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Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 1 08/10/20 09:49 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 2 08/10/20 09:49 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 3 08/10/20 09:49 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 4 08/10/20 09:49 Siegmund Ginzberg Racconti contagiosi Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 5 08/10/20 09:49 © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione in “Varia” novembre 2015 Stampa Grafica Veneta S.p.A. di Trebaseleghe - PD ISBN 978-88-07-49287-7 www.feltrinellieditore.it Libri in uscita, interviste, reading, commenti e percorsi di lettura. Aggiornamenti quotidiani Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 6 razzismobruttastoria.net 08/10/20 09:49 Racconti contagiosi 7 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 7 08/10/20 09:49 8 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 8 08/10/20 09:49 1. Il virus a ogni pagina Parafrasando Marx “Tutta la storia finora conosciuta è storia della lotta contro le epidemie.” Parafrasi da Karl Marx, Friedrich Engels, Il Manifesto del Partito comunista La Peste è La vita “Ma che vuol dire la peste? È la vita, ecco tutto.” Albert Camus, La peste Quando Peggio di così non Poteva andare “Non si riesce a trovare un’autoambulanza,” disse Adam, “e non ci sono più letti liberi. E non riusciamo a trovare un medico o un’infermiera. Sono tutti impegnati […]” “Allora siamo davvero a questo punto.” “Peggio di così non potrebbe andare,” rispose Adam, “sono chiusi tutti i teatri e quasi tutti i negozi e le trattorie e tutto il giorno le strade sono state piene di funerali, e tutta notte di ambulanze.” 9 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 9 08/10/20 09:49 Katherine Anne Porter, Bianco cavallo, bianco cavaliere, sull’epidemia di Spagnola in America, nel 1918. sosPiro di soLLievo: si esce di casa “Di poi che fu proibito il non uscire delle case ò non stare fuori di casa doppo la campana del Bargello, cche comincia à sonare doppo l’una hora di notte, si è visa grandissimo miglioramento che, per gratia di dio, sono per la città in tutto circha a quatro malati il giorno […] Adì 14 di agosto 1633. Per gratia di Dio benedetto possiamo dire che la peste sia finita, essendo stato da 15 giorni che non ci è stato che 4 malati di contagio, che piaccia a Sua Divina Maestà [che ne] restiamo liberi affatto, acciò si apra li passi di potere mandare fuori mercantie e riceverne […]” Giovanni Baldinucci, Quaderno. Peste, guerra e carestia nell’Italia del Seicento Poesia deLL’infLuenza “Considerato quanto sia comune la malattia, di quali proporzioni il mutamento spirituale che essa produce, quanto stupefacenti, allorché le luci della salute si spengono, i territori vergini che allora si dischiudono, quali lande deserte dell’anima esponga un piccolo attacco di influenza, quali precipizi e prati, sparsi di vividi fiori, riveli un minimo aumento della temperatura, quali antiche resistenti querce siano sradicate in noi dall’atto della nausea, come precipitiamo nel pozzo della morte e sentiamo le acque della dissoluzione chiudersi sopra le nostre teste e ci svegliamo pensando di trovarci alla presenza degli angeli e degli arpisti quando ci tolgono un dente e torniamo alla superficie nella poltrona del dentista e confondiamo il suo “Sciacqui la bocca, sciacqui la bocca” con il saluto della divinità che, chinandosi, ci dà il benvenuto in paradiso – quando pensiamo a tutto questo, come spesso siamo costretti a fare, appare davvero stra10 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 10 08/10/20 09:49 no che la malattia non figuri insieme all’amore, alle battaglie e alla gelosia tra i temi principali della letteratura. Verrebbe da pensare che romanzi interi siano stati dedicati all’influenza; poemi epici alla febbre tifoidea; odi alla polmonite; liriche al mal di denti.” Virginia Woolf, Sulla malattia, 1926 toujours de La griPPe “Ancora e sempre l’influenza.” De la grippe, Encore de la grippe, Toujours de la grippe, Charles Péguy, in Œuvres en prose complètes, vol. 1 (Bibliothèque de la Pléiade, 1987) una PandeMia Misteriosa e beffarda “Epidemia-sfinge, così sfinge che pare si irrida di noi e delle nostre fissazioni di conoscere.” Ernesto Bertarelli, su “L’Igiene e la vita”, 1919, sempre a proposito della Spagnola. La convinzione deLLa MaLattia “La malattia è una convinzione e io nacqui con quella convinzione.” Italo Svevo, La coscienza di Zeno La strana favoLa deL “MaLe invisibiLe” “E c’era per lui, il problema del male: la favola della malattia, la strana favola […] è il ‘male invisibile’ [...].” Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore 11 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 11 08/10/20 09:49 Uscita dal lockdown cui l’aveva costretta l’attacco di influenza, la signora Dalloway di Virginia Woolf è presa da una voglia incontenibile di shopping. Il Decameron di Boccaccio si svolge attorno a un distanziamento sociale volontario nei giorni della peste. Romeo e Giulietta di Shakespeare muoiono a causa di un eccesso di polizia sanitaria. È stata l’Italia a inventare nel Trecento le prime misure efficaci per fermare il contagio. Aveva i migliori medici, fu lodata e imitata nel resto d’Europa. Ma non bastò a impedire una decadenza di parecchi secoli. Quarantena, distanziamento sociale, stop ai teatri, alle taverne e alle feste sono sempre stati molto impopolari, ovunque, anche quando hanno funzionato. Giuseppe Gioachino Belli ci fa sapere che, causa “Er collera mòrribus”, nell’agosto 1835 nella Roma papale sono stati chiusi i teatri. “Inibbì le commedie?! E che magnnera / V’immaginate sta leggiaccia infame? / Tanto bene, sor faccia de tigame / S’apre er teatro, e sta notizia è vera.” (Sonetto 26). Protestano i poveracci che arrotondavano facendo le comparse: “Un povero garzon de falegname / Che ci abbusca du’ pavoli pe ssera/ Pe nun morì domani de collèra/ S’avrebbe oggi da morì de fame?”. Chiuderanno a un certo punto pure le chiese. Ma non le osterie. Soliti discorsi da bar, c’è chi a sto “còllera o collèra” nun ce crede: “Qui da noi nun ce viè, sippuro è vera”. Eppure si capiva che le cose si stavano mettendo male. “Qui tutto crolla, e quello che non crolla trema […]. Una solitudine, una mestizia, uno squallo12 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 12 08/10/20 09:49 re, per tutte le vie, per tutte le case, in tutte le facce”, la testimonianza del Belli appena qualche settimana dopo, in una lettera del 7 settembre. Le autorità pontificie, che a lungo avevano minimizzato e censurato le notizie sono obbligate a far chiudere tutto. Il 20 settembre 1836 era stata istituita a Roma, nel più assoluto silenzio per non allarmare la cittadinanza, una “Commissione straordinaria di pubblica incolumità per provvedere ai possibili bisogni all’occasione che vi si manifestasse il cholera asiatico”. Non sappiamo cosa avessero discusso, e quali provvedimenti avessero allora deciso. Le deliberazioni erano secretate, esattamente come è poi successo con le discussioni del Comitato tecnico-scientifico contro il Covid nominato il 3 febbraio 