che è assoggettata al potere dello Stato3. Lo scostamento dai princìpi è ancora più marcato nell’altra affermazione della Corte costituzionale, quella secondo cui, ove il Comitato provinciale faccia pervenire una nota con elementi di preoccupazione, sorge in capo al condannato un onere della prova. A parte la considerazione che la genericità che spesso caratterizza queste informative rende anche di fatto problematica una controprova, è inedita l’affermazione di un onere probatorio in capo al condannato richiedente4 Al contrario, sappiamo bene come sia tipico della giurisdizione di sorveglianza un metodo istruttorio di tipo cooperativo (molto lontano dalla rigida ripartizione di ruoli del processo di cognizione, ispirato ai dettami dello stile adversary), nel quale il giudice può supplere de facto, mentre al condannato si addossano, al più, oneri di allegazione, di prospettazione, mai di prova, o di controprova. La peculiarità di questo assetto dipende dalle particolarità del giudizio di sorveglianza, in cui il condannato è una parte fatalmente lontana dalle fonti di prova, e sempre depotenziata dallo stato detentivo, e il ruolo attivo del giudice vale a riequilibrare la debolezza dipendente della condizione di soggezione della persona all’amministrazione penitenziaria. L’assunto della Corte costituzionale appare perciò opinabile, e anche in questo caso non è corroborato dal precedente di legittimità richiamato a supporto, che in realtà non diceva affatto che l’informativa negativa del Comitato provinciale imponesse al condannato una confutazione delle notizie trasmesse al giudice di sorveglianza; in realtà la Suprema Corte in quella decisione - notando come al Comitato «non compete di formulare “pareri”, ma solo di fungere da tramite per l'acquisizione delle “dettagliate informazioni”» - diceva che il giudice, a fronte di asserzioni apodittiche del Comitato, non potesse limitarsi a recepirle acriticamente, con inammissibile delega della decisione ad altro organo, dovendo invece in ogni caso sottoporle al suo vaglio «per accertare la loro logicità, compiutezza ed idoneità o meno ai fini previsti dalla norma»; nel farlo, il giudice dovrebbe pertanto quanto meno prendere in esame anche gli elementi eventualmente addotti dalla difesa, e vòlti a dimostrare, in positivo, la insussistenza dei collegamenti5. È vero che - anche la Corte lo ricorda - la disciplina vigente, per come “riscritta” dal Giudice delle leggi, di fatto ristabilisce, quanto alla concessione dei permessi, un assetto normativo che conoscevamo già: quello della prima versione del 4-bis, risalente al d.l. n. 152 del 1991, nel quale l’accesso ai benefici penitenziari, per i delitti di prima fascia era subordinato alla prova di elementi in grado di escludere dell’attualità di collegamenti con le organizzazioni. Quella disciplina non ebbe però il tempo di vivere abbastanza né nelle aule giudiziarie né nella riflessione giurisprudenziale, dal momento che dopo solo un anno, nel 1992, fu sostituita, ad opera di un altro decreto legge, col diverso regime di accesso fondato sulla “collaborazione”. Riesumata oggi, essa andrebbe tuttavia letta in modo conforme al sistema. 4 Salvo, ovviamente, che non si usi la formula per individuare la parte che sarebbe danneggiata dal mancato raggiungimento della prova. 5 Cass., Sez. I, 12 maggio 1992, n. 1639, in Cass. pen., 1992, 2818 (in relazione alla disciplina originaria dell’art. 4-bis ord. penit.). 3 Note minime sulla ripartizione dei compiti istruttori nel procedimento di sorveglianza 61 Al più, si può ritenere che, ove al giudice pervenga un’informativa negativa del Comitato provinciale, incombe sullo stesso un dovere di motivazione “rafforzata”, in caso di accoglimento della richiesta, in ordine alla ritenuta inesistenza di relazioni attuali con l’organizzazione criminale e all’assenza di rischi apprezzabili di una loro futura ricostituzione6. La criticità dell’assunto della Corte si fa però ancora più esiziale se si considera che il secondo degli elementi della fattispecie ricostruita dalla declaratoria di illegittimità consiste nella inesistenza del pericolo di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata Si tratta di una clausola didattica, che non prescrive nulla di nuovo: essa conferisce veste di norma positiva ad una valutazione che è comunque sempre effettuata dal giudice di sorveglianza, e che attiene al controllo sulla perdurante pericolosità di qualsiasi detenuto ammesso al beneficio o alla misura alternativa. Salvo alludere ad un vaticinio, la clausola andrebbe riferita alla valutazione di due fattori: un cambiamento dell’ambiente, o - più facilmente - un cambiamento della persona, la quale, in ipotesi, potrebbe aver serbato un comportamento penitenziario impeccabile, aderito all’opera rieducativa, e finanche tenuto una condotta collaborativa con la giustizia, ed essere tuttavia rimasta intimamente coinvolta nelle logiche mafiose o criminali: in breve, una analisi personologica (dal tema assai complicato: che il condannato abbia, per così dire, ucciso il mafioso che era in lui7) Se così è, appare singolare che in una simile indagine possano imporsi alla persona detenuta oneri di prova, e finanche di allegazione. Si consideri, poi, che la giurisprudenza appare incerta nel trattamento processuale di tali presupposti, considerandoli a volte requisiti di ammissibilità, da vagliare dunque in limine, altre volte motivi di rigetto dell’istanza. Insomma temo che, se volessimo intendere alla lettera le digressioni contenute nella motivazione della sentenza n. 253/2019 in materia di oneri istruttori, dovremmo un attimo dopo rassegnarci, sconsolati, all’idea che nel motivare quella pronuncia di incostituzionalità la Corte si sia avviluppata, come ha scritto Marco Pellissero, in una lettura a sua volta incostituzionale8. 6 Cfr. F. FIORENTIN, Preclusioni penitenziarie e prermessi premio, in Cass. Pen., 2020, 1026. Cfr. M. RUOTOLO, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, in Sistema Penale, 12 dicembre 2019: «è il detenuto a dover dimostrare di essere una persona diversa da quella che era al momento del commesso reato». 8 M. PELLISSERO, Permessi premio e reati ostativi. Condizioni, limiti e potenzialità di sviluppo della sent. 253/2019 della Corte costituzionale, in Legisl. Pen., 3 marzo 2020, 15. 7 IL SENSO DELLA PENA: L'UOMO OLTRE IL REATO di MARIA BRUCALE* SOMMARIO: 1. La sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale: limiti applicativi e probatio diabolica - 2. La rilevanza della questione: ostacoli e ipotesi di superamento. 1. La sentenza della Consulta, n. 253/2019, è stata salutata con favore perché ha costituito il primo momento di erosione normativa del meccanismo preclusivo di cui all' articolo 4-bis ord. penit. A livello pratico e di attuazione, però, si è prestata ad applicazioni non univoche da parte dei magistrati di sorveglianza che, assai spesso, hanno interpretato il dictum della Consulta in modo esasperatamente restrittivo ipotizzando a carico del detenuto richiedente una insuperabile probatio diabolica. Invero, il punto cardine della pronuncia del Giudice delle leggi costituiva l'attribuzione, da un lato, al magistrato di sorveglianza, dall'altro, al detenuto di una responsabilità. Dell’uno, quella di valutare finalmente l’uomo ristretto oltre il titolo di reato, restituirgli una identità, una individualità, una storia, un percorso. Dell’altro, quella di dimostrare la fattiva presa di distanza da qualsivoglia contesto sodale e la scelta di modelli sociali positivi e orientati alla legalità. Nell’aprire uno spiraglio ai condannati per reati racchiusi nell’alveo dell’art. 4bis ord. penit., ammettendo che avessero accesso al permesso premio, primo momento facente parte del percorso trattamentale di apertura con l’esterno, la Consulta dettava specifiche condizioni, frutto di una perequazione di valori costituzionalmente tutelati; da una parte l’aspirazione al recupero di ogni condannato, dall’altra la tutela sociale da fenomeni criminali estremamente pericolosi e pervasivi. In particolare, la Corte lasciava al richiedente l’onere di dimostrare la cessazione di contatti con il sodalizio di appartenenza e, del pari, l’impossibilità di ripristino. Specificava, comunque, che la collaborazione con la giustizia, per la sua natura di strumento investigativo dello Stato, debba sempre essere una scelta libera della persona condannata e che, pertanto, ad essa non possano essere correlate conseguenze negative che incidano sulla espiazione della pena e sull’accesso ai benefici penitenziari. La magistratura di sorveglianza, tuttavia, ha solo in apparenza fatto propri i contenuti della pronuncia in discorso - che, pur con i limiti e le precauzioni valutative esplicitati, ha inteso inequivocabilmente costituire una apertura rispetto al passato e all’operare di una preclusione assoluta – e ha avocato a sé il ruolo di interprete delle ragioni della mancata collaborazione con la giustizia da parte del detenuto, pervenendo pedissequamente a valutazioni di inadeguatezza delle motivazioni di volta in volta esplicitate dall'istante a sostegno della affermazione di dissociazione da ogni organismo sodale. I giudici di sorveglianza finiscono, in tal modo, per forzare e superare le indicazioni della Corte costituzionale fino a negare * Avvocato del Foro di Roma Il senso della pena: l'uomo oltre il reato 63 al condannato la possibilità di accedere al beneficio. Tale metodo si nutre della prassi distorta degli uffici delle procure distrettuali antimafia e degli organi di controllo che, interpellati in fase istruttoria circa la capacità criminale del richiedente e circa il suo perdurante inserimento nella associazione malavitosa di riferimento, rassegnano del tutto assiomaticamente una perdurante pericolosità radicata esclusivamente sulla storia giudiziaria del soggetto, lontanissima nel tempo, cristallizzata ed immutabile. E, naturalmente, il detenuto rimane solo con la sua richiesta di progressione trattamentale, di accesso alle opportunità premiali – nel caso della sentenza n. 253/2019, soltanto quelle del permesso premio - e in questa solitudine nulla può fare se non dichiarare la sussistenza delle condizioni che lo legittimano ad aspirare a un primo passo verso la libertà e il reinserimento. Può offrire la sua condotta di piena adesione all’offerta formativa del carcere dove si trova, un comportamento corretto e rispettoso delle regole. Può dimostrare un tenore di vita, proprio e dei propri congiunti, coerente ai guadagni leciti. Può manifestare l’adesione a modelli sociali positivi studiando, lavorando, intrattenendo con i compagni di cammino e con i propri familiari rapporti sereni e costruttivi. Ma un onere probatorio negativo (cessazione di appartenenza e impossibilità di ripristino) non può andare oltre l’osservazione, in un tempo a volte lunghissimo di carcerazione, del suo agito che può essere capillare attraverso il lavoro congiunto dei numerosi operatori tenuti a redigere la relazione di equipe intramuraria. Appare, allora, incoerente con le finalità della pronuncia della Consulta ritenere che al ristretto sia richiesto qualcosa di più di un mero onere di allegazione che potrà supportare con le valutazioni dei soggetti istituzionali preposti al controllo del suo vissuto, del suo percorso, del suo atteggiamento nel tempo, delle condizioni sociali ed economiche della sua famiglia, dell'assenza di nuove incriminazioni. Oltre a questo, appunto, nulla appare lecito pretendere dal recluso. Uno sforzo di coraggio nella vocazione costituzionale di ogni pena deve, invece, essere chiesto ai magistrati di sorveglianza che raccolgano l’invito della Consulta a recuperare la responsabilità del loro mandato ora non più amputata, rispetto al permesso premio, dalle preclusioni assolute di cui all’art. 4-bis ord. penit. rispetto alla possibilità di ravvisare la meritevolezza di una persona ristretta di accedere a un beneficio. Valuti criticamente, il giudice di sorveglianza, le informative che corredano i fascicoli in termini di attualità e di veridicità e non le consideri esaustive e decisive senza averle rapportate al vissuto dell’uomo privato della libertà. Un vissuto che, assai più spesso di quanto si crede, ha nelle trame del dolore della carcerazione la capacità di ricostruirsi e di rapportarsi in modo sano a modelli di vita socialmente accettati. Diversamente, il ristretto verrà a trovarsi in una condizione deteriore rispetto a quella - sentenza della Consulta. Non potrà più chiedere l'inesigibilità della collaborazione per accedere al permesso premio e dovrà affrontare uno sforzo dimostrativo maggiore e meno efficace rispetto al passato. In ogni caso, una volta superato lo sbarramento normativo dell’art. 4-bis ord. penit., si troverà davanti a un'interruzione coatta del proprio percorso trattamentale; coatta quanto incolpevole perché, appunto, al momento la valutazione del detenuto non collaborante è ammissibile soltanto per il permesso premio, considerato una misura di natura differente da quelle alternative. È uno stallo di percorso e di vita che in sé è completamente inconciliabile con l'articolo 64 Maria Brucale 27 della Costituzione. Naturalmente la questione pendente che riguarda la liberazione condizionale spalanca le porte alla speranza. Tale istituto non a caso è inserito nel codice penale; anzi, il dato è affatto significativo e saliente perché indica che, nella concezione unitaria della pena, la liberazione è un momento che ontologicamente è parte della pena, connaturato ad essa. La pena, cioè, ha senso se ha un inizio e, ove il detenuto approfitti di tutti gli strumenti che gli consentano di riabilitarsi, anche una fine. 2. Con ordinanza n. 18518/2020, depositata il 18 giugno 2020, la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3, 27 e 117 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge n. 354 del 1975, e dell'art. 2 decreto legge n. 152 del 1991, convertito, con modificazioni, nella legge n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all'ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale. Il reato di partecipe ad associazione mafiosa, ex art. 416-bis c.p., è rimasto escluso dalla verifica richiesta alla Consulta. La circostanza non è di poco momento poiché il sig. Pezzino, il ricorrente, ha in esecuzione un cumulo di pene che ha al suo interno la condanna quale appartenente a un sodalizio criminoso. Il problema della rilevanza della questione in ragione del petitum appare, invero, difficilmente superabile con gli strumenti ermeneutici interni. La Corte di Cassazione sembra dare per scontato che il giudizio della Consulta debba investire esclusivamente i reati per i quali è stata irrogata la pena dell'ergastolo, esclusa la fattispecie ex art. 416-bis c.p., pur presente nel cumulo, perché la pena per essa comminata è stata interamente espiata. In realtà, però, la giurisprudenza di legittimità della stessa Corte è tutt'altro che univoca nell'affrontare il tema dello scioglimento del cumulo. In particolare, sia quando si è trovata a valutare la possibilità di accedere a un beneficio premiale o a un beneficio penitenziario per un detenuto che aveva in espiazione un cumulo di pene che includeva ancora reati di cui all'art. 4-bis ord. penit., sia quando si è trovata a valutare i presupposti dell’inesigibilità della collaborazione di cui all'art. 4-bis, comma 1-bis ord. penit., sebbene fosse stata espiata la parte di pena relativa al reato di partecipazione ad associazione mafiosa, la Corte di Cassazione ha espresso un indirizzo altalenante, non sempre ravvisando la possibilità che si valutasse soltanto la parte residua di pena – escludendo dunque quel reato ostativo – per consentire al richiedente l'ammissione ad una soluzione di favore. Oggi sembra prevalere l’orientamento secondo cui: «in presenza di un provvedimento di unificazione di pene concorrenti ai sensi dell'art. 663 cod. proc. pen. è legittimo procedere allo scioglimento del “cumulo” nel corso dell'esecuzione nei casi in cui debba essere compiuto il giudizio sull'ammissibilità della domanda di concessione di un beneficio penitenziario e qualora, tra le pene unificate, alcune si riferiscano a reati ricompresi nel novero di quelli elencati nell'art. 4-bis ord. penit. Il senso della pena: l'uomo oltre il reato 65 (Sez. 1, n. 2285 del 3/12/2013, dep. 2014, Di Palo, Rv. 258403; Sez. 1, n. 5158 del 17/1/2012, Marino, Rv. 251860; Sez. 1, n. 1405 del 14/12/2010, dep. 2011, Zingale, Rv. 249425). Una volta operato lo scioglimento, deve ritenersi che vengano meno le ostatività riferite ai reati le cui pene dovessero risultare già espiate. Qualora, tuttavia, nel “cumulo” residuino uno o più titoli di reato anch'essi ostativi, la cui quota-parte di pena risulti tuttora da scontare, l'accertamento delle rigorose condizioni di accesso al beneficio, stabilite dal citato art. 4-bis, deve essere limitato ai delitti suddetti, secondo il regime ad essi proprio, verificando, nell'ipotesi in cui rientrino nella c.d. “prima fascia”, se il condannato abbia, rispetto ad essi, collaborato con la giustizia ovvero se detta collaborazione, mai prestata, possa essere ancora utile o sia diventata impossibile o inesigibile.» (Cass., Sez. I, sent. n. 48690/2019). Non può, tuttavia, ignorarsi, in materia di collaborazione inesigibile, un diverso indirizzo in relazione al quale i Giudici di legittimità si sono spinti anche ad affermare che l’impossibilità o inesigibilità dovesse essere dimostrata non solo per tutti i reati posti in esecuzione ma anche per tutti i reati avvinti dal vincolo della continuazione seppur estromessi dal cumulo o, addirittura, non eseguibili perché, ad esempio, indultati (Cass., Sez. I, sent. n. 43391/2014). Non si può, dunque, a livello interpretativo, ravvisare l’esistenza di un automatismo che consenta di scomputare dal cumulo il reato ex art. 416-bis c.p. In assenza di un provvedimento specifico di scioglimento, dunque, la Corte di Cassazione non aveva il potere di estromettere i reati di cui all' articolo 416-bis c.p. sollecitando una valutazione della Consulta sui rimanenti. La situazione appare speculare a quella già oggetto di valutazione da parte della Corte costituzionale con la sentenza n. 253/2019 nel ricorso Pavone fortunatamente riunito al caso Cannizzaro che, ove valutato isolatamente, sarebbe incorso probabilmente in una pronuncia di irrilevanza preclusiva di ogni valutazione. Cannizzaro, infatti, pativa una carcerazione unitaria per un cumulo di pene al cui interno era contenuto il reato ex art. 416-bis c.p., seppur interamente espiato. Riguardo alla possibilità di una pronuncia consequenziale che consenta di investire tutti i reati di cui all' art. 4-bis ord. penit. anch’essa appare problematica, se ancorata ai criteri generali dell’ordinamento interno. Nel caso CannizzaroPavone il più ha assorbito il meno. All’esame della Consulta c'era, infatti, il reato di cui all' articolo 416-bis c.p. che, nella rosa dei reati previsti nella norma di cui all’articolo 4-bis ord. penit. è indubbiamente considerato il più grave. Nella questione oggetto di valutazione, invece, un percorso inverso appare abbastanza difficile, stante la già palesata resistenza della Corte costituzionale nel colpire le preclusioni dei reati ostativi quando tra essi ci sia il 416-bis c.p. Il riferimento è alle pronunce, pur di favore, della Corte costituzionale riguardo all’operare dei meccanismi ostativi in materia cautelare. Riguardo alla rilevanza della questione ed alla possibilità che la Consulta si pronunci su tutte le fattispecie criminose racchiuse nell'art. 4-bis ord. penit., il superamento dell’ostacolo consistente nella presenza nel cumulo in esecuzione per Pezzino del reato di partecipazione ad associazione mafiosa appare, tuttavia, possibile. 66 Maria Brucale Dal caso Pavone-Cannizzaro, infatti, la vicenda oggi in esame alla Consulta pone quale spettro di indagine il paradigma convenzionale determinato dalla pronuncia Cedu ‘Viola c. Italia’. Il diritto alla speranza di matrice convenzionale non ammette esclusioni e nemmeno esclusi. La giurisprudenza della Corte EDU è, infatti, ormai costante da molti anni, fin dal 2013 con Vinter c. Regno Unito, nel riconoscere il principio che è inumana e degradante la carcerazione senza prospettiva di rilascio, la pena senza speranza. È il concetto ribadito dalla pronuncia della prima Sezione della Corte EDU nel ricorso presentato da Marcello Viola che esclude, ai sensi dell'art. 3 della CEDU, la legittimità di una condanna all'ergastolo c.d. effettivo, «life imprisonment without hope». La Corte EDU non si pone in termini assoluti contro l’ergastolo; non esprime un giudizio di inadeguatezza della pena perpetua rispetto ai parametri dei diritti fondamentali, ma censura una carcerazione che sia mutilazione definitiva di vita senza aspirazione di reinserimento e di riabilitazione, che neghi il senso della buona condotta in carcere, della adesione alle regole del vivere sociale, del cambiamento, che neghi, in ultima analisi, una concreta prospettiva di libertà («prospect of release o possibility of review»). Non nega neppure la validità della collaborazione con la giustizia quale parametro per attestare l'intervenuta dissociazione del ristretto dall'ambiente sodale originario, ma ritiene che il distacco dalla mafia possa essere provato anche diversamente, attraverso la valutazione concreta dei progressi trattamentali. Bene, dunque, se la persona detenuta offre una collaborazione utile con la giustizia, ma se non lo fa, la legge deve comunque prevedere - pena la violazione della CEDU - ulteriori possibilità perché la sua riabilitazione sia rivalutata e le consenta, in concreto, una aspirazione di ritorno alla vita libera. Così chiunque si trovi in carcere, per qualunque crimine, potrà, trascorso un certo numero di anni, chiedere al giudice di sorveglianza di essere ammesso a un beneficio premiale, ad un percorso di reinserimento: permesso premio, semilibertà, affidamento in prova ai servizi sociali, detenzione domiciliare e, infine, liberazione condizionale. Ancora. Il superamento del problema della rilevanza della questione all’esame della Consulta può trarsi rinvenendo nella legislazione dell’emergenza il riconoscimento normativo dell’operare del principio dello scioglimento del cumulo, ove determini per il recluso condizioni di favore. Già nell'art. 41-bis, comma 2, ord. penit., il legislatore ha ravvisato la necessità di disciplinare espressamente l'ipotesi che il ristretto nel regime detentivo di rigore avesse espiato per intero la pena afferente al reato associativo, per escludere che l'operare dello scioglimento del cumulo si traducesse in una revoca anticipata della misura afflittiva disposta dal ministro della Giustizia: «In caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, la sospensione può essere disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nell'art. 4-bis». Da ultimo, nel d.l. c.d. Ristori 1, n. 137 del 28 ottobre 2020, art. 30, (Disposizioni in materia di detenzione domiciliare), nell'individuare i casi di esclusione dall'accesso alla misura della detenzione domiciliare nei soggetti - tra gli altri - condannati per taluno dei delitti di cui all'art. 4-bis ord. penit., viene Il senso della pena: l'uomo oltre il reato 67 espressamente specificato che l'esclusione opera "anche nel caso in cui i condannati abbiano già espiato la parte di pena relativa ai predetti delitti quando, in caso di cumulo, sia stata accertata dal giudice della cognizione o dell'esecuzione la connessione ai sensi dell'articolo 12, comma 1, lettere b e c, del codice di procedura penale tra i reati la cui pena è in esecuzione». La necessità avvertita dal legislatore di precisare che il principio dello scioglimento del cumulo non operi, in determinate circostanze, laddove si tradurrebbe in un beneficio per la persona ristretta, dà forza al convincimento che lo stesso sia ormai entrato nel sistema ordinamentale in ragione della importanza dei valori da cui trae origine e fondamento: il favor rei da un lato, la necessità che la pena, una volta espiata, smetta di produrre effetti punitivi in capo alla persona che ha ormai pagato il suo debito con la giustizia (diritto all'oblio), dall'altro. UN APPROCCIO PSICOLOGICO AGLI AUTOMATISMI LEGISLATIVI: IL CASO DELL’ERGASTOLO OSTATIVO ALLA LIBERAZIONE CONDIZIONALE di QUIRINO CAMERLENGO SOMMARIO: 1. Proposta di soluzione. – 2. Organismo vivente e automatismi. – 3. Ipotesi relative alle ragioni sottese agli automatismi. – 4. Automatismi e princìpi costituzionali in materia penale. – 5. Alcune osservazioni sull’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale. – 6. La “doppia pronuncia” come soluzione saggia. 1. Le riflessioni che seguiranno mirano a corroborare la tesi della opportunità di ricorrere, anche in questo giudizio, alla tecnica della “doppia pronuncia” lasciando al legislatore ordinario un ragionevole lasso di tempo per rivedere, in un senso costituzionalmente sostenibile, le proprie scelte in materia. 2. Si consideri l’ordinamento giuridico alla stregua di un complesso organismo vivente, fatto di variegati elementi che interagiscono tra di loro e che si attivano attraverso processi cognitivi e decisionali più o meno articolati. Una componente essenziale dell’ordinamento è il diritto positivo, le cui norme sono interpretate e applicate da persone fisiche incardinate presso una copiosa serie di istituzioni. Le istituzioni (organi) assumono decisioni (atti) attraverso i quali si manifesta la vitalità dell’ordinamento (corpo). L’ordinamento giuridico è un organismo vivente imperfetto. Pur aspirando a trovare le soluzioni organizzative e operative più congeniali rispetto agli obiettivi da raggiungere e rispetto ai problemi da risolvere, questo complesso organismo vivente sconta il fatto di essere animato da decisioni poste in essere da entità per loro natura imperfette, vale a dire gli uomini. In quanto imperfetto, anche l’ordinamento giuridico più evoluto presenta fragilità e criticità alle quali il medesimo cerca di porre rimedio attingendo ad un ampio spettro di possibili strategie. Al pari di altri organismi viventi, si suppone che anche l’ordinamento giuridico, per gestire al meglio le proprie potenzialità e per ridimensionare il più possibile le proprie vulnerabilità, si esprima attraverso comportamenti coscienti oppure mediante automatismi. I primi sono il frutto di processi orientati dalla volontà, che ne definisce gli obiettivi e ne traccia la direzione. I secondi prescindono dalla volontà, trattandosi di atti compiuti meccanicamente e, dunque, senza la partecipazione della coscienza e della volontà degli organi deputati ad agire 1. Quando, come nel caso di specie, il legislatore (organo) opta per una presunzione assoluta, così da non lasciare scelta ad altri organi (in particolare, alle autorità  1 Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Pavia Cfr. P. JANET, L’automatisme psychologique, Alcan, Paris 1889. Un approccio psicologico agli automatismi legislativi 69 giudiziarie), allora si è in presenza di un automatismo che, per l’appunto, opera a prescindere da una determinazione volitiva da parte di una determinata istituzione2. Alcuni importanti studi hanno analizzato il rapporto tra processi controllati (comportamenti razionali) e processi immuni da ogni forma di controllo (automatismi)3. Questo tipo di controllo presuppone l’attenzione del soggetto agente. Gli automatismi, dunque, rifuggono da ogni forma di attenzione e determinano una trasformazione della realtà che prescinde dalla concreta applicazione sull’agire. L’attenzione, infatti, determinerebbe una azione non efficace, se non persino pericolosa per il soggetto agente4. Nel caso sottoposto alla Corte, il legislatore ha preferito sottrarre dall’attenzione dell’autorità giudiziaria il compimento di un determinato atto (la liberazione condizionale) preferendo sancire, attraverso una presunzione assoluta, l’automatica preclusione per coloro che non collaborano con la giustizia. Se l’obiettivo è quello di assecondare una politica criminale volta a recidere il legame che avvince il singolo detenuto all’associazione a delinquere di appartenenza, e se si teme, in relazione agli obiettivi di repressione del fenomeno in questione, che un magistrato non possa valutare in modo cosciente rispetto a quegli obiettivi la concessione o meno di questo beneficio, allora l’ordinamento giuridico predilige l’automatismo per circoscrivere gli effetti negativi della propria incapacità di estirpare quel fenomeno. Se A, allora B: se il detenuto non collabora, allora non gli viene concessa la liberazione condizionale. Un nesso eziologico, questo, la cui dinamica vitalità viene così rimessa ad una azione automatica che difetta, per sua natura, della mediazione dell’organo che, di regola, dovrebbe valutare tali situazioni in ragione della propria competenza. 3. Perché l’ordinamento giuridico, quale complesso organismo imperfetto, si avvale degli automatismi? Per rispondere a questo interrogativo cruciale in vista della decisione rimessa alla Corte costituzionale, soccorre ancora una volta la psicologia. 1) Immaturità dell’organismo. Un soggetto ancora immaturo ha una spiccata attitudine ad esprimersi tramite automatismi, non avendo ancora conseguito la capacità di inibirli a favore di comportamenti coscienti. Gli studi condotti in materia dimostrano che l’evoluzione del processo di maturazione determina un cambiamento nella «flessibilità cognitiva» del soggetto5. Alla maturazione delle strutture biologiche si abbina l’esperienza vissuta dal soggetto agente, che così acquisisce la capacità di sostituire agli automatismi comportamenti coscienti e volontari. 2 Cfr. A. PUGIOTTO, Due decisioni radicali della Corte costituzionale in tema di ostatività penitenziaria: le sentenze nn. 253 e 263 del 2019, in Rivista AIC, 2020, n. 1, 501 ss. 3 Vedi, ad esempio, J.D. COHEN, K. DUNBAR, J.L. MCCLELLAND, On the control of automatic processes: A parallel distributed processing account of the Stroop effect, in Psychological Review 1990, 332-361 4 È esperienza comune l’uso del cambio e dei pedali di una autovettura: il guidatore agisce meccanicamente dal momento che, in caso contrario, egli non avrebbe il pieno controllo della guida. 5 Cfr. S. BONINO, S. CIAIRANO, Effetto Stroop e capacità di inibizione: una ricerca in campo evolutivo, in Giornale italiano di psicologia 1997, 587 ss. 70 Quirino Camerlengo Ebbene, un ordinamento giuridico che si affida agli automatismi, come quello qui considerato, tradisce la propria immaturità rispetto quanto meno ad un fenomeno che non è ancora riuscito a governare senza divergere in maniera così palese dai princìpi fondamentali in materia penale. Di fronte ad attività criminali poste in essere da organizzazioni strutturate in modo efficiente e stabile, capaci di azioni estremamente efficaci e nocive, l’ordinamento giuridico difetta ancora di quel livello di sviluppo e di consolidamento tale da consentire la definizione di modalità di intervento che siano il più possibile rispettose del dettato costituzionale, dal punto di vista di un ragionevole bilanciamento tra le ragioni dell’ordine pubblico e le esigenze connesse ad una piena tutela delle libertà fondamentali e della dignità umana. L’automatismo è una strategia di difesa che l’ordinamento giuridico, quale organismo vivente imperfetto e immaturo, predispone per aggredire una fenomenologia non ancora ben inquadrata e gestita dal punto di vista non solo sociale e culturale, ma anche normativo6. 2) Tendenza all’omeostasi. Per limitare i danni determinati dalla propria immaturità, un organismo vivente mette in atto azioni automatiche per la propria sopravvivenza ed il proprio benessere, allorché tali condizioni siano minacciate da variabili esogene. Anche un ordinamento giuridico, quale organismo immaturo, esprime una tendenza alla omeostasi confidando sulla forza repentina degli automatismi. La psicologia ha dimostrato che la prova di tale tendenza si ha grazie agli esperimenti sul priming che permettono di intercettare quelle influenze alle quali non si presta attenzione, ma che condizionano sensibilmente le scelte comportamentali degli individui. Si registra, in questi casi, la tendenza a «giustificare le decisioni con altre ragioni, coerenti con il nostro sistema di preferenze, sebbene le decisioni stesse siano state guidate da fattori che avremmo cercato di ignorare qualora ci fossero stati in precedenza presentati esplicitamente»7. Per sopravvivere di fronte a condotte illecite provviste di un accentuato disvalore sociale, l’ordinamento giuridico tenta di porvi rimedio con presunzioni assolute che prescindono dalla mediazione della competente autorità per fornire una immediata e secca risposta ad un problema che si reputa non altrimenti risolvibile. E lo fa sulla base di una ricostruzione fattuale dai contorni non sempre adeguatamente compresi anche se ben presenti come vedremo di qui a poco. 3) Coscienza sociale. In effetti, spesso un automatismo è ascrivibile ad una sorta di processo di compenetrazione tra il soggetto agente e l’ambiente che lo circonda: una relazione talmente stretta da indurlo a non reputare necessario esplicitare le ragioni delle proprie azioni. E tale convincimento favorisce automatismi che, diversamente dalle azioni coscienti, non implicano alcun confronto con gli altri sul piano delle determinazioni volitive8. L’azione automatica 6 L’automatismo come imitazione rigida posta in essere dai bambini che difendono i loro giocattoli è analizzato, ad esempio, da P. GAROSIO, È possibile “imparare” a giocare? Un’esperienza di play training per bambini autistici in Olanda, in Psicologia clinica dello sviluppo 1997, 141 ss. 7 A. LAVAZZA, Neuroscienze forensi: un problema di accoppiamento tra legge e soggetto agente, in Giornale italiano di psicologia 2016, 757. 8 Cfr. M. CSIKSZENTMIHALYI, The Evolving Self, Harper Collins, New York 1993. Un approccio psicologico agli automatismi legislativi 71 è propria di una persona che «svolge abitualmente una funzione utile [e che] è, per questo stesso agire, parte della comunità espressa dal gruppo e non ha bisogno di spendere tempo per dare segni del suo valore, sotto forma di intenzioni»9. L’automatismo qui esaminato verosimilmente riflette la sensibilità dell’ordinamento giuridico, immaturo e imperfetto, all’ascendente esercitato dalla coscienza sociale10. La presunzione assoluta denunciata alla Corte costituzionale riflette un convincimento diffuso nella popolazione e, cioè, che chi non collabora con le autorità non ha alcuna intenzione di redimersi e di riconquistare il proprio posto nella società come cittadino onesto e rispettoso delle leggi. In particolare, l’ergastolano affiliato ad una organizzazione di stampo mafioso, che non aiuta in alcun modo gli organi inquirenti, non merita alcun beneficio. Il legislatore, attraverso questo automatismo, ha fatto propria tale convinzione rendendosene interprete ufficiale e in questo modo ha sancito la propria omogeneità di vedute rispetto alla comunità. Quando preclude la concessione della liberazione condizionale ai detenuti non collaboranti, senza riconoscere la possibilità di provare comunque la volontà di reinserimento sociale, il legislatore non avverte il bisogno di motivare la propria scelta tramite decisioni dell’autorità: la scelta è buona in sé in quanto fondata su di una tacita intesa tra il legislatore stesso e la comunità di cui il primo si sente comunque parte integrante. 4) Abitudine. Dietro questo automatismo (ma il discorso potrebbe essere generalizzato) si cela una abitudine alla quale l’ordinamento giuridico immaturo e imperfetto affida la propria difesa e conservazione. Una abitudine a tentare di sconfiggere il male con il male, a ricorrere al ricatto nei confronti di quanti, senza avere la possibilità (o la volontà) di giustificarsi, non aderiscono alla proposta di collaborazione con l’autorità. Una abitudine radicata nella coscienza non solo sociale, ma anche della struttura su cui è stato eretto l’ordinamento giuridico. Una abitudine che impedisce di affidarsi a soluzioni aperte anche a scenari diversi rispetto a quello rigido prefigurato dall’automatismo. E ciò finisce col generare una dipendenza, nemica della ragione e foriera di ulteriori cedimenti alla tentazione di chiudere la partita con il nemico attraverso la muta forza dell’automatismo. Com’è stato dimostrato in alcune ricerche di psicologia sociale, l’abitudine è propria di un’organizzazione complessa, non necessariamente inconsapevole, funzionale alla stabilità e regolarità del quotidiano e carica di implicazioni identitarie11. Anche attraverso automatismi, come quelli qui analizzati, l’ordinamento giuridico sembra quasi lasciar trasparire la propria impronta identitaria, quale entità che pur di sconfiggere il nemico non lascia alcun margine di scelta quanto ad eventuali azioni miti anche nei confronti di chi ha sbagliato. Da presunzioni assolute, come quella qui considerata, affiora una chiara dimensione meccanicistica basata sull’abitudine (punizione dei non collaboranti per ragioni 9 R.A. WICKLUND, A. DEPONTE, “Avrò il proposito di agire...”. La pubblicità delle intenzioni come simbolo sociale, in Giornale italiano di psicologia 2005, 138. 10 In generale, N. ZANON, Corte costituzionale, evoluzione della “coscienza sociale”, interpretazione della Costituzione e diritti fondamentali: questioni e interrogativi a partire da un caso paradigmatico, in Rivista AIC, 2017, n. 4, 1 ss. 11 Così F. EMILIANI, G. MELOTTI, L’abitudine solo comportamento automatico? Un’analisi nella conoscenza comune, in Psicologia sociale 2007, 295 ss. 72 Quirino Camerlengo sociali di giustizia) quale associazione automatica fra stimolo e risposta, nel timore che ogni forma di rappresentazione mentale propria delle determinazioni volitive rimesse alle competenti autorità, possa frustrare quell’anelito di giustizia così radicato nella coscienza sociale. 4. Al pari di un organismo vivente imperfetto, anche l’ordinamento giuridico – che non ha raggiunto una piena maturità, che si preoccupa della propria conservazione, che cerca una relazione simbiotica con la società e che riconosce la rilevanza di abitudini consolidate – si manifesta attraverso automatismi per sopravvivere e per realizzare le proprie finalità. In uno Stato retto da una Costituzione rigida e superiore alle altre fonti, gli automatismi debbono nondimeno fare i conti con princìpi il cui scopo è anche quello di contribuire alla progressiva maturazione dell’ordinamento giuridico: princìpi che sono guida e limite, indirizzo e vincolo, che delineano un assetto ideale verso cui deve tendere lo sviluppo dell’ordinamento, senza con questo soffocare la discrezionalità degli organi deputati a compiere le prime scelte di inveramento di quei princìpi, attingendo all’interno dello spettro delle molteplici modalità attuative. La Costituzione impone la ricerca di un ragionevole equilibrio tra i beni fondamentali ai fini della stabilità del patto che lega i consociati all’autorità. Nel caso di specie, la necessità di presidiare l’ordine pubblico attraverso misure idonee a supportare l’azione investigativa dell’autorità giudiziaria e delle forze di polizia è messa di fronte alla cogenza dei princìpi che definiscono un regime penitenziario e, più in generale, una accezione di sanzione penale secondo una impostazione civile, umana, socialmente orientata: non la punizione inflitta per riparare il danno sofferto dalle persone offese e, in qualche misura, anche dalla comunità, ma un percorso rieducativo finalizzato al recupero sociale del detenuto. Una sanzione, come quella dell’ergastolo, solleva non pochi dubbi circa la sua compatibilità con il disegno costituzionale appena tratteggiato. La negazione radicale della liberazione condizionale a quanti non collaborano con chi amministra la giustizia, senza che si possa valutare caso per caso, è un automatismo che tradisce l’incapacità del nostro ordinamento di gestire nel modo costituzionalmente sostenibile la lotta a fenomeni criminali gravati da un pesante fardello in termini di disvalore sociale e di salvaguardia della legalità. Il ricatto sotteso a tale presunzione assoluta («se non collabori non riceverai i benefici di legge») è sintomo di una fragilità intrinseca di un ordinamento che, nonostante la lunga esperienza di lotta ai fenomeni criminali qui considerati (dal brigantaggio all’attuale criminalità organizzata, così efficiente sul versante finanziario), non è riuscito a predisporre soluzioni efficienti sul piano della tutela dell’ordine pubblico e, nondimeno, rispettose dei princìpi costituzionali. Ebbene, di fronte ad un automatismo che disvela l’immaturità del nostro ordinamento giuridico l’unica strada da battere è la declaratoria secca di incostituzionalità, ora e subito? Un approccio psicologico agli automatismi legislativi 73 5. Intanto, contestare all’automatismo in parola la violazione del principio di ragionevolezza e di proporzionalità può apparire improprio per il semplice fatto che l’automatismo, proprio perché prescinde da una attenzione razionale, è per definizione irragionevole, nel senso che ontologicamente prescinde dalla ragione. Il parametro in questione può essere utilmente e legittimamente evocato solo rispetto a soluzioni normative che, potendo essere ragionevoli, non si rivelano tali. L’automatismo è per sua natura irragionevole o non-ragionevole: se non lo fosse, non sarebbe tale. La negazione della liberazione condizionale a chi non collabora, poi, parrebbe confliggere con il diritto di tacere, se non addirittura di mentire che l’ordinamento riconosce a quanti si vedono accusati di aver commesso un reato. Tuttavia, questo diritto si esplica quando è ancora integra la presunzione di non colpevolezza, mentre la mancanza di collaborazione, contestata a chi vorrebbe beneficiare della liberazione condizionale, si materializza dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Da un lato abbiamo un imputato la cui responsabilità penale va provata in giudizio e che, perciò, potrebbe ritenere un’ottimale strategia difensiva non cooperare con l’accusa (accettando il rischio che il giudice tenga conto di tale condotta processuale nella quantificazione della sanzione da irrogare). Dall’altro abbiamo un detenuto la cui presunzione di non colpevolezza è venuta meno e che, scontando la pena, è chiamato dalla stessa Costituzione ad accettare il conseguente percorso rieducativo. In questo frangente, contrassegnato dall’accertamento in via definitiva della sua responsabilità penale, la rinuncia o il rifiuto a collaborare possono essere ragionevolmente intesi come sintomo della indisponibilità a portare a termine positivamente quel percorso. 6. Ebbene, di fronte alla complessità della questione di costituzionalità ora sottoposta al vaglio della Corte, e che presenta significative differenze rispetto al caso deciso con la sent. n. 253/2019,12, considero la tecnica della “doppia pronuncia”, sperimentata a partire dal “caso Cappato”, la soluzione più “saggia” da adottare13. Il tempo concesso al legislatore per rivedere la propria posizione in materia, alla luce delle deduzioni che la Corte svolgerà nel rinviare di un anno l’udienza pubblica, potrebbe servire a suggerire una radicale inversione di tendenza nella elaborazione delle strategie di indagine e di repressione dei reati qui considerati. In particolare, lo Stato potrebbe così intraprendere un percorso di rimeditazione delle attuali e consolidate modalità operative tale da poter fare a meno della collaborazione dei protagonisti negativi di questi fenomeni. Un padre immaturo reagisce spesso con automatismi quando i figli non rispettano le regole non collaborando in famiglia. Un padre autorevole e maturo prescinde dalla collaborazione dei figli, adottando altre strategie per ottenere gli stessi risultati in termini di mantenimento di un ragionevole “ordine” all’interno della famiglia. Se 12 Rinvio alla precisa ricostruzione di I. DE CESARE, La presunzione assoluta di pericolosità sociale (di nuovo) alla prova della Corte costituzionale, in questo stesso volume. 13 Nel senso indicato nel mio La saggezza della Corte costituzionale, in Riv. trim. dir. pubbl. 2011, 647 ss. 74 Quirino Camerlengo lo Stato rinunciasse a fare affidamento sulla collaborazione di chi delinque, per cercare piuttosto da sé gli elementi di prova da far valere in giudizio, quell’automatismo perderebbe senso e utilità. Non è dichiarando l’incostituzionalità secca della disciplina censurata che la Corte contribuirebbe a rendere meno immaturo il nostro ordinamento. Considerati i beni coinvolti in questo frangente, una ragionevole fiducia verso un uso accorto della discrezionalità del legislatore potrebbe rivelarsi la soluzione più saggia: si lasci al legislatore il compito di immaginare una reazione diversa rispetto alle molteplici forme di non collaborazione, che non sia quella della denunciata presunzione assoluta. L’automatismo è un tic dell’ordinamento, una reazione meccanica ad impulsi che non si riescono a gestire razionalmente: e un tic non si cura intervenendo sul movimento inconsapevole, ma concedendo al paziente il tempo necessario per rimuoverne le cause. Guidato dalla Corte il legislatorepaziente potrà (se vorrà, s’intende) trovare il modo più costituzionalmente sostenibile per perseguire i prefissati obiettivi di tutela dell’ordine pubblico. IL RAPPORTO INCRINATO TRA LEGGE E GIUDICE NELLE PRESUNZIONI ASSOLUTE IN MATERIA DI LIBERTÀ di STEFANIA CARNEVALE* C’è un filo che lega la decisione resa dalla Corte costituzionale nel 1974 a proposito di liberazione condizionale e quella ora oggetto di scrutinio nella stessa materia1. Allora, quella storica sentenza aprì la via alla legge di ordinamento penitenziario, ne fu sprone e fondamento. Oggi, il provvedimento atteso può segnare un’altra pietra miliare in grado di chiudere la via agli eccessi e alle storture innestate nel sistema dalla contro-riforma degli anni novanta. La capitale pronuncia del 1974, pur nella diversità della questione giuridica esaminata, già racchiudeva le coordinate concettuali in cui dovrebbe inscriversi quella odierna. Il valore tutelato, il diritto fondamentale in gioco, corrisponde infatti a quello attualmente al vaglio della Corte. Si tratta, ora come allora, del diritto del condannato al giudice2: non il diritto alla liberazione, bensì il diritto ad essere valutati e giudicati per il percorso penitenziario compiuto, i progressi conseguiti, i cambiamenti avvenuti; per il tempo trascorso e il trattamento ricevuto, per le ragioni del silenzio serbato3. Ad essere invocata è la chance di presentarsi a un esame, non la garanzia di superarlo. La magistratura chiede che le venga restituita la possibilità di accertare le singolarità dei contesti e delle persone, secondo le modalità, le garanzie e i limiti propri della giurisdizione. Allora, nel 1974, si trattava di preferire queste modalità, garanzie e limiti rispetto alla discrezionalità ministeriale, che poteva sfociare in arbitrio. Oggi, nel 2020, si tratta di prediligerli e valorizzarli rispetto alla rigidità della legge, quella fissità asfittica e senza eccezioni che connota le presunzioni assolute. Allora la questione coinvolgeva anche l’art. 13 comma 2 Cost. giacché della libertà, per la Carta fondamentale, deve decidere un giudice e non un ministro4. *Associato di Diritto processuale penale, Università di Ferrara. Si allude alla sent. n. 204/1974, che aveva ad oggetto il potere attribuito dall’art. 43 del r.d. 28 maggio 1931, n. 602 (le disposizioni di attuazione dell’allora vigente codice di procedura penale) al Ministro della Giustizia di concedere la liberazione condizionale. 2 La Corte osservava che «il precetto costituzionale» di cui all’art. 27 comma 3 Cost. fa sorgere «il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo; tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale» (sent. n. 204/1974, §2). 3 Silenzio che rappresenta esso stesso un diritto fondamentale, dal cui esercizio non dovrebbero mai discendere conseguenze negative. La sentenza costituzionale n. 253/2019 ha già sottolineato come il meccanismo di cui all’art. 4-bis ord. penit. «oper[i] una deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., che certo l’ordinamento penitenziario non può disconoscere ad alcun detenuto» (§8.1). 4 Il remittente si era appoggiato agli artt. 24 e 111 Cost., ma la Corte in motivazione riportava i parametri evocati «nel quadro dei precetti contenuti nell’art. 13» (§2). 1 76 Stefania Carnevale Oggi non è più necessario richiamare quel parametro, poiché appare scontato: dal fecondo seme della pronuncia capostipite è germinato l’intero attuale sistema penitenziario, ampiamente giurisdizionalizzato. È ormai l’art. 27 Cost., con i suoi molteplici corollari sviluppati dalla giurisprudenza costituzionale, ad implicare il ruolo centrale e ineludibile della giurisdizione, che porta con sé quella configurazione dei rapporti fra legge e giudice, quella dialettica fra legge e giudice, scaturente dall’art. 13 comma 2 Cost. In forza di questa struttura portante, quando prende provvedimenti sulla libertà il giudice non può distaccarsi dai «casi e modi» previsti dalla legge, non può muoversi oltre la legge, né sostituirsi alla legge. Ma la legge non può a sua volta sostituirsi al giudice e decidere in sua vece prevedendo, come nel caso oggetto di scrutinio costituzionale, che il silenzio del condannato sia segno inconfutabile di persistente affiliazione a un sodalizio criminoso e negando in radice vagli concreti sulla scelta, spesso dovuta a fattori esogeni, di non rendere dichiarazioni etero-accusatorie. È in fondo un giudizio, quello che si arroga il legislatore con la presunzione assoluta innestata nel meccanismo di cui all’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. A fronte di un sintomo, il riserbo tenuto dal condannato che avrebbe la possibilità di parlare, si estrapola un elemento di prova da cui è tratta una sentenza valida ergaomnes, una conclusione applicabile a chiunque, in ogni tempo e in ogni situazione: il legame con il mondo criminale – sempre, in tutti i casi – non è cessato. Per restare aderente alle coordinate costituzionali la legge può certo porre condizioni severe in cui incardinare il vaglio giudiziale, così da valorizzare al massimo la scelta collaborativa. Nondimeno, la decisione sulla libertà non può che essere affrontata caso per caso, guardando alle specificità individuali. Ciò che s’incrina nel sistema delle presunzioni assolute, e di qualunque automatismo che coinvolga lo status libertatis, è infatti il rapporto fra legge e giudice: due cardini, due poli, entrambi necessari per privare della libertà e per restituirne gradualmente porzioni. La legge di ordinamento penitenziario ha conosciuto nel tempo molteplici automatismi tesi ad inibire l’intervento della magistratura. La tentazione d’impedire in radice vagli giurisdizionali, la propensione a forgiare tipi ideali di criminale, l’inclinazione a uniformare trattamenti che i canoni portanti della disciplina vorrebbero invece individualizzati è sempre latente, ancorché ripetutamente censurata dalla Corte costituzionale negli ultimi quarant’anni5. Una volta appurato che una presunzione assoluta si annidi nel congegno ostativo risultante dagli artt. 4-bis e 58-ter ord. penit., come ha inequivocabilmente sancito la sentenza costituzionale n. 253/20196, il riscontrato guasto nei rapporti fra legge e giudice non può pertanto sopravvivere alle censure. 5 La linea di fondo dei rapporti alterati fra legge e giudice accomuna situazioni molto diverse in cui la Corte si è trovata a pronunciarsi. Si va dalle decisioni che hanno censurato l’impossibilità per la magistratura di rideterminare la pena residua tendo conto delle privazioni patite in caso di revoca delle misure alternative (v. ad es. sentt. nn. 343/1987, 282/1989), a quelle aventi ad oggetto automatismi in peius a fronte di comportamenti scorretti nel corso dell’esecuzione (v. ad es. sentt. nn. 161/1997, 173/1997, 186/1995), a quelle che hanno investito vere e proprie preclusioni (v. ad es. sentt. nn. 49/1995, 436/199, 189/2010, 149/2018, 253/2019). L’esigenza sempre ribadita, pur nella differenza dei contesti, è quella di vagli «caso per caso». 6 «La generalizzazione che fonda la presunzione assoluta consiste in ciò: se il condannato per Il rapporto incrinato tra legge e giudice nelle presunzioni assolute in materia di libertà 77 Si tratta invero di questioni generalissime e come tali le ha affrontate la pronuncia del 2019, prendendo di petto proprio il legame incrinato fra legislazione e giurisdizione così come si manifesta nella patologia costituzionale delle presunzioni assolute sui comportamenti umani. Ipotizzare relazioni di causa-effetto, insuscettibili di prova contraria, fra un contegno (la scelta di non collaborare) e una propensione (il persistente richiamo verso il mondo criminale) è operazione irragionevole per definizione, ossia contraria alla ragione. E contraria, a ben vedere, anche all’umanità della pena, proprio perché umano è ciò che è singolare, ciò che è unico, ciò che muta nel corso di un’esistenza: è questa la natura dell’uomo, contrassegnata dalla irriducibile diversità di ciascuno e dalla continua apertura al cambiamento7. La questione di legittimità non investe la materia tributaria o anagrafica, dove possono forse sopravvivere presunzioni iuris et de iure, bensì il delicatissimo campo della libertà, della valutazione della personalità e delle scelte di vita, degli esiti sortiti da protratte e severe restrizioni. Per queste ragioni gli argomenti della sentenza n. 253/2019 non possono non estendersi alla questione oggi in esame8. Se l’eccezione fosse respinta, la Corte smentirebbe se stessa, e dopo così breve tempo, in modo clamoroso, ricusando gli stessi postulati che ha posto con tanta, sofferta cura. Occorrerebbero, per schivarli o superarli, capriole argomentative che è oltremodo difficile prefigurare, poiché le censure sollevate sgorgano come un corollario giuridico dal precedente pronunciamento dei giudici costituzionali. La questione in gioco non è infatti quale misura, frammento o segmento di libertà il giudice possa concedere, ma se sia insopprimibile il diritto a una valutazione giudiziale sui percorsi penitenziari. Se davvero, cimentandosi in un esercizio ipotetico, la Corte respingesse la questione sollevata, si creerebbero nel sistema tali e tante incongruenze che sarebbe veramente difficile riportarlo ad un’armonia sistematica. Entrerebbe in crisi quel «tendere alla rieducazione» che imprime, per obbligo costituzionale, al percorso penitenziario una direzione e un avanzamento verso il possibile riacquisto della libertà, a fronte di comportamenti positivi e responsabili del condannato. La tensione in avanti, rivolta al recupero sociale, risulterebbe interrotta, incoerentemente spezzata. La Corte stessa ha insistito numerosissime volte sulla centralità della progressione nel trattamento, asse portante dell’esecuzione penale9. Tutto il sistema il delitto di associazione mafiosa e/o per delitti di “contesto mafioso” non collabora con la giustizia, la mancata collaborazione è indice (non superabile se non dalla collaborazione stessa) della circostanza per cui egli non ha spezzato i legami che lo tengono avvinto all’organizzazione criminale di riferimento» (§8.3). 7 Così, in modo potente e cristallino, Corte cost., sent. n.149/2018, che pone in luce «l’assunto – sotteso allo stesso art. 27, terzo comma, Cost. – secondo cui la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento» (§7). 8 Si allude ai tre pilastri giustificativi che hanno sorretto la declaratoria di illegittimità: l’assolutezza presuntiva distorce le caratteristiche proprie della fase esecutiva asservendola a quella investigativa; impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena; genera irragionevoli generalizzazioni che possono invece essere contraddette da prove contrarie. 9 V. ad es. Corte cost., sentt. nn. 227/1995, 504/1995, 445/1997, 255/2006, 257/2006, 149/2018, 229/2019. 78 Stefania Carnevale è infatti edificato su un cammino, graduale ma incessante, verso l’obiettivo costituzionale del reintegro in società. Come sarebbe allora possibile immaginare che al giudice fosse consentito di valutare la positiva condotta ai fini di un permesso premio e al contempo impedito di compiere i vagli successivi, che fisiologicamente ne scaturiscono? Se il primo permesso, casomai di appena qualche ora, è positivamente fruito ne seguirà un secondo, forse più protratto nel tempo, e da quel secondo un terzo. E se grazie a quei permessi si ponessero basi solide per una risocializzazione, come si potrebbe impedirne il naturale compimento? Sarebbe una crudeltà, suscettibile di sortire effetti deleteri proprio per i percorsi di recupero positivamente intrapresi, magari dopo notevolissimi sforzi; e sarebbe conclusione inconcepibile nell’ottica della tensione verso la reintegrazione sociale impressa dall’art. 27 Cost. È vero che la decisione sulla liberazione condizionale è in apparenza molto più delicata rispetto a quella sui permessi. Ma proprio per questo – tornando ancora alla dialettica fra i due poli delineati dall’art. 13, comma 2, Cost. – la legge, che disciplina i presupposti delle misure, stabilisce le procedure per concederle, ripartisce le competenze fra organi deputati a decidere, delinea una cornice molto più severa e rigorosa per l’intervento della magistratura nella materia ora oggetto di scrutinio. Il giudice è collegiale, le condizioni richieste dall’art. 176 c.p. sono assai più rigide e difficili da integrare10, il rito ove s’innesta il vaglio è più ricco e garantito, perché lascia spazio al contraddittorio e ad approfondimenti criminologici in udienza (art. 678 c.p.p.). I presupposti del permesso, istituto sui cui la Corte si è già pronunciata, sono più evanescenti e morbidi (art. 30-ter ord. penit.), la competenza è monocratica, la procedura è più snella (art. 30-bis ord. penit.). Vi sono insomma indubitabili, e condivisibili, differenze giuridiche fra i due strumenti risocializzativi, discendenti dal diverso grado di libertà che l’accoglimento dell’istanza è in grado di schiudere. Ma soprattutto non si può non rilevare come la decisione sulla liberazione condizionale potrebbe proficuamente avvalersi proprio degli elementi di conoscenza che scaturiscono dai permessi già fruiti11. Si tratta di ingredienti conoscitivi impareggiabili per valutare l’effettivo distacco dalle organizzazioni criminali e la solidità dei nuovi precorsi di vita intrapresi dal condannato. Nessuna base probatoria è più eloquente dell’esito degli esperimenti di libertà già condotti, per periodi di tempo congrui e proporzionati alla gravità dei fatti in passato compiuti dal richiedente. La rete delle relazioni allacciate all’esterno, le attività intraprese, i progetti coltivati, la loro realistica realizzabilità, l’andamento dei rapporti familiari, le prospettive d’impiego sono tutti fattori di conoscenza ineguagliabili per il giudice Il «sicuro ravvedimento» è il presupposto più esigente richiesto dall’intera costellazione delle misure risocializzative. 11 Lo evidenzia la stessa Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 229/2019, avente ad oggetto il meccanismo preclusivo di cui all’art. 58-quater, comma 4, ord. penit. Si osserva in motivazione che «la disposizione opera in senso distonico rispetto all’obiettivo, costituzionalmente imposto, di consentire alla magistratura di sorveglianza di verificare gradualmente e prudentemente, anzitutto attraverso la concessione di permessi premio e l’autorizzazione al lavoro all’esterno, l’effettivo percorso rieducativo compiuto dal soggetto, prima di ammetterlo in una fase successiva dell’esecuzione – sulla base anche dell’esito positivo di quelle prime sperimentazioni – alla semilibertà e poi alla liberazione condizionale» (§4.1). 10 Il rapporto incrinato tra legge e giudice nelle presunzioni assolute in materia di libertà 79 incaricato di rendere le difficili valutazioni a cui la Corte potrebbe chiamarlo. I permessi offrono dati freschi, sull’oggi e sul domani, non riferiti a un lontano passato, come troppo spesso accade con le informative provenienti dalle procure e dagli organi di polizia. Nulla sarà più rilevante dell’andamento di quegli assaggi di libertà già fruibili grazie alla sentenza n. 253/2019, proprio sotto il profilo che più preoccupa – da diverse angolazioni – magistratura, classe forense, dottrina ed opinione pubblica, ossia la concreta possibilità di effettuare prognosi sul rischio di riannodare rapporti con le organizzazioni criminali. La base conoscitiva per questo complesso vaglio sarà ben più salda e raggiungibile per la liberazione condizionale12, perché potrà avvalersi delle informazioni provenienti dai periodi di permesso premio. Per gli argomenti già tracciati, per il contesto normativo più sorvegliato, per il sostrato probatorio più consistente su cui lo scrutinio di persistente pericolosità può poggiare, la decisione che è chiamata a rendere oggi la Corte è, in fondo, molto più facile di quella precedente. 12 E per la semilibertà, se la Corte riterrà di estendere anche a questa misura, pure fruibile astrattamente dall’ergastolano, una eventuale decisione di accoglimento della questione. LA QUAESTIO SOLLEVATA: UN’OCCASIONE DI RIFLESSIONE SUL FONDAMENTO COSTITUZIONALE DELLA PENA di SILVIA CECCHI SOMMARIO: 1. I presupposti di accesso alla libertà condizionale: dignità e diritti della persona, ma non solo – 2. La verifica di pericolosità del condannato: valutazione rigorosa, individualizzata, passibile di ‘prove di resistenza’, non identificabile con un’accezione generica di emenda e di ravvedimento – 3. Opportunità di demandare il giudizio di ‘cessata pericolosità’ a un organo collegiale multidisciplinare. – 4. Il significato costituzionale della funzione risocializzatrice della pena nella prospettiva del diritto penale dei beni e dell’offesa: funzione sistematica della nozione di rieducazione – 5. Un’occasione data alla Consulta per esplicitare fondamento e legittimazione della sanzione penale come tale. 1. Con riguardo alla questione di cui la Corte costituzionale è stata investita dall’ordinanza della Corte di Cassazione (ordinanza 2-18 giugno 2020: legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 59-ter l. n. 354 del 1975 e dell’art. 2 d.l. n. 152 del 1999, in riferimento agli artt. 3, 27 e 117 Cost.) condivido i pronostici favorevoli a una pronuncia di incostituzionalità delle norme richiamate, nella parte in cui prevedono una presunzione assoluta di pericolosità del condannato, vincolata ad una prova legale: tale infatti appare ormai una scelta pressoché obbligata per la Consulta, pena l’entrata in contraddizione con sé stessa e specificamente con i principi enunciati nella recente sentenza n. 253/2019, così come altri relatori intervenuti in questo seminario preventivo condividono, sulla scorta di quanto ritenuto dalla stessa Corte rimettente e come rimarcato puntualmente nella traccia proposta in apertura dei lavori. Ritengo anche che sarà conservato il richiamo all’art. 27, comma 3, Cost. già eletto a principio guida nella sentenza n. 253/2019, pur unitamente all’art. 3 Cost., in virtù di quella maggiore apertura che tale norma consente ai fini della decisione della presente quaestio, come già rilevato e illustrato da Glauco Giostra in sede di relazione introduttiva, rispetto ai principi di umanità della pena e dei diritti inviolabili della persona consacrati nella Costituzione (artt. 2 e 3) e dall’art. 3 della CEDU (nella declinazione specifica di diritto alla dignità, “diritto a divenire”, diritto alla speranza, di cui alla sentenza della Corte EDU nel caso Viola c. Italia n°2). 2. Sono convinta per converso, e mi sento di condividerne i sottesi principî direttivi, che sarà mantenuto, e vorrei dire a maggior ragione, il «regime probatorio rafforzato» circa i presupposti della valutazione di ravvedimento già delineato nei  Sostituto Procuratore della Repubblica, Tribunale Pesaro La quaestio sollevata: un’occasione di riflessione 81 due icastici parametri di cui alla sentenza n. 253/2019, in relazione alla (piuttosto che “malgrado” la) diversità fra gli istituti del permesso premio e della liberazione condizionale, diversità già delineata compiutamente nella traccia di discussione. Nella prospettiva da me accolta circa la legittimazione e funzione costituzionali della sanzione penale (intesa quale istituto e strumento di tutela di beni, come argomentato in altri miei scritti sul tema), trovo scarsamente accettabili espressioni come quelle usate nella sentenza della Corte costituzionale n. 282/1989 (a proposito della illegittimità costituzionale dell’art. 177 ord. penit., nella parte in cui non prevedeva che il tempo trascorso in libertà condizionale andasse computato nella determinazione della pena espiata), laddove la Consulta afferma che occorre - così si esprime - «stabilire quanta afflittività sia stata sopportata dal condannato nel tempo in cui era sottoposto alla libertà vigilata, onde occorre sottrarre quella entità afflittiva». Non trovo per converso altrettanto inaccettabile il principio per cui occorre verificare, ai fini della concessione - in questo caso - della libertà condizionale al condannato al c.d. ‘ergastolo ostativo’, che non sussista «pericolo di ripristino di collegamenti» (sent. n. 253/2019). Ritengo, al contrario che tale sia una verifica doverosa e coerente all’interno dello statuto costituzionale della sanzione penale. Non temo, per conseguenza e in questa ottica, che ragioni motivate di politica criminale (quando non politicamente strumentalizzate) facciano indebita irruzione nel delicato e arduo processo di valutazione dei presupposti della pericolosità del condannato, a cui la magistratura di sorveglianza è chiamata, entro l’alveo dei principî segnati dalla Corte costituzionale con la sentenza del 2019. Credo piuttosto che la valutazione della pericolosità concreta, attuale (sia pure su piano pronostico) e specifica del condannato, rispetto alla protezione dei beni protetti dalle norme per le quali è stato condannato, sia il “cuore giuridico della questione”, così come in esso consta la ragion d’essere della sanzione penale carceraria e il fondamento giuridico-costituzionale della stessa. Né, personalmente, credo che la relativa prova sia una prova “diabolica”. Ho incontrato recentemente un ergastolano che godeva di un permesso premio trascorso presso l’abitazione del cappellano del carcere in cui era recluso, il quale pur ritenendosi “ravveduto” personalmente (la c.d. emenda), ed anche “rieducato”, riteneva di poter conservare tale conquistato atteggiamento solo in luoghi lontani da quelli in cui era maturata, a suo tempo, ed era stata agita la propria affiliazione alla criminalità organizzata. Tale fragilità e tale rischio di ricaduta, quanto meno a determinate condizioni ambientali, erano evidentemente da attribuirsi a una non consolidata e non irreversibile presa di distanza dal patto di affiliazione originario. Tornando all’oggetto specifico del dibattito attuale, credo che il legislatore, e non la Corte costituzionale - ma entro una cornice teorica ben individuata dalla Consulta - possa introdurre degli obblighi positivi all’interno dell’istituto della liberazione condizionale (prescrizioni specifiche, previsione di una sorta di “prova di resistenza”, altro) e che nella stessa logica debba muoversi la valutazione assai delicata, personalizzata ed estremamente determinata dalle peculiarità del caso concreto, che il Tribunale di Sorveglianza è chiamato a compiere. 82 Silvia Cecchi 3. Per le medesime ragioni non ritengo percorribile la pur suggerita strada di porre presupposti predeterminati, nel nome di un principio di tassatività a mio vedere fuor di luogo in questa materia. Credo che il vero nodo del problema sia l’individuazione e la creazione di organi ad hoc (o per l’occasione integrati), a composizione collegiale e di natura multidisciplinare, chiamati a compiere una così delicata e complessa valutazione. A questo proposto condivido talune perplessità svolte in sede di dibattito seminariale circa gli organi individuati dalla Commissione antimafia e di cui la traccia introduttiva ai lavori esaurientemente ci ha ragguagliato. 4. Ciò che mi sento di auspicare è allora che la Corte costituzionale, nella motivazione della sentenza che si accinge ad emettere, entri dentro il concetto di «ravvedimento»; entri dentro il collegamento tra funzione risocializzatrice della pena (che traduce la nozione di funzione rieducativa) e qualità/durata della sanzione carceraria; entri dentro il ruolo che la funzione risocializzatrice deve svolgere rispetto alla definizione stessa della sanzione penale (in primis quando essa sia carceraria) così come rispetto alla sua individuazione e determinazione qualitativa e quantitativa, e quindi anche rispetto ai presupposti della sua attenuazione in fase esecutiva (nel cui ambito rientra con evidenza l’istituto della liberazione condizionale e la questione oggetto del presente dibattito). Se è vero che la sanzione penale (nelle sue tipologie che si riducono, ancor oggi, in via pressoché esclusiva ad una differenziazione quantitativa a scalare della sola sanzione carceraria) si giustifica costituzionalmente solo come strumento di tutela dei beni primari (di rango costituzionale), in un rapporto di risposta necessaria e sufficiente alla tutela preventiva e successiva dei beni stessi. E se è vero che tale è il significato profondo dell’intera penalità intesa quale diritto penale dei beni e diritto penale del fatto e dell’offesa, allora la funzione risocializzatrice della pena, oltre che accogliere ed esprimere una concezione inderogabile di umanità e dignità della persona, deve assumere una valenza sistematica di primissimo rilievo. Si può prefigurare allora, in questa ottica, un circolo concettuale di questo tipo: selezione dei beni primari di rango costituzionale, la cui salvaguardia identifica la condizione minima di esistenza della vita associata; coincidenza tra tali beni-valori e pretesa statuale che ogni cittadino li rispetti, assumendo nei loro riguardi un dovere di tutela, garanzia e quindi di responsabilità; coincidenza tra tale dotazione di responsabilità relazionale essenziale che incombe su ogni cittadino e il contenuto e la finalità della nozione di risocializzazione. Entro questo circolo ideale, la funzione risocializzatrice della pena diviene anche, come naturale e logica conseguenza, il criterio guida nella selezione dei beni primari passibili di presidio penale (come già prefigurò Giorgio Marinucci in un intervento del 1983, ma sempre attuale). La funzione sistematica della teoria del bene giuridico si riverbera così pienamente anche sul piano della ricostruzione contenutistica e funzionale della finalità rieducativa-risocializzatrice della sanzione penale. La quaestio sollevata: un’occasione di riflessione 83 5. Sarebbe quanto mai auspicabile, in conclusione di questo mio limitato contributo, che la Corte costituzionale cogliesse l’occasione della disamina della questione presentemente rimessa alla sua cognizione, per entrare apertis verbis nel merito del fondamento della sanzione penale e del diritto penale come tale, alla luce dei principi consacrati nella Carta costituzionale, che ne costituiscono indubbiamente il “genio motore”, nella misura in cui essi esprimono tanto i valori essenziali che presiedono alla costituzione della società civile, quanto i doveri inderogabili cui ciascun cittadino è tenuto verso l’altro, gli altri e la comunità: in ciò consistendo l’essenza prettamente relazionale della responsabilità penale. La ricognizione di questi principî sarà senza dubbio decisiva nel risolvere la questione che odiernamente ci occupa e di cui la Corte costituzionale è stata investita. Varrà la pena, io credo, esplicitarli, con l’autorità istituzionale e giuridicoesegetica che alla Corte costituzionale compete. SPUNTI PER UNA LETTURA DIALOGICA DELL’ERGASTOLO OSTATIVO IN ITALIA di SOFIA CIUFFOLETTI SOMMARIO: 1. Introduzione. - 2 L’elaborazione del primato del reinserimento sociale nella giurisprudenza della Corte EDU e la connessione con la dignità umana. – 3. Strasburgo-Roma: l’affermazione di un paradigma penologico comune. – 4. RomaStrasburgo: giurisprudenza costituzionale e obblighi internazionali italiani. La posta in gioco dell’esecuzione della sentenza Viola c. Italia. – 5. Conclusioni. 1. Il tema dell’ergastolo ostativo nel sistema dell’esecuzione penale italiana è ormai al centro di un intenso dialogo giudiziale1 tra Roma e Strasburgo. Proprio questo dialogo, inaugurato dalla Corte EDU, prima nella sentenza Vinter c. Regno Unito2 e poi, in confronto diretto, nella sentenza Viola c. Italia3, proseguito con la sentenza n. 253/20194 della Corte costituzionale italiana e con la recente ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione5 in tema di ergastolo ostativo e liberazione condizionale (dialogo che è destinato a proseguire con la prossima pronuncia della Corte costituzionale proprio su questo tema), ci permette di affrontare l’argomento della potenziale fibrillazione rispetto al dettato costituzionale e convenzionale del sistema nostrano di ostatività, a partire da un’ottica meno condizionata da ipoteche culturali. Sembra strano, infatti, ma è al contempo rinfrancante, ricordare, come ha fatto durante il suo intervento orale a questo seminario l’ex giudice della Corte EDU, Paulo Pinto de Albuquerque, che l’Italia non è l’unico paese europeo a dover fare i conti con un ordinamento giuridico eversivo parallelo come quello mafioso. Un utile memento contro l’idea dell’“eccezionalismo italiano”6 in tema di criminalità organizzata.  Ricercatrice ADIR-Centro di ricerca Interuniversitario su carcere, devianza, marginalità e governo delle migrazioni, Università degli Studi di Firenze. 1 Il concetto di dialogo fra corti ha suscitato, ormai da tempo, un dibattito che oscilla tra l’affermazione del valore palingenetico della pratica e il rifiuto critico o negazionista della stessa. Usiamo, qui, il concetto, aderendo a una visione giusrealista che si fonda principalmente sull’approccio espresso da A.M. SLAUGHTER, A Typology of Transjudicial Communication, 29, University of Richmond Law Review, 1994. 2 Vinter and others v. U.K., [GC], nos. 66069/09, 130/10 and 3896/10. 3 Viola c. Italia, n. 77633/16, 13 giugno 2019. 