2020. Il lockdown imposto dopo tanto minimizzare e tante esitazioni proibiva l’ingresso in città degli zampognari, e persino di allestire presepi, per cui ai Romani gli rovinò il Natale. Poi il 14 gennaio del 1837 gli fu proibito anche il Carnevale. Di fronte all’ira del popolo fecero una parziale marcia indietro e autorizzarono la Festa dei Moccoletti, che si svolgeva tradizionalmente il martedì grasso. Ripartì naturalmente il contagio, e dovettero richiudere tutto. “Adesso ha da venì sto serra-serra / De porcaccia infamaccia ammalatia,” lamenta il Belli nel sonetto del 24 dicembre 1836. “Pure Pulcinella è morto.” C’è poco da scherzare. “Mòrribus significa se more,” annota, a monito di tutti i negazionisti, il censore papale sor Belli. E se mancano o non ci azzeccano i medici? Il 2 ottobre 1831, quindi alcuni anni prima della peste che costrinse Roma al lockdown, il Belli inviò all’amica Cencia (la recanatese Vincenza Perozzi) una lettera in cui, come ne La signora Dalloway di Virginia Woolf, si parte da un capo di abbigliamento per parlare di un’epidemia virale. “Però è paro che relativamente al bonnet [cuffietta, copricapo femminile] io avrei potuto introdurlo nel bauletto tra gli altri oggetti che mi piace udir giunti in vostre mani, dove vi fosse stato il tempo sufficiente per ordinarne ed 13 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 13 08/10/20 09:49 aspettarne la fattura. Così la poteva andare allora: oggi la va tutt’altrimenti dapoiché il sarto bonnettaro che deve farlo è malato egli con altre dieci persone che lavorano con lui. Non vi meravigliate di questo fenomeno che deve certo uscire nuovo a chi ignori la influenza e chiamiamola pure epidemia della quale va Roma attualmente travagliata. Non vi dirò una iperbole allorché vi assicurerò che degli abitanti di questa città i due terzi se non pure i tre quarti sono Infermi di una malattia che qui si accoglie sotto il nome di Grippe, abbenché a me non paia essa signora. La grippe di Francia e si sì un umor bizzarro e repentino, ma della parte morale dell’uomo; e tutto al più la consomiglianza che con simile capriccio dell’anima può presentare il nostro malore attuale potrebbe vedersi sotto l’aspetto della subitaneità capricciosa con che ti assale a guisa di un ghiribizzo di bella Signora. La gripe poi di Inghilterra ritiene assai diversa fisionomia dell’idolo che or noi vagheggiamo. Lasciamo stare il modo della pronuncia che sarebbe graipe con la e muta: ma proferita alla italiana eziandio, dietro la sola guida dell’occhio, la gripe non significa che dolore di colica, dal che è tanto lontana la grippe nostra quanto voi siete lontano da me, dico per sesso e per distanza miliare. La nostra grippe consiste in subiti reumi di capo e di petto, varii intensità nei varii temperamenti; benché il popolo nostro non possa a buon diritto che lagnarsi più della generalità che dell’asprezza. Pochi furono sin qui i morti. Moltissimi gl’infermi: anzi dite a Roma, dappoichè chi ‘prima scappa dopo incappa’.” Belli e i suoi contemporanei san bene distinguere tra epidemie micidiali, come il colera, e una “semplice influenza”, che passa senza fare strage. O almeno dovrebbe passare. Belli nota nella stessa lettera una importante eccezione, di spaventosa attualità nei nostri giorni del Covid: “Ne’ soli Spedali, gremiti di malati, accadono frequenti casi di morte; perché nella classe che frequenta que’ luoghi di riposo per disposizioni sfavorevoli e per ritardo di appello il male assai facilmente degenera in acuto e porta al Creatore […]”. Attualissima anche l’osservazione che segue, circa l’indisponibilità dei medici di famiglia nel momento in cui più servivano, nel 14 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 14 08/10/20 09:49 pieno della crisi: “L’altr’ieri in certa famiglia che visitai, di 11 persone che tra padroni e domestici la compongono, n’eran malate 14! E ciò come? Infermò anche un servitore di supplimento, e poi il medico, e poi il chirurgo. I medici, o sono in letto, o pochi visitano, dico pochi rispetto ai moltissimi che entrano sulle loro liste”. Petrarca ce l’ha a morte con i medici. Nell’Ottocento ancora li linciavano, altro che applausi! Ben che gli vada, li prendono in giro. Vedremo meglio in un capitolo che ho voluto scherzosamente intitolare: Maledetti medici e infermieri. Tra le scherzose ragioni del suo elogio della peste, nel 1532 Francesco Berni elenca il minor affollamento (“In chiesa non è più chi ti urti o ti pesti”), il distanziamento prodotto dalla paura (“Se tu vai fuor, non hai chi ti dia impaccio; / anzi ti è dato luogo e fatto onore / tanto più se vestito sei di straccio”), l’inedita disponibilità di fondi a fondo perduto (“Non si tien conto di chi accatti o presti: / accatta e fa’ pure debiti, se sai, / ché non è creditor che ti molesti”). Nella Milano della peste del 1576 (non quella dei Promessi sposi, che è del secolo successivo) San Carlo Borromeo fa un po’ come papa Francesco: per conciliare fede e misure anti-contagio fa pregare e cantare dai balconi, anziché in chiesa o in processione. Ritrovare nelle vecchie e nuove narrazioni la cronaca di oggi non è solo un’esercitazione più o meno divertente. Ci può aiutare, credo, a comprendere. Il virus è da sempre misterioso. Ha comportamenti strani, non si capisce perché uccida alcuni e altri li lasci illesi. Qualcuno non ci crede. Altri fanno finta di non crederci. Negano, e negano soprattutto a sé stessi. Il momento cruciale, della verità, in tutte le narrazioni, a cominciare da Tucidide (ma anche prima ancora), è quando non si riesce più nemmeno a seppellire i morti. Nella nostra esperienza recente è venuto con le immagini dei camion militari che trasportavano bare, di notte, per le strade deserte di Bergamo. Da millenni si dà la caccia al Paziente zero o agli untori. La pandemia viene sempre, immancabilmente dall’Oriente. Anche Dracula viene dall’Est, dai Balcani contesi tra Russia e Turchia. Nel clima in cui Bram Stoker scrive il romanzo, 15 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 15 08/10/20 09:49 forse il vampiro è proprio la minaccia russa.. Oggi forse Dracula verrebbe dalla Cina. Una delle scene chiave di Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau (Nosferatu è Dracula, avevano dovuto cambiargli nome per questioni di diritti d’autore) è quando, dalla nave diretta in Inghilterra con la bara del vampiro, sbarcano frotte di topi schifosi. Nel 1922, la data in cui uscì il film, che ha come sottotitolo “Eine Symphonie des Grauens”, una sinfonia dell’orrore, si sapeva già che sono i topi con le loro pulci a portare la peste. Il vampiro di Murnau ha una faccia da sifilitico. Meno di vent’anni dopo, nel film di propaganda nazista (e di giustifcazione, anzi incitamento allo sterminio) Der Ewige Jude, l’Eterno ebreo, si vede ripetutamente una stessa identica scena, di ratti che sbarcano da una nave correndo lungo la gomena dell’ancora, a illustrare l’invasione giudaica dell’Europa. Nell’immaginazione inizi Novecento a invadere Europa e America con le loro orde di immigrati, a portare le pesti, contagi repellenti di ogni genere, sono, oltre ai soliti ebrei dall’Est, anche gli italiani, e soprattutto i cinesi. Jack London immagina che la Cina venga punita con un bombardamento batteriologico, che risolve il problema una volta per tutte: sterminando tutti i cinesi,. Shopping a Bond Street “La Signora Dalloway disse che i guanti li avrebbe comprati lei [nel romanzo diventeranno “fiori”, preferisco i “guanti” del racconto: un accessorio di moda si presta meglio alla shopping compulsivo, risarcitorio del lockdown].” Attraversa il parco. Si dirige verso Bond Street, la strada delle boutique. È una sopravvissuta. A un’epidemia da virus che, ora lo sappiamo, aveva ucciso più gente che la guerra. Sopravvissuta, ma non senza conseguenze. “Il suo cuore, indebolito, dicevano, dall’influenza.” Passeggia. Pensa. Rimugina ricordi alla rinfusa. Cerca di ricordarsi dei versi di Shelley, e di Shakespeare: “Dal contagio della lenta macchia del mondo… Non temere più il calore del sole… E ora non potrà più piangere, 16 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 16 08/10/20 09:49 non potrà più piangere [mourn, piangere i defunti]…”. “L’orgoglio la costringeva a stare eretta […] abituata alla disciplina e alla sofferenza. Come soffriva la gente, come soffriva, pensò, pensando alla signora Foxcroft, che l’altra sera all’ambasciata tutta ingioiellata, si rodeva l’anima perché quel caro ragazzo era morto.” Morto come, di cosa? In guerra? O di spagnola? “E ora non potrà piangere, non potrà piangere, ripeté, cercando di guardare oltre la vetrina […] i moderni non hanno scritto nulla che a uno gli venga voglia di leggere sulla morte, pensò; e si allontanò.” Virginia Woolf di malattie virali ne sapeva qualcosa, anche se, né nel racconto uscito in rivista nel 1923, né nel romanzo pubblicato nel 1925 non menziona mai la Spagnola. Sua madre era morta di arresto cardiaco attribuito all’influenza del 1895. Lei stessa si era ammalata diverse volte. “I germi dell’influenza non hanno effetto su di me,” annotava spavalda nel 1915 nel suo diario. Ma se l’era presa l’anno successivo. Si lamenta in una lettera alla sorella delle ramanzine del medico che continua ogni giorno a ripeterle che l’influenza può essere dannosa per sistema nervoso e cuore. È di nuovo influenzata nel 1918. Probabilmente è Spagnola l’influenza che la colpisce a fine 1919 (“Ho pensato di morire”), e forse lo è anche la ricaduta del 1922. Cara signora Dalloway, così frivola, così seria, così dura, così forte, così fragile, così pallida, così invecchiata… “Ciò che amava era: la vita, Londra, quell’attimo di giugno.” “[...] E i Sonetti di Shakespeare. Li sapeva a memoria. Lei e Phil avevano discusso tutto il giorno della Dark Lady, e Dick aveva esordito quella sera a cena dicendo che non aveva mai sentito parlare di lei. Davvero, lo aveva sposato per quello! Non aveva mai letto Shakespeare!” Romeo e Giulietta, vittime della quarantena I frati che dovevano avvertire il Romeo di Shakespeare che la morte di Giulietta è finta sono trattenuti in quarantena forzata, sprangati dentro l’edificio in cui alloggiano, perché 17 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 17 08/10/20 09:49 si pensa che possano per la loro professione aver avuto contatti con appestati: “Andavo a cercare un frate scalzo – uno del nostro ordine, qui in città a visitare gli ammalati – perché mi tenesse compagnia in viaggio, quando le guardie sanitarie, sospettando che fossimo stati in una casa in cui imperversava la peste contagiosa (infectious pestilence), sprangarono le porte e non ci fecero più uscire. A quel punto la mia missione a Mantova si è interrotta,” racconta frate Giovanni. “E allora chi ha portato la mia lettera a Romeo?” gli chiede allarmato il confratello frate Lorenzo. “Nessuno. Eccola qui. Non sono riuscito a inoltrarla, né a rimandartela. Tanto tutti avevano paura del contagio (infection).” (Romeo e Giulietta, atto V, scena 3) Una scorsa alla concordanza delle opere di Shakespeare rivela centodiciotto ricorrenze del termine plague (peste), nelle sue diverse forme (plagues, plagued, e persino, anche se un volta sola, unplagued, sarebbe a dire “spestato”), e quattordici ricorrenze di pestilence. Ma quasi sempre in funzione di metafora. O di interlocuzione, di esclamazione del volgare quotidiano, tipo in bocca a Falstaff: “Peste gli venga se i ladri non si possono fidare l’uno dell’altro”. Pestilenza è il sospetto che Jago insinua nell’orecchio di Otello, o il veleno che Claudio versa nell’orecchio del padre di Amleto, principe di una Danimarca infestata da “una sporca pestilenziale accozzaglia di vapori” (Amleto, atto II, scena 2, 306). È una dichiarazione politica, non epidemiologica. Come politica è la ripetuta, paritetica invettiva di Mercuzio morente contro Montecchi e Capuleti: “A plague o’ both your houses. Peste su entrambe le vostre famiglie! […] me l’hanno proprio attaccata, e per bene per giunta. Le vostre famiglie!”. (Romeo e Giulietta, atto III, scena 1) Shakespeare non teme la peste. Ci scherza, per lui è soprattutto una metafora, un’esclamazione. Forse si riteneva immune. Forse l’aveva avuta senza conseguenze. Eppure la sua è un’epoca di epidemie. Con la peste ci era nato, si potrebbe dire. “Hic incipit pestis, qui comincia la peste”, si legge nel registro della Holy Trinity Church di Stratford-u18 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 18 08/10/20 09:49 pon-Avon accanto all’annotazione della morte di Oliver Gunne, apprendista tessitore. Solo pochi mesi prima era stata annotato, dalla stessa mano, quella del vicario John Bretchgirdle, il battesimo di “Guglielmus filius Johannis Shaksepere”, in data 26 aprile 1564. Il contagio andava e veniva, scompariva per qualche anno, giusto il tempo che la gente se ne potesse dimenticare, e poi puntualmente ricompariva, quando meno se l’aspettavano. Malgrado tutte le misure di prevenzione suggerite dai medici. Tra queste c’erano già anche dei dispositivi di protezione individuale, una sorta di mascherine: la gente andava in giro schiacciandosi sul volto mezze arance farcite di chiodi di garofano. Si pensava che il soffio della pestilenza andasse combattuto con le stesse armi, fumigando con incenso o rosmarino, o anche col bruciare vecchie scarpe di cuoio. Male forse non faceva. Altri rimedi erano assai più controproducenti. L’uccisione di cani e gatti non è il rimedio più efficace per controllare un contagio come la peste che si diffonde tramite i topi e le pulci. Altri metodi di profilassi erano più simili a quelli dei nostri giorni, e forse più efficaci. Si raccoglievano ogni settimana i dati sui decessi a causa di peste annotati nei registri delle parrocchie. Se superavano la trentina, venivano banditi gli assembramenti, le riunioni, le feste, le fiere, le gare di tiro con l’arco, e così via. Erano esclusi i servizi religiosi, perché si riteneva inconcepibile che il contagio avvenisse durante le preghiere in chiesa. Non erano sprovveduti. Alle prime avvisaglie di epidemia le autorità imponevano restrizioni agli spostamenti e ai commerci. Si impediva l’entrata in città di villici e vagabondi, ne venivano cacciati quelli che già c’erano. La City di Londra emanava ordinanze e comminava pene severissime. Si proibì la compravendita di materassi usati e si