4 Relativa all’accesso al permesso premio, per il condannato – non collaborante con la giustizia – per reati di associazione mafiosa e/o di contesto mafioso (e, in via consequenziale, per altri reati contemplati nell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit.). 5 Ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione 3-18 giugno 2020 che solleva, con riferimento agli articoli 3, 27 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 4-bis, comma 2, e 58-ter della legge n. 354 del 1975, e dell’art. 2 del decreto-legge n. 152 del 1991, convertito, con modificazioni, nella legge n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all'ergastolo, per delitti ommessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale. 6 Riecheggiando M. IGNATIEFF, American Exceptionalism and Human Rights, Princeton Spunti per una lettura dialogica dell’ergastolo ostativo in Italia 85 Seguendo questo monito, nelle pagine successive, saranno tracciate le linee argomentative di alcune delle questioni che sono al centro di questo dialogo, in primo luogo in relazione alla finalità eminentemente riabilitativa della pena. La giurisprudenza di Strasburgo, infatti, ha costruito nel tempo una prospettiva ermeneutica progressivamente tendente ad affermare il primato penologico del reinserimento sociale, ma è proprio all’interno del leading case in materia di ergastolo senza prospettiva di liberazione Vinter c. Regno Unito che la Corte EDU proclama l’adesione alla prospettiva ermeneutica elaborata nel tempo dalla Corte costituzionale italiana, in materia di prevalenza del principio riabilitativo. Questa stessa elaborazione viene ripresa e ulteriormente valorizzata proprio nella sentenza Viola per legare indissolubilmente l’ottica comune dei Paesi membri del Consiglio d’Europa in tema di pena e reinserimento sociale alla tradizione argomentativa e all’ideologia normativa scaturente dalla ricca e dinamica giurisprudenza costituzionale italiana. Il prossimo passo, in questa costruzione comune che riposa sulla illustre e preziosa elaborazione della giurisprudenza costituzionale italiana, sarà costituito dalla decisione della Corte costituzionale sulla legittimità costituzionale e convenzionale dell’incomprimibilità dell’ergastolo ostativo. Per fare ciò sarà necessario ripensare e decostruire il concetto di diritto europeo consolidato, nella consapevolezza della comune opera di protezione dei diritti all’interno della sfera d’azione del costituzionalismo multilivello7. 2. A partire dalla sentenza Dickson c. Regno Unito8, la Corte EDU ha fatto espresso riferimento al termine inglese rehabilitation (o al francese réinsertion)9 University Press, Princeton, 2009. 7 Il concetto viene introdotto per la prima volta da I. PERNICE, Constitutional Law Implications for a State Participating in a Process of Regional Integration. German Constitution and Multilevel Constitutionalism, in E. RIEDEL (a cura di), German Reports on Public Law Presented to the XV International Congress on Comparative Law, Nomos, Baden-Baden, 1998, 40-66 e viene trasposto sul piano europeo da N. WALKER, Multilevel Constitutionalism: Looking Beyond the German Debate, in K. TUORI-S.SANKARI (a cura di), The Many Constitutions of Europe, Ashgate, Farnham, 2010. Più recentemente e in ambito dottrinale italiano, M. CARTABIA, La tutela multilivello, in Fundamental Rights and the Relationship among the Court of Justice, the National Supreme Courts and the Strasbourg Court, 50ème anniversaire de l’arrêt Van Gend en Loos: 1963-2013: actes du colloque, Luxembourg, 13 mai 2013, Luxembourg, 2013, 155-168. 8 Dickson v. UK, [GC], no. 44362/04. 9 La terminologia non è neutra. Il concetto di rehabilitation è stato fonte di controversie in letteratura, durante gli anni Ottanta del secolo scorso (vedi, F. ALLEN, The decline of the rehabilitative ideal, New Haven, Yale University Press, 1981, e, in generale, D. GARLAND, The Culture of Control, Oxford University Press, Oxford, 2001) ed è stato sostituito da termini (e concetti) come social reintegration (reintegrazione sociale) o resocialization (risocializzazione), specialmente nella penologia europeo-continentale. Alcuni autori hanno inteso questa diversa terminologia come parte integrante di una diversa ideologia normativa: il concetto anglo-americano di rehabilitation (riabilitazione) in contrapposizione al concetto continentale (principalmente tedesco, ma anche italiano) di risocializzazione o reintegrazione sociale (si veda, in proposito, L. LAZARUS, Contrasting Prisoners' Rights: A Comparative Examination of England and Germany, Oxford Monographs on Criminal Law and Justice, Oxford, 2004, che spiega questo diverso approccio e valuta perché, quando il «modello riabilitativo» stava andando incontro a una crisi di legittimità politica, i penologi tedeschi, così come i legislatori, i politici e i riformatori, 86 Sofia Ciuffoletti per individuare una preminenza fra le funzioni, convenzionalmente legittime, assegnate alla pena detentiva. Se, infatti, tradizionalmente i criminologi hanno considerato legittime funzioni come la retribuzione, la prevenzione generale (deterrenza), la protezione della popolazione (incapacitazione) e la riabilitazione, più recentemente, «si è registrata una tendenza a dare maggiore enfasi alla riabilitazione, come dimostrato in particolare dagli strumenti giuridici del Consiglio d'Europa»10. Questa elaborazione ermeneutica si è basata su una comprensione differenziale dello stesso concetto di riabilitazione. La Corte EDU sta, infatti, espressamente fabbricando un concetto autonomo che non si basa più sulla versione angloamericana (negativa) della mera riabilitazione «come mezzo per prevenire la recidiva»11, ma piuttosto su di una «idea positiva di ri-socializzazione attraverso la promozione della responsabilità personale»12. La Corte EDU ha riconosciuto in più occasioni «il legittimo obiettivo di una politica di progressivo reinserimento sociale delle persone condannate alla reclusione»13. Nella causa Mastromatteo c. Italia la Corte ha affermato che «una delle funzioni essenziali di una pena detentiva è quella di proteggere la società, ad esempio impedendo a una persona condannata di recidivare e quindi di causare ulteriore danno sociale»14, ma allo stesso tempo ha riconosciuto «il legittimo obiettivo di una politica di progressivo reinserimento sociale delle persone condannate alla reclusione»15. Sulla relazione tra istanze di sicurezza sociale di tutti e di reinserimento sociale del singolo (e sulla preminenza del principio rieducativo nella teoria della polifunzionalità della pena), la Corte EDU offre una lettura rilevantissima che scende nella concretezza sociologica del fenomeno criminale. Secondo la Corte EDU, infatti, la stessa finalità di difesa sociale è, ricompresa nell’orizzonte rieducativo. La funzione di risocializzazione, insomma, ha lo scopo ultimo di prevenire la recidiva e proteggere la società (Murray, cit., §102). Questo è ancor più vero quando, come in Italia, la pena è eminentemente pena detentiva. L’orizzonte della rieducazione vale a conferire una direzione e un senso al percorso detentivo di una persona condannata e a giustificare la complessità (e l’onerosità) dell’apparato amministrativo e trattamentale impiegato dallo Stato. condividevano l’impegno per la ‘risocializzazione’ come obiettivo sostanziale della detenzione). Più recentemente sono stati usati termini come reintegration per rafforzare l’idea di una posizione giuridica piena del detenuto (vedi, D.VAN ZYL SMIT., S., SNACKEN, Principles of European prison law and policy, Oxford University Press, Oxford, 2009). Infine, il concetto di (re)integration è utilizzato dall’articolo 6 della versione del 2006 (confermata dalla recente revisione del 2020) delle European Prison Rules (Regole Penitenziaria Europee): «All detention shall be managed so as to facilitate the reintegration into free society of persons who have been deprived of their liberty». 10 Dickson, op. cit., §28. 11 Ibidem. 12 Ibidem. 13 Boulois v. Luxembourg [GC], no. 37575/04, §83, con riferimenti a Mastromatteo v. Italy [GC], no. 37703/97, §72, 2002‑VIII; Maiorano and Others v. Italy, no. 28634/06, §108, 15 December 2009; and Schemkamper v. France, no. 75833/01, §31, 18 October 2005. 14 Mastromatteo v. Italy, cit., §72. 15 Ibidem. Spunti per una lettura dialogica dell’ergastolo ostativo in Italia 87 È proprio attraverso la più recente giurisprudenza in materia di pena perpetua che la Corte EDU ha arricchito il concetto di riabilitazione sociale o di risocializzazione, collegandolo indissolubilmente alla dignità umana. Attingendo alla dichiarazione della Corte costituzionale federale tedesca secondo cui «l’autorità penitenziaria ha il dovere di adoperarsi per la riabilitazione di un detenuto condannato all’ergastolo; la riabilitazione è una richiesta costituzionale in ogni comunità che ha posto la dignità umana come suo fulcro»16, la Corte EDU ha stabilito lo stesso legame con la dignità umana, affermando, nella causa Vinter c. Regno Unito, che considerazioni simili sul legame tra dignità umana e riabilitazione: «(...) devono applicarsi nell'ambito del sistema della Convenzione, la cui essenza, come la Corte ha spesso affermato, è il rispetto della dignità umana (cfr., tra l'altro, Pretty c. Regno Unito, n. 2346/02, §65, CEDU 2002-III; e V.C. c. Slovacchia, n. 18968/07, §105, CEDU 2011)»17. La Corte EDU ha affermato, inoltre, che il principio della «dignità̀ umana» impedisce di privare una persona della libertà, senza lavorare allo stesso tempo al suo reinserimento e senza fornire alla stessa la possibilità di riconquistare un giorno questa libertà. Ha, poi, precisato che «un detenuto condannato all’ergastolo incomprimibile ha il diritto di sapere (...) che cosa deve fare perché la sua liberazione sia possibile e quali sono le condizioni applicabili»18. Successivamente, nella causa Murray c. Paesi Bassi19, la Corte EDU ha affermato che la privazione della libertà può essere compatibile con la dignità umana solo se tende verso la riabilitazione. Questa prospettiva ha contribuito all’elaborazione della giurisprudenza europea che definisce la riabilitazione come un obbligo positivo per gli Stati membri. La Corte ha sottolineato che nessun diritto alla riabilitazione in quanto tale può essere imposto alle autorità come dovere assoluto, ma esiste l’obbligo di offrire alle persone detenute una reale possibilità di riabilitazione. Tale obbligo è quindi un obbligo di mezzi, non di risultato20 e tuttavia si tratta di un obbligo positivo che implica uno sforzo dello Stato per consentire alle persone detenute di progredire verso la propria riabilitazione21. La portata dell’obbligo positivo di offrire una possibilità concreta di riabilitazione si è ampliato ulteriormente quando la Corte ha affermato che il paradigma penologico della riabilitazione e della reintegrazione «è diventato un fattore obbligatorio di cui gli Stati membri devono tenere conto nella definizione delle loro politiche penali»22. Il paradigma della riabilitazione che scaturisce dalla elaborazione giurisprudenziale di Strasburgo disegna un’architettura che si basa sull’articolo 3 CEDU, e in particolare sul concetto di dignità umana. Dalla dignità umana deriva il concetto di riabilitazione come idea di risocializzazione attraverso la promozione 16 Lebenslange Freiheitsstrafe, 21 June 1977, 45 BVerfGE 187. Per la traduzione inglese degli estratti della sentenza, si veda, D.P. KOMMERS, The Constitutional Jurisprudence of the Federal Republic of Germany (2nd ed.), Duke University Press, Durham and London, 1997 at 306-313. 17 Vinter, cit., §113. 18 Vinter, cit., §122. 19 Murray, cit., §101. 20 Harakchiev and Tolumov v. Bulgaria, nos. 15018/11 and 61199/12, §264. 21 Murray, cit, §104. 22 Khoroshenko v. Russia, [GC], no. 41418/04), §121. 88 Sofia Ciuffoletti della responsabilità personale, così come l’obbligo degli Stati di dare ai detenuti una reale possibilità di riabilitazione. Tale obbligazione è di natura positiva e tripartita, poiché riguarda il dovere degli Stati non solo di considerare le prospettive di riabilitazione e di reinserimento sociale come fattori obbligatori nella progettazione delle politiche penali, ma anche di riconoscere l’obiettivo riabilitativo come scopo primario della detenzione. Infine, l’ultima dimensione dell’obbligo positivo del paradigma riabilitativo sembra essere la necessità di un piano trattamentale individualizzato, in base al quale valutare la pericolosità sociale e le dimensioni ivi connesse (tra cui il sicuro ravvedimento richiesto dall’art. 176 c.p. nell’ordinamento italiano), così come i bisogni della persona detenuta. In Vinter (§§119-122), poi, la Corte ha ritenuto che, nel contesto di una condanna all’ergastolo, l’articolo 3 debba essere interpretato nel senso di richiedere una riducibilità de iure e de facto della pena, ossia la possibilità di un riesame che consenta alle autorità nazionali di considerare se eventuali cambiamenti nel percorso della persona detenuta siano così significativi e i progressi verso la riabilitazione nel corso della pena siano tali da non giustificare più il mantenimento in detenzione per motivi di ordine penologico. Inoltre, in Vinter, la Corte EDU ha stabilito il seguente principio: «Un detenuto condannato all’ergastolo incomprimibile ha quindi il diritto di sapere, sin dall’inizio della pena, quello che deve fare perché sia possibile la sua liberazione e quali sono le condizioni applicabili» (§122). E questo non già in ossequio a un vago «diritto alla speranza»23, quanto in considerazione di una delle dimensioni più concrete della dignità umana, il diritto all’autodeterminazione. Il condannato, infatti, conserva la propria dignità, non attraverso la generica speranza nell’interruzione della pena perpetua, ma piuttosto quando può, attraverso le proprie azioni, incidere sulla propria vita futura. A questo diritto dell’ergastolano corrisponde specularmente (e lo rende effettivo) l’obbligo positivo dello Stato di organizzare il sistema penitenziario in modo da promuovere e garantire il reinserimento sociale dei detenuti. 3. Come ricordato, sempre in considerazione del primato del paradigma del reinserimento sociale, in Vinter c. Regno Unito la Corte EDU fa espresso riferimento alla giurisprudenza della Corte costituzionale italiana (diffusamente, analizzando l’evoluzione giurisprudenziale della Corte, §72 e poi ancora al §117 della pronuncia) e si basa («s’est appuyée» come ricorda lo stesso giudice europeo in Viola, §94, utilizzando un termine molto forte e inequivocabile in termini di argomentazione giuridica), inter alia (accanto all’elaborazione della Corte costituzionale federale tedesca), su questa stessa giurisprudenza per affermare che la prassi degli Stati contraenti riflette la volontà di agire in favore del reinserimento dei condannati all’ergastolo e nel contempo di offrire loro una prospettiva di liberazione. Insomma, nel leading case in materia di ergastolo senza prospettiva di liberazione, in una sentenza contro un altro Paese membro (e non un Paese membro 23 Formulato nella sentenza Kafkaris c. Chipre [GC], n. 21906/04, del 12 febbraio 2008. Il concetto ha avuto una certa fortuna, dovuta forse al fascino retorico, nella giurisprudenza di Strasburgo, ma non è stato reiterato, per esempio, nella sentenza Viola c. Italia. Spunti per una lettura dialogica dell’ergastolo ostativo in Italia 89 a caso, ma il Regno Unito), in una decisione di condanna del sistema anglosassone del life-long sentence without parole senza precedenti, la Corte “fonda” il proprio ragionamento sull’opera interpretativa della Corte costituzionale italiana, accanto a quella tedesca, riconoscendo così una tradizione ermeneutica dotata di forte autorità persuasiva, anche alla luce delle previsioni della CEDU. È appena il caso di notare come l’elaborazione ermeneutica della Corte costituzionale italiana si fondi su un testo costituzionale che aveva già integrato questa prospettiva interpretativa della pena come fortemente legata al concetto di dignità umana e, quindi, alla rieducazione e al reinserimento sociale. I lavori preparatori della nostra Carta costituzionale, infatti, mostrano come, nella discussione accesa sul terzo comma dell’art. 21 (poi divenuto l’art. 27 Cost.), si scontrassero una visione che voleva evitare la introduzione di una prospettiva privilegiata nel solco della teoria polifunzionale della pena (si ricordi l’emendamento Leone-Bettiol, su tutti) e una (che infine prevalse), che non voleva tanto proclamare la superiorità dell’indirizzo penologico della Scuola positiva, quanto, come ricorda Elvio Fassone, esprimere una nuova sensibilità politica: «Molti dei Costituenti hanno sperimentato le galere fasciste, hanno inverato la loro funzione di intellettuali in una lunga prassi politica, e in un contatto reale con il tipo di umanità che vive nelle prigioni (…) la “rieducazione del condannato” diventa il concetto che meglio concilia l’esigenza di conservare una risposta al reato con l’obiettivo di una crescente integrazione delle masse nello Stato (…) Una volta recuperata l’identità tra Stato e cittadini, una volta assegnata al popolo la sovranità e restituito ai cittadini il ruolo di protagonisti delle scelte politiche, il concetto di rieducazione perde ogni impronta paternalistica e può diventare veicolo non di “bonifica umana”, ma di promozione24». Nell’articolato crinale interpretativo seguito, nel tempo, dalla Corte costituzionale, l’argomentazione si è svolta, da un lato, valorizzando la concezione polifunzionale della pena, dall’altro sancendo un vero e proprio diritto alla rieducazione: per la prima volta con la sent. 204/1974, proprio in tema di liberazione anticipata, la Corte costituzionale afferma che: «L'istituto della liberazione condizionale rappresenta un particolare aspetto della fase esecutiva della pena restrittiva della libertà personale e si inserisce nel fine ultimo e risolutivo della pena stessa, quello, cioè, di tendere al recupero sociale del condannato (…) Sulla base del precetto costituzionale sorge, di conseguenza, il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo; tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale». È a questa tradizione culturale e a questo paradigma interpretativo della pena come eminentemente riabilitativa che si richiama la Corte EDU nella sentenza Viola (così come la Corte costituzionale nella decisione n. 253/2019). La Corte EDU, infatti, nel sancire la violazione dell’art. 3 della CEDU ha ulteriormente arricchito E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall’800 alla riforma penitenziaria, Il Mulino, Bologna 1980, 71-72. 24 90 Sofia Ciuffoletti il proficuo dialogo con la Corte costituzionale (un dialogo diretto, questa volta, essendo in gioco proprio il sistema di ergastolo ostativo italiano), attraverso l’ampio e approfondito riferimento alla giurisprudenza costituzionale italiana (con una rassegna ragionata, all’interno della sezione sul “Diritto e le prassi interne rilevanti”, Viola, cit., §§37-51), valorizzandone i dicta, sia per ciò che concerne l’equilibrio tra le diverse funzioni assegnate alla pena e la progressione ermeneutica verso un ruolo più centrale assegnato alla funzione di risocializzazione della pena, sia in relazione alla legittimità costituzionale dell’art. 4-bis ord. penit. (ponendo particolare rilievo alla sent. n. 306/1993, v. infra). Infine ha ripercorso le sentenze costituzionali in materia di presunzioni legislative assolute, in particolare in relazione all’accesso ai benefici penitenziari, facendo riferimento alla sentenza n. 149/2018, in cui la Corte costituzionale ha considerato che «previsioni che precludano in modo assoluto, per un arco temporale assai esteso, l’accesso ai benefici penitenziari a particolari categorie di condannati – i quali pure abbiano partecipato in modo significativo al percorso di rieducazione e rispetto ai quali non sussistano gli indici di perdurante pericolosità sociale individuati dallo stesso legislatore all’articolo 4-bis – in ragione soltanto della particolare gravità del reato commesso, ovvero dell’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalità dei consociati», sono contrari ai principi costituzionali di proporzionalità e individualizzazione della pena (si veda anche la sentenza n. 239/2014). 4. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 253/2019 richiama espressamente gli approdi argomentativi in Viola nel passaggio in cui la Corte EDU sottopone a critica una disposizione che assume iuris et de iure la permanenza di collegamenti con associazioni criminali del non collaborante ed eleva aprioristicamente la collaborazione al rango di sintomo eloquente di abbandono della scelta di vita originaria, quando in realtà essa potrebbe essere dovuta a molte altre ragioni, non sempre commendevoli. Ma non si addentra oltre nella prospettiva dialogica, affermando che la compatibilità costituzionale dell’ergastolo ostativo non è oggetto diretto di quella sentenza, dato che le ordinanze di rimessioni non avevano censurato la previsione contenuta nell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 13 maggio 1991, che, richiamando l’art. 176 cod. pen., non consente di concedere la liberazione condizionale al condannato all’ergastolo che non collabora con la giustizia e che abbia già scontato ventisei anni effettivi di carcere, «così trasformando la pena perpetua de iure in una pena perpetua anche de facto». Così facendo, la Corte costituzionale indica chiaramente il successivo passaggio (oggi sub iudicem) nella costruzione di una prospettiva costituzionalmente e convenzionalmente orientata in tema di ergastolo ostativo e orizzonte di reinserimento sociale. Una prospettiva in cui la Corte costituzionale si confronterà direttamente con la giurisprudenza della Corte EDU e con quell’ottica interpretativa comune che il giudice di Strasburgo ha chiaramente affermato proprio a partire dagli approdi ermeneutici del giudice costituzionale italiano. Spunti per una lettura dialogica dell’ergastolo ostativo in Italia 91 Questo engagement nella prospettiva del dialogo fra corti e fra sistemi è reso ancor più impellente in ragione delle vicende esecutive della sentenza Viola. Occorre, infatti, ricordare che la sentenza Viola riconosce, all’interno dell’ordinamento italiano, un problema strutturale costituito dalla incomprimibilità dell’ergastolo ostativo, (per cui sono pendenti davanti alla Corte EDU un elevato numero di ricorsi). Ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, la Corte EDU afferma che la natura della violazione accertata dell’art. 3 della CEDU «impone» allo Stato di intervenire, in fase di esecuzione del giudizio, attraverso una riforma del regime dell’ergastolo ostativo, che garantisca la possibilità di riesame della pena, in modo da assicurare che la magistratura di sorveglianza possa valutare se, nel corso dell’esecuzione della pena, vi sia stata una evoluzione del detenuto e una progressione nel suo percorso trattamentale, al punto che «nessun motivo legittimo di ordine penologico giustifichi più la detenzione». Inoltre, «la riforma deve garantire la possibilità per il condannato di beneficiare del diritto di sapere cosa deve fare perché la sua liberazione sia possibile e quali siano le condizioni applicabili» (Viola, cit., §143). La procedura esecutiva è tuttora aperta, ma a quasi un anno dalla data in cui la sentenza Viola è divenuta definitiva, il legislatore italiano non è intervenuto con alcuna riforma o progetto di riforma in adempimento dei propri obblighi internazionali. Tanto che, secondo quanto riportato nelle comunicazioni all’organo incaricato di vigilare sull’esecuzione della sentenza, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, del ricorrente Marcello Viola, così come nella comunicazione dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, l’unica misura dello Stato italiano citata è proprio la sentenza della Corte costituzionale n. 253/201925. La Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa proprio l’8 settembre (il giorno stesso della scadenza del termine per gli amici curiae alla Corte costituzionale), ha inviato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa l’atteso piano d’azione per l’esecuzione della sentenza Viola in vista della successiva riunione del Comitato dei Ministri26. Il Piano d’Azione fa ampio riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 253/2019 e infatti afferma che: «Riferendosi, seppur indirettamente, ai principi affermati nella causa Viola, la Corte italiana ha ritenuto che la presunzione assoluta di pericolosità sociale dei detenuti che si rifiutano di collaborare preclude la valutazione del trattamento carcerario e il processo di risocializzazione del detenuto, in aperto contrasto con lo scopo rieducativo della pena. La Corte costituzionale ritiene che una valutazione individualizzata e attuale sia necessaria Communication du requérant (11/02/2020) relative à l’affaire Marcello Viola c. Italie (n° 2) (requête n° 77633/16) [French only] [DH-DD(2020)135] e Communication from a NGO (Hands Off Cain) (17/10/2019) in the case of Marcello Viola (No. 2) v. Italy (Application No. 77633/16. Disponibile presso: https://hudoc.exec.coe.int/eng#{%22EXECIdentifier%22:[%22DH-DD(2020)135F%22]} 26 DH-DD(2020)784: Plan d’action (07/09/2020) Référence du point: Communication de l’Italie concernant l’affaire Marcello Viola c. Italie (n° 2) (requête n° 77633/16) pour la 1383e réunion (29 septembre - 1 octobre 2020) (DH). Disponicile presso: https://hudoc.exec.coe.int/eng#{%22fulltext%22:[%22viola%22],%22display%22:[2],%22E XECIdentifier%22:[%22DHDD(2020)784F%22],%22EXECDocumentTypeCollection%22:[%22CEC%22]} 25 92 Sofia Ciuffoletti per pronunciarsi sulla pericolosità e sulla possibilità di accedere alle misure alternative. Tale valutazione deve essere basata su prove solide e accurate che possano escludere sia l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio che tali legami possano essere ristabiliti». Tale riferimento costituisce un segnale chiaro del fatto che, a fronte dell’inerzia del legislatore, la compliance dello Stato italiano è rimessa alla vitalità giurisprudenziale della Corte costituzionale. Questa Corte è, infatti, (è ormai chiaro da decenni) il giudice dei diritti delle persone detenute in Italia, ma sembra che sia ormai diventato anche il “giudice dell’ottemperanza” in tema di esecuzione delle sentenze europee. L’unico segnale di vitalità che il legislatore nazionale ha restituito finora è costituito dalla recente approvazione, in Commissione parlamentare antimafia, il 20 maggio scorso, della Relazione sull’istituto di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, in materia di Ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale. La Relazione ricorda come tutte le audizioni in Commissione parlamentare «abbiano concordato sull’opportunità che una eventuale modifica legislativa riguardi tutti i benefici penitenziari indicati nell’articolo 4-bis dell’ord. penit., oltre che la liberazione condizionale, essendo altrimenti prevedibili ulteriori successivi interventi della Corte costituzionale volti a censurare la presunzione assoluta ove questa venisse mantenuta per i benefici diversi dal permesso premio». La questione di legittimità costituzionale sollevata con ordinanza di rimessione dalla Corte di Cassazione, si inserisce in questo quadro andando a costituire un tassello imprescindibile (soprattutto a fronte dell’inazione legislativa) nella procedura di esecuzione della stessa sentenza Viola c. Italia e sollecita ulteriormente il ruolo della Corte costituzione all’interno della prospettiva dialogica tratteggiata. Vale la pena, da ultimo, spendere due parole sulla qualità e natura di diritto consolidato di Viola, anche in relazione alla diversa nozione di well established case law convenzionale27. La Grande Camera della Corte EDU, nella composizione collegiale di 5 giudici, ha rigettato la richiesta del Governo italiano, presentata ai sensi dell’art. 43 della CEDU, di rinvio alla Grande Camera del caso Viola c. Italia, rendendo così definitivo il giudizio già deciso con sentenza dalla Sezione Prima della Corte. Occorre qui osservare come, ai sensi di quanto argomentato dalla stessa Corte costituzionale (sent. n. 49/2015), il rigetto da parte della Grande Camera della richiesta di rinvio da parte del governo italiano, costituirebbe un indice chiaro dell’avvenuto consolidamento giurisprudenziale europeo sul tema che qui interessa. Nozione che si rinviene nell’art. 28 della CEDU, così come nell’Explanatory report al Protocollo n. 14 alla Convenzione, che afferma, in relazione all'articolo 8, che la nozione di giurisprudenza consolidata si riferisce «normalmente» alla «giurisprudenza costante di una camera» o che «in via eccezionale», una sola sentenza di principio della Corte costituisce una «giurisprudenza consolidata, in particolare se si tratta di una sentenza della Grande Camera». Questa nozione rileva a fini di pura organizzazione interna e conferisce a un Comitato la competenza a decidere su una causa invece di rinviarla a una sezione della Corte. Ciò non è dovuto al fatto che una giurisprudenza consolidata sarebbe in un certo modo superiore o “più vincolante” rispetto al resto della giurisprudenza convenzionale, ma semplicemente al fatto che consente il ricorso ad una procedura semplificata per le cause ripetitive. 27 Spunti per una lettura dialogica dell’ergastolo ostativo in Italia 93 Non può negarsi che il rigetto da parte della stessa Grande Camera, nella composizione collegiale di 5 giudici, della richiesta di rinvio formulata dal Governo sia una prova della ratifica che la Grande Camera stessa dà all’interpretazione resa dalla Camera semplice e valga, quindi, a costituire indice del consolidamento di quell’orientamento giurisprudenziale. Il ruolo fondamentale del Collegio, infatti, è quello di garantire la coerenza dei giudizi della Camera con la costante giurisprudenza della Corte. Quando una sentenza di Camera si discosta in modo significativo dalla giurisprudenza precedente, il Collegio accoglie il rinvio. Sentenze che comportano una “normale” applicazione di norme consolidate dalla giurisprudenza non sono rinviate alla Grande Camera. Ripercorrendo (a dire il vero a contrario) gli indici idonei a orientare il giudice nazionale, richiamati dalla Corte costituzionale nella sentenza del 2015, i principi affermati in Viola si inseriscono a pieno nel solco tradizionale della giurisprudenza europea sul tema di pena perpetua e riducibilità della stessa, de iure e de facto28. Appare, inoltre, evidente come il giudice europeo sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, come testimoniato dalla certosina ricostruzione della giurisprudenza costituzionale e di Cassazione, così come dei progetti di riforma dell’art. 4-bis ord. penit., inserita nel paragrafo sul “Diritto e le pratiche interne pertinenti” in Viola e, infine, dalle ampie e argomentate Third Party Interventions. Infine è presente un’unica opinione dissenziente, del giudice Wojtyczek, che, rifacendosi alla preminenza delle esigenze di difesa sociale, non riesce a costruire un’argomentazione sostenuta da robuste deduzioni (si legga, su tutti, il punto in cui Wojtyczek afferma che «la questione pertinente non è sapere se la scelta in questione sia sempre libera e volontaria, ma piuttosto stabilire se la scelta concreta del detenuto in questione sia stata libera e volontaria», dimenticandosi che è proprio l’impossibilità di valutare a livello individuale questo elemento a sancire la irriducibilità de facto della pena perpetua in Italia). A fronte, quindi, del riconoscimento del grado elevato di consolidamento (di grado, infatti, occorre parlare, trattandosi di un oggetto dinamico come il discorso giurisprudenziale) della giurisprudenza europea espresso dalla sentenza Viola, il risultato che ne deriva, secondo l’interpretazione dei giudici della Consulta, è la «imprescindibilità» di tale giurisprudenza per la Corte costituzionale29, «salva l’eventualità eccezionale di una verifica negativa circa la conformità di essa, e dunque della legge di adattamento, alla Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 264 del 2012), di stretta competenza della Corte costituzionale stessa»30. Tutto questo considerato, credo che valga la pena analizzare con attenzione, magari supportate dall’opinione separata (in parte concordante, in parte dissenziente) del giudice Pinto de Albuquerque nella sentenza G.I.E.M. c. Italia31, la categoria di «diritto consolidato» che si avvicina molto più a quello che Paolo Grossi chiama mitologia giuridica della modernità32 che a un concetto di pratica 28 Linea argomentativa espressa nella giurisprudenza della Corte EDU: si vedano, su tutte, le citate Vinter and others v. U.K. e Murray v. The Netherlands. 29 Oltre alla pronuncia del 2015, si veda sent. n. 303/2011. 30 Sent. n. 49/2015, punto n. 7 cons. in dir. 31 G.I.E.M. S.R.L. and Others v. Italy, [GC], nn. 1828/06, 28 June 2018. 32 P. GROSSI, Mitologie Giuridiche della Modernità, Giuffrè, Milano 2007. Nel saggio Oltre le 94 Sofia Ciuffoletti individuazione ermeneutica. La Corte costituzionale indica, infatti, parametri validi soltanto in negativo che creano una gerarchia di vincolatività delle sentenze della Corte EDU, non ammissibile, dal momento che, come ricorda la Corte in G.I.E.M., le sue sentenze «hanno tutte lo stesso valore giuridico. Il loro carattere vincolante e la loro autorità interpretativa non possono pertanto dipendere dal collegio giudicante che le ha pronunciate» (§252). Nel prossimo futuro, sarà necessario rivedere la nozione di diritto consolidato, distinguendola da quella di «well established case law» e contestualizzandola all’interno della tutela multilivello dei diritti in ambito europeo, al fine di vivificare quel dialogo fra corti che non può tradursi in un braccio di ferro su chi detiene “l’ultima parola” sui diritti umani. Credo che i giudici europei, in Viola abbiano aperto a questo dialogo con molteplici e ragionati riferimenti alla giurisprudenza costituzionale italiana, riconoscendo una storia costituzionale centrata sull’art. 27, comma 3, Cost. come preminentemente votato all’ipotesi riabilitativa, nella polifunzionalità della pena, e così credo che la Corte costituzionale farà in relazione alla copiosa giurisprudenza della Corte EDU sulla necessaria riducibilità de iure e de facto della pena perpetua ex art. 3 CEDU. E questo dato che è proprio la Corte EDU il “master”33 interpretativo della Convenzione: sono, insomma, indiscutibilmente i giudici di Strasburgo ad avere “l’ultima parola” in termini di interpretazione del testo convenzionale. 5. Abbiamo visto come le dimensioni del reinserimento sociale e della dignità umana siano al centro del dialogo tra la Corte EDU e la Corte costituzionale italiana e abbiamo verificato come gli approdi argomentativi delle due Corti vadano a costituire una trama comune. Al tempo stesso la dimensione dialogica inaugurata dalla Corte EDU necessita di una vivificazione, sul fronte domestico, a opera della Corte costituzionale italiana, a partire da una riconsiderazione della nozione di diritto europeo consolidato, nella consapevolezza di partecipare alla comune opera di costruzione di uno spazio europeo dei diritti. È a questa stessa trama che sarà necessario guardare per proseguire nel cammino comune di tutela (multilivello) dei diritti, tenendo insieme la giurisprudenza europea e la sua autorità interpretativa in relazione al testo della CEDU, con i consolidati e ricchi sostegni ermeneutici offerti dalla giurisprudenza costituzionale italiana, sostegni che testimoniano un approdo comune (costruito nei mitologie giuridiche della modernità, in Quaderni Fiorentini, 29, 2000, 219, l’autore spiega: «A questo serve il mito nel suo significato essenziale di trasposizione di piani, di processo cioè che costringe una realtà a compiere un vistoso salto di piani trasformandosi in una metarealtà; e se ogni realtà è nella storia, dalla storia nasce e con la storia varia, la metarealtà costituita dal mito diventa una entità metastorica e, quel che più conta, si assolutizza, diventa oggetto di credenza piuttosto che di conoscenza (…) L’illuminismo politico-giuridico ha bisogno del mito perché ha bisogno di un assoluto a cui aggrapparsi; il mito supplisce egregiamente alla carenza di assoluto che si è attuata e colma un vuoto altrimenti rischiosissimo per la stessa stabilità della nuova intelaiatura della società civile. Le nuove ideologie politiche economiche giuridiche hanno finalmente un supporto che ne garantisce la inalterabilità». 33 “Master” nel senso ben descritto da E. SANTORO, Diritto e Diritti, Giappichelli, Torino 2008, 267. Spunti per una lettura dialogica dell’ergastolo ostativo in Italia 95 termini di un consensus dei Paesi membri del Consiglio d’Europa), in termini di preminenza del paradigma penologico risocializzante nel contesto europeo. UN SISTEMA PREMIALE IMPRATICABILE di FRANCO CORLEONE I ringraziamenti per l’occasione preziosa di scambio di tante espressioni di acute intelligenze non sono affatto formali. Sarei stato semplicemente ad ascoltare se la parte finale dell’intervento di Glauco Giostra non avesse posto alcuni temi che non sono solo giuridici, ma a tutto tondo di politica e di rapporto con la società italiana. Comunque, avendo ascoltato i molti interventi interessantissimi, mi è venuta una preoccupazione che mi pare aleggi, dal più al meno, in tutti i presenti, cioè che «se tutto va bene siamo rovinati». Si potrebbe tradurre così il timore della possibile o probabile ripetizione della sentenza n. 253/2019. Ho ascoltato i suggerimenti, e d’altronde il compito di amicus curiae è fare proprio questo, perché si correggano le interpretazioni prudenti e ci sia più nettezza semmai nell’invitare il Parlamento ad intervenire su alcuni nodi sostanziali. Prima di esplicitare il nocciolo del mio pensiero, ritengo che meritino una attenta riflessione i dati iniziali che ci ha illustrato Marco Ruotolo. Sono numeri impressionanti per la quantità di ergastoli e, all’interno di questi, di quelli ostativi. Nel giro di pochi anni, o comunque negli ultimi venti anni, il numero degli ergastoli si è quadruplicato, se non di più, in presenza di un abbassamento costante del numero di omicidi. Allora, che cosa caratterizza l’allarme sociale, il pericolo sociale, la sicurezza? Questo atteggiamento o indicatore del senso comune, dovrebbe spingere a un approfondimento da parte di persone e studiosi, ma certamente testimonia che la forza della demagogia, della menzogna, della costruzione di falsi sesquipedali (come la trattiva Stato-mafia o lo stravolgimento degli interventi dell’allora Guardasigilli, Giovanni Conso sul 41-bis), tutto questo ha avuto la forza di diventare egemonia, egemonia del falso, a cui non si è riusciti a contrapporre un’egemonia della razionalità, del diritto, del garantismo. Tutto ciò è accaduto proprio in questi ultimi anni: ho avuto modo di scrivere un articolo sull’esperienza che ho avuto come sottosegretario alla Giustizia, e ricordare la presenza in Parlamento e al Ministero della Giustizia di una serie di personalità con una forza da classe dirigente che riuscì a manifestarsi in quella stagione. Questo mi pare sia il punto su cui ragionare. In questi anni è accaduto che una Ministra della Giustizia potesse fare in Senato non solo l’elogio del Codice Rocco, ma anche di Alfredo Rocco, esaltandolo come “tecnico”, nascondendo il fatto che fosse un leader politico del regime, senza che ci fosse una sollevazione di indignazione. È potuto accadere che, prima del Covid, la Ministra dell’Interno minacciasse un decreto-legge per eliminare i fatti di lieve entità relativi all’art. 73 della legge sulle droghe. Se cose simili sono potute avvenire, allora vuol dire che c’è un silenzio colpevole, che consente poi a un editorialista del Corriere della Sera  Già Commissario per la chiusura degli OPG e Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana Un sistema premiale impraticabile 97 di scrivere impunemente l’elogio della gogna, per i consumatori di cocaina, senza alcuna ribellione. Di fronte a questi fatti mi pare preoccupante che ci si debba affidare, anche se meritoriamente, a organi di garanzia come la Corte costituzionale, come le Corti europee, perché ciò certifica con nettezza che la politica e il diritto non hanno cittadinanza nel dibattito pubblico. Ed è una assenza assai grave. Come lo è il fatto che ogni anno, il 9 maggio, si ricordino le vittime del terrorismo nel giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, assassinato vigliaccamente, ma nessuno ricordi che proprio lui, due anni prima, aveva scritto parole nettissime contro l’ergastolo: è un sintomo grave, di rimozione e di censura, di tradimento del suo pensiero originale. Voglio per questo ricordare solo alcune frasi, con le quali Aldo Moro aveva chiaramente affermato che l’ergastolo, la «pena perpetua», era più disumana della pena che più di ogni altra è stata definita tale, la pena di morte: occorre «nel nostro ordinamento – che conosce ancora la pena dell’ergastolo anche se non conosce più la pena di morte – una riforma che tenda a sostituire questo fatto agghiacciante della pena perpetua (“non finirà mai, finirà con la tua vita questa pena!”), una lunga detenzione, se volete, una lunghissima detenzione, ma che non abbia le caratteristiche veramente pensati della pena perpetua che conduce ad identificare la vita del soggetto con la vita priva di libertà. Questo, capite, quanto sia crudele e disumano. […] Quando si dice pena perpetua si dice una cosa estremamente pesante, estremamente grave, umanamente non accettabile»1. È doloroso che il ricordo sia compiuto con cerimonie caratterizzate dalla retorica e non come occasione di verità, anche scomoda. Ma a me risulta insopportabile la nostra incapacità a denunciare questa violenza, a non ricordare questo spartiacque, a far risaltare un fatto così straordinario che costituisce un discrimine di civiltà giuridica e umana. Si tratta davvero di una responsabilità politica cui veniamo meno troppe volte. In conclusione, voglio sottolineare il paradosso che noi abbiamo davanti: abbiamo costruito, e molti ne sono fieri, un sistema penitenziario premiale, basato sul reinserimento sociale in obbedienza ai principi costituzionali. Il paradosso però è che questo sistema premiale risulta impraticabile per gli “ultimi”, gli “scarti”, i poveracci, i tossicodipendenti, che stanno in galera, e risulta utilizzabile dai più potenti. Un sistema premiale che è ormai inesistente, risultando una struttura di cui le radici sono state tagliate nel basso e le fronde in alto. Questo esito deve costringerci a valutare il che fare. E tuttavia, volendo chiudere con una nota di ottimismo, non cento anni fa, non nel momento dell’approvazione della legge 180, ma solo pochi anni fa – lo ricordo anche perché ho vissuto l’esperienza di Commissario per la chiusura degli OPG – i manicomi giudiziari sono stati chiusi. L’ho definita una rivoluzione, gentile ma rivoluzione: è stata una cosa enorme, straordinaria. Ci dovremmo allora chiedere come siamo stati capaci di realizzare 1 A. MORO, La funzione della pena, Lezione del 13 gennaio 1976 nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma, in F. TRITTO (a cura di), Lezioni di istituzioni di diritto e procedura penale, Carocci, Roma 2005, riprodotta in S. ANASTASIA, F. CORLEONE (a cura di), Contro l’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e la dignità della persona, Ediesse, Roma 2009, 137-138. 98 Franco Corleone questa riforma e come, invece, non abbiamo ancora la forza di porre con altrettanta determinazione la risoluzione dei problemi che oggi sono stati ricordati e che disegnano un quadro terribile: se non c’è ravvedimento, o pentimento, vi è la certificazione che la pena in Italia è fino alla morte in carcere. È una constatazione, forse drastica, ma è il clou che traduce molte preoccupazioni ascoltate oggi. IL “COMMIATO” DELL’ERGASTOLO OSTATIVO? LA PAROLA SPETTA ORA ALLA CORTE COSTITUZIONALE di MARILISA D’AMICO e STEFANO BISSARO SOMMARIO: 1. Considerazioni preliminari. - 2. I nodi processuali: sulla possibile irrilevanza della questione. - 3. Differenze e analogie con i precedenti. - 4. L’orizzonte convenzionale e la “spada di Damocle” della sentenza Viola c. Italia. - 5. Riflessioni conclusive, tra elementi di novità e prospettive future. 1. La traccia di discussione proposta dagli organizzatori del seminario preventivo – suggestivamente intitolato “Il fine e la fine della pena” – si conclude con l’indicazione della «caratura ordinamentale della quaestio» sollevata dalla Corte di Cassazione1: da questa precisazione è utile muovere per introdurre le riflessioni contenute nelle seguenti pagine, sottolineando, in apertura, come sullo sfondo delle problematiche, processuali e di merito, che dovrà a breve affrontare la Corte costituzionale, si staglia, in effetti, un bilanciamento di interessi ad altissimo tasso di complessità: da un lato, le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva, particolarmente sentite di fronte a fenomeni criminali che destano un grande allarme sociale e che sono in grado di minare le stessa fondamenta dell’ordinamento repubblicano, e, dall’altro lato, i principi di ragionevolezza e di proporzione, individualizzazione e rieducazione della pena, i quali, concorrono, con le ulteriori garanzie che la Costituzione detta nella materia penale, a tracciare il «volto costituzionale» del magistero punitivo statuale2. Entro queste coordinate di rilievo costituzionale prende corpo un ampio ventaglio di problematiche, la cui lettura combinata consente di sottolineare, appunto, la rilevanza ordinamentale della questione di legittimità sollevata dalla Corte di Cassazione; problematiche, queste ultime, che investono, inter alia: l’intensità dello scrutinio della Corte costituzionale sugli aspetti di rilievo processuale (sul versante della rilevanza o della possibile “rilettura”, ad opera della stessa Corte, del quadro dei parametri costituzionali evocati dal rimettente); la tenuta degli automatismi legislativi al cospetto di una rigorosa applicazione del canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.3; la progressiva renaissance del  Ordinaria di Diritto costituzionale, Università di Milano-Statale Assegnista di Diritto costituzionale, Università di Milano-Statale 1 Si tratta, più precisamente, dell’ordinanza della Corte di Cassazione, Sez. I pen., n. 100 del 2020 (pubbl. in G.U. del 19 agosto 2020, n. 34), con cui è stata promossa una questione di legittimità relativa agli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge n. 354 del 1975, e dell’art. 2 del decreto legge n. 152 del 1991, conv. con modificazioni in legge n. 203 del 1991, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 27 e 117 della Costituzione. 2 Cfr., in particolare, Corte cost., sent. n. 80/1980. 3 Su cui, in particolare, A. PUGIOTTO, Conflitti mascherati da quaestiones: a proposito di automatismi legislativi, in R. ROMBOLI (a cura di), Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, Giappichelli, Torino 2017, 497 ss; S. LEONE, Automatismi legislativi, presunzioni  100 Marilisa D’Amico e Stefano Bissaro principio del finalismo della pena scolpito nell’art. 27, terzo comma, Cost.4; la coerenza della giurisprudenza costituzionale rispetto ai suoi più recenti precedenti nella materia dell’esecuzione penale; l’incidenza sul sistema italiano di una decisione della Corte EDU, come quella assunta all’esito del caso Viola c. Italia, che ha accertato un vulnus di tipo strutturale, non limitato ad un caso specifico5; le diverse tecniche decisorie di cui può ora servirsi la Corte costituzionale per rispondere alle censure avanzate dalla Corte di Cassazione; ed, infine, con una prospettiva ancora più generale, la complessa tematica del rapporto tra la discrezionalità legislativa e il sindacato di costituzionalità nella materia penale6. Con le riflessioni proposte nelle seguenti pagine, si intende ragionare di alcune di queste complesse problematiche, tentando, nella parte conclusiva dello scritto, di avventurarsi nella disamina dei possibili esiti del giudizio di costituzionalità. 2. Un primo aspetto, di ordine processuale, che è utile mettere a fuoco prima di entrare, in medias res, nell’analisi dei profili di merito, riguarda il carattere della questione di legittimità sollevata dalla Corte di Cassazione e la conseguente valutazione in punto di ammissibilità: carattere potenzialmente «astratto e ipotetico» secondo le suggestioni contenute nella traccia di discussione. Il giudice a quo, da parte sua, non ha mancato di prendere in esame espressamente questo aspetto: nel richiamarsi al precedente della sentenza n. 253/20197, il rimettente ha infatti sostenuto che l’eventuale accoglimento della questione di costituzionalità avrebbe una diretta incidenza sul giudizio principale, dal momento che il giudice del merito, a cui sarebbe devoluto il giudizio – come conseguenza dell’annullamento dell’ordinanza oggetto del ricorso per cassazione, con cui è stata data applicazione alla norma censurata – potrebbe verificare in concreto quanto la normativa impugnata oggi gli preclude in radice, ovverosia le assolute e bilanciamento, in Rivista del Gruppo di Pisa, 2017. 4 Sul tema, v., ex multis, A. PUGIOTTO, Il volto costituzionale della pena (e i suoi sfregi), in Rivista AIC, 2014; E. DOLCINI, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di rieducazione del condannato), in Dir. pen. cont., 2018; V. MANES, Proporzione senza geometrie, in Giur. cost., 2016, 2108, P. INSOLERA, Controlli di costituzionalità sulla misura della pena e principio di proporzionalità: qualcosa di nuovo sotto il sole?, in Ind. pen., 2017, 191; S. LEONE, Sindacato di ragionevolezza e quantum della pena nella giurisprudenza costituzionale, in Rivista AIC, 4/2017. 5 A commento della quale, v., per tutti, E. DOLCINI, Dalla Corte Edu una nuova condanna per l’Italia: l’ergastolo ostativo contraddice il principio di umanità della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, 925 ss.; e D. GALLIANI – A. PUGIOTTO, L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo (A proposito della sentenza Viola v. Italia n. 2), in Osservatorio costituzionale, fasc. 4, 2019, 191 ss. 6 Su cui sia consentito il rinvio a M. D’AMICO, Corte costituzionale e discrezionalità del legislatore in materia penale, in Rivista AIC, fasc. 3, 2016. Sul tema, si veda da ultimo e in particolare, il bel volume di V. MANES – V. NAPOLEONI, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Giappichelli, Torino 2019. 7 Tra i numerosissimi commenti a disposizione, si segnalano qui le preziose riflessioni di M. RUOTOLO, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, in Sistemapenale.it, 2019; e A. PUGIOTTO, La sent. n. 253/2019 della Corte costituzionale: una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria, in Forum di Quaderni costituzionali, fasc. 1, 2020. Il “commiato” dell’ergastolo ostativo? 101 reali ragioni della mancata collaborazione del soggetto. Per il giudice a quo, in altre parole, non rileverebbe, ai fini della valutazione sulla sussistenza del requisito della rilevanza, la circostanza per cui gli elementi necessari per l’ottenimento della liberazione condizionale, unitamente agli altri elementi sintomatici dell’assenza di legami con l’ambiente criminale di appartenenza e della pericolosità del condannato, non sono stati esplorati dal giudice. In proposito è utile ricordare che, nella sentenza n. 253/2019, la Corte costituzionale ha risposto ad una eccezione dell’Avvocatura dello Stato, che lamentava proprio il carattere «ipotetico ed astratto» delle ragioni poste a fondamento delle questioni di legittimità allora sollevate: la difesa erariale osservava, nello specifico, come il reclamante del giudizio a quo non avesse mai dedotto, per giustificare la propria mancata collaborazione, motivazioni connesse al rischio per la propria incolumità e per quella dei propri congiunti, al rifiuto morale di rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di persone a lui legate da vincoli affettivi o amicali, o, ancora, al ripudio di una collaborazione meramente strumentale; elementi, tutti questi, che finivano per giustificare proprio l’eccezione di inammissibilità delle questioni sollevate poiché – osservava la difesa dello Stato – «anche nel caso di una pronuncia di accoglimento, una tale decisione non spiegherebbe effetti nel processo a quo»8. La risposta della Corte è stata molto netta sul punto e merita di essere richiamata per esteso: in linea con la propria consolidata giurisprudenza in tema di rilevanza, il Giudice costituzionale ha osservato in termini assai chiari come, ai fini dell’ammissibilità della questione, è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo, senza che rilevino gli effetti di una eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale per le parti in causa. Ed è interessante rilevare che la Corte ha anche evidenziato – nel solco di un trend in via di consolidamento nella più recente giurisprudenza costituzionale9 – che, nella prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità e di una più efficace garanzia della conformità a Costituzione della legislazione, «il presupposto della rilevanza non si identifica con l’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare a seguito della decisione»10. Ebbene, tra i filoni giurisprudenziali richiamati dalla Corte costituzionale in questa parte della sentenza n. 253/2019, merita di essere segnalato quello relativo alle cc.dd. “norme penali di favore”: il passaggio più importante dello storico precedente rappresentato dalla sentenza n. 148/1983 viene tradizionalmente compendiato nell’affermazione per cui «l’eventuale accoglimento […] verrebbe ad incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui dispositivi delle sentenze penali» e che «la pronuncia della Corte non potrebbe non riflettersi sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria, modificandone la ratio 8 Cfr. sent. n. 253/2019, Considerato in diritto, §6. Su cui, in particolare, R. ROMBOLI, Il sistema di costituzionalità, tra momenti ‘di accentramento’ e momenti ‘di diffusione’, in Rivista del Gruppo di Pisa, 2020; e M. RUOTOLO, L’interpretazione conforme a Costituzione torna a casa?, in Rivista del Gruppo di Pisa, 2019. 10 Cfr., ancora, sent. n. 259/2019, Considerato in diritto, §6. 9 Marilisa D’Amico e Stefano Bissaro 102 decidendi: poiché in tal caso ne risulterebbe alterato […] il fondamento normativo della decisione, pur fermi restando i pratici effetti di essa»11. Insomma, anche rispetto al caso che qui ci occupa, non sembra irragionevole proporre la medesima argomentazione: nella già citata sentenza n. 253/2019, peraltro, la Corte ha rilevato in modo convincente, in questo preciso senso, che, nell’ipotesi di accoglimento delle sollevate questioni, il giudice a quo sarebbe chiamato a decidere secondo una diversa regola di giudizio, attingendola dalla disciplina di riferimento, privata della norma in ipotesi dichiarata incostituzionale. Ciò significa che, anche qualora l’esito del giudizio a quo fosse il medesimo – la non concessione del permesso premio, in quel caso, e la non ammissione alla liberazione condizionale, nel caso di specie – la pronuncia di questa Corte sarebbe comunque tale da influire sul percorso argomentativo che il rimettente deve seguire per decidere sulla richiesta avanzata dal detenuto. In definitiva, la valutazione che la Corte ha espresso con riguardo al precedente relativo ai permessi premio, come giustamente sostenuto12, sembra potersi spendere anche in relazione all’odierna questione di costituzionalità concernente la liberazione condizionale, senza che possano essere convintamente prospettati dubbi di ammissibilità in ragione del supposto carattere astratto o ipotetico della questione. 3. Il precedente più diretto della questione oggi all’esame della Corte costituzionale è costituito, come noto, della sentenza n. 135/200313, con cui è stata dichiarata infondata un’analoga questione di costituzionalità sollevata sull’art. 4bis, comma 1, primo periodo della legge sull’ordinamento penitenziario (legge del 26 luglio 1975, n. 354): in quell’occasione, la Corte ha osservato come la scelta di subordinare l’ammissione alla liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia – che è «sempre rimessa alla scelta del condannato»14 – non preclude in modo assoluto e definitivo l’accesso al beneficio. Si tratta, infatti, secondo quella lettura che oggi viene messa radicalmente in discussione dal giudice a quo, di una sua libera determinazione, dal momento che al condannato è comunque data la possibilità di cambiare la propria scelta, essendo peraltro tale determinazione ancorata alle sole ipotesi in cui la collaborazione sia naturalisticamente e giuridicamente possibile. Il meccanismo presuntivo per cui la mancata collaborazione con la giustizia rappresenta un indice legale della persistenza di legami con l’ambiente criminale di 11 Cfr. sent. n. 148/1983. Così, in particolare, M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo è costituzionale?, in questo stesso volume, il quale sembra escludere che «la questione possa dirsi astratta o ipotetica, in ragione dell’affermata influenza che un’eventuale pronuncia di accoglimento avrebbe sul giudizio a quo». 13 Non mancano, ovviamente, precedenti significativi anche nella più risalente giurisprudenza costituzionale: come la storica sent. n. 264/1974; sul tema, v., per tutti, E. DOLCINI, La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, in Dir. Pen. Cont., 2018. 14 Cfr. sent. n. 135/2003, Considerato in diritto, §4, per cui «la preclusione prevista dall’art. 4bis, comma 1, primo periodo, […] deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo: tale disciplina non preclude pertanto in maniera assoluta l’ammissione al beneficio, in quanto al condannato è comunque data la possibilità di cambiare la propria scelta». 12 Il “commiato” dell’ergastolo ostativo? 103 appartenenza e della perdurante pericolosità del soggetto non era stata considerata, in quel caso, come irragionevole. Questo precedente però deve essere inscritto in un panorama giurisprudenziale molto diverso da quello attuale, attesa, come già anticipato, la sopravvenienza di alcuni fondamentali pronunciamenti sia della Corte EDU, sia, per quanto più interessa, della stessa Corte costituzionale15. Tali decisioni, pur nel contesto di spazi e strumenti valutativi differenti, hanno disinnescato alcuni ingranaggi del congegno presuntivo costruito dal legislatore per incentivare la collaborazione dei detenuti ex art. 4-bis. Ciò lo si ricava anche dal fatto che, in occasione del caso poi deciso con la sentenza n. 135/2003, la Corte era stata chiamata a scrutinare una questione sollevata unicamente con riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost. Lo scenario è quindi mutato profondamente: con l’odierna questione, del resto, il rimettente ha esteso le proprie censure con riferimento anche agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., aprendo la strada alla giurisprudenza della Corte EDU. Incidentalmente, su quest’ultimo profilo, può sottolinearsi un ulteriore elemento: nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione viene evocato proprio l’art. 117, primo comma, Cost., ma non viene fatto alcun cenno ai parametri convenzionali che, per il tramite dello stesso art. 117, primo comma, Cost., dovrebbero venire in rilievo nel caso di specie. I diffusi richiami alla giurisprudenza della Corte EDU (al caso Viola c. Italia, in particolare) inducono a ritenere, senza grandi rischi di smentita, che il giudice a quo abbia voluto fare riferimento all’art. 3 CEDU e al divieto di trattamenti inumani e degradanti in esso formalizzato. Alla luce di questo elemento, sembra pertanto possibile richiamare, anche in questo caso, quel particolare indirizzo della Corte costituzionale che ha inteso valorizzare una «lettura sistematica» dell’ordinanza di rimessione16, attraverso una lettura coordinata del dispositivo e delle motivazioni proposte dal rimettente (al fine di giungere ad una corretta individuazione del petitum). È quanto accaduto, a mero titolo esemplificativo, nel recente caso Cappato, in cui la Corte, nel sottolineare che l’assistenza di terzi nel porre fine alla vita del soggetto può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto, ha fatto leva all’art. 32, secondo comma, Cost., che non era stato formalmente evocato nel dispositivo nell’ordinanza di rimessione, anche se più volte richiamato in motivazione. Il richiamo all’art. 117, primo comma, Cost., in ogni caso, segna una importante differenza anche con il più recente caso deciso con la sentenza n. 253/2019, nel cui ambito, come si dirà meglio oltre, la dimensione convenzionale è rimasta, quantomeno a livello formale, sullo sfondo. 15 Cfr., inoltre, sentt nn. 239/2014, 76/2017 e 149/2018. Cfr., ex multis, sent. n. 170/2013, n. 203 e n. 94/2016, n. 219/2017, con cui la Corte ha rilevato che «la corretta individuazione del petitum richiede la lettura coordinata del dispositivo dell’ordinanza di rimessione e della motivazione»; nella prospettiva di una valorizzazione dei parametri considerati dal giudice rimettente (non formalmente evocati nel dispositivo), può segnalarsi anche la sent. n. 200/2015, con cui la Corte ha affermato che «l’oggetto del giudizio di costituzionalità in via incidentale è limitato alle sole norme e parametri indicati, pur se implicitamente, nell’ordinanza di rimessione e non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti». 16 Marilisa D’Amico e Stefano Bissaro 104 Le differenze con la sentenza n. 253/2019, a ben vedere, non si limitano a questo primo, pur importante, aspetto e riguardano ulteriori profili: la questione sollevata dalla Corte di Cassazione, infatti, investe un istituto – la liberazione condizionale – ben diverso da quello oggetto della declaratoria di incostituzionalità del 2019. Dal punto di vista dogmatico, il permesso premio rappresenta un beneficio penitenziario di tipo discrezionale che il magistrato di sorveglianza può riconoscere al condannato che ne faccia richiesta per coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro; la liberazione condizionale rappresenta invece una causa estintiva della pena con finalità direttamente correlate al reinserimento sociale del soggetto, cui il condannato ha diritto in presenza dei requisiti stabiliti dall’art. 176 c.p. I due istituti, in altre parole, non sono totalmente sovrapponibili, pur condividendo alcuni comuni elementi funzionali: anche la Corte costituzionale, invero, ha ripetutamente sottolineato, nella sentenza n. 253/2019, le specificità del beneficio del permesso premio, chiarendo come le questioni oggetto di quel giudizio non riguardassero la disciplina del c.d. ergastolo ostativo e, quindi, implicitamente, l’ostatività nell’accesso alla liberazione condizionale17. Questi ultimi rilievi, peraltro, consentono di comprendere la ragione per cui la Corte costituzionale non abbia fatto ricorso, nella sentenza n. 253/2019, allo strumento dell’illegittimità costituzionale consequenziale per travolgere il meccanismo dell’ostatività anche con riguardo alla liberazione condizionale. Tanto premesso, si tratta, a questo punto, di capire se la ratio decidendi che ha animato il recente intervento della Corte possa ora valere anche per l’odierno caso18; in massima sintesi, si può dire che la Corte costituzionale abbia accolto la precedente questione di legittimità censurando il carattere assoluto della presunzione sottesa all’art. 4-bis: «non è infatti irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, purché si prevede che tale presunzione sia relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria» 19. L’assolutezza di una simile preclusione, peraltro, implica necessariamente l’inammissibilità di qualsivoglia richiesta (di concessione di benefici penitenziari ovvero di ammissione alla liberazione condizionale) avanzata dal detenuto non collaborante, senza che al magistrato di sorveglianza sia consentito di valutare in concreto, attraverso criteri individualizzanti, le ragioni che hanno spinto il soggetto a mantenere il silenzio. La presunzione assoluta, in questa prospettiva, si traduce in un impedimento che ostacola in radice la realizzazione del percorso risocializzante del detenuto, con conseguente violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. Simili argomentazioni, in ragione della loro portata generale, possono senz’altro essere riproposte in riferimento all’odierna questione: la breccia che la 17 Cfr., in particolare, sent. n. 253/2019, Considerato in diritto, §5.2. In tanti hanno evidenziato che l’odierna questione rappresenta un «naturale corollario degli approdi della sentenza n. 253/2019» (così, per esempio, nella memoria presentata, in qualità di amicus curiae, di Macrocrimes, Centro studi giuridici europei sulla grande criminalità); altri hanno rimarcato che: «il thema decidendum, per esplicito riconoscimento contenuto nella stessa [ordinanza di rimessione], si pone in linea di continuità ermeneutico-argomentativa rispetto alla decisione in Corte cost., sent. n. 253/2019» (così nella memoria, in qualità di amicus curiae, di L’altro diritto ODV). 19 Cfr. sent. n. 253/2019, Considerato in diritto, §8. 18 Il “commiato” dell’ergastolo ostativo? 105 Corte ha aperto nel muro dell’ostatività nell’accesso al permesso premio, in altri termini, richiede ora un ulteriore intervento demolitorio; e ciò, a ben guardare, non solo per ragioni legate alla auspicabile coerenza della Corte rispetto ai propri precedenti, ma, soprattutto, sul versante del merito, perché il superamento della presunzione assoluta rispetto al primo stadio della progressività trattamentale – il permessi premio, appunto – vedrebbe scemato il proprio «significato sistematico»20 se per le ulteriori tappe del percorso di reinserimento sociale dovesse, viceversa, valere ancora la preclusione ad una considerazione individualizzata del comportamento e della personalità del condannato. 4. Nella traccia di discussione che aveva aperto il precedente seminario preventivo sul tema dell’ostatività penitenziaria21 si osservava, a commento delle due ordinanze di rimessione al centro di quel dibattito, come nessuna delle autorità rimettenti avesse incluso nel thema decidendum l’art. 117, primo comma, Cost., integrato dall’art. 3 CEDU quale parametro interposto. E ci si chiedeva, quindi, se una siffatta omissione formale potesse rappresentare un ostacolo all’ingresso nel giudizio di costituzionalità della prospettiva assunta a Strasburgo, di recente proprio con specifico riguardo al caso italiano22. Dando risposta a simili interrogativi, la Corte costituzionale ha preso posizione in modo esplicito su questo profilo con la sentenza n. 253/2019, mostrando una certa premura nel chiarire che le questioni oggetto di quel giudizio non riguarda[vano] «la legittimità costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo, sulla cui compatibilità con la CEDU si è, di recente, soffermata la Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Viola c. Italia»23, chiarendo in più passaggi, come già anticipato, che nei processi a quibus si fa[ceva] questione «della sola possibilità di concessione, ai detenuti, di un permesso premio, non di altri benefici»24. Ora, è difficile ipotizzare che, in questo nuovo caso che riguarda proprio la liberazione condizionale oggetto di scrutino a Strasburgo, la Corte costituzionale possa bypassare un confronto diretto con la giurisprudenza convenzionale: come 20 Come precisamente osserva il giudice a quo: cfr. Corte di Cassazione, Sez. I pen., n. 100 del 2020 (pubbl. in G.U. del 19 agosto 2020, n. 34), §19. 21 Ci si riferisce al seminario preventivo ferrarese organizzato alla vigilia della sentenza n. 253/2019, i cui atti sono consultabili in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre ? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti, in Forum di Quaderni. Costituzionali – Rassegna, fasc. n.10, 2019. 22 A tal riguardo, Vladimiro Zagrebelsky evidenziava che «la mancata menzione da parte del giudice a quo, come motivo di possibile incostituzionalità̀ , della violazione dell’art. 117 Cost. in rapporto all’art. 3 CEDU non sembra poter impedire alla Corte costituzionale di considerare comunque la giurisprudenza della Corte europea e l’orientamento interpretativo della Convenzione che emerge dalla sentenza ora pronunciata nei confronti dell’Italia (in tal senso la sentenza n. 149/2018, che richiama la sentenza Vinter c. Regno Unito pur in assenza di eccezione ex art. 117 Cost.)»: V. ZAGREBELSKY, La pena detentiva «fino alla fine» e la Convenzione europea dei diritti umani e le libertà fondamentali, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre ?, cit., 15 ss. 23 Cfr. sent. n. 253/2019, Considerato in diritto, §5.2. 24 Cfr. sent. n. 253/2019, Considerato in diritto, §5.3. Marilisa D’Amico e Stefano Bissaro 106 una vera “Spada di Damocle”, il caso Viola c. Italia pare, in effetti, incombere sull’odierno giudizio di costituzionalità. Questa circostanza ovviamente non esclude la possibilità che la Corte decida nel senso dell’accoglimento sulla base dei soli parametri interni, con contestuale assorbimento dei motivi di censura formulati ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.: dal combinato disposto di cui all’artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., infatti, si può senz’altro far discendere una trama di principi, che trovano fondamento tanto nella Costituzione italiana quanto nella CEDU25, i quali ben possono essere posti a fondamento della declaratoria di incostituzionalità. Invero, non si tratterebbe di una novità assoluta nella giurisprudenza della Corte costituzionale26: come non ricordare, a tal riguardo, il caso del divieto di fecondazione eterologa di cui alla legge n. 40 del 2004, deciso con la storica sentenza n. 162/2014: in quell’occasione, peraltro, la Corte giunse ad accogliere la questione con riferimento agli artt. 2, 3, 29, 31 e 32 Cost., dichiarando assorbita la censura ex art. 117, primo comma Cost., dopo aver disposto, con l’ordinanza n. 150/2012, la restituzione degli atti, per un rinnovato esame della questione, alla luce della sopravvenuta sentenza della Grande Camera della Corte EDU 3 novembre 2011, S.H. e altri c. Austria. La soluzione dell’assorbimento potrebbe poi consentire alla Corte di dribblare un ulteriore aspetto problematico, relativo alla natura sufficientemente consolidata dei principi espressi dalla Corte EDU nel caso Viola c. Italia, secondo il modello definito con la sentenza n. 49/2015. Con questa importante pronuncia, come noto, la Corte costituzionale ha affermato che soltanto un «diritto consolidato», prodotto dalla giurisprudenza europea, potrebbe essere posto dal giudice a fondamento del proprio processo interpretativo, non esistendo alcun obbligo in questo senso a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento well-established27. Applicando questo canone alla sentenza Viola c. Italia si potrebbe, per vero, giungere ad entrambe le conclusioni: la scelta di non rinviare la questione alla Grande Chambre potrebbe essere letta – alternativamente, in modo comunque non implausibile – come indicativa sia della volontà di rendere la sentenza Viola c. Italia da subito vincolante (e, implicitamente, «consolidata»)28, sia della dell’opposta Cfr. M. RUOTOLO, E’ costituzionale l’ergastolo ostativo ?, cit., il quale osserva che la posizione da prediligere «è quella per cui l’art. 117, primo comma, Cost. dovrebbe essere evocato, e comunque essere ‘autonomamente’ preso in considerazione dalla Corte costituzionale, soltanto quando la violazione addotta non sia specificamente riferibile ad altro parametro costituzionale, sia pure interpretato evolutivamente o estensivamente alla luce degli ‘obblighi internazionali’ assunti dallo Stato». 26 Per una ricca panoramica sull’incidenza della giurisprudenza della Corte EDU sulle decisioni del Giudice costituzionale italiano, v., ex multis, T. GROPPI, La jurisprudence de Strasbourg dans les décisions de la Cour constitutionnelle italienne, in Federalismi.it, 2016. 27 Per un’analisi di questa pronuncia v., per tutti, F. VIGANÒ, La Consulta e la tela di Penelope. Osservazioni a primissima lettura su Corte cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49, Pres. Criscuolo, Red. Lattanzi, in materia di confisca di terreni abusivamente lottizzati e proscioglimento per prescrizione, in Riv. Trim. Dir. Pen. Cont., fasc. 2, 2015; con attenzione alle conseguenze della decisione sull’equilibrio tra la Corte costituzionale e la Corte europea, volendo, cfr. M. D’AMICO, La Corte europea come giudice “unico” dei diritti fondamentali? Note a margine della sentenza, 27 agosto 2015, Parrillo c. Italia, in Forum di Quaderni costituzionali, 2015, 5. 28 In questo senso si esprime la memoria presentata, in qualità di Amicus curiae, 25 Il “commiato” dell’ergastolo ostativo? 107 intenzione di non consolidare immediatamente quel novum giurisprudenziale, nell’attesa di conoscere gli sviluppi (legislativi, anzitutto) domestici. A questo fine, non sarebbe inconferente il richiamo a quel passaggio della sentenza Viola c. Italia, in cui la Corte EDU ha affermato che la natura – strutturale, come già segnalato – della violazione accertata ai sensi dell’art. 3 CEDU impone allo Stato italiano di «attuare, di preferenza per iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione dell’ergastolo, che garantisca la possibilità di riesame della pena»29. 