impose che tutti spazzassero la strada di fronte alle proprie case, allo scopo dichiarato di impedire che questo lavoro venisse affidato a estranei, magari a “vagabondi, persone disoccupate, indigenti, dissolute e pericolose”, ammassate in baracche anguste, sudicie e malsane (e ricettacolo, ma questo non lo si sapeva ancora, di topi e pulci). Il pirata e favorito della Regina, John Hawkins, proponeva 19 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 19 08/10/20 09:49 di spedirli tutti in America, in Virginia, così battezzata in onore della Sovrana. Ma la cosa che colpì maggiormente Shakespeare e compagnia, tutti i grandi autori e tutte le compagnie dell’era elisabettiana, fu la frequente chiusura dei teatri. Durante l’epidemia di peste del 1603 il lockdown durò un anno intero. Le ragioni addotte per la chiusura dei teatri sono sanitarie. Ma c’è anche chi ritiene che la chiusura faccia bene anche alle anime. La Corporation of London (la municipalità) scrive nel 1584 al Privy Council (il governo di Sua Maestà): “Fare le recite in tempo di peste significa accrescere la peste con l’infezione: fare le recite fuori dal tempo di peste significa attirare la peste offendendo Dio con tali commedie”. Qualcuno ce l’ha con i teatri e gli spettacoli anche a prescindere. “La causa della peste è il peccato; la causa del peccato sono gli spettacoli; perciò causa della peste sono gli spettacoli,” recita il sillogismo dei sermoni. Nel 1633 il puritano William Prynne dice che gli spettacoli sono “molti per numero, contagiosi per qualità, capaci di avvelenare, infettare coloro che li avvicinino più di quanto lo sia uno tutto coperto di pustole pestilenziali aperte”. In una pagina del suo saggio Sulla malattia Virginia Woolf cerca di spiegare perché Shakespeare andrebbe letto meglio da malati, se costretti a letto con l’influenza: “L’incoscienza è una delle qualità della malattia – fuorilegge che siamo – e proprio da incoscienti abbiamo bisogno di leggere Shakespeare: non perché vada letto in stato di torpore, ma perché, quando siamo pienamente consapevoli, la sua fama ci intimidisce e logora, e tutte le opinioni di tutti i critici smorzano in noi quel tuono di idee che, benché sia un’illusione, è pur sempre un’illusione proficua, un piacere prodigioso, uno stimolo efficace a leggerlo. Stanno corrompendo Shakespeare; un governo protettivo potrebbe ben proibire di scrivere su di lui, così come a Stratford hanno collocato il suo monumento fuori dalla portata di eventuali scarabocchiatori. In questo ronzio di critica, uno può azzardare le sue ipotesi in privato, segnare note a margine; ma, sapendo che qualcuno l’ha già detto prima, o detto meglio, la 20 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 20 08/10/20 09:49 voglia passa. La malattia, nella sua regale sublimità, spazza tutto questo e lascia soltanto Shakespeare e noi stessi. Grazie al suo strepitoso potere e alla nostra strepitosa arroganza, le barriere crollano, i nodi si sciolgono, il cervello squilla e risuona di Re Lear e di Macbeth”. È un paese malato quello su cui regna Macbeth. “Ahimé, povero Paese! Che ha quasi paura di riconoscere se stesso! […]. Dove nessuno se non chi tutto ignora viene mai visto sorridere; dove vengono lanciati, ma non colti da alcuno, sospiri e gemiti e grida; dove violenti dolori sembrano la normalità [A modern ecstasy, che nell’inglese di Shakespeare non è un complimento, sta per cosa di ogni giorno, ordinaria, banalità scontata]. La campana a morto suona senza che nemmeno ci si chieda per chi, e la vita della brava gente si estingue pima dei fiori nei loro cappelli: muoiono prima ancora di essersi ammalati.” (Macbeth, atto IV, scena 3, 165175). Un’epidemia micidiale, un contagio fulminante? No, peggio. Un paese malato di tirannia, di cattivo governo, in mano a un leader bugiardo, incompetente, mosso da un’incontenibile pulsione autodistruttiva. Questa l’interpretazione, in tempi di Covid, in un articolo sul “New Yorker”, di uno dei più brillanti interpreti contemporanei di Shakespeare, Stephen Greenblatt. Al lettore decidere se questo Macbeth ha qualcosa di Trump, o di Bolsonaro, di Erdogan, di Putin o Xi Jinping. Di sicuro, Macbeth, che si fida solo di coloro che, come le streghe di Elsinore, gli dicono quel che gli piace sentire, celerebbe e negherebbe l’evidenza di una pandemia. Macbeth è del 1606, lo stesso anno di Lear. Tre anni prima, Londra aveva conosciuto una delle tante terribili epidemie di peste. Il 1603 fu l’anno in cui morì Elisabetta I. Non morì di peste. Ma anche fosse stata peste, nessuno se ne sarebbe meravigliato. S’era già presa il vaiolo che aveva appena ventinove anni. I medici la salvarono tenendola accanto al camino acceso, avvolta in una coperta rossa. Regnò altri sessantuno anni. Ma restò deturpata per il resto del suo regno, è la ragione per cui viene sempre ritratta con un trucco pesantissimo e una parrucca rossa. Neanche re e regine sono im21 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 21 08/10/20 09:49 muni. Ma hanno più possibilità di sopravvivere dei poveracci. Nel 1658 il Re Sole Luigi XIV era ventenne quando una febbre lo condusse in fin di vita. Influenza virale? Tifo? Il suo medico personale non ne aveva la minima idea. Lo salassarono, visse e regnò altri cinquantasette anni. Nei soli anni 1603-1604 furono pubblicati a Londra ben ventitré libri che trattavano di peste, molti puntualmente ristampati in occasione delle epidemie successive. Per lo più prediche e sermoni religiosi, oppure manuali pratici per la prevenzione e la cura, instant book di ciarlatani e astrologi. Ma anche opere letterarie di autori di tutto rispetto, come Ben Jonson, Thomas Middleton o Thomas Dekker. Pandemie e malattie contagiose sono una vecchia conoscenza per l’Inghilterra dei tempi di Shakespeare & Co. Così come lo sono nel resto dell’Europa. Dalla peste nera di metà 1300 all’Italia del Rinascimento, la convivenza con le pandemie dura da un paio di secoli. Vengono, vanno, tornano. Le chiamano tutte plague, dal latino plaga, piaga, ferita, colpo inferto. Così come per comodità continuiamo a chiamare indistintamente “peste” tutte le epidemie antiche. Ma può benissimo essere qualche altro malanno. In inglese pests sono gli insetti e gli altri animaletti nocivi, i parassiti, anche, in metafora, gli scocciatori. Sono una molteplicità, caterve. Ma anche le “pesti”, intese come malattie, sono tante. Milioni di milioni, come le stelle, come le variazioni di batteri e virus. Febbri “terzana” o “quartana” (che poi sarebbero malaria), febbre da carestia, febbre degli ospedali, febbre tifoidea, tifo petecchiale, spotted fever, febbre “maculosa”, che produce anch’essa macchie nerastre e rigonfiamenti che si possono confondere con bubboni. Come il tifo, la febbre a macchie è una rickettosi, dal nome del patologo di Chicago Howard Taylor Ricketts, scopritore, nel 1909, del micro-organismo responsabile del tifo. Da non confondersi con un altro scienziato americano, altrettanto se non ancora più famoso, il biologo Ed Ricketts, uno dei padri dell’ecologia, coautore con Steinbeck de Il mare di Cortez, e ritratto nel personaggio di Doc in Cannery Row e in Sweet Thursday 22 