5. Prima di ragionare dei possibili esiti del giudizio pendente davanti alla Corte, è importante soffermarsi su un ulteriore elemento che caratterizza, in modo assolutamente peculiare, l’odierna questione di costituzionalità. In occasione del giudizio di costituzionalità di cui stiamo discutendo, sono state presentati ben cinque interventi, ai sensi del nuovo art. 4-bis delle Norme integrative, in qualità di amici curiae, rispettivamente, dal Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale, dalle associazioni Antigone e Nessuno Tocchi Caino, dall’ODV L’altro Diritto e dal Centro Studi Macrocrimes. Si tratta di documenti assai preziosi, che consentiranno di arricchire il patrimonio conoscitivo a disposizione del Giudice costituzionale, offrendo elementi di contorno significativi, che il giudice a quo non ha considerato nel proprio atto introduttivo: vuoi attraverso diversi ed ulteriori riferimenti alla giurisprudenza convenzionale, vuoi introducendo dati di tipo statistico tratti dalla c.d. scienza penitenziaria, vuoi, ancora, suggerendo possibili profili di contrasto anche con il diritto dell’Unione europea. Da questo punto di vista, il caso de quo potrebbe allora rappresentare un valido banco di prova delle citate modifiche, con le quali si è favorita l’apertura della Corte costituzionale alla “società civile”. Venendo conclusivamente al tema delle prospettive future, è possibile ritenere come altamente improbabile – anche se comunque possibile in linea teorica – una pronuncia di rigetto: la Corte, in effetti, ancora potrebbe, riallacciandosi al suo precedente più diretto (rappresentato, come visto, della sentenza n. 135/2003) ritenere non irragionevole la scelta di subordinare l’ammissione alla liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia, stante la perdurante esigenza di fronteggiare, con tutti gli strumenti possibili, le associazioni criminali di tipo mafioso. Certo questa soluzione, oltre a rappresentare un “passo indietro” rispetto al cammino intrapreso dalla recente giurisprudenza costituzionale (di cui, in particolare, ma non solo, la più volte richiamata sentenza n. 253/201930), potrebbe dall’Associazione Nessuno Tocchi Caino, §§37-38. 29 Cfr. Corte EDU, Prima Sezione, Viola c. Italia n. 2, ric. n. 77633/16, sent. 13 giugno 2019, def. 5 ottobre 2019, §143. 30 Cfr., inoltre, Corte cost., sent. n. 32/2020, con cui la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima l’efficacia retroattiva dell’estensione dei limiti di accesso a varie misure alternative stabiliti dall’art. 4-bis ord. penit. (compreso l’effetto indiretto rappresentato dal divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, c.p.p.) con riguardo ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019; a commento della quale, v., per tutti, V. MANES, F. MAZZACUVA, Irretroattività e libertà personale: l'art. 25, secondo comma, Cost., rompe gli argini dell'esecuzione penale, in 108 Marilisa D’Amico e Stefano Bissaro presentare serissimi problemi di compatibilità con la sentenza Viola c. Italia, il cui confronto a questo punto, come visto, la Corte non potrebbe più evitare. L’accoglimento, in altre parole, si presenta a nostro avviso come la soluzione più lineare, in ragione della connessione che lega intimamente l’odierna questione al caso deciso con la sentenza n. 253/2019. E tuttavia, come era accaduto in occasione della pronuncia sui permessi premio, non vi è chi non veda come un accoglimento introdurrebbe il serio problema di una eventuale applicazione dell’istituto della illegittimità consequenziale, per colpire anche gli ulteriori reati contenuti nell’art. 4-bis oppure per far venire meno l’ostatività anche nei confronti dei benefici penitenziari che si collocano, come le misure alternative, “in mezzo al guado”, tra la tappa iniziale, il permesso premio, e la tappa finale, la liberazione condizionale, appunto. Vi potrebbe essere però un’altra possibilità, evidenziata anche nella relazione introduttiva di Marco Ruotolo: il ricorso, in questo caso, alla “nuova” tecnica decisoria della sospensione del giudizio, con rinvio a nuovo ruolo e richiesta di intervento al legislatore. Come è noto, la Corte ha adottato questo schema decisorio in due occasioni: nel primo e più noto caso, relativo all’incriminazione dell’aiuto al suicidio contenuta nell’art. 580 c.p., il legislatore non è intervenuto nel termine previsto dalla Consulta, la quale si è quindi trovata costretta a correggere, ex se, la fattispecie penale oggetto di censura31; in un secondo caso, in cui si discuteva della legittimità costituzionale (e convenzionale) della comminatoria della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa32, la Corte ha analogamente rinviato la trattazione della questione di un anno, ribadendo come spetti, in prima battuta, al legislatore il compito di correggere il bilanciamento espresso dalla normativa impugnata33. Non è ovviamente questa la sede per chiedersi se in questo ulteriore caso il Parlamento seguirà con maggior responsabilità l’indicazione della Corte costituzionale; vi è però un elemento dell’ordinanza n. 132/2020 che fin d’ora è possibile sottolineare e che, per certi versi, avvicina il caso in parola all’odierna questione di costituzionalità sull’ergastolo ostativo: con la citata ordinanza, infatti, la Corte ha ritenuto il bilanciamento sotteso al combinato disposto di cui agli artt. 595, comma 3, c.p. e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 «ormai inadeguato, anche alla luce della copiosa giurisprudenza della Corte EDU»34. E il richiamo alla giurisprudenza convenzionale, per quanto già detto sull’importanza del caso Viola c. Italia, appare particolarmente appropriato se esaminato in relazione alla questione sollevata dalla Corte di Cassazione sull’art. 4-bis; del caso Viola c. Italia la Corte costituzionale potrebbe, infatti, valorizzare il passaggio in cui i Giudici Sistema Penale, 2020. 31 Cfr. ord. n. 207/2018 e sent. n. 242/2019, su cui, volendo, M. D’AMICO, Il “fine vita” davanti alla Corte costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici (Considerazioni a margine della sent. n. 242 del 2019), in Osservatorio AIC, fasc. 1, 2020. 32 Su cui, v. G. L. GATTA, Carcere per i giornalisti: la Corte costituzionale adotta lo ‘schemaCappato’ e passa la palla al Parlamento, rinviando l'udienza di un anno, in Sistema Penale, 2020. 33 Cfr., in particolare, ord. n. 132/2020, Considerato in diritto, §8. 34 Cfr., in particolare, ord. n. 132/2020, Considerato in diritto, §7. Il “commiato” dell’ergastolo ostativo? 109 europei hanno espresso preferenza per una modifica di tipo legislativo35 e quindi servirsi dello strumento del rinvio dando tempo proprio al Parlamento per modificare l’attuale disciplina in tema di ostatività nell’accesso alla liberazione condizionale. Si tratterebbe, peraltro, di una soluzione in grado di conciliare, ad un tempo, sia l’esigenza di ricondurre nell’ambito della legalità costituzionale un congegno normativo della cui illegittimità costituzionale è oggi difficile dubitare, sia l’esigenza di rispettare lo spazio della discrezionalità legislativa, in una materia, quella dell’esecuzione della pena, in cui valgono le garanzie formali di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. In conclusione, non si può trascurare un dato di ordine generale, che attiene al particolare momento storico in cui la Corte è nuovamente chiamata a giudicare della legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo. Da alcuni anni, infatti, la Corte costituzionale si è ritagliata un ruolo di rilievo in quella che taluno ha definito come una vera e propria “rivoluzione culturale” nell’approccio all’universo penitenziario36: con le proprie pronunce37, la Corte ha contribuito ad innalzare un argine contro la diffusione di ideologie “carcerocentriche”, in alcuni casi favorite da improvvide scelte dello stesso decisore politico38; quest’ultimo, in effetti, sembra talora appiattirsi, ignorando l’art. 27, terzo comma, Cost., su una visione semplicistica dei fenomeni criminali e della loro necessaria repressione ad opera dello Stato, lasciando così il campo all’affermarsi di tesi discutibili, di dubbia conformità a Costituzione, come quella per cui “con i mafiosi si deve buttare la chiave”. Il tema, in realtà, è invece molto complesso ed intreccia, come si è cercato di evidenziare nelle precedenti pagine, una fitta ed eterogenea trama di interessi costituzionali che non possono essere radicalmente sacrificati, l’uno in favore dell’altro. Anche per questa ulteriore ragione, in definitiva, i tempi sembrano ormai maturi perché si intervenga sull’art. 4-bis per la parte relativa all’accesso alla liberazione condizionale, così garantendo, nel solco tracciato dal titolo del seminario, che il fine della pena, previsto dall’art. 27, terzo comma, Cost., possa tradursi in concreto anche nella fine della pena. 35 Cfr., ancora, Corte EDU, Prima Sezione, Viola c. Italia n. 2, ric. n. 77633/16, sent. 13 giugno 2019, def. 5 ottobre 2019, §143. 36 Cfr. la memoria presentata, in qualità di amicus curiae, dall’Associazione Antigone. 37 V., in particolare, A. PUGIOTTO, Due decisioni radicali della Corte costituzionale in tema di ostatività penitenziaria: le sentenze nn. 253 e 263 del 2019, in Rivista AIC, 1/2020. 38 Preziose le riflessioni proposte sul tema da V. MANES, L'estensione dell'art. 4-bis ord. penit. ai delitti contro la a.: profili di illegittimità costituzionale, in Dir. Pen. Cont., 2019. LA PRESUNZIONE ASSOLUTA DI PERICOLOSITÀ SOCIALE (DI NUOVO) ALLA PROVA DELLA CORTE COSTITUZIONALE di ILARIA DE CESARE SOMMARIO: 1. Quali interrogativi. - 2. Differenze tra la decisione n. 253/2019 della Corte costituzionale e la quaestio pendente. - 3. Risocializzazione e automatismi: perché accogliere il ricorso. - 4. Oltre l’accoglimento: la necessità di un intervento legislativo. 1. Nel giugno 2020 la Corte costituzionale è stata investita di una questione di legittimità costituzionale in via incidentale, con riferimento agli artt. 3, 27 e 117 Cost., «degli articoli 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge n. 354 del 1975 e dell’articolo 2 del decreto-legge n. 152 del 1991 […] nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale»1. Numerosi sono i profili che questa nuova rimessione, in generale riferita al c.d. ergastolo ostativo, pone all’attenzione della Corte costituzionale2. Nelle poche battute che seguiranno l’attenzione verrà circoscritta a due particolari aspetti: quali differenze (e quali similitudini) intercorrono tra la questione decisa con la sent. n. 253/20193 e quella attualmente pendente e quali principi costituzionali condurrebbero ad un accoglimento anche di quest’ultima4. Con una breve riflessione finale sul (l’eventuale) “dopo accoglimento”. 2. In via del tutto generale, deve ricordarsi che l’art. 176 c.p. ammette i condannati a pena detentiva alla liberazione condizionale, purché vi sia sicuro  Assegnista di ricerca di Diritto costituzionale, Università degli Studi di Pavia Corte di Cassazione, Prima sezione penale, ordinanza 18 giugno 2020, n. 100. 2 Per un’esaustiva illustrazione dei profili derivanti dalla questione sottoposta alla Corte costituzionale si rinvia alle relazioni introduttive di M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo è costituzionale?, e G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? Spunti per una discussione, in questo volume. 3 Nella quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della medesima disciplina oggetto dell’attuale giudizio, in riferimento, però, alla misura dei permessi premio. Le argomentazioni contenute in tale decisione sono state puntualmente richiamate dal giudice a quo per motivare la rilevanza e la non manifesta infondatezza della quaestio ora pendente. Cfr. punti 9 e 16-17 del Considerato in diritto, ord. n. 100/2020, Cass., I sez. Pen. 4 In passato la Corte aveva salvato l’ergastolo ostativo, in quanto «la preclusione prevista dall’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, dell’ordinamento penitenziario non è conseguenza che discende automaticamente dalla norma censurata, ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo: tale disciplina non preclude pertanto in maniera assoluta l’ammissione al beneficio, in quanto al condannato è comunque data la possibilità di cambiare la propria scelta». Cfr. punto 4 del Considerato in diritto, sent. 135/2003. 1 La presunzione assoluta di pericolosità sociale 111 ravvedimento ed abbiano scontato un certo limite temporale di detenzione che, per l’ergastolo, è fissato in 26 anni. Questa possibilità viene esclusa, ai sensi dell’art. 2 d.l. 152 del 1991, per i condannati ad uno dei delitti ex art. 4-bis ord. penit., se non collaboranti con la giustizia ex art. 58-ter ord. penit., ove possibile5. La collaborazione deve sussistere anche per poter accedere alle misure alternative alla detenzione ivi richiamate. Dunque, l’istituto del c.d. ergastolo ostativo è dato dagli artt. 4-bis ord. penit. e 2 d.l. 152 del 19916. Nella decisione n. 253/2019 la Corte costituzionale esclude che oggetto della questione prospettatale possa essere l’ergastolo ostativo, in quanto tra le disposizioni censurate dai giudici a quibus non figurava l’art. 2, comma 2, d.l. 152 del 19917. Ebbene, questo passaggio della motivazione non appare argomento decisivo per prospettare una netta distinzione tra la quaestio attualmente pendente e quella decisa nel 2019. Ad essere ostativi, invero, sono anzitutto i delitti elencati all’art. 4-bis ord. penit., i quali impediscono la concessione dei benefici penitenziari e della liberazione condizionale tutte le volte in cui non vi sia collaborazione del condannato, indipendentemente dalla pena, temporanea o perpetua, inflitta. La questione scrutinata nella decisione del 2019 aveva ad oggetto, infatti, tutte le pene detentive – come sottolinea la stessa Corte8 – ivi compreso, pertanto, l’ergastolo ostativo. Anche per quest’ultimo, ad ogni modo, il giudizio di costituzionalità era circoscritto alla concessione dei permessi premio e, dunque, non alla sua forma più estrema di pena perpetua de facto, che consegue al mancato accesso alla liberazione condizionale. A ben guardare, oggetto centrale della pronuncia del 2019 è il carattere assoluto della presunzione sul collegamento con l’organizzazione criminale (quando il reo è condannato per un delitto associativo o per reati di «contesto mafioso»), che consegue alla mancata collaborazione ex art. 58-ter ord. penit.9. E nel valutarla, assumono particolare rilievo le parole della Corte, la quale, dapprima ricorda il proprio consolidato orientamento per cui le presunzioni violano il principio di eguaglianza se «arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondo a dati di esperienza generalizzati», e successivamente afferma che «il decorso del tempo L’art. 4-bis, comma 1 bis, ord. penit. stabilisce, oggi, che i benefici penitenziari possono essere concessi ai condannati per i delitti di cui al comma 1, anche in caso di impossibilità di utile collaborazione o di irrilevanza della medesima, sempre che sia stata esclusa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e che per ciascuna ipotesi di collaborazione ricorrano le ulteriori e specifiche condizioni previste dal medesimo comma. 6 L’ergastolo ostativo è quella forma di pena perpetua che «sulla base di una presunzione assoluta di persistente pericolosità del condannato non collaborante, esclude qualsiasi possibilità di ritorno – sia temporaneo sia definitivo – alla società libera». Così E. DOLCINI, La pena perpetua nell’ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, in Riv. Trim. Dir. Pen. Cont., n. 3, 2018, 7. 7 Punto 5.2 del Considerato in diritto, sent. n. 253/2019. 8 Ibidem 9 Si rinvia ai punti 7.2, 7.3 e 8 del Considerato in diritto, sent. n. 253/2019 C. Cost. Sul punto anche A. PUGIOTTO, La sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale: una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria, in Stud. Iuris., 2020, 399-406; ID, Alcune buone ragioni per un allineamento tra Roma e Strasburgo, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti, Forum di Quad. Cost., Rassegna n. 10/2019, 147. 5 112 Ilaria De Cesare nell’esecuzione della pena esige una valutazione in concreto, che consideri l’evoluzione della personalità del detenuto. Ciò in forza dell’art. 27 Cost., che in sede di esecuzione è parametro costituzionale di riferimento»10. Aprire al condannato non collaborante la possibilità di accedere al permesso premio significa eliminare l’automatismo preclusivo discendente dalla mancata collaborazione. La stessa disciplina si presenta, a bene vedere, anche quale oggetto della quaestio attualmente pendente innanzi alla Corte costituzionale11, sebbene questa volta in riferimento alla liberazione condizionale. Non è, dunque, la presunzione assoluta a distinguere i due giudizi di legittimità costituzionale, quanto, piuttosto, la natura degli istituti coinvolti e l’incidenza che sui medesimi ha la suddetta presunzione. Come noto, infatti, i permessi premio attengono al novero dei benefici penitenziari che possono essere concessi ai detenuti nel corso dell’esecuzione della pena, e sono strumenti strettamente collegati alla finalità di rieducazione e risocializzazione dei condannati12. La liberazione condizionale, invece, è una causa di estinzione della pena, ossia un istituto che comporta l’estinzione della punibilità in concreto, in quanto interviene a seguito di sentenza definitiva di condanna e ne penalizza (in parte) l’esecuzione13. Nel caso dei benefici penitenziari, dunque, si ha una modalità di esecuzione della pena. La liberazione condizionale, invece, comporta la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva per un certo lasso di tempo, trascorso il quale senza che il condannato abbia commesso un nuovo reato, la pena si estingue14. La diversità tra le misure costituisce la vera differenza tra le questioni prospettate alla Corte costituzionale, poiché l’impossibilità di accedere alla liberazione condizionale trasforma l’ergastolo ostativo da pena perpetua de iure a pena perpetua de facto, dal momento che alcuno scrutinio sul ravvedimento può essere condotto nei confronti del condannato non collaborante con la giustizia15. Tali detenuti, dunque, per potersi vedere riconosciuta la possibilità (e di mera possibilità si parla, restando impregiudicato l’accertamento dei requisiti disposti dall’art. 176 c.p.) di accedere alla liberazione condizionale devono necessariamente collaborare con la giustizia, salve le ipotesi di collaborazione impossibile. In considerazione delle esposte conseguenze, ben più gravi, che il mancato accesso alla liberazione condizionale produce per un condannato, sembra che l’attenzione della Corte, nell’esaminare la quaestio attualmente pendente, debba concentrarsi sul seguente interrogativo: è ammissibile una presunzione assoluta di pericolosità sociale, idonea persino a trasformare l’ergastolo a pena perpetua de facto? 10 Punto 8.3 del Considerato in diritto, sent. n. 253/2019. In particolare, punto 17.2 del Considerato in diritto, ord. n. 100/2020, Cass., I sez. pen. 12 F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, IX ed., Wolters Kluwer-CEDAM, Padova 2015, 779-780. 13 F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 798-799. 14 F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 817. 15 Punto 17.1 del Considerato in diritto, ord. n. 100/2020, Cass., I sez. pen. 11 La presunzione assoluta di pericolosità sociale 113 3. La differenza appena descritta tra le due questioni non impedisce, ma anzi rafforza, la possibilità di ricorrere alla ratio della sent. 253/2019. Per quanto in tale pronuncia la Corte abbia più volte sottolineato come l’istituto attenzionato fosse solo quello del permesso premio, le argomentazioni che hanno determinato l’accoglimento dei ricorsi nel 2019 ben si prestano ad essere estese alla quaestio ad oggi pendente16. Ed invero, è proprio la circostanza per cui l’ergastolo diviene pena perpetua de facto a rafforzare l’opportunità della suggerita estensione. Da questa prospettiva due sono i profili di illegittimità che, più di tutti17, si prestano ad essere impiegati per un accoglimento della questione di costituzionalità: la violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., in ragione del totale annullamento di una valutazione del percorso di risocializzazione compiuto dal condannato (non solo all’ergastolo), e quella dell’art. 3 Cost., legata all’illegittimità di una presunzione assoluta che non trova fondamento nell’id quod plerumque accidit. Per quanto riguarda il primo aspetto, deve ricordarsi come ad oggi dottrina e giurisprudenza tendano a convergere sulla teoria della polifunzionalità della pena, per la quale il sistema penale, senza abbandonare l’idea retributiva e generalpreventiva della sanzione, ne accoglie, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost., anche la concezione specialpreventiva, volta a favorire il reinserimento del reo nella società18. Le diverse funzioni della pena, peraltro, sono ritenute diversamente distribuite, a seconda della fase di riferimento: per la formulazione legislativa del reato e la commisurazione giudiziale della pena prevalgono la funzione retributiva e generalpreventiva, per l’esecuzione assume risalto la prevenzione speciale19. Pertanto, se nella fase esecutiva occorre dare centralità alla rieducazione, ci si deve domandare come possa essere conforme all’art. 27, terzo comma, Cost. la presunzione assoluta di mancata rescissione del sodalizio criminale basata sulla mancata collaborazione del condannato, che, impedendo l’accesso alla liberazione condizionale, rende del tutto irrilevante il percorso rieducativo compiuto. Questo aspetto tradisce la stessa disciplina della liberazione condizionale. Come chiarito dalla Corte costituzionale, il sicuro ravvedimento, introdotto all’art. 176 c.p. in sostituzione della buona condotta, è servito a riavvicinare la previsione alla funzione rieducativa della pena, sganciandola da una logica esclusivamente premiale20. Nel caso del condannato all’ergastolo, la presunzione ha una 16 Cfr. A. PUGIOTTO, La sent. n. 253, cit., 406. A. PUGIOTTO, Come e perché eccepire l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, in E. DOLCINI, E. FASSONE, D. GALLIANI, P. PINTO DE ALBUQUERQUE, A. PUGIOTTO (a cura di), Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, Giappichelli, Torino 2019, 110-124. 18 F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 721-722, secondo cui il punto centrale del diritto penale della libertà resta comunque la concezione retributiva della sanzione; P. PITTARO, Art. 27, in S. BARTOLE, R. BIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, II ed., CEDAM, Padova 2008, 280-281. 19 P. PITTARO, Art. 27, cit., 281. 20 Punto 4 del Considerato in diritto, sent. n. 273/2001. La buona condotta, infatti, si limita a verificare il comportamento del soggetto entro le mura degli istituti di detenzione, mentre il sicuro ravvedimento è un qualcosa di più, consistendo in un comportamento attivo del condannato che dimostri la «convinta revisione critica delle pregresse scelte criminali e a formulare in termini di certezza – o di elevata e qualificata probabilità confinante con la certezza – un serio, affidabile e ragionevole giudizio prognostico» che il condannato tenga una condotta volta ad osservare le leggi. 17 114 Ilaria De Cesare conseguenza ancora più grave, annullando del tutto la possibilità di reinserimento nella società, fintanto che permane l’assenza di collaborazione possibile 21. In senso opposto, la stessa Corte ha già sottolineato come nessuna ragione di prevenzione generale o difesa sociale possa spingersi sino al punto di sacrificare la rieducazione, sebbene le diverse finalità della pena possano essere variamente modulate a seconda dei casi22. La presunzione assoluta in esame elide il percorso rieducativo svolto dal condannato, limitandosi a fissare un istante23, quello dell’illecito penale, fintantoché permanga la mancata collaborazione. Il secondo aspetto che la Corte costituzionale potrebbe valorizzare nell’accoglimento della quaestio è che l’irrilevanza del percorso rieducativo, legandosi ad un automatismo legislativo in tema di esecuzione della pena, non sembra affatto rispettare i principi richiesti dalla stessa giurisprudenza costituzionale consolidata per superare il vaglio di proporzionalità e ragionevolezza ex art. 3 Cost. Se le presunzioni assolute dalle quali dipende la possibilità di riacquistare la libertà personale, andando a toccare un diritto fondamentale dell’individuo, devono poggiare le basi sull’id quod plerumque accidit, nella disciplina in esame questo profilo manca del tutto. L’esperienza, infatti, ci consegna una grande varietà di situazioni, dalle quali discende che, nell’ambito del percorso rieducativo di un soggetto condannato per delitti di associazione di stampo mafioso, l’id quod plerumque accidit è dato dall’assunto per cui nessun caso è davvero uguale ad un altro24. In questo senso fornisce utili indicazioni già la decisione n. 306/1993, nella quale la Corte evidenzia non solo come la collaborazione sia uno strumento di politica criminale e non indice di colpevolezza o misura per individualizzare il trattamento sanzionatorio, ma soprattutto enuncia la fallacia del ragionamento “mancata collaborazione = mancato ravvedimento”25. Considerato che dall’assenza di collaborazione non può discendere automaticamente la certezza di un mancato ravvedimento, non dovrebbe impedirsi al giudice competente di andare a vagliare il percorso rieducativo del reo, anche quando la collaborazione sia astrattamente possibile. Cfr. R. BETTIOL, F. TURLON, 176, in G. FORTI, S. SEMINARA, G. ZUCCALÀ, Commentario breve al Codice Penale, IV ed., Wolters Kluwer-CEDAM, Milano-Padova 2017, 699. 21 A. PUGIOTTO, Come e perché, cit., 115. 22 Punto 10 del Considerato in diritto, sent. n. 306/1993. 23 L’espressione è tratta da P. VERONESI, Se la pena è davvero “a oltranza”: i (seri) dubbi di costituzionalità sull’ergastolo e le preclusioni ostative, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre?, cit., 175. 24 S. CARNEVALE, Diritto al giudice e habeas corpus penitenziario: l’insostenibilità delle presunzioni assolute sui percorsi individuali, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre?, cit., 60-62. Così anche A. PUGIOTTO, Come e perché, cit., 116117. 25 Punto 13 del Considerato in diritto, sent. n. 306/1993. In questo stesso punto, la Corte afferma (orientamento confermato anche nella sent. n. 273/2001) che la collaborazione «consente di presumere [corsivo aggiunto] che chi la presta si sia dissociato». Dunque, la collaborazione non è da sola sufficiente a provare la sussistenza della dissociazione. Si noti, però, che il caso aveva ad oggetto l’art. 15 del d.l. 306 del 1992, il quale disponeva la revoca dei benefici già concessi ai condannati per uno dei delitti ostativi e non collaboranti con la giustizia. La presunzione assoluta di pericolosità sociale 115 Infine, appare doveroso un accenno alla decisione di Strasburgo sul caso Viola c. Italia26, alla quale rinvia il richiamo all’art. 117 Cost. operato dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione. Sebbene i profili sin qui evidenziati siano da soli sufficienti a fondare un eventuale accoglimento della quaestio, la pronuncia della Corte EDU, andando a censurare proprio la presunzione di pericolosità da cui dipende la trasformazione dell’ergastolo ostativo in pena perpetua de facto, risulta un precedente utile per rafforzare il convincimento del giudice costituzionale. Il caso Viola, d’altronde, si presta ad essere considerato espressione di giurisprudenza consolidata27, volta a qualificare come trattamento inumano o degradante qualsiasi sistema sanzionatorio che elimini o limiti eccessivamente la possibilità di un riesame della pena. Inoltre, tale decisione si conclude con un preciso invito, rivolto al legislatore italiano, di eliminare la violazione strutturale della CEDU. 4. Nella decisione n. 253/2019 la Corte costituzionale, però, non si è limitata a dichiarare l’illegittimità della presunzione assoluta di cui all’art. 4-bis ord. penit. rispetto ai permessi premio, ma ha circoscritto entro limiti molto stringenti la possibilità di accedervi per il condannato non collaborante, imponendo anche la prognosi di una non ripresa del legame con l’associazione mafiosa28. Difficile immaginare che la Corte non scelga questa strada anche per una misura ben più “permissiva” per il condannato (e quindi potenzialmente più pericolosa per la tutela della sicurezza collettiva) quale la liberazione condizionale29. Assumendo tale scenario come più probabile in caso di accoglimento della quaestio, si auspica un intervento legislativo sulla collaborazione, volto a contemperare le diverse esigenze in gioco. Non può ignorarsi, invero, la pericolosità che ancora oggi riveste il fenomeno mafioso, che si presenta fortemente collegato al territorio e, spesso, rafforzato dai legami familiari degli associati. Inoltre, è un “patto di sangue”, idealmente destinato a durare per la vita. Infine, i dati dell’esperienza mostrano come la stessa collaborazione possa essere opportunistica, fornita entro certi limiti al solo fine di guadagnarsi la possibilità di accesso alla liberazione condizionale o agli altri benefici penitenziari. La collaborazione, dunque, si presenta ancora quale utile strumento di politica criminale, volto a perseguire esigenze di tutela della collettività e repressione del crimine. Al contempo, la sua estraneità al finalismo rieducativo della pena determina l’opportunità di una costruzione come istituto premiale e di una trasformazione della presunzione in relativa. Tra le possibili strade, particolarmente interessante appare la proposta di richiedere, in caso di mancata ma possibile collaborazione, non la prova sull’inesistenza di legami con l’associazione (come 26 Ricorso n. 77633/16, Marcello Viola c. Italia (n. 2), 13 giugno 2019. Per le ragioni che inducono a tale convincimento si consenta di rinviare a I. DE CESARE, Il possibile dialogo tra Corte costituzionale e Corte EDU sulla (il)legittimità dell’ergastolo ostativo, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre?, cit., 83-88. 28 Punto 10 del Considerato in diritto, sent. n. 253/2019: «il regime probatorio rafforzato, qui richiesto, deve altresì estendersi all’acquisizione di elementi che escludono […] altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali». 29 Così M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo, cit., e G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità, cit., entrambi in questo volume. 27 116 Ilaria De Cesare conclude la sent. 253/2019), ma la prova che ne accerti la sussistenza, per negare l’accesso alla liberazione30, eventualmente anche prevedendo degli indizi di prova qualificati. Questa soluzione, peraltro, non finirebbe per allargare le maglie della liberazione condizionale, rimanendo impregiudicato l’accertamento dei requisiti per la sua concessione, tra i quali vi è anche un giudizio prognostico sulla possibilità che il condannato torni a delinquere una volta ottenuta la libertà. 30 M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo, cit. LA “FUNZIONE OSTATIVA” DELLA RIEDUCAZIONE di FEDERICA DE SIMONE  SOMMARIO: 1. L’ergastolo ostativo di nuovo al centro del dibattito. - 2. Un duplice equivoco di fondo. - 3. Criticità costituzionali dell’ergastolo. - 4. I chiaroscuri della sent. n. 253/2019. - 5. Dalla presunzione alla rieducazione. 1. La legge n. 3 del 2019, oggetto di aspre critiche a partire già dalla denominazione di Spazzacorrotti assegnato al decreto legge da cui ha tratto origine, nell’estendere il regime di preclusioni previsto dall’art. 4-bis ord. penit. ad alcuni reati contro la pubblica amministrazione, ha avuto il pregio involontario di riportare al centro del dibattito giuridico l’opportunità di espungere l’istituto dell’ergastolo ostativo dall’ordinamento. L’equiparazione de iure dei crimini dei colletti bianchi alla criminalità organizzata1 ha costituito, infatti, l’occasione per far emergere il profondo disagio nei confronti della disposizione. Non che la questione non fosse mai stata affrontata prima, tuttavia sia la Corte costituzionale2, nei suoi tentativi di salvare l’art. 4-bis ricorrendo a pronunce di illegittimità solo parziale, sia la giurisprudenza, con le sue costanti prese di posizione contro qualsiasi ipotesi di interpretazione restrittiva, avevano determinato una sorta di accettazione e contestualmente di rinuncia all’idea di un provvedimento abrogativo. Il rinnovato interesse per la questione contribuisce a far emergere tutta la fallacia argomentativa posta alla base dell’istituto, con la conseguenza che l’unica opzione interpretativa possibile dovrebbe portare - ad avviso di chi scrive - a una declaratoria di illegittimità costituzionale totale, ove il Parlamento non si assumesse prima la responsabilità di un provvedimento abrogativo. Il contrasto assoluto con i principi fondamentali si inserisce, infatti, in un quadro più pregnante delle garanzie costituzionali, in cui la funzione rieducativa della pena assume un ruolo centrale. Ciò imporrebbe anche una rilettura in senso palidonico della natura giuridica delle norme relative all’esecuzione penale: la loro ricollocazione nell’alveo del diritto sostanziale avrebbe importanti ricadute in termini di operatività dei principi, a partire dall’irretroattività3. Non solo, ma si rimedierebbe all’elusione del principio di legalità a cui a tutt’oggi si assiste, rispetto a istituti definiti lato sensu penitenziari e affidati alla discrezionalità dell’amministrazione nonostante le importanti ricadute sui diritti dei detenuti. L’idea di fondo, sviluppata nel presente contributo, parte dalla considerazione che molteplici siano i profili di illegittimità che emergono da una disamina logico ermeneutica dell’art. 4-bis ord. penit. Tuttavia, nonostante siano percorribili due opzioni interpretative, una in senso stretto che fa leva sugli aspetti di illegittimità  Ricercatrice in Diritto penale, Università della Campania L. Vanvitelli. MANES V., L’estensione dell’art. 4-bis ord. penit. ai delitti contro la P.A.: profili di illegittimità costituzionale, in Riv. Dir. pen. Cont., 2019, n. 2, 107. 2 Cfr. sentenze n. 306/1993, n. 273/2001, n. 135/2003. 3 Cfr. sentenza n. 32/2020. 1 118 Federica De Simone parziale, una in senso ampio fondata sui motivi di illegittimità totale, si ritiene quest’ultima prevalente4. Il mantenimento o meno dell’istituto nell’ordinamento, infatti, può avere conseguenze idonee a incidere sulla tenuta complessiva del sistema e il contrasto con il principio di rieducazione non può che essere totale. 2. In via preliminare, sembra opportuno sgombrare il campo da un duplice equivoco di fondo che riguarda la fisionomia dell’ergastolo in generale e lo stesso art. 4-bis ord. penit. Il primo fraintendimento riguarda la coesistenza di due autonome ipotesi di sanzione detentiva perpetua, a seguito dell’introduzione del regime preclusivo ad opera del d. lgs. n. 152 del 1991. Allo stato sarebbero vigenti, infatti, sia l’ergastolo ordinario, in cui al condannato è ugualmente assicurato il trattamento finalizzato alla rieducazione e alla possibilità di tornare in libertà dopo 26 anni di reclusione a seguito della concessione della liberazione condizionale, sia l’ergastolo ostativo, per il quale nessun beneficio penitenziario è concedibile e, conseguentemente, nessuna rieducazione è di fatto prevista. Invero, già la Corte di Cassazione ha ritenuto «dubbia [la] configurabilità di un'autonoma tipologia di pena qualificabile come ergastolo ostativo»5, affermazione che ha trovato l’avallo implicito anche della Corte EDU nella pronuncia Viola c. Italia, laddove si è affermata l’opportunità di una riforma normativa. Dal fatto che l’oggetto dell’intervento suggerito è genericamente indicato nell’istituto dell’ergastolo, dovrebbe dedursi che tutto il complesso di norme dettate in tema di detenzione perpetua debba essere profondamente modificato, senza alcuna distinzione tra ergastolo ordinario ed ostativo6. Seppure la reductio ad unum della massima sanzione potrebbe sembrare una logica conclusione7, osta però a tale ricostruzione la diversità di ratio posta alla base delle due diverse forme di ergastolo. Nell’istituto ordinario, infatti, la prevalenza degli scopi di neutralizzazione del reo non comporta la negazione della funzione rieducativa, tant’è che è assicurato un adeguato trattamento, ivi compresa la possibilità di ottenere i benefici premiali. Diversamente, la mancanza di tale possibilità e la minima offerta trattamentale prevista per l’ergastolo ostativo sottintendono una valutazione normativa esclusivamente di tipo punitivo, che non riguarda il fatto di reato quanto piuttosto la scelta del reo di non collaborare. Il secondo malinteso concerne l’erroneo convincimento che l’art. 4-bis ord. penit. costituisca la disciplina di riferimento della figura dell’ergastolo ostativo. A L’opzione restrittiva, sino ad oggi prevalsa soprattutto nelle decisioni del formante giurisprudenziale, tiene in conto l’illegittimità parziale della norma, rilevandone singoli profili di criticità, quali il catalogo dei reati a cui si estende il provvedimento, il carattere assoluto della preclusione, i rapporti tra la pericolosità sociale e l’istituto della collaborazione. Diversamente, una lettura in senso ampio pone una questione di illegittimità totale dell’ergastolo ostativo per contrasto con i principi fondamentali. Cfr. DOLCINI E., La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, in www.penalecontemporaneo.it, 17 dicembre 2018, 15 ss. 5 Cass. pen., sentenza n. 18206/2014. 6 Corte EDU, Viola c. Italia, sentenza del 13 giugno 2019 (ricorso n. 77633/16), §143. 7 PALAZZO F., L’ergastolo ostativo nel fuoco della quaestio legitimitatis, in BRUNELLI G., PUGIOTTO A., VERONESI P. (a cura di), Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti, Forum. Quad. Cost. Rass., 2019, fasc. 10, 7. 4 La “funzione ostativa” della rieducazione 119 voler rispettare il dettato della rubrica, infatti, la norma contiene “solo” il divieto di applicazione di misure premiali che in condizioni ordinarie sono concesse in virtù della loro natura di strumenti utili alla rieducazione del reo. È pur vero che la preclusione consegue alla commissione di reati particolarmente gravi, per i quali è spesso irrogata la pena dell’ergastolo, tuttavia non necessariamente è così. Nel catalogo dei reati indicati nell’art. 4-bis ord. penit. sono ormai comprese anche fattispecie per le quali la sanzione massima prevista è di sei anni di detenzione, come nel caso della corruzione per l’esercizio della funzione. Non si può negare che l’impossibilità di un qualsiasi contatto con l’esterno e la conseguente perdita anche minima di chance in termini rieducativi che l’ordinamento riserva a un ergastolano possano destare grandi perplessità, purtuttavia si dovrebbe mostrare scetticismo – ad avviso di chi scrive – anche e soprattutto quando un simile regime preclusivo trovi applicazione nei confronti di un reo destinato a tornare in libertà. In tal caso, infatti, si dovrebbero impiegare tutti gli strumenti rieducativi possibili, ivi compresi quelli premiali per perseguire senza riserve lo scopo della rieducazione e del reinserimento sociale del condannato. D’altronde, in un ordinamento in cui, alla luce del progressivo affermarsi del principio di umanità della pena, del principio della pena minima e del minimo pregiudizio, della progressione trattamentale, del diritto a una pena dignitosa come inderogabili corollari della rieducazione, già l’ergastolo sembra di per sé illegittimo8, il c.d. ergastolo ostativo non può che destare ulteriori perplessità. 3. E invece, la pena dell’ergastolo non è mai stata messa realmente in discussione9, nonostante l’evidente contrasto tra le posizioni del legislatore e quelle della Corte costituzionale. Mentre il potere legislativo non solo ha ritenuto opportuna l’introduzione della forma più severa di ergastolo, ma ne ha rafforzato nel tempo l’operatività estendo il catalogo dei reati ostativi e facendo così venire meno il carattere di eccezionalità dell’art. 4-bis ord. penit. in relazione alla finalità di contrasto alla criminalità organizzata, la Corte costituzionale, sia nel periodo in cui ha prevalso la teoria della polifunzionalità della pena, sia nell’attuale in cui è stata riconosciuta la pregnanza della funzione rieducativa, ha sempre cercato di mitigare gli effetti dell’ergastolo ostativo limitandone l’operatività. La giurisprudenza di legittimità, dal canto suo, ha assunto posizioni saldamente a difesa dell’istituto10, se non con rare eccezioni. In tema di violazione dei principi fondamentali, quando si parla di art. 4-bis ord. penit. la maggiore ipotesi di conflitto riguarda, con ogni evidenza, l’art. 27, comma 3, Cost. La dottrina sembra essere da sempre ben più di un passo avanti rispetto alla giurisprudenza costituzionale. Mentre quest’ultima solo in tempi recenti ha ritenuto FIANDACA G., Perché l’Europa può aiutare l’Italia a rendere il carcere meno ostile alla nostra Costituzione, in Il Foglio, 10 ottobre 2019. 9 DOLCINI E., La pena detentiva, cit., 20 ss. Anche il referendum abrogativo promosso nel 1981 dal partito Radicale non ebbe un risultato favorevole, poiché il 77,37% della popolazione si espresse contro l’abolizione della pena perpetua. 10 Ex multis, Cass. pen. sez. I, sentenza n. 27149/2016 e n. 7428/2017. 8 120 Federica De Simone prevalente la funzione rieducativa della pena, la prima, pur non avallando in toto le teorie abolizioniste sull’ergastolo in generale11, ha da sempre affermato l’illegittimità assoluta della perpetuità della sanzione detentiva ancor più nella sua speciale forma ostativa, rilevando l’evidente collisione con il fondamentale principio previsto della rieducazione. Non solo, ma autorevoli voci sono andate anche oltre, ritenendo che il canone costituzionale della rieducazione non sia l’unico profilo di contrasto, dovendosi verificare la legittimità dell’istituto anche in riferimento alla dignità, all’umanità, alla proporzione della pena, alla libertà di autodeterminazione, alla ragionevolezza12. Sembrerebbe addirittura che il dettato dell’art. 27, comma 3, Cost. debba cedere il passo alla previsione dell’art. 2 Cost.13, nella misura in cui, prima ancora di porsi un problema di rieducazione, l’ordinamento deve garantire il rispetto della dignità umana14. Anche la Corte edu, nella sentenza Viola c. Italia, ha ribadito che la sanzione penale in generale deve essere finalizzata alla realizzazione del principio di rieducazione e agli obiettivi di reinserimento sociale del reo, costituendo essi il fondamento dell’ordinamento italiano, nonché delle politiche penali europee15. Nel ripercorrerne le alterne vicende giuridiche, i giudici europei hanno osservato come la rilevanza costituzionale non abbia assicurato al principio rieducativo sempre un ruolo di primo piano16. La prevalente teoria polifunzionale della sanzione penale, infatti, non ha mai permesso di riconoscerne la portata assoluta ed esclusiva. Neppure il recente superamento17 di una simile interpretazione riduttiva, e il contestuale riconoscimento della centralità della rieducazione, hanno portato all’abolizione di istituti che, come l’art. 4 bis ord. penit., sono chiaramente in contrasto con il principio in parola18. Cionondimeno, la violazione dell’art. 3 Cedu va ravvisata proprio nella mancata prospettiva di rieducazione e di reinserimento sociale, connessi all’incomprimibilità dell’ergastolo ostativo, oltre che nella mancata attuazione del principio di progressione trattamentale. Quest’ultimo per la Corte edu costituisce una declinazione della funzione rieducativa19 ed è inequivocabilmente uno dei 11 DOLCINI E., La pena detentiva, cit., 11 ss.; FLICK G.M., Ergastolo ostativo: contraddizioni e acrobazie, in Riv. It. Dir. Proc. pen., 2017, 1505 ss.; PULITANÒ D., Minacciare e punire, in PALIERO C.E., VIGANÒ F., BASILE F., GATTA G. (a cura di), La pena, ancora: tra attualità e tradizione. Studi in onore di Emilio Dolcini, Giuffré, Milano 2018, 3 ss. 12 PALAZZO F., L’ergastolo, cit., 1. 13 DE SIMONE F., La sanzione detentiva. Dal modello securitario al modello trattamentale, Giappichelli, Torino 2018, 199. 14 PALAZZO F., L’ergastolo, cit., 1, in cui l’autore rileva anche la difficoltà di tracciare i rapporti di gerarchia assiologica e di derivazione logica tra gli stessi principi citati, laddove la rieducazione stessa potrebbe essere considerata un corollario della dignità, ovvero quest’ultima costituire un limite alla prima. Sul punto anche FIANDACA G., Perché l’Europa, cit., 2. 15 Corte EDU, Viola c. Italia, cit., §108. 16 Ibidem, §37. 17 Corte costituzionale., sentenza n. 149/2018. 18 La Corte EDU elenca le principali pronunce della Corte costituzionale in cui la questione di legittimità dell’art. 4-bis ord. penit. è stata sempre rigettata e richiama, inoltre, i progetti di riforma presentati e mai attuati. Cfr. Viola c. Italia, cit., §37 e 49. 19 Ivi, §112. L’orientamento era già stato anticipato nella decisione Murray e Hutchinson c. Regno Unito, al §101. La “funzione ostativa” della rieducazione 121 fondamenti del sistema penitenziario italiano, nonostante sia assurto al rango di principio solo sul finire degli anni novanta, quando la Consulta lo definì principio di non regressione trattamentale20. Strettamente connesso al tema della progressione trattamentale è il riferimento alla collaborazione con la giustizia, che, secondo la memoria presentata dal Governo italiano, costituisce proprio la chance di rieducazione e soprattutto di progressione trattamentale, mentre paradossalmente per la Corte europea fonda il limite estrinseco dello stesso principio di progressione. Stando a quanto affermato dai giudici europei, la possibilità offerta dall’art. 58ter ord. penit. di evitare il regime di preclusioni persegue esclusivamente finalità di prevenzione generale e tutela della collettività, non certo di rieducazione e progressione trattamentale. Si sarebbe potuto non arrivare alla Corte europea, dal momento che la stessa Corte costituzionale aveva già nel lontano 1997 affermato che «la liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell'ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell'ergastolo»21. La Consulta lasciava, così, intendere che ove fosse preclusa la possibilità di ottenere la liberazione condizionale, si sarebbe dovuto rilevare un contrasto con la previsione costituzionale dell’art. 27 Cost.22. La totale illegittimità dell’istituto in esame, poi, rileverebbe sotto l’ulteriore profilo della violazione dell’art. 117 Cost., nella sua veste di parametro interposto rispetto all’art. 3 CEDU, ritenuto leso proprio dalla Corte EDU nella sentenza Viola c. Italia. Invero, la questione non è stata ritenuta rilevante né dalla Suprema Corte nell’ordinanza di rimessione n. 59 del 2018, né dalla stessa Corte costituzionale nella pronuncia n. 253/2019. Rispetto all’ipotesi di verificare tale profilo di illegittimità, nella sentenza da ultimo citata la Corte ha operato la scelta, meramente tecnicista, di tenersi nei confini del petitum, interpretando in maniera rigida il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, laddove la prassi dimostra come la scelta avrebbe potuto essere di segno diverso23. Probabilmente la Consulta non ha voluto mantenersi nel solco della sentenza Viola c. Italia, preferendo discostarsene, pur addivenendo, poi, alla identica conclusione in merito all’opportunità che il regime preclusivo previsto dall’art. 4-bis ord. penit. si tramuti da assoluto a relativo. O, ancora, non ha voluto porre ulteriormente l’accento su una norma convenzionale così altamente simbolica come l’art. 3 CEDU. Prova ne è anche la circostanza che i giudici costituzionali evitano accuratamente qualsiasi richiamo alla decisione della Corte di Strasburgo. Un istituto che subordina il bene supremo della libertà personale a un ricatto non può essere considerato rispettoso dei canoni costituzionali, mentre si risolve 20 Corte costituzionale, sentenza n. 445/1997. Corte costituzionale, sentenza n. 161/1997. 22 L’orientamento era già stato espresso in Corte costituzionale, n. 264/1974. 23 CATELANI E., La determinazione della questione di legittimità costituzionale nel giudizio incidentale, Giuffrè, Milano 1993, 104-115; RUGGERI A., SPADARO A., Lineamenti di giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino 2019, 274. 21 122 Federica De Simone senz’altro in un trattamento disumano e degradante24. Tale è anche una modifica normativa che incide sulla qualità e quantità del trattamento sanzionatorio senza perseguire lo scopo esclusivo e inderogabile della rieducazione, laddove la pena può essere flessibile - soprattutto in fase di esecuzione - solo se in un’ottica di favor rei rispetto al grado di cambiamento raggiunto dal condannato25. 4. La recente trasformazione26 della presunzione prevista nell’art. 4-bis ord. penit. da assoluta a relativa rende meno evidente il conflitto con il principio di umanizzazione della pena, ma a ben guardare potrebbe ridurre considerevolmente la portata innovativa della pronuncia stessa. Il trasferimento della discrezionalità dal potere legislativo a quello giudiziario, chiamato a valutare caso per caso l’opportunità della concedibilità del beneficio penitenziario, oltre alla previsione a carico del reo dell’onere della prova circa l’interruzione dei rapporti con la criminalità organizzata, infatti, potrebbe determinare in concreto che le possibilità di accedere alle misure premiali restino invariate o addirittura diminuiscano27. Cionondimeno, il pericolo potrebbe essere scongiurato restituendo al momento valutativo della pericolosità il giusto peso, valorizzando nel massimo grado il ruolo della magistratura di sorveglianza e degli esperti ausiliari del giudice, oltre che assicurando la possibilità di un riesame del percorso effettuato dal singolo reo alla luce del cambiamento e dei progressi raggiunti. Il pregio maggiore di un simile argomentare si coglie soprattutto dal punto di vista della coerenza di sistema, in termini di ragionevolezza e proporzionalità dell’istituto sotto il profilo dell’individualizzazione del trattamento rieducativo28. D’altronde, già nel lontano 1990 la Corte costituzionale aveva riconosciuto un ruolo di primo piano alla discrezionalità giudiziale, dovendo il giudice garantire in concreto che la pena sia effettivamente funzionale alla rieducazione29. Un simile approccio rinvia solo il problema. Ancora una volta, la sensazione è di un eccesso di cautela, oltre che di una difficoltà a trovare il giusto equilibrio tra il potere legislativo e quello giudiziario. Non ci vorrà molto perché anche da Strasburgo giungano ulteriori sollecitazioni, visto che la decisione Viola c. Italia non costituisce formalmente una sentenza pilota30, senza considerare che la 24 Cfr. ZAGREBLESKY V., La pena detentiva “fino alla fine” e la Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali, in BRUNELLI G., PUGIOTTO A., VERONESI P. (a cura di), Per sempre dietro le sbarre. cit., 16 ss. e, ivi, GALLIANI D., Ora tocca ai giudici costituzionali. Il viaggio dell’ergastolo ostativo al capolinea?, 113. 25 Sul punto FERRAJOLI L., Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, RomaBari 2004, 404. 26 Corte costituzionale, sentenza n. 253/2019. 27 PELISSERO M., Permessi premi e reati ostativi. Condizioni, limiti e potenzialità di sviluppo della sent. 253/19 della Corte costituzionale, in Legisl. Pen., 30 marzo 2020, 13. 28 PALAZZO F., L’ergastolo, cit., 8. 29 Corte costituzionale, sentenza n. 313/1990; PASSIONE M., Vecchie e nuove preclusioni, in Giur. pen. web, 2019, 3, 10 ss. 30 Ciò sia perché ad aprile 2018 i giudici di Strasburgo hanno ritenuto ricevibile il ricorso Filadelfo Ruggeri c. Italia incentrato sul contrasto tra il regime del c.d. “carcere duro” ex art. 41bis, ord. penit. e l’art. 3 CEDU, che coinvolge anche l’istituto dell’ergastolo ostativo nella sua generale portata, sia perché, nel rilevare un problema strutturale in ordine al sistema sanzionatorio La “funzione ostativa” della rieducazione 123 giurisprudenza di merito si adeguerà pacificamente ai recenti approdi della Corte costituzionale31. 5. Tirando le fila del discorso, quanto è cambiato lo scenario del regime preclusivo dopo la decisione Viola c. Italia e le ultime pronunce della Corte costituzionale? Forse molto, forse poco, dal momento che il risultato ottenuto è misurabile solo in termini di un temperamento rispetto al rigore imposto dall’art. 4 bis, ma non costituisce affatto un passo in avanti rispetto alla rieducazione, non potendo questa essere assoggettata alla logica del caso per caso. Emerge, invece, ben chiara l’esigenza di recuperare una visione d’insieme che sposti il fulcro della questione dalla tipologia della presunzione alla rieducazione, dai singoli benefici penitenziari alla premialità nella sua funzione di individualizzazione del trattamento, dal tipo di reato alle garanzie uguali per tutti. Non è condivisibile neanche l’idea, propugnata da alcuni, di lasciare intatta la presunzione assoluta solo per le fattispecie che pongono eccezionali esigenze di contrasto come quelle relative alla criminalità organizzata e ai fatti di terrorismo32. Non dovrebbero essere ammesse, infatti, presunzioni legali di irrecuperabilità sociale in base al titolo di reato e il percorso risocializzativo [dovrebbe] essere modulato sull’uomo e non sul fatto commesso33. A tutti i condannati alla pena perpetua va riconosciuto il diritto alla speranza di reinserirsi in società, sia perché ciò è espressione della dignità umana, sia perché l’affermazione dell’endiadi rieducazione/speranza costituisce quella stessa spinta motivazionale in grado di realizzare il dettato dell’art. 27, comma 3, Cost. Resta ineludibile il suggerimento della Corte EDU di procedere a una riforma legislativa che ripensi tutto il complesso delle norme dettate in tema di detenzione perpetua, senza che intervengano condizionamenti di politica criminale, né strumentalizzazioni ad uso di un diritto penale populistico, non essendo altrimenti eliminabili i profili di contrasto con l’art. 3 CEDU e l’art. 27 Cost.34. italiano, la stessa Corte ravvisa la possibilità che in un immediato futuro giungano numerosi altri casi della stessa specie all’esame della Corte. Ne conseguirebbero ripetute condanne per l’Italia per violazione quanto meno dell’art. 3 CEDU. Sul valore di sentenza pilota si veda ESPOSITO A., Giochi di luce: quando il mostro diventa riconoscibile, in Arch. pen. web, 2, 2020, 4. 31 Come dimostra la recente sentenza della Cass. pen. sez. I, sentenza n. 18518/2020. 32 BIONDI F., Il 4-bis all’esame della Corte costituzionale: le questioni sul tappeto e le possibili soluzioni, in BRUNELLI G., PUGIOTTO A., VERONESI P. (a cura di), Per sempre dietro le sbarre?, cit., 44 ss.; TARTAGLIA R., La sentenza della Corte EDU sull’ergastolo ostativo ci pone un problema importante, che però siamo preparati a risolvere. Dalle presunzioni assolute a quelle relative, in Giur. pen., 2019, 10; Corte EDU, Pantano c. Italia, decisione 6/11/2003 (ricorso n. 60851/00). 33 Stati generali dell’esecuzione penale, documento finale, in www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_19_3.page, 11. 34 RISICATO L., La pena perpetua tra crisi della finalità rieducativa e tradimento del senso di umanità, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2015, 1238 ss., secondo cui «nella calcificata emergenza penitenziaria l’ergastolo non può essere strumento rinunciabile in cambio della collaborazione ma deve tornare a essere pena: finita e definita come il nostro stesso orizzonte esistenziale, inaccettabile senza una speranza». ERGASTOLO OSTATIVO, LIBERAZIONE CONDIZIONALE, DIRITTO ALLA SPERANZA di EMILIO DOLCINI* SOMMARIO: 1. Ergastolo, ergastolo bianco, ergastolo giudiziario. – 2. L’ergastolo ostativo alla resa dei conti. – 3. Corte EDU, Viola contro Italia. – 4. Corte costituzionale, 4 dicembre 2019, n. 253. – 5. L’ordinanza Pezzino. – 6. Che cosa attendersi dalla Corte costituzionale? 1. Se si va oltre il disposto dell’art. 22 c.p., ci si avvede che nel nostro ordinamento l’ergastolo ha più volti1: in primo luogo, quello dell’ergastolo comune (pena perpetua riducibile, secondo la terminologia della Corte EDU) e quello dell’ergastolo ostativo (pena perpetua non riducibile, destinata a una vasta gamma di condannati non collaboranti, autori di gravi reati, tutti originariamente ambientati nella criminalità organizzata, ma ora connotati soltanto da un intenso allarme sociale)2. Esisteva poi una sorta di ergastolo di terzo tipo, che riguardava il condannato collaborante autore di alcune forme di sequestro di persona seguito dalla morte della vittima (art. 289-bis c.p. e art. 630 c.p.), al quale era consentito di accedere, senza passaggi intermedi, alla sola liberazione condizionale, una volta effettivamente espiati almeno ventisei anni di pena (art. 58-quater, comma 4, ord. penit.). Alla Corte costituzionale3 va il merito di aver estromesso dall’ordinamento questa forma di ergastolo, tanto irragionevole quanto incompatibile con qualsiasi prospettiva di rieducazione. * Emerito di diritto penale, Università di Milano. 1 Nella vastissima letteratura sull’ergastolo, v. per tutti F. CORLEONE, A. PUGIOTTO (a cura di), Il delitto della pena. Pena di morte ed ergastolo, Ediesse, Roma 2012; E. DOLCINI, E. FASSONE, D. GALLIANI, P. PINTO DE ALBUQUERQUE, A. PUGIOTTO, Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, Giappichelli, Torino 2019; E. DOLCINI, F. FIORENTIN, D. GALLIANI, R. MAGI, A. PUGIOTTO, Il diritto alla speranza davanti alle corti. Ergastolo ostativo e articolo 41-bis, Giappichelli, Torino 2020; M. PISANI, La pena dell’ergastolo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 575 ss. 2 Secondo un tagliente rilievo di Giostra, «il 4-bis è ormai divenuto una specie di contenitore di raccolta indifferenziata in cui il legislatore “getta” i reati demagogicamente più à la page senza tenere nella dovuta considerazione la loro gravità, la loro struttura e il loro profilo criminologico»: così G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? Spunti per una discussione, in questo volume. 3 Corte costituzionale, 21 giugno 2018, n. 149. A commento, cfr., fra gli altri, E. DOLCINI, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di rieducazione del condannato), in Dir. pen. cont., fasc. 7, 2018, 145 ss.; F. FIORENTIN, La Consulta svela le contraddizioni del "doppio binario penitenziario" e delle preclusioni incompatibili con il principio di rieducazione del condannato, in Giur. cost., 2018, 1657 ss.; A. GALLUCCIO, Ergastolo e preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari: dalla Corte costituzionale un richiamo alla centralità del finalismo rieducativo della pena, in Quest. Giust., 16 luglio 2018, https://www.questionegiustizia.it; M. PELISSERO, Ergastolo e preclusioni: la fragilità di un automatismo dimenticato e la forza espansiva della funzione rieducativa, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 1359 ss. Ergastolo ostativo, liberazione condizionale, diritto alla speranza 125 Di ergastolo si parla anche, talora, in senso metaforico. Si parla di ergastolo bianco4, per alludere alla condizione di chi, magari autore di un reato bagatellare, veniva sottoposto a una misura di sicurezza detentiva – spesso, l’ospedale psichiatrico giudiziario – la cui esecuzione si protraeva per anni, o per decenni: la mancanza di cure adeguate non di rado creava il rischio di una privazione di libertà protratta per tutta la vita della persona. È merito, questa volta, del legislatore (d.l. 31 marzo 2014, n. 52, convertito con l. 30 maggio 2014, n. 81, recante “Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”) l’aver eliminato questo rischio, stabilendo che la durata delle misure di sicurezza detentive non possa superare la durata massima della pena detentiva comminata per il reato oggetto del procedimento. Di recente, è affiorata in dottrina un’ulteriore metafora: si è parlato di ergastolo giudiziale5, al quale verrebbe potenzialmente consegnato qualsiasi imputato per effetto della disciplina della prescrizione dettata dalla c.d. legge spazzacorrotti (l. 9 gennaio 2019, n. 3), in vigore dal 1° gennaio 2020. Non è questa la sede per entrare nel merito della rovente polemica innescata dalla riforma Bonafede6. Mi limito ad osservare che è un’evidente forzatura affermare, come si è fatto, che «la riforma varata nel 2019… ha sostanzialmente abrogato la prescrizione»7; aggiungo che è quanto meno discutibile individuare «la più vitale funzione” della prescrizione nel «contenimento della ‘pena processuale’»8 (a mio avviso, il terreno di elezione della prescrizione è invece rappresentato dai reati che non vengono a conoscenza dell’autorità giudiziaria) 9; aggiungo, ancora, che mi ha fatto sorridere vedere che si è arrivati ad arruolare Giorgio Marinucci (ed io con lui) in una schiera di penalisti che coltivano un’«ideologia retributivo-populista», un «odio viscerale per la categoria della non punibilità», nonché «l’avversione per qualunque meccanismo che si prefigga di comporre il conflitto aperto dal fatto offensivo in modo diverso dalla dispensazione di ulteriore sofferenza: dai provvedimenti di clemenza alle cause di non punibilità, dalle misure alternative alle cause di estinzione»10. 2. Una realtà multiforme quella dell’ergastolo, una pena il cui nome viene dunque evocato – a proposito o a sproposito – per alludere a momenti patologici 4 Cfr. per tutti G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. GATTA, Manuale di dir. pen., pt. gen., IX ed., Giuffrè, Milano 2020, 845. 5 Così D. MICHELETTI, Il regime intertemporale delle cause di sospensione della prescrizione penale, in DisCrimen, 4 luglio 2020, 5. 6 Cfr. fra molti, su posizioni diverse, R. BARTOLI, Le modifiche alla disciplina della prescrizione: una sovversione dei principi, in Dir. pen. proc., 2019, 900 ss.; G. L. GATTA, Sulla riforma della prescrizione del reato, bloccata dopo il giudizio di primo grado, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 2345 ss.; V. MANES, Sulla riforma della prescrizione, ivi, 2019, 557 ss., nonché, da ultimo, G. SPANGHER (a cura di), Prescrizione: opinioni a confronto, in Giur. it., 2020, 971 ss., con contributi di G. SPANGHER, D. PULITANÒ, P. FERRUA, O. MAZZA, A. MARANDOLA, V. MONGILLO, L. IANDOLO. 7 Così D. MICHELETTI, Il regime intertemporale, cit., 5. 8 Ibidem. 9 Cfr. G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. GATTA, Manuale di dir. pen., pt. gen., IX ed., cit., 494. 10 Cfr. D. MICHELETTI, Il regime intertemporale, cit., 1 s. 126 Emilio Dolcini del sistema penale, nella sua accezione più vasta. Mi conforta, in ogni caso, che la parola ‘ergastolo’ abbia assunto una connotazione pacificamente negativa, almeno per la grande maggioranza dei penalisti. Lasciando da parte metafore e forme di ergastolo non più presenti nell’ordinamento, fermo l’attenzione sull’ergastolo ostativo: sulla pena detentiva ineluttabilmente perpetua, che interessa – come ci ha ricordato poco fa Marco Ruotolo11– oltre il 70% dei condannati all’ergastolo12. Per l’ergastolo ostativo sembra ormai giunta la resa dei conti: è sottoposto a un tiro incrociato da parte della Corte EDU e della Corte costituzionale. Spiccano per importanza: nella giurisprudenza europea, Corte EDU, Prima Sezione, Viola c. Italia, 13 giugno 2019, definitiva dal 7 ottobre 2019; nella giurisprudenza costituzionale, la sentenza 4 dicembre 2019, n. 25313. 3. Di Viola c. Italia14, relativa a un condannato all’ergastolo per delitti di mafia la cui istanza di ammissione alla liberazione condizionale era stata giudicata inammissibile, mi limito qui a sottolineare come la sentenza stabilisca uno stretto collegamento fra il principio di umanità della pena (enunciato sia nella CEDU, sia nella Costituzione italiana) e il principio della rieducazione (presente, in forma espressa, nel solo art. 27, comma 3, Cost.): l’anello di congiunzione viene Cfr. M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo è costituzionale?, in questo stesso volume. «Per il 75% degli ergastolani italiani la liberazione condizionale è un istituto che rimane ‘sulla carta’, sanno che esiste, ma non la otterranno mai»: così D. GALLIANI, “La forza della democrazia è non avere paura”. L’ergastolo ostativo e Viola v. Italia n. 2 della Corte di Strasburgo, in Giust. insieme, 18 giugno 2019, https://www.giustiziainsieme.it. 13 Un ulteriore precedente di rilievo è rappresentato da Corte cost. 6 dicembre 2019, n. 263, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2, comma 3, d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, recante “Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103”: tale disposizione, estendendo l’applicabilità dell’art. 4-bis, comma 1 e comma 1-bis, ord. penit. ai condannati minorenni e ai giovani-adulti, rendeva accessibili le misure penali di comunità, i permessi-premio e il lavoro all’esterno ai soli condannati che collaborano con la giustizia, o per i quali la collaborazione sia impossibile o inesigibile. Come ha rilevato la Corte, tale estensione integrava un eccesso di delega ex art. 76 Cost. e una violazione del principio della rieducazione del condannato: ne segue, per la Corte, che nei confronti dei minori «non può essere lasciato spazio a presunzioni di pericolosità di sorta, nemmeno se relative». Cfr. S. BERNARDI, L’ostatività ai benefici penitenziari non può operare nei confronti dei condannati minorenni: costituzionalmente illegittimo l’art. 2 comma 3 d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, in Sistema pen., 26 gennaio 2020, https://www.sistemapenale.it. 14 Cfr., fra gli altri, D. GALLIANI, “La forza della democrazia è non avere paura”, cit., 16; D. GALLIANI, A. PUGIOTTO, L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo (A proposito della sentenza Viola v. Italia n. 2), in Osservatorio AIC, fasc. 4, 2019, 191 ss., http://www.associazionedeicostituzionalisti.it; D. MAURI, Nessuna speranza senza collaborazione per i condannati all’ergastolo ostativo? Un primo commento a Viola c. Italia, in SIDIBlog, 20 giugno 2019, http://www.sidiblog.org; M. PELISSERO, Verso il superamento dell’ergastolo ostativo: gli effetti della sentenza Viola c. Italia sulla disciplina delle preclusioni in materia di benefici penitenziari, in SIDIBlog, 21 giugno 2019, http://www.sidiblog.org; N. ROMBI, Dopo il caso "Viola" nuove prospettive per un superamento dell'ergastolo ostativo, in Dir. pen. proc., 2020, 565 ss., 11 12 Ergastolo ostativo, liberazione condizionale, diritto alla speranza 127 individuato nella dignità umana, diritto inviolabile della persona secondo la Costituzione e fulcro dell’intero sistema della CEDU15. Muovendo da tali principi, rilevato che «il c.d. ergastolo ostativo limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame della pena»16, la Corte condanna l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU. In breve: per la Corte di Strasburgo l’ergastolo ostativo è una pena inumana, la cui disciplina deve essere radicalmente riformata. La riforma dovrà eliminare l’attuale automatismo legislativo, dando atto che «la dissociazione dall’ambiente mafioso» può «esprimersi con strumenti diversi dalla collaborazione con la giustizia»17. 4. Quanto alla sentenza della Corte costituzionale n. 253/201918, va detto subito che riguarda aspetti della normativa dettata dall’art. 4-bis co. 1 ord. penit. in larga parte diversi da quelli presi in considerazione dalla Corte EDU nella sentenza Viola c. Italia: riguarda infatti la condizione di tutti i detenuti per un reato ‘di prima fascia’ dell’art. 4-bis, che scontino una pena detentiva perpetua o temporanea; d’altra parte, fa riferimento non alla liberazione condizionale, istituto che segna il punto di arrivo di un percorso di rieducazione avviato in carcere, bensì ad uno specifico beneficio penitenziario – il permesso-premio – che di quel percorso rappresenta soltanto un momento intermedio, accanto al lavoro all’esterno e alle misure alternative alla detenzione. Al di là delle diversità di oggetto, la Corte costituzionale è peraltro in piena sintonia con la Corte EDU nel punto nodale della sua pronuncia. Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati possano essere concessi permessi-premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, la Corte 15 Come si legge, tra l’altro, in Corte EDU, Grande Camera, 9 luglio 2013, Vinter c. Regno Unito, §113. 16 Corte EDU, Prima Sezione, Viola c. Italia, cit., §137. 17 Corte EDU, Prima Sezione, Viola c. Italia, cit., §143. 18 Cfr., fra molti, S. BERNARDI, Per la Consulta la presunzione di pericolosità dei condannati per reati ostativi che non collaborano con la giustizia è legittima solo se relativa: cade la preclusione assoluta all’accesso ai permessi premio ex art. 4-bis comma 1 ord. penit., in Sistema pen., 28 gennaio 2020, https://www.sistemapenale.it; ID., Sull’incompatibilità con la Costituzione della presunzione assoluta di pericolosità dei condannati per reati ostativi che non collaborano con la giustizia: in margine a Corte cost., sentenza del 23 ottobre 2019 (de 4 dicembre 2019), n. 253, in Osservatorio AIC, fasc. 1, 2020, 1 ss., 3 marzo 2020, http://www.associazionedeicostituzionalisti.it; M. BORTOLATO, Il futuro nella società non può essere negato a chi non collabora, ma la strada è ancora lunga. Brevi riflessioni sulla sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale, in Dir. Pen. Proc., 2020, 632 ss.; M. CHIAVARIO, La sentenza sui permessi-premio: una pronuncia che non merita inquadramenti unilaterali, in Osservatorio AIC, fasc. 1, 2020, 4 febbraio 2020, 211 ss., http://www.associazionedeicostituzionalisti.it; G. DODARO, L’onere di collaborazione con la giustizia per l’accesso ai permessi premio ex art. 4-bis ord. penit. di fronte alla Costituzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, 259 ss.; A. PUGIOTTO, La sent. n. 253/2019 della Corte costituzionale: una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria, in Studium Iuris, 2020, 399 ss.; ID., Due decisioni radicali della Corte costituzionale in tema di ostatività penitenziaria: le sentenze nn. 253 e 263 del 2019, in Giur. cost., 2019, 3345 ss.; M. RUOTOLO, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, in Sistema pen., 12 dicembre 2019, https://www.sistemapenale.it. 128 Emilio Dolcini costituzionale afferma a chiare lettere che l’illegittimità riguarda non la presunzione in sé che sta alla base del divieto, bensì il carattere assoluto della presunzione: ed è proprio «tale assolutezza che impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27 co. 3 Cost.»19. Al centro della propria pronuncia la Corte colloca dunque un principio costituzionale – quello della rieducazione del condannato – del quale la Corte EDU si era, per così dire, appropriata nella sentenza Viola attraverso una lettura del principio di umanità della pena tanto convincente quanto non banale. Rileva inoltre la Corte costituzionale che, quando la condanna sia pronunciata per uno dei reati dell’art. 4-bis, il contenuto della pena risulta largamente modellato su esigenze investigative e di sicurezza collettiva che emergono successivamente alla condanna e poco o nulla hanno a che vedere con la gravità del reato e con la stessa capacità a delinquere del suo autore20. Evidenzia così una violazione del principio di proporzionalità, e dunque, nel quadro costituzionale, una violazione del principio di eguaglianza-ragionevolezza, nonché, ancora una volta, del principio della rieducazione del condannato: richiamo, in proposito, una precedente pronuncia della Corte costituzionale, secondo la quale al raggiungimento dell’obiettivo della rieducazione «è di ostacolo l’espiazione di una pena oggettivamente non proporzionata alla gravità del fatto, quindi, soggettivamente percepita come ingiusta e inutilmente vessatoria»21. 5. Nelle tormentate vicende dell’ergastolo ostativo è intervenuta da ultimo la Corte di Cassazione, investendo nuovamente della questione di legittimità la Corte costituzionale: mi riferisco all’ordinanza Pezzino, del 3 giugno 202022. Dell’ordinanza sottolineo la completezza e l’ordine sistematico (condivido il giudizio di Glauco Giostra, che ha parlato di «un’ottima ordinanza di rimessione»23). L’ordinanza fornisce in primo luogo un’accurata ricostruzione della storia processuale e penitenziaria del ricorrente: la condanna all’ergastolo per omicidio aggravato dal contesto mafioso, la fattiva e costante partecipazione da parte del detenuto all’opera di rieducazione, l’esecuzione della pena in corso – tenuto conto delle detrazioni ex art. 54 ord. penit. – da oltre 27 anni. Acclarata, dunque, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale24, la Corte di Cassazione affronta il tema cruciale della sua non manifesta 19 Corte costituzionale, 4 dicembre 2019, n. 253, punto 8 del Considerato in diritto. Corte costituzionale, 4 dicembre 2019, n. 253, ibidem. 21 Corte cost. 8 marzo 2019, n. 40, punto 5.2. del Considerato in diritto, e ivi ulteriori richiami a precedenti pronunce nelle quali la Corte affermava che «allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato, si profila un contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., giacché una pena non proporzionata alla gravità del fatto si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa» (così Corte costituzionale n. 222/2018, punto 7.1 del Considerato in diritto). 22 Cass. Sez. I, ord. 3 giugno 2020, n. 18518, Pezzino. 23 Così G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità, cit., 1. 24 Per una attenta analisi dei profili di rilevanza della questione di legittimità costituzionale 20 Ergastolo ostativo, liberazione condizionale, diritto alla speranza 129 infondatezza. Dato atto di una propria precedente giurisprudenza orientata in senso opposto – nel senso cioè della manifesta infondatezza della questione –, sulla scia di diverse pronunce della Corte costituzionale, la Corte di Cassazione evidenzia il ruolo centrale che a partire dalla sentenza n. 264/1974 la Corte costituzionale attribuisce alla liberazione condizionale per affermare la compatibilità dell’ergastolo con il quadro costituzionale. Passa quindi in rassegna la giurisprudenza della Corte EDU, che ammette la compatibilità convenzionale della pena perpetua solo a condizione che non privi il detenuto del «diritto alla speranza»: una condizione che, come rilevato nella sentenza Viola c. Italia, non si realizza per l’ergastolo ostativo. Decisivo il rilievo che la dissociazione dall’ambiente criminale può essere desunta altrimenti che dalla collaborazione con la giustizia. L’analisi della Corte di Cassazione si rivolge, da ultimo, alla più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, nella quale, ovviamente, spicca per importanza la sentenza n. 253/2019. In definitiva, l’ordinanza Pezzino mette alle strette la Corte costituzionale. Una pronuncia di rigetto esporrebbe la Corte ad un duplice rischio: quello di porsi in contraddizione con se stessa e quello di dare adito a nuove condanne dell’Italia da parte della Corte EDU. Anche la Corte di Cassazione, dunque, ha fatto la sua parte nel tiro incrociato sull’ergastolo ostativo. 6. Dalla Corte costituzionale possiamo in definitiva attenderci una pronuncia di accoglimento: a chi sconta l’ergastolo ostativo, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, sta per essere riconosciuto, credo e mi auguro, il «diritto alla speranza», di cui la liberazione condizionale è elemento essenziale. Rimangono in ogni caso incertezze relative alla portata che avrà la dichiarazione di illegittimità costituzionale, un problema di cui le relazioni introduttive ci hanno mostrato le molteplici sfaccettature. In proposito, sottolineo, con una piccola manipolazione, uno stringente rilievo contenuto nella Traccia per la discussione e già richiamato da Glauco Giostra25: «rimossa… l’ostatività penitenziaria per la tappa iniziale (il permesso-premio) e per quella finale (la liberazione condizionale) del percorso trattamentale del detenuto… sarebbe del tutto irragionevole mantenerla per le tappe intermedie», in primo luogo per le misure alternative alla detenzione. La Corte costituzionale dovrebbe compiere ora quel passo che non ha compiuto, in termini di illegittimità consequenziale, nella sentenza n. 253/2019. A maggior ragione mi attendo che la dichiarazione di illegittimità costituzionale si estenda in via consequenziale a tutti i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., dunque andando oltre i delitti commessi avvalendosi del metodo mafioso o per agevolare associazioni di tipo mafioso ai quali fa riferimento l’ordinanza di rimessione: basterà in proposito rammentare che una scelta di sollevata dall’ordinanza Pezzino, cfr. M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo è costituzionale?, cit., 25 G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità, cit. 130 Emilio Dolcini analogo tenore è stata compiuta dalla Corte costituzionale, a proposito dei permessipremio, nella sentenza n. 253/201926. L’interrogativo più delicato che si pone per la Corte costituzionale riguarda però il regime probatorio rafforzato che la stessa Corte ha previsto per il condannato ‘non collaborante’ in ordine «all’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali». Sul piano sistematico non è pensabile che per l’accesso alla liberazione condizionale vengano dettate regole meno stringenti di quelle stabilite per la concessione dei permessi-premio. Tuttavia, a proposito dell’onere di allegazione/prova riferito al pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, come è stato acutamente osservato, «il criterio formulato dalla Corte, se preso rigorosamente alla lettera, si tradurrà in una probatio diabolica che vanificherà gli effetti della pronuncia di incostituzionalità dell’obbligo di collaborazione»27. Di qui l’esigenza di un’attenta riconsiderazione del problema: per la condizione imposta al condannato si impongono, a mio avviso, maglie più larghe. Su questo punto è venuto un forte richiamo da parte di questo Seminario: se otterremo attenzione al problema ad opera della Corte, avremo fatto oggi un lavoro davvero prezioso. 26 La questione di legittimità costituzionale era stata infatti sollevata in relazione ai «delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste», mentre la dichiarazione di illegittimità ha riguardato, in via consequenziale, tutti i delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, c.p. 27 Così G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità, Per una penetrante analisi della questione, vedi inoltre D. GALLIANI, Un dialogo (immaginario) fra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale, in questo stesso volume. CORTE COSTITUZIONALE A “DUE VELOCITÀ” E PROSPETTIVE DE IURE CONDENDO di CARLO FIORIO* SOMMARIO: 1. Una Corte mutevole? – 2. Soluzioni (minime) prospettabili. 1. In questo breve contributo non mi azzarderò a profetizzare i “futuribili”, né a formulare congetture o a esprimere desiderata in riferimento alla valutazione giurisdizionale della quaestio. Le due relazioni introduttive1 hanno già compiutamente delineato tutte le ipotesi in modo esaustivo, preconizzando gli scenari possibili. Tuttavia, vorrei sottolineare – quale tema di possibile esplorazione – che la giurisprudenza costituzionale dell’ultimo biennio, non solo ha evidenziato un marcato disorientamento interpretativo in tema di “4-bis e dintorni”, ma, per certi aspetti, ha confermato una preoccupante tendenza (esponenzialmente aggravatasi in tempi di Covid) di progressiva neutralizzazione del convincimento giudiziale (e quindi dell’indipendenza della magistratura) a favore dell’autoritarismo del potere esecutivo. Mi spiego. Quanto al primo aspetto (disomogeneità interpretativa) è agevole rilevare come, ad eccezione di Corte costituzionale, sent. n. 32/2020, che ha sconfessato il diritto vivente in tema di applicazione retroattiva di modifiche penitenziarie peggiorative, le altre coeve pronunce (sent. n. 253/2019) siano state – quantomeno nell’applicazione pratica – assolutamente meno decisive, vuoi per (e uso un eufemismo) un’estrema prudenza nel calibrare gli oneri probatori2, vuoi per l’occasione perduta di fare chiarezza all’interno della disordinata categoria dei condannati “collaboranti”3. Ma anche un altro fronte della giurisprudenza costituzionale – apparentemente marginale a livello applicativo, ma assolutamente centrale quale indice di una Corte a “due velocità” – è rappresentato dalle sentenze n. 188/2019 e n. 52/2020, ove è stata prima affermata e poi ribadita l’irrilevanza dell’attenuante della «lieve entità» del fatto nel subprocedimento di concessione dei benefici penitenziari disciplinato dall’art. 4-bis ord. penit. In queste due recenti decisioni, è significativo che i giudici costituzionali – segnando una battuta d’arresto nell’opera di bonifica dei meccanismi preclusivi caratterizzanti il “doppio binario” penitenziario – abbiano proposto una rilettura funzional-strumentale della norma penitenziaria, disancorandola dalla sua * Ordinario di Diritto processuale penale, Università di Perugia. V. G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? Spunti per una discussione; M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo è costituzionale?, entrambi in questo volume. 2 Cfr. G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità, cit. 3 In prospettiva generale e di fondo, si rinvia a A. RICCI, Collaborazione impossibile e sistema penitenziario, Cedam, Padova 2013, passim. 1 132 Carlo Fiorio originaria – e tuttora rivendicata in sede politica – funzione di strumento principe di contrasto al crimine organizzato. Dipanate intorno al (discutibile) assunto del «contenitore» eterogeneo, in forza del quale la primitiva vocazione emergenziale dell’art. 4-bis ord. penit. avrebbe progressivamente lasciato spazio ad una macronorma «speciale» per fronteggiare la pericolosità sociale di talune categorie di persone in vinculis, le due decisioni hanno (troppo) sbrigativamente liquidato le quaestiones, reputando inconferente sia il ruolo dell’attenuante sia il riferimento alla «criminalità organizzata». 2. Vorrei, tuttavia, soffermarmi maggiormente sul §8.1. della Traccia per la discussione, relativa al «seguito legislativo della quaestio». Come noto, la Relazione della Commissione parlamentare antimafia4, preso atto dell’incompatibilità costituzionale delle preclusioni assolute in materia penitenziaria (sent. n. 253/2019), delinea delle allarmanti prospettive de iure condendo, prefigurando un nuovo “doppio binario”. In particolare, per i delitti di “Champions” (associativi et similia) essa postula il soddisfacimento degli onera probandi imposti dalla sentenza costituzionale n. 253/2019 (cioè a dire: l’acquisizione di «elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti»); mentre, per quelli di “Europa League” (non associativi), rimane vigente il comma 1-ter dell’art. 4-bis ord. penit., che richiede la prova dell’insussistenza di elementi denotativi di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Al di là della diversificazione degli oneri probatori, continua a destare perplessità l’accentuazione del ruolo istruttorio delle procure antimafia e degli organi prefettizi (CPOS), ai quali si aggiunge – sulla falsariga dell’esperienza applicativa dell’art. 41-bis ord. penit.), il generalizzato (ed allarmante) riconoscimento di una giurisdizione esclusiva del tribunale (speciale?) di sorveglianza di Roma, motivata dall’esigenza di fugare «disorientamenti giurisprudenziali», nonché la divaricazione tra giudice naturale e giudice “speciale” in ragione del nomen delicti. Sul piano delle ingerenze degli organi antimafia nella giurisdizione rieducativa assicurata dalla magistratura di sorveglianza, le recenti novelle emanate nel pieno dell’emergenza Covid hanno poi evidenziato un preoccupante deficit nella tutela dei diritti delle persone detenute. Segnatamente, i provvedimenti d’urgenza varati in tempo di pandemia, imponendo alla magistratura di decidere «previa acquisizione» di pareri amministrativi, mostrano come la prevalenza di logiche autoritarie sulla tutela giurisdizionale dei diritti degradi la “fondamentalità” di taluni diritti di rango costituzionale (nella specie: diritto alla salute) a mero interesse legittimo, 4 Cfr. COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL FENOMENO DELLE MAFIE E SULLE ALTRE ASSOCIAZIONI CRIMINALI, ANCHE STRANIERE, Relazione sull’istituto di cui all’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, consultabile nel sito dedicato al presente Seminario, www.amicuscuriae.it Corte costituzionale a “due velocità” e prospettive de iure condendo 133 condizionato dalle risorse – sempre più scarse e scadenti – messe a disposizione dall’amministrazione penitenziaria e dalla sanità regionale5. In una prospettiva de iure condendo, se, alla luce dell’attuale panorama politico, l’abrogazione dell’art. 4-bis ord. penit. potrebbe apparire operazione fantascientifica, al contrario, l’eliminazione delle prove “diaboliche” (ivi comprese quelle coniate dal giudice costituzionale: sent. n. 253/2019) appare doverosa. Personalmente, non mi limiterei all’introduzione di un onere di una non meglio definita prova positiva circa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata: si è già visto come la stessa, in tema di proroga dell’art. 41-bis ord. penit. si sia rilevata poco più che una farsa nell’applicazione giurisprudenziale, ma opterei per due soluzioni tra loro alternative. La prima, a mio parere preferibile perché abrogativa dei gironi danteschi e assolutamente rispettosa del principio del libero convincimento del giudice, potrebbe prevedere l’eliminazione di tutte le forme collaborative [reali o surrogatorie (irrilevante, impossibile, inesigibile ovvero inesistente)] e sancire che i benefici compressi dai commi 1 e 1-ter dell’art. 4-bis ord. penit. possano essere negati solo «nei casi in cui sia fornita la prova della sussistenza di elementi attuali, concreti e specifici, fondati su circostanze di fatto espressamente indicate a pena di nullità dell’ordinanza, che dimostrino in maniera certa l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva». Se, invece, “doppio binario” dev’essere, doppio binario sia. La seconda soluzione6 potrebbe, più efficacemente, prendere in considerazione [anche] comportamenti indicativi di un’effettiva risocializzazione, quali, ad esempio, per i delitti di “Champions”, «i comportamenti oggettivamente ed univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo, ripudiando la violenza e la forza di intimidazione come metodo per la commissione dei reati [e dimostrando] il definitivo distacco dall’organizzazione criminale di appartenenza», mentre, per quelli di “Europa League”, la dimostrazione, «con comportamenti concreti, di volersi adoperare in condotte riparative in favore delle vittime del reato, dei loro familiari o della comunità civile, generando significativi risultati in termini di ricomposizione dei conflitti, di mediazione sociale e di positivi cambiamenti di vita». 5 Così, da ultimo e per tutti, A. NATALONI, Pandemie e carcere: diritto alla salute ed esigenze di ordine e sicurezza pubblica, in Proc. pen. e giust., 2020 (in corso di pubblicazione). 6 Testualmente, M. BORTOLATO, La libertà di 'non collaborazione': verso l’abolizione dell’ergastolo ostativo, in G. GIOSTRA- P. BRONZO (a cura di), Proposte per l’attuazione della delega penitenziaria, Sapienza Università Editrice, Roma 2017, 155-156. UN DIALOGO (IMMAGINARIO) TRA UN ERGASTOLANO OSTATIVO E UN GIUDICE COSTITUZIONALE di DAVIDE GALLIANI* - Buongiorno giudice. - Buongiorno a lei. - Complimenti per la n. 253/2019. - Perché? - Per i suoi argomenti, tanto incisivi. - Davvero? - Sul diritto al silenzio Viola n. 2 v. Italia era stata in silenzio. Voi no. Lasciamo alla cognizione il silenzio come diritto, avete scritto. Ma nessuno può negare che ogni detenuto, ergastolano ostativo compreso, abbia la libertà di non collaborare. - Ci crediamo. L’ordinamento penitenziario non può disconoscere ad alcuno la libertà di non collaborare. - Sembra di ascoltare Cesare Beccaria. Non lo amo moltissimo, per ciò che pensava della pena perpetua. Ma ne capiva di tortura e dignità umana. - Discendiamo tutti dagli illuministi. - Non vi siete risparmiati nemmeno sul regime ostativo. Riscrivereste ogni cosa? - Ho già capito dove vuole arrivare. - Della liberazione condizionale, se vuole, ne parliamo dopo. Però sul regime ostativo siete stati incisivi come un punteruolo: prefigura una sorta di scambio, tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario. - Sembrano tutto sommato ovvietà. - Meglio tardi che mai. - Le decisioni in questi ambiti non sono facili. - Sono tutto orecchie. - La Corte ha diversi interlocutori: legislatori, giudici, avvocati, pubblici ministeri, professori universitari, anche il Capo dello Stato quando promulga o emana con rilievi. E poi l’opinione pubblica. Quando trattiamo questioni riguardanti la mafia ogni cosa è più complicata. E se qualcuno ci descrive come un inutile carrozzone, da chiudere al più presto? Lo sa che a Strasburgo gli Stati iniziano a non pagare più il contributo, che significa meno giuristi in quella Corte? - Sta dicendo che a Palazzo della Consulta il clima sui giornali gioca un qualche ruolo, e che state a sentire le sparate di qualche politico? - Non sto dicendo questo. Noi abbiamo i nostri precedenti: siamo nani sulle spalle di giganti. Partiamo da una ordinanza di remissione, che, tranne rare eccezioni, costituisce il perimetro entro il quale possiamo muoverci. Ad esempio, * Associato di diritto pubblico, Università degli Studi di Milano. Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale 135 usiamo la illegittimità consequenziale solo se il sistema perderebbe di coerenza o se il vulnus di tutela risulterebbe insopportabile. - Il peculato ostativo insegna. E poi? - Ascoltiamo le parti, oggi anche i nuovi terzi intervenienti, importanti come una buona scarpa per un maratoneta. - Immagino, anche se non posso correre. - Amiamo la collegialità, una straordinaria risorsa. Ci ritiriamo in camera di consiglio e dentro non entra niente. A volte litighiamo, a volte va liscia. Ma, mettiamola così: non siamo marziani, la Consulta non sta su Marte. Per quanto sia massimo il tentativo dell’indipendenza, non siamo robot, ma uomini e donne in carne e ossa. - Lo scriveva Carlo Esposito rispetto al Capo dello Stato, l’altra garanzia costituzionale rimasta. - Non vorrei passare per uno psicologo, ma il nostro cervello ragiona sempre influenzato da qualcosa. Serve governare l’influenza, nasconderla o negarla non serve a nulla. Uno psicologo israeliano ha vinto il Nobel per l’economia sostenendo che la scelta razionale cede il passo al nostro essere troppo umani. - Sta dicendo che l’indipendenza del giudice è prima di tutto un valore morale? - Lo abbiamo anche scritto in una sentenza del 1989 sulla responsabilità civile del giudice. - Mi ha rassicurato. Iniziavo a pensare che il §9 del Considerato in diritto della n. 253 fosse una sorta di rassicurazione rivolta al contesto. Una specie di istinto di sopravvivenza della Corte, onde evitare di essere paragonata ad un inutile carrozzone, che nulla capisce di mafia. Vi avrei compreso: un quotidiano, dopo Viola n. 2, ha scritto in prima pagina «hanno riammazzato Falcone e Borsellino», con tanto di foto che ritraeva l’aula di udienza pubblica a Strasburgo, seduti cinque giudici, al cui fianco primeggiavano due gigantografie, una di Falcone e l’altra di Borsellino. - Le ripeto. Siamo esseri umani, non robot, ma non esageri, altrimenti dialoghi con un giornalista. - Provo a riformulare. Esistono due anime nella n. 253. Una di queste sembra spaventata, preoccupata. Magari sbaglio riferendomi al contesto, forse è l’influsso di Leonardo Sciascia, del quale ho letto tutto. Ma allora è una sorta di compromesso raggiunto in camera di consiglio? - Insinua che il §9 sia stato inserito perché altrimenti la sentenza sarebbe stata di rigetto magari con monito o di incostituzionalità differita? - Più o meno. Esiste un modo per eliminare dalla faccia della terra le insinuazioni: introducete le opinioni separate. - Pensa che siamo insensibili al tema? - No, ma prima lo fate prima potrete evitare le insinuazioni. - Un giudice costituzionale, quando era in carica, nel 1964, curò un libro intero sulle opinioni dissenzienti. Membro della Costituente, era uno dei più importanti costituzionalisti del secondo dopoguerra. Delle opinioni dissenzienti ne parliamo da tempo, ma le opinioni sono differenti. - Capisco bene che la collegialità sia una risorsa straordinaria, e che alcuni di voi penseranno che, introducendo le opinioni separate, possa danneggiarsi. 136 Davide Galliani Tuttavia, non è vero che, potendo scrivere in dissenso, un giudice non miri alla collegialità. Dove esistono le opinioni dissenzienti continuano ad esistere le decisioni unanimi. - Dice che un giudice prima ascolta i colleghi e dopo cerca di convincerli e, solo alla fine, se rimane della sua idea, vota contro e stende la sua opinione separata? In questo modo, la ricerca della collegialità sarebbe garantita. - E la conseguenza sarebbe anche quella di evitare la presenza in sentenza di due anime contrastanti. - Se ne intende di giustizia costituzionale. - Tutto avrei pensato, tranne che di occuparmi di giustizia costituzionale. - Non faccia del sentimentalismo. - Per il diritto posso smettere di essere un delinquente, ma per la gente è difficile comprendere che anche un detenuto può masticare la giustizia costituzionale. Però, pure voi, quanto a sentimentalismo, non scherzate, andando nelle scuole e nelle carceri. - Lasciamo stare. Pensi che inizio a leggere commenti che quasi ci rinfacciano questi viaggi. - Non dia retta. Ci sarà sempre chi dirà che la Corte va preservata, tutelata, che non si deve aprire. Lasciate stare gli amici curiae, i viaggi nelle carceri e nelle scuole, le opinion dissenzienti: chiudetevi a Palazzo, fate il vostro lavoro, e basta. - A me interessa che le aperture siano meditate. In ogni caso, chi vivrà vedrà. - Si vede che non ha mai parlato con un ergastolano ostativo. Per me, e per molti come me, chi vivrà vedrà è un augurio di sventura. Ogni giorno che resto in vita è un giorno in più di galera, non uno in meno. Non la farò finita, anche se il pensiero mi è balenato nella mente tante volte. - Non ho parole. - Ho visto di tutto. Praticamente tutte le carceri italiane, basta fossero lontane da casa. Direttori coraggiosi e altri semplici burocrati. Lo stesso gli educatori: alcuni bravi, altri meno. E la polizia penitenziaria: non posso dire di aver trovato una seconda famiglia, ma a volte mi sembra che anche loro siano detenuti. Ho visto tanto, a parte i magistrati di sorveglianza. - Volevo dire che per ogni modifica serve tempo, che usiamo per valutare pregi e difetti. - Non si preoccupi. In ogni caso, mi ha convinto. Ci manca solo che anche la Consulta finisca nel tritacarne mediatico, che ci si metta a fare le pulci nella vita personale di un giudice costituzionale, partendo da un suo dissenso. - Immagini poi le nomine di origine parlamentare. - Però, una cosa voglio dirla. Voi usate il ragionamento, la persuasione. Argomentate, non stramazzate. Potete sbagliare (mi vergogno a dirlo), ma insomma usate gli strumenti del diritto, che non implicano sete di vendetta. Non dovete arringare nessuna folla, se non quella della ragione. Leggere una vostra sentenza è interessante. - Secondo lei tutti leggono le nostre sentenze? - A leggere quello che certi giornalisti scrivono, direi di no. Io le posso dire solo una cosa: in carcere le vostre sentenze sono lette. Ogni singola parola, frase, pagina. Se entrano, ovvio. A volte mi capita di trovare più piacere nel leggere una Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale 137 vostra sentenza che un romanzo di Charles Dickens, il mio autore preferito. Con Grandi speranze e La piccola Dorrit sono evaso. - Mi fa piacere, per le nostre sentenze intendo. - Non esageriamo. Non sempre è un piacere. - Ci saranno cose migliori da fare nella vita. - Lei ha una immagine strana del carcere. Non la biasimo. La verità è che solo un detenuto ha reale contezza di cosa sia la privazione della libertà personale, altro che lockdown. - Già. - E la Costituzione è così penetrante sul tema perché scritta da persone che in carcere ci sono state. Tanti nostri costituenti hanno poi lasciato memorie, diari, autobiografie. Scrivono che, nonostante tutto, hanno appreso molto dal carcere, ad esempio l’importanza della forma. - Tutti kelseniani i nostri costituenti. - Anche quando hai un solo millimetro di libertà residuale, a quel millimetro ti aggrappi e lo fai valere, proprio perché scritto nero su bianco. L’autorità di un regolamento, scriveva Giancarlo Paietta. - Si chiama legalità. - L’ho conosciuta stando in carcere. Ho imparato pure ad usare il diritto per scrivermi i ricorsi, fino a quando la Cassazione per la legittimità non mi ha obbligato ad avere un avvocato. Tocca ammettere che la galera mi ha salvato la vita. - Strano a dirsi, ma ho compreso. - Piuttosto. Posso abusare della sua pazienza e chiederle chiarimenti sul §9 del Considerato in diritto? - Non è chiaro? - Perché lo avete scritto? Il Professor Glauco Giostra ha notato una cosa. Sostenete che è la stessa Costituzione il fondamento dal quale siete partiti per introdurre, accanto alla già esistente attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, anche il nuovissimo pericolo di ripristino. Ma, dice il Professor Giostra, non è un caso che la Corte non indichi da quale articolo della Costituzione prende le mosse. - Capisco. Prevenire la commissione di nuovi reati, quindi difendere la società, non ha esplicita base costituzionale. Alcuni discutono iniziando dall’art. 2, altri dalla carcerazione preventiva. Di certo, la Costituzione è reo-centrica, quindi concetti come difesa della società possono essere estrapolati solo in chiave di interpretazione sistematica. In ogni caso, mi sento di dirle che, nel momento in cui la sorveglianza svolge il bilanciamento, uno dei due piatti della bilancia misura la pericolosità sociale. - Siamo alle prese con una immanenza, categorica. Mi viene in mente Kant: la mia libertà finisce dove inizia la tua. Se la persona è socialmente pericolosa, il magistrato negherà il beneficio o la misura. Mi spingo avanti, se posso. - Prego. - Intanto, le chiederei subito questo. Per lei è giusto considerare inammissibile una istanza nella quale il detenuto non allega granché sul pericolo di ripristino? Che il detenuto abbia un onere di allegazione è giusto. Se chiedo una cosa, devo anche allegare del materiale per permettere di decidere. Tuttavia, la sorveglianza può 138 Davide Galliani procedere d’ufficio, nel momento in cui le allegazioni sono insufficienti. Ma una cosa è procedere d’ufficio, integrare la documentazione e rigettare l’istanza. Altra cosa dichiararla inammissibile. Del resto, non a caso le cause di inammissibilità sono tassative. - Mi sembra abbia ragione, anche se lo dico da giurista, non da giudice costituzionale. - Bella distinzione. - Ogni cosa che dico deve essere calibrata. - Come quella di ogni giurista. - D’altro canto, il convincimento del giudice è frutto di un laborioso mettere insieme materiale di diversa provenienza: le allegazioni di chi domanda, le note e le informative delle autorità coinvolte e, appunto, gli approfondimenti operati dallo stesso giudice. E poi, lei è un detenuto: non per questo ha sempre ragione, assolutamente no, ma, proprio perché detenuto, un lavoro importante di completamento rispetto a quello che allega spetterà ad altri, la parte pubblica e specie il giudice. - Come la ascolto volentieri. Sa cosa mi è capitato una volta? Ho fatto reclamo ex art. 35-ter ord. penit.: per due anni e mezzo ero stato detenuto nel carcere X in cella di 10 metri quadrati con quattro detenuti. Vuole sapere cosa mi ha risposto il giudice? - Che il trattamento era inumano e degradante. - Mi ha detto che il carcere gli aveva risposto che non teneva gli archivi dei detenuti passati di lì. - Non ci credo. - Potrei raccontarle per ore storie simili, nelle quali chiedono a me di provare una cosa senza che io possa farlo. - Mi piacerebbe leggere queste sentenze. - Siamo al medioevo informatico, in sorveglianza. - Ho capito. Ma a me sembra evidente. Una cosa è una istanza del tutto priva di allegazioni. Qui sarei per la inammissibilità. Ma in tutti gli altri casi, nel momento in cui le allegazioni sono scarne, ma esistenti, il giudice deve decidere nel merito. - Perfetto. Ne approfitto. Non serve essere un rinomato giurista per rendersi conto che provare l’inesistenza di qualcosa, ossia l’inesistenza dell’attualità dei collegamenti, non è la cosa più facile del mondo. Alcuni la chiamano diabolica. - Può avere anche ragione, ma sul punto nulla abbiamo detto nella n. 253. Rivolga le sue rimostranze al legislatore, a quello del 1991, un legislatore costituzionalmente orientato. Il primo decreto legge, appunto quello del 1991, che ha introdotto il 4-bis, è stato proposto dal Ministro di Grazia e Giustizia, il cui direttore degli affari penali era Giovanni Falcone. - Su questo, niente da dire. Giovanni Falcone aveva una intelligenza non comune, in terza media tradusse Pinocchio in latino. Strano, non lo ricorda mai nessuno, ma Falcone, agli inizi, svolse anche funzioni di magistrato di sorveglianza. Di sicuro, aveva il senso del limite, il senso costituzionale. Però, non posso rivolgermi al legislatore rispetto al pericolo di ripristino. Se fosse previsto in una legge, ci sarebbero dubbi di costituzionalità, il primo dei quali per violazione della Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale 139 legalità intesa come tassatività. Avendolo inserito voi della Corte, ho solo una possibilità: convincervi che qualcosa non torna. - Mi vengono in mente le infinte vie del Signore. - Siete la cuspide. Dopo di voi non esiste più nulla. Altro non posso fare che esprimerle alcune perplessità. Non vorrei tirare in ballo la Corte di Strasburgo, anche perché, quando ci condanna, nove volte su dieci ce la siamo cercata. - Mi dica, il nostro è un dialogo vero, quello cui pensava Guido Calogero. - Cosa è il principio di tassatività? Anzi, vorrei prenderla larga. Le piace ragionare per principi? - Bella domanda. La interpretazione della legge e quella della Costituzione hanno tratti comuni. Non di meno, lo abbiamo scritto in alcune sentenze, se si interpreta la Costituzione, la lettera è la partenza. - Lo start di una corsa ad ostacoli. - Questo anche perché, a differenza della legge, la Costituzione, per definizione, è un testo pieno di quelli che lei chiama principi. Anche sostenendo, correttamente, che la Costituzione si deve interpretare in modo sistematico, il punto non cambia. Pertanto, la mia risposta è questa: non interessa se piaccia o meno, con i principi si deve fare i conti, quando si interpreta la Costituzione. - Ci sono principi o anche regole, in Costituzione? - Ha una laurea in legge, in scienze politiche? - Alcuni detenuti che conosco, anche ergastolani ostativi, sì. Entrambe. Io no. Ma, come le ho detto, in carcere si leggono le sentenze della Corte. Impariamo in cella il diritto costituzionale penale. - Torniamo a noi. - Le chiedevo dei principi e delle regole. - Per alcuni, la regola è qualcosa di immediatamente operativo, specie in termini di sanzione. Un principio chiede specificazione. Ad esempio: quando la Costituzione afferma che è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà, sembra di essere al cospetto di una regola, non di un principio, che ritroviamo altrove. - E che regola, l’unico istinto punitivo dei nostri costituenti del quale è rimasta traccia nel testo. - Sempre alle regole mi viene da pensare quando si legge che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Come vede, non serve alcuna specificazione. - Basta essere un detenuto o anche una persona libera, ma con buon senso. - Lasciamo stare i sensi. - Prendiamo il metro? - Proviamo a forgiare una massima di questo tipo. - Non stimo i forgiatori, figurarsi di massime. - Se li faccia andare bene, ogni tanto. Quando la Costituzione nega che si possa fare qualcosa, il campo è delle regole. Altrimenti, dei principi. Prenda l’art. 25: ogni suo comma inizia con nessuno può essere. Siamo vicini alle regole, è qualcosa più dei principi. - Ma la tassatività è una regola o un principio? 140 Davide Galliani - Sarei per dire un principio, nonostante tutto. Non perché non esiste esplicitamente in Costituzione, quanto perché necessita di una qualche precisazione, come i principi. Forse ha un suo nocciolo duro, la prevedibilità. Direi che la tassatività è un principio composto da componenti più e meno forti. - Come i semafori: esiste il rosso, il giallo, il verde. Al rosso ti fermi, al giallo ti dovresti fermare, al verde non ti fermi. A cosa serve il giallo, la tassatività? - La prima funzione è permettere ad una persona di orientare liberamente il proprio comportamento, al fine di non incorrere in una sanzione, in qualsiasi sventura non prevedibile. La tassatività sta al libero arbitrio come il salvagente ad una persona che non sa nuotare. - Il libero arbitrio. Esiste? - Per quanto la realtà stia lì a dimostrarci che nascere nel posto X non è eguale che nascere nel posto Y, noi dobbiamo credere al libero arbitrio. Altrimenti salta tutto il sistema. Ma proprio perché dobbiamo credere di essere tutti e sempre in grado di scegliere, dobbiamo essere tassativi nel prevedere ciò che non si può fare, quindi la sanzione in caso di violazione. - Una sanzione penale o una sanzione in generale? - La Costituzione, quando afferma che nessuno può essere punito, se non in forza di una legge, entrata in vigore prima del fatto commesso, si riferisce al campo penale. - E quello penitenziario? Queste somme distinzioni mi inquietano. Sembrano fatte apposta per dividere la seria A dalla serie B. Il penale sostanziale dal processuale, la cognizione dall’esecuzione, la legittimità dal merito, i vincoli comunitari dagli obblighi internazionali. La più grande castroneria è la distinzione tra fatto e diritto, entrambi, senza persone, gusci vuoti. Non so dove ci condurrà questo estenuante bisogno di classificare. - Vede un futuro nero? - Per fortuna, Alessandro Pizzorusso ha scritto che il diritto costituzionale è una disciplina di frontiera. L’esigenza di specializzazione ha scavato una fossa mortale al sapere. Conosciamo tutti di più, ma sappiamo tutti di meno. - Le piace Ferdinando Camon. Comunque. Mi sta domandando se la tassatività, figlia della madre legalità, riguarda anche la fase esecutiva, il trattamento penitenziario? - Mi interessa saperlo. - Fino a poco tempo fa, rispetto alla irretroattività, la risposta era negativa. Di recente, presumo lo sappia, abbiamo rimeditato la tematica, a fronte di un diffuso disagio nella giurisprudenza. Nella n. 32 del 2020, risolvendo una dozzina di ordinanze, e usando Strasburgo, casi statunitensi, riferimenti alla Francia, diciamo questo: quando una legge non prevede alcuna disposizione sul regime temporale, e quando gli effetti di questa legge incidono su natura, qualità e quantità della pena in concreto applicabile al momento del reato, deve valere la irretroattività. - Deve valere significa che è una regola? - Lei è curioso, e testardo. - Sono stato un delinquente, e tra i delinquenti ci sono persone curiose, e testarde. E altre meno. - Va bene, la perdono. Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale 141 - Che verbo significativo. - Mi lascia finire? - Certo. Non si arrabbi però. Tra i delinquenti o gli ex delinquenti esistono anche quelli che ogni tanto scherzano. Come tra i magistrati. Mica sono tutti seriosi, esistono anche gli spiritosi seriali. - Dicevamo. Di recente, la Corte ha esteso il divieto di retroattività anche al campo dell’esecuzione penale. Ci siamo subito ritornati. La soluzione è stata la stessa, anzi la n. 193 del 2020, sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, è ancora più netta. Esiste una sola interpretazione possibile, una sola compatibile con la legalità-irretroattività: la questione di costituzionalità non è fondata, deve valere il divieto di retroattività. Non tornate più alla Corte, interpretate il silenzio del legislatore escludendo la retroattività. - Che coraggio. - Un principio di civiltà, di uno Stato di diritto. - Allora siamo d’accordo. La tassatività, essendo un principio di civiltà al pari della madre legalità, deve valere anche in fase di esecuzione della pena. Non aggiungo altro sul divieto di retroattività. Basti pensare al concorso esterno. Agli ostativi che diventano tali per volere della sorveglianza, non perché scritto in condanna. Per non dire dell’aggravante dell’art. 7, valida retroattivamente, con ciò che ne consegue sul regime penitenziario. D’altro canto, commetto un reato nel 1980, nel 1991 nasce l’ostatività, bizzarro (incostituzionale) applicarla anche a me: non è che si riducono le ore al passeggio, cambia e di molto la natura della pena. Qui mi fermo, se no dovrei parlare pure dei reati non associativi, ma di gruppo, come ha fatto la Cassazione. - Meglio fermarsi. - Sulla tassatività qualcosa ancora. Se significa possibilità di prevedere la conseguenza dei propri comportamenti, non le sembra che il pericolo di ripristino del quale parlavamo sia un poco carente? - Mi chiarisca la sua idea. - Il discorso sull’attualità dei collegamenti è semplice, si fa per dire. So che la sorveglianza, se intrattengo oggi dei collegamenti, mi negherà il permesso. Posso ora concederti un permesso, anche se non hai collaborato e potevi farlo, ma non ho acquisito elementi tali da escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. Partiamo pure dal presupposto, solo presupposto, che le autorità coinvolte forniscano informazioni dettagliate, individualizzate, riguardanti la mia persona. Io cercherò di dimostrare le mie ragioni, ma alla fine funziona sempre così: a volte convinci il giudice, altre volte no. Farò ricorso al tribunale e poi in Cassazione. Normale amministrazione, che riguarda i miei problemi di oggi, i fatti attuali. - Quindi? - Se ora si chiede di provare anche l’esclusione del pericolo di ripristino dei collegamenti, non riesco a capire. Mi sembra evidente il problema tassatività. Che non è solo mio, ma anche del giudice. - Continui. 142 Davide Galliani - Io posso allegare, con difficoltà, per escludere l’attualità dei collegamenti. Ma non ho chiaro cosa significhi escludere il pericolo di ripristino. Cosa devo fare, cosa mi si chiede di fare? - Vada avanti, la ascolto. - Sono in crisi. Il pericolo di qualcosa che potrebbe capitare non comprendo bene cosa sia. Ma questo sono io. E il giudice che dovrà valutare? Dove è il perimetro, il limite della sua discrezionalità? Torniamo al punto: e la tassatività? In tanti dicono che i giudici si allargano troppo, di fronte alla legge cercano giustizia. Io non generalizzerei. Ma ammettiamo la preoccupazione: è il caso di aprire ai giudici una prateria? - Proviamo a fare chiarezza. - Serve. - Partiamo da un assunto. Anche se la Corte non è il legislatore, pure su di noi incombe l’onere della tassatività. Non solo quando scriviamo una motivazione, ma anche e soprattutto quando redigiamo il dispositivo, che spesso è un pezzettino aggiunto ad una disposizione. Incastoniamo in una disposizione un altro pezzettino di disposizione, quindi onori (siamo legislatori positivi) ed oneri (dobbiamo essere tassativi). - Non sapevo della vostra somiglianza così stretta con il legislatore, ma voglio capire il suo discorso. - Anche in carcere si deve sapere come comportarsi. Però non sarei allarmato, come sembra lei. In fondo, quando abbiamo scritto il pericolo di ripristino intendevamo introdurre una sorta di pericolosità specifica. Qualcosa in più della pericolosità già presente nell’attualità. - Siamo al terzo binario della pericolosità. Quello normale, vagliato dal giudice per ogni beneficio o misura. Quello specifico, sull’attualità. E poi questo nuovo, sul pericolo di ripristino. Un binario tira l’altro, il doppio diventa triplo. In ogni caso, il pericolo di ripristino non si riesce a provare perché è una valutazione, non un fatto, e le prove o allegazioni che siano concernono fatti. - Mi lasci finire. Per noi il pericolo di ripristino significa chiedere alla sorveglianza una prognosi particolarmente rigorosa. - Questo l’ho capito. - Quindi di cosa si lamenta? - La discrezionalità del giudice è come il buco di una ciambella. Grande o piccolo, lo decidono i pasticcieri (legislatore, Consulta), ma senza il contorno la ciambella sparisce, diviene altro, un bombolone. A me sembra che il requisito del pericolo di ripristino sfumi talmente tanto il perimetro da trasformare la ciambella in un bombolone. E quindi la discrezionalità del giudice in qualcosa di diverso. Non mi faccia dire in arbitrio, ma la discrezionalità senza tassatività consegna un potere enorme al giudice. - Legge Ronald Dworkin. - Quando sente dire che in carcere il tempo non manca è vero. Se sei ergastolano ostativo ti auguri che la durata della vita media torni a essere quella degli anni cinquanta del Novecento. Mi facessero lavorare. Invece leggo, dalla mattina alla sera, roba tosta: Alberto Moravia, Ignazio Silone, Blaise Pascal, Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale 143 Norbert Elias, Herman Hesse, Emmanuel Mounier, Pierre Bourdieu, Marilynne Robinson, ovviamente Charles Péguy. - Allora non faccia troppo la vittima. - Vero, io sono il reo. O ero reo? - Gioca con le parole. - Non è vietato. - Direi che è un suo diritto. - Finché non lo dicono le sezioni unite, sto cauto. - Torniamo ai nostri discorsi. Sono sicuro, a questo punto, che abbia letto come è andata a finire la storia del vivere onestamente e rispettare le leggi. - Dopo Raymond Carver, non ho letto niente che mi abbia più impressionato, per l’accumulo di dettagli particolari e specifici. - Ammetto. La I sezione della Cassazione si era data da fare per tassativizzare quella prescrizione che nulla prescriveva. Sia lodata la I sezione. - Sempre sia lodata. - Ad un certo punto, per motivi incomprensibili agli umani, si tirano in ballo le sezioni unite, che sganciano la bomba. Ordinano ai giudici di disapplicare la legge, nella parte in cui prescrive di vivere tutti buoni e acquattati, rispettando le ottime leggi. A questo punto, sempre per motivi che non tutti gli umani possono comprendere, un’altra sezione, di quella stessa Corte, solleva questione di costituzionalità, e arriviamo noi della Consulta che mettiamo la parola fine: incostituzionale. - Un romanzo, tra il gotico e il romantico. Non vorrei però aspettare anni di giurisprudenza di legittimità tassativizzante, anche perché non ho idea se tutto possa essere tassativizzato, iniziando dal pericolo di ripristino. Spero mi comprenda: sono entrato ventenne, ne ho quaranta, non è che possa attendere i sessanta. Altrimenti meglio fare come in America Latina, abolire l’ergastolo e introdurre una pena determinata di quaranta anni. - Ne parli al legislatore. - Buonanotte. - Non disperi. E non abbia fretta, che diamine. Deve avere fiducia nella magistratura. - Facile a dirsi, ma ci provo. Ma il problema del pericolo di ripristino non riguarda solo il detenuto, spaesato. Non riguarda nemmeno solo il giudice, che potrebbe sentirsi, in alternativa, il giudice Ercole (che tutto può) o il giudice Aergia (la dea greca della pigrizia). Ho timore che, se non si ripensa il pericolo di ripristino, la conseguenza sarà che il comitato ordine pubblico, le procure, le direzioni antimafia e la procura nazionale, che potrebbero intervenire in materia, senza mai potere di veto, riprodurranno note e informative generiche, standardizzate, stereotipate. - Abbiamo scritto anche questo: le informazioni devono essere dettagliate, stringenti. - Entra da un orecchio ed esce dall’altro, se entra. D’altro canto, siete entrati a gamba tesa negli ambiti della sorveglianza, quasi trattandola come una magistratura minorenne. Non dico inaffidabile, ma sembra che qualcosa vi abbia autorizzato a trattarla come magistratura sotto osservazione. 144 Davide Galliani - Dice? - Come no. A volte comunque penso sia la stessa sorveglianza a cercarselo. - Che strano mondo, iniziando dal nome, che tutti rinnegano, ma poi nessuno cambia. - Sia quel che sia, dato che in sorveglianza non tutti sono Sandro Margara, che rispediva al mittente le informative che non informavano, il giudice avrà di fronte questo scenario. Io che allego chissà cosa per dire che non esiste pericolo di ripristino dei collegamenti e le autorità che diranno che il clan non è distrutto, anzi è ancora attivo. Nulla su di me, nulla di individuale, ma appunto: se il tema è il pericolo di ripristino, basterà dire che il clan non è smantellato. - Non era così anche per l’attualità? - Si e no. Intanto, non abbiamo molta giurisprudenza a proposito. E questo perché le collaborazioni impossibili, irrilevanti, inesigibili, riconosciute ad ergastolani ostativi, sono poche. Così come pochi sono coloro che hanno utilmente collaborato con la giustizia, grosso modo lo stesso numero degli ergastolani ostativi. In ogni caso, ci sono delle cose che quelle sono e quelle rimarranno. Ad esempio, l’indagine patrimoniale, il sostentamento della famiglia. Continuerà a non mancare il nostro albero genealogico: se ho avuto un colloquio con un mio parente, risultato imputato per un reato della galassia di quelli mafiosi (non le dico condannato, basta l’imputazione), ecco che arriva l’attualità dei collegamenti. La vedo perplesso. - Sta pensando al divorzio o a cambiare cognome? - La mia è una corsa ad ostacoli, ma non demordo, cerco di allegare. Quello che mi si chiede è dimostrare, o meglio, convincere il giudice che oggi, lo sottolineo, oggi, i collegamenti (che sono fatti) non esistono più. - Mi sta dicendo che se questo è complicato con l’attualità, diviene particolarmente difficile nel momento in cui lei deve allegare per dimostrare che è escluso il pericolo di ripristino dei collegamenti. - Intendo dire che non vedo come si possa tassativizzare. Non mi riferisco tanto al ripristino, ma proprio al pericolo di ripristino. Sa cosa penso? - Cosa? - La sorveglianza sta diventando sempre più giudice della pericolosità e sempre meno della rieducazione. Lo ha scritto il Professor Francesco Palazzo, una grande persona, un grande giurista, un grande penal-costituzionalista. - D’accordissimo. A parte la brutta parola. - Il penale moderno nasce costituzionale. Oggi non vi è penalista serio che non possa dirsi anche costituzionalista serio. La parola è brutta, ma il senso è che ha vinto Franco Bricola. - Anche Ettore Gallo, partigiano, presidente della Consulta. - Che stima. - E i costituzionalisti, come li vede? - Se si interessano di penale come i penalisti di costituzionale, siamo a posto. - Riprendiamo. - Almeno, nella collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile, la sentenza di condanna era il limite della discrezionalità della sorveglianza. Ora il limite dove sta? Il pericolo di ripristino non ha limiti. Ha presente la medicina difensiva, il medico che, per paura di sbagliare, prescrive ogni medicina, così se ne lava le mani? Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale 145 Noi in carcere la conosciamo. Temo che sarà così anche in sorveglianza: per non saper né leggere né scrivere, il pericolo di ripristino sarà la medicina difensiva dei giudici. - Si stava meglio quando si stava peggio? - Spero si sia capito che non avete cancellato la impossibile, inesigibile, irrilevante. Ma converrà: dire che è più semplice la collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante della non collaborazione suona come una beffa. Come a dire: la n. 253 non serve a niente, visto che nel primo caso basta l’attualità, mentre nel secondo serve anche il pericolo di ripristino. Tutto questo mi rende perplesso, anche perché non ho mai stimato la collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante, da voi introdotta. - Che criticone. - Una clamorosa violazione dell’eguaglianza. Se il reato per il quale puoi collaborare è prescritto, entri nel girone del purgatorio, in vista del paradiso. Se non è prescritto, resti in quello dell’inferno. Da cosa dipende? Dal caso, dalla fortuna. - Il problema prescrizione non esiste più. - Vedremo. Poi guardi, ma è meglio lasciare stare. - Dica. - Esisteranno sempre due cose. La prima sono i giudici della cognizione precisi e profondi, e quelli confusi e superficiali. Capisce cosa significa in termini di collaborazione impossibile? - La seconda? - Esisteranno delle zone d’ombra fino a quando esisterà lo Stato. - Non la seguo. - Capita che non si dia la collaborazione impossibile perché restano da chiarire delle cose, che spesso hanno a che fare con gli intrecci tra mafia e Stato. - Continuo a non seguirla, anche se ho sempre ammirato moltissimo Pippo Fava. - Pensi ai mandanti di un omicidio di mafia, alla capacità delle mafie di riunirsi a grappolo e disarticolarsi in ogni via di ogni paese. Ha presente cosa significa ragionare in termini di zone d’ombra? - Mi sta dicendo che, se vuole, il giudice, in un modo o nell’altro, troverà il modo per negargli la collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante? - Perfetto. E mi rassicura la giurisprudenza di legittimità più recente, secondo la quale, in caso di zone d’ombra, non bisogna riconoscere l’impossibilità della collaborazione, ma serve una motivazione rinforzata per negarla, in ossequio al favor rei e all’oltre ogni ragionevole dubbio. - Come ci stiamo allargando. - Per quanto mi possa rassicurare la Cassazione, resta il fatto che le organizzazioni criminali di stampo mafioso sono un intreccio di reticoli inestricabili, che toccano i piani alti del potere. Si figuri, quindi: io posso anche essere una persona ricreduta, ma siccome, per quanto piccolo o grande, ero dentro questo infernale ingranaggio, qualcosa da dire alla giustizia ci sarà sempre. Si stava meglio quando si stava peggio? Se prima esistevano confini sfumati, con il pericolo di ripristino vedo una prateria, non vedo alcun confine, non vedo il fine e quindi la fine della mia pena. 146 Davide Galliani - Ma se in condanna vi è scritto che non è chiaro se sul luogo del delitto è andato da solo a piedi o accompagnato in auto, mi sta dicendo che questa zona d’ombra porta a negare la collaborazione impossibile? - Le dico che non dovrebbe essere così, ma vada lei a spiegare in sorveglianza e in alcune sezioni della Cassazione che il favor rei e l’oltre ogni ragionevole dubbio riguardano anche la serie B, la fase esecutiva, non solo la seria A, la cognizione. - Non ama le distinzioni, le classificazioni. Sembra studiare all’università. Comunque, una cosa mi sembra chiara: lei vuole uscire di galera. Converrà con me che, se frapponiamo al suo ritorno in società qualche cautela, non stiamo attentando alla Costituzione. - Sarà, ma il secondo capoverso del §9 del Considerato in diritto della n. 253 mi turba. - Non esageri. - Come superare la presunzione non più assoluta? Scrivete: non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione. Mi sembra di leggere una intervista ad uno dei soliti pubblici ministeri o ex pubblici ministeri, quelli che sanno solo loro di mafia. - Offende. - Se si offende vuol dire che il problema esiste. Intanto, va bene, la regolare condotta non basta, ma se in carcere combino un danno dopo l’altro, forse è meglio la regolare condotta. - Alcuni dicono: i mafiosi sono tutti buoni ed educati in carcere. - Una fesseria. Si pensa siano tutti uguali, invece non sono tutti uguali. Fossero tutti uguali, avremmo sconfitto la mafia da tempo. - Andiamo avanti. - La mera partecipazione al percorso rieducativo? Che significa mera? Di quale percorso parlate? Ho sbagliato, questo lo dice la condanna e lo dico anche io. Ma sul percorso rieducativo non esageriamo. Se mi avessero dato più trattamento avrei fatto di più. Non scrivete più la mera partecipazione alla rieducazione. Una briciola di pane in carcere vale al pari di un diamante, a chi piacciono. - Non volevamo sminuire niente. - Dovevate scrivere diversamente. - E poi? - Discutete di una soltanto dichiarata dissociazione. A voi sembra facile fare quella che chiamate una soltanto dichiarata dissociazione? Le mura delle carceri parlano. Se intendete che non basta un pezzo di carta con scritto mi dissocio, non era necessario dirlo. In sorveglianza non sono fessi. - Ci mancherebbe. - Decidono sul 41-bis, sulla collaborazione impossibile, sul 35-bis ord. penit., insomma, si occupano dalla mattina alla sera di mafia. - Non facile il mestiere di giudice in sorveglianza. - Quanto parlano i fenomeni dell’antimafia. Pensi che Giovanni Falcone, quando era già al Ministero, prima di accettare una collaborazione con un quotidiano, andò a casa di Norberto Bobbio a chiedere consigli. - Non dilatiamoci. Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale 147 - Ha ragione. Però quel capoverso appena citato è strano. L’ho ricordato perché stavamo parlando di pericolo di ripristino. Vedrà che arriveranno le decisioni della sorveglianza che diranno: l’attualità non esiste, esiste il pericolo di ripristino. In fondo, stai in carcere da venti anni, a centinaia di chilometri da dove abitavi, anche per questo il comitato ordine pubblico mi ha detto che non sa chi sei. Attualità zero. Però dalle informative (non sempre univoche) si può desumere che esistono dei movimenti per ricostituire il clan al quale appartenevi o che è ancora esistente. Meglio non rischiare, del resto non è che mi posso basare sulla sola regolare condotta e sulla mera partecipazione alla rieducazione. Poi non hai mai collaborato, il permesso si nega: pericolo di ripristino. - Ho capito il ragionamento. Non di meno, non capisco cosa c’entri il fatto che non abbia collaborato, dato che è una sua libertà farlo. - Nemmeno io. Come pure non capisco perché si voglia desumere qualcosa dalla professione di innocenza. - In quanto tale è un fatto, coperto dalla libertà di non collaborare. - Non dico che la professione di innocenza debba essere sempre intesa come distacco dal clan, ma intenderla come non ancora matura rieducazione mi pare assai sbagliato. - Siamo verso la fine, devo tornare in Corte. - Anche io devo tornare, in cella. Volevo chiederle qualcosa sul prossimo caso, riguardante la liberazione condizionale, non il permesso premio. - Non si pone limiti, ma probabile che, se fossi al suo posto, farei ancora più domande. Essere giurista è essere curiosi, inquisitori, indiscreti. - Quando mi ricapita di dialogare con un giudice costituzionale. Lo sa che dei 1.271 ergastolani ostativi credo che il 90% abbia chiesto almeno una volta la collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante? E lo sa che, facendo due calcoli, sempre di questi 1.271, la maggioranza è in carcere da più di due decenni? - Traduca. - Non sto dicendo che oggi tutti gli ergastolani ostativi hanno soddisfatto il requisito temporale per domandare la liberazione condizionale. Tutti no, ma quasi tutti probabile. Di certo quello del permesso, quasi certo quello della semilibertà, verosimile quello della liberazione condizionale. Ne conosco alcuni che hanno anche sei anni di liberazione anticipata, che non ti danno in automatico, ma se hai dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione. - Che parole nell’ordinamento penitenziario. Opera di rieducazione, ad esempio. - L’altro giorno ho letto Arthur Schopenhauer, secondo il quale la prima regola, e forse l’unica, del bello stile è che si abbia qualcosa da dire. - I dati che citava li conosco, il problema è strutturale. La Corte di Strasburgo non ha usato la pilota solo perché erano depositati pochi ricorsi. - Sarà d’accordo che basta la nostra Costituzione. - Rispettarla significa rispettare la Convenzione. - Avrei moltissime altre cose. - Ci sto prendendo gusto. A volte curiosare è curare. Magari ancora due o tre cose. 148 Davide Galliani - Ho capito che il permesso è un beneficio, mentre la liberazione condizionale una misura alternativa, che, se va bene, estingue la pena. La liberazione condizionale modifica la natura della pena, a differenza del permesso. - Casi uguali trattamenti uguali, casi differenti trattamenti differenti. Permesso e liberazione condizionale sono differenti, quindi trattamenti differenti. Però esiste l’ambito riservato al legislatore. - Vero, ma esisteva anche rispetto ai permessi. - Prendo nota. - A proposito. Conosce il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia? - Non è un tema del quale si discute molto. - Mi basta dirle una cosa. In commissione antimafia è andato il procuratore nazionale antimafia, dicendo che il sistema protezione va riformato. Servono personale, esperienza, professionalità. Uno dei problemi maggiori è l’automatismo. - Anche lì? - Proprio così. Ti fanno indossare un camice non ritagliato su chi sei, ma uguale per tutti i 1.200 collaboratori e i 4.800 famigliari. Poi vi è dell’altro, la burocrazia, la sensazione di essere abbandonato. - Che peccato. - Non lo dica a me. In molti decidono di non collaborare anche perché lo Stato italiano non è in grado di essere più forte della mafia. La mafia è intelligente, lo Stato a fasi alterne. La mafia non dimentica, lo Stato ti spreme e una volta spremuto si dimentica di te. Caro giudice, la mafia è una montagna di merda, come diceva Peppino Impastato. Ma a volte mi viene da pensare che la vita di un collaboratore di giustizia sia un inferno tanto quella di un ergastolano ostativo, quindi faccia lei. - Io non faccio niente, prendo appunti. - E allora le dico ancora che sulla liberazione condizionale la competenza è sempre collegiale, del tribunale. Magari questo potrebbe indurvi a non estendere il pericolo di ripristino dal permesso alla liberazione condizionale. - Non le dico che la strada sia segnata. Le dico che alla Corte saremo cauti. - Ho detto del tribunale, invece del magistrato, perché in apertura ha detto che la collegialità è una risorsa straordinaria. In sorveglianza è pure multidisciplinare. - Mi segno tutto. - Inoltre, esiste la libertà vigilata, automatica e fissa per ogni ergastolano. Sempre e comunque, dura cinque anni. Non è la stessa cosa di avere delle prescrizioni da rispettare, come nel permesso. La libertà vigilata è esattamente quello che sembra: una libertà a metà. Non un secondo carcere, ma se fai un minuscolo errore, arrivederci, quasi addio. - Mi vuole dire che la diversa natura, i diversi requisiti sostanziali, la collegialità e la libertà vigilata automatica di cinque anni dovrebbero indurci a ripensare il pericolo di ripristino, nel momento in cui la questione sarà la liberazione condizionale, non il permesso? - Sempre non vogliate sollevare questione di costituzionalità dell’automatismo e della fissità della libertà vigilata per gli ergastolani. Potrebbe essere coerenza con la vostra giurisprudenza in tema di automatismi e fissità, che stanno alla individualizzazione come Victor Hugo alla superficialità. - Lasciamo stare la fantascienza. Un dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale 149 - Vero, anche perché, dovesse lasciarsi campo libero alla sorveglianza, ci ritroveremo con liberi vigilati a vita, e così l’americanizzazione della penisola sarebbe completa. - L’idea mi solletica. Non gli americani, non la loro cultura penalistica. Ma qualcosa di sensato in quello che dice esiste. Esisteranno ergastolani da vigilare per tre anni, altri per cinque, altri per sette. Che bella cosa l’individualizzazione. Teniamoci l’automatismo, eliminiamo la fissità. - Accetto. Per me è una sfida. Convincerò il giudice che bastano tre anni invece di cinque, sapendo che potrebbe vigilarmi per sette. Ma altri automatismi proprio non li sopporto. In quanto ergastolano, mi hanno privato della potestà genitoriale. Quasi a dirmi che tanto sarò un cattivo padre e tanto dal carcere non uscirò mai. - Chi era questo legislatore? - Quello fascista. - Esiste ancora quella previsione? - Sì, anche se a nessuno interessa, eppure la cognizione dovrebbe essere la serie A. - Stiamo al tema, però. - Dimenticavo, il nostro tema è l’ergastolo ostativo, non quello ordinario, sul quale stranamente si fa fatica anche solo a domandare una opinione. - In che senso? - Si può chiedere ad un magistrato cosa ne pensa della pena di morte, ma le cose cambiano rispetto alla pena perpetua. Per non imbarazzare nessuno abbiamo finito di porci le domande. Pazzesco. Una volta un pubblico ministero mi ha detto che chiedeva l’ergastolo per evitare una guerra civile. - Il silenzio forse dipende anche dal fatto che la pena capitale non è ammessa dalla Costituzione, mentre della pena perpetua non se ne parla. - Come avviene con la tortura. - Comunque, stiamo andando in lungo e in largo. - Tornando a noi. Non fate rientrare dalla finestra quello che avete fatto uscire dalla porta, il tipo di autore non può tornare a vivere sotto forma di pericolo di ripristino. Il pericolo è il ripristino della presunzione assoluta, il partecipe sempre partecipe. - Possiamo fermarci. Il dialogo è stato interessante. - La ringrazio. Mi sono sentito importante. - Non si dimentichi le vittime. - Ha ragione. La Costituzione è uno scudo per i detenuti, ma anche per le vittime. - La Costituzione è di tutti. - Ho tradito la Costituzione. Non ho mostrato alcuna solidarietà, nei confronti di nessuno. Ho messo davanti a tutti solo me stesso. Ho trattato le persone come oggetti, finendo in questo modo per ledere la loro e la mia dignità. - Proprio così. - Vorrei dimostrare che la persona del reato è lontana, cambiata. Non è facile, ho distrutto vite. Mi chiedo però a cosa serva tenermi rinchiuso qui dentro fino alla fine dei miei giorni. L’ergastolo ostativo non ha niente di retributivo. Posto che, per me, la scelta di collaborare non sempre dipende dalla sua utilità, se avessi 150 Davide Galliani collaborato sarei fuori da decenni. Non posso fare altro che chiedere scusa, spiegando perché ho capito di aver sbagliato. - Esatto. - Che sia scritto o meno in una legge, è la cosa giusta da fare. Tocca il nostro essere persone. Ho un sacco di dubbi a proposito. Ho paura di far soffrire ancora i famigliari delle vittime. - Lo comprendo, è umano. - Il timore è la premessa della concentrazione. Ce la metterò tutta. Ho capito che la comunità è costituita in larga misura da un amore immaginativo per persone che non conosciamo o conosciamo appena. Che la comunità non sopravvive se ragioniamo in termini di noi e loro. - Ineccepibile. - Non voglio fare del sentimentalismo, che va evitato. Non voglio però rinnegare i sentimenti, che sono inevitabili. I miei sono questi, una profonda irrequietezza per come potranno i famigliari delle vittime comprendere ciò che ho da dire. - Lina Merlin diceva che la vita è un continuo trascendersi, porsi dei limiti e superarli. Continui a leggere i nostri costituenti e della buona letteratura. - Ora sto leggendo un diario di un direttore di carcere. Non vedo l’ora di leggere libri scritti da giudici sulla loro esperienza alla Corte. - Quali sono i suoi orizzonti? - Qualunque siano, sono ristretti. - Ma lei ha fede? - Ho speranza. - Prosegua il ravvedimento. - Sicuro. DIRITTO ALLA SPERANZA E PRECLUSIONI ASSOLUTE. UNA COMPARAZIONE CON L’ORDINAMENTO LITUANO IN CHIAVE “PREVENTIVA” di GIACOMO GIORGINI PIGNATIELLO1 SOMMARIO: 1. La quaestio legitimitatis. – 2. Il peso specifico del precedente Viola n° 2 nell’ordinamento italiano. – 3. Parlamento e Giudice delle Leggi: un rapporto complesso. – 4. Suggestioni baltiche: la Repubblica di Lituania. – 5. La disciplina dell’ergastolo nell’ordinamento lituano ante 2019. – 6. Il caso Matiošaitis. – 7. Le riforme della Seimas. – 8. La sentenza Dardanskis. – 9. Questioni aperte e auspici. 1. A meno di un anno di distanza dalla pronuncia Viola c. Italia n° 2 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e dalla sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale italiana, il Giudice delle Leggi in data 3-18 giugno 2020 veniva nuovamente adito con ricorso incidentale dalla prima sezione penale della Corte di Cassazione. Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale della presunzione assoluta di legge che preclude in specifiche ipotesi l’accesso alla liberazione condizionale del condannato non collaborante con la giustizia che abbia commesso alcuno dei gravi reati, detti appunto “ostativi”, indicati all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario (l. n. 354 del 1975). Assume il legislatore che la mancata utile collaborazione, laddove possibile e oggettivamente non irrilevante, costituisca di per sé prova invincibile, non soggetta all’accertamento giurisdizionale – caso per caso - da parte della magistratura di sorveglianza, della mancata assenza di ogni legame con l’ambiente criminale di appartenenza. Da tale circostanza l’ordinamento fa discendere iuris et de iure la perdurante pericolosità sociale del condannato, il quale, di conseguenza, non può beneficiare della liberazione condizionale, che, è bene rammentarlo, costituisce un momento fondamentale per la graduale risocializzazione del detenuto. Il combinato disposto degli articoli 4bis, comma 1 e 58-ter l. n. 354 del 1975 e art. 2 d.l. n. 152 del 1991, convertito con modificazioni in l. n. 203 del 1991, che preclude l’accertamento in concreto della pericolosità sociale del condannato, si porrebbe allora – ad avviso del giudice a quo – in contrasto con gli articoli 3, 27 e 117 della Costituzione, che delineano il volto costituzionale della sanzione penale nell’ordinamento repubblicano. 2. L’incidente di costituzionalità in commento tuttavia non giunge come un fulmine a ciel sereno, ma anzi era ampiamente atteso. Nel più ampio contesto del Consiglio d’Europa, infatti, si è andata consolidando una nutrita giurisprudenza della Corte EDU in tema di diritto alla speranza (Right to hope), che ha di fatto contribuito in parte a demolire e in parte a  Dottorando di ricerca in Scienze Giuridiche, Università di Foggia-Siena. 152 Giacomo Giorgini Pignatiello riscrivere la disciplina del carcere a vita (Life imprisonment) nel Vecchio Continente, relegandolo a ipotesi del tutto residuali. Proprio recentemente l’Italia nel caso Viola sopra ricordato è stata condannata per la preclusione assoluta di legge che non permetteva all’ergastolano ostativo non collaborante di accedere alle misure, quali permessi premio e liberazione condizionale, che ne consentono un graduale reinserimento nella società. Osservano i Giudici di Strasburgo che, da una parte, «la mancanza di collaborazione potrebbe essere non sempre legata ad una scelta libera e volontaria, né giustificata unicamente dalla persistenza dell’adesione ai “valori criminali” e dal mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza»; dall’altra «si potrebbe ragionevolmente essere messi di fronte alla situazione dove il condannato collabora con le autorità, senza che tuttavia il suo comportamento rifletta un cambiamento da parte sua o una “dissociazione” effettiva dall’ambiente criminale, in quanto l’interessato potrebbe agire con l’unico proposito di ottenere i vantaggi previsti dalla legge». Ne deriva che «l’immediata equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione assoluta di pericolosità sociale finisce per non corrispondere al reale percorso rieducativo del ricorrente». Precludendo in forza di una irragionevole equivalenza l’accesso del condannato a percorsi per il reinserimento nella società, il legislatore finisce per congelarne la personalità al momento della commissione del reato e nega ogni speranza di liberazione futura, in patente violazione dell’art. 3 CEDU. La decisione Viola pende dunque come una spada di Damocle sulla disciplina italiana che non è stata interessata da alcuna riforma legislativa sul punto. Allo stesso tempo, esercita sulla giurisprudenza costituzionale una notevole influenza posto che l’art. 3 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, assurge a parametro interposto di costituzionalità, giusta l’invocazione da parte del giudice a quo dell’art. 117 Cost. D’altro canto, la Consulta con la sent. n. 253/2019, dichiarando l’incostituzionalità della preclusione assoluta che negava agli ergastolani ostativi non collaboranti l’accesso ai permessi premio, operando un significativo revirement del proprio consolidato orientamento, sembra aderire senza eccezioni di sorta ai principi enunciati in tema di diritto alla speranza dai Giudici di Strasburgo. 3. In via preliminare occorre anzitutto rilevare l’insostenibile inerzia del legislatore italiano rispetto ad una riforma complessiva del sistema delle pene, che in determinate ipotesi portano ancora i segni di una tecnica normativa di derivazione autoritaria o emergenziale, in palese contrasto coi principi di un ordinamento costituzionale democratico, come ben dimostra il caso della collaborazione con la giustizia per l’ergastolano ostativo, che si pone per quest’ultimo come una condicio sine qua non, processualmente invincibile, per poter sperare in un graduale reinserimento nel consorzio civile. La propensione alla “delega” al Giudice delle Leggi da parte di un Parlamento, che decide di non decidere quando è il momento di disciplinare temi cc.dd. sensibili, finisce inoltre per generare una forte tensione con il principio democratico e il principio di separazione dei poteri dello Stato. Le operazioni di ortopedia giuridica della Consulta, anche in tema di ergastolo, sono ormai note e l’ordinanza in commento non smentisce questa tendenza. Per Diritto alla speranza e preclusioni assolute 153 ragioni di spazio non è possibile in questa sede soffermarsi con la dovuta attenzione sullo strumento dell’ordinanza (sentenza?) a tempo, profondamente divisiva in dottrina. Recentemente coniata ex novo dalla Corte costituzionale, in risposta alle sempre più frequenti questioni ad alta densità politica “delegatele”, non può più essere considerata un mezzo riservato a casi eccezionalissimi, come dimostra la sua ultima applicazione (ord. 132/2020). Posto che l’ostatività costituisce nell’ordinamento italiano un tema politicamente molto delicato, poiché rappresenta il più potente strumento di incentivo alla collaborazione con la giustizia nel caso di reati ritenuti particolarmente pericolosi per la stessa esistenza dello Stato, viene spontaneo chiedersi se la Consulta riterrà anche in questo caso di offrire al legislatore un’ultima chance per riformare l’istituto in parola. In caso affermativo, in che termini deferirà la questione al legislatore e cioè quanto la Corte nella propria ordinanza entrerà nel merito in ordine alla legittimità/non legittimità costituzionale delle norme impugnate? L’ordinanza a tempo è uno strumento rispettoso del principio di separazione dei poteri oppure svilisce la libertà del Parlamento di non decidere? Eccede i poteri costituzionalmente attribuiti alla Corte costituzionale o rientra in una fisiologica evoluzione dell’armamentario del Giudice delle Leggi? 4. In ottica “preventiva”, la comparazione ben si presta in questa occasione ad offrire interessanti spunti di riflessione per un eventuale superamento di quelle preclusioni legislative assolute che in materia di ergastolo ostativo ostacolano de iure e de facto una piena affermazione del diritto alla speranza nell’ordinamento italiano. A tal proposito recentemente la Repubblica di Lituania è stata destinataria di alcune pronunce della Corte EDU che hanno indotto la Seimas, il Parlamento monocamerale lituano, a riformare la disciplina dell’ergastolo, in modo da rendere la legislazione nazionale conforme agli standards di cui all’art. 3 CEDU. Dopo una prima condanna (Matiošaitis and Others v. Lithuania, 2017), in un secondo tempo la Corte EDU ha constatato il rispetto dei parametri convenzionali da parte della nuova normativa lituana (Dardanskis v. Lithuania, 2019). Il legislatore nazionale ha infatti avuto il coraggio di assumere decisioni politiche impopolari, in un momento di cavalcante populismo penale, non rimettendo tale spinosa operazione nelle mani della Corte costituzionale. La dinamica tutta parlamentare che ha portato alla riforma dell’ergastolo nel sistema lituano, nel solco di una fisiologica centralità del legislatore, rende la nuova disciplina della liberazione condizionale per i condannati al carcere a vita un caso di studio degno di approfondimento in prospettiva de iure condendo per l’Italia, chiamata presto a prendere posizione sul punto. 5. Nel 1990, dopo un lungo periodo di occupazioni straniere e resistenza armata, la Lituania proclamava la propria indipendenza e nel 1992 entrava in vigore la Costituzione della Repubblica di Lituania. Nel 1998 la Corte costituzionale dichiarava l’incostituzionalità della pena di morte prevista dal vecchio codice 154 Giacomo Giorgini Pignatiello penale del 1961, ritenendola in contrasto con l’art. 21 §3 della Costituzione, che proibisce le punizioni crudeli. Pochi giorni dopo, la Seimas approvava un emendamento col quale convertiva tutte le ipotesi di pena di morte in ergastolo. Il nuovo codice penale del 2003, attualmente in vigore, prevede l’ergastolo solo nei casi più gravi, quali l’omicidio aggravato, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra, i reati che offendono l’unità o la stessa esistenza dello Stato e alcune fattispecie legate alla tutela della sicurezza pubblica. L’articolo 77 del nuovo codice penale prevedeva altresì che il condannato all’ergastolo non potesse usufruire né della liberazione condizionale, né di altro beneficio penitenziario che potesse attenuare il regime carcerario. La preclusione a tali benefici per l’ergastolano era confermata anche da una successiva riforma del 2012 in tema di liberazione condizionale (Probacijos įstatymas) e dall’art. 158 §1(3) del Codice dell’esecuzione penale. Gli unici casi in cui l’ergastolano poteva sottrarsi al carcere a vita erano la malattia terminale, la disabilità mentale e la grazia presidenziale. Disciplinata dall’art. 84 della Costituzione e dall’art. 79 del Codice penale, quest’ultima si configura come un provvedimento di carattere morale fondato su ragioni di umanità. Nell’ultima formulazione del 2011 la stessa poteva essere richiesta dall’ergastolano solo dopo 10 anni di reclusione. Sentito il parere non vincolante della Commissione per la grazia, il Presidente della Repubblica, parte del potere esecutivo come chiarito dalla Corte costituzionale, nell’assumere la propria decisione, visto il d.P.R. “Sull’esame delle richieste di grazia” (Dėl malonės prašymų nagrinėjimo tvarkos) del 1993 e successive modificazioni ed integrazioni, doveva tener conto di fattori quali: la natura del reato commesso e la sua pericolosità per la società, la personalità del condannato, la sua condotta e la sua attitudine al lavoro, il tempo già passato in prigione, l’opinione delle autorità carcerarie, l’opinione delle organizzazioni non governative e dei precedenti datori di lavoro del condannato, l’avvenuto risarcimento del danno causato e altre circostanze. Il provvedimento di grazia non è motivato e in caso di diniego non può essere riproposta una nuova istanza prima di sei mesi. Non sono previste forme di appello. 6. Con la pronuncia Matiošaitis la Corte EDU ribadiva alcuni principi, tra i quali in questa sede vale soprattutto la pena ricordare che: 1) La legge, qualora ne sussistano i presupposti, deve consentire a tutti i detenuti, inclusi gli ergastolani, l’accesso alla libertà condizionale2. 2) La possibilità di convertire l’ergastolo in altra pena più mite a causa di una malattia terminale del condannato non può essere considerata una prospettiva di liberazione (prospect of release). 3) L’amnistia non può essere vista come una misura in grado di offrire al detenuto una prospettiva di mitigazione della condanna o di liberazione. Inoltre, in quanto provvedimento di portata generale, non interviene sulla riabilitazione e sulla risocializzazione del condannato; Cfr. Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sulla libertà condizionale, Rec(2003)22 del 24 settembre 2003. 2 Diritto alla speranza e preclusioni assolute 155 4) In base al diritto internazionale il termine massimo per il riesame delle ragioni di difesa sociale che legittimano il mantenimento del condannato in carcere è fissato dalla Corte in venticinque anni. 5) Il diritto del detenuto ad un riesame della sua situazione (Right to review) comporta una verifica effettiva delle informazioni rilevanti che lo riguardano per valutare se sussistono legittime ragioni penologiche che giustificano il suo mantenimento in carcere. 6) La riabilitazione nella società del condannato è un principio sancito in molteplici fonti internazionali e nella consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Gli Stati membri sono dunque incoraggiati a perseguire tale obiettivo. La Corte ha altresì sottolineato che il fatto che un detenuto abbia già trascorso molto tempo in carcere non incide in alcun modo sul dovere dello Stato di proteggere la collettività, se la sua pericolosità sociale perdura. Allo stesso tempo, però, riconosce che anche chi si è macchiato dei crimini più efferati conserva la propria dignità umana e la capacità di cambiare. Ne consegue che per quanto possa essere lunga e meritata la reclusione, i condannati non possono comunque essere privati del diritto di sperare che un giorno i reati da loro commessi potranno considerarsi estinti. Negare loro la speranza equivarrebbe ad annientare una parte fondamentale della loro umanità e ciò sarebbe degradante ed inumano. Gli Stati contraenti – aggiungono i Giudici di Strasburgo - godono in materia di politica criminale e penitenziaria di un ampio margine di apprezzamento. Spetta dunque a questi ultimi scegliere quale forma - governativa o giudiziaria – deve assumere il procedimento di riesame della situazione del condannato. Affinché quest’ultimo possa conoscere che cosa deve fare per potere accedere alla liberazione e a quali condizioni, dovrebbero essergli rese note le motivazioni della decisione assunta dall’Autorità procedente e ciò dovrebbe essere garantito – afferma la Corte - in forza di un procedimento giudiziario (by access to judicial review). Strasburgo, lungi dall’essere neutrale, sembra dunque esprimere una chiara preferenza per il controllo giurisdizionale. Nel caso Matiošaitis la grazia presidenziale è stata infine ritenuta non conforme agli standards dell’art. 3 CEDU, in ragione della poca trasparenza dei parametri adottati per valutarne la concessione, dell’insufficienza delle garanzie procedurali e dell’insussistenza de facto di una reale prospettiva di liberazione dell’ergastolano. 