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 22 08/10/20 09:49 (Quel fantastico giovedì). Una rickettosi non è un bacillo come la peste. È una specie di via di mezzo tra batteri e virus, e come i virus si riproduce solo all’interno di una cellula vivente. Oltre che per alcuni dei sintomi, somiglia alla peste anche in qualcos’altro: passa dagli animali all’uomo. È trasmessa da pidocchi, pulci, cimici o zecche. Anche questa la chiamano spesso peste. A meno che la chiamino apposta in un altro modo per depistare, perché peste fa troppa paura, produce panico indesiderato. Se è peste, si finisce in quarantena, si viene murati in casa, si bloccano i commerci, si perdono soldi, si chiudono i teatri. C’è una pagina del Diario dell’anno della peste, la fiction che Defoe pubblicò nel 1722 sulla grande pestilenza a Londra di oltre mezzo secolo prima, in cui si racconta che mentre saliva vertiginosamente il numero dei decessi, i bollettini medici registravano invece un incremento di casi di “febbre”, “febbre maculosa”, e persino “infezione ai denti”, poi davano quale causa di decesso “vecchiaia”, “consunzione”, “ascessi”, “coliche”, “vomito”, e simili, pur di non parlare di “peste”. “Tutti coloro che potevano celare la loro malattia, lo facevano. Per evitare che i vicini li scansassero, rifiutassero di conversare con loro; e anche per impedire che le Autorità li chiudessero in casa, cosa che non era ancora nemmeno messa in pratica ma solo minacciata, al che la gente era terrorizzata all’estremo, al solo pensiero.”.” Appena si può, ci si arrampica sugli specchi terminologici per evitare di menzionare la parola che in quel momento fa più paura. “In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di profferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea si immette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente peste senza dubbio e senza contrasto; ma già ci si è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può mandare indietro,” spiega Manzoni nei Promessi sposi. Il catalogo delle malattie infettive di massa cui si fa ricor23 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 23 08/10/20 09:49 so pur di evitare di parlare di peste (o di colera, o di qualcosa di simile) è infinito, fa a gara con quello delle conquiste di Don Giovanni. C’erano state anche ondate di influenze virali, di zoonosi passate dalle bestie agli uomini, o viceversa. O almeno così si può supporre dalla descrizione dei sintomi, dai racconti dei testimoni. C’era stata persino il Sudor anglicus, la “sweating sickness”, la malattia del sudore, di cui non si sa quasi nulla, se non che si diffondeva a macchia di leopardo, con straordinaria rapidità di contagio. Cominciava con brividi e febbre alta. La fase acuta durava al massimo un giorno e una notte, poi il paziente o guariva o moriva. Spopolò per quasi un secolo soprattutto le campagne, e poi improvvisamente scomparve dopo il 1551, misteriosamente come era venuta. Si sospetta che fosse una malattia virale “atipica”. Una specie di influenza, che colpiva reni o polmoni. Talvolta non aveva altri sintomi che un pochino di febbre e tosse, oltre alla copiosa sudorazione. Un po’ come il Covid, insomma. Riderne allunga davvero la vita? L’Inghilterra elisabettiana conosce una vera e propria fioritura di manuali e testi di medicina che prescrivono l’allegria scacciapensieri, il raccontare storie, e in modo specifico l’andare a teatro. C’erano due posizioni in conflitto pressoché inconciliabile: da una parte quelli che prescrivevano l’allegria, lo star su con il morale come il miglior profilattico, anzi un toccasana contro le epidemie; e quelli che invece mettevano in guardia contro i rischi di diffusione del contagio nei luoghi affollati. Autori e attori, professione oblige, sostenevano ovviamente la prima delle due posizioni. Non c’erano ovviamente né tv né computer, né streaming né differite. A teatro bisognava andarci di persona, magari ammassati in platea, coi rischi che comporta. Il teatro, del resto, a quanto pare nasce con la peste, anzi ne è il “doppio”, l’immagine speculare. “Fra l’appestato che corre urlando dietro alle proprie allucinazioni, e l’attore che 24 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 24 08/10/20 09:49 si lancia alla ricerca della propria sensibilità; fra l’uomo che si inventa personaggi ai quali senza la peste non avrebbe ami pensato, e li raffigura in mezzo a un pubblico di cadaveri e di alienati in delirio, e il poeta che inventa intempestivamente i suoi e li affida a un pubblico altrettanto inerte o delirante, esistono altre analogie che confermano le sole verità importanti, e pongono l’azione del teatro, come quella della peste, sul piano di un’autentica epidemia” (Antonin Artaud, “Il teatro e la peste”, in Il teatro e il suo doppio). In Sofocle, Edipo indaga, o fa finta di indagare, finché si scopre che è proprio lui il colpevole della funesta pestilenza che ha colpito Tebe, la città di cui è diventato re, anzi “tiranno”. E certo non è a caso che la pièce venga composta e rappresentata che è ancora vivo ad Atene il ricordo della pandemia che l’aveva devastata durante la guerra con Sparta. Anche la nascita del teatro a Roma antica ha a che fare con una pandemia, se prestiamo fede a quanto ci racconta Livio. C’era quell’anno giusto un momento di pausa negli intrighi politici e nelle guerre, che scoppiò una grande pestilenza (pestilentia ingens orta). Non essendo efficaci altri rimedi, vennero istituiti “degli spettacoli scenici (ludi quoque scaenici), cosa nuova per quel popolo bellicoso, che fino ad allora non aveva altri spettacoli che quelli del circo”. “Mimi fatti venire dall’Etruria si esibivano in danze garbate, all’usanza etrusca, senza canti, senza mimiche rappresentazioni che tenessero luogo della recitazione verbale, danzando al suono di un flauto […] I nostri giovani presero a imitarli, scambiandosi tra loro facezie in rozzi versi e accordando gli atteggiamenti con le parole. La variazione non dispiacque: spesso ripetuta, divenne di uso comune […]” (Livio, Storia di Roma, VII, 2). Se così riuscissero a lenire il contagio, o invece lo accrescessero, non si sa. Un effetto curativo della risata è quello che lo scrittore e drammaturgo Thomas Dekker nell’incipit del suo libro The Wonderfull Yeare 1603, l’anno “straordinario” in cui a Londra si chiusero, causa la gran peste, i teatri, promette ai lettori: “Se lo leggerete potrete farvi allegre risate ed è mio desiderio che ciò avvenga, perché l’allegria è curativa e benefica contro la peste, malattia dalla quale (a dire il vero) il libro è 25 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 25 08/10/20 09:49 (anche se in modo non grave) in parte affetto. Ma, vi prego, non allontanatelo dalla vostra compagnia per questo […]”. Anche se il problema è che con la sua tremenda prosa barocca, tutta allusioni, e i suoi stucchevoli giochi di parole Dekker probabilmente non riesce a far ridere nemmeno i suoi contemporanei. Anche François Rabelais, medico e scrittore, insiste nella dedica al Quart livre, sull’effetto curativo dell’allegria e della risata. A difesa delle proprie “mitologie pantagrueliche” dalle critiche di “certi cannibali, misantropi e agelasti [la spiegazione dei termini la dà lui stesso in una ‘Breve dichiarazione di alcune dizioni più oscure’: Cannibali, popolo mostruoso aventi la faccia come cani e abbaianti invece di ridere; Misantropi, odiatori degli uomini; Agelasti: che non ridono affatto]” certifica che: “Molte persone languenti, malate, o in altro modo incomodate e desolate avevano con tale lettura [del Gargantua e del Pantagruele], ingannati i loro fastidi, passato allegramente il tempo, e recuperato allegria e nuovo conforto […]. Componendole [le mitologie pantagrueliche] io per puro divertimento, non pretendevo né gloria né lode alcuna: avevo solo riguardo e intenzione di dare così scrivendo quel poco di sollievo che potevo agli afflitti e malati assenti: come volentieri faccio, quando c’è bisogno, a quelli presenti che ricorrono all’arte mia e al mio servizio” (Dalla dedica del Libro quarto a Monsignor Odet, cardinale di Chastillon; era il fratello maggiore di Gaspard de Coligny, ammiraglio di Francia e leader degli Ugonotti, che fu ammazzato nel massacro della notte di San Bartolomeo. Lo stesso Odet, che al momento della dedica da parte di Rabelais era vescovo di Beauvais, poco dopo si era fatto calvinista, si era sposato e aveva riparato in Inghilterra, dove poi morì avvelenato dai sicari papisti, che non andavano per il sottile più di quelli di Putin. L’humour come profilassi non è però una scoperta inglese, e neppure francese. Ci avevano già pensato gli italiani, un paio di secoli prima. È quello che fanno le giovinette e i giovani del Decameron di Boccaccio. La “lieta brigata” scampa la peste che imperversa a Firenze ritirandosi in ameno luogo 26 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 26 08/10/20 09:49 fuori città a raccontarsi storie. Praticano una forma sostenibile di distanziamento sociale. Se lo possono permettere, sono giovani di “buona famiglia”, privilegiati. Ma è anche una loro scelta. Potrebbero darsi ad altre forme di “diletto”, poniamo il gioco (“Qui è bello e fresco stare, e hacci, come voi vedete, e tavolieri e scacchieri…”). Preferiscono invece “novellare”. Negli anni e decenni a seguire il Decameron, un’infinità di testi di medicina, di trattati e di manuali avrebbero prescritto il raccontarsi storie e lo stare allegri e di buon umore come profilassi specifica contro la peste. Ma vennero prima le ricette, o vennero prima le storie? C’è, tra gli studiosi, chi sostiene che sia stato il Boccaccio a mutuare la sua ricetta dai testi di medicina del suo tempo, e non viceversa. Comunque, i medici continuarono a lungo a raccomandare questa specifica profilassi. Raccontar storie per allungarsi la vita è una strategia antica: è quello che già fa Shéhérazade nelle Mille e una notte, una favola al giorno per evitare che il sultano le faccia tagliare la testa. La finzione del raccontarsi storie in tempi di pandemia torna e ritorna in mille forme anche dopo Boccaccio. Ce n’è persino una versione anni novanta del secolo scorso in Generation X, del canadese Douglas Coupland, in cui si narra di una crisi generazionale in tempi di Aids: tre giovani si ritirano a raccontarsi le storie della loro vita, come se fossero “favole della buonanotte”, in un appartamento in un grattacielo. Mi risuona nelle orecchie il coro dei cortigiani nel Rigoletto: “Co’ fanciulli e coi dementi / spesso giova il simular”. Giova il raccontar. L’invito a stare allegri, non farsi vincere dalla malinconia è un tema ricorrente nelle antiche prescrizioni profilattiche. “Fuze le rixe, tristitie, melenconie, i gran pensieri, e specialiter il pensieri di morte, di la peste; staga alegri cum dilecti, soni e canti e somigianti, iochano a zochi de dilecto e di piacere per solazo sempre, azò che avaritia non mene a ira, conturbatione di mente, a melanconia e somegianti (Fuggi le liti, le tristezze, la malinconia, i pensieri gravi, e in modo particolare i pensieri di morte e di peste; state allegri con intrattenimenti, musica, canti e simili, giocando giochi che divertano e 27 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 27 08/10/20 09:49 diano piacere, di modo che l’avarizia non porti a ira, turbamento di mente, malinconia e cose del genere)”. Così ad esempio suggerisce, accanto a molti altri autori, Michele Savonarola, stimato medico presso la Corte degli Estensi, nonno del gran fustigatore fiorentino di costumi fra’ Girolamo, nel suo De preservatione a peste et eius cura del 1349. Il che è precisamente quel che si propone di fare, indirizzandosi ai compagni, uno dei giovani di Boccaccio nell’introduzione alla prima Giornata: “Io non so quel che dei vostri pensieri voi v’intendete di fare: li miei li lasciai io dentro della porta della città […] e per ciò o voi a sollazzare e a ridere e a cantare con meco insieme vi disponete, o voi mi licenziate che io per li miei pensier mi ritorni e steami nella città tribolata” (Decameron, I, Intr. 93). Analogo suggerimento di spensieratezza e di star lontani dalle cattive notizie, di ritirarsi “in luogo dove non si oda né suono, ne romore alcuno del luogo amorbato” dà, oltre un secolo dopo, in occasione del ritorno della peste a Firenze nel 1478, Marsilio Ficino nel Consiglio contro la pestilenza. Altri ancora suggeriscono letture. Narrativa, qualcosa “di non troppo difficile” suggerisce il senese Ugo Benzi che fu anche medico del re di Francia, “libri dilettevoli, massimamente contenenti descrittioni di paesi, con belle & amene viste” consiglia Lorenzo Condio nella sua Medicina filosofica contra la peste, del 1581. Dal passa che ti canta al leggi di viaggi che ti passa. Contrariamente a quanto gli viene talvolta attribuito, Boccaccio non sostiene che “ridersi e beffarsi” sia “medicina certissima a tanto male”. Dice solo che certuni la pensavano così, non che lui condivide. Individua due distinti comportamenti, senza prendere a prima vista partito per l’uno o per l’altro: “Alcuni, li quali avvisavano che il viver modestamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere; e fatta brigata, da ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse”; altri, i quali, “in contraria oppinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando attorno e sollazzando e il sodisfare d’ogni cosa all’appetito 28 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 28 08/10/20 09:49 che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male; e così come il dicevano il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna, ora a quell’altra andando, bevendo senza modo e senza misura”. Insomma, alcuni osservano limitazioni autoimposte, praticano una sorta di “io me ne sto a casa”, sacrificano il proprio stile di vita precedente, praticano un isolamento sociale volontario, sia pure di gruppo; altri danno sotto ancor più di prima alla movida, affollano “ora quella ora quell’altra taverna”, pub, ristoranti, dancing, rave e feste. La differenza non è tra frugali e spendaccioni, tra prudenti e incoscienti, tra chi si flagella e chi non vuole rinunciare a niente. Gli uni e gli altri pari sono in egoismo e in illusione: “a un fine tiravano assai crudele, di schifare e fuggire gli infermi e le lor cose; e così facendo si credeva ciascuno