7. Cogliendo le censure mosse dalla Corte EDU, la Seimas nel marzo 2019 approvava una serie di emendamenti che hanno dato vita ad un procedimento bifasico di riduzione della pena. Dapprima, l’Autorità giudiziaria può convertire l’ergastolo in pena a tempo determinato. Successivamente, il condannato può chiedere di essere ammesso alla liberazione condizionale (release on parole). L’attuale disciplina prevede che l’ergastolano, dopo almeno venti anni di reclusione, può presentare istanza all’amministrazione penitenziaria affinché formuli una proposta di conversione della pena, da perpetua a termine, al Tribunale del luogo in cui il condannato si trova detenuto. Svolta un’indagine sociale sul condannato (socialinis tyrimas), se ricorrono i presupposti necessari, entro venti giorni dalla ricezione dell’istanza, 156 Giacomo Giorgini Pignatiello l’amministrazione penitenziaria formula la proposta di conversione al Tribunale, che si pronuncia in composizione collegiale (tre giudici). La Corte si pronuncia sempre con sentenza motivata. Il pubblico ministero e un rappresentante dell’amministrazione penitenziaria devono essere presenti all’udienza, mentre il condannato o il suo avvocato, così come la vittima del reato o il suo avvocato è sufficiente che siano citati a comparire. In caso di diniego della conversione, l’istanza non può essere riproposta prima di un anno dalla decisione. Tutte le parti processuali possono però appellare la sentenza della Corte. In caso di conversione, la nuova pena da scontare non può essere inferiore a 5 né superiore a dieci anni di reclusione. Nel proprio giudizio la Corte deve tener conto: del rischio di recidiva, della condotta tenuta dal condannato durante l’esecuzione della pena in carcere, dello scopo della condanna e del suo impatto sul condannato, della riparazione da parte del condannato del danno causato o in caso in cui solo parte di esso sia stato risarcito che si sia civilmente obbligato all’integrale risarcimento. Ai sensi dell’art. 157 del Codice penale l’ergastolano al quale è stata convertita la pena può proporre istanza di liberazione condizionale solo dopo aver scontato almeno metà della nuova sanzione a tempo irrogata e solo qualora stia correttamente seguendo le misure predisposte nel piano individuale di riabilitazione, il rischio di recidiva è basso e/o i progressi fatti durante il programma per la riduzione del grado di recidiva consentono di ritenere che seguirà le prescrizioni impartite e non commetterà nuovi reati. 8. Nella successiva sentenza Dardanskis v. Lithuania i Giudici di Strasburgo, prendendo atto delle riforme intraprese dalla Seimas, hanno giudicato all’unanimità la nuova disciplina conforme agli standards previsti dall’art. 3 CEDU. La Corte in particolare ha valutato positivamente che: 1) La conversione della pena avviene con decisione giurisdizionale. 2) Il termine minimo di 20 anni per il riesame è congruo rispetto ai parametri internazionali. 3) L’ergastolano può partecipare attivamente alla procedura di riesame. 4) Il Tribunale si pronuncia con sentenza motivata. 5) La decisione del Tribunale può essere appellata. 6) I criteri per verificare il ravvedimento del condannato e la sussistenza di legittime ragioni penologiche che ne consentano il mantenimento in carcere sono oggettivi. La Corte EDU ha altresì apprezzato il fatto che la Seimas ha saputo valorizzare l’esigenza dell’ergastolano di un continuo processo di riabilitazione e risocializzazione, consentendo l’adozione di misure individualizzate sempre più progredite per raggiungere tali obiettivi, anche dopo che la condanna perpetua è stata convertita in pena a tempo determinato, con la prospettiva di una possibile liberazione condizionale e di un eventuale reinserimento dello stesso nella società. Diritto alla speranza e preclusioni assolute 157 9. Il caso lituano dimostra dunque la possibile realizzazione, in conformità col diritto alla speranza delineato dalla Corte EDU, di un controllo giurisdizionale effettivo, non ostacolato da preclusioni assolute ex lege, che permette ai giudici di valutare in concreto la sussistenza delle legittime ragioni penologiche che giustificano il mantenimento in carcere dell’ergastolano. L’assenza di automatismi sanzionatori non comporta affatto un indebolimento dei mezzi per la lotta al crimine. Al contrario consente un più rigoroso controllo sulla reale pericolosità sociale dei detenuti, evitando distorsioni e abusi di una disciplina legale che rischia di essere miope, perché rigida e predeterminata, come evidenziato dalla stessa Corte EDU nel caso Viola. Il diritto alla speranza non si pone dunque in contrasto con le necessità di difesa sociale perseguite dallo Stato, semmai le rafforza. In questo senso il lungo cammino intrapreso dalla Corte costituzionale italiana verso la piena attuazione del principio rieducativo della pena sembra andare proprio in tale direzione, come da ultimo dimostrato con la sent. n. 253/2019. La perdurante minaccia allo Stato proveniente da una criminalità organizzata in continua trasformazione ed espansione rende tuttavia estremamente difficile per il legislatore italiano emanciparsi da previsioni normative che, seppur irragionevolmente afflittive, conservano dal 1992 un’alta valenza simbolica e rassicurante per la società. Nel bilanciamento dei valori in gioco prevarrà dunque, anche in questo caso, il razionale elemento risocializzante della pena oppure verranno rievocate le teorie polifunzionali della sanzione criminale, che facendo leva su fumose logiche legate alla sicurezza dell’ordine giuridico pongono in secondo piano la dignità umana? L’Italia riterrà preminente il diritto alla speranza, principio di civiltà giuridica condiviso dagli Stati membri del Consiglio d’Europa, oppure farà valere ragioni di specialità della nostra criminalità, isolandosi e differenziandosi in peius dalle altre politiche penitenziarie europee, rischiando così anche possibili dinieghi di estradizione? L’auspicio è che il Parlamento italiano si riappropri delle funzioni che costituzionalmente gli appartengono, provvedendo ad una riforma strutturale dell’esecuzione penale. Nel caso in esame, la preclusione iuris et de iure impugnata dal giudice a quo merita di essere espunta dall’ordinamento, in quanto radicalmente incompatibile con il principio di rieducazione della pena, pilastro dello Stato costituzionale democratico di diritto. Mi pare che l’ordinanza a tempo, nella fisiologica evoluzione delle tecniche decisorie della Corte costituzionale, richiami il potere legislativo, in uno spirito di leale collaborazione, ai propri compiti istituzionali, non lasciando allo stesso tempo impregiudicate le istanze di giustizia costituzionale che le pertengono e delle quali, attraverso tale nuovo strumento, non rischia di spogliarsi. NESSUNO PUÒ ESSERE OBBLIGATO AD AUTO-ACCUSARSI di PATRIZIO GONNELLA Prima di tutto intendiamo ringraziare gli organizzatori del Seminario per l’invito e per i contenuti emersi oggi dalle relazioni e dagli interventi. Avvalendosi della recente riforma delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale - introdotta dalla Corte con sua deliberazione dell'8 gennaio 2020 - che consente a «le formazioni sociali senza scopo di lucro e [a]i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità» di presentare alla Corte un’opinione scritta, Antigone ha utilizzato questo nuovo importante strumento di vera e propria democrazia, depositando il proprio “amicus curiae”. Abbiamo rilevato con piacere che non siamo stati i soli a farlo, segno di una comunanza di scopi e di fiducia nella attività della Corte costituzionale che, in questo momento tanto difficile per il Paese e le sue istituzioni non può che essere preso come un segnale positivo. Ovviamente, Antigone ha chiesto alla Corte di dichiarare l'illegittimità costituzionale delle disposizioni della cui compatibilità con gli artt. 3, 27 e 117 della Costituzione dubita la Cassazione. Come è arcinoto, l’ordinanza prende le mosse da due recenti pronunce, la sentenza della Corte EDU nel caso Viola c. Italia e la sentenza della stessa Corte costituzionale n. 253/2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, dell'Ordinamento Penitenziario, nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del Codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordinamento penitenziario, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. A sua volta la Corte europea, seguendo una propria consolidata giurisprudenza in materia di compatibilità dell'ergastolo con la CEDU, ha ritenuto che la condizione prevista dalla legislazione italiana per accedere alla liberazione condizionale, e cioè la collaborazione con la giustizia, violi i principi della dignità della persona condannata. Antigone ha ritenuto, visto che le due pronunce citate sono molto recenti e che il quadro normativo nazionale ed europeo è ben conosciuto della Corte costituzionale, di incentrare il proprio intervento su due punti rimasti, per forza di cose, estranei alla motivazione dell’ordinanza di rimessione: (a) la realtà dell'ergastolo e dell’ergastolo ostativo oggi in Italia: (b) la contraddizione a nostro  Presidente di Antigone. Nessuno può essere obbligato ad auto-accusarsi 159 parere esistente nell'ordinamento tra le disposizioni impugnate dalla Corte di Cassazione ed il principio secondo il quale nessuno può essere obbligato ad autoaccusarsi. Quanto al primo punto, rinviando per i particolari alla lettura della nostra opinione e di quella del Garante Nazionale, densa di riferimenti e dati, qui diremo solo che la pena della reclusione a vita è largamente usata e che le relative condanne sono in costante aumento, pur nel calo generale della criminalità in Italia: gli ergastolani in regime ostativo sono la netta maggioranza tra coloro i quali scontano la condanna al “fine pena: mai”, a noi risultando essere 1250 su 1802: persone escluse da qualsiasi speranza di rieducazione e reinserimento sociale, salvo che decidano di collaborare, nella maggior parte dei casi, inevitabilmente, anche autoaccusandosi di ulteriori delitti e mettendo a repentaglio la propria famiglia. Relativamente al secondo profilo che abbiamo voluto portare alla attenzione della Corte costituzionale, abbiamo rilevato che esiste una contraddizione tra un principio generalmente rispettato e previsto sia dall'art. 274, comma 1, lett. a) del codice di procedura penale che dalla direttiva (UE) del 9 marzo 2016 n. 343, secondo il quale non si possono prevedere aggravamenti di pena per il condannato che sia rimasto in silenzio, rifiutandosi di collaborare, e la situazione del soggetto già condannato ed in esecuzione di pena, la cui posizione viene resa deteriore proprio dalla circostanza esclusa in sede cautelare. La Corte costituzionale ha di recente mostrato una grande (ed inedita) sensibilità a quel “mondo separato” costituito dagli istituti di pena e – soprattutto – dalle persone in esso ristrette e ad a quelle che là operano tra le note difficoltà che qui non è il caso evocare. Confidiamo che tale sensibilità sorregga anche la pronuncia di illegittimità costituzionale che auspichiamo. ILLEGITTIMITÀ EUROUNITARIA DELL’ERGASTOLO OSTATIVO E RICADUTE SULL’ESEGUIBILITÀ DEL MANDATO D’ARRESTO EUROPEO di CIRO GRANDI SOMMARIO: 1. Inquadramento. – 2. Basta la liberazione condizionale per garantire all’Italia la consegna dell’ergastolano? – 3. I riflessi della decisione Viola c. Italia n. 2 sul piano eurounitario. – 4. La “relativizzazione” della presunzione sul comune standard di garanzie nel sistema del mutuo riconoscimento. – 5. I benefici multilivello di una pronuncia di accoglimento. 1. Il fiume in piena delle “buone ragioni” per le quali è auspicabile l’accoglimento della questione in esame scorre oltre i confini del thema decidendum tracciati nella convincente ordinanza della Corte di Cassazione del 3-18 giugno 2020, fino ad attraversare il terreno dei rapporti tra ordinamenti interno e dell’Unione europea, sinora meno perlustrato dalla letteratura sull’ergastolo ostativo. L’incompatibilità convenzionale dell’istituto in questione, incontrovertibilmente sancita dalla Corte di Strasburgo nella decisione Viola c. Italia n. 21, si riverbera infatti non solo sul piano costituzionale, ove consente di reclutare (anche) il parametro dell’art. 117 comma 1 Cost.; ma anche su quello eurounitario, con potenziali ricadute negative, in particolare, sulla piena operatività del principale meccanismo di cooperazione giudiziaria interstatuale nello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione2, ovvero il mandato d’arresto europeo, introdotto e disciplinato dalla Decisione quadro n. 584 del 20023. Si consideri l’ipotesi di un mandato d’arresto spiccato da un giudice italiano nei confronti di un soggetto latitante all’estero, condannato in Italia a pena perpetua4 e assoggettabile alla disciplina ostativa c.d. di “prima fascia”, di cui all’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975. Come si dovrà regolare l’autorità giudiziaria dello stato partner competente a deliberare sull’esecuzione del mandato d’arresto? Più precisamente, quali effetti esplicherà sulla relativa decisione il sigillo apposto dalla pronuncia Viola n. 2 sull’incompatibilità con l’art. 3 della CEDU dell’attuale fisionomia dell’ergastolo ostativo, proprio il regime applicabile al destinatario del mandato una volta  Associato di Diritto penale, Università di Ferrara. Sulla quale v., per tutti, D. GALLIANI, A. PUGIOTTO, L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo (A proposito della sentenza Viola v. Italia n.2), in Rivista AIC, 2019, n. 4, 191 ss. e, ivi, note 7-8 per ulteriore bibliografia. 2 Titolo V del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea. 3 Decisione quadro del Consiglio 2002/584/GAI, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri. 4 Le osservazioni svolte in seguito valgono parimenti in relazione all’ipotesi del soggetto – non già condannato all’ergastolo, bensì – ricercato “ai fini dell'esercizio di un’azione penale” (art. 1.1 della Decisione quadro) in quanto indagato per un delitto punibile con l’ergastolo. 1 Illegittimità eurounitaria dell’ergastolo ostativo 161 trasferito in Italia? In breve, la consegna al nostro Paese di un condannato all’ergastolo ostativo correrà davvero il rischio di essere rifiutata5, in deroga all’obbligo di esecuzione del mandato d’arresto sancito dall’art. 17 della Decisione quadro6? 2. La risposta a tale ultimo quesito parrebbe assumere segno negativo qualora l’analisi si limiti alla lettera della Decisione quadro, dal cui articolato il ruolo dei diritti fondamentali nella procedura di esecuzione del mandato d’arresto risulta notoriamente piuttosto sbiadito7. Gli unici riferimenti testuali alle garanzie dell’individuo si rinvengono infatti nel considerando n. 12, che si limita alla petizione di principio secondo cui la Decisione quadro «rispetta i diritti fondamentali ed osserva i principi sanciti dall'articolo 6 del trattato sull'Unione europea e contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea»; e nell’art. 1 par. 3, la cui sibillina formulazione prevede invece che « [l]'obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i fondamentali principi giuridici sanciti dall'articolo 6 del trattato sull'Unione europea non può essere modificato per effetto della presente decisione quadro». Badando al sodo, però, tra i motivi che giustificano il rifiuto di eseguire il mandato d’arresto, elencati agli artt. 3, 4 e 4-bis della Decisione quadro, la potenziale violazione dei diritti fondamentali della persona destinataria del provvedimento non compare: esempio plastico della presunzione (inizialmente) assoluta dell’esistenza di un livello minimo, e adeguato, di tutela dei diritti fondamentali in tutti gli ordinamenti dei Paesi membri, scaturigine della mutual trust (fiducia reciproca) sul quale il meccanismo di mutuo riconoscimento venne eretto8. Ancor più significativa, nel quadro di queste brevi osservazioni, è invero la disciplina riservata ai condannati all’ergastolo dal successivo art. 59, ove si precisa che se il reato in base al quale il mandato d'arresto europeo è stato emesso è punibile con pene o misure di sicurezza detentive a vita, la sua esecuzione può essere subordinata alla condizione per cui l’ordinamento dello Stato membro emittente preveda meccanismi di revisione della condanna o misure di clemenza che consentano di escludere, in concreto, la perpetuità della sanzione. Il combinato disposto tra questa previsione – che peraltro lascia alla discrezionalità dello Stato di esecuzione la scelta di subordinare la consegna alle condizioni appena riassunte – e la semplice esistenza dell’istituto della liberazione Si tratta di un interrogativo già formulato in modo sintetico, ma perspicuo, nell’Amicus curiae redatto dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute (cfr., in particolare, §4.5), reperibile nella sezione Documenti del sito del seminario preventivo http://www.amicuscuriae.it/. 6 In base al quale il “mandato d'arresto europeo deve essere trattato ed eseguito con la massima urgenza”. 7 V. B. PIATTOLI, La tutela dei diritti fondamentali: i principi della Decisione quadro e le garanzie della normativa derivata, in M. BARGIS, E. SELVAGGI (a cura di), Mandato d’arresto europeo. Dall’estradizione alle procedure di consegna, Giappichelli, Torino 2005, 153 ss. 8 Ex multis, J. SPENCER, Il principio del mutuo riconoscimento, in R. KOSTORIS (a cura di), Manuale di procedura penale europea, Giuffrè, Milano 2019, 341 ss. 9 Rubricato “Garanzie che lo Stato emittente deve fornire in casi particolari”. 5 162 Ciro Grandi condizionale potrebbe apparire sufficiente a garantire all’Italia la consegna degli ergastolani arrestati all’estero; compresi quelli assoggettabili al regime ostativo, ai quali l’accesso alla liberazione condizionale non sarebbe precluso in senso assoluto, residuando la via d’uscita della collaborazione10. 3. Questa ricostruzione sembra tuttavia essere sovvertita dalla già rievocata pronuncia della Corte EDU nel caso Viola c. Italia n. 2, per le seguenti ragioni. Sul piano generale, è appena il caso di rammentare che, nell’attuale sistema multilivello di tutela delle garanzie individuali, l’incompatibilità di una normativa nazionale con la CEDU si riverbera sul terreno dell’Unione europea, la cui Carta dei diritti fondamentali recita, all’art. 52 par. 3, che « [l]addove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione»11. Passando dal generale al particolare, la protezione garantita dall’art. 4 della Carta dovrà di conseguenza equivalere a quella assicurata dall’art. 3 della Convenzione, la cui formulazione viene peraltro pedissequamente replicata: «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Tale conclusione, avvalorata dalla Spiegazione relativa all’art. 4 della Carta12, viene messa in pratica dalla scarna giurisprudenza della Corte di Giustizia sul medesimo articolo, che si avvale ampiamente dell’elaborazione della Corte di Strasburgo sull’art. 3 CEDU13. Non resta allora che completare il sillogismo: una normativa nazionale che la Corte di Strasburgo ha ritenuto incompatibile con l’art. 3 della Convenzione (il regime ostativo alla luce della decisione Viola c. Italia n. 2) non potrà che confliggere anche con l’art. 4 della Carta14. Si veda, ad esempio, l’assai complessa vicenda affrontata da C. Ass. Santa Maria Capua Vetere, sez. I, ord. 4 giugno 2018, in www.penalecontemporaneo.it, 21 novembre 2018, con commento di F. MANFREDINI, Ergastolo e consegna condizionata nella disciplina dell’estradizione e del mandato d’arresto europeo, al cui preciso compendio della decisione ci si affida: «la Corte d’assise giunge alla conclusione che la condizione contemplata dalla disciplina sull’euromandato risulta rispettata dall’ordinamento giuridico nazionale, anche nell’ipotesi del c.d. ergastolo ostativo, delineato dall’art. 4-bis ord. penit., in considerazione del fatto che, in tale caso, il beneficio della liberazione condizionale non risulta essere aprioristicamente precluso al condannato, il quale può, infatti, accedervi qualora tenga una condotta di collaborazione con la giustizia». 11 A mente dell’art. 51 della Carta, l’ambito applicativo dei diritti ivi sanciti coincide con i settori di attuazione del diritto dell’Unione: nulla quaestio, pertanto, sull’obbligo per gli Stati membri di rispettare la Carta stessa, ove chiamati a dare esecuzione ad un mandato d’arresto europeo, principale strumento attuativo del principio del mutuo riconoscimento, elevato ad architrave della cooperazione nel settore penale dall’art. 82 TFUE. 12 Secondo cui il diritto di cui all’art. 4 CDFUE «corrisponde a quello garantito dall’articolo 3 della CEDU, la cui formulazione è identica […]. Ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 3 della Carta, esso ha pertanto significato e portata identici a quelli del suddetto articolo». 13 Cfr., per tutti, E. FRONZA, P. PUSTORINO, sub Art. 4, in R. MASTROIANNI, O. POLLICINO, S. ALLEGREZZA, F. PAPPALARDO, O. RAZZOLINI (a cura di), Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea, Giuffrè, Milano 2017, 73 ss. 14 Prefigurava in nuce tale scenario, alla vigilia della decisione Viola n. 2, anche F. MANFREDINI, Ergastolo e consegna condizionata, cit., §9. 10 Illegittimità eurounitaria dell’ergastolo ostativo 163 4. L’interrogativo di partenza può essere ora riproposto, arricchito di dettagli: qual è la sorte del mandato d’arresto europeo spiccato nei confronti di un soggetto condannato in Italia a pena perpetua, la disciplina della quale (il regime ostativo), in quanto inconciliabile con l’art. 3 CEDU, risulta altresì incompatibile con l’art. 4 della Carta dei diritti UE? Dunque, esiste lo spazio per rifiutare l’esecuzione del mandato d’arresto, nonostante, come ricordato, la Decisione quadro non contempli espressamente alcun motivo di rifiuto incentrato sul rischio di violazione dei diritti fondamentali del destinatario del provvedimento? L’elevazione del punto prospettico dell’analisi, dal piano della Decisione a quello del diritto primario, inclusa la Carta dei diritti fondamentali, sminuisce le perplessità manifestate in precedenza, lasciando intravedere una risposta affermativa; i contorni della quale divengono sempre più nitidi alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Giustizia sul ruolo dei diritti sanciti nella Carta stessa all’interno del procedimento di esecuzione del mandato d’arresto. Risulta infatti oramai archiviata la tesi della natura inattaccabile dell’obbligo di esecuzione del mandato, sol che non ricorrano i motivi di rifiuto specificamente previsti dalla Decisione quadro: si allude alle argomentazioni spese dalla Corte di Giustizia nelle note sentenze Melloni e Radu15, secondo le quali, al di fuori delle ipotesi contemplate in quei motivi di rifiuto, le esigenze di speditezza della cooperazione giudiziaria e di effettività dei relativi meccanismi prevalgono, tendenzialmente senza riserve, su quelle di tutela dei diritti individuali; tutto in nome di una fiducia reciproca tra gli Stati membri nei rispettivi standard garantistici che autorevole dottrina non esitava a definire «cieca»16. È noto come questo orientamento sia stato superato da diverso tempo17. Più precisamente, sin dal leading case Aranyosi e Căldăraru18, la Corte di Giustizia ha ammesso che il principio del mutuo riconoscimento possa subire limitazioni «in circostanze eccezionali»19, qualora vi siano «motivi gravi e comprovati» per ritenere sussistente un rischio concreto di violazione dei diritti fondamentali. In quel celebre caso i diritti esposti erano proprio quelli sanciti nell’art. 4 CDFUE: due soggetti di nazionalità rumena e ungherese, arrestati in Germania, erano attesi da una condanna definitiva nei rispettivi Paesi di appartenenza, i cui sistemi carcerari non offrivano però sufficienti garanzie sugli standard delle condizioni detentive, anche a causa del sovraffollamento. 15 Corte di Giustizia, Grande Sezione, 29 gennaio 2013, C-396/11, Radu e 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni. 16 Si veda la raccolta di scritti di V. MITSILEGAS, Justice and Trust in the European Legal Order, a cura di C. GRANDI, Jovene, Napoli 2016. 17 Per un’efficace sintesi ricostruttiva, v. V. MANES, M. CAIANIELLO, Introduzione al diritto penale europeo, Giappichelli, Torino 2020, 74 ss. 18 Corte di Giustizia, Grande Sezione, 5 aprile 2016, cause riunite C-404/15 e C-659/15 PPU, Aranyosi e Căldăraru, su cui v., ex multis, A. MARTUFI, La Corte di Giustizia al crocevia tra effettività del mandato d’arresto e inviolabilità dei diritti fondamentali, in Dir. pen. proc., 2016, 1243 ss. 19 Eventualità per vero già prefigurata dalla Corte di Giustizia, sebbene al di fuori dell’attività giurisdizionale, nel parere n. 2/13, §191. 164 Ciro Grandi Nella pronuncia in questione, la Corte di Giustizia ha quindi elaborato un test di verifica dei rischi di lesione dei diritti fondamentali – che il giudice competente a decidere sull’esecuzione del mandato deve esperire – articolato essenzialmente in due passaggi: a) In primo luogo, la “prognosi di rischio generico”, volta a verificare la sussistenza, nell’ordinamento dello Stato emittente, di carenze sistemiche, strutturali, fonte di rischi generalizzati di violazione dei diritti fondamentali: nel caso Aranyosi, si trattava di accertare l’eventuale diffusività delle poor prison conditions nei sistemi carcerari dei Paesi di destinazione. Secondo le indicazioni della Corte di Lussemburgo, questa prognosi può fondarsi su elementi ricavati da «decisioni giudiziarie internazionali, quali le sentenze della Corte EDU, da decisioni giudiziarie dello Stato membro emittente, nonché da decisioni, relazioni e altri documenti predisposti dagli organi del Consiglio d’Europa o appartenenti al sistema delle Nazioni Unite» (§89). b) In secondo luogo, la “prognosi di rischio specifico”, necessaria a stabilire se le carenze sistemiche rilevate sul piano generale comportino un rischio tangibile di violazione dei diritti fondamentali per la singola persona destinataria del mandato d’arresto, quale conseguenza della consegna. A questo fine, il giudice competente a decidere sull’esecuzione del mandato deve richiedere all’autorità giudiziaria emittente tutte le informazioni necessarie a “concretizzare” la prognosi in relazione al caso individuale: ad esempio, notizie sulla situazione dell’istituto carcerario al quale il condannato sarebbe destinato (§93 ss.). Questo schema decisionale è stato in seguito replicato e messo a punto in casi ulteriori, nell’ambito dei quali venivano in gioco anche altri diritti fondamentali20. Il suo progressivo consolidamento, pur al netto di qualche incertezza, ha segnato il congedo dalla blind mutual trust: la fiducia reciproca non è (più) «cieca»21, giacché l’esistenza di un livello minimo condiviso di osservanza dei diritti fondamentali non è (più) oggetto di una presunzione assoluta, bensì relativa. Pur in assenza di una situazione tipizzata in uno specifico motivo di rifiuto contemplato dalla Decisione quadro, si è dunque aperto uno spazio effettivo per rifiutare la consegna: anzi, dal tenore dei dispositivi delle decisioni richiamate, la Corte di Giustizia ha sancito l’obbligo per il giudice dello Stato di esecuzione di esperire il test appena descritto, nonché di attenersi ai relativi risultati anche sospendendo l’attuazione del mandato, ove sussistano indizi solidi di un pericolo concreto di violazione dei diritti fondamentali del destinatario del provvedimento22. 20 V. anzitutto Corte di Giustizia, Grande Sezione, 25 luglio 2018, C-216/18 PPU, Minister for Justice and Equality v. LM, in relazione alle garanzie del giusto processo (Art. 47 CDFUE, diritto a un giudice indipendente e imparziale), messe a repentaglio nell’ordinamento polacco da riforme compressive dell’autonomia della magistratura. Per aggiornati riferimenti, giurisprudenziali e bibliografici, v. l’accurata analisi di V. SCALIA, Il principio del rule of law nella giurisprudenza delle corti europee. Umanità della pena e indipendenza del sistema giudiziario: presupposti necessari della fiducia reciproca e dell’esecuzione del mandato d’arresto europeo nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, in Ind. pen., 2020, n. 2, 376 ss. 21 K. LENAERTS, La vie après l’avis: Exploring the principle of mutual (yet not blind) trust, in Common Market Law Review, vol. 54, n. 3, 2017, 805 ss. 22 «Nel caso in cui le informazioni che l’autorità giudiziaria emittente […] ha comunicato all’autorità giudiziaria dell’esecuzione non inducano quest’ultima a escludere l’esistenza di un Illegittimità eurounitaria dell’ergastolo ostativo 165 5. Non resta ora che immaginare l’esito della somministrazione del test predisposto dalla Corte di Giustizia al caso del mandato d’arresto pendente sul soggetto condannato in Italia a pena perpetua per un delitto compreso nell’elenco dei reati “ostativi di prima fascia”. a) Quanto alla “prognosi di rischio generico”, la verifica delle carenze sistemiche nell’ordinamento italiano, fonte di rischi diffusi di lesione dei diritti fondamentali, è servita sul proverbiale vassoio d’argento dalla sentenza Viola n. 2, nella quale si certifica l’incompatibilità del regime ostativo con l’art. 3 CEDU e, di riflesso, con l’art. 4 della Carta. Si tratta senz’altro di un deficit strutturale, poiché contrassegna una disciplina legislativa che colpisce un’intera categoria di condannati: più di 1200 detenuti, più del 70% del totale degli ergastolani23; numeri capaci di generare, come è stato osservato a margine della sentenza Viola n. 2, «uno tsunami di ricorsi siamesi»24. b) Quanto poi alla “prognosi di rischio specifico”, a ben vedere anch’essa è già confezionata dalla sentenza Viola n. 2. Nel caso di specie, infatti, il deficit strutturale non dipende da una situazione di fatto – come il sovraffollamento carcerario – la cui esistenza e persistenza necessita di accertamento caso per caso, in quanto potenzialmente mutevole nel tempo (a seguito di un calo del numero dei detenuti) o nello spazio (potendo riguardare, ad esempio, solo alcuni, e non tutti, gli istituti penitenziari). Qui, invece, il deficit strutturale dipende da una situazione di diritto, ovvero l’incompatibilità della disciplina dell’ergastolo ostativo con le disposizioni gemelle della Convenzione e della Carta: situazione che genera ipso facto il rischio specifico, poiché tutti e nessuno escluso gli ergastolani autori di reati di prima fascia restano assoggettabili, in mancanza di collaborazione, all’ergastolo ostativo. La risposta all’interrogativo di partenza è sotto dettatura: il giudice dello stato partner potrà, se non addirittura dovrà rifiutare l’esecuzione del mandato d’arresto europeo che colpisce l’ergastolano assoggettabile in Italia al regime ostativo nella versione vigente. O, quanto meno, potrà sospenderne l’esecuzione e sollevare una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia sull’art. 5 della Decisione quadro, volta a chiarire se davvero – come è del tutto logico ritenere – tale disposizione consenta di rifiutare l’esecuzione del mandato, nonostante la presenza di un istituto – come la liberazione condizionale – che, pur prefigurando una chance di “fine pena”, la subordina a condizioni così restrittive da non scongiurare la violazione dell’art. 3 CEDU25. Per una sorta di contrappasso, l’intercorsa relativizzazione – ad opera dalla Corte di Giustizia – della presunzione di esistenza di uno standard garantistico minimo, condiviso tra i Paesi UE, potrebbe intralciare la consegna all’Italia rischio reale che la persona interessata subisca, in detto Stato membro, una violazione del suo diritto fondamentale a un giudice indipendente e, quindi, del contenuto essenziale del suo diritto fondamentale a un equo processo, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve astenersi dal dare seguito al mandato d’arresto europeo di cui è oggetto tale persona» (Corte di Giustizia, 25 luglio 2018, cit., §78). 23 Secondo i dati raccolti nell’Amicus curiae redatto dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, cit. (§2.2.). 24 D. GALLIANI, A. PUGIOTTO, L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo, cit., 205. 25 In senso analogo F. MANFREDINI, Ergastolo e consegna condizionata, cit., §9. 166 Ciro Grandi dell’ergastolano assoggettabile al regime ostativo, proprio a causa della presunzione assoluta che nega a costui una chance effettiva di liberazione condizionale. La relativizzazione (anche) di quest’ultima presunzione consentirebbe dunque non solo di proseguire nel solco tracciato dalla sentenza n. 253/2019, ma anche di intaccare il più evidente profilo di attrito della disciplina ostativa con la Convenzione e con la Carta, diradando così le ombre che si sono profilate sulla piena operatività del principale strumento di cooperazione giudiziaria nell’Unione europea. Ecco dunque un’ulteriore buona ragione per auspicare una pronuncia di accoglimento che, unitamente ai profili di illegittimità costituzionale e convenzionale, rimuova anche quelli di matrice eurounitaria. LIBERAZIONE CONDIZIONALE E REGIME OSTATIVO: PERCHÉ NON SI PUÒ PIÙ TORNARE INDIETRO di SARAH GRIECO* SOMMARIO: 1. Le recenti evoluzioni della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale: il “banco di prova” dell’ergastolo ostativo. - 2. Una riflessione a margine dei valori costituzionali compromessi. – 3. I criteri probatori per superare la preclusione. - 4. La necessità di consegnare una risposta trattamentale coerente e comprensibile. – 5. La fine dell’ergastolo ostativo: i tempi sono maturi. 1. Per tentare di dare una risposta alla domanda insita nel titolo stesso di questo contributo, credo sia utile partire proprio da alcuni interrogativi: quali sono le ragioni che sottendono alla scelta del legislatore di impedire la concessione della liberazione condizionale in assenza di collaborazione con la giustizia, per i reati compresi nell’art.4-bis dell’ordinamento penitenziario? Perché la collaborazione con la giustizia, ad eccezione delle ipotesi di impossibilità e di inesigibilità, è stata elevata a presupposto di ogni valutazione del percorso di reinserimento del condannato1 - e quindi anche del sicuro ravvedimento richiesto dalla legge n. 203 del 1991 - quale dimostrazione tangibile della dissociazione? Una prima risposta ce la fornisce la stessa Corte costituzionale con la storica sentenza n. 306/1993. Con l’inserimento dell’articolo di legge in discussione, il legislatore, privilegiando le finalità di prevenzione generale, si è fissato un chiaro obiettivo di politica criminale, congegnando un meccanismo di pressione per i condannati, inducendoli a fornire prova di collaborazione, strumento rilevatosi di straordinaria efficacia nella lotta contro il sistema mafioso2. A questa motivazione, che ha conferito alla norma un’anima “opportunistica”3, se ne aggiunge un’altra dettata da considerazioni più legate alle necessità del momento, visto il periodo storico in cui si innesta la riforma. Prendendo a prestito le parole del Procuratore nazionale antimafia, dott. Cafiero De Raho, in un convegno tenutosi lo scorso gennaio 2020, proprio a margine della sentenza n. 253/2019: «Il contesto storico imponeva allo Stato di muoversi con strumenti efficaci e di dare messaggi non equivoci nei confronti della lotta alla mafia; mafia che intratteneva rapporti con la politica e che, da quei rapporti, ricavava la sua potenza. Era necessario che una legge dura, rigorosa, chiara desse il segno della totale assenza di rapporti di quella politica con la mafia»4. * Dottoranda di ricerca in Procedura penale, Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale; Delegata del Rettore al Polo Universitario Penitenziario dell’Ateneo. 1 L’Altro Diritto Onlus, Osservazioni del Centro di documentazione, Università degli studi di Firenze, terzi intervenienti in sentenza Viola C. Italia (n. 2), 13 giugno 2019. 2 Cfr. anche Corte costituzionale, sentenza n. 68/1995. 3 F. PALAZZO, L’ergastolo ostativo nel fuoco della quaestio legitimitatis, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le due Corti, in Forum Quad. Cost.-Rassegna, fasc. 10, 2019, 10. 4 F. CAFIERO DE RAHO, Un intervento legislativo urgente nell’esigenza del contrasto ampio 168 Sarah Grieco Da questa urgenza di non equivocità di criteri e giudizi, nasce l’altra esigenza da soddisfare: l’individuazione di un criterio legale, volto a dimostrare l’avvenuto ravvedimento e/o la cessata pericolosità. La collaborazione con la giustizia, all’epoca, venne individuato come l'unico requisito certo, chiaro, dimostrativo dell'interruzione dei rapporti con l'associazione mafiosa di provenienza. Elevata la collaborazione, anche in materia di liberazione condizionale della pena, a presunzione assoluta di accertamento del sicuro ravvedimento del condannato5, di fatto, la riforma ha reso l’art.4-bis lo strumento privilegiato per una differenziazione esecutiva fondata sul titolo di reato6; ciò nonostante l’art. 13 dell’ordinamento penitenziario7 – in ideale contrappunto all’art. 220, comma 2 c.p.p.8, che invece richiama l’attenzione a fatti storici puntuali - sia chiaramente prescrittivo di un trattamento e di una conseguente giurisdizione che mettano a fuoco non più la fotografia di un accadimento storico, ma la personalità dell’uomo, la sua costruzione fisica, esistenziale e sociale, il suo sviluppo e le auspicabili trasformazioni. E’ indubbio tuttavia che, come correttamente evidenziato dall’ordinanza di remissione della prima sezione della Corte di Cassazione del 3-18 giugno 2020, sia la recente pronuncia della Corte costituzionale n. 253/2019 che la sentenza della Corte EDU, Viola c. Italia del 13 giugno 2019, rappresentano un notevole “banco di prova” per l’impostazione intrapresa nel ‘92 e perpetrata, anche nel recente passato9, dalla giurisprudenza che, per uscire dall’empasse, ha posto l’accento sulla libertà della scelta personale di collaborare con la giustizia da parte del condannato, anche nel corso dell’espiazione della pena10. Non potrebbe essere altrimenti. La sentenza Viola, infatti - oltre ad aver ristretto i limiti di legittimità della pena dell’ergastolo, relegando quest’ultimo a trattamento inumano e degradante ogniqualvolta si rileva de jure e de facto incompressibile, attraverso una pericolosità cristallizzata nel passato, - ha svelato con realismo ciò che la presunzione legale maschera e nasconde11: l’assenza di collaborazione non può rappresentare un segnale certo della mancata rieducazione; alle mafie, in S. GRIECO, S. SCALERA (a cura di), Verso il superamento dell’ergastolo ostativo? EUC, Cassino 2020, 104. 5 Cass. Pen, Sez. I, sentenza n. 135 del 24 aprile 2003. 6 Cfr. G. DELLA MONICA, La irragionevolezza delle presunzioni che connotano il modello differenziato di esecuzione della pena per i condannati pericolosi. Riflessioni a margine della sentenza n.253/2019 della Corte costituzionale, in http://www.dirittifondamentali.it, 4 aprile 2020. 7 Art. 13 ord. penit.: «Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto. Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale». 8 È una norma, questa, che al di là della sua rilevanza pratica, presidia giudizi basati sulla concreta offensività delle condotte e ammonisce sulla necessità di evitare decisioni che possano trarre argomenti risolutivi, sia pure a livello di sfondo alogico della motivazione, dalla personalità dell’imputato e dalle sue qualità. 9 Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 7428 del 17/01/2017, Pesce, Rv. 271399 e, prima, negli stessi termini Sez. I, sentenza n. 27149 del 22/03/2016, Viola, Rv. 271232. 10 Corte costituzionale, sentenze n. 135/2003 e n. 273/2001. 11 D. GALLIANI, A. PUGIOTTO, L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo (A proposito della sentenza Viola v. Italia n. 2), in Osservatorio Cost., fasc. 6, 2019, 195. Liberazione condizionale e regime ostativo 169 non può sempre essere ricondotta ad una scelta libera e volontaria o, comunque, al fatto che siano mantenuti i legami con il gruppo criminale di appartenenza. In questa prospettiva, la sentenza ha indubbiamente sancito quel diritto al silenzio, corollario del diritto di difesa. A proposito dell’interpretazione del silenzio, si apre anche un altro preoccupante scenario nel nostro ordinamento, poco evidenziato a dire il vero, ma non per questo di scarsa rilevanza. La valutazione del silenzio rimessa al legislatore e sottratta al giudizio discrezionale del magistrato, come finora accaduto, conduce ad una chiara interferenza tra due funzioni: quella legislativa e quella giudiziaria. Al magistrato, di fatto, non viene solo precluso, de facto, la valutazione su evoluzione e progressi del detenuto, congelandone la personalità al momento del reato commesso, ma gli è anche impedito di analizzare i motivi che hanno spinto il reo alla non collaborazione in quanto, quest’ultima, è già oggetto di giudizio della norma stessa. Tuttavia, nel campo delle libertà, alla legge è consentito fissare limiti, casi e modi, porre paletti, non certo giudicare condotte, che siano contestuali o successive al processo. Glauco Giostra, nella sua relazione introduttiva ricorre molto efficacemente al termine «dimercolare», inteso come piegare un chiodo per scardinarlo. È esattamente questo il lavoro portato avanti dai giudici della Corte costituzionale con la sentenza n. 253/201912. Pur non essendovi traccia dell’art. 117 Cost. - benché il riferimento agli orientamenti convenzionali sul tema della pena perpetua aleggi, in qualche modo, nelle argomentazioni dei giudici a quibus, che citano, entrambi, i principi espressi nella sentenza Vinter della Corte EDU del 2013 – i giudici rompono definitivamente l’equivalenza tra il silenzio del reo e la permanente pericolosità sociale. Ribadita la natura tutt’altro che penitenziaria dell’art.4-bis – istituto teso, piuttosto, a barattare informazioni investigative con momenti di libertà – la Corte rileva alcuni decisivi punti di incostituzionalità: l’ineguaglianza e l’irragionevolezza di un aggravamento di pena, fondato su una scelta ex post del detenuto; l’incapacità risocializzante del percorso trattamentale, quando i benefici penitenziari non sono ancorati all’osservazione e alla valutazione individualizzata della sua condotta; l’irrazionalità di una presunzione assoluta che non rinviene conferme nella generalizzazione degli accadimenti reali. Trova, inoltre, un’adeguata valorizzazione il ruolo che il trascorrere del tempo ricopre per la pena in executivis, a differenza del procedimento cautelare: esclusa l’immutabilità, sia della personalità del condannato che del contesto esterno di riferimento, diventa indispensabile la valutazione in concreto della personalità del condannato, della sua evoluzione e degli accadimenti esterni; specie se si considera il trascorre di molti anni, come nel caso della tipologia di delitti in discussione. Pur avendo deciso di limitare la propria portata oggettiva al solo permesso premio, trincerandosi dietro la sua natura di modalità di trattamento, e non di misura 12 A cui, peraltro, a distanza di pochi giorni, ha fatto seguito una pronuncia ancora più pervasiva, la n. 263/2019, nei confronti dei condannati minorenni: la presunzione della mancata collaborazione viene infatti integralmente caducata, facendo venir meno la preclusione con riguardo a tutte le misure alternative e premiali previste dal d.lgs. n. 121 del 2018. 170 Sarah Grieco alternativa13, la pronuncia costituzionale ha, di fatto, scardinato il carattere assoluto della presunzione legislativa incapsulata nell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., le cui ragioni di incostituzionalità finiscono con l’essere valide indipendentemente dal tipo di beneficio penitenziario precluso. E’ come se la Corte, da un lato, si fosse preoccupata di confinare il thema decidendum, specificando che non comprende la legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo, attesa la differente portata della questione in esame (che non attiene all’applicazione di un istituto che trasforma la pena perpetua de iure in una pena perpetua anche de facto, come la liberazione condizionale); i giudici di legittimità, infatti, si sono guardati bene dall’applicare, a differenza con quanto accaduto in passato14, il meccanismo di illegittimità conseguenziale ex art. 27 della legge n. 87 del 1953. Eppure, dall’altro, la sentenza getta inequivocabilmente le basi per rimuovere il meccanismo ostativo, diventando il corollario giuridico di tutti i meccanismi preclusivi presenti nel nostro ordinamento penitenziario. In buona sostanza, è come se si volesse negare nella forma quanto si realizza, poi, nella sostanza, con una motivazione che ben si confà anche alla liberazione condizionale, così come a tutti gli altri benefici penitenziari. Né il differente status giuridico tra i due istituti parrebbe essere d’intralcio all’applicazione di questo ragionamento. Al contrario. È noto, innanzitutto, come la liberazione condizionale, oltre ad essere subordinata a residui di pena da scontare di gran lunga superiori rispetto agli altri benefici, richieda una procedura ben più articolata rispetto al permesso premio, con competenza collegiale dell’organo giudicante e spazio per il contraddittorio tra le parti. Questo grado di maggior complessità e di ponderazione collegiale, a ben guardare, rappresentano un’ulteriore garanzia alla discrezionalità di giudizio riconsegnata alla magistratura di sorveglianza. Inoltre, il lungo pregresso detentivo richiesto per la sua concessione, consente un adeguato periodo di osservazione del detenuto, per la valorizzazione della sua condotta inframuraria e la formulazione del giudizio prognostico di pericolosità. Con le due sentenze citate viene minata irreparabilmente l’architrave stessa dell’ostatività penitenziaria. Questo è un dato a partire dal quale non si può più tornare indietro, senza esporsi al rischio di nuove condanne da parte della Corte EDU e ad una palese contraddizione, in seno alla stessa Corte, tra i due giudicati costituzionali. E ciò non solo per la assoluta sovrapponibilità tra la vicenda de quo e quella oggetto di giudizio della sentenza Viola, ma proprio per il cuore argomentativo della sentenza n. 253/2019, sopra tracciato nei suoi passaggi più significativi. 13 Più precisamente la liberazione condizionale è causa estintiva della pena che opera sul piano del diritto sostanziale (artt. 176 e 177 c.p.), pure se l’istituto può essere considerato «funzionalmente analogo alle misure alternative alla detenzione, essendo anch’esso finalizzato a consentire il graduale reinserimento del condannato nella società» (sent. n. 32/2020). 14 Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 68/1995 una volta dichiarato incostituzionale il 1° comma dell'art. 4-bis ord. penit., nella parte in cui, in riferimento al permesso premio, non prevedeva la possibilità di concederlo anche nel caso di integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, la Consulta, formalmente, utilizza l'illegittimità consequenziale, in riferimento alla liberazione condizionale: “caducata (...) la preclusione normativa (...) automatici ne risultano gli effetti anche per ciò che concerne l'istituto della liberazione condizionale”. Liberazione condizionale e regime ostativo 171 Ancora a proposito della citata dimensione teleologica dell’istituto, un’ultima considerazione è d’obbligo, dovendo la Corte decidere, sulla scia di quanto già accaduto con la sentenza n. 253/2019, se ricorrere alla tecnica dell’illegittimità consequenziale, per allargare l’accertata incostituzionalità a tutti gli altri reati inclusi nell’elenco dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. L’ordinanza di remissione, - avendo ad oggetto i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste - ha opportunamente sottolineato come il meccanismo preclusivo del primo comma dell’art. 4-bis ord. penit., applicato alla liberazione condizionale, incida sull’unica condizione che permette a quella pena di essere considerata compatibile sia con l’impianto costituzionale che con quello comunitario. È solo grazie alla liberazione condizionale, infatti, che il condannato a pena potenzialmente perpetua, può operare per il suo reinserimento sociale e avere delle possibilità di recuperare, un giorno, la libertà (c.d. right to hope); prospettiva che rappresenta una spinta motivazionale in grado di promuovere positive evoluzioni psico-comportamentali. Tuttavia, non meno grave è l’effetto che la preclusione produce sulle pene detentive temporanee, rispetto alle quali è comunque garantita al condannato l’uscita dal carcere al termine della pena. In caso di accoglimento per i soli delitti rimessi dal giudice a quo, oltre all’incoerenza di un sistema dove si stabilisce che una mancata collaborazione è sempre preclusiva della liberazione condizionale, ad eccezione che per l’ergastolano15, una pena che deve essere scontata per tutta la sua durata all’interno dell’istituto penitenziario, senza che sia possibile – stante il regime ostativo – che il condannato possa accedere a benefici graduali e responsabili fino alla sua liberazione, è una pena che rischia di rivelarsi completamente inutile; che riconsegna un soggetto - presunto pericoloso e non collaborante, a cui non sono stati forniti strumenti di reinserimento alla società completamente impreparato e ad alto rischio di recidiva. Con buona pace delle esigenze di difesa sociale. 2. L’ordinanza di remissione avrebbe potuto richiamare, in maniera più diretta, un’altra riflessione che non trova chiara esplicitazione nel corpo della motivazione della pronuncia n. 253/2019, ma che è un tema certamente connaturato alla sua complessiva visione culturale. Come acutamente osservato dallo stesso Giudice redattore della sentenza, Nicolò Zanon16, nella disposizione in commento «non vi è solo un contrasto con l’idea della funzione risocializzante della pena, quella tendenziale funzione che è esplicitamente prevista nell’art. 27 Cost., bensì anche con la stessa funzione retributiva della pena, che pure esiste e di cui non si parla quasi più» e che, invece, è legata a doppio filo proprio con quella rieducativa. È appena il caso di rammentare G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? Spunti per una discussione, in questo volume. 16 N. ZANON, Il lavoro della Corte nell’elaborazione e nella scrittura della sentenza n.253/2019, in S. GRIECO, S. SCALERA (a cura di) Verso il superamento dell’ergastolo ostativo?, cit., 117. 15 172 Sarah Grieco come la teoria retributiva, partorendo il principio di proporzionalità tra pena e delitto, ha dato alla luce quello che si è rilevata una delle colonne portanti della teoria rieducativa, cristallizzata nella nostra Costituzione all’articolo 27 e riletta dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 364/1988: una pena, infatti, per potere rieducare un colpevole non può che essere avvertita come giusta, e la pena è giusta quando proporzionata al reato commesso. Il requisito della collaborazione si risolve, inevitabilmente, in un aggravamento retributivo rispetto alla sanzione contenuta nella sentenza di condanna. La mancata collaborazione finisce col diventare un’ulteriore afflizione del percorso penitenziario; un surplus sanzionatorio costituito dal divieto di accesso ai benefici, finalizzato appunto a premere sulla volontà del condannato, stravolgendo il rapporto tra cittadino e autorità nel campo della giustizia penale. 3. Restano sullo sfondo i diversi parametri probatori, alla cui stregua condurre l’accertamento dei requisiti richiesti dalla legge n. 203 del 1991 ed, in particolare, il sicuro ravvedimento del condannato. A ben guardare, la sentenza n. 253/2019, nel delineare gli oneri probatori per accedere ai permessi premio, sembra far ritorno al sistema adottato nella prima versione – introdotta dall’art. 1 del d.l. n. 152 del 1991, come convertito – dell’art. 4-bis ord. penit.: reintroduce un regime di prova rafforzata per accertare l’inesistenza di una condizione negativa (assenza dei collegamenti con la criminalità organizzata e/o della pericolosità sociale), abbandonando il modello che aveva introdotto una preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto attraverso una condotta qualificata (la collaborazione). Tale impostazione non implica necessariamente, a parere di chi scrive, l’eliminazione di qualunque spazio applicativo per l’inesigibilità/impossibilità/irrilevanza della collaborazione. Pur non potendo condividere l’orientamento dei regimi probatori differenziati (tra potenziali collaboranti che scelgono di non collaborare e coloro che invece non possono farlo), espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 5553/202017, ric. Grasso, all’interno dello spazio valutativo del giudizio, potranno trovare il giusto peso anche le ragioni che hanno indotto il condannato a scegliere il silenzio, ivi inclusa l’inesigibilità o l’impossibilità della collaborazione; senza, tuttavia, che sia possibile, in astratto, attribuire maggiore meritevolezza a tali elementi piuttosto che ad altri. Esemplificando: l’attuale condizione di ammissibilità dell’esame dell’istanza di liberazione condizionale per i non collaboranti, si trasforma in uno degli elementi da porre all’attenzione del magistrato unitamente agli altri, congrui e specifici, che siano presenti e rilevanti nel caso concreto. Tuttavia, forse mossa dall’esigenza – attesa la delicatezza del tema – di fornire rassicurazioni alla collettività, preoccupata di un possibile crollo della difesa sociale, la Corte introduce, con un’insolita iniziativa legislativa, un parametro probatorio totalmente nuovo, che neppure la tanto rassicurante collaborazione con la giustizia era in grado di garantire: il ripristino di possibili collegamenti nel futuro. La prova negativa che il richiedente dovrebbe fornire, quanto meno come 17 Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 55533 del 28 gennaio 2020. Liberazione condizionale e regime ostativo 173 “specifiche allegazioni”, per di più proiettata in uno spazio temporale futuro, indubbiamente, rende il beneficio difficilmente applicabile, se non lo si interpreta come una mera valutazione probabilistica che il soggetto non commetta in futuro nuovi reati della stessa indole. Ridimensionato il carico probatorio potenzialmente insito nella sentenza n. 253/2019, in attesa di un puntuale intervento legislativo, così come indicato dalla sentenza Viola e definito nella relazione della Commissione parlamentare antimafia dello scorso 20 maggio18, anziché imporre alla Magistratura di Sorveglianza un binario rigidamente segnato, quasi a volerla porre sotto tutela nel suo giudizio, sarebbe auspicabile valorizzare adeguatamente quegli assaggi di libertà rappresentati dai permessi premio, a cui il detenuto, proprio a seguito della sentenza n. 253/2019, può essere ammesso. Quale miglior banco di prova della sperimentazione concreta extramuraria e dei suoi risultati, per stabilire, unitamente ad altri indici sintomatici19, la rottura del vincolo associativo e, più in generale per le altre tipologie di reati (cc.dd. di seconda e terza fascia), l’attualità della pericolosità sociale? 4. Quando il trattamento penitenziario a cui è sottoposto il condannato perde credibilità e significato ai suoi occhi, viene messa a rischio l’efficacia dell’intero percorso penitenziario, percepito come incomprensibile e privo di senso, così come tutta l’istituzione carceraria in sé. Con la caduta dell’ostatività per i permessi premio, al detenuto è stata concessa la possibilità di sperimentare momenti di libertà, destinati a diventare, col tempo (e in caso di esito positivo), sempre più lunghi e di maggiore impegno nell’attività extramuraria, sul presupposto di un giudizio slegato da presunzioni assolute, che esclude la pericolosità ed elementi di collegamento con la criminalità organizzata nonché la possibilità futura di riallacciarli. È come se il sistema avesse ammesso che la rieducazione del condannato, in realtà, si può conseguire anche a prescindere dalla collaborazione. Maturati i requisiti della liberazione condizionale, non sarebbe più comprensibile vincolare nuovamente il giudizio, già esperito con successo per la concessione dei permessi premio, al criterio legale della collaborazione, come dimostrazione tangibile della dissociazione. Il sopravvenuto, e disatteso, obbligo di collaborare non può più precludere la concessione della misura rieducativa, quando è stata la sola condotta penitenziaria ad aver consentito di accertare il raggiungimento di uno stadio del percorso rieducativo adeguato al beneficio da conseguire. Il sistema penitenziario deve mantenere una sua coerenza intrinseca, in grado di garantire al condannato il diritto di sapere cosa deve fare perché la sua liberazione sia possibile e quali siano le condizioni applicabili. 18 Cfr. Commissione parlamentare antimafia, Relazione sull’istituto di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale. 19 Alcuni indici tratti dalla giurisprudenza sono: la dissoluzione del gruppo criminale di appartenenza o dalla sua mancanza di operatività; dall’eventuale estromissione dell’affiliato dall’associazione criminale; le condotte rivelative della dissociazione poste durante l’esecuzione della pena detentiva; il tenore di vita dello stesso detenuto e dei suoi familiari. 174 Sarah Grieco Del resto l’art. 4-bis, 1° comma, ord. penit stabilisce che tutte le misure alternative possono essere concesse solo nei casi di utile collaborazione con la giustizia. Venuta meno la regola base espressa in quel solo, sarebbe difficile fermarsi al primo gradino della progressività trattamentale, costituito dal permesso premio, o ipotizzare di inserire anche l’ultimo, la libertà condizionale, lasciando nel mezzo l’ostatività per tutti quegli istituti del diritto penitenziario che, progressivamente, segnano il percorso rieducativo e che preparano il condannato proprio alla liberazione condizionale. Non è da sottovalutare, inoltre, il cortocircuito che tale impostazione creerebbe anche nella sua applicazione pratica: è noto, infatti, come, nella prassi, istituti più flessibili come l’affidamento in prova e, soprattutto, la semi-libertà siano divenuti delle precondizioni rispetto alla concessione del beneficio de quo; l’impossibilità di una loro applicazione per i condannati non collaboranti ex art 4-bis, escluderebbe, di fatto, per questi ultimi la concessione della stessa liberazione condizionale. Infine il deficit di razionalità dell’impianto normativo, così come congegnato oggi, emerge, a ben vedere, anche da un altro istituto: il beneficio della liberazione anticipata applicato (in astratto) anche all’ergastolano senza scampo, e non intenzionato a (o non in grado di) svolgere una fattiva collaborazione. Un tale riconoscimento è del tutto inutile, se non può influire sulla durata della detenzione, ad esclusione della sola riduzione dei limiti temporali per accedere al permesso premio; né potrà svolgere lo scopo di favorire il reinserimento sociale del reo, per cui è stato effettivamente concepito, qualora egli, pur avendo diritto al beneficio (e avendolo ottenuto), non potrà comunque farne uso se non dopo aver collaborato20. 5. È giunto il momento per la Consulta di compiere un significativo passo in avanti rispetto a quanto fatto con la sentenza n. 253/2019. Anziché limitarsi a dichiarare l’incostituzionalità del carattere assoluto della collaborazione per l’istituto in esame, spianando la strada ad altre future decisioni a grappolo, la Corte dovrebbe applicare l’istituto dell’illegittimità conseguenziale per tutti i benefici penitenziari, demolendo la preclusione ostativa in sé ed espellendo dall’ordinamento penitenziario una disposizione che “penitenziaria” non è. E questo non solo perché, diversamente dal passato, la Corte è investita direttamente dalla disciplina concernente l’ergastolo ostativo, atteso che l’ordinanza di remissione concerne un istituto che trasforma la pena perpetua de iure in una pena perpetua anche de facto21, ma perché i tempi sono orami maturi A. PUGIOTTO, Criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, in C. MUSUMECI, A. PUGIOTTO, Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, Editoriale Scientifica, Napoli 2016, 81-82. 21 Sul punto si veda la stessa motivazione della sentenza n. 253/2019 in cui la Corte, nello specificare che oggetto del thema decidendum non è l’ergastolo ostativo ma il singolo permesso premio, espressamente afferma: «le questioni di legittimità costituzionale sollevate non riguardano la legittimità costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo, sulla cui compatibilità con la CEDU si è, di recente, soffermata la Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 13 giugno 2019, Viola c. Italia. Questo sarebbe stato l’oggetto delle presenti questioni se le ordinanze di rimessione avessero censurato – oltre che l’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. – anche la previsione contenuta nell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 20 Liberazione condizionale e regime ostativo 175 per scrivere la parola fine ad un meccanismo che appare fortemente lesivo dei diritti fondamentali delle persone recluse, privandole di quel residuo di speranza e di responsabilità verso il proprio futuro che nessuna pena può legittimamente cancellare. (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, che, richiamando l’art. 176 cod. pen., non consente di concedere la liberazione condizionale al condannato all’ergastolo che non collabora con la giustizia e che abbia già scontato ventisei anni effettivi di carcere, così trasformando la pena perpetua de iure in una pena perpetua anche de facto». ANCORA UNA QUAESTIO IN TEMA DI ERGASTOLO: UN’INGRAVESCENTE IDIOSINCRASIA VERSO L’OSTATIVITÀ? di ANTONIO LEGGIERO SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Un excursus storico-giuridico. – 3. Il vincolo della Corte EDU. – 4. Riverberi ordinamentali interni. – 5. Ipotesi, prospettive, sviluppi. – 6. Conclusioni. 1. Seguendo la poderosa e catarifrangente scia (foriera di storiche novità ordinamentali) prodotta dal passaggio epocale della sentenza della Corte costituzionale n. 253/2019 la quale, de facto, ha prodotto un penetrante vulnus nella tenuta dell’ergastolo ostativo, una nuova quaestio si affaccia sulla scena, avente l’impostazione teleologica ultima, mal dissimulata, di inchiodare gli ultimi tasselli al sarcofago funerario dell’ergastolo ostativo. Infatti, in data 3-18 giugno 2020 la Prima Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione ha promosso questione incidentale alla Corte costituzionale avente ad oggetto la legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1 e dell’art. 58-ter della legge n. 354 del 1975 (ordinamento penitenziario) nonché dell’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991 convertito in legge n. 203 del 1991, in riferimento all’asserita lesione dei fondamentali artt. 3, 27 e 117 della Costituzione. Nello specifico, in punto di stretto diritto, le norme portate all’attenzione della Consulta arrecherebbero un grave vulnus ai parametri costituzionali indicati, «nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale». Dal punto di vista squisitamente fattuale, la vicenda trae origine da un ricorso in Cassazione da parte di un affiliato alla criminalità organizzata - non collaborante con la giustizia (ex art. 58-ter, comma 1, ord. penit.) – al quale reiteratamente è stata rifiutata l’istanza volta all’accertamento della collaborazione impossibile (ex art. 4-bis, comma 1-bis, ord. penit.). Nello specifico trattasi di detenuto che sta scontando la pena dell’ergastolo per un crimine sussunto nel paradigma normativo dei reati cc.dd. ostativi al rilascio di benefici penitenziari. Segnatamente, la sua istanza è finalizzata all’ottenimento della liberazione condizionale, avendo scontato ventisette anni di reclusione e trovandosi nella potenziale condizione giuridica di poter fruire del beneficio ex lege previsto dall’art.176 c.p. La domanda, in prima istanza, è stata respinta dal Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila (per competenza territoriale) e successivamente, in seconda istanza, dalla Suprema Corte di Cassazione (alla quale aveva inoltrato regolare e successivo ricorso di rito contro  Criminologo. Ancora una quaestio in tema di ergastolo 177 la decisione de qua). Ancora una volta, l’insormontabile ostacolo che funge da impenetrabile barriera verso la libertà, è costituito dal fatto che il soggetto in questione è ristretto per l’esecuzione dell’ergastolo ostativo, in quanto non collaborante con la giustizia. Nuovamente, si pone il problema della compatibilità costituzionale di un ordito normativo che preclude in modo assoluto la concessione del beneficio in questione, sulla scorta dell’assenza del dirimente elemento della collaborazione. Nell’ordinanza del giudice a quo si legge: «il dubbio di costituzionalità trova causa nel convincimento che la collaborazione non può essere elevata ad indice esclusivo dell’assenza di ogni legame con l’ambiente criminale di appartenenza e che, di conseguenza, altri elementi possono in concreto essere validi e inequivoci indici dell’assenza di detti legami e quindi di pericolosità sociale». Conseguentemente, il criterio vincolante dell’assenza di collaborazione, tradotto in una soggiogante forca caudina per il detenuto (a parere del giudice rimettente) produrrebbe una pretermissione di ogni valutazione dell’ambito personale di recupero e risocializzazione, vulnerando pesantemente l’intelaiatura della Grundnorm con la violazione degli articoli della stessa evocati nella relativa ordinanza di rimessione. 2. Sebbene il thema decidendum, oggetto della nostra attuale disamina ontologica e normativa, sia apparentemente connotato da una marcata innovatività - caratterizzato da una stringente ed assoluta vivacità (stante il forte nexum con la tematica dell’ergastolo ostativo e delle sue recenti vicissitudini) - lo stesso non costituisce un assoluto outsider giuridico nel panorama ordinamentale (in special modo giurisprudenziale). Infatti, già in passato si erano interessati di tale spinosa argomentazione sia la Corte di Cassazione che la Corte costituzionale. Addirittura, nelle decisioni della Consulta esiste un preciso antecedente, la sentenza n. 135/2003, che rappresenta una sorta di macroscopica pietra miliare pretoria in materia. Ebbene, diciassette anni or sono, il Giudice delle Leggi ritenne infondata la quaestio dell’ergastolo ostativo in rapporto preclusivo alla concessione della liberazione condizionale, fugando ogni sprazzo di perplessità portato dal vento della sospetta incostituzionalità. Infatti, in quel precedente si legge che l’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., «subordinando l’ammissione alla liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia, che è rimessa alla scelta del condannato, non preclude in modo assoluto e definitivo l’accesso al beneficio». Con maggiore impegno esplicativo, che il detenuto abbia a disposizione una così forte e tranciante chance ordinamentale non produce alcuna distonia né di tipo legislativo ordinario, né di rilievo costituzionale. Quindi, in definitiva, il fatto che le leve dei pulsanti decisionali siano concentrate proprio nelle mani del condannato, rappresenta la garanzia migliore della legittimità (oltre che della congruità in termini di politica criminale) della norma, eleggendolo supremo dominus del suo destino penitenziario. Conseguentemente, la Consulta non ha ritenuto irragionevole l’opzione normativa di lasciare al detenuto la possibilità di fruire dell’istituto ex art. 176 c.p. 178 Antonio Leggiero in base alle sue decisioni. Fra l’altro, la sua eventuale opzione di recidere ogni legame con il sodalizio criminale di appartenenza rende evidente e sicuro (a detta della Corte costituzionale) il tanto dibattuto e controverso ravvedimento del reo. In altri termini, rappresenta un potente ed incontrovertibile indice legale che resiste ad ogni eventuale ipotesi contraria di segno controfattuale. Seguendo - pedissequamente e minuziosamente - il leit motiv della Consulta, anche la Suprema Corte di Cassazione si è adeguata ai desiderata giurisprudenziali enunciati. Ragion per cui, il Giudice di Legittimità, in diverse e reiterate occasioni, ha sempre rigettato - considerandola manifestamente infondata - l’attuale questione (ex multis Sez. I pen. 17 gennaio-16 febbraio 2017 n. 7428; Sez. I pen. 22 marzo 1 luglio 2016 n. 27149; Sez. I pen. 20 marzo – 17 luglio 2015 n. 31203). Pertanto, la Corte nomofilattica ha eretto negli anni un insormontabile baluardo difensivo a tutela e protezione dell’assunto dei Giudici costituzionali, i quali avevano proclamato la perfetta compatibilità ordinamentale (ordinaria e costituzionale) fra l’istituto della liberazione condizionale e la sua inapplicabilità agli ergastolani ostativi, in assenza di un sicuro ravvedimento evidenziato plasticamente ed icasticamente dalla collaborazione con la giustizia. Le sue ripetute sentenze, tutte di uguale segno, sembravano assumere la forma simile alle invalicabili mura giustinianee di Costantinopoli. Eppure, nonostante questo granitico sostrato giurisprudenziale (costituito da notevoli ed autorevoli precedenti tutti deponenti in senso univoco ed uniforme), in questa occasione, la Corte di Cassazione (medesima sezione: la Prima) ha ritenuto di infrangere tali rigide e consolidate regole di “diritto vivente”, considerando questa volta non manifestamente infondata la questione pervenuta alla sua attenzione e promovendo giudizio di legittimità davanti alla Consulta. I binari lungo i quali il Giudice di Legittimità ha incanalato le sue argomentazioni sono nitidamente marcati. In primo luogo, il sempre più considerato, enfatizzato e valorizzato principio di rieducazione del condannato in connubio con la progressiva tendenza di accentuazione dell’umanizzazione della pena (al riguardo è stato ricordato un lontano antecedente della Consulta, la sent. n. 161/1997, secondo cui «la liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione la pena dell’ergastolo»), sulla scorta del quale il giudice a quo ha argomentato a contrario l’inconfigurabilità di preclusioni assolute in materia. In secondo luogo (e non poteva essere diversamente) è stata evidenziata la portata dirompente e fortemente innovativa della storica (ancorché recente) sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale, la quale ha rimarcato il «carattere assoluto della presunzione di mantenimento dei collegamenti con l’organizzazione criminale del detenuto che non collabori», considerandola costituzionalmente illegittima ex artt. 3 e 27 Cost. Pertanto, per la Prima Sezione della Corte di Cassazione, stavolta, i tempi sembrano maturi per una rivalutazione ed una riconsiderazione melius re perpensa di una vexata questio sulla quale tanto negli anni si è dibattuto. In altre parole, per un significativo revirement dei propri precedenti arresti in tema. Ancora una quaestio in tema di ergastolo 179 3. Com’è noto, i giudici della Corte EDU si sono già espressi in materia di ergastolo ostativo nella celeberrima sentenza Prima Sezione Viola c. Italia n.2 del 13 giugno 2019. In quell’occasione la Corte di Strasburgo, da un lato, ha ben considerato che «la legislazione interna non vieta in modo assoluto e con effetto automatico» uno spiraglio di libertà per il detenuto caduto sotto la scure dell’ergastolo ostativo, rendendolo astrattamente fruibile attraverso il pur complesso e difficoltoso percorso di collaborazione con la giustizia. Al tempo stesso, però, ha considerato che il suddetto iter collaborativo «nella sua applicazione pratica finisca per limitare eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità per quest’ultimo di domandare il riesame della pena». La Corte, quindi, in maniera nemmeno dissimulata, contesta il legame a filo doppio della presunzione di pericolosità embricata con la mancata dissociazione dalla societas sceleris. Secondo la Corte di di Strasburgo l’opzione necessitata della collaborazione può non essere agevolmente praticabile dal detenuto dal momento che, imboccando questo percorso, espone se stesso ed i suoi familiari a pesanti rischi di gravi ritorsioni anche mortali. Al tempo stesso, la tanto decantata dissociazione-collaborazione, non necessariamente è sicuro indice di ravvedimento da parte del condannato, dal momento che la stessa può essere posta in essere dal condannato in modo esclusivamente finalistico-strumentale, al fine di fruire dei noti e cospicui benefici di legge. Ancora, l’enfatizzazione della collaborazione ed il pesante stigma consequenziale dell’assenza della stessa scotomizza il concreto, reale ed eventualmente proficuo percorso di risocializzazione e ravvedimento dallo stesso posto in essere. Conseguentemente, dopo un atteggiamento in qualche misura altalenante e pendolare - a tratti di segno antitetico, a tratti di segno conciliativo - la Corte EDU alla fine, ha disvelato il suo reale atteggiamento di disfavore nei confronti dell’ergastolo ostativo, ritenendolo lesivo della dignità umana, dal momento che in ultima analisi non predispone per il soggetto ristretto una concreta chanche ordinamentale (che non sia quella forzosa e potenzialmente non genuina della collaborazione) di riacquisto della propria libertà. Riportando pedissequamente le parole della Corte EDU, si legge nella sentenza della Grande Camera Vinter ed altri c. Regno Unito del 9 luglio 2013: «l’esistenza, invece, di preclusioni assolute alla liberazione condizionale si risolve in un trattamento inumano e degradante (…) e ciò perché, in tal modo, il detenuto viene privato del diritto alla speranza». Ecco dunque, uno dei punti-chiave della questione oggetto di dibattito, che ne rappresenta il vero punctum dolens: così impostato il problema, la pena dell’ergastolo ostativo è compatibile con la CEDU e, per l’effetto mediato, con l’articolo 117, comma 1, Cost. che quella Convenzione (fra le altre) tutela con l’usbergo della costituzionalità? 