medesimo salute acquistare”. La discriminante è a ben vedere un’altra, di immutata attualità: praticare il distanziamento o fregarsene. Canta che ti passa, ma dai balconi. È scontato che fa bene la musica, fa bene cantare, e fa bene pregare. Le serenate dal balcone e dalle finestre e dai tetti di casa che hanno alleviato (dire allietato sarebbe troppo) il periodo di clausura per il covid hanno un precedente. Dovuto al cambio di strategia contro la peste milanese del 1576-78 attuato dal cardinale, e poi santo, Carlo Borromeo (non Federigo che è il cardinale, e pure lui santo, della successiva peste manzoniana del 1630). Tre processioni di seguito nell’ottobre del 1576, con migliaia di flagellanti (il cardinale in persona si era messo un cappio al collo e procedeva scalzo, in guisa di criminale condannato) avevano moltiplicato i contagi (ottanta penitenti caddero morti nel giro di un’ora, dicono le fonti). Allora il cardinale diede il contrordine: milanesi pregate, ma statevene a casa. Le litanie specificamente composte per le processioni furono adattate per essere cantate in casa, o alla finestra. Scelta coraggiosa quanto 29 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 29 08/10/20 09:49 la decisione di papa Bergoglio di accettare la sospensione delle messe in pubblico. Ché anche a quei tempi c’era chi era contrario, anzi tacciava di “grande abominio” il bando alle processioni, il sospettare, non fidarsi delle feste di Dio e dei Santi”. “Al suono della campana, tutti andavano alle finestre, un sacerdote o altra persona preposta iniziava la preghiera, e tutti in ginocchio rispondevano, ciascuno col libro di preghiere che il cardinale aveva fatto stampare a questo scopo,” scrive Giovanni Pietro Giussano, autore di una seicentesca Vita di S. Carlo Borromeo. “Quando la peste cominciò a crescere la pratica [di cantare e pregare in pubblico] fu interrotta, di modo da evitare che le congregazioni alimentassero il contagio. Ma le orazioni non cessarono, ché ognuno stette a casa o alla finestra o porta e le fece da lì […]. Pensate, passeggiando per Milano non si sentiva altro che cantare, venerare Dio, supplicare i Santi, al punto che uno quasi avrebbe desiderato che quelle tribolazioni durassero più a lungo.” Così la testimonianza di Paolo Bisciola, nella sua Relatione verissima del progresso della peste di Milano. Qual principiò nel mese d’Agosto 1576, e seguì sino al mese di Maggio 1577 (Bologna 1630). Non è per niente tenero con il cardinale santo Franco Cordero nel suo La fabbrica della peste, ma questa almeno gliel’avrebbe dovuta passare. Uno che se la ride allegramente della peste nel 1500 è Francesco Berni. E ci lascerebbe un po’ perplessi, se non ci fosse chi ci spiega che la sua ironia, nel tessere l’elogio della peste, è la stessa di Erasmo nel tessere l’Elogio della follia. “Rovesciamento d’un rovesciamento” – questa l’interpretazione che ne dà Sergio Givone nel suo Metafisica della peste, dove “non è il comico a oltrepassare il tragico, dissolvendolo […]. Semmai è il tragico a sostanziarsi del comico”. “Roma è rinata, il mondo è riavuto / La peste è spenta, allegri gli uffiziali: / o che ventura che noi abbiamo avuto!”, così l’ironia di Berni nei versi del “Capitolo di Papa Adriano”, del 1522. È l’anno dell’ascesa al Soglio, col nome di Adriano VI, di un monaco tedesco, che si era messo in testa di moralizzare la Chiesa, tuonava contro il lusso, pretendeva di abolire i con30 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 30 08/10/20 09:49 tratti di vendita dei pubblici uffici e per questo era inviso all’elegante cortigiano rinascimentale Berni. Ed è anche l’anno in cui, per far cessare la peste a Roma, fu portato in processione il “Crocifisso miracoloso” conservato a San Marcello al Corso, quello visitato da Francesco – un altro papa inviso ai cortigiani – nella sua prima uscita nei giorni del lockdown. Del 1532, di un decennio dopo, è invece il “Capitolo primo della peste”, nel quale si loda scherzosamente, ma forse neanche troppo scherzosamente, il tempo di pestilenza come la migliore, senza confronti, di tutte le stagioni: Prima, ella porta via tutti i furfanti: gli strugge e vi fa buche e squarci drento, come si fa dell’oche l’ognisanti. E fa gran bene a cavarli di stento: in chiesa non è più chi ti urti o pesti in su ‘l più bel levar del sacramento. Non si tien conto di chi accatti o presti: accatta e fa’ pur debiti, se sai, ché non è creditor che ti molesti; se pur ne vien qualch’un, di’ che tu hai doglia di testa e che ti senti al braccio: colui va via senza voltarsi mai. Se tu vai fuor, non hai chi ti dia impaccio; anzi ti è dato luogo e fatto onore, tanto più se vestito sei di straccio. Sei di te stesso e de gli altri signore, vedi fare alle genti i più strani atti, ti pigli spasso dell’altrui timore. Vìvesi allor con nuove leggi e patti, tutti i piaceri onesti son concessi, quasi è lecito a gli uomini esser matti. Buoni arrosti si mangiano e buon lessi; quella nostra gran madre vacca antica si manda via con taglie e bandi espressi. Sopra tutto si fugge la fatica, ond’io son schiavo alla peste in catena, 31 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 31 08/10/20 09:49 ché l’una e l’altra è mia mortal nemica. Vita scelta si fa, chiara e serena: il tempo si dispensa allegramente tutto fra il desinare e fra la cena. S’hai qualche vecchio ricco tuo parente, puoi disegnar di rimanergli erede, pur che gli muoia in casa un solamente. Ma questo par che sia contra la fede, però sia detto per un verbigrazia, ché non si dica poi: “Costui non crede”. Di far pazzie la natura si sazia, perché in quel tempo si serran le scuole, che a’ putti esser non può maggior disgrazia. Fa ogniun finalmente ciò ch’e’ vuole: dell’alma libertà quell’è stagione, ch’esser sì cara a tutto ‘l mondo suole. È salvo allor l’avere e le persone: non dubitar, se ti cascassin gli occhi, trova ogniun le sue cose ove le pone. La peste par ch’altrui la mente tocchi, e la rivolti a Dio: vedi le mura di san Bastian dipinte e di san Rocchi. Essendo adunque ogni cosa sicura, questo è quel secol d’oro e quel celeste stato innocente primo di natura. Or se queste ragioni son manifeste, se le tocchi con man, se le ti vanno, conchiudi e di’ che ‘l tempo della peste è ‘l più bel tempo che sia in tutto l’anno. Francesco Berni, Rime, LI, “Capitolo primo della Peste” Fingi di ridere per dire cose che altrimenti non potresti dire. Ridi per denunciare. Ridi per protestare. Ridi per non piangere. O ridi che ti passa, il ricorso all’umorismo come rimedio. Magari anche come rimedio medico. In tempi di epidemia, quando le cose si mettono male, non resta altro da fare che raccontarsi delle storie. Quando le cose vanno anche peggio, non resta altro che ridere. È uno sfogo naturale: 32 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 32 08/10/20 09:49 si rideva anche nei campi di concentramento nazisti. Comici ebrei continuavano a fare il loro mestiere, raccontavano barzellette, facevano sketch anche sui treni per Auschwitz. Quella del giullare è una professione molto seria. Purché l’umorismo non diventi pura idiozia (gli esempi attuali il lettore non faticherà a trovarli), non