4. Scrutinando l’ordinanza di rimessione del giudice a quo e sottoponendola ad attenta disamina esegetico-giuridica nonché di politica penale, si colgono quattro 180 Antonio Leggiero punti fermi che costituiscono importanti pietre miliari lungo lo snodarsi del cammino giurisprudenziale della Cassazione. Analizziamoli partitamente. In primo luogo si ritiene che, eleggendo la collaborazione con la giustizia ad esclusivo parametro discriminatorio ai fini della concessione del beneficio della liberazione condizionale (ex art. 176), si finisce per porre un pesante ed ingiustificato fardello sulle già oberate spalle dell’ergastolano ostativo ai fini dell’espiazione della pena e delle sue correlate modalità. In secondo luogo, si enfatizza negativamente (fino agli estremi della criminalizzazione) un dato di per sé intrinsecamente neutro come il silenzio, caricandolo di una valenza negativa che il nostro ordinamento non prevede, anche e soprattutto alla luce del fondamentale principio penalistico (di conio sostanziale e processuale) del nemo tenetur se detegere. In terzo luogo, uno sbarramento de plano così consistente, a monte, impedisce il congruo ed obiettivo esercizio della propria funzione alla Magistratura di Sorveglianza, posta in condizioni di non poter valutare ciò che è consustanziale al suo ruolo: vale a dire i naturali ed eventuali progressi compiuti dal detenuto nel corso dell’esecuzione della sua pena. In quarto ed ultimo luogo si obliterano pesantemente gli eventuali cambiamenti della personalità del condannato, soprattutto in relazione alla realtà esterna all’universo penitenziario. Ne deriva, secondo il giudice a quo, l’incostituzionalità dell’art. 4-bis, comma 1 e dell’art. 58-ter dell’ordinamento penitenziario nonché dell’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991 convertito nella legge n. 203 del 1991, dal momento che «in riferimento, dunque, alla espiazione della pena, specie se di lunga durata, presunzioni di tal fatta non possono che essere relative, dovendo sempre ammettersi la possibilità di una valutazione in concreto dell’incidenza avuta dal trattamento penitenziario sulla personalità del detenuto, proprio in conformità alle previsioni dell’art. 27, comma 3, Cost.». Analizzando perspicuamente ed argutamente l’ordinanza di rimessione, si coglie l’assunto dei giudici della Prima Sezione Penale di Cassazione in base ai quali la notissima e dirompente sentenza n.253/2019 non si sarebbe limitata a stigmatizzare il divieto della concessione del permesso premio agli ergastolani ostativi (come sembrerebbe prima facie), ma avrebbe avuto una portata molto più ampia e totalizzante comprendendo un generale atteggiamento istituzionale e costituzionale di disvalore e di idiosincrasia normativa verso la figura dell’ergastolo ostativo tout court. Tuttavia, è vero quanto affermano i giudici rimettenti o si tratta di una capziosa e surrettizia forzatura pretoria (sebbene autorevolissima) di quanto affermato dalla Consulta? Non è che si tratti di un «Cicero pro domo sua»? A ben vedere, la Corte costituzionale, nell’excursus dell’ormai arcinota sentenza, ha avuto modo e tempo di affermare espressis verbis ed in maniera incontrovertibile che le sue argomentazioni «non riguardavano la legittimità costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo». In altri termini, il thema decidendum non poneva il generale problema dell’ergastolo ostativo, ma soltanto il particulare (permesso premio legato alla pena aggravata) di machiavellico sapore. Ancora una quaestio in tema di ergastolo 181 Approfondendo la disamina, dal punto di vista ontologico, i due istituti oggetto di attenzione da parte della Consulta (il permesso premio e la liberazione condizionale) sono di conio normativo e spessore dogmatico completamente diversi. Dal punto di vista della loro intrinseca natura, la liberazione condizionale è una causa estintiva della pena alla quale il condannato accede de plano in base ai requisiti di legge; il permesso premio, invece, consta in una concessione discrezionale di un beneficio di legge nel corso dell’esecuzione della pena. Anche dal punto di vista dell’assetto teleologico di politica criminale, mentre l’istituto ex art. 176 è finalizzato al progressivo reinserimento sociale, il permesso premio è finalizzato al perseguimento di molto meno impegnative finalità di interessi culturali, lavorativi ed affettivi (seppure in qualche modo, ma molto liminarmente, egualmente connessi alla rieducazione ed al reinserimento). 5. Indubbiamente, si profilano diversi scenari al riguardo della soluzione di quest’ulteriore questio concernente l’ergastolo ostativo, portata all’attenzione dei Giudici costituzionali. Vi potrà essere un’ulteriore declaratoria di incostituzionalità (magari di tipo consequenziale, auspicata da molti), così come vi potrà essere una decisione interlocutoria (sulla falsariga della tematica concernente il suicidio assistito) che consenta ancora margini per una soluzione legislativa (fisiologica) de jure condendo, o vi potrà essere un improbabile rigetto della questione sollevata (ipotesi minoritaria, dal momento che è ancora fortemente luminosa – nel firmamento giuridico - la scia della cometa della sentenza sui permessi premio). Tuttavia, è impossibile misconoscere come il vero obiettivo di tutta questa levata di scudi sia l’istituto dell’ergastolo ostativo in sé. Se ciò è vero (e vi sono pochi dubbi al riguardo), la soluzione più congrua e maggiormente virtuosa di tale vicenda non può che essere quella di calare la spinosa questione dell’ergastolo ostativo nell’emiciclo parlamentare, sede per definizione a ciò preposta. Non è ipotizzabile che la Corte costituzionale venga investita di un potere in parte ultroneo alle sue attribuzioni, calando sotto la scure dell’incostituzionalità l’ergastolo ostativo tout court. Anche se, ad onor del vero, la storia è densa di interventi simili della Consulta su tematiche giuridiche di primissimo piano, spessore ed interesse. Al riguardo, non è inopportuno ricordare che la Commissione Parlamentare Antimafia, nella seduta del 20 maggio scorso, ha approvato un apposito documento ad hoc dal titolo «Relazione sull’istituto di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze determinanti dalla sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale». Ivi si legge testualmente che, in base agli asserti della Corte costituzionale e della Corte EDU, «la preclusione assoluta in mancanza di collaborazione non è più compatibile con la Costituzione e con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo». Al tempo stesso, in una sorta di sdoppiamento di personalità istituzionale - che assume l’amaro sapore del compromesso - si apprende, leggendo altre righe del testo in commento, che la preclusione assoluta di pericolosità ex art. 182 Antonio Leggiero 4-bis, comma 1, ord. penit. «ha costituito un meccanismo fondamentale nel processo di smantellamento delle organizzazioni criminali». Sempre la Commissione Antimafia nel medesimo contesto afferma che la collaborazione con la giustizia deve essere conservata e mantenuta come «condizione “privilegiata” di accesso ai benefici», al tempo stesso però dischiudendo rivoluzionarie ipotesi, per le quali il varco - fortemente presidiato dall’art. 4-bis - deve potersi raccordare normativamente con la possibilità di fruizione del beneficio della libertà condizionale ex art.176 c.p. Naturalmente, in quest’ultima ipotesi, anche in condizioni di assenza di percorso collaborativo e dissociativo del condannato. Al di là di queste affermazioni, certamente veritiere ma dai connotati simili a quelli dell’antico Giano bifronte, il vero ubi consistam è rappresentato dalla lapidaria affermazione (oltremodo condivisibile ed auspicabile al fine di risolvere la vexata questio) per la quale la conversione ontologica e dogmatica, ma soprattutto pragmatica, della presunzione assoluta in relativa, con dismissione delle anguste catene del vincolo assolutistico «non può che essere supportata da nuove soluzioni normative». Tale affermazione sembra perfettamente in linea ed in sintonia con la migliore (nonché certamente e maggiormente desiderabile) delle soluzioni in tema di ergastolo ostativo, ormai assediato da troppi eserciti e compresso in ogni pietra angolare del suo bastione difensivo. 6. Sfrondato da tutte le foglie progressiste ed umanitarie, nonché depurato dal forzato seguito della poderosa e tumultuosa corrente dell’art. 27, comma 3, Cost., il problema – funditus - concerne la mal tollerata convivenza della nostra impalcatura ordinamentale con l’istituto dell’ergastolo, così come variamente declinato dal legislatore in tutte le sue articolazioni. In effetti, com’è agevole constatare anche da un quivis de populo, con il trascorrere dei decenni, la presenza della pena del carcere a vita nel nostro sistema penale - tranne nei casi dove la linfa a favore del mantenimento era alimentata da diverse contingenze emergenziali di taglio mafioso e terroristico (che si nutrivano di un forte spirito emozionale della collettività) - è sempre stata poco e mal digerita. Con il passare degli anni, è divenuto sempre di più un ospite tanto sgradito quanto indesiderato. Una sorta di convitato di pietra. Conseguentemente, nel tempo, si è proceduto ad una progressiva erosione dell’istituto in oggetto - sia a colpi di frequenti picconate della Consulta che di decisioni (talvolta anche avventate) di politica-criminale - creando un sistema ordinamentale dove la pena perpetua esiste soltanto de jure ma non de facto. In sostanza, creando un simulacro di ergastolo (tranne, si ripete, per alcune categorie di criminali). Con il tempo, la pena perpetua è diventato un vuoto tabernacolo, malfermo, continuamente oggetto di incaute e, spesso inopinate, aggressioni. Ciononostante, si sono registrate anche positive modifiche normative in tema, ragionevoli ed equilibrate. Per ricordare le più importanti, basti citare la sentenza della Corte costituzionale n. 168/1994 che ha considerato illegittimo costituzionalmente l’ergastolo per i minori. Oppure l’espunzione ordinamentale del cosiddetto e famigerato “ergastolo bianco” degli internati negli ospedali psichiatrici Ancora una quaestio in tema di ergastolo 183 giudiziari, avvenuta con il d.l. n. 52 del 2014 convertito nella legge n. 81 del 2014. O ancora e soprattutto, le storiche decisioni della Consulta n. 204 e n. 264/1974 le quali, in buona sostanza, hanno eliminato la reale natura indeterminata ed indefinita della pena a vita, demolendone la caratura di perpetuità, dal momento che si è riconosciuta anche agli ergastolani comuni la possibilità di fruire della liberazione condizionale. Seguendo questo leit motiv, da qualche decennio, si registrano periodiche mobilitazioni di massa (che ricordano le infinite crociate in Terra Santa) finalizzate all’eradicazione della pena dell’ergastolo tout court dal nostro codice penale. Le motivazioni sono le più svariate e disparate. Si parte da argomentazioni umanitarie (non di rado anche intrise di considerazioni fideistiche-teologiche) per transitare in valutazioni sulla congruità di una politica criminale senza possibilità di reinserimento, finendo per riconoscere un’asserita obsolescenza normativa di un “fine pena mai”, considerato non più in linea con i tempi nonché fortemente distonica rispetto alle altre norme costituzionali. Su tutte spicca, per importanza e spessore normativo, l’art. 27, comma 3, Cost., per il quale la pena deve tendere alla rieducazione ed al reinserimento del condannato, non ammettendo sanzioni contrarie a tale dettato legislativo. Indubbiamente si tratta di un disposto costituzionale importantissimo, ma che nel tempo si è prestato a svariate e distorte forzature ermeneutiche, divenendo un po’ il leggendario letto elastico del brigante Procuste. Seguendo questo assunto, l’ergastolo, non consentendo alcun tipo di reinserimento e di rieducazione, stante la sua condizione consustanziale di detenzione sine die, sarebbe chiaramente incostituzionale. Addirittura - secondo un’interpretazione certamente suggestiva ed accattivante, ma al tempo stesso artata - l’ergastolo integrerebbe una violazione del divieto della pena di morte previsto dal comma 4 dell’art. 27 Cost, dal momento che produrrebbe nei condannati una pena fino alla morte. È ovvio che così impostata la questione, sensibile alle sirene indulgenzialistiche e di matrice buonista (le quali, da molto tempo, sono arroccate fermamente sui diversi scogli delle nostre coste ordinamentali), si colgono soltanto alcuni aspetti del fenomeno, non riuscendo a valutarne in modo distaccato ed asettico le condizioni ed il relativo sostrato. In altri termini, ci si arresta ad una sua valutazione epifenomenica. La pena dell’ergastolo non è un sadico capriccio del legislatore. Non è una iattura che si abbatte a caso, in maniera arbitraria, su alcune categorie di condannati. Al contrario, si tratta di una pena (estrema) per dei crimini (estremi). Uno Stato degno di tal nome e che voglia tutelare adeguatamente la sicurezza dei propri cittadini non può non prevedere - come extrema ratio nonché come una sorta di norma di chiusura del sistema sanzionatorio - una pena del genere. Diversamente, verrebbe vanificata ogni esigenza general-preventiva e special-preventiva. Ferma restando, naturalmente, la necessità di bilanciare tali primari valori con altri di uguale levatura e caratura, come la dignità della persona e del condannato, e perseguendo l’obbligo di cercare di realizzare per ogni detenuto forme di reinserimento sociale (diversamente declinate, in base al contesto soggettivo, ed opportunamente modulate, in base allo scenario oggettivo). 184 Antonio Leggiero Proprio alla luce dei sopra esposti fondamentali doveri statuali di protezione e tutela dei consociati, sono da considerare legittime (e finanche opportune) tutte le misure sanzionatorie diversificatamente applicabili ai vari soggetti, anche procedendo ad una gradazione ed a una limitazione della fruizione delle chance ordinamentali. Del resto, se è vero che l’art. 27, comma 3, Cost. prevede una tendenziale rieducazione mista a reinserimento sociale del detenuto, proprio in quanto tendenziale non esiste nessun divieto di prevederne delle deroghe per reati di notevole spessore criminale, così come impone l’immanente principio di retribuzione presente anche nel nostro ordinamento, sebbene in forma mitigata e dimessa, con tratti da oblio della finalità della pena in parola. Con maggiore impegno esplicativo, si potrebbe dire che il reinserimento sociale del condannato è sensibile a varie controistanze di sicurezza e difesa sociale, elementi certamente non di minor peso, ed è diversamente modulato in base al contesto stesso ed alla tipologia di detenuto-criminale. Francamente non sembra eccessivo né ingiusto prevedere per determinate categorie di criminali efferati, condannati all’ergastolo nella sua forma ostativa per reati gravissimi (come stragi ed omicidi plurimi), chiedere come contropartita all’ottenimento di alcuni benefici (come la liberazione condizionale) la rescissione di ogni legame con la societas sceleris di appartenenza ed un netto distacco con l’humus sociale di provenienza. Si potrà obiettare che si tratta di scelte difficili e gravose, le quali non vanno esenti da rischi, ma è la carriera del criminale di per sé ad essere intrinsecamente oberata da fattori di pericolosità di vario tipo. E non va dimenticato che al triste genus dell’ergastolo ostativo appartengono soggetti che hanno eletto il crimine ad una scelta consapevole di vita, soppesando preliminarmente vantaggi e rischi. Fra questi, anche quelli dell’ergastolo ostativo. Conseguentemente, hanno commesso reati feroci e ripetuti che strutturano delle carriere criminali spaventose ed orribili. Ragion per cui, mentre l’ordinamento - giustamente e doverosamente - si interroga sulla pena del detenuto (rectius criminale) e sui risvolti che la sanzione stessa dispiega sulla vita e sulla morte del soggetto in questione, nessuna profonda e scrupolosa perplessità (di genere ontologico o normativo) ha sfiorato minimamente la mente del reo, quando ha soppresso le vite delle proprie vittime, sovente in giovane età ed in modo cruento e raccapricciante. RIEDUCAZIONE, DIRITTO ALLA SPERANZA E PROSPETTIVE DELLA LIBERAZIONE CONDIZIONALE DOPO LA “FINE” DELL’ERGASTOLO OSTATIVO di ADRIANO MARTUFI* SOMMARIO: 1. La liberazione condizionale: il convitato di pietra al cospetto dell’ergastolo ostativo? – 2. Alcune considerazioni in punto di rilevanza: l’abbraccio mortale tra collaborazione e ravvedimento. – 3. Le prospettive di un intervento manipolativo: liberazione condizionale e legalità penale. 1. Questo breve contributo, a margine dell’ordinanza di rimessione della Prima Sezione Penale della Corte di cassazione1, si concentra sui profili riguardanti l’istituto della liberazione condizionale, per molti aspetti il «convitato di pietra» nella discussione sulla legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo. Dopo una breve introduzione, si affronta il tema dei rapporti tra collaborazione (ex artt. 4-bis, comma 1 e art. 58-ter ord. penit.) e ravvedimento del reo (ex art. 176, comma 1, c.p.) con particolare riferimento all’ammissibilità della quaestio. In seguito, ipotizzando un eventuale accoglimento della questione di legittimità, il contributo volge lo sguardo alle prospettive future della liberazione condizionale con riguardo alle pene detentive di lunga durata e all’ergastolo. La liberazione condizionale, occorre dirlo subito, è istituto ibrido – o, se si preferisce – polimorfo: improntato in origine a una logica spiccatamente premiale, era concesso fino all’intervento della Corte costituzionale (con la nota sentenza n. 204/1974) dal ministro della Giustizia sul presupposto della «buona condotta» del condannato 2. Nel corso del tempo, e segnatamente per effetto della riforma introdotta con legge n. 1634 del 1962, la liberazione condizionale è venuta a mutare le proprie fattezze al fine di riflettere in modo più fedele il «volto costituzionale della pena» tratteggiato dall’art. 27, comma 3, Cost. Ancorato oggi al presupposto del «sicuro ravvedimento» del condannato, l’istituto resta tuttavia contraddistinto da talune ambiguità che riflettono la tumultuosa evoluzione storica della sua disciplina legislativa. Nell’originario disegno del codice Rocco, la liberazione condizionale si configurava quale unico strumento suscettibile di restituire flessibilità all’esecuzione penitenziaria. Con l’avvento delle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario, l’istituto ha finito inevitabilmente per perdere centralità ritagliando il proprio ambito applicativo all’ultimo segmento dell’espiazione della pena. Come noto, tuttavia, la giurisprudenza costituzionale individua nella liberazione condizionale l’architrave da cui dipende la legittimità * Assistant Professor of Criminal Law, Università di Leida (Paesi Bassi) Cass. Sez. I penale, ord. 3-18 giugno 2020 Corte di Cassazione, I sez. penale, Pres. Mazzei, Est. Santalucia, in GU n. 34 del 19 ottobre 2020. 2 Cfr., per tutti, M. CANEPA, S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Giuffré, Milano 2004, 178. 1 186 Adriano Martufi costituzionale dell’ergastolo comune3. Rendendo nei fatti soltanto eventuale la perpetuità di tale pena4, la liberazione condizionale apre lo spazio alla progressività e alla necessaria individualizzazione del trattamento. In modo per certi aspetti più sorprendente, la Consulta ha nuovamente fatto leva sull’accesso alla liberazione condizionale per rigettare l’illegittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo nella sentenza n. 135/2003. Ad avviso della Corte, la «riducibilità» della pena sarebbe comunque possibile, risultando ostacolata non già dalla preclusione normativa dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., ma soltanto dalla scelta dell’ergastolano di rifiutare (al di fuori dai casi di impossibilità e inesigibilità) la collaborazione con la giustizia. In tale scelta risiederebbe, in ipotesi, un indice legale «della persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata»5: una presunzione assoluta che cementa la preclusione rigida dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. e inibisce l’esercizio della discrezionalità giudiziale al fine di valutare l’evoluzione personologica del reo. E su questo snodo argomentativo che punta a fare breccia l’ordinanza di rimessione, cercando di scindere l’identità logica tra mancata collaborazione e mancato ravvedimento al fine di appalesarne l’irragionevolezza. Appare evidente, infatti, che una volta rimesso in discussione tale assioma la presunzione in discorso offre il fianco a insormontabili censure di costituzionalità: a partire dall’impossibilità per la liberazione condizionale di assolvere alla funzione costituzionalmente doverosa di strumento del trattamento progressivo e individualizzato per tutti gli ergastolani. Insomma: a differenza di quanto avvenuto in occasione della sentenza n. 253/2019, la liberazione condizionale è oggi direttamente investita dalla questione di legittimità costituzionale, rimanendo purtuttavia estranea al petitum (l’art. 176 c.p. non figura tra le norme censurate dal giudice a quo). Il richiamo all’istituto in esame appare comunque decisivo nell’economia del sindacato di costituzionalità sull’ergastolo ostativo, sollecitando una riflessione circa l’ammissibilità della quaestio e le prospettive della liberazione condizionale nell’eventualità di un suo accoglimento. 2. Il tema dell’ammissibilità va in questa sede declinato sotto il profilo della rilevanza, come opportunamente evidenziato dalla traccia di discussione. Il testo proposto dai curatori del volume, infatti, avanza il dubbio che la questione sollevata possa risultare meramente ipotetica, dal momento che la concessione della liberazione condizionale, preclusa dalle norme censurate (artt. 4-bis e 58-ter ord. penit. e art. 2, comma 2 del d.l. n. 152 del 1991), non è destinata ad operare in modo automatico in caso di accoglimento. Tale perplessità sarebbe inoltre corroborata 3 Impossibile non richiamare la sentenza Corte costituzionale n. 264/1974 ove si afferma «che l'istituto della liberazione condizionale disciplinato dall'art. 176 c. - nel testo modificato dall'art. 2 della legge 25 novembre 1962, n. 1634 - consenta l'effettivo reinserimento anche dell'ergastolano nel consorzio civile». 4 Cfr. A. BERNARDI, Ergastolo: verso una effettiva «pluridimensionalità» della pena perpetua?, in Arch. Giur. Serafini, 1984, 406. 5 Corte costituzionale, sent. 5 luglio 2001 (de 20 luglio 2001), n. 273, §5. Rieducazione, diritto alla speranza e prospettive della liberazione condizionale 187 dalla mancata prospettazione nel giudizio a quo di utili indicazioni circa le ragioni che motivano la scelta dell’ergastolano di non collaborare con la giustizia. Ad avviso di chi scrive tali perplessità paiono superabili. Secondo un orientamento ormai consolidato, la rilevanza dipende infatti dal requisito dell’applicabilità della norma nel giudizio a quo e dalla circostanza che un’eventuale pronuncia di accoglimento possa produrre effetti nel giudizio principale6. Ad un attento esame, entrambe le condizioni sembrano soddisfate nel caso di cui si dibatte allorché si ponga mente al rapporto giuridico-strutturale tra le norme censurate e l’art. 176 c.p. Secondo un’interpretazione ricorrente, suffragata dalla già citata sentenza n. 135/2003, vi sarebbe infatti identità logica tra mancata collaborazione esigibile e ravvedimento. Tale assunto sembrerebbe in tal modo fornire un solo e assorbente «criterio legale» a cui ancorare il giudizio sulla rieducazione dell’ergastolano ostativo. In quest’ottica, in effetti, sembra possibile sostenere che un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità nel caso di specie non condurrebbe a un significativo mutamento nel giudizio a quo, posto che l’art. 176 c.p. resterebbe pur sempre applicabile: a mutare sarebbero, al più, i criteri di fondo da cui dipende il giudizio sul ravvedimento del reo. All’unico «criterio legale» della collaborazione verrebbero a sostituirsi i molteplici fattori individuati – non senza incertezze – dalla giurisprudenza di legittimità per dare sostanza al concetto di «ravvedimento». Ciò, tuttavia, lascerebbe impregiudicato l’esito del giudizio principale, in assenza di elementi idonei a motivare la mancata collaborazione con la giustizia. Sennonché, al di là del rilievo espresso dalla Corte nella sentenza n. 253/2019 (e in alcune pronunce recenti7) secondo cui la rilevanza non coincide con «l’utilità concreta per le parti in causa» a seguito della decisione, va osservato che nel caso di specie un eventuale accoglimento determinerebbe l’insorgere di una diversa regula iuris, con implicazioni per il «conseguente esercizio della funzione giurisdizionale»8. A nostro avviso, infatti, il complesso normativo censurato, non si limita a offrire una presunzione di mancato ravvedimento ma, come correttamente rivelato dai rimettenti, impedisce in limine un giudizio sul percorso risocializzativo dell’ergastolano ostativo. Se ciò accade, è perché le norme oggetto di censura ostano a una cognizione piena da parte dei giudici di sorveglianza, derogando alla disciplina di cui all’art. 176, comma 1, c.p. limitatamente ai presupposti soggettivi per l’accesso alla liberazione condizionale. Sotto questo profilo è decisivo il riferimento nell’atto di promovimento all’art. 2 del d.l. 152 del 1991, norma che incardina la concessione della liberazione condizionale ai presupposti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. Trattasi di rinvio mobile, da intendersi quindi come richiamo alla collaborazione con la giustizia ex 58-ter ord. penit: in tal modo, il complesso di norme censurate deroga esplicitamente alla comune disciplina della liberazione condizionale applicabile 6 Cfr., anche per ulteriori riferimenti giurisprudenziali, S. CATALANO, Valutazione della rilevanza della questione di costituzionalità ed effetto della decisione della Corte sul giudizio a quo in www.gruppodipisa.it, 10 luglio 2017. 7 Corte costituzionale, sent. 10 gennaio 2018 n. 10 (de 2 febbraio 2018) §3. 8 Il richiamo è alla pronuncia con cui la Consulta ha aperto al sindacato costituzionale delle norme penali di favore cfr. Corte costituzionale, sent. n. 148/1983, §3. 188 Adriano Martufi alla generalità dei condannati, configurandosi perciò come lex specialis riferibile agli autori di reati ritenuti portatori di maggior allarme sociale. Tale ultima disciplina, se dichiarata incostituzionale, permetterebbe la riespansione dell’art. 176, comma 1, c.p., norma ora inapplicabile alla sotto-fattispecie degli ergastolani ostativi per quanto riguarda i presupposti soggettivi che consentono la concessione della misura. L’analisi dei rapporti strutturali tra le norme oggetto del thema decidendum e l’art. 176, comma 1, c.p. permette dunque di ritenere che, in caso di accoglimento, il giudice rimettente dovrebbe applicare una nuova regula iuris: nella fattispecie, annullando con rinvio l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza de l’Aquila. Quest’ultimo si troverebbe allora a maneggiare un diverso complesso normativo e, liberatosi dalla camicia di forza dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., potrebbe finalmente prendere in considerazione aspetti la cui cognizione risultava sin qui preclusa: in primis, quei profili da cui è possibile inferire una rottura dei legami con l’organizzazione criminale di riferimento e dunque il venir meno della pericolosità sociale. Una volta dissolto l’abbraccio mortale che lega ravvedimento e collaborazione, l’esito del giudizio di costituzionalità sembra in qualche modo segnato. L’ergastolo può infatti conciliarsi con il volto costituzionale (e convenzionale) della pena solo ove si restituisca alla magistratura di sorveglianza il compito di effettuare un giudizio sulla personalità del detenuto e sulla sua evoluzione nel tempo. Del resto, l’approccio della giurisprudenza costituzionale nella subiecta materia è da sempre quello di valorizzare la dimensione dinamica, più che quella statica, della pena perpetua al fine di affermarne la compatibilità a Costituzione9. Orbene, nel caso di specie è proprio l’assenza di qualsivoglia dinamismo nell’esecuzione carceraria a far pendere la bilancia in favore di un accoglimento. 3. Sembra opportuno da ultimo svolgere talune considerazioni circa le tecniche decisorie che potrebbero corredare un’eventuale pronuncia di incostituzionalità. Si è scritto come in occasione della sentenza n. 253/2019, la portata rivoluzionaria del principio di diritto ivi sancito (il superamento della presunzione assoluta in relazione ai permessi premio) sia stata in qualche modo attenuata dall’introduzione di un onere di allegazione di congrui e specifici elementi, idonei ad escludere l’attualità e il pericolo di rispristino di collegamenti con la criminalità organizzata10. Tale onere di allegazione si traduce nell’obbligo di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno dell’istanza qualora le informazioni pervenute dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica depongano a sfavore di una concessione del permesso premio. La scelta della Consulta di corredare la decisione con «criteri di particolare rigore» è stata (a nostro avviso correttamente) oggetto di critiche: tra queste, particolarmente abrasiva è l’osservazione secondo cui l’indicazione di un onere E. DOLCINI, La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2018, 21 e ss. 10 M. RUOTOLO, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, in Sistema pen., 12 dicembre 2019, §3. 9 Rieducazione, diritto alla speranza e prospettive della liberazione condizionale 189 probatorio (peraltro singolarmente posto a carico del solo detenuto) fuoriesce dal thema decidendum, derogando al principio della corrispondenza tra chiesto e dichiarato, fino a sostituire la discrezionalità della Corte con quella del legislatore11. Tale componente della pronuncia risponde, peraltro, alla necessità di calibrare gli effetti del dictum in funzione delle «specifiche connotazioni criminologiche» che contraddistinguono il reato di affiliazione a una associazione mafiosa (e i reati ad essa collegati). Nell’ipotesi in cui la Corte decidesse di mutuare la ratio decidendi dalla sentenza n. 253/2019 al fine di superare l’ostatività nell’accesso alla liberazione condizionale, è dunque ragionevole attendersi un nuovo intervento di tipo additivo. Ciò, a più forte ragione, in virtù delle differenze tra permesso premio e liberazione condizionale: quest’ultima è infatti una causa di estinzione della pena sul piano del diritto sostanziale, opera cioè quale «vera e propria rinuncia, sia pure sottoposta a condizioni prestabilite, da parte dello Stato alla ulteriore realizzazione della pretesa punitiva nei riguardi di determinati condannati»12. Inevitabile che questo aspetto solleciti una riflessione circa gli effetti di una pronuncia di accoglimento sul piano pratico-applicativo. Sennonché, è auspicabile che un tale scrupolo non si traduca nuovamente nella pretesa di un più gravoso onere probatorio per il detenuto, anche in ragione delle criticità evidenziate al riguardo da parte della dottrina. Piuttosto sarebbe preferibile un intervento capace di dare sostanza all’evanescente e mutevole requisito del «sicuro ravvedimento» del reo, offrendo criteri certi in grado di guidare la discrezionalità dei giudici di sorveglianza. Come noto, infatti, l’accertamento di tale presupposto si traduce, secondo la giurisprudenza di legittimità, nella verifica sull’avvenuta revisione critica da parte del condannato (giudizio ex post) ma richiede altresì una difficile prognosi circa la condotta futura di quella persona (giudizio ex ante). Tale giudizio di prognosi deve essere «serio, affidabile e ragionevole», permettendo di prevedere la conformazione «al quadro di riferimento ordinamentale e sociale»13. Trattasi di un giudizio oltremodo impegnativo per il giudice, per di più alla luce delle scarne informazioni contenute nelle relazioni di sintesi comunemente acquisite dal Tribunale di sorveglianza. Sotto questo profilo, inoltre, è ricorrente l’affermazione secondo cui le caratteristiche personologiche degli autori dei «reati di mafia» mettono in guardia da una sopravvalutazione di aspetti quali la spontanea conformazione alle regole della vita penitenziaria. A ben vedere, tuttavia, i rarissimi studi empirici sui profili comportamentali dei condannati per il delitto dell’art. 416bis c.p. suggeriscono una maggiore predisposizione all’impegno nei percorsi risocializzativi rispetto alla generalità dei detenuti, unitamente a un alto grado di empatia e coinvolgimento emotivo: un presupposto necessario per massimizzare gli effetti del trattamento rieducativo14. A. PUGIOTTO, La sent. 253/2019: una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria, in Forum Quad. Cost.- rassegna, 2020, 174 ss. 12 Corte costituzionale, sent. 27 giugno 1974, n. 204 (de 4 luglio 1974). 13 Cfr. per tutti, Cass. Sez. I penale, 24 aprile 2007, n. 18022 in Cass. pen., 2008, 2648. 14 A. SCHIMMENTI, C. CAPRÌ, D. LA BARBERA, V. CARRETTI, Mafia and psychopathy in Crim. behaviour ment. health, 2014, 321-33, lo studio raffronta i risultati del test denominato Psychopathy 11 190 Adriano Martufi In assenza di criteri idonei a valutare il «ravvedimento» degli ergastolani non collaboranti, il rischio è quello paventato da Giovanni Fiandaca in un intervento precedente alla sentenza n. 253/201915: si rischia cioè di perseverare nella prassi (già diffusa con riferimento ai summenzionati tipi d’autore) consistente nel richiedere una sorta di «pentimento civile» capace di mettere a nudo il cambiamento interiore del reo. Una modalità di accertamento, questa, che segue però cadenze ben lontane da quell’approccio laico alla rieducazione come recupero alla vita sociale fatto proprio dalla Corte costituzionale, da ultimo nella sentenza n. 149/2018. In assenza di un intervento manipolativo volto a chiarire i concetti di ravvedimento e rieducazione – concetti che, sia detto per inciso, non possono configurarsi certo secondo un approccio one-size-fits-all, ma richiedono di essere declinati caso per caso in funzione delle caratteristiche personologiche del reo – si potrebbe quanto meno sperare in un monito al legislatore perché ponga mano alla disciplina della liberazione condizionale. Quest’ultima, infatti, necessita di essere riportata in linea con la giurisprudenza di Strasburgo. Solo implicitamente in Viola c. Italia, più chiaramente in altre pronunce recenti (segnatamente in Trabelsi c. Belgio e Murray c. Paesi Bassi), i giudici della Corte EDU sembrano ormai aver stabilito il principio secondo cui la verifica dei presupposti per l’accesso alla liberazione condizionale deve farsi secondo criteri «oggettivi e prestabiliti». Da tale assunto deriva per il condannato il diritto «di sapere cosa fare perché sia esaminata una sua possibile liberazione e quali siano le condizioni applicabili»16. Più in generale, se ne può ricavare il principio della necessaria prevedibilità e conoscibilità dei presupposti della liberazione condizionale, del resto già presente nei testi di soft law del Consiglio d’Europa i quali riconoscono l’obbligo di stabilire tali presupposti in modo chiaro e prevedibile: si allude, segnatamente, al paragrafo 10 della risoluzione del Comitato dei Ministri (76) 2 e ai paragrafi 3, 4 e 20 della raccomandazione del Comitato dei Ministri (2003) 22. Non pare che, allo stato attuale, l’ondivaga giurisprudenza in tema di «sicuro ravvedimento» ex art. 176, comma 1, c.p. sia in grado di soddisfare i requisiti summenzionati o comunque permetta al detenuto (specie se ergastolano o condannato a lunga pena detentiva) di conoscere in anticipo a quali criteri adeguare la propria condotta. Un ripensamento complessivo della disciplina de qua che valorizzi la capacità di autodeterminarsi del reo nella fase esecutiva, del resto, sembra espressione non solo dei principi della politica penitenziaria europea, ma financo corollario dell’applicazione dell’art. 25, comma 2, Cost. alla materia dell’esecuzione penale (o perlomeno alle norme «materialmente sanzionatorie» come quelle riguardanti la liberazione condizionale e le misure alternative) così come riconosciuto dalla sentenza n. 32/2020 della Corte costituzionale. Non v’è più dubbio, infatti, che la Checklist-Revised (PCL-R) tra un gruppo di 30 detenuti condannati per il delitto dell’art. 416-bis c.p. e un «gruppo di controllo» di 39 condannati per reati non riconducibili alla criminalità organizzata. 15 G. FIANDACA, Ergastolo ostativo: è il momento di chiarire il concetto di rieducazione, in IlSole24Ore, 17 ottobre 2019. 16 Corte EDU, I sez., sent. 13 giugno 2019 (def. 7 ottobre 2019), Viola c. Italia, ric. n. 77633/16, §126. Rieducazione, diritto alla speranza e prospettive della liberazione condizionale 191 calcolabilità delle conseguenze penali nell’ambito del segmento esecutivo costituisca una delle guarentigie individuali accordate dal nullum crimen. In conclusione: il richiamo nell’atto di promovimento all’art. 117, comma 1, Cost. potrebbe consentire alla Consulta di aprire finalmente una riflessione sulle discrasie sempre più evidenti con il diritto europeo e gettare le basi per un più moderno utilizzo della liberazione condizionale proprio a partire da un caso «difficile» come quello dei condannati non collaboranti per i reati di cui all’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. I POSSIBILI ALTRI PASSI LUNGO LA VIA TRACCIATA DALLA SENTENZA N. 253/2019 di MARTA MENGOZZI* SOMMARIO: 1. La strada segnata dalla sentenza n. 235/2019: a) il percorso argomentativo. 2. b) il parametro. 3. c) la tipologia decisoria a «rime possibili». 4. …e il problema della rima mancante. 1. La Corte costituzionale con la sentenza n. 253/2019, sebbene abbia scelto di utilizzare in modo assai parsimonioso l’istituto dell’illegittimità consequenziale rimanendo strettamente all’interno dei confini del petitum quanto alla questione dei benefici accessibili, limitati allora ai permessi premio, ha tuttavia segnato la strada per le ulteriori decisioni intorno al regime della c.d. ostatitività di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, compiendo una serie di scelte rispetto alle quali apparirebbe assai problematico e difficilmente spiegabile un ritorno indietro e che, dunque, è prevedibile che definiscano anche gli ulteriori passi che la Consulta è oggi chiamata a fare, confrontandosi con l’applicazione del medesimo regime rispetto alla liberazione condizionale. In primo luogo, vi è la stessa scelta di privilegiare il percorso argomentativo fondato sull’irragionevolezza degli automatismi legislativi e delle presunzioni assolute, tra cui deve annoverarsi l’insuperabile equiparazione posta dal meccanismo sub judice tra la scelta di non collaborare e la perdurante pericolosità sociale, rispetto a quello incentrato sul tema della pena perpetua e della sua problematica compatibilità con diverse norme della Carta costituzionale. Il giudice delle leggi, come è noto, ha orientato il suo vaglio nella prima direzione, optando per un ragionamento più ampio e anche in qualche modo più tecnico, fondato su una giurisprudenza ampia e consolidata che, specie quando vengono in gioco diritti costituzionali, restituisce al giudice la valutazione del caso concreto1, declinando la ragionevolezza come «razionalità pratica»2. Si tratta di una strada diversa da quella intrapresa, sul già citato art. 4-bis, dalla Corte EDU nella sentenza Viola c. Italia (n.2) del 13 giugno 2019, che ha invece censurato il meccanismo adottato dall’ordinamento italiano non in sé considerato, ma esclusivamente con riferimento alla sua possibile applicazione alla pena perpetua, considerando l’ergastolo ostativo in violazione del divieto convenzionale * Ricercatrice in Istituzioni di Diritto Pubblico, Università di Roma Tor Vergata. 1 L’indirizzo in parola si è affermato già negli anni novanta del secolo scorso (cfr., tra le altre, sentt. n. 297/1993; 220/1995; n. 303/1996; n. 240/1997; n. 2/1999) e poi si è sviluppato nell’ultimo ventennio (ad esempio, sentt. n. 253/2003; nn. 78 e 144/2005, n. 265/2010, nn. 164 e 231/2011, n. 31/2012), fino ad anni molto recenti (sentt. nn. 48 e 185/2015, n. 286/2016 e n. 149/2018). Molti precedenti, peraltro, sono riportati dalla stessa sentenza n. 253/2019 (punto 8.3 del Considerato in diritto). 2 M. CARTABIA, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, in www.cortecostituzionale.it, 2013, 17. I possibili altri passi lungo la via tracciata dalla sentenza n. 253/2019 193 di trattamenti inumani o degradanti in quanto sanzione a vita. Anche in questo caso, la motivazione della decisione non può non confrontarsi con il tema della (ir)ragionevolezza della previsione della collaborazione utile come unica strada per ottenere i benefici; ma l’angolo visuale è quello della non riducibilità altrimenti della pena a vita. Tuttavia, con la questione pendente oggi davanti alla Corte, che riguarda la possibilità di far cessare la detenzione attraverso l’istituto della liberazione condizionale anche per i condannati all’ergastolo, le due strade finiscono per convergere. La Corte arriverà però presumibilmente al punto di intersezione attraverso la via già tracciata, svolgendo un ragionamento di portata più estesa ma anche più rigoroso, perché se l’assolutezza della presunzione è inaccettabile perché irragionevole – sia in sé, in quanto non rispondente all’id quod plerumque accidit, sia in rapporto al finalismo rieducativo della pena – lo è sempre, a prescindere dalla durata della condanna. 2. Se la Corte rimarrà coerente con il suo più diretto precedente in materia, sembra anche segnata la scelta di far leva sul parametro di solo diritto interno, riferibile agli articoli 3 e 27, comma 3, Cost., piuttosto che su quello costituito dall’art. 117, comma 1, Cost. e dalle norme della CEDU. Anche sotto tale profilo non resta che osservare che se il meccanismo presuntivo in esame, nella sua assolutezza, è incompatibile con i già evocati artt. 3 e 27 Cost., non vi è ragione per chiamare in causa il parametro interposto; ma anzi, si dà l’occasione per riaffermare la pienezza e la centralità della tutela dei diritti offerta dalla nostra Costituzione. Del resto, poiché le norme apicali interne dettano una disciplina più completa riguardo ai caratteri della pena rispetto a quelle convenzionali, non limitandosi a vietare i trattamenti contrari al senso di umanità – con una previsione di portata analoga a quella internazionale che proibisce la tortura e i trattamenti inumani e degradanti – ma indicandone anche, positivamente, la finalità rieducativa, sarebbe in qualche modo paradossale che la tutela dei soggetti coinvolti vada ricercata nelle più generiche norme esterne al nostro ordinamento3. Per cui il riferimento all’art. 117, comma 1, Cost. dovrebbe essere ritenuto assorbito dagli altri. Tuttavia, la sentenza Viola resta sullo sfondo e non potrà non avere un suo peso nel rinsaldare gli approdi della sentenza n. 253/2019, mettendoli al riparo dall’eventualità (invero assai poco probabile)4 di ripensamenti che finirebbero per 3 Resta, peraltro, da precisare che la Corte EDU riconosce comunque la finalità di risocializzazione della pena come necessaria nell’ambito della propria giurisprudenza che prende le mosse dall’art. 3 CEDU (in tal senso, v. anche l’affermazione contenuta nella sentenza Viola, al par. 108). 4 Ma comunque possibile, avendo la Corte voluto precisare, nella sent. n. 235/2019, che limitava il proprio scrutinio sull’art. 4-bis alla sua applicazione al permesso premio non solo per rimanere entro i confini del petitum, ma anche per la «connotazione peculiare» di questo istituto «che lo distingue dagli altri benefici pure elencati nella disposizione censurata» (punto 11 del Considerato in diritto). Si tratta, tuttavia, di un’affermazione cui fanno riscontro altre che depongono in senso opposto, quale quella relativa alla funzione «pedagogico-propulsiva» del permesso premio 194 Marta Mengozzi imporre, comunque, un confronto con il parametro che richiede il rispetto degli obblighi internazionali e, dunque, delle norme CEDU per come interpretate dalla relativa Corte. E giungendo a tale passo, non sarebbe facile discostarsi dalle chiare posizioni espresse da quest’ultima con l’arresto in parola, tanto più che esse sembrano doversi considerare espressione di un «diritto consolidato». Piuttosto problematica appare, infatti, ogni diversa lettura del rigetto da parte del Collegio di cinque giudici della richiesta di referral alla Grande Camera formulata dal Governo italiano. Pur dovendosi riconoscere che la mancanza di motivazione esplicita di tale tipologia di decisioni lascia inevitabilmente spazio a interpretazioni di altro segno5, sembrano infatti assumere rilievo decisivo le indicazioni che la Corte EDU ha fornito sulle proprie prassi, in un documento redatto nell’ottobre 2011 (pubblicato sul suo sito istituzionale6) proprio per facilitare la comprensione delle relative scelte: esse non lasciano alcuno spazio a valutazioni meramente politiche, ma si incentrano piuttosto sulla lettura dei presupposti giuridici del rinvio, legati a gravi problemi di interpretazione della Convenzione o ad una importante questione di carattere generale, precisando che il collegio si pronuncia «in funzione dei criteri stabiliti»7. Appare significativo, peraltro, che nel citato documento la Corte EDU esemplifichi puntualmente proprio con riferimento alle questioni legate agli articoli 2 e 3 della CEDU, chiarendo che il collegio «rigetta sistematicamente le richieste che contestano le conclusioni tratte dalla camera in merito ai fatti relativi a controversie sulle condizioni di detenzione in carcere o su altre questioni poste ai sensi degli articoli 2 e 3 della Convenzione, quando la giurisprudenza è consolidata», accogliendole solo in alcune circostanze «quando i pareri dissenzienti sono, agli occhi del collegio, ben argomentati in merito a questioni chiavi ai sensi della Convenzione e/o segnalano incoerenze nella giurisprudenza»8. Se, dunque, la richiesta con riferimento alla sentenza Viola è stata rigettata, vuol dire che non sono stati ritenuti esistenti i presupposti normativi e che, dunque, essa è stata considerata non incoerente con i precedenti, ma piuttosto espressione di una giurisprudenza consolidata, del resto ampiamente citata nella stessa decisione e ricostruibile in un percorso lineare a partire dalla sentenza della Grande Camera del 2013, nel caso Vinter e altri c. Regno Unito. 3. La strada, poi, pare segnata anche rispetto alla tecnica decisoria utilizzata. Nella decisione n. 235/2019, infatti, la Corte ha optato per un intervento che non richiamasse in gioco il legislatore, utilizzando la formula recentemente coniata dell’ordinanza di rinvio «ad incostituzionalità differita»9, ma piuttosto ha impiegato (punto 8.2 del Considerato in diritto), considerato una tessera di un quadro più ampio, da riportare a coerenza. 5 Come prospettato da M. RUOTOLO, L’ergastolo ostativo è istituzionale?, in questo volume. 6 All’indirizzo https://www.echr.coe.int/Documents/Note_GC_ITA.pdf. Il documento è titolato «La prassi seguita dal collegio della Grande Camera nel deliberare sulle richieste di rinvio formulate ai sensi dell’articolo 43 della Convenzione». 7 Così il documento citato alla nota precedente, pag. 5. 8 Ibidem; corsivi aggiunti. 9 Si fa riferimento, naturalmente, alle ordd. n. 207/2018 e n. 132/2020 (la prima seguita dalla I possibili altri passi lungo la via tracciata dalla sentenza n. 253/2019 195 direttamente la formula additiva10 a rime «possibili»11. La Consulta, invero, non si preoccupa di precisare esplicitamente se il regime che indica per le decisioni del giudice di sorveglianza sia tratto da indicazioni costituzionalmente obbligate (secondo la tradizionale ricostruzione che per decenni ha giustificato e limitato le addizioni per via giurisprudenziale) o solo da soluzioni già rinvenibili nell’ordinamento e costituzionalmente compatibili, secondo il nuovo corso indicato espressamente dalla sentenza n. 222/201812, ma cita in effetti i precedenti più identificativi di tale più recente indirizzo e ragiona sempre in termini coerenti con quest’ultimo. Anche su questo fronte apparirebbe difficilmente giustificabile un cambiamento di rotta, ove la Corte si limitasse a prendere tempo in attesa di auspicati quanto improbabili13 interventi legislativi. Del resto, l’ulteriore modello del “rinvio con monito” pone molteplici problemi e criticità, che la dottrina non ha mancato di evidenziare, tra i quali spicca la contraddittorietà di fondo tra l’idea che spetti solo al legislatore definire gli interventi necessari e quella che sia possibile, per il giudice delle leggi, decidere per un accoglimento14 laddove il termine assegnato al Parlamento scada infruttuosamente; tale contraddittorietà sarebbe, in questo caso, particolarmente evidente proprio alla luce della pronuncia già adottata dalla Consulta rispetto al regime dell’ostatività con la sentenza n. 253/2019. 4. In questo quadro di auspicata continuità con il diretto precedente, resta tuttavia aperto il problema di un’operazione additiva che la Corte ha ivi compiuto, in mancanza di qualsiasi punto di riferimento già presente nell’ordinamento e, dunque, ulteriormente spostando l’asticella del possibile rispetto all’impostazione teorizzata nella sentenza n. 222/2018. Ci si riferisce all’indicazione che non sia sentenza di accoglimento n. 242/2019, una decisione additiva anch’essa a rime non obbligate). Moltissimi i commenti a tali decisioni, dei quali in questa sede non si può dare neppure sommariamente conto; la definizione virgolettata nel testo è, comunque, presa a prestito da M. BIGNAMI, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in Quest. Giust., 19 novembre 2018. 10 Si tratta, in effetti, di una additiva ad effetti sostitutivi, come precisato da S. TALINI, Presunzioni assolute e assenza di condotta collaborativa: una nuova sentenza additiva ad effetto sostitutivo della Corte costituzionale, in Consulta OnLine, fasc. III, 2019, 737, impiegando una classificazione di M. RUOTOLO, Interpretare nel segno della Costituzione, Editoriale Scientifica, Napoli 2015. 11 Secondo la felice espressione di A. PUGIOTTO, Cambio di stagione nel controllo di costituzionalità sulla misura della pena, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2019, 791. 12 Anticipato dalla sent. n. 236/2016 e ulteriormente utilizzato nelle sentenze n. 40 e n. 242/2019. 13 Cfr. anche C. GIUNTA, Riflessioni sui confini del giudizio di legittimità costituzionale a partire dall’“ordinanza Cappato”, in Dirittifondamentali.it, 13 marzo 2019, 5, per il rilievo che l’esperienza insegna come una decisione di accoglimento si riveli spesso assai più efficace nel determinare il legislatore ad agire piuttosto che i moniti della Consulta; tale osservazione, peraltro, non è stata certo smentita, ma anzi ha trovato puntuale conferma nella vicenda che ha seguito l’ordinanza n. 207/2018. 14 Così, A. RUGGERI, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito (a prima lettura di Corte cost. n. 242 del 2019), in Giustizia insieme, 27 novembre 2019. 196 Marta Mengozzi sufficiente per il giudice indagare l’esistenza di collegamenti del condannato con organizzazioni criminali, ma che occorra escludere il pericolo di un loro ripristino. Che tale pretesa si collochi al di fuori dei limiti, pur ampi, del nuovo corso della giurisprudenza costituzionale in tema di sentenze manipolative pare dimostrato in modo lampante proprio dai problemi interpretativi che si sono subito posti riguardo alla permanenza o meno, dopo l’intervento del giudice costituzionale, del regime relativo ai casi di collaborazione inesigibile. Se, da un lato, infatti, il venir meno dell’assolutezza della presunzione determinata dalla scelta non collaborativa, con il riconoscimento di un vera e propria «libertà di non collaborare» 15 in capo al condannato, dovrebbe far venir meno la necessità di accertare il carattere impossibile o irrilevante della collaborazione16, dall’altro lato, si è ritenuto che la relativa disciplina permanga inalterata proprio in ragione della circostanza che il regime della collaborazione esigibile ma non prestata appare comunque caratterizzata in modo deteriore, implicando la necessità di oneri dimostrativi aggiuntivi altrimenti inesistenti17. Ciò rende palese come detti oneri siano stati indicati dalla Corte in assenza di alcun punto di riferimento normativo già presente nell’ordinamento. Si tratta, peraltro, di una imposizione non soltanto assai problematica dal punto di vista dei limiti ai poteri additivi della Corte costituzionale, ma anche piuttosto discutibile quanto al suo contenuto, richiedendosi un grado di predizione più intenso rispetto a quello già implicito nella valutazione relativa alla pericolosità sociale che spetta al giudice di sorveglianza in sede di decisione sui permessi premio (ex art. 30-ter ord. penit.) e di dubbia ragionevolezza, considerati i suoi contorni sfuggenti e, utilizzando le parole della Corte di Cassazione, la sua «problematica aderenza a canoni epistemologici basati sulla materialità dell’oggetto della prova»18. Del resto, l’interesse costituzionalmente tutelato «alla prevenzione della commissione di nuovi reati» da cui la Consulta ricava la necessità di tale elemento non esiste, in fase di esecuzione, se non nel quadro della pena, la cui funzione rieducativa non può venirne radicalmente schiacciata19. Di qui le perplessità che il requisito in parola solleva e la necessità che le relative valutazioni siano quantomeno compiute esclusivamente alla luce delle circostanze concrete, personali e ambientali, come in effetti la stessa Corte precisa; e, dunque, anche tenendo conto della durata e delle modalità del permesso richiesto. Sebbene appaia nel complesso poco probabile che la Corte voglia correggere il tiro al riguardo, deve tuttavia osservarsi che rispetto alla questione relativa alla liberazione condizionale c’è una possibilità ulteriore, legata ai diversi presupposti per l’accesso a tale istituto, che si colloca all’ultimo gradino della progressione trattamentale, potendo raggiungere l’effetto di far cessare la pena. Esso, infatti, già nella disciplina codicistica e nella sua prassi applicativa implica una valutazione prognostica particolarmente piena e ponderata, essendo 15 Cfr. sent. n. 253/2019, punto 8.1 del Considerato in diritto. Così, ad esempio, Cass. Pen., sez. I, 27 gennaio 2020, n. 3307. 17 Cfr. Cass. Pen., sez. I, 12 febbraio 2020, n. 5553. 18 Cfr. ancora Cass. Pen, sez. I, n. 5553 del 2020. 19 Cfr. già Corte costituzionale, sent. n. 313/1990. 16 I possibili altri passi lungo la via tracciata dalla sentenza n. 253/2019 197 richiesto un comportamento del condannato che faccia ritenere «sicuro il suo ravvedimento» (art. 176 c.p.). Per l’accesso a tale beneficio è, dunque, prevista una predizione implicante un maggiore grado di certezza rispetto a quella presupposta per la concessione del permesso premio. Ciò, del resto, corrisponde alla circostanza che ad esso si arriva, fisiologicamente, al termine di un graduale percorso di reinserimento del detenuto nel consesso sociale, progressivamente accompagnato dalla fruizione dei vari benefici che l’ordinamento penitenziario prefigura per attenuare via via il rigore della pena. La stessa giurisprudenza costituzionale ha, anche in passato, apertamente riconosciuto che il presupposto normativo del ravvedimento «sicuro» sia logicamente saldato con la collocazione “terminale” dell’istituto nella scala delle misure premiali20. Per cui il giudizio prognostico aggiuntivo richiesto dalla Corte nella sent. n. 253/2019 potrebbe essere considerato assorbito dal requisito già posto dall’art. 176 c.p. o comunque finire per sovrapporsi ad esso. In questo quadro, al contempo, si può osservare che le relative valutazioni troverebbero comunque qualche più saldo punto di riferimento nel principio di progressione trattamentale. I benefici di minore portata costituiscono, infatti, importanti occasioni di osservazione, attraverso cui si acquisiscono elementi di ponderazione per i passaggi successivi (non a caso, la stessa Corte costituzionale nella sent. n. 253/2019, ha parlato di funzione «pedagogico-propulsiva» del permesso premio). La progressività del sistema è in grado, quindi, di fornire dati che possono costituire una solida base per il giudizio prognostico del giudice in sede di concessione della liberazione condizionale, agevolando la valutazione del «sicuro ravvedimento» e dando dimostrazione empirica dell’assenza di pericoli di ripristino di legami associativi criminali. Naturalmente, il rilievo di tale principio, di cui la Consulta si è più volte mostrata consapevole, implica che il sistema nel suo complesso vada ricondotto a coerenza con un’utilizzazione della illegittimità costituzionale consequenziale che, fatta venire meno l’assolutezza della presunzione con riferimento ai due benefici che si collocano agli estremi opposti della scala, estenda il medesimo risultato a tutti i benefici penitenziari “intermedi”. 20 Corte costituzionale, sent. n. 138/2001. L’ERGASTOLO NELLA PRASSI NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE INTERNAZIONALE di ELISABETTA MOTTESE• SOMMARIO: 1. Ergastolo e diritti umani, oltre il cortile di casa. – 2. Dalle UN Rules alle Nelson Mandela Rules. – 3. La Convenzione americana sui diritti umani e la giurisprudenza della Corte interamericana. – 4. Uno sguardo sulla prassi della comunità internazionale. – 5. Life imprisonment e human rights secondo il Consiglio d’Europa. – 6. La giurisprudenza della Corte EDU. 1. L’obiettivo di questo breve contributo è quello di fornire un quadro delle norme e della prassi di diritto internazionale intorno al tema della compatibilità tra ergastolo e diritti umani, muovendo dalla consapevolezza che sul tema la disciplina extra e sovra-statuale è apparsa nel tempo più attenta di quanto non lo sia stata quella statuale, non solo italiana. Non esiste alcuna disposizione di diritto internazionale che espressamente vieti l’ergastolo ed anzi, a partire dalla metà del secolo scorso, molti Paesi hanno convertito la pena capitale nella pena detentiva senza fine, in ragione di una presunta maggiore compatibilità di quest’ultima con uno human rigths based approach. Se questo dato è senza dubbio vero altrettanto lo è la considerazione che tutte le fonti del diritto internazionale, sia hard che soft, collegano l’applicabilità di questo istituto con una idea pressoché universale di giustizia penale come prevalentemente, se non esclusivamente, finalizzata alla riabilitazione e rieducazione del condannato. Proveremo, allora, a tracciare una sintetica ricognizione degli strumenti internazionalistici nel settore in modo da fornire all’interprete un quadro globale sullo stato dell’arte del rapporto tra life imprisonment e human rights. 2. Il 30 agosto del 1955 l’Organizzazione delle Nazioni Unite approvò il primo corpus internazionale di regole, redatto dall’International Penal and Penitentiary Commission (IPPC), sul trattamento penitenziario dei detenuti. Quel set di regole, oggi meglio note come United Nations Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners1, (di seguito UN Rules) conteneva specifiche previsioni in ordine al trattamento penitenziario, già allora rimarcando la necessità di assicurare che il detenuto che ritorna in libertà riesca non solo a desiderare di vivere nella legalità, ma concretamente a riuscirci; per fare questo chiedeva che le • Dottore di ricerca in Profili della Cittadinanza nella costruzione dell’Europa, Università di Catania. 1 United Nations Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners, United Nations publications, Sales no. 1956 IV.4. Le UN Rules furono successivamente approvate dal Consiglio economico e sociale con la Risoluzione 663 C (XXIV) del 31 luglio 1957. L’ergastolo nella prassi normativa e giurisprudenziale internazionale 199 istituzioni penitenziarie approntassero percorsi trattamentali personalizzati sulle specifiche necessità del detenuto. Le UN Rules sono state oggetto di una importante opera di revisione che nel 2015 ha condotto all’adozione delle note Nelson Mandela Rules2 in cui la riabilitazione sociale del condannato - che passa in primis dal rispetto della dignità umana del detenuto e dei sui diritti fondamentali - diviene sempre più l’obiettivo principale dei sistemi di politica penale. Questi principi non sono nuovi nel diritto internazionale in quanto già enunciati nel Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 che, all’articolo 10, par. 1, sancisce che tutte le persone private della libertà devono essere trattate con umanità e rispetto della dignità umana e, al par. 3, che i sistemi penitenziari devono essere improntati alla riabilitazione del condannato. Il principio è ulteriormente ribadito dal General Comment n. 213 – non a caso richiamato nel preambolo delle sopra citate Mandela Rules – in cui si statuisce che «no penitentiary system should be only retributory; it should essentially seek the reformation and social rehabilitation of the prisoner». 3. Non dissimili sono i principi dettati dalla Convenzione americana sui diritti umani che all’art. 5 (Right to Human Treatment) sancisce che: «2. No one shall be subjected to torture or to cruel, inhuman, or degrading punishment or treatment. All persons deprived of their liberty shall be treated with respect for the inherent dignity of the human person. [...] 6. Punishments consisting of deprivation of liberty shall have as an essential aim the reform and social readaptation of the prisoners». La prassi giurisprudenziale della Corte interamericana in realtà non ha, sino ad oggi trattato casi in cui è stata chiamata a valutare la compatibilità dell’ergastolo con i diritti riconosciuti dalla citata Carta, se non con riferimento a detenuti minori di età. Nel noto caso Mendoza e altri contro Argentina4 la Corte, nel richiamare espressamente le UN Rules, ha ribadito come il principio di risocializzazione del condannato incarnato dall’art. 5.6 della Convenzione debba essere considerato fondante di qualsiasi sistema penale, evidenziando, altresì, come l’ergastolo costituisca, nei confronti dei minori, un trattamento crudele, inumano e degradante e, in quanto tale, contrario ai diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione. 4. In linea generale, nella comunità internazionale la questione della protezione dei diritti umani rispetto alla pena detentiva dell’ergastolo si è posta prevalentemente con riguardo a casi di ergastolani minorenni. Nel 2014 il Comitato ONU sui diritti umani, nel caso Blessington and Elliot v Australia5, ha riscontrato 2 Assemblea generale, UN Doc. A/RES/70/175 del 17 dicembre 2015. Comitato dei diritti umani, General Comment No. 21 - Article 10: Humane Treatment of Persons Deprived of Their Liberty del 10 aprile 1992. 4 Corte interamericana dei diritti umani, César Alberto Mendoza Y Otros c. Argentina, ricorso n. 12.651, sentenza 2 novembre 2010. 5 Comitato dei diritti umani, Blessington and Elliot c. Australia, Communication No. 1968/2010, Views del 22 ottobre 2014, UN Doc. CCPR/C/112/D/1968/2010 del 17 novembre 2014. 3 200 Elisabetta Mottese la violazione degli articoli 7, 10.3 e 24 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, basandosi su argomentazioni – tali in principio da poterne estendere l’applicabilità anche agli adulti – assai vicine a quelle elaborate dalla CEDU nella celebre sentenza Vinter c. Regno Unito6: «the imposition of life sentences on the authors as juveniles can only be compatible with article 7, read together with articles 10, paragraph 3, and 24 of the Covenant if there is a possibility of review and a prospect of release, notwithstanding the gravity of the crime they committed and the circumstances around it. That does not mean that release should necessarily be granted. It rather means that release should not be a mere theoretical possibility and that the review procedure should be a thorough one, allowing the domestic authorities to evaluate the concrete progress made by the authors towards rehabilitation and the justification for continued detention»7. Sebbene la Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli non contenga disposizioni specificamente rivolte al trattamento penitenziario dei detenuti o alla finalità della sanzione penale, nel continente africano si comincia a cogliere qualche segnale sulla problematicità dell’ergastolo in relazione alla protezione dei diritti umani. Sudafrica8 e Zimbabwe hanno introdotto meccanismi di early release e parole al fine di rendere riducibile l’ergastolo e detto principio è stato di recente ribadito dalla Corte costituzionale dello Zimbabwe che ha sottolineato, con importanti richiami alla giurisprudenza della Corte EDU, come l’ergastolo non possa e non debba violare la dignità umana assurgendo a un trattamento inumano e degradante9. 5. Nel tracciare la cornice giuridica di matrice internazionalistica sul tema de quo non si può non fare riferimento alla prassi normativa e giurisprudenziale europea. Le norme della CEDU e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo10 sono particolarmente rappresentative del dibattito su life imprisonment e human rights e ciò a dimostrazione di come il silenzio del testo convenzionale non abbia precluso la possibilità di affermare comunque, da più di un decennio, l’illegittimità dell’ergastolo quale pena irriducibile, dunque in contrasto coi principi della Convenzione. Sin dalla sua istituzione il Consiglio d’Europa ha svolto un ruolo centrale nella protezione dei diritti umani delle persone private della libertà, promuovendo la diffusione di condizioni di detenzione sempre meno afflittive e sempre più finalizzate alla realizzazione degli scopi rieducativi e risocializzanti della sanzione penale. 6 Corte europea dei diritti umani, Vinter e altri c. Regno Unito [GC], ricorsi nn. 66069/09, 130/10 e 3896/10, sentenza del 9 luglio 2013. 7 V. par. 7.7 del parere del Comitato dei diritti umani, Blessington and Elliot c. Australia, cit. 8 Cfr. Republic of South Africa, Correctional Services Act no. 111, 1998, art. 73, disponibile su www.gov.za. 9 Corte costituzionale Zimbabwe, Obediah Makoni c. Commissioner of prisons and Minister of Justice Legal & Parliamentary Affairs, ricorso n. CCZ 48/15, sentenza del 13 luglio 2016. 10 Per un elenco completo delle pronunce rese dalla Corte EDU sul tema dell’ergastolo, si rinvia al Factsheet, Life imprisonment, disponibile su www.hudoc.echr.coe.int. L’ergastolo nella prassi normativa e giurisprudenziale internazionale 201 Nel 1973 il Consiglio d’Europa, sull’esempio delle citate UN Rules, ha formulato le proprie Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners successivamente aggiornate, prima nel 198711 e poi nel 200612, e oggi denominate European Prison Rules. Le European Prison Rules costituiscono uno strumento di diritto internazionale soft di estrema importanza, ponendosi come un corpus organico di norme disciplinanti lo standard minimo dell’assetto penitenziario dei condannati e dei non condannati, espressamente mirando ad «obbligare i governi ad iscrivere nel diritto interno delle norme specifiche in questo settore»13. Si tratta di 108 regole rette dai principi fondamentali declamati nelle prime nove disposizioni, e ispirate all’idea di fondo che «All detention shall be managed so as to facilitate the reintegration into free society of persons who have been deprived of their liberty»14. Nel 2003 il Consiglio d’Europa ha adottato una Raccomandazione rivolta alle istituzioni penitenziarie coinvolte nella gestione proprio di detenuti condannati all’ergastolo o a lunghe pene detentive: «[c]onsidering that the enforcement of custodial sentences requires striking a balance between the objectives of ensuring security, good order and discipline in penal institutions, on the one hand, and providing prisoners with decent living conditions, active regimes and constructive preparations for release, on the other»15. La Raccomandazione evidenzia come anche gli ergastolani debbano beneficiare di un sistema penitenziario diretto a prepararli alla vita fuori dal carcere e come anche a loro debba essere riconosciuto il diritto ad accedere alla libertà condizionale16 secondo il principio di progressività del trattamento17. 6. Nel sistema regionale europeo il problema della compatibilità, o meno, dell’ergastolo con la CEDU si è posto e risolto in via pretoria, stante il silenzio della Convenzione sul punto. La giurisprudenza sul tema è copiosa ed è culminata nella sentenza resa nel caso Viola c. Italia18 con cui la Corte di Strasburgo ha aggiunto un ulteriore tassello Il 12 febbraio 1987 la 404a riunione dei delegati dei Ministri del Consiglio d’Europa approvava la raccomandazione Rec (87)3 contenente la versione aggiornata delle Regole Penitenziarie Europee. 12 La versione ulteriormente aggiornata delle Regole Penitenziarie Europee è stata adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa l’11 gennaio 2006, con l’approvazione della raccomandazione Rec (2006)2. 13 Vedi commento alla regola n. 18 delle Regole Penitenziarie Europee. 14 Regola n. 6; nello stesso senso la Regola n. 102, par. 1, evidenzia che «the regime for sentenced prisoners shall be designed to enable them to lead a responsible and crime free life». 15 Consiglio d’Europa, Comitato dei Ministri, Recommendation of the Committee of Ministers to member states on the management by prison administrations of life sentence and other long-term prisoners, Rec (2003) 23, del 9 ottobre 2003. 16 Sul punto si veda un’altra rilevante raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, Recommendation of the Committee of Ministers to member states on conditional release (parole), Rec (2003) 22, del 24 settembre 2003; in particolare cfr. par. 20. 17 Vedi par. 8 della Raccomandazione citata alla nota 15. 18 Corte europea dei diritti umani, Viola c. Italia, ricorso n. 77633/16, sentenza del 13 giugno 2019. 11 202 Elisabetta Mottese al percorso di verifica della suddetta compatibilità, avviato più di dieci anni orsono con la pronuncia resa nel noto caso Kafkaris19. In tale leading case del 2008 la Corte ha considerato l’ergastolo, in assenza di un sistema di early release, compatibile con il divieto di cui all’art. 3, purché al condannato fosse riconosciuta la astratta possibilità di tornare in libertà. Nel caso Vinter c. Regno Unito la Corte ha poi precisato che «per rimanere compatibile con l’articolo 3 CEDU, una pena perpetua deve offrire sia una possibilità di liberazione che una possibilità di riesame»20. Possibilità concreta e non solo teorica: «[u]n detenuto condannato all’ergastolo effettivo ha il diritto di sapere, sin dall’inizio della sua pena, cosa deve fare perché sia esaminata una sua possibile liberazione e quali siano le condizioni applicabili. Egli ha il diritto, in particolare, di conoscere il momento in cui il riesame della sua pena avrà luogo o potrà essere richiesto»21. Il principio è stato ulteriormente puntualizzato in due successive sentenze. La prima, resa nel caso Trabelsi c. Belgio22, ha accertato la violazione dell’art. 3 CEDU da parte del Belgio per l’avvenuta estradizione del ricorrente negli Stati Uniti stante l’assenza, in quel sistema penale, di criteri oggettivi e predeterminati23 al ricorrere dei quali chiedere e ottenere la liberazione. La seconda, pronunciata sul caso Murray c. Olanda24, ha specificato come i meccanismi di parole, per essere convenzionalmente compatibili, debbano conformarsi con alcuni principi fondamentali e vincolanti per gli Stati parti della Convenzione, secondo i quali, inter alia, la valutazione della insussistenza di motivi legittimi in ordine alla pena che giustifichino il mantenimento in detenzione deve avvenire secondo regole che abbiano un sufficiente grado di chiarezza e certezza e tenendo in considerazione che la funzione riabilitativa della sanzione penale è centrale tanto nel diritto internazionale che nel diritto e nella giurisprudenza del Consiglio d’Europa. Come si diceva, la riducibilità dell’ergastolo e la sua conseguente compatibilità con la CEDU deve essere tale de facto e de jure. La concreta opportunità di liberazione va, pertanto, valutata alla luce degli sforzi compiuti dal detenuto per il reinserimento in società, e così argomentando la Grande Camera ha posto l’accento in maniera netta e definitiva sulla finalità risocializzante della pena25, principio guida della esecuzione penale dal quale discendono una serie di corollari (la prospettiva di liberazione, la flessibilità e progressività trattamentale, la garanzia di condizioni di detenzione tali da permettere la correzione ed il reinserimento del detenuto26, il riesame costante della condotta e della personalità del detenuto) che 19 Corte europea dei diritti umani, Kafkaris c. Cipro [GC], ricorso n. 21906/04, sentenza del 2 febbraio 2008. 20 Cfr. par. 122. 21 Ibidem. 22 Corte europea dei diritti umani, Trabelsi c. Belgio, ricorso n. 140/4, sentenza del 4 settembre 2014. 23 Cfr. par. 137 della sentenza Trabelsi già citata alla nota 30. 24 Corte europea dei diritti umani, Murray c. Olanda [GC], ricorso n. 10511/2010, sentenza del 26 aprile 2016. 25 Cfr. par. 122 della sentenza Vinter. 26 Cfr. par. 264 della pronuncia resa dalla Corte EDU nel caso Harakchiev e Tolumov c. Bulgaria, ricorsi nn. 15018/11 e 61199/12, sentenza dell’8 luglio 2014. L’ergastolo nella prassi normativa e giurisprudenziale internazionale 203 inevitabilmente conducono a dichiarare l’ergastolo c.d. irriducibile contrario alla dignità umana e ai diritti fondamentali riconosciuti e tutelati dalla CEDU e dal diritto internazionale in generale. Le coordinate del discorso giuridico erano, quindi, già ampiamente tracciate quando alla Corte è stato sottoposto il caso Viola; ma la peculiarità dell’ergastolo ostativo, fattispecie tutta italiana, ha richiesto ai giudici di Strasburgo di entrare nel merito di quella ostatività e di esaminare «se l’equilibrio tra le finalità di politica criminale e la funzione di risocializzazione della pena non finisca, nella sua applicazione pratica, per limitare eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità per quest’ultimo di chiedere il riesame della sua pena»27. La Corte, in sostanza, si è chiesta se davvero la scelta di collaborare o meno con la giustizia fosse una scelta libera e scevra da condizionamenti, e se la presunzione assoluta, posta dalla normativa italiana circa l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la pericolosità sociale del soggetto, fosse o meno compatibile coi richiamati principi di diritto fissati dalle proprie pronunce. Nel rispondere negativamente a quei quesiti, la Corte ha evidenziato che «il ricorrente si trova nell’impossibilità di dimostrare che non sussiste più alcun motivo legittimo in ordine alla pena che giustifichi il suo mantenimento in detenzione» poiché «il regime vigente riconduce in realtà la pericolosità dell’interessato al momento in cui i reati sono stati commessi, invece di tenere conto del percorso di reinserimento e dei progressi eventualmente compiuti a partire dalla condanna»28. L’Italia non garantirebbe, pertanto – secondo i criteri della giurisprudenza Harachiev e Tolumov c. Bulgaria e Murray c. Olanda – regimi penitenziari compatibili con l’obiettivo di correzione e di reale reinserimento e risocializzazione dei detenuti ergastolani. La evidente preclusione del c.d. right to hope e del diritto a riabilitarsi, anche attraverso la positiva valutazione degli eventuali progressi nel trattamento, si risolvono, secondo la Corte europea, in una lesione del principio della dignità umana, «che si trova al centro stesso del sistema messo in atto dalla Convenzione»29; l’ergastolo ostativo, in quanto pena de jure e de facto non riducibile, configura, pertanto, un trattamento inumano e degradante come tale vietato dall’art. 3 CEDU. Pur non avendo a disposizione un omologo dell’art. 27 della Costituzione italiana, i giudici di Strasburgo, come si è visto, si sono comunque ormai da tempo fatti portavoce di un consenso che si sta via via consolidando, a livello internazionale e sovranazionale, intorno all’idea che la più importante – seppur non ancora l’unica – finalità della sanzione penale sia quella della riabilitazione del condannato e che tale fine precluda in nuce la possibilità di configurare la pena dell’ergastolo e, a fortiori, quella dell’ergastolo ostativo, come compatibile con gli standard internazionali ed europei di protezione dei diritti umani. 27 Cfr. par. 110 della sentenza Viola c. Italia; traduzione italiana a cura del Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani. 28 Cfr. par. 128 della sentenza Viola c. Italia. 29 Cfr. par. 136 della sentenza Viola c. Italia. LA FINE È NOTA (A PROPOSITO DI UN’INNOVATIVA ORDINANZA DEL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI FIRENZE) di MICHELE PASSIONE Non possiamo scegliere da dove veniamo, ma possiamo scegliere dove andare, da lì in poi (S. Chbosky, Noi siamo infinito, 2012) SOMMARIO: 1. Un’innovativa ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Firenze (n. 3341/2020, emessa il 29 ottobre 2020) – 2. Percorsi orientati nel labirinto – 3. Il fine della pena è la fine della pena. 1. Le note presenti traggono origine da un caso concreto positivamente risoltosi con l'ordinanza n. 3341/2020, emessa il 29 ottobre 2020 dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze, successiva dunque allo svolgimento del seminario preventivo ferrarese1. Preceduta di poco da analogo provvedimento assunto il 13 ottobre 2020 dallo stesso Tribunale, in quel caso però con rigetto della richiesta, la decisione adottata dal Collegio fiorentino si segnala come un novum giurisprudenziale che, aderendo alla richiesta di liberazione condizionale avanzata dalla difesa il 28 luglio 2020, perviene (per la prima volta) alla concessione del beneficio per un detenuto condannato all'ergastolo ostativo, non collaborante e non rientrante nelle ipotesi di cui all'art. 4 bis, comma 1-bis, ord. penit. Per chiarezza, la tesi espressa dal sottoscritto nel corso del seminario svoltosi lo scorso 25 settembre, prospettante l'opportunità dell'incidente di costituzionalità stante la (dubbia) lettera della legge (art.2, comma 1, decreto legge n. 152 del 1991, convertito con modificazioni nella legge n. 203 del 1991) ha ceduto il passo a fronte di una rimeditata riflessione sulla possibilità di pervenire all'esito auspicato con interpretazione costituzionalmente (e convenzionalmente) orientata, vieppiù rafforzata dal provvedimento (sia pur reiettivo) sopra citato. Metodologicamente, ho sempre creduto che non si debbano commentare le vicende di cui ci si è occupati professionalmente; questa deroga al principio nasce proprio a chiarimento delle opinioni pubblicamente espresse, è confortata dal provvedimento preso ed è giustificata (così mi auguro che venga accolta) dall'impegno assunto con la raccolta di contributi a corredo delle decisioni che la Corte costituzionale è chiamata a prendere all'udienza del prossimo 24 marzo 2021. Avvocato del Foro di Firenze, già membro dell’Osservatorio Carceri dell’UCPI. Nel suo sito www.amicuscuriae.it, sezione documentazione processuale, è pubblicato il testo integrale dell’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Firenze, qui fatta oggetto d’esame.  1 La fine è nota 205 2. Nel caso di specie, l'interessato (detenuto dal 24 maggio 1993) è stato condannato alla pena dell'ergastolo per duplice omicidio (ritenuta la continuazione con i reati satellite, in materia di armi) aggravato dal numero di persone superiore a 5, dalla premeditazione, da motivi di mafia, commesso in data 23 e 24 luglio 1990, nonché alla pena di anni sette di reclusione per il reato di cui all'art. 416-bis c.p., commesso fino al 24 novembre 1990 [il dato temporale è cruciale, N.d.A.]. Nel corso della sua detenzione era già stata segnalata la prova di «un orientamento positivo all'autocritica» e di «atteggiamenti collaborativi ed autocritici nel rapportarsi e nella disamina articolata sulle circostanze correlate alla commissione del reato», nonché verificata «l'assenza di pericolosità sociale, né elementi concreti in ordine al mantenimento di collegamenti con la criminalità organizzata». Nel 2018 il condannato si è messo in contatto con i parenti delle vittime del reato omicidiario, ricevendo risposta con la quale veniva accettata la richiesta di perdono, senza alcuna riserva e con aperta comprensione del contesto in cui era avvenuto l'efferato delitto. Così, verificata la sussistenza del requisito temporale di cui all'art. 176, comma 3, c.p., sia in relazione alla carcerazione effettivamente patita che per effetto di più di cinque anni di liberazione anticipata concessa e dell'indulto applicato, il Tribunale ha ritenuto del pari esistere prova del sicuro ravvedimento (al di là della ridondante aggettivazione, ché in realtà, più che un presupposto, esso costituisce lo scopo del beneficio), per il verificato abbandono di scelte criminali e l'acquisita consapevolezza dei valori fondamentali della vita sociale, tali da consentire una prognosi fausta rispetto alla decisione da assumere. Quanto al profilo risarcitorio, come giustamente segnalato in dottrina2 il requisito dell'adempimento delle obbligazioni civili derivanti da reato, cioè il risarcimento del danno patrimoniale e non (art. 185 c.p.), il pagamento delle spese processuali e di mantenimento in carcere, non ha una rilevanza autonoma rispetto al presupposto del sicuro ravvedimento. Più precisamente, il soddisfacimento delle esigenze della vittima, salva l'impossibilità a provvedervi, è considerato non tanto in funzione oggettiva di reintegrazione patrimoniale del danno causato, quanto come indice rivelatore del ravvedimento del condannato3. Questo il motivo per cui la giurisprudenza, da un lato, interpreta in modo ampio l'impossibilità di adempimento, facendoci rientrare non solo l'impossibilità materiale assoluta e ogni causa non imputabile al condannato, ma anche quella comportante un sensibile sacrificio per l'interessato; e, dall'altro, ritiene che la dimostrazione dell'obiettiva impossibilità non esonera l'interessato dal compimento di gesti di riparazione4, i quali, se non sul piano materiale, quanto meno su quello morale, possono essere legittimamente valutati dal giudice ai fini del giudizio in ordine alla sussistenza o meno del ravvedimento. Nel caso di specie, il Tribunale ha altresì valorizzato l'assenza di pretese economiche avanzate dai parenti delle vittime, e non necessaria (anche alla luce del richiamato scambio epistolare) alcuna forma di offerta reale, da ritenersi «ultronea M. G. COPPETTA, in F. DELLA CASA – G. GIOSTRA (a cura di), Manuale di diritto penitenziario, Giappichelli, Torino 2020, 226. 3 Ex multis, Cass. Sez.I, 11.12.1992, Di Miccoli; vedi anche Corte costituzionale, sentenza. n.138/2001. 4 Cass. Sez.I, 8 maggio1989, Vitale; Cass. Sez.I, 3 aprile 1985, Lettieri. 2 206 Michele Passione in relazione alle finalità dell'esecuzione penale (...) se non addirittura dannosa in relazione alla ricomposizione della relazione vittime-reo, anche sotto il profilo di una possibile vittimizzazione secondaria delle prime». Parole chiare. Quanto all'ammissibilità, con riferimento al beneficio richiesto, stante la natura dei delitti commessi il Tribunale ha giustamente fatto riferimento all'art. 2, comma 1, decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, nonché al decreto legge n. 306 del 1992, convertito in legge n. 356 del 1992, che ha introdotto il requisito della collaborazione per l'accesso alla liberazione condizionale Sul punto, occorre rilevare che, mentre a mente di quanto previsto dall'art. 4, comma 1, del citato decreto legge, il comma 2 dell'art. 2, col suo maggior segmento di pena per l'accesso alla liberazione condizionale ivi previsto, opera solo per delitti commessi dopo la data di entrata in vigore del presente decreto, nulla si dice sulla previsione del comma 1. Ciò implica che per la concessione della liberazione condizionale, a quella data, si sarebbe dovuto verificare l'assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, e non altro (questi i presupposti dell'epoca per i delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater dell'art. 4-bis ord. penit.). Ed infatti, è solo con l'art. 15, comma 1, del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 1992, n. 356, che fu introdotto l'istituto della collaborazione con la giustizia nel testo dell'art. 4-bis ord. penit., con un richiamo all'art. 58-ter ord. penit, quale condizione di accesso ai benefici penitenziari per i delitti “di prima fascia”, lasciando invariata la condizione della non sussistenza di elementi probanti la sussistenza di collegamenti criminosi per quelli “di seconda fascia”. Diversamente tuttavia (ed è argomento trattato e risolto positivamente dal Tribunale) avrebbe potuto dirsi che il comma 1 dell'art. 2 citato, per il suo rinvio mobile all'art. 4-bis ord. penit., finirebbe col determinare la necessità di valutare anche l'apporto collaborativo (e per converso la sua assenza, non vicariata dai casi di cui al comma 1-bis) anche per i delitti ante 8 giugno 1992. Viceversa, ciò che ha consentito di superare definitivamente ogni impasse sulla concedibilità del beneficio richiesto, deve ora tenersi conto degli effetti spiegati dalla storica sentenza n. 32/2020 della Corte costituzionale, nonché della successiva pronuncia n. 193/2020 (entrambe redatte dallo stesso estensore, il giudice Francesco Viganò). Come già segnalato autorevolmente in dottrina5 «per i condannati ostativi qualificati per delitti di mafia, finalità o contesto mafioso, finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale, nonché per quelli previsti dagli artt. 630 c.p. e 74 d.P.R. n. 309 del 1990 (cioè tutti quelli previsti nella originaria formulazione del 1992 dell'art. 4-bis ord. penit.) se si tratta di delitti commessi prima del 8 giugno 1992 l'accesso alle misure alternative alla detenzione non sarà più subordinato all'applicazione del comma 1 o, in alternativa, del comma 1-bis dell'art. 4-bis ord. penit., e quindi alla verifica di una collaborazione effettivamente 5 A. RICCI, Nel labirinto dell'art. 4-bis: guida pratica per il condannato ostativo all'accesso a permessi premio e misure alternative alla detenzione dopo le sentenze costituzionali n.253/2019 e 32/2020 (e in attesa di ulteriori sviluppi), in Giur. Pen Web, 2020, 6. La fine è nota 207 prestata o della sussistenza di una situazione c.d. equipollente di impossibilità o inesigibilità di utile collaborazione”6. Si tratta, per l'appunto, di considerazione del tutto condivisibile, che deriva naturaliter dalle sentenze costituzionali citate. Com'è noto, l'overruling rispetto al consolidato principio del tempus regit actum delle Sezioni Unite del 2006, n. 24561 (Aloi), per vero tralaticiamente recepito dal diritto vivente, ha modificato in radice l'impostazione previgente, mettendo al sicuro riparo dell'art. 25, comma 2, Cost. la natura sostanziale delle pene anche in subiecta materia. Dando per conosciuta la lunga cadenza motivazionale, ci si limita qui a richiamare in particolare i §§4.1 e sgg. del Considerato in diritto, in particolare laddove si afferma (§4.3) che «alla luce di tutte le considerazioni che precedono questa Corte ritiene necessario procedere a una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall'art. 25, comma 2, Cost., in relazione alla disciplina dell'esecuzione della pena» e la parte in cui (fermi i distinguo tra i benefici del permesso premio ed il lavoro all'esterno rispetto alle misure alternative) al §4.4.3, si segnala come «la medesima conclusione si impone – in forza del rinvio mobile (sentenza n. 39/1994) di cui all'art. 2 del decreto legge n. 152 del 1991) – per ciò che concerne la liberazione condizionale, istituto disciplinato dagli artt. 176 e 177 c.p., ma funzionalmente analogo alle misure alternative alla detenzione, essendo anch'esso finalizzato a consentire il graduale reinserimento del condannato nella società, attraverso la concessione di uno sconto di pena a chi abbia, durante il percorso penitenziario, tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento». Sono, dunque, queste le ragioni per le quali si è ritenuto che la sentenza n. 32/2020 vada ben oltre la quaestio scrutinata e risolta (concernente l'assenza di disciplina transitoria della legge n. 3 del 2019, per reati contro la pubblica amministrazione), consentendo (ed anzi imponendo) di rivisitare tutte le disposizioni e le condizioni ostative attratte dalla calamita della Grundnorm penitenziaria (sul punto, quale prima applicazione della sentenza costituzionale, è già stata richiamata in nota Cass. Sez. I, n. 12845/2020, a proposito della generalizzata portata della sentenza n. 32/2020, con le dirette conseguenze da trarsi per ogni singolo caso). Del resto, a fugare ogni dubbio, il Tribunale richiama la successiva pronuncia del Giudice delle leggi (sent. n. 193/2020), secondo cui (§4.2 del Considerato in diritto) «nella sentenza n. 32 del 2020 questa Corte, ritenendo necessario procedere a una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall'art. 25, comma 2, Cost., in relazione alla disciplina dell'esecuzione della pena, ha affermato che la regola secondo cui le pene devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento dell'esecuzione, e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato, deve […] soffrire un'eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutiva della pena prevista dalla legge al momento del fatto, bensì una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla 6 Cfr. Cass. Sez.I, 20 marzo 2020, n.12845. 208 Michele Passione libertà personale del condannato. In questa ipotesi l'applicazione retroattiva di una tale legge è incompatibile con l'art. 25, comma 2, Cost.». La parola fine, che crediamo metta in sicurezza l'approdo ermeneutico sopra citato per tutti i casi a venire (questo l'auspicio) si rinviene da ultimo al §4.3 del Considerato in diritto, ove si afferma che «nessun ostacolo si oppone più a che il giudice adotti […] l'unica interpretazione della disposizione censurata compatibile con il principio di legalità della pena di cui all'art. 25, comma 2, Cost., così come declinato da questa Corte nella sentenza n. 32/2020». 2. Lo scorso 8 settembre, il Garante Nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale ha presentato un Amicus Curiae in previsione nel giudizio di legittimità costituzionale promosso con l'ordinanza n. 100 del 18 giugno 2020, sollevata dalla Corte di Cassazione, Sez.I.; in quell'atto si legge che «alla data del 1° settembre 2012 le persone condannate all'ergastolo presenti negli istituti penitenziari risultano 1.800. Di esse, 1.271 sono detenute per reati inclusi nell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., e che, in ragione di ciò, scontano un ergastolo ostativo. L'entità della posizione giuridica determinata dal regime dell'ostatività, pari al 71% del totale dei detenuti a vita, certifica un dato di fatto: l'ergastolo nel sistema ordinamentale attuale è, principalmente, ergastolo ostativo». Come si sa7, «non sono mai stati forniti dati a proposito di quanti imputati o condannati all'ergastolo ostativo hanno deciso dal 1991 a oggi di collaborare con la giustizia», e tuttavia è certo che una buona parte degli ergastolani ostativi sono in carcere da due decenni, e anche più, e hanno già chiesto, senza successo, l'accertamento della collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante. Impregiudicata la valutazione del merito, dopo tanto tempo è il diritto alla speranza che si impone con la forza dirompente che proviene da nord, e che consente di aggiungere un accento al titolo del seminario ferrarese: non sappiamo di preciso per quanti, ma per molti senza volto, dopo l'ordinanza fiorentina, può finalmente dirsi che «il fine della pena è la fine della pena»8. 7 Cfr. Amicus Curiae – Università degli Studi di Milano, Corte europea dei diritti umani, I Sezione, Viola c. Italia n.2, n.77633/16, 13 giugno 2019, pubblicato in E. DOLCINI, E. FASSONE, D. GALLIANI, PINTO DE ALBUQUERQUE, A. PUGIOTTO, Il diritto alla speranza. L'ergastolo ostativo nel diritto penale costituzionale, Giappichelli, Torino 2019, 239 ss. 8 A. SOFRI, Il cosiddetto senso della pena, in S. ANASTASIA- F. CORLEONE- L. ZEVI (a cura di), Il corpo e lo spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie, Ediesse, Roma 2011, 259. ERGASTOLO OSTATIVO: UNA DECISIONE OBBLIGATA? di IGNAZIO PATRONE Essendo tra gli ultimi ad intervenire dopo una giornata tanto intensa ed interessante, ho il dovere di svolgere solamente alcune brevi considerazioni. Devo anzitutto ringraziare chi ha organizzato questa giornata di studi e tutti coloro che hanno dato il loro contributo ad un dibattito che, a mio avviso, non ha riguardato solo la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Cassazione ma, più in generale, le prospettive che essa apre per una discussione su “cos’è” oggi la pena in Italia, quali funzioni essa debba adempiere, quale sia in concreto la finalità rieducativa indicata dall’art. 27 della Costituzione. Mi è parso che nella maggior parte degli interventi sia stata data, se per non scontata, quantomeno per assai probabile una decisione della Corte costituzionale nel senso della fondatezza della questione: ciò in forza della precedente sentenza n. 253/2019, della sentenza della Corte EDU Viola c. Italia n.2 (che, come è stato osservato, viene en passant citata nella stessa sentenza della nostra Corte) e - anche se l’argomento non è stato esplicitamente speso - di un nuovo approccio culturale della Consulta che ha portato di recente alla assoluta novità delle visite dei suoi giudici nelle carceri, a diretto contatto con la realtà della pena e della vita dei detenuti. Non voglio giocare il ruolo del pessimista ad oltranza, ma non sono così convinto che la soluzione che viene qui da tutti auspicata ed attesa sarà anche necessariamente quella che avremo. Il partito del “gettate via la chiave”, quello della antimafia dura e pura, è più vivo che mai e, per ricordarcelo, basta pensare alle reazioni, anche isteriche, che hanno accompagnato alcuni, pur se assai limitati, provvedimenti dei magistrati di sorveglianza all’esplodere della pandemia (anche) nelle carceri e ad alcune reazioni scomposte registrate (soprattutto, se non solo, da parte di magistrati del pubblico ministero) alla pubblicazione della sentenza Viola: non si è esitato addirittura a gridare che con quella decisione si uccidevano una seconda volta Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che era un regalo fatto alla mafia, che si dava un colpo di piccone al sistema di prevenzione. La Corte costituzionale – pur nella sua confermata e giustamente rivendicata indipendenza – come tutti i giudici di questo mondo non lavora in una sfera di cristallo e non può non sentire le voci che arrivano dall’esterno e, con esse, le preoccupazioni che molti nutrono per la tenuta complessiva di un quadro normativo che, scaturito dalla reazione alle stragi mafiose, è in piedi da quasi un trentennio. Queste voci e queste preoccupazioni, al di là delle urla dei pasdaran dell’antimafia militante, si faranno sentire. Una eco di quanto sopra si può trovare nella Relazione della Commissione parlamentare antimafia del 20 maggio 2020, qui già da alcuni ricordata, sul cui contenuto non ora vi è lo spazio ed il tempo per argomentare, ma la cui finalità sembrerebbe essere una sola: attenuare gli effetti delle sentenze, Viola c. Italia e n.  Ex magistrato, Collaboratore della Associazione Antigone. 210 Ignazio Patrone 253/2019, introducendo comunque binari speciali per l’esame delle istanze dei condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis. Ricordo ancora, sulla scia di quanto ha osservato anche Franco Corleone nel suo intervento odierno, che il clima politico generale non è oggi quello di una riforma nel senso indicato dalla ordinanza della Cassazione, quanto piuttosto quello di una controriforma sulla spinta delle tante emergenze, vecchie e nuove, che vengono di volta in volta agitate: dalla criminalità, alla corruzione, al terrorismo, sino alla immigrazione. Il segno della volontà delle pur mutevoli maggioranze di questa legislatura è del resto reso evidente dalla legge c.d. spazzacorrotti, quasi un manifesto del law and order nostrano, e dalla ripetuta cieca fiducia nella sanzione detentiva manifestata in ogni occasione dal Guardasigilli. Oggi, le maggioranze parlamentari di qualsiasi colore ben difficilmente si allineerebbero alle posizioni espresse dai partecipanti a questo seminario. Questo è l’ambiente, culturale prima ancora che politico, nel quale la Corte sarà chiamata a prendere una decisione che la esporrà a critiche e non solo a quelle strettamente tecnico-giuridiche. I binari entro i quali andrà presa la decisione non sono perciò obbligati, si tratta di questione almeno in parte aperta. Ecco allora affacciarsi due possibilità. La prima potrebbe essere rappresentata da una decisione sulla falsariga della ordinanza relativa al “caso Cappato”, n. 207/2018: un rinvio lungo per rimettere la palla al legislatore, rinvio che sarebbe qui legittimato dalla stessa motivazione della sentenza Viola c. Italia, ove la Corte europea (§143) ha affermato (§143) che «la natura della violazione riscontrata dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione indica che lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa [l’enfasi è mia], una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena, il che permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione di quest’ultima, il detenuto si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi tali verso la propria correzione che nessun motivo legittimo in ordine alla pena giustifichi più il suo mantenimento in detenzione, e al condannato di beneficiare così del diritto di sapere ciò che deve fare perché la sua liberazione sia presa in considerazione e quali siano le condizioni applicabili. La Corte considera, pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della “dissociazione” dall’ambiente mafioso, che tale rottura possa esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia e l’automatismo legislativo attualmente vigente». Quel riferimento alla iniziativa legislativa, unito all’inadempimento – ad oggi – della sentenza definitiva della Corte europea, potrebbe anche consigliare un invito al Legislatore a provvedere, visto anche che la Commissione parlamentare antimafia le sue proposte le ha già formulate. La seconda possibilità (che forse è anche la più probabile) è quella di una sentenza che, sulla falsariga del precedente nazionale rappresentato dalla sentenza n. 253/2019 (si veda in particolare il punto 9 del Considerato in diritto), dichiari l’incostituzionalità delle disposizioni denunciate dalla ordinanza della Corte di Cassazione, ma indicando una griglia di condizioni e cautele tale da ridurre al minimo i casi di accoglibilità, da parte della magistratura di sorveglianza, delle domande dei condannati: una soluzione “sì, però… ”, come del resto testualmente scritto nella sentenza citata: «Nel caso di specie, però, trattandosi del reato di Ergastolo ostativo: una decisione obbligata? 211 affiliazione a una associazione mafiosa (e dei reati a questa collegati), caratterizzato dalle specifiche connotazioni criminologiche prima descritte, la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – da parte di tutte le autorità coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza – deve rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo» [l’enfasi è mia]. Dove ognuno può vedere che il ragionamento della Corte è retto proprio da quel cautissimo «però», congiunzione avversativa che anche in questo caso potrebbe giocare un ruolo determinante nella decisione. Voglio a questo punto aggiungere solo un paio di considerazioni, riprendendole in parte dal testo dell’amicus curiae che Antigone ha presentato alla Corte. La prima concerne il crescente ricorso in Italia alla pena detentiva, ed alla pena detentiva lunga sino all’ergastolo, pur se in un contesto di decrescita costante della criminalità nel Paese, secondo le stesse statistiche del Ministero dell’interno: si veda la relazione al Parlamento per l’anno 2018 dal sito del Ministero www.interno.gov.it/, dalla quale risulta un calo nel decennio, per alcuni reati, veramente impressionante. Difficile stabilire quanto in questo ricorso alla detenzione lunga contino le scelte del legislatore e quanto la cultura dei giudici, ma certamente esso non è determinato da un aumento dei reati, specie di quelli violenti. Di sicuro, la cosa deve preoccupare perché in ogni caso costituisce l’indice di uno iato profondo tra la realtà del crimine e la percezione dello stesso, compresa la risposta inversamente proporzionale dei tribunali e delle corti. Va inoltre considerato che la recente riforma del rito abbreviato introdotta dall'art. 1, comma 1, lett. a), della legge 12 aprile 2019, n. 33, esclude per i reati commessi dalla data della sua entrata in vigore (20 aprile 2019) l'applicabilità della riduzione di pena prevista da tale rito ai delitti puniti con l'ergastolo (art. 438, comma 1-bis, c.p.p.). Essa avrà quindi come inevitabile conseguenza che in un rilevante numero di casi, in cui la disciplina previgente rendeva applicabile la reclusione nella misura di trent'anni, si applicherà ora la pena perpetua. La seconda osservazione riguarda l’uso della collaborazione in fase di esecuzione come strumento – improprio – di prevenzione generale: il Governo italiano davanti alla Corte di Strasburgo ha sostenuto con lodevole chiarezza che la disciplina vigente ha lo scopo (§103 della motivazione) di chiedere ai condannati «la dimostrazione tangibile della loro “dissociazione” dall’ambiente criminale e dell’esito positivo del percorso di risocializzazione, attraverso una collaborazione utile con la giustizia volta alla “disintegrazione” dell’associazione mafiosa e al ripristino della legalità (…) il legislatore ha espressamente privilegiato le finalità di prevenzione generale e di protezione della collettività, chiedendo ai condannati per i delitti in questione di dare prova di collaborazione con le autorità, uno strumento considerato fondamentale nella lotta contro il fenomeno mafioso». Crediamo che questa sorta di obbligo di collaborazione in sede esecutiva mediante il rafforzamento del trattamento punitivo, sino ad un effettivo “fine pena mai” prospettato in vista dell'ottenimento di fini esclusivamente processuali e senza escludere (anzi favorendo) l'auto-incriminazione, si ponga in radicale contrasto con principi costituzionali ben indicati nella ordinanza della Cassazione. La 212 Ignazio Patrone collaborazione, della cui utilità nessuno discute, dovrebbe essere lo strumento attraverso il quale si ottengono vantaggi processuali, sia nella determinazione della pena irrogata, sia nella sua esecuzione: ma il far discendere dalla mancata collaborazione un trattamento deteriore (addirittura l’immutabilità della pena perpetua) appare francamente ai limiti (e forse oltre) di un trattamento inumano. DOPO LA SENTENZA (DI ACCOGLIMENTO) CHE VERRÀ di ANDREA PUGIOTTO SOMMARIO: 1. La Corte costituzionale non ha scelta, perché ha già scelto. – 2. Le prevedibili resistenze al dispositivo di accoglimento che verrà. - 3. I rischi di una probatio diabolica. – 4. Il pericolo di una eterogenesi dei fini. – 5. La trappola dell’obbligo di collaborare come requisito indispensabile al «necessario ravvedimento». - 6. Il fine della pena esige la fine della pena, ma in concreto. 1. A mio modo di vedere, la Corte costituzionale non ha scelta perché ha già scelto. Nessuno, infatti, può credibilmente negare la portata generale, dunque sistemica, della ratio decidendi della sent. n. 253/2019 (ribadita, con effetti ancor più radicali, nella successiva sent. n. 263)1: il volto costituzionale della pena e della sua esecuzione esige che l’originaria presunzione assoluta di pericolosità sociale e di mancata emenda del reo non collaborante lasci il posto ad una presunzione relativa, superabile ove sia accertata in concreto la rescissione con l’originario sodalizio criminale. Infatti, se può essere fallace l’equivalenza normativa tra collaborazione e ravvedimento2, può esserla anche quella tra mancata collaborazione e pericolosità sociale3. Su questo, la convergenza tra le Corti di Roma e Strasburgo è totale.  Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Ferrara A commento di entrambe le decisioni sia consentito rinviare – anche per le ulteriori indicazioni bibliografiche – ad A. PUGIOTTO, Due decisioni radicali della Corte costituzionale in tema di ostatività penitenziaria: le sentenze nn. 253 e 263 del 2019, in Giur. Cost., 2019, 3345 ss. Per una riflessione preventiva sulla quaestio poi decisa con sent. n. 253/2019, il rinvio bibliografico è agli atti del seminario di Ferrara del 27 settembre 2019: cfr. G. BRUNELLI - A. PUGIOTTO - P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti, in Forum di Quad. Cost. - Rassegna, n. 10, 2019. Alla sent. n. 253/2019 è stata in seguito dedicata un’intera giornata di studio presso la Casa circondariale di Cassino, il 20 gennaio 2020: cfr. S. GRIECO- S. SCALERA (a cura di), Verso il superamento dell’ergastolo ostativo?, EUC, Cassino, 2020, con relazioni – tra le altre – del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, F. CAFIERO DE RAHO, Un intervento legislativo urgente nell’esigenza del contrasto ampio alle mafie, ivi, 103 ss., e del Giudice costituzionale relatore e redattore della decisione, N. ZANON, Il lavoro della Corte nell’elaborazione e nella scrittura della sentenza n. 253 del 2019, ivi, 113 ss. 2 Come osserva la Corte di Strasburgo, il detenuto può essere indotto a collaborare con le autorità «con l’unico proposito di ottenere i vantaggi previsti dalla legge» (§116), senza che il suo comportamento rifletta un’autentica dissociazione dall’ambiente criminale di provenienza (§119): cfr. Corte EDU, Prima Sezione, Viola c. Italia n°2, sentenza 13 giugno 2019, def. 5 ottobre 2019. Prima ancora, non diversamente era stata la Corte costituzionale a riconoscere che una condotta collaborativa con la giustizia «ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione.» (sent. n. 306/1993). 3 Nella già citata sentenza Viola c. Italia n°2 si legge che «la mancanza di collaborazione potrebbe essere non sempre legata a una scelta libera e volontaria, né giustificata unicamente dalla persistenza dell’adesione ai “valori criminali” e dal mantenimento di legami con il gruppo di 1 214 Andrea Pugiotto Tutto ciò, peraltro, si inserisce in un orizzonte di senso – di cui la Consulta mostra piena consapevolezza, avendo contribuito a tracciarlo progressivamente in modo sempre più nitido – secondo cui «il volto costituzionale del sistema penale» vincola il legislatore a esercitare la punizione «sempre allo scopo di favorire il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale» del reo4, perché «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile, ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento»5. E poiché anche per i giudici costituzionali deve valere un obbligo di coerenza (secondo la regola aurea del fare ciò che si è detto), personalmente non ho dubbi: come ieri è caduta l’ostatività al permesso premio, così oggi cadrà quella alla liberazione condizionale6. 2. Ecco perché i nodi su cui vorrei concentrare la mia attenzione sono altri, tutti di prospettiva7. Nodi che è bene segnalare fin d’ora, a evitare che un fecondo dispositivo di accoglimento si riveli sterile nel suo concreto seguito giurisprudenziale, in ragione di una prevedibilissima resistenza a un giudicato costituzionale che temo sgradito ai più8. Non dimentichiamoci, infatti, che presunzioni legali assolute nascondono, con la maschera dell’id quod plerumque accidit, scelte squisitamente di politica appartenenza», potendo – ad esempio – derivare dal timore di ritorsioni contro la propria vita o dei propri familiari (§118). Analogamente, già nella sent. n. 306/1993 della Corte costituzionale si leggeva che «dalla mancata collaborazione non può trarsi una valida presunzione di segno contrario, e cioé che essa sia indice univoco di mantenimento dei legami di solidarietà con l'organizzazione criminale: tanto più, quando l'esistenza di collegamenti con quest'ultima sia stata altrimenti esclusa». Nella più recente sent. n. 253/2019, l’equivalenza tra condotta non collaborante e pericolosità sociale è censurata (anche) perché la presunzione di una «immutabilità, sia della personalità del condannato, sia del contesto esterno di riferimento», può essere contraddetta in concreto, in ragione del lungo tempo trascorso in detenzione e alla luce di una valutazione individualizzata e attualizzata della personalità del detenuto. 4 Sent. n. 179/2017. 5 Sent. n. 149/2018. 6 La più recente ricostruzione – diacronica e critica – del regime ostativo di cui all’art. 4-bis, ord. penit., è di V. MANCA, Regime ostativo ai benefici penitenziari. Evoluzione del ‘doppio binario’ e prassi applicative, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano 2020, sulla quale vedi anche l’interessante recensione di F. GIANFILIPPI, Intorno al 4-bis: un viaggio nella complessità, che non perde mai di vista le persone, in Quest. Giust., 31 ottobre 2020. 7 Quanto alle possibili valutazioni specificamente suggerite dall’atto di promuovimento della Cassazione, rinvio – per quel che mi riguarda – ad A. PUGIOTTO, L’ergastolo ostativo al capolinea? Una mappa per orientarsi, in attesa della sentenza costituzionale, in Studium Iuris, fasc. 2, 2021 (in corso di pubblicazione). 8 E’ facile prevedere il remake delle abrasive polemiche che hanno accompagnato la sent. n. 253/2019, se possibile ancora più esasperate, essendo questa volta in gioco non un beneficio penitenziario (il permesso premio) ma, addirittura, una causa estintiva della pena (la liberazione condizionale). Per una ricostruzione analitica di quel polemico e scomposto dibattito, cfr. A. PUGIOTTO, La sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale: una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria, in Studium Iuris, 2020, 403-405. Dopo la sentenza (di accoglimento) che verrà 215 criminale9. E rappresentano il miglior rifugio per il giudice riluttante, che nulla ha da eccepire contro automatismi legislativi, anche se erodono la sua funzione10, quando in cambio gli assicurano deresponsabilità e quieto vivere: si spiega così il ritardo con cui la quaestio legitimitatis di un ergastolo ostativo alla liberazione condizionale viene riproposta al Giudice delle leggi solo ora, diciassette anni dopo il suo diretto ed unico precedente, la sent. n. 135/200311. 3. Per prima cosa, andrà evitato che, come l’araba fenice, la presunzione assoluta di pericolosità sociale torni a rinascere dalle sue ceneri attraverso machiavelliche formule giurisprudenziali. Penso, innanzitutto, all’esclusione del pericolo di una ripresa futura dei pregressi collegamenti con la criminalità organizzata: accertamento già imposto dalla sent. n. 253/2019 per la concessione del beneficio premiale, a fortiori lo sarà per la concessione della liberazione condizionale. Sul rischio di farne una probatio diabolica, in quanto pretesa dimostrazione dell’inesistenza di un pericolo in astratto, molto si è detto: sia in sede di commento 9 «Sotto il manto delle presunzioni legali si nascondono non già comuni esperienze, ma astratte scelte di politica legislativa»: questo il lapidario giudizio, espresso oltre cinquant’anni fa, da A. PACE, Misure di sicurezza e Costituzione, in Giur. Cost., 1966, 193. È certamente vero per l’automatismo normativo dell’art. 4-bis, 1° comma, ord. penit., che «rappresenta un forte incentivo alla collaborazione» ed è «essenzialmente espressione di una scelta di politica criminale, e non penitenziaria»: così la sent. n. 306/1993, la cui valutazione è suffragata dalla dichiarazione del Guardasigilli proponente che, a suo tempo, la rappresentò come «l'arma più efficace... per contrastare la criminalità organizzata», dato che «praticamente tutti i processi che hanno ottenuto qualche risultato...sono stati fondati...sulla collaborazione di ex appartenenti alle associazioni di stampo mafioso» (Senato, seduta del 6 agosto 1992, resoconto stenografico, 61). Di «esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante» parla ora – sempre in riferimento all’art. 4-bis, 1° comma, ord. penit. – la sent. n. 253/2019. 10 Sulla possibilità di leggere in controluce, nelle impugnazioni incidentali di automatismi legislativi, vere e proprie liti interorganiche, cfr. A. PUGIOTTO, Conflitti mascherati da quaestiones: a proposito di automatismi legislativi, in R. ROMBOLI (a cura di), Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, Giappichelli, Torino 2017, 497 ss. L’ipotesi viene ora ripresa – con specifico riferimento al regime dell’art. 4-bis, ord. penit. – da O. PINI, La giurisprudenza costituzionale sui reati ostativi: bilanciamento di valori ed equilibrio tra poteri, in Dirittifondamentali.it, 2020, fasc. 1, 53-55. 11 Cfr. A. PUGIOTTO, Tre telegrammi in tema di ergastolo ostativo, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, 1519-1520, contributo al seminario di studi svoltosi il 16 novembre 2017 presso l’Università degli Studi di Milano sul tema Ergastolo ‘ostativo‘: profili di incostituzionalità e di incompatibilità convenzionale. Un dibattito. Per la pregressa giurisprudenza di legittimità, granitica nel rigettare la quaestio in esame perchè ritenuta manifestamente infondata, cfr., ex plurimis, Cass., sez. I pen., 7-28 novembre 2012, n. 45978, Musumeci; Id., 20 marzo-17 luglio 2015, n. 31203, Papalia; Id., 22 marzo-1 luglio 2016, n. 27149, Viola; Id., 17 gennaio-16 febbraio 2017, n. 7428, Pesce. Il dato giurisprudenziale era così radicato da indurre la Corte di Cassazione ad affermare la «dubbia configurabilità di un’autonoma tipologia di pena qualificabile come ‘ergastolo ostativo’»: Id., 4 marzo 2014, n. 18206, Grassonelli. Tutte le sentenze qui citate sono consultabili nella sezione documenti del sito dedicato al presente seminario (www.amicuscuriae.it). 216 Andrea Pugiotto della sentenza dello scorso anno12, sia oggi in questa occasione di dibattito. Sul punto, lo stesso giudice di legittimità ha avuto modo di riconoscere, senza infingimenti, la sua «problematica aderenza a canoni epistemologici basati sulla materialità dell’oggetto della prova»13. Per parte mia, segnalo che è un rischio tanto più elevato se dovesse accompagnarsi a quell’inversione probatoria – prefigurata in motivazione, ma non nel dispositivo della sent. n. 253/2019 anche perché estranea al thema decidendum introdotto dal giudice a quo – secondo cui graverebbe sul richiedente tale prova negativa, a fronte di un parere delle procure antimafia contrarie alla concessione del beneficio14. 12 La denuncia dottrinale - sia della concreta impraticabilità del criterio probatorio introdotto dalla Corte costituzionale, sia della sua matrice autopoietica - è un vero e proprio refrain: cfr., in particolare, M. BORTOLATO, Il futuro rientro nella società non può essere negato a chi non collabora, ma la strada è ancora lunga, in Diritto Pen. e Proc., 2020, 635-637; S. BARALDI, Sull’incompatibilità con la Costituzione della presunzione assoluta di pericolosità dei condannati per reati ostativi che non collaborano con la giustizia: in margine a Corte cost., sentenza del 23 ottobre 2019 (de 4 dicembre 2019) n. 253, in Osservatorio Cost., 2020, fasc. 2, 349 nota 63; G. CIRIOLI, Bertoldo e la presunzione assoluta di pericolosità sociale: entrambi impiccati a una pianta di fragole ? Un breve commento alla sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale, ivi, fasc. 4, 248-251; M. MENGOZZI, Il meccanismo dell’ostatività alla sbarra. Un primo passo da Roma verso Strasburgo, con qualche inciampo e altra strada da percorrere (nota a Corte cost., sent. n. 253 del 2019), ivi, fasc. 2, 369-371; A. MENGHINI, La Consulta apre una breccia nell’art. 4-bis o.p. Nota a Corte cost. n. 253/2019, ivi, fasc. 2, 321; E. FASSONE, L’ergastolo e il diritto alla speranza, in Quest.Giust., 24 febbraio 2020, §21; F. FIORENTIN, Una decisione ‘storica’ dal grande impatto sistematico, in Cass. Pen., 2020, 1025 ss.; D. GALLIANI- R. MAGI, Permesso premio e regime ostativo. La Corte costituzionale si è espressa, ora la parola passa ai giudici, in Quad. Cost., 2020, 137; V. MANCA, Regime ostativo ai benefici penitenziari, cit., 113-114 e 163-166; M. MICHETTI, L’accesso ai permessi premio tra finalità rieducativa della pena ed esigenze di politica criminale, in Giur. Cost., 2019, 3129; M. PELISSERO, Permessi premio e reati ostativi. Condizioni, limiti e potenzialità di sviluppo della sent. n. 253/2019 della Corte costituzionale, in Legisl. Pen., 30 marzo 2020, 12-15; M. RUOTOLO, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, in Sistema Penale, 12 dicembre 2019, §3; S. TALINI, Presunzioni assolute e assenza di condotta collaborativa: una nuova sentenza additiva ad effetto sostitutivo, in Consulta Online, Studi, 2019, fasc. III, 741. 13 Cass., Sez. I pen., 28 gennaio-12 febbraio 2020, n. 5553, Grasso, pres. Siani, est. Magi: la si può leggere tra il materiale giurisprudenziale predisposto per questo seminario, nel sito www.amicuscuriae.it. 14 La dissociazione – sul punto - tra motivazione e dispositivo nella sent. n. 253/2019 è ridimensionata fino all’irrilevanza da Marco Ruotolo, nella sua relazione introduttiva a questo seminario (ID., L’ergastolo ostativo è costituzionale?, §8), in nome del «canone elementare della “totalità” della sentenza, quale esplicitazione del canone della totalità nell’interpretazione giuridica», secondo il noto insegnamento di Emilio Betti. Sia consentito replicare. Trattandosi di decisione manipolativa, la sent. n. 253/2019 manca, sul punto, di quella precisione chirurgica necessaria a renderne autoapplicativo il dispositivo. Di più: manipolando una disciplina formalmente penitenziaria ma sostanzialmente penale (cfr. sent. n. 32/2020, su cui infra, nota 21), quel dispositivo – proprio perché omissivo sul punto - proietta un deficit di tassatività-determinatezza sulla normativa di risulta che la rende inidonea a imporre erga omnes una simile richiesta probatoria. Il tutto, a mio modo di vedere, nasce dall’assenza di un aggancio costituzionale che renda obbligata l’inversione dell’onere probatorio prefigurata nella parte motiva della sent. n. 253/2019, diversamente dai due altri requisiti (la valutazione giurisdizionale individualizzata e l’acquisizione di elementi che escludano il pericolo di un futuro ripristino dei collegamenti con il sodalizio criminale) entrambi costituzionalmente giustificabili e, Dopo la sentenza (di accoglimento) che verrà 217 Cinematograficamente, non siamo molto lontani dall’invettiva di papa Pio XIII (alias Lanny Belardo), il pontefice di The Young Pope, rivolta ai fedeli riuniti in Piazza San Pietro15: «A quelli che hanno il minimo dubbio su Dio, io non ho nulla da dire. Posso solo ricordare loro il mio disprezzo. E la loro miseria. Io non devo provare l’esistenza di Dio. Sono loro che devono provarmi che Dio non esiste. Siete in grado di dimostrarmi che Dio non esiste? Se non siete in grado di dimostrarmelo, allora significa che Dio esiste». 4. Contro la sentenza di accoglimento che verrà potrà essere giocata un’altra machiavellica strategia. Quella secondo cui la liberazione condizionale non può comunque concedersi a chi, prima, non ha mai usufruito di alcun beneficio pentenziario o misura alternativa. Ne andrebbe, altrimenti, della necessaria progressività trattamentale, che – come accade in natura - non ammette salti. Così, secondo la più classica eterogenesi dei fini, la progressività del trattamento, traduzione legislativa del principio costituzionale che vuole la pena finalizzata alla risocializzazione del reo, diventerebbe un ostacolo al suo stesso fine. Qui è in piena attività un cortocircuito cognitivo, che scambia la causa con l’effetto. L’impossibilità per un ergastolano ostativo di accedere alle tappe di un percorso trattamentale che ha nella liberazione condizionale il suo traguardo, è dovuta (non necessariamente a una sua libera scelta16, bensì) all’irragionevole preclusione assoluta dell’art. 4-bis, 1° comma, ord. penit. Negargli per questo l’accesso alla liberazione condizionale significherebbe, dunque, fargli pagare le conseguenze incostituzionali di persistenti automatismi incostituzionali. A interrompere questo circolo vizioso è chiamato il Giudice delle leggi. Come osservato nell’Amicus Curiae del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale (alla cui redazione chi scrive, invero, non è stato estraneo), l’attesa sentenza di accoglimento dovrà estendere i suoi effetti anche nei confronti dell’ostatività al lavoro esterno e alla semilibertà, quali benefici intermedi tra il permesso premio e la liberazione condizionale17. proprio per questo, travasati nel dispositivo della pronuncia. Ha dunque ragione Franco della Casa quando (nel suo intervento orale al presente seminario, fruibile nella relativa registrazione audiovideo in www.amicuscuriae.it) segnala che la mancata allegazione, da parte del detenuto, di elementi probanti l’assenza del pericolo di ripristino di collegamenti con il sodalizio criminale non può essere motivo d’inammissibilità della richiesta di liberazione condizionale, che l’art. 666, 2° comma, c.p.p., prevede solo «per difetto delle condizioni di legge» o perché «riproposizione di una richiesta già rigettata, basata su medesimi elementi». 15 P. SORRENTINO, Il peso di Dio. Il vangelo di Lanny Belardo, Einaudi, Torino 2017, 33. 16 Come ora riconoscono all’unisono sia la Corte EDU che la Corte costituzionale: vedi, supra, nota 3. 17 Cfr. §3, ultimo cpv. Il testo integrale dell’Amicus Curiae inoltrato alla cancelleria della Corte costituzionale dal Garante Nazionale è fruibile nel sito (www.amicuscuriae.it) predisposto per questo seminario, nella sezione dedicata alla documentazione processuale. 218 Andrea Pugiotto In altre parole, si tratta di rimuovere un identico meccanismo incostituzionale applicato ad altre ipotesi normative, oltre a quella impugnata. La tecnica dell’illegittimità consequenziale - ex art. 27, legge n. 87 del 1953 – è lì per questo, a disposizione della Consulta indipendentemente dalla richiesta o meno del giudice a quo di farvi ricorso18. 5. L’ultimo nodo è il più intricato, perché riposa su una pregressa e duratura giurisprudenza costituzionale. Torno al mio postulato iniziale. L’accoglimento della quaestio dovrebbe consentire agli ergastolani non collaboranti di accedere, previo positivo vaglio giurisdizionale, alla liberazione condizionale, causa estintiva di una pena altrimenti perpetua. Che però questo accada non è detto. E il perché è presto detto. Come insegna la giurisprudenza costituzionale a far data almeno dalla sent. n. 273/200119, la mancata collaborazione con la giustizia altro non è che un «indice legale della persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata», sufficiente ad escludere il «necessario ravvedimento» del reo, conditio sine qua non per ottenere la liberazione condizionale. Così inquadrato, l’obbligo di collaborare con la giustizia introdotto con decretazione d’urgenza nel 1992, non avrebbe integrato una novazione alla disciplina codicistica della liberazione condizionale, rappresentandone un mero elemento di fatto già incapsulato nell’art. 176 c.p. (disposizione peraltro estranea al thema decidendum del giudizio di costituzionalità pendente). Ecco il nodo scorsoio. L’obbligo di una collaborazione esigibile, assorbito nel presupposto codicistico del sicuro ravvedimento, sopravviverebbe grazie a un diritto vivente giurisprudenziale che lo pretenderebbe comunque: non più a monte, quale condizione di ammissibilità per richiedere una liberazione condizionale, ma a valle, come requisito necessario per concederla. Tocca di nuovo alla Corte costituzionale rimediare, con un obiter dictum che corregga senza equivoci quella sua pregressa giurisprudenza, peraltro priva ormai della sua ratio originaria. Serviva, infatti, a giustificare l’applicazione dell’inasprito Così adoperata, l’incostituzionalità derivata si confermerebbe tecnica a tutela dei diritti fondamentali, più volte utilizzata in riferimento al regime ostativo ai benefici penitenziari (cfr. le sentt. nn. 357/1994, 68/1995, 253/2019): in tal senso, vedi già D. GALLIANI - A. PUGIOTTO, L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo. (A proposito della sentenza Viola v. Italia n. 2), in Osservatorio Cost., 2019, n. 4, 208. L’uso della dichiarazione d’illegittimità consequenziale a garanzia di una tutela effettiva di beni costituzionali di particolare spessore, capace così di assicurare piena risoluzione al problema di giustizia costituzionale sottoposto al Giudice delle leggi, è riscontrato da S. BARTOLE, Una dichiarazione di incostituzionalità consequenziale qualificata dalla speciale importanza della materia, in Le Regioni, 1996, 313 ss.; G. BRUNELLI, L’illegittimità derivata di norme analoghe come tecnica di tutela dei diritti fondamentali, in Giur. Cost., 2002, 3644 ss.; ID., Significative convergenze: illegittimità derivata di norme analoghe e sentenze manipolative, in Scritti in memoria di Livio Paladin, Jovene, Napoli 2004, 352 ss. Per una ricostruzione sistematica dell’istituto di cui all’art. 27, legge n. 87 del 1953, lo studio di riferimento è certamente quello di A. MORELLI, L’illegittimità conseguenziale delle leggi. Certezza delle regole ed effettività della tutela, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008. 19 Ma vedi anche, nello stesso senso, le ordd. nn. 280/2001, 308/2001, 108/2004. 18 Dopo la sentenza (di accoglimento) che verrà 219 art. 4-bis, 1° comma, ord. penit., a tutti i detenuti per reati ostativi commessi anche anteriormente alla sua entrata in vigore, dribblando così la censura di violazione dell’art. 25, 2° comma, Cost.20 Oggi, dopo la storica sent. n. 32/2020, si tratterebbe invece di un’indiscutibile violazione del divieto costituzionale d’irretroattività, ora esteso anche a norme penitenziarie “materialmente” penali21. 6. Questi i tre nodi che mi auguro vengano sciolti dai giudici costituzionali, così da mettere in sicurezza la loro prevedibile sentenza di accoglimento. Come è giusto che sia. Infatti, se l’orizzonte costituzionale è quello del «recupero del reo alla vita sociale»22, allora davvero il fine della pena esige la fine della pena23. In concreto, e non solo nella formula astratta di un dispositivo. 20 Cfr. C. MUSUMECI- A. PUGIOTTO, Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, Napoli, Editoriale Scientifica, 2016, 157-165. 21 È proprio il decisum della sent. n. 32/2020 (ribadito nella sua ratio dalla successiva sent. n. 193/2020) ad aver aperto un varco per la concessione della liberazione condizionale ad un ergastolano ostativo, benchè non collaborante e in assenza di collaborazione impossibile o inesigibile (ex art. 4-bis, comma 1-bis, ord. penit.): condannato per un reato ostativo commesso anteriormente all’entrata in vigore del d.l. n. 306 del 1992 introduttivo dell’obbligo di collaborare utilmente con la giustizia, il giudice di sorveglianza ne ha escluso l’applicazione retroattiva; l’accertata assenza di pericolosità sociale del reo, il suo sicuro ravvedimento e una detenzione espiata per oltre 26 anni hanno reso possibile l’accoglimento dell’istanza: cfr. Trib. Sorveglianza di Firenze, n. 2020/3341 del 29 ottobre 2020 (pres. Bortolato, est. Caretto, Ventura), sulla quale vedi D. ALIPRANDI, Liberazione condizionale a ergastolano ostativo: è la prima volta, in Il Dubbio, 4 novembre 2020; A. STELLA, Ergastolano ostativo esce anche se non ha collaborato, in Il Riformista, 4 novembre 2020. Sulla genesi di tale provvedimento vedi, in questo stesso volume, M. PASSIONE, La fine è nota (A proposito di un’innovativa ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Firenze). Copiosa, ovviamente, è la dottrina a commento della sent. n. 32/2020: vedi, almeno, A. APOLLONIO, I guardiani della legge: le ragioni dell’intervento della Consulta sulla «spazzacorrotti», in Giustizia Insieme, 13 febbraio 2020; G. CERNESI, La portata del divieto di applicazione retroattiva di norme incidenti sull’esecuzione della pena: brevi note a margine della sentenza n. 32/2020 della Corte costituzionale, in Dirittifondamentali.it, 2020, n. 3, 116 ss.; R. DE VITO, Corte costituzionale e «Spazzacorrotti»: cronaca di una rivoluzione (non) annunciata, in Quest. Giust., 13 febbraio 2020; A. GARGANI, L’estensione “selettiva” del principio di irretroattività alle modifiche in pejus in materia di esecuzione della pena: profili problematici di una decisione “storica”, in Giur. Cost., 2020, 263 ss.; G.L. GATTA, Art. 4-bis o. e legge «Spazzacorrotti», in Sistema Penale, 17 febbraio 2020; I. GIUGNI, La differenza fra “dentro” e “fuori” il carcere è radicale: la Corte costituzionale dichiara illegittimo l’art. 1, co. 6, lett. b), della legge c.d. spazzacorrotti, in Diritti Com, 11 marzo 2020; F. LAZZERI, La sentenza della Corte costituzionale sul regime intertemporale delle modifiche all’art. 4-bis ord. penit. introdotte dalla l. 3/2010 (“spazzacorrotti”), in Sistema Penale, 26 febbraio 2020; V. MANES – F. MAZZACUVA, Irretroattività e libertà personale: l’art. 25, secondo comma, Cost., rompe gli argini dell’esecuzione penale, ivi, 23 marzo 2020; A. PUGIOTTO, Divieto di retroattività penale, ma non solo: i tanti profili d’interesse della sentenza n. 32/2020, in Quad. Cost., 2020, 395 ss. 22 Così, testualmente, la sent. n. 253/2019. 23 La fulminante affermazione secondo la quale «il fine della pena è la fine della pena» si deve alla penna di A. SOFRI, Il cosiddetto senso della pena, in S. ANASTASIA- F. CORLEONE- L. ZEVI (a cura di), Il corpo e lo spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie, Ediesse, Roma, 2011, 259. Ad essa hanno attinto gli organizzatori del presente seminario, per la scelta del suo titolo. UNA QUESTIONE DI CULTURA di EMILIA ROSSI* SOMMARIO: 1. La necessità di una promozione culturale – 2. Dal parametro costituzionale dell’articolo 117 alla coerenza del sistema di riabilitazione. 1. La finalità risocializzante della pena, di ogni pena: al cuore della questione rimessa al giudizio della Corte costituzionale con l’ordinanza 18 giugno 2020 della Prima sezione penale della Corte di Cassazione c’è l’affermazione del rispetto, non solo formale, del principio dettato dall’articolo 27, comma 3 della Costituzione. In tanto si può ritenere, infatti, che tale principio ha effettivo valore, in quanto il percorso riabilitativo compiuto nel corso dell’esecuzione della pena può concretamente assumere rilevanza e dispiegare gli effetti previsti dall’ordinamento per riportare la persona condannata al recupero dell’integrità della sua vita nel contesto sociale. La preclusione automatica della valutazione da parte del giudice di questo percorso, imposta dal combinato disposto degli articoli 4-bis, 58-ter della legge 26 luglio 1975, n.354 e dell’articolo 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n.152, mette in crisi, quindi, l’effettività concreta del principio costituzionale, impedendo, innanzitutto, l’apprezzamento giurisdizionale di quel cammino riabilitativo, se non a condizione di una attività di collaborazione con la giustizia che, sola, assurge a parametro certificatore di avvenuta riabilitazione. Se si guarda a una prospettiva di reintegrazione armonica del sistema, la questione in discussione può avere una rilevanza fondativa, sul piano dei principi, analoga a quella determinata dalla “pietra miliare” della sentenza della Corte costituzionale n. 204/1974 che ha inscritto nell’impianto dell’ordinamento penale «il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo»1 e il principio che «tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale»2. Dalla pronuncia della Corte può venire, pertanto, il passo decisivo per ristabilire l’assetto costituzionale rispetto a profili toccati da decenni di legislazione “emergenziale” in progressiva crescita ipertrofica, secondo le emergenze di volta in volta individuate dal legislatore, spesso anche in relazione all’interpretazione dell’allarme, concreto o supposto, dell’opinione pubblica. Quest’ultima considerazione dà ragione del fatto che la questione di cui si discute è, sostanzialmente, questione politica nel senso ampio del termine, di impostazione della politica criminale e della giustizia nel Paese: e, quindi, è * Componente del Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Avvocata del Foro di Torino. 1 Sentenza 27 giugno-4 luglio 1974, n. 204. 2 Ibidem. Una questione di cultura 221 questione culturale che non potrà risolversi, in una prospettiva futura e di ricostruita integrità del sistema, se non investirà il patrimonio culturale comune. Con questa consapevolezza, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà ha voluto offrire il proprio contributo di conoscenza alla Corte costituzionale con l’atto di intervento di Amicus Curiae - alla cui elaborazione hanno reso fondamentale apporto i professori Davide Galliani e Andrea Pugiotto nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dalla Prima sezione della Corte di Cassazione3. Si è inteso rappresentare, infatti, in primo luogo, come sul piano fenomenologico, prodotto dell’impostazione della politica criminale fin qui seguita da decenni, la questione proposta al giudizio della Corte abbia natura sistemica: i dati statistici ufficiali, forniti al Garante dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, attestano che l’ergastolo, nel sistema ordinamentale attuale, è principalmente ergastolo ostativo. Delle 1800 persone condannate all’ergastolo presenti negli istituti penitenziari alla data del 1° settembre 2020, infatti, 1271 sono quelle che scontano un ergastolo ostativo, in ragione dei reati compresi nell’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n.354 loro ascritti. Inoltre, gli stessi dati indicano che il costante incremento del numero degli ergastolani presenti in carcere, riscontrabile negli ultimi quindici anni, è dovuto quasi completamente a quelli che scontano un ergastolo ostativo4. La natura sistemica della questione della preclusione ostativa alla liberazione condizionale per la pena dell’ergastolo, evidenziata dal quadro fenomenologico, è tale, pertanto, da investire integralmente l’impianto di questa pena, di una delle tre pene principali previste dall’ordinamento: e quando si tratta di mettere mano a un impianto integrale, la promozione di una condivisione culturale, che prenda le mosse dal più alto organo di giustizia e si articoli nella coscienza giuridica e collettiva, è assolutamente imprescindibile per scongiurare il rischio che i princìpi rimangano soltanto scritti sulla, pur nobile, carta. 2. Quando il Garante nazionale ha proposto il proprio intervento di Amicus Curiae, la sua designazione di Meccanismo nazionale di prevenzione della tortura per l’Italia, nell’ambito del Protocollo Opzionale alla Convenzione ONU contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti (Opcat), ratificato con la legge 9 novembre 2012, n. 195, discendeva ancora dalla lettera diplomatica della Permanent Mission of Italy alle Nazioni Unite del 25 aprile 20145. Con il decreto-legge 21 ottobre 2020, n. 1306 tale designazione è entrata nella norma di Il testo dell’Amicus Curiae del Garante Nazionale, 8 settembre 2020, è consultabile nel sito www.amicuscuriae.it dedicato al presente seminario, nella sezione “documentazione processuale”. 4 Cfr. Amicus Curiae del Garante nazionale, 8 settembre 2020, §2. Dati statistici in tema di ergastolo ostativo e liberazione condizionale. 5 Note Verbale 1105, 25 April 2014 – Permanent Mission of Italy to the International Organizations in Geneva. 6 Articolo 13, recante «Modifiche urgenti alla disciplina sul Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale», comma 1, lettera b). Il decreto-legge che, alla lettera a) dello stesso articolo, è anche intervenuto sulla denominazione del Garante nazionale, eliminando il riferimento specifico alle «persone detenute» e comprendendo, così, nel termine ampio di «Garante 3 222 Emilia Rossi rango primario dell’articolo 7 del decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10. La nuova cornice normativa dell’Istituzione ne rafforza la funzione di vigilanza sulla conformità dell’esecuzione delle pene alle norme e ai princìpi stabiliti, oltre che dalla Costituzione, dalle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Italia, assegnatale dalla legge istitutiva. A tale funzione consegue la specifica titolarità in capo al Garante nazionale degli interessi collettivi attinenti alla questione di legittimità costituzionale della preclusione della liberazione condizionale per l’ergastolo ostativo, in ragione della sua competenza a presidiare il rispetto dei vincoli derivanti da obblighi comunitari e internazionali, dettato dall’articolo 117, comma 1, della Costituzione. Il parametro dell’articolo 117, comma 1, Cost., invocato nell’ordinanza di remissione della Prima sezione della Corte di Cassazione, assume, pertanto, particolare rilevanza nella considerazione del Garante nazionale in merito alla questione proposta all’esame della Corte costituzionale. Il riferimento prescrittivo, vincolante la potestà legislativa, poggia sulla lettura dell’articolo 3 CEDU data dalla Corte di Strasburgo con la sentenza Viola v. Italia n. 2, I Sez, 13 giugno 2019, divenuta definitiva il 5 ottobre 2019. Sentenza significativamente qualificata nell’atto di Amicus Curiae del Garante nazionale quale pronuncia “quasi-pilota” per la configurazione della presunzione assoluta di pericolosità, in assenza di collaborazione con la giustizia, come «problema strutturale» dell’ordinamento italiano, cui consegue la possibilità che siano presentati «numerosi altri ricorsi aventi ad oggetto la stessa problematica», oltre a quelli già pendenti7. Il risultato dettato dalla Corte EDU, al paragrafo 143 della sentenza, può essere perseguito dalla Corte costituzionale, ancorché l’organo di giustizia sovranazionale indichi come preferibile un intervento legislativo, di cui, va rilevato, al momento attuale non si intravedono cenni. La dichiarazione di incostituzionalità della preclusione dell’accesso alla liberazione condizionale per chi è condannato all’ergastolo ostativo consentirebbe, infatti, di pervenire al duplice obiettivo di garantire un riesame della pena alla luce della progressione sul cammino riabilitativo maturata dal condannato nel corso della sua esecuzione e di prevedere che la dimostrazione della rottura con l’ambiente mafioso possa esprimersi altrimenti che con la collaborazione con la giustizia e l’automatismo legislativo attualmente in vigore. La pronuncia della Corte costituzionale, anche in considerazione dell’attuale inerzia dell’organo legislativo, può essere determinante, quindi, per ristabilire il rispetto del vincolo derivante dall’obbligo internazionale fissato all’articolo 3 CEDU nella disciplina della pena perpetua. Questo non sarebbe un approdo esaustivo, tuttavia, nella visione proposta dal Garante nazionale nel suo Amicus Curiae, se non investisse tutto il quadro normativo che determina la progressione trattamentale, portandolo alla dovuta nazionale dei diritti delle persone private della libertà» tutte le aree della privazione della libertà, de jure e de facto, su cui si estende il mandato dell’Autorità di garanzia, è attualmente in fase di conversione in legge. 7 Sentenza Corte EDU Viola v. Italia, cit., §141. Una questione di cultura 223 coerenza di sistema. Il rischio che può configurarsi, in caso diverso, è che l’impossibilità di accedere agli istituti intermedi del percorso riabilitativo impedisca di fatto l’apprezzamento da parte del giudice di quel cambiamento che, in assenza dell’automatismo connesso alla collaborazione con la giustizia, potrà giustificare la compressione della pena perpetua attraverso la liberazione condizionale. Per questa ragione il Garante nazionale ha proposto l’estensione consequenziale, in forza dei poteri officiosi previsti dall’articolo 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità delle norme impugnate nell’ordinanza di remissione anche alla preclusione assoluta di ammissione ai benefici penitenziari del lavoro esterno e della semilibertà8. La permanenza di un ‘cortocircuito’ normativo che di fatto vanifica la progressione trattamentale va superata trovando soluzione nell’assetto della coerenza costituzionale. La questione è di nuovo questione di promozione di una cultura diffusa, specificamente giuridica in questo caso: se non si rendono ai Giudici gli strumenti per avviare gradualmente un percorso di riabilitazione che sarà, poi, oggetto della loro valutazione, si corre il pericolo che la giurisprudenza entri in un circolo vizioso dal quale le conquiste faticosamente raggiunte sul piano dei princìpi escano, di fatto, pregevoli enunciazioni teoriche. 8 Amicus Curiae del Garante nazionale, cit., §3, punto 4, e §5. ERGASTOLO OSTATIVO E LIBERAZIONE CONDIZIONALE: IN ATTESA DI UNA SENTENZA “AMBIVALENTE” di ALESSANDRA SANTANGELO* SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Un arresto conclusivo per la pena perpetua. - 3. Un arresto in divenire per la disciplina ostativa. 1. La pronuncia della Corte costituzionale, chiamata a verificare la legittimità dell’ergastolo ostativo in relazione all’istituto della liberazione condizionale, appare decisiva in una duplice prospettiva. Su un primo versante, infatti, la sentenza in questione potrebbe portare a compimento un percorso interpretativo – incalzato dalla giurisprudenza convenzionale1 ma, invero, già ampiamente tracciato dai più recenti arresti costituzionali2 – che valorizza il principio rieducativo quale presidio posto a tutela della dignità della persona avverso forme di esercizio arbitrario del potere punitivo3. Su un secondo versante, invece, si tratta di un approdo tutt’altro che conclusivo in relazione all’interrogativo di portata più generale che mira a definire la funzione che l’ostatività sanzionatoria è chiamata a svolgere nell’ordinamento nazionale4. Di qui, l’opportunità di soffermarsi sul carattere ambivalente del compito affidato ai giudici costituzionali. Da un lato, infatti, occorre preservare il legittimo affidamento circa la coerenza sistematica dello statuto penitenziario rispetto sia al dettato costituzionale che al parametro convenzionale interposto. Dall’altro, è altresì da rilevare che la imminente decisione si inserisce in un percorso ermeneutico piuttosto articolato, e avviato da tempo, volto a chiarire il fondamento di legittimazione del regime ostativo, a prescindere dalla sanzione perpetua o temporanea prevista per il singolo fatto di reato. 2. Quanto al primo profilo, è utile premettere che la disciplina dell’ergastolo ostativo non pare, allo stato attuale, de iure e de facto riducibile: nonostante le *Assegnista di ricerca in Diritto penale, Università di Bologna. 1 Corte EDU, Sez. I, 1° giugno 2019, Marcello Viola c. Italia (n. 2). 2 Corte costituzionale, 11 luglio 2018, n. 149, §7. In argomento, inter multis, A. PUGIOTTO, Il “blocco di costituzionalità” nel sindacato della pena in fase esecutiva, in Giur. cost., 2018, 1646 ss.; M. PELISSERO, Ergastolo e preclusioni: la fragilità di un automatismo dimenticato e la forza espansiva della funzione rieducativa, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2018, 1359 ss., in particolare 1362 ove l’A. considera gli argomenti posti a sostegno della decisione come «un sasso lanciato nello stagno del sistema sanzionatorio». 3 V. MANES-V. NAPOLEONI, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Giappichelli, Torino 2019, 262. 4 D. PULITANÒ, Problemi dell’ostatività sanzionatoria. Rilevanza del tempo e diritti della persona, in G. BRUNELLI - A. PUGIOTTO – P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti. Atti del seminario, Ferrara, 27 settembre 2019, in Forum Quaderni cost.- Rassegna, 10, 2019, 156. Ergastolo ostativo e liberazione condizionale 225 recenti aperture culminate nella sentenza n. 253/2019, l’ordinamento nazionale rimane lontano dagli standard minimi riconosciuti dalla giurisprudenza convenzionale consolidata ex art. 3 CEDU in punto di pena perpetua5. Riprova ne sia il fatto che, come chiarito dagli stessi giudici costituzionali, eventuali modifiche della disciplina dei permessi premio ex art. 30-ter ord. penit., non condizionerebbero la natura del castigo da eseguire, che conserva la propria dimensione intramuraria ancorché il condannato trascorra brevi frangenti di tempo al di fuori dell’istituto penitenziario6. Detto altrimenti, la questione di legittimità al momento pendente riveste tutt’altro rilievo ai fini dell’art. 46 CEDU, atteso che investe uno strumento capace di incidere concretamente sulla libertà del detenuto nonché di trasformare la natura della sanzione7. In tale prospettiva, sembra del tutto condivisibile l’auspicio che il vaglio di legittimità sia esteso in via consequenziale ai benefici penitenziari non direttamente attinti dalla ordinanza di rimessione ma che si frappongono, offrendo progressive occasioni di reinserimento sociale, proprio tra permessi premio8 e liberazione condizionale9. Un simile scenario, tuttavia, alimenta alcuni interrogativi quanto alle conseguenze che ne deriverebbero rispetto alla coerenza sistematica dello statuto penitenziario e, in particolare, in relazione alle soluzioni, per molti aspetti differenti, adottate per il settore minorile. Con riguardo alle misure di cui all’art. 30-ter ord. penit., infatti, i giudici costituzionali hanno avvertito l’esigenza di potenziare il meccanismo di presunzione relativa10 attraverso il riferimento a un regime di prova rafforzato capace di fronteggiare «le specifiche connotazioni criminologiche» delle fattispecie connesse ad associazioni di stampo mafioso11. Per contro, appena due giorni dopo il deposito della sentenza n. 253, la Corte costituzionale ha escluso l’applicabilità del regime ostativo qualora il reato sia commesso da un soggetto minore12, non solo elidendo il carattere assoluto della presunzione ma rinunciando 5 Solo si pensi a Corte EDU, Grande Camera, 12 febbraio 2008, Kafkaris c. Cipro, §§95-99; Grande Camera, 9 luglio 2013, Vinter et al. c. Regno Unito, §§103-122; Grande Camera, 26 aprile 2016, Murray c. Paesi Bassi, §§99-104; Grande Camera, 17 gennaio 2017, Hutchinson c. Regno Unito, §§42-45. Senza citare il caso Marcello Viola c. Italia (n. 2), del resto, la centralità della rieducazione quale declinazione della stessa dignità della persona è stata di recente ribadita dai giudici di Strasburgo nelle decisioni Sez. IV, 12 marzo 2019, Petukhov c. Ucraina, §181, nonché Sez. III, 2 giugno 2020, N.T. c. Russia, §§38-41. 6 Corte costituzionale, 26 febbraio 2020, n. 32, §4.4.1. Sul punto, si rinvia a V. MANES-F. MAZZACUVA, Irretroattività e libertà personale: l'art. 25, secondo comma, Cost., rompe gli argini dell'esecuzione penale, in Dir. pen. cont.-Riv. trim., 1, 2020, 32. 7 Ivi, §4.4.3. 8 Quanto alla possibilità di inquadrare i permessi premio all’interno del programma di trattamento quale istituto a «carattere polifunzionale», si rinvia alle riflessioni di F. FIORENTIN, sub Art. 30-ter, in F. DELLA CASA-G. GIOSTRA, Ordinamento penitenziario commentato, Cedam, Padova 2019, 422 s. 9 Si rinvia alle riflessioni formulate da G. GIOSTRA, Verso un’incostituzionalità prudentemente bilanciata? Spunti per una discussione, in questo stesso volume. 10 La Corte di Strasburgo, del resto, ha chiarito che «una presunzione legale di pericolosità può essere giustificata, in particolare quando non è assoluta, ma si presta ad essere contraddetta dalla prova contraria» (Sez. I, 6 novembre 2003, Pantano c. Italia, §69, come poi ribadito in Marcello Viola c. Italia (n. 2), cit., §131). 11 Corte costituzionale, 4 dicembre 2019, n. 253, §9. 12 Corte costituzionale, 6 dicembre 2019, n. 263. 226 Alessandra Santangelo allo stesso giudizio di pericolosità qualificata pur a fronte dei medesimi fatti di reato. Pertanto, ove i giudici costituzionali dovessero confermare tale indirizzo in relazione alla previsione di cui all’art. 176 c.p., il divario tra i rimedi proposti in action per correggere l’ordinamento penitenziario di adulti e minori verrebbe a delinearsi con maggiore nettezza. Sicché, mentre la continuità temporale tra i due enunciati normativi esclude l’ipotesi di un difetto di coordinamento tra le pronunce, rimane da indagare la ratio che legittima una simile disparità interpretativa. Sul punto, è noto, la Corte costituzionale ha compiuto sforzi considerevoli per contrastare la “parificazione” normativa tra le due categorie di autori, attingendo alla lettura combinata degli articoli 27, comma 3, e 31, comma 2, Costituzione. Il risultato di tale lungimirante operazione ermeneutica mira, invero, ad assicurare la «individualizzazione del trattamento punitivo» nonché la «preminenza della finalità rieducativa»13 allo scopo di favorire il primo inserimento dei minori devianti nel contesto sociale. Tuttavia, anche con riguardo al modello penitenziario riservato ai detenuti adulti, il principio rieducativo costituisce ad oggi un «imperativo costituzionale» che non può essere sacrificato «sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena»14. La valorizzazione della dignità umana in fase detentiva si traduce nel rilievo che la personalità del detenuto, a prescindere dalla età, «continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento»15, da attuarsi attraverso la promozione di schemi trattamentali individualizzati nonché attraverso il divieto di regressione incolpevole del regime penitenziario. Pertanto, ancorché il dettato costituzionale riservi «una speciale protezione per l’infanzia e la gioventù»16, è possibile riscontrare direttrici comuni che attraversano entrambi i modelli, in linea con il primato riconosciuto alla rieducazione da parte della più recente giurisprudenza europea. Ne discende la necessità di chiarire se, a fronte del medesimo fatto di reato, l’aggravio normativo imposto all’ordinamento penitenziario degli adulti si giustifichi solo in ragione della garanzia di cui all’art. 31, comma 2, Costituzione, o, piuttosto, persegua una ratio differente. D’altro canto, una simile esigenza di coerenza sistematica si ritrova nella relazione da ultimo depositata dalla Commissione parlamentare antimafia alle Camere: seppur in termini piuttosto laconici, si auspica, infatti, il coordinamento tra la disciplina di cui all’art. 4-bis ord. penit., il decisum della sentenza n. 253/2019 e quanto ancora da decidere in tema di liberazione condizionale17, rivelando in filigrana l’essenziale contributo sistematico che può essere offerto dalla pronuncia a venire. 3. Tale relazione, del resto, si occupa di prospettare un possibile dualismo normativo con riguardo al regime di prova rafforzato – introdotto dal giudice delle leggi per i permessi premio – a seconda che venga in rilievo una fattispecie 13 Ivi, §3.1 s., ove i giudici richiamano, a chiare lettere, la decisione n. 168/1994. Corte costituzionale, 11 luglio 2018, n. 149, cit., §7. 15 Ibidem. 16 Corte costituzionale, 6 dicembre 2019, n. 263, cit., §3.2. 17 Relazione sull’istituto di cui all’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, disponibile all’indirizzo www.senato.it, 36. 14 Ergastolo ostativo e liberazione condizionale 227 plurisoggettiva oppure una tra le ipotesi di reato successivamente inserite dal legislatore nel catalogo di cui all’art. 4-bis ord. penit.18. Il progressivo dilagare di tale disciplina particolarmente restrittiva, infatti, è giunto a coinvolgere categorie disparate di reati, finanche in assenza di qualunque connessione con le organizzazioni di stampo mafioso, terroristico o eversivo il cui peculiare disvalore giustificava, almeno nella versione originaria, l’aggravio trattamentale. Ebbene, proprio riguardo alla formulazione astratta del novero dei reati ostativi, si rinvengono due linee interpretative difficili da armonizzare. Su un primo versante, trova legittimazione un paradigma che ostracizza particolari “tipi di autore” per i quali, attribuendo nuovo vigore alla preoccupazione espressa tempo addietro dagli stessi giudici costituzionali, «la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita»19. In merito, infatti, la discrezionalità legislativa è stata riconosciuta conforme a Costituzione allorché «determinate categorie di detenuti o internati si presum[a]no socialmente pericolosi unicamente in ragione del titolo di reato»20 allo scopo di placare l’allarme sociale avvertito dalla comunità di riferimento. Per contro, su un secondo versante, sia la giurisprudenza convenzionale21 sia – almeno in parte – quella costituzionale22 hanno chiarito che il mero titolo di reato non assurge a indicatore che possa, di per sé, giustificare l’annientamento della dignità della persona detenuta cui è da riconoscere quanto meno la speranza di riacquistare un giorno la propria libertà. Se una simile affermazione vale con riferimento alle fattispecie dotate di maggiore disvalore, come accade per i reati connessi alle associazioni di stampo mafioso23, non si vede come sia possibile – a fortiori – non estendere tali conclusioni a incriminazioni meno offensive, il cui inserimento nell’art. 4-bis ord. penit., ha generato un «complesso, eterogeneo e stratificato elenco di reati»24. Ne discende che, se il mero titolo di reato non è sufficiente, in quanto tale, a giustificare l’aggravio normativo, la legittimità del catalogo ostativo appare quanto meno dubbia non solo sulla base del giudizio triadico di ragionevolezza bensì pure considerando la razionalità intrinseca dei più recenti interventi legislativi tesi ad ampliarne la portata applicativa. Riprova ne sia il fatto che il sospetto di irragionevolezza dell’elenco ex art. 4-bis ord. penit., è stato portato all’attenzione del giudice delle leggi rispetto sia ai reati contro la pubblica amministrazione sia all’ipotesi di cui all’art. 12, commi 1 e 3, t.u. immigrazione. A dispetto della soluzione contingente che si è imposta in entrambi i casi25, è verosimile che la Corte 18 Ivi, in particolare 31 ss. Corte costituzionale, 7 agosto 1993, n. 306. 20 Corte costituzionale, 18 luglio 2019, n. 188, §3. 21 Corte EDU, Marcello Viola c. Italia (n. 2), cit., §130. 22 Corte costituzionale, 11 luglio 2018, n. 149, cit., §7. 23 La gravità del titolo di reato per cui era stato condannato Marcello Viola è, del resto, uno degli argomenti centrali della opinione dissenziente (§1) del giudice Krzysztof Wojtyczek che rimane, tuttavia, nettamente minoritaria in seno al collegio decidente. 24 Corte costituzionale, 4 dicembre 2019, n. 253, cit., §12. 25 In entrambi i casi, infatti, la Corte ha ritenuto necessario restituire gli atti ai giudici a quibus in ragione del mutato assetto normativo: si vedano, rispettivamente, le ordinanze 11 marzo 2020, n. 49, e 30 luglio 2020, n. 183. 19 228 Alessandra Santangelo costituzionale si troverà di nuovo a fronteggiare simili questioni: la già menzionata relazione della Commissione parlamentare antimafia, del resto, nel descrivere il “doppio binario” in relazione al regime probatorio dei reati ostativi conferma indirettamente la volontà di conservare l’assetto attuale del catalogo. Pertanto, appare decisivo chiarire quale sia il fondamento della disciplina ostativa e, nel dettaglio, se sia possibile per il legislatore escludere, a monte, l’applicazione del principio rieducativo per tipi di autore percepiti come particolarmente pericolosi – in base a inafferrabili pulsioni dettate dall’allarme sociale – oppure se le ragioni di prevenzione generale siano da ritenere, in ogni caso, subordinate così da evitare indebite strumentalizzazioni del singolo per finalità di carattere collettivo26. D’altronde, che il raccordo tra i due percorsi interpretativi sia piuttosto complesso si evince da un obiter dictum della stessa Corte costituzionale: chiamati una seconda volta a esaminare una questione sostanzialmente analoga a quella decisa dalla pronuncia n. 188/2019, i giudici avvertono l’esigenza di precisare che l’impianto argomentativo prospettato dal giudice a quo è «del tutto diverso da quell[o] che ha ispirato le questioni di legittimità costituzionale accolte da questa Corte nella citata sentenza n. 253/2019»27. È in questa direzione, allora, che la decisione imminente può fornire un contributo decisivo per risolvere gli interrogativi tuttora aperti. Considerando il rilievo degli interessi in gioco, occorre sgombrare il campo da incertezze sulla funzione che legittima la disciplina ostativa così da assicurare coerenza allo statuto penitenziario e, al contempo, definire, a prescindere dal carattere perpetuo o meno della sanzione, quale utilità possa ricavare dall’art. 4-bis ord. penit., un ordinamento senz’altro incentrato sul rispetto della dignità della persona. 26 Si veda, sul punto, L. CARACENI, sub Art. 4-bis, in F. DELLA CASA-G. GIOSTRA, Ordinamento penitenziario commentato, cit., 47. 27 Corte costituzionale, 12 marzo 2020, n. 52, §3.2. L’ERGASTOLO OSTATIVO TRA DIRITTO E RAGION DI STATO di ORLANDO SAPIA SOMMARIO: 1. La questione di legittimità al vaglio della Corte costituzionale – 2. La costituzionalizzazione dell’ergastolo e il regime dell’ostatività – 3. Ostatività, tolleranza zero e ruolo dello Stato – 4. Tra diritto penale massimo e diritto penale del nemico – 5. La giurisprudenza ed i recenti indirizzi: Corte costituzionale, sentenze nn. 149/2018 e 253/2019; Corte EDU, sentenza Viola c. Italia n.2. – 6. L’art. 4-bis ord. penit., e il circuito penitenziario differenziato. 1. La questione di legittimità rimessa dalla Corte di Cassazione, I Sezione, con ordinanza del 3 giugno 2020 alla Corte costituzionale ha ad oggetto le disposizioni di cui agli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter, legge n. 354/ 1975 e art. 2, decreto legge n. 152 del 1991 convertito in legge n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possa godere della liberazione condizionale, salvo il caso in cui sia avvenuta la collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter della medesima legge o, in alternativa, l’accertamento dell’impossibile o inesigibile collaborazione. Visto, nel caso oggetto di rimessione alla Corte costituzionale, l’essersi formato il c.d giudicato esecutivo di segno negativo in ordine all’impossibile e/o inesigibile collaborazione, la circostanza della mancata collaborazione ha precluso il vaglio di quanto dedotto nel merito, a sostegno della richiesta di liberazione condizionale, da parte del ricorrente. Con ciò, si è elevata la presenza o meno della collaborazione a criterio, da un lato, esclusivo al fine di vagliare l’assenza di legami con l’ambiente criminale di appartenenza e, dall’altro, escludente rispetto ad altri elementi che in concreto potrebbero essere validi al fine di valutare la presenza dei sopraddetti legami criminali e, quindi, escludere la pericolosità sociale del condannato. Ne consegue che l’esistenza di preclusioni assolute alla valutazione/concessione della liberazione condizionale realizza, pur laddove vi siano progressi del condannato in termini di risocializzazione, una violazione del dettato costituzionale in riferimento agli artt. 3, 27 e 111 Cost. La Corte di Cassazione nell’ordinanza di rimessione, anche sulla scia della recente giurisprudenza convenzionale (Corte EDU, Viola c. Italia n. 2) e costituzionale (sentenza n. 253/2019) ha ritenuto la quaestio rilevante e non manifestamente infondata, dal momento che le vigenti disposizioni realizzano «una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e progressività del trattamento» che cedono il passo alle finalità di politica criminale e di difesa sociale, egemoni rispetto al principio della finalità rieducativa della pena che – come riconosciuto dalla sentenza n. 313/1990 – è «una delle qualità essenziali e generali Avvocato, Responsabile dell’Osservatorio Carceri della Camera penale “Alfredo Cantìfora”di Catanzaro.  230 Orlando Sapia che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e, l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue». Ancora una volta si pone un confronto tra principi sottostanti ad istituti giuridici posti a tutela di differenti e, forse, antitetici interessi sociali, prima, e beni giuridici, dopo. Da una parte le ragioni dello Stato nell’esercizio del potere legittimo della forza, dall’altra le ragioni del cittadino nel pretendere che questo esercizio legittimo della forza non sia egemonizzato dalle esigenze di sicurezza sociale, ma trovi il suo baricentro nella funzione di rieducazione/ risocializzazione della pena. 2. L’ostatività ai benefici penitenziari e l’ergastolo ostativo costituiscono uno di quei casi in cui lo stato d’eccezione diventa regola. Un istituto giuridico nato in un tempo di emergenza, che non solo ha continuato a vivere sino ad oggi, ma continua ad allargarsi a dismisura. Tant’è che, paradossalmente, potrebbe essere più semplice domandarsi quali siano i reati per cui non è prevista l’ostatività per la concessione dei benefici penitenziari, piuttosto che elencare i cc.dd. reati ostativi, vista la crescita esponenziale nel corso degli anni di quest’ultima categoria. Allorquando si vieta l’accesso ai benefici penitenziari (salvo il ricorrere della collaborazione ex art. 58-ter ord. penit. o della collaborazione impossibile/oggettivamente irrilevante) a soggetti condannati alla pena dell’ergastolo, si entra in contrasto con quel percorso di costituzionalizzazione della pena perpetua che in Italia si è iniziato a realizzare con l’introduzione della liberazione condizionale per i condannati all’ergastolo nel 1962, per poi continuare con le disposizioni dettate dalla riforma penitenziaria del 1975 e dalla miniriforma Gozzini del 1986. Tale cammino normativo ha reso l’ergastolo una pena ad esecuzione progressiva, in cui sono previste varie finestre che, nel caso di successo nell’opera di rieducazione, si possono aprire, fino a giungere in presenza del sicuro ravvedimento alla liberazione condizionale, oggetto della questione di legittimità al vaglio della Corte. Di fatto ed in diritto, avviene che il regime dell’ostatività di cui all’art. 4-bis ord. penit., per i condannati all’ergastolo ripristina una disciplina che è quella anteriore al 1962, così riprendendo i connotati della pena perpetua, come concepita dal legislatore del 1930, con ciò in aperto contrasto al lungo e tortuoso percorso di costituzionalizzazione del diritto penale e della funzione della pena. 3. È probabile che il sistema dell’ostatività e l’ergastolo ostativo non siano solo il frutto di una emergenza che si è protratta oltre i limiti dovuti ed in violazione della Carta costituzionale, ma costituiscano un nuovo modo di intendere la funzione dello Stato. Uno Stato che diviene minimo nella funzione di welfare, nella sua funzione sociale, per divenire massimo nella funzione securitaria. Ciò comporta una crescita esponenziale del ruolo del diritto penale, non più inteso come extrema ratio, non più concepito come uno degli strumenti di governo del conflitto sociale, ma come L’ergastolo ostativo tra diritto e ragion di Stato 231 lo strumento principale, soprattutto durante l’eterna campagna elettorale per l’attrazione del consenso. In ordine a tale mutamento strategico dello Stato e dei suoi apparati, scriveva Norberto Bobbio: «L’accusa che il neoliberalismo muove allo stato del benessere non è soltanto quella di aver violato il principio dello Stato minimo ma anche di aver dato vita a uno Stato che non riesce più a svolgere la propria funzione, che è quella di governare (Stato debole). L’ideale del neoliberalismo diventa allora quello dello Stato insieme minimo e forte»1. 4. Così il diritto penale si agita tra la forma del diritto penale massimo, ossia la sua implementazione che consiste nella creazione di sempre nuove fattispecie, spesso non necessarie, e l’aumento degli edittali delle pene, la cui diretta conseguenza è rappresentata dalla vertiginosa crescita, avvenuta nel corso degli ultimi trent’anni, della popolazione detenuta e coinvolta nell’esecuzione penale, e il diritto penale del nemico, ossia la creazione di istituti giuridici il cui obiettivo è chiaramente la neutralizzazione di alcune categorie di rei, non certo il recupero degli stessi. Chiaramente, la neutralizzazione del reo cede il passo dinanzi alla prospettiva del recupero degli elementi info-investigativi, necessari per il successo delle inchieste, in una realtà di sistema penale sempre più votato alla “lotta” che all’accertamento dei fatti e all’eventuale irrogazione/esecuzione di pene conformi alla Costituzione. La pratica di differenziazione del diritto penale, sino a giungere ad un diritto penale del nemico accanto a quello del cittadino, è fondamentalmente una tipologia aggiornata del diritto penale per “tipo d’autore”. In questa direzione, si inseriscono quegli istituti giuridici, presenti in quasi tutti i paesi europei, che rispetto alla criminalità di natura terroristica/eversiva e al crimine organizzato comportano il venir meno del sistema, generalmente riconosciuto, di garanzie in campo penale, processuale e penitenziario. 5. Nonostante il divieto di cui all’art. 4-bis ord. penit. sia stato salvato più volte dalla Consulta, nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un’inversione di tendenza da parte della giurisprudenza costituzionale. Ci si riferisce alla sentenza n. 149/2018, dove si ha la prima pronuncia di illegittimità costituzionale riguardante direttamente una forma di ergastolo ostativo, quella prevista dall’art. 54-quater ord. penit. Una tipologia di ergastolo, peraltro, che, riferendosi ad una ristretta cerchia di detenuti, si pone, perlomeno sotto il profilo numerico, ai margini del sistema penitenziario (trattasi dei condannati per i delitti di cui agli articoli 289-bis e 630 c.p., che abbiano cagionato la morte del sequestrato). A supporto della propria pronuncia, la Corte adduce argomenti che involvono contestualmente i principi di eguaglianza e di rieducazione del reo (artt. 3 e 27 comma 3 Cost.), valorizzando in modo particolare il secondo principio. Ciò in continuità con la storica sentenza n. 313/1990 della Corte costituzionale in tema 1 N. BOBBIO, Il Futuro della democrazia, RCS, Milano 2011, 141. 232 Orlando Sapia di funzione della pena. Importantissime sono anche le pronunce da parte della Corte EDU; tra queste la recente sentenza nel procedimento Viola c. Italia n. 2, in cui la Corte ha condannato lo Stato italiano per trattamenti inumani e degradanti, quindi in violazione dell’art. 3 CEDU, proprio nel caso dell’ergastolo ostativo a carico del ricorrente Viola. In particolare, la Corte EDU in sentenza afferma: «la Corte dubita della libertà della predetta scelta e anche dell’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato». Si prende, in tal senso, in considerazione la possibilità che la scelta della mancata collaborazione possa dipendere da altri fattori, ad esempio il timore di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei prossimi congiunti, e non sia necessariamente sintomatica di un’adesione ai valori del consorzio criminale o di rifiuto del percorso rieducativo. Così stando le cose l’ergastolo c.d. ostativo priva i condannati, in caso di assenza di collaborazione, di qualsivoglia prospettiva di rilascio e di riesame della pena, così divenendo “l’ergastolo senza speranza”. Gli effetti della sentenza Viola comportano a carico dello Stato italiano l’obbligo di porre fine alla causa della violazione dell’art. 3 CEDU e, quindi, «di attuare, di preferenza per iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione dell’ergastolo, che garantisca la possibilità di riesame della pena; cosa che permetterebbe alle autorità di determinare se, nel corso dell’esecuzione della pena, vi è stata una evoluzione del detenuto e se è progredito nel percorso di cambiamento». In questo solco è da inquadrare la sentenza della Corte costituzionale n. 253/2019 in cui è stata dichiarata «l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che ovvio il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo». 6. L’art. 4-bis ord. penit. è la norma baricentro di un circuito differenziato. Essa traccia un perimetro nel quale si può subire l’esclusione, totale o parziale dei benefici penitenziari (misure alterative, permessi premio, lavoro all’esterno) e della liberazione condizionale. Tale norma descrive varie categorie di detenuti in virtù del reato per cui scontano la pena e crea un sistema di cerchi concentrici, ognuno dei quali rappresenta un differente livello di sottrazione/limitazione dei diritti, sino a giungere al livello di garanzia zero, ovverosia nessun diritto garantito, che è in definitiva la condizione che subisce chi è recluso in regime di 41-bis ord. penit. In sostanza gli artt. 4-bis, 41-bis, 58-ter ord. penit. e altre disposizioni sparse nell’ordinamento penitenziario compongono un capo non scritto apertamente, ma in concreto esistente, ovverosia il circuito penitenziario differenziato2. 2 T. PADOVANI, La pena carceraria, Pisa University Press, Pisa 2015, 297 ss. L’ergastolo ostativo tra diritto e ragion di Stato 233 La creazione di tale circuito penitenziario differenziato pone chiaramente un problema rispetto alla garanzia dei diritti dei detenuti e alla funzione rieducativa della pena, soprattutto nel caso della condanna all’ergastolo. Difatti, nel caso in cui il soggetto condannato alla pena perpetua non collabori e non sia in grado di fornire prova in ordine alla propria “incolpevole” mancata collaborazione (perché magari conseguenza di altri fattori, quali il timore di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei prossimi congiunto), resta comunque bloccato nel vicolo cieco dell’art. 4-bis e delle preclusioni che ne scaturiscono, pur non essendo la scelta di non collaborare necessariamente sintomatica di un adesione ai valori del consorzio criminale o di rifiuto del percorso rieducativo. Ne discende che per garantire la conformità convenzionale e costituzionale della normativa, oggetto della questione di legittimità, la presunzione dell’equivalenza tra mancata collaborazione e pericolosità sociale, o tra la prima e l’assenza del sicuro ravvedimento, deve necessariamente caratterizzarsi in termini di relatività; così garantendo in concreto la possibile valutazione della prova in ordine alla pericolosità sociale, da un lato, e al sicuro ravvedimento, dall’altro. Si tratterebbe di una pronuncia di civiltà a garanzia dello stato di diritto. È di tutta evidenza che le ragioni giustificatrici dell’attuale regime differenziato sono estranee alla funzione costituzionalmente riconosciuta della pena, venendo ad incidere pesantemente sulle condizioni detentive per scopi estranei al sistema penitenziario. Le finalità perseguite, in verità, appaiono ben diverse da quelle consacrate nel dettato costituzionale: istituzionalizzando, al di là dei limiti dell’emergenza, ed implementando a dismisura il regime differenziato, da un lato si mira a tranquillizzare l’opinione pubblica, creando un senso di maggiore e solo apparente sicurezza, dall’altro si tenta di sollecitare condotte collaborative in detenuti che soffrono la sospensione delle regole trattamentali e, quindi, una considerevole compressione di diritti garantiti dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali. CALA IL SIPARIO SULL'ERGASTOLO OSTATIVO? BREVI RIFLESSIONI SU UNA PENA NON CONFORME AI CANONI COSTITUZIONALI di EMANUELE SYLOS LABINI SOMMARIO: 1. L'ergastolo ostativo ai tempi del populismo securitario – 2. Il punto di partenza: la sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale – 3. Il punto di non ritorno: la sentenza Viola c. Italia (n.2) del 2019. 1. Nella stagione del populismo penale, il primato della sanzione è il tema ricorrente che domina gli aspri dibattiti pubblici, ove si alternano le voci degli esponenti di più forze politiche, i cui programmi sovente sono improntati alla ricerca spasmodica di un consenso popolare, attraverso politiche criminali per certi versi illusorie improntate al rigore punitivo. Invero, nella odierna società “liquida”, dominata dalla paura e dall'insicurezza, il popolo esasperato e con un'emotività trasbordante definisce ogni situazione in termini emergenziali e direziona le decisioni politiche verso la rassicurazione sociale che, per apparire effettiva, si deve caratterizzare per la durezza delle misure, eccedendo così i limiti del sistema penale liberale1. In questo clima dominato da un accanito “moralismo punitivo”2, si assiste inesorabilmente a sfilate di importanti leader politici, i quali accentrano la loro azione di governo sagomandola sui sondaggi, cavalcando il malcontento popolare attraverso l'utilizzo di politiche di emergenza, incentrate sulla severità della pena e sull'effettività della sua espiazione. In un tale contesto, l'idea del carcere come panacea di tutti i mali viene sbandierata brutalmente, finanche attraverso l'utilizzo di beceri slogan propagandistici, quali “chi sbaglia paga”, “buttiamo via le chiavi” o peggio ancora, “i delinquenti devono marcire in galera”. Il principio di legalità viene reinterpretato (rectius: travisato) in certezza della pena intesa come carcere3; di talché, come sostenuto da autorevole dottrina, la sola preoccupazione governativa diviene quella di esibire una muscolatura sanzionatoria, che ovviamente non risolve alcuna emergenza, ammesso che ne esista una, ma che ha il vantaggio di ostentare, a costo zero, una sollecita attenzione per le preoccupazioni dei cittadini-elettori4.  Avvocato del Foro di Bari. In questi termini A. CERETTI, R. CORNELLI, Il diritto a non avere paura. Sicurezza, populismo penale e questione democratica, Dir. pen. e proc., 2019, 1487. 2 L'espressione è di F. PALAZZO, Un “nuovo corso” della Corte costituzionale, in Cass. pen., 2019, 2399. 3 Cfr. D. PULITANÒ, Sicurezza e diritti. Quale ruolo per il diritto penale?, in Dir. pen. e proc., 2019, 1546. 4 Cfr. G. GIOSTRA, Un grande futuro dietro alle spalle. Qualche riflessione introduttiva, in AA. VV., La riforma penitenziaria: novità e omissioni del nuovo “garantismo” carcerario, Giappichelli, Torino 2019, XIV. 1 Cala il sipario sull'ergastolo ostativo? 235 Nel complesso, non è agevole procedere all'individuazione dei motivi per i quali si è giunti, nel giro di pochi anni, ad una così radicale involuzione delle politiche criminali; peraltro, questa non appare la sede appropriata per affrontare considerazioni lato sensu sociologiche. Pur tuttavia, per quel che qui più interessa, è indubbio come il vento della demagogia populista abbia soffiato sulle scelte operate dal legislatore delegato della riforma penitenziaria, alla ricerca di una soluzione di compromesso tra due diverse linee di pensiero: una volta alla conservazione del primato del carcere in funzione di neutralizzazione del condannato; l'altra, al contrario, aderente agli obiettivi di semplificazione delle procedure di accesso alle misure alternative. La preferenza per la prima ha rappresentato il tramonto di un'ideale, quello di un trattamento penitenziario che guarda al futuro, improntato sugli eventuali progressi del condannato, in perfetta aderenza a quanto delineato dal terzo comma dell'art. 27 Cost. Tanto premesso, non è possibile ipotizzare, francamente, in che misura il quadro particolarmente ostile appena abbozzato, influenzerà o meno la decisione dei giudici della Consulta, chiamati dopo ormai più di un decennio a vagliare la legittimità costituzionale di un sistema che parte della dottrina pone in discussione da diverso tempo5. Senonché, preso atto della demagogia populistica che contraddistingue l'attività del legislatore contemporaneo, a cui si accompagnano le aspre campagne mediatiche di disinformazione orientate alla demonizzazione sia della pronuncia della Corte EDU nel caso Viola (n.2), sia della recente sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale6, è auspicabile che a sbrogliare la matassa sia proprio il Giudice delle leggi, sulla scorta del dialogo fecondo tra Corte nazionale e Corte europea. 2. Come evidenziato nell'ordinanza di rimessione, le argomentazioni contenute nelle su menzionate sentenze costituiscono un importante banco di prova su cui verificare se possa ancora dichiararsi valido il pregresso orientamento della Corte di Cassazione, che uniformandosi alle indicazioni date anni prima dalla Consulta (sentenza n. 135/2003), ha ritenuto manifestamente infondata la questione ora in rilievo7. Ad ogni modo, diversi sono i profili che meritano approfondimento e che consentono di ritenere superabile tale orientamento. Il punto di partenza può individuarsi nella coraggiosa sentenza n. 253/2019, con la quale la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del regime speciale di cui all'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., nella parte in cui non consente 5 Cfr. Corte costituzionale, n. 135/2003, ove venne dichiarata l'infondatezza di analoga questione. A parere della Consulta, la preclusione di cui all'art. 4-bis ord. penit., subordinando l'ammissione della liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia, che è rimessa alla scelta del condannato, non preclude in modo assoluto e definitivo l'accesso al beneficio. Cosicché, l'ergastolo ostativo non è de jure una pena perpetua. 6 Cfr., tra gli altri, la petizione online lanciata da Il Fatto Quotidiano il 31 ottobre 2019, in un momento in cui non si conoscevano ancora le motivazioni della sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale, che peraltro sarebbero state depositate “solo” il 4 dicembre 2019. 7 Cfr. Cass. pen., Sez. I, 17 gennaio 2017, n. 7428, Rv. 271399; Cass. pen., Sez. I, 22 marzo 2016, n. 27149, Rv. 271232. 236 Emanuele Sylos Labini che ai detenuti condannati per i reati ostativi possano essere concessi permessi premio, anche in assenza di utile collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter ord. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Ora, come già ipotizzato in dottrina, muovendo dalle argomentazioni proposte in detta sentenza, il Giudice delle leggi potrebbe pervenire all'accoglimento della quaestio per violazione degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., con possibile estensione, in via consequenziale, della dichiarazione di illegittimità costituzionale a tutti gli altri reati inclusi nel catalogo dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit.8. D'altronde, come più volte valorizzato dalla stessa Corte, quello trattamentale è un percorso costruito a tappe, il cui primo stadio è rappresentato dal beneficio del permesso premio, quello finale dalla liberazione condizionale, quale causa estintiva della pena9. L'ergastolo ostativo, dunque, vietando la concessione di tutti i principali strumenti che caratterizzano la progressione trattamentale, delinea un regime rigido, che non consente alcun vaglio specifico da parte dell'autorità giudiziaria – nemmeno in ordine alle ragioni per le quali il condannato abbia scelto di non collaborare –, bloccando, di fatto, la valorizzazione del percorso intramurario del condannato. Da tale assunto, ne consegue la violazione del combinato disposto degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost. Ebbene, anche alla luce della recente evoluzione della giurisprudenza costituzionale, quanto appena evidenziato consente di decretare l'insostenibilità di un sistema, ove la mancata collaborazione con la giustizia si risolve sostanzialmente in un aggravamento delle modalità di esecuzione della pena. Ciò nonostante, deve espressamente ribadirsi come non sia la presunzione in sé stessa a risultare costituzionalmente illegittima, atteso che, nel caso in cui il condannato decida di non collaborare, non appare irragionevole presumere il mantenimento dei collegamenti tra il suddetto e l'organizzazione criminale. Ex adverso, a contrastare con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., è una disciplina che assegni carattere assoluto a tale presunzione, improntata all'equazione “collaborazione=volontà di reinserimento sociale del reo”, la quale non ammetta una prova contraria. In tale prospettiva, così come avvenuto per i permessi premio, non sembra irragionevole ritenere che la Corte possa intervenire sulla presunzione di permanenza del vincolo associativo in caso di mancata collaborazione, trasformandola da assoluta in relativa, poiché unica costituzionalmente compatibile con gli obiettivi di prevenzione speciale e gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena. A questo punto, però, è ipotizzabile che la Consulta, seguendo il ragionamento espletato nella sentenza n. 253/2019, estenda alla disciplina in analisi i criteri di particolare rigore gravanti sul richiedente i permessi premio. In quest'ottica, quindi, sarebbe errato affermare che la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora possa essere superata prendendo in considerazione soltanto la dichiarazione di dissociazione, ovvero la regolare condotta carceraria, o ancora la mera partecipazione al percorso rieducativo. 8 9 Cfr. M. RUOTOLO, L'ergastolo ostativo è costituzionale?, in questo stesso volume. Cfr. Corte costituzionale, sent. n. 229/2019 e sent. n. 149/2018. Cala il sipario sull'ergastolo ostativo? 237 Tuttavia, seguendo tale linea di pensiero, vi è il concreto rischio che l'obbligo di allegazione delle prove contrarie dirette ad escludere sia l'attualità dei collegamenti con il sodalizio di appartenenza, sia il pericolo di un loro ripristino, che incombe sullo stesso detenuto, possa trasformarsi in una sorta di probatio diabolica. Il riferimento va a quei casi in cui, a seguito del parere negativo rilasciato dalle autorità competenti, incombe in capo all'interessato l'onere di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno della richiesta, idonei a contrastare quanto fornito dagli organi appena richiamati. 3. Se, dunque, il punto di partenza da cui prendere le mosse per una dichiarazione di incostituzionalità dell'ergastolo ostativo può individuarsi nella citata sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale, fuor di dubbio, quello di non ritorno è rappresentato dai principi espressi dalla Corte EDU nella sentenza Viola c. Italia (n. 2). Ne consegue che la Consulta, nell'esaminare la quaestio legitimitatis presentata dalla Corte di Cassazione, dovrà tener conto non solo degli ultimi orientamenti della giurisprudenza interna, ma altresì dell'interpretazione evolutiva e definitiva dell'art. 3 CEDU accolta dalla giurisprudenza sovranazionale, in relazione alla violazione del parametro costituzionale di cui all'art. 117, comma 1, Cost. Com'è noto, il 13 giugno del 2019 sono state depositate le motivazioni della sentenza con la quale i giudici europei hanno sancito l'incompatibilità dell'istituto dell'ergastolo ostativo con l'art. 3 CEDU, poiché viola il principio della dignità umana. La pronuncia de qua, divenuta definitiva il 7 ottobre 2019, in ragione della dichiarata inammissibilità dell'inutile referral proposto dal Governo italiano, ha certificato un «problema strutturale», legato alla sussistenza all'interno del nostro ordinamento di una presunzione iuris et de iure di immutata pericolosità – superabile esclusivamente attraverso la collaborazione con la giustizia –, che impedisce al detenuto l'accesso ai benefici penitenziari, rendendo, di fatto, la pena perpetua un “ergastolo senza fine”. Orbene, la mortificante condanna dell'Italia avvenuta da parte della Corte EDU è stata foriera di un aspro dibattito interno, in ordine alla prospettiva di un futuro mutamento del sistema penitenziario. La questione è emersa già l'indomani dell'affaire Viola c. Italia, i cui principi avrebbero potuto (rectius: dovuto) rappresentare l'input per la realizzazione di una “rivoluzione copernicana”, orientata al superamento dell'ergastolo ostativo, la cui incompatibilità con l'art. 3 CEDU ne aveva tratteggiato, come appunto prima accennato, un punto di non ritorno. Pertanto, se risulta necessario un intervento legislativo, al riguardo, occorre evidenziare come non si tratti di sostenere una battaglia abrogazionista dell'ergastolo10, quanto, più semplicemente, di favorire ogni tentativo di reductio ad Constitutionem di un istituto piuttosto controverso, presente solo nell'ordinamento italiano. Lo scopo è quello di garantire all'ergastolano ostativo 10 In questi termini F. FIORENTIN, Il passo coraggioso che ancora resta da compiere, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di) Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti, in Forum Quad. Cost. – Rassegna, fasc. 10, 2019, 108. 238 Emanuele Sylos Labini quel diritto alla speranza, tutelato dal sistema dei diritti convenzionali, che gli consentirebbe di conoscere sin dal momento dell'inflizione della sentenza di condanna come agire, per poter richiedere in futuro la riduzione della pena. Detta precisazione risulta essenziale, al fine di introdurre il primo dei due aspetti che maggiormente meritano approfondimento. Poggiando prevalentemente su tale precedente, ma più in generale sulla consolidata giurisprudenza europea sul punto, la disposizione censurata appare incostituzionale, giacché introduce una pena perpetua non riducibile che viola l'art. 3 CEDU. Invero, come peraltro riassume il giudice a quo, la Corte EDU ha sempre ammesso la compatibilità convenzionale della pena perpetua, così come configurata anche nel nostro ordinamento, ossia per mezzo di istituti che la rendono sostanzialmente temporanea. Ne consegue che la Convenzione non proibisce la comminatoria dell'ergastolo per crimini particolarmente gravi, a condizione, però, che siano rispettate le garanzie dell'art. 3 CEDU, e sia pertanto riducibile de iure e de facto, attraverso la possibilità di un riesame che consenta di verificare se, durante l'esecuzione, si siano ottenuti significativi progressi trattamentali, in modo tale che nessuna ragione possa giustificare seriamente la prosecuzione della detenzione11. Il principio della «dignità umana» impedisce di privare una persona della sua libertà con la costrizione senza operare, nel contempo, per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà. In buona sostanza, al detenuto spetta il diritto di essere informato, sin dall'inizio dell'esecuzione della pena, in ordine alle modalità e alle condizioni per poter presentare domanda di liberazione condizionale, a prescindere dalla propria scelta di collaborare o meno con la giustizia. Tale affermazione, avvalorata dalla giurisprudenza sovranazionale e costituzionale, si fonda sulla convinzione che la personalità di un condannato non rimanga fissata al momento in cui il reato è stato commesso, potendo evolversi durante la fase di esecuzione della pena, come previsto dalla funzione di risocializzazione, che permette all’individuo di rivedere in maniera critica il proprio percorso criminale e di ricostruire la sua personalità. Ebbene, quanto appena sostenuto consente di introdurre il secondo aspetto su cui vale la pena soffermarsi. In breve, la Corte EDU, nella sentenza Viola c. Italia (n.2) ha poggiato il proprio ragionamento sulla libertà o volontarietà della scelta collaborativa che accompagna l'ergastolano ostativo nella fase esecutiva della pena. Sicché, come già brillantemente osservato in dottrina12, non può allora negarsi rilevanza ad una questione che deve essere affrontata non solo dal punto di vista giuridico, ma seguendo anche un approccio sociologico e che deve fornire una risposta ad un semplice quesito: siamo davvero convinti che solo la scelta di collaborare con la giustizia esprima con certezza la volontà di emenda del reo? 11 Cfr. Corte EDU, 12 marzo 2019, Petukhov c. Ucraina; Corte EDU, 17 gennaio 2017, Hutchinson c. Regno Unito; Corte EDU, Grande Camera, 26 aprile 2016, Murray c. Paesi Bassi; Corte EDU, 15 dicembre 2015, Gurban c. Turchia; Corte EDU, Grande Camera, 9 luglio 2013, Vinter e altri c. Regno Unito; Corte EDU, Grande Camera, 12 febbraio 2008, Kafkaris c. Cipro. 12 Cfr. D. GALLIANI, Ponti, non muri. In attesa di Strasburgo, qualche ulteriore riflessione sull'ergastolo ostativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 1173. Cala il sipario sull'ergastolo ostativo? 239 Emerge, così, in maniera lapalissiana, il difetto strutturale intrinseco che colpisce il regime ostativo; in buona sostanza, allo stato attuale, considerate le presunzioni assolute stabilite ex lege, all'autorità giudiziaria è precluso esaminare nel merito l'istanza presentata dal detenuto che ambisce ad un differente trattamento penitenziario, perfino allorquando costui abbia dato prova di sicuro ravvedimento. Trattasi di questioni tutt'altro che ipotetiche, che peraltro ineriscono al caso di specie oggetto dell'ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione, su cui la Consulta si dovrà esprimere. Il ricorrente, invero, ha addotto di aver preso parte in modo proficuo all'opera di rieducazione di cui si ha conferma dai provvedimenti di liberazione anticipata; di essersi avvalso con profitto delle possibilità di lavoro e di studio offerte dai programmi di trattamento operativi nei vari istituti di detenzione; di aver conseguito il titolo di agronomo e di essere stato inserito, con risultati positivi, in un progetto agricolo; di aver frequentato assiduamente corsi di studio e di aver partecipato a concorsi letterari con riconoscimento di premi. In aggiunta, ha richiamato i contenuti della relazione di sintesi in cui si dà atto della rivisitazione critica del suo vissuto e dell'avvenuto riconoscimento degli errori commessi, con parziale ammissione delle proprie responsabilità, a cui si aggiunge la volontà di allontanamento dal contesto mafioso. Il quadro appena dipinto, ci porta così a riflettere nella direzione opposta a quella attinente al primo quesito. Sicché, in base ai dati di esperienza, possiamo ancora ritenere che la mancata collaborazione con la giustizia sia il risultato di una scelta libera e volontaria, ma soprattutto, sia indice univoco dell'attualità dei collegamenti con l'organizzazione criminale di appartenenza? A ben guardare, le argomentazioni sostenute dalla Corte EDU ricalcano quelle già svolte dalla Corte costituzionale in epoca anteriore, allorché nella sentenza n. 306/1993, seppur confermando la compatibilità costituzionale dell'ergastolo ostativo, ha affermato che la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, riconoscendo altresì come dalla mancata collaborazione non può trarsi una valida presunzione di segno contrario, ossia che essa sia indice univoco di mantenimento dei legami di solidarietà con l'organizzazione criminale, tanto più, nel caso in cui l'esistenza di collegamenti con quest'ultima sia sta stata altrimenti esclusa. Invero, secondo il canone dell'id quod plerumque accidit, dietro la scelta di non collaborare, possono riscontrarsi svariate motivazioni; ad esempio di natura etica, come il non esporre se stessi e i propri familiari a ritorsioni, ovvero prettamente processuale, quali l'esercizio del diritto al silenzio come legittima esigenza difensiva, al fine di non aggravare la propria posizione. Appare evidente, dunque, che in un sistema così delineato, l'opzione repressiva finisce per relegare nell'ombra il profilo rieducativo, in violazione dell'art. 27, comma 3, Cost. Il parametro della pericolosità sociale del soggetto è scolpito sul momento della commissione del fatto di reato, evidenziando quella tendenza alla configurazione di “tipi d'autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita. Il principio di progressività trattamentale viene sacrificato, a vantaggio esclusivo delle esigenze di difesa sociale – particolarmente avvertite rispetto ad 240 Emanuele Sylos Labini alcune categorie di reati –, che sono a fondamento dell'introduzione della disciplina di cui all'art. 4-bis ord. penit. Di conseguenza, mantenere ancora in vita l'ergastolo ostativo significherebbe “sconfessare” il cambio di rotta – avviato di recente dai giudici costituzionali con la sentenza n. 149/2018 –, ancorato al principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa della pena sull'altare di ogni altra, pur legittima, funzione della stessa. Così facendo, la Corte smentirebbe sé stessa, prima ancora che i giudici di Strasburgo, continuando a trasmettere a chi entra in carcere quel deplorevole tacito avvertimento di dantesca memoria che recita «lasciate ogni speranza voi ch'entrate». «UN PASSO DOPO L’ALTRO», È IN ARRIVO IL KNOCK-DOWN PER LA DISCIPLINA DELL’ERGASTOLO OSTATIVO? di PAOLO VERONESI* SOMMARIO: 1: Le coordinate della quaestio. – 2. La rilevanza che c’è. – 3. A ogni “beneficio” il suo giudizio (di legittimità)? Oppure questa è “la volta buona”? – 4. La “sostanza” della quaestio. – 5. Italia contro CEDU. – 6. Le possibili “prognosi” (comunque “riservate”). 1. Mutatis mutandis, è assai difficile non cogliere la pressoché perfetta sovrapponibilità delle valutazioni (processuali e sostanziali) che la Corte ha fatto proprie nella recente sent. n. 253/20191, con quelle potenzialmente utili a risolvere i profili problematici emergenti dall’ordinanza di rimessione in esame2. A essere in discussione sono, oggi, gli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge n. 354 del 1975, nonché l’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991, convertito nella legge n. 203 del 1991. I parametri utilizzati sono i classici artt. 3 e 27, assieme al senz’altro significativo art. 117 Cost. A parere del remittente, le norme oggetto della quaestio si porrebbero in contrasto con la Costituzione «nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste», e «che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale». Nella sent. n. 253/2019 la Corte ha dichiarato invece l’illegittimità costituzionale dello stesso art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede(va) la concessione dei permessi premio ai detenuti di cui all’art. 416-bis c.p., anche in assenza di collaborazione con la giustizia, ove «siano (…) acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti»3. * Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Ferrara 1 Si rinvia agli atti del Seminario preventivo ferrarese dello scorso anno: G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti, in Forum di Quad. Cost. - Rassegna, n. 10, 2019. Per un’ampia congerie di commenti alla sentenza n. 253/2019, centrale nel panorama delle pronunce sui reati ostativi, si vedano quelli pubblicati al sito www.giurcost.org nello spazio ad essa dedicato. 2 L’ordinanza di rimessione 3-18 giugno 2020 è stata presentata dalla Corte di Cassazione, sez. I pen. 3 Con un’ulteriore dichiarazione di illegittimità conseguenziale la Corte ha dichiarato altresì l’incostituzionalità della stessa norma nella parte in cui escludeva la concessione del beneficio del permesso premio per tutti gli ulteriori reati ostativi. La Corte ribadisce e adatta poi queste sue conclusioni nella successiva sent. n. 263/2019, relativa ai condannati minorenni a pena temporanea: si rinvia al commento di A. PUGIOTTO, Due decisioni radicali della Corte costituzionale in materia di ostatività penitenziaria: le sentenze nn. 253 e 263 del 2019, in www.rivistaaic.it (20 marzo 2020). 242 Paolo Veronesi Nonostante l’obiettiva differenza tra gli istituti coinvolti, i quali senz’altro operano su piani diversi – il permesso premio è un provvedimento pur sempre discrezionale, laddove la liberazione condizionale configura addirittura una causa estintiva della pena legata a più stringenti presupposti4 – le argomentazioni giuridico-costituzionali già adottate nel 2019 e ora eventualmente spendibili per definire la quaestio sotto giudizio appaiono, come si scriveva supra, pressoché identiche. In questa direzione muove altresì la sempre più robusta filiera della giurisprudenza costituzionale tesa a valorizzare la necessaria individualizzazione e personalizzazione della pena. Nel tempo, si sono così potuti abbattere molti automatismi e presunzioni assolute forgiati al fine di bloccare l’applicazione di una pletora di benefici penitenziari, del tutto a prescindere dai risultati effettivamente raggiunti dal reo sul fronte della sua rieducazione e risocializzazione5. Lo stesso “clima” si evince altresì dalla più recente giurisprudenza della Corte EDU, la quale trova nella sentenza Viola c. Italia n.2 un suo più che solenne approdo6. I rimandi e le parentele tra quanto sin qui deciso dalla Corte e quanto rimane ancora da “ricalibrare” – compresa la materia oggi pendente – paiono, insomma, talmente profondi da rendere credibile che venga finalmente portato alle più logiche conseguenze ciò che il Giudice delle leggi è andato sin qui elaborando man mano che abbandonava le sue più risalenti prese di posizione7. La risposta che la Corte appronterà a fronte della quaestio ora in esame potrà, insomma, rappresentare un autorevole (e forse decisivo) passo in avanti nell’opera di assestamento costituzionalmente compatibile dell’intera disciplina dedicata ai reati ostativi. Una sorta di “punto di non ritorno” da declinare poi in numerose altre fattispecie rimaste ancora intonse e il cui destino diverrebbe necessariamente “segnato” (sempre che la Corte non adotti per loro quell’autentico “colpo di grazia” rappresentato dall’illegittimità costituzionale conseguenziale). 4 Sulle diverse caratteristiche dei due istituti si veda la sent. n. 188/1990. È’ peraltro vero che la giurisprudenza costituzionale ha via via messo in luce lo stringente continuum che apparenta i permessi premio, la semilibertà e la liberazione condizionale. Sul punto si veda, nel dettaglio, il §3.4 dell’Amicus Curiae presentato dal Centro Macrocrimes, reperibile in www.amicuscuriae.it, nella sezione dedicata a questo Seminario. 5 Si veda, tra le moltissime, le sentt. nn. 418/1998, 57/2013, 105 e 239/2014, 149/2018, 229/2019 e la già citata 263/2019. 6 Corte EDU, sez. I, 13 giugno 2019, ric. n. 77633/2016, Viola c. Italia n. 2, sulla quale vedi, tra gli altri, M. PELISSERO, Verso il superamento dell’ergastolo ostativo. Gli effetti della sentenza Viola c. Italia sulla disciplina delle preclusioni in materia di reati ostativi, in SIDIBlog 21 giugno 2019 (www.sidiblog.org). Se ne tratterà più oltre. 7 Con riguardo alle passate “chiusure” della Corte costituzionale valga il rinvio, per tutte, alla sent. n. 135/2003. Dopo le più recenti prese di posizione della Consulta e le stesse decisioni della Corte EDU, questa pronuncia ci appare però oggi sin troppo “grossolana” e “semplicistica” nell’escludere ogni vizio di costituzionalità dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., in quanto quest’ultimo, subordinando la concessione della liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia, non precluderebbe in modo assoluto la liberazione del condannato. Se ne accennerà anche infra. «Un passo dopo l’altro», è in arrivo il knock-down? 243 2. In ordine logico, il primo ostacolo da superare concerne il rispetto del pregiudiziale requisito della rilevanza, in assenza del quale – com’è noto – la quaestio sarebbe evidentemente inammissibile (a prescindere dalle sue più o meno convincenti ragioni sostanziali). Nonostante i tentativi di escluderne l’esistenza8, pare invece sostenibile, con buona approssimazione, che la quaestio in discorso non sia affatto priva di tale requisito. È senz’altro vero che l’eventuale dichiarazione d’illegittimità della norma che esclude la liberazione condizionale per gli ergastolani “senza scampo” (e non collaboranti con la giustizia), non assicura per nulla che, nel caso concreto, il beneficio sia infine esteso al richiedente. Tuttavia, desumere da questa circostanza “di fatto” l’inammissibilità della questione prova davvero troppo. La concreta influenza che l’eventuale accoglimento della quaestio produrrà nel giudizio a quo si palesa, appunto, nella circostanza per cui quello stesso giudizio, a seguito di una potenziale decisione d’incostituzionalità, dovrà giocoforza procedere di almeno uno step. L’accoglimento renderà cioè indispensabile che il Magistrato di sorveglianza valuti distesamente (e nel merito) la richiesta del condannato di giovarsi della misura in discussione; senza una simile pronuncia tale sviluppo sarebbe, invece, del tutto precluso e alla domanda del richiedente dovrebbe invece rispondersi, sin da subito, nel senso dell’inammissibilità9. Questo possibile scenario costituisce dunque un’influenza più che tangibile sul percorso processuale del giudizio a quo, la quale troverebbe il proprio “motore” nella decisione richiesta, appunto, alla Corte. Esso evidenzia, insomma, come, in questo caso, possa comunque ritenersi rispettato il requisito della rilevanza assunto sia come applicabilità “allo stato degli atti”10, sia – al contempo – come necessaria influenza che la decisione della Corte produrrà, in caso di accoglimento, nel giudizio a quo (e, dunque, sulla concreta decisione che dovrà poi assumere il giudice). In senso stretto, non può neppure dirsi che, nella circostanza, si verserebbe in una situazione in cui l’ipotetico accoglimento della quaestio non produrrebbe, a ben vedere, alcun risultato utile per il rimettente. Nel caso, l’«utilità concreta» per le parti – la quale non è comunque essenziale per ritenere esistente il requisito11 – si rinviene proprio nella possibilità, altrimenti esclusa in modo assoluto, di vedere esaminata nel merito (e a tutto tondo) la richiesta di accedere alla liberazione condizionale. Non sarebbe un risultato da poco: si segnerebbe in tal modo la distanza che separa l’assolutamente impossibile dal possibile (anche se non certo). Si può, insomma, sostenere che, con un’eventuale decisione d’incostituzionalità, si darebbe opportuno spazio a quel “diritto alla speranza” che è sempre da soppesare nelle situazioni in cui i diritti fondamentali siano condotti 8 Ragionando, ad esempio, del fatto che l’eventuale accoglimento della quaestio non garantirebbe affatto che il condannato coinvolto nella vicenda si veda poi senz’altro concessa la liberazione condizionale. Su questo punto si tornerà tra brevissimo nel testo. 9 Così argomentavano anche i giudici remittenti della quaestio sui permessi premio poi decisa con la sent. n. 253/2019. 10 Secondo la nota tesi di Vezio Crisafulli. 11 Così la Corte ragiona espressamente nella sent. n. 253/2019. 244 Paolo Veronesi “al limite”12. E ciò vale, a maggior ragione, discutendo del percorso di rieducazione del condannato all’ergastolo ostativo: la possibilità di “farcela”, e tornare così alla vita fuori dal carcere, può infatti divenire, in tali casi, un carburante potentissimo per il raggiungimento di un’autentica risocializzazione. Accogliendo questa prospettiva si evince, pertanto, che la quaestio ora promossa non appare né astratta, né, men che meno, ipotetica. Senza dire che è stata la stessa Corte, nella sent. n. 253/2019 – davvero “gemella” alla quaestio ora in esame (almeno per il profilo in discorso) – a valorizzare soprattutto l’idea di rilevanza come mera “applicabilità della norma nel giudizio a quo”13, ribadendo altresì che, a seguito dell’accoglimento della questione, il giudice si troverà comunque costretto a «decidere secondo una diversa regola di giudizio». Ma anche in caso di mancata concessione del beneficio, come si è appena cercato di argomentare, la pronuncia della Corte produrrà comunque effetti sul percorso argomentativo che il rimettente dovrà adottare per decidere sulla richiesta del detenuto14. 3. Il pur importantissimo passaggio, contenuto nella sent. n. 253/2019, ove la Corte afferma che le valutazioni da essa svolte in quella sede non incidono sulla disciplina dell’ergastolo tout court, bensì soltanto sulla concessione dei permessi premio in caso di condanna per delitti ostativi15, non pare potersi assumere quale argomento definitivo per giungere a conclusioni ultronee e non strettamente consequenziali. Insomma, desumere dalle parole che la Corte ha utilizzato nella pronuncia sui permessi premio una chiusura sul fronte della concessione di altri benefici penitenziari (e della stessa liberazione condizionale) per il condannato all’ostatività risulta del tutto esorbitante. Da quanto sostenuto dalla Consulta si evince cioè che in un così delicato settore dell’ordinamento qual è il regime penitenziario – intessuto di valutazioni discrezionali riservate solo e soltanto al legislatore, nonché da istituti dal “patrimonio genetico” assai diverso – essa avverte di dover procedere con i “piedi di piombo” pur mentre ribadisce i suoi orientamenti giurisprudenziali più innovativi e ormai consolidati. Proprio per la delicatezza dei contesti che è chiamata a giudicare, è comprensibile che la Corte non si distanzi – volta per volta – dal perimetro del thema decidendum, riservandosi eventualmente di giudicare in separata sede – se e quando si presenterà l’occasione – la compatibilità costituzionale di altri meccanismi e istituti normativamente collegati certo all’ostatività, ma assai “diversi dentro”. 12 Parafrasando quanto la Corte ha sostenuto in tutt’altro contesto (la sent. n. 185/1998, punto 9 del Considerato in diritto, sulla c.d. multiterapia Di Bella), c’è da chiedersi se la disciplina dei reati ostativi (e dell’ergastolo in primis) non finisca per violare «aspettative comprese nel contenuto minimo» del diritto costituzionale alla rieducazione e alla risocializzazione del condannato. 13 Si veda il punto 6 del Considerato in diritto. 14 Cfr. ancora il punto 6 del Considerato in diritto. 15 Si rinvia al punto 5.2 del Considerato in diritto. «Un passo dopo l’altro», è in arrivo il knock-down? 245 Ciascuno di questi ultimi possiede, insomma, caratteristiche (e sorge da valutazioni legislative), che, agli occhi della Consulta, potrebbero esigere un esame distinto e puntuale. Un’analisi, cioè, il cui ancoraggio alla fattispecie concreta faciliti la messa in risalto dell’eventuale incoerenza dello strumento contestato con il sistema normativo via via ricalibrato dagli interventi della stessa Consulta (e della Corte EDU). Resta tuttavia che, com’è stato bene messo in luce nel dibattito svoltosi durante questo Seminario (e si tratta di un argomento “notevole”), approdare all’illegittimità della liberazione condizionale in rapporto ai reati ostativi pare, in realtà, assorbire anche l’incostituzionalità degli attuali presupposti di erogazione – per i medesimi detenuti – degli altri benefici prodromici alla concessione di questa misura “finale”. Sembrerebbe dunque del tutto irrazionale che il godimento di tali misure “intermedie” rimanesse comunque escluso per i condannati “senza speranza” pur quando fosse loro (eventualmente) estesa la possibilità di godere dell’istituto ora sotto i riflettori. Un simile dato di fatto potrebbe quindi indurre la Corte ad adottare scelte decisorie anche più “coraggiose” rispetto al suo recente passato, con le conseguenze che saranno menzionate più oltre16. 4. Con riguardo al merito in senso stretto della quaestio, non rilevano, nella circostanza, le nette “chiusure” che la Corte ha frapposto alle pretese di chi avrebbe voluto che essa ridisegnasse il novero dei reati sottoposti alla disciplina dell’ostatività17. Le è infatti richiesto tutt’altro. Risultano, invece, efficacemente spendibili, anche in riferimento al problema sul tappeto – e con pochissimi aggiustamenti – le esatte parole che la Corte ha utilizzato per tessere la trama della sua sentenza n. 253/2019, riguardante, come detto, un problema limitrofo e altrettanto calibrato. Più in particolare – e in estrema sintesi – ciò vale senz’altro per quanto la Corte ha sostenuto (anche nel 2019) in merito alla valenza premiale riconosciuta alla collaborazione del reo. Quest’ultima era infatti assunta – prima del riassestamento prodotto dalla Consulta – quale unico e ineludibile presupposto per la concessione del beneficio allora in discussione. Senza cioè adeguatamente tutelare i diritti del condannato di tacere e di non autoincriminarsi18, nonché senza tener conto del suo terrore di generare pesanti ritorsioni sui familiari rimasti in libertà19 e persino – non va mai del tutto escluso – dell’ulteriore dramma così riservato ai condannati innocenti (ed evidentemente impossibilitati a collaborare se non mentendo). In aggiunta, «la presunzione assoluta» per cui chi non collabora è escluso di per sé dalla possibilità di vedersi applicata la liberazione condizionale, «impedisce proprio» la verifica, «secondo criteri individualizzanti» del percorso di risocializzazione eventualmente battuto dal reo. I Magistrati di sorveglianza non possono quindi «valutare le ragioni che hanno indotto il detenuto a mantenere il 16 Vedi infra §6. Così chiedendole di sostituirsi al legislatore: da ultimo si veda la sent. n. 52/2020. 18 Si veda la sent. n. 253/2019, punto 8.1 del Considerato in diritto. 19 Come già opportunamente sottolineava il Tribunale di sorveglianza di Perugia, ossia il giudice a quo che ha “provocato” la sent. n. 253/2019. 17 246 Paolo Veronesi silenzio», le quali potrebbero essere della più varia natura e non tutte da disprezzare20. Si tratta dunque di una presunzione senza scampo, mentre, per la Corte, «l’irragionevolezza di una presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia possibile formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa»21: occorre dunque una valutazione particolarmente stretta per ritenere che simili automatismi siano costituzionalmente ammissibili. Ed è quanto essa non ha affatto ritrovato nelle maglie delle norme sui permessi premio (proprio per questo sensibilmente “riorientate” nel 2019). Anche per la liberazione condizionale può inoltre ribadirsi che «il decorso del tempo della esecuzione della pena esige una valutazione in concreto, che consideri l’evoluzione della personalità del detenuto», a prescindere dalla mancata collaborazione (che, come detto, potrebbe scaturire da motivazioni non incidenti sulla bontà del percorso di recupero). Ciò in «forza dell’art. 27 Cost.», il quale costituisce il perno costituzionale dell’intera fase di esecuzione della pena e pone al centro del sistema la rieducazione del condannato, non la sua loquacità22. Se non si vuole poi (ulteriormente) cozzare contro i crismi della ragionevolezza (e, quindi, con l’art. 3 Cost.), occorre concludere «che la presunzione di pericolosità del detenuto che non collabora» debba ritenersi sempre superabile prendendo in esame una serie di altri «congrui e specifici elementi» tali da escludere l’attualità dei suoi concreti collegamenti con la criminalità organizzata e la genuinità della sua emenda. Ciò, dunque, a prescindere da una collaborazione che potrebbe essere anche fittizia o meramente interessata23, e, dunque, radicalmente aliena da istanze rieducative24. 5. Ai medesimi risultati si giunge valorizzando e adattando al caso gli argomenti centrali della già menzionata sentenza della Corte EDU, sez. I, 13 giugno 2019, Viola c. Italia n. 2. Del tutto in linea con quanto affermato nella sent. n. 253/2019, la Corte di Strasburgo rileva qui l’incongruenza contenuta nella legislazione italiana, per cui risulta “vincibile” l’ergastolo nei casi de quibus solo e soltanto in presenza di una collaborazione con la giustizia da parte del condannato. Un simile approccio – per il giudice sovranazionale – non pone però mente alle ragioni che possono consigliare il detenuto a non esporsi (se ne è già scritto supra), o – all’opposto – non prende affatto in considerazione l’uso potenzialmente strumentale e utilitaristico della collaborazione da parte di soggetti per nulla rieducati e benintenzionati. Di contro, la cruna dell’ago della collaborazione non permette di fornire adeguato risalto al tasso di rieducazione effettivamente raggiunto dal condannato e al suo effettivo affrancamento dalla criminalità organizzata. Ciò si può, infatti, 20 Cfr. il punto 8.2 del Considerato in diritto. Punto 8.3 del Considerato in diritto. 22 Punto 8.3 del Considerato in diritto. 23 Così già nella sent. n. 306/1993, punto 9 del Considerato in diritto. 24 Si veda, diffusamente, il punto 9 del Considerato in diritto della sent. n. 253/2019. 21 «Un passo dopo l’altro», è in arrivo il knock-down? 247 desumere da altri indici autorevoli, congrui e significativi che, nonostante la loro efficacia in tal senso, sono però del tutto trascurati dal legislatore italiano (e quindi sottratti all’armamentario del giudice)25. È poi senz’altro vero che la scelta di collaborare rende l’ergastolo non più effettivamente tale, ma – afferma la Corte EDU – il concreto funzionamento di un simile meccanismo – in base a quanto appena detto – finisce per ridurre o addirittura escludere le possibilità di un concreto ridimensionamento della pena perpetua. Trasformandosi, cioè, in una mera (e teorica) foglia di fico. Da qui la condanna dell’Italia per la violazione del principio di dignità umana e l’opportunità di utilizzare da parte dei giudici a quibus interni – quale ulteriore parametro delle quaestiones in linea con quella ora portata all’esame della Consulta – anche l’art. 117 Cost. Denunciando, cioè, la violazione del parametro interposto rappresentato dalle norme CEDU, come interpretate e applicate dalla Corte di Strasburgo26. La limpida sostanza della decisione Viola c. Italia n. 2 sembrerebbe, dunque, non lasciare alcuno scampo anche su questo versante. 6. Da quanto precede scaturisce una possibile (si spera non audace) prognosi in relazione a quanto potrà concretamente decidere la Corte costituzionale: procedendo ovviamente con tutte le cautele del caso, com’è opportuno che sia. Assumendo che – in linea con quanto appena argomentato – la Corte si risolva per una dichiarazione d’illegittimità, risulta credibile auspicare una pronuncia di accoglimento parziale che ripercorra sostanzialmente, anche su questo tornante, i “fasti” e lo stile della sent. n. 253/2019. Analogamente a quanto deciso in quel precedente, risulta comunque possibile prevedere che – se così fosse – la Corte dichiari altresì l’illegittimità costituzionale conseguenziale, ex art. 27, legge n. 87 del 1953, della disciplina della liberazione condizionale in quanto applicabile anche agli altri reati ostativi non coinvolti nel giudizio a quo, ma contemplati all’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. Anche a essi si estende infatti la disciplina ora impugnata dal rimettente con (opportuno) riguardo alla sola fattispecie rilevante nel giudizio a quo. Ma, forse, la Corte potrebbe decidere di non procedere oltre. In tal modo – ossia limitando la portata espansiva della propria decisione – la Consulta lascerebbe aperta la porta ad altre impugnazioni con riguardo ad ulteriori benefici, misure alternative e istituti coinvolti nell’orizzonte dell’ostatività, riservandosi di decidere caso per caso. Essa potrà in tal modo calibrare le proprie pronunce sui tratti distintivi delle singole misure in oggetto, evitando un troppo evidente muro contro muro nei confronti delle scelte del legislatore. Ovvierebbe così anche alle scontate critiche di chi senz’altro ribadirà – con argomenti sempre meno credibili – che la Corte si starebbe sostituendo al Parlamento. 25 Di «congrui e specifici elementi», al di là della mera buona condotta e della partecipazione al percorso rieducativo, si ragiona espressamente nella sent. n. 253/2019. 26 Secondo una giurisprudenza costituzionale che, su questo punto, si è andata via via e più intensamente definendo: si veda, ad esempio, le note sentenze gemelle nn. 348 e 349/2007, e poi, di recente, la n. 210/2013 e, soprattutto, la n. 49/2015 (poi ribadita, tra le altre, dalla n. 43/2018). 248 Paolo Veronesi Ferma restando la credibilità di questo possibile approdo, resta che, ove volesse – e come si è anticipato supra27 – nulla vieterebbe alla Corte di appoggiarsi alla fattispecie sub iudice per pronunciare altresì un’illegittimità costituzionale conseguenziale che demolisca l’ostatività anche con riguardo ad altri benefici (non a caso) prodromici alla concessione della liberazione condizionale. Un’altra alternativa vedrebbe invece la Corte farsi ancor più carico del problema di non menomare in modo competitivo le prerogative del legislatore, ribadendo una strategia decisoria coniata di recente. È quanto emerge dalla soluzione del c.d. “caso Cappato”28 nonché, successivamente, dall’ord. n. 132/2020 (la cui “trama” è ancora in fieri): in tali casi la Corte ha utilizzato la nuova tecnica dell’“incostituzionalità differita”29 o “prospettata”30, con il contestuale rinvio dell’udienza a una data fissa (nella quale scatterà senz’altro la “ghigliottina” dell’accoglimento) e adottando altresì, in prima battuta, un’ordinanza alquanto ricca di precisazioni sulla più che certa illegittimità della norma impugnata. Si è così lasciato a disposizione del legislatore un tempo sufficiente affinché questi potesse (e possa) provvedere di suo31. Si tratta di una tecnica decisoria che senz’altro presenta potenziali inconvenienti, subito sottolineati dalla dottrina32, ma anche indubbi profili positivi, come dimostrato dalla stessa vicenda che ha condotto alla dichiarazione d’illegittimità costituzionale parziale del delicatissimo art. 580 c.p.33. Se così facesse, oltre a preservare (sia pur solo temporaneamente) gli ambiti d’azione del Parlamento, la Corte potrebbe adeguatamente sottolineare le peculiarità dell’istituto della liberazione condizionale, sollecitando altri giudici a quibus a sollevare la medesima quaestio e suggerendo contestualmente al legislatore una serie di specifiche cautele. Alla scadenza, di fronte all’inerzia parlamentare, la Corte potrebbe invece adottare, nel quadro di una pronuncia 27 Vedi il §3 in fine. Si veda l’“uno/due” rappresentato dall’ord. n. 207/2018 e dalla successiva sent. n. 242/2019. 29 L’espressione è di M. BIGNAMI, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in www.questionegiustizia.it (19 novembre 2018), §1. 30 Così il Presidente della Corte, Giorgio Lattanzi, nella sua Relazione annuale sull’attività svolta dalla Corte nel 2018. 31 A tal proposito potrà tornare utile, allorché si dovessero elaborare soluzioni normative adeguate, le proposte contenute alle 29 ss. della Relazione dell’istituto di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, elaborata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere e completata nel giugno 2020 (la si può leggere in www.amicuscuriae.it, nella sezione dedicata al presente Seminario). 32 Tra i commenti più critici si v. A. RUGGERI, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale (a margine della ordinanza n. 207 del 2018 sul caso Cappato), in www.giurcost.org (20 novembre 2018, fasc. 3), §1; ID., Pilato alla Consulta: decide di non decidere, perlomeno per ora (a margine di un comunicato sul caso Cappato), in www.giurcost.org 2018, fasc. 3 (26 ottobre 2018), nonché la maggior parte dei commenti ospitati negli Atti del Seminario Dopo l’ord. n. 207/2019 della Corte costituzionale: una nuova tecnica di giudizio? Un seguito legislativo (e quale)?, promosso dalla rivista Quaderni costituzionali e svoltosi presso la casa editrice Il Mulino di Bologna, il 27 maggio 2019 (in Forum di Quaderni Costituzionali, Rassegna, 2019). 33 Per un attento esame dei profili positivi di questa tecnica decisoria si rinvia, per tutti, a G. BATTISTELLA, La nuova tecnica decisoria sul “caso Cappato” tra diritto processuale e sostanziale, in Rivista del Gruppo di Pisa n. 2/2020, 110 ss. (www.gruppodipisa.it). 28 «Un passo dopo l’altro», è in arrivo il knock-down? 249 d’accoglimento vero e proprio, una disciplina “provvisoria” pur sempre superabile dal legislatore. Tuttavia, lasciare aperti, sia pur solo per un anno circa (com’è avvenuto sin qui), questioni simili, così strenuamente connesse al nucleo più profondo di una serie di diritti fondamentali, presenta inconvenienti che balzano agli occhi. Se optasse per l’incostituzionalità della previsione impugnata, sarebbe dunque consigliabile che la Corte ribadisse, sin da subito, quanto praticato nella sentenza sui permessi premio, ponendosi cioè sulla scia di quel suo precedente (oltre che degli altri analoghi che l’hanno anticipato e seguito) e senza lasciare ancora nel limbo persone che attendono un simile responso da troppo tempo: si trattasse anche di un solo condannato al carcere (oggi davvero) a vita. 1. Elettori legislatori? Il problema dell’ammissibilità del quesito referendario elettorale (Ferrara, 13 novembre 1998), Giappichelli, Torino 1999, pp. XII-284 2. Il “caso Previti”. Funzione parlamentare e giurisdizionale in conflitto davanti alla Corte (Ferrara, 28 gennaio 2000), Giappichelli, Torino 2000, pp. XIV-298 3. Stranieri tra i diritti. Trattenimento, accompagnamento coattivo, riserva di giurisdizione (Ferrara, 26 gennaio 2001), Giappichelli, Torino 2001, pp. XVIII-250 4. Rogatorie internazionali e dintorni. La legge n. 367 del 2001 tra giudici e Corte costituzionale (Ferrara, 29 gennaio 2002), Giappichelli, Torino 2002, pp. XVIII-294 5. La parità dei sessi nella rappresentanza politica. In occasione della visita della Corte costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza di Ferrara (Ferrara, 16 novembre 2002), Giappichelli, Torino 2003, pp. X-254 6. Il “caso Cossiga”. Capo dello Stato che esterna o privato cittadino che offende? (Ferrara, 14 febbraio 2003), Giappichelli, Torino 2003, pp. XX-460 7. La laicità crocifissa? Il nodo costituzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici (Ferrara, 28 maggio 2004), Giappichelli, Torino 2004, pp. XXiI-340 8. Ai confini del “favor rei”. Il falso in bilancio davanti alle Corti costituzionale e di giustizia (Ferrara, 6 maggio 2005), Giappichelli, Torino 2005, pp. XXIV-388 9. La grazia contesa. Titolarità ed esercizio del potere di clemenza individuale (Ferrara, 24 febbraio 2006), Giappichelli, Torino 2006, pp. XXXII-340 10. All’incrocio tra Costituzione e CEDU. Il rango delle norme della Convenzione e l’efficacia interna delle sentenze di Strasburgo (Ferrara, 9 marzo 2007), Giappichelli, Torino 2007, pp. XXII-270 [e-book] 11. Dalla provetta alla Corte. La legge n. 40 del 2004 di nuovo a giudizio (Ferrara, 19 aprile 2008), Giappichelli, Torino 2008, pp. XXVI-232 [e-book] 12. Il lodo ritrovato. Una quaestio e un referendum sulla legge n. 124 del 2008 (Ferrara, 27 marzo 2009), Giappichelli, Torino 2009, pp. XXIII-319 [e-book] 13. La società naturale e i suoi nemici. Sul paradigma eterosessuale del matrimonio (Ferrara, 26 febbraio 2010), Giappichelli, Torino 2010, pp. XXII-401 [e-book] 14. Nel “limbo” delle leggi. Abrogazione referendaria della legge Calderoli e reviviscenza delle leggi Mattarella? (Ferrara, 16 dicembre 2011), Giappichelli, Torino 2012, pp. XXIV-337 [e-book] 15. Il Presidente intercettato. Un inedito conflitto tra il Capo dello Stato e la magistratura requirente, 2012 (Seminario on line ospitato sulla piattaforma web del Forum di Quaderni Costituzionali) **** 16. Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti, (Ferrara, 27 settembre 2019), 2019, pp. XXVII-178 [in Forum di Quaderni Costituzionali, Rassegna, n. 10 del 2019] 17. Il fine la fine della pena. Sull’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, (Ferrara, 25 settembre 2020), 2020, pp. XXVIII-249 [in Forum di Quaderni Costituzionali, Rassegna, n. 4 del 2020]