copra cinismo o arroganza di chi si sente immune, intoccabile, o non diventi, peggio ancora, tirarsi la iella (“Andrà tutto bene” sarà carino disegnato dai bambini, tira su il morale, può avere un senso contro il panico, ma non porta necessariamente bene). Tutte storie d’amore? No, di contagio. Il contagio è onnipresente in Shakespeare, così come in Virginia Woolf. Ma anche in quasi tutto quello che è stato scritto prima e dopo di loro. Quand’ero giovane, e passavo da un amore infelice a un altro, mi capitò di divorare il saggio di Denis De Rougemont L’Amore e l’Occidente, in cui si sostiene che tutta la letteratura europea, a cominciare dal romanzo di Tristano e Isotta, ruota attorno al tema dell’amore triste, che finisce male, dell’amore e della morte. De Rougemont scriveva negli anni trenta. Non poteva non cogliere che anche “la Nazione e la Guerra sono legate come l’Amore e la Morte”. Tutta la letteratura parla quindi di guerra, e di amore? Oggi emenderei e aggiungerei un altro elemento, altrettanto fondamentale: tutta la narrazione sinora conosciuta parla di malattie, epidemie, contagi. L’intera letteratura occidentale, nientemeno, inizia con una pandemia. Già i primi versi dell’Iliade di Omero raccontano di un’epidemia micidiale che falcidia le fila dei Greci che assediano Troia. Un dio, Apollo, ascolta le preghiere di un suo sacerdote a cui il prepotente Agamennone ha sottratto la figlia per farne la propria concubina. Apollo, l’arciere, scende invisibile, “come la notte”. “Si postò dunque lontano dalle navi, lanciò una freccia, / e fu pauroso il ronzio dell’arco d’argento. / I muli colpiva in principio e i cani veloci, / ma 33 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 33 08/10/20 09:49 poi mirando sugli uomini la freccia acuta, / lanciava: e di continuo ardevano le pire, fitte” (Iliade, libro I, 48-52). Virginia Woolf, nell’esordio del suo saggio Sulla malattia, trova strano che la letteratura parli così poco delle malattie, e in particolare della malattia più seria e più diffusa del suo tempo, l’influenza detta “Spagnola”. “Considerato quanto sia comune la malattia […] quali lande deserte dell’anima esponga un piccolo attacco di influenza, quali precipizi e prati, sparsi di vividi fiori, riveli un minimo aumento della temperatura, quali antiche resistenti querce siano sradicate in noi dall’atto della nausea, come precipitiamo nel pozzo della morte e sentiamo le acque della dissoluzione chiudersi sopra le nostre teste e ci svegliamo pensando di trovarci alla presenza degli angeli e degli arpisti quando ci tolgono un dente e torniamo alla superficie nella poltrona del dentista e confondiamo il suo ‘Sciacqui la bocca, sciacqui la bocca’ con il saluto della divinità che, chinandosi, ci dà il benvenuto in paradiso – quando pensiamo a tutto questo, come spesso siamo costretti a fare, appare davvero strano che la malattia non figuri insieme all’amore, alle battaglie e alla gelosia tra i temi principali della letteratura. Verrebbe da pensare che romanzi interi siano stati dedicati all’influenza; poemi epici alla febbre tifoidea; odi alla polmonite; liriche al mal di denti. Ma no; salvo poche eccezioni –– De Quincey tentò qualcosa del genere nelle sue Confessioni di un oppiomane, un paio di volumi sull’infermità devono essere sparsi nelle pagine di Proust – la letteratura fa del suo meglio perché il proprio campo di indagine rimanga la mente […]. Alle grandi guerre che il corpo, servito dalla mente, muove, nella solitudine della camera da letto. Contro gli assalti della febbre o l’avvicinarsi della malinconia, nessuno bada.” Ma come sarebbe a dire “poche eccezioni”? No, romanzi interi sono stati dedicati all’argomento. Quasi tutto quello che è stato scritto trasuda di malattie, contagi, pesti, influenze. La grande letteratura della prima metà del Novecento quasi non parla d’altro. Anche quando a prima vista non ne fa neppure menzione, tratta di tutt’altro. Virginia Woolf era 34 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 34 08/10/20 09:49 una fanatica di Proust, quanto di Shakespeare. Difficile le sfuggisse che la Recherche tracima di infermità. Non sono sicuro che sapesse quanto la Recherche di Marcel Proust deve alla memoria di suo padre, il dottor Adrien Proust, esimio epidemiologo, autore di La défense de l’Europe contre le choléra e La défense de l’Europe contre la peste. Il dottor Proust era stato, a fine Ottocento, uno dei maggiori teorici della necessità di misure sanitarie severe delle quarantene, del distanziamento sociale. Čechov e la riapertura delle scuole echov faceva di mestiere il medico. “La medicina è la mia consorte legittima, la letteratura è la mia amante,” diceva. Aveva iniziato con un’inchiesta sulle condizioni sanitarie dei detenuti nell’isola di Sakhalin, al largo della Siberia. Ma la sua dissertazione non era piaciuta alle autorità. La facoltà di medicina di Mosca gliela bocciò perché troppo sociologica. Passò a fare il medico in un villaggio un’ottantina di chilometri a sud della capitale. Tra le sue opere giovanili c’è un racconto del 1885 (tradotto solo di recente anche in italiano dalle edizioni Barta, con una prefazione di Andrea Camilleri) nel quale si immaginano una serie di inghippi burocratici micidiali che si abbattono sulla scuola, minacciata dall’epidemia. Roba forte, da incrociare le dita, da toccarsi, insomma da scaramanzia obbligatoria di questi tempi. I responsabili scolastici lo segnalano alle autorità sanitarie. Passa un mese prima che la direzione sanitaria scriva al commissario di polizia chiedendo la chiusura della scuola “fino a quando non sarà debellata l’epidemia”. Passa un altro mese prima che il commissario si dia una mossa. Ma lo fa limitandosi a rilanciare la palla al direttore della scuola. Gli chiede di mandare a casa gli scolari “per prevenire e fermare il diffondersi del contagio”. Passa un altro mese ancora e il direttore sanitario dichiara che l’epidemia è finita e la scuola può essere riaperta. In realtà non era mai stata chiusa. Comunque il direttore fa sapere che lui è troppo impegnato per 35 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 35 08/10/20 09:49 potersi occupare di questo tipo di “elucubrazioni burocratiche”. Parte un carteggio di accuse reciproche e recriminazioni fra polizie e direzione sanitaria. Si fa strada l’insinuazione che in fondo sia tutta colpa del maestro che ha segnalato l’epidemia, sarebbe stato meglio non parlarne per evitare fastidi. A quattro mesi dalla segnalazione dei primi casi l’ispettore scolastico ordina finalmente la chiusura della scuola “onde evitare l’ulteriore diffondersi dell’epidemia”. Intanto i bambini continuano ad attaccarsi la malattia e a morire. Solo dopo ventotto scambi di messaggi tra i burocrati il dossier si conclude con un ritaglio di giornale: “Ma non parliamo più di questa impennata di mortalità infantile, e passiamo a cose più allegre e piacevoli” dice l’articolo. Basta storie di bambini che si ammalano a scuola, si passa alla cronaca delle nozze della figlia di un industriale della carta con un ricco borghese. “Che gioia essere il proprietario di una cartiera!”, l’esclamazione con la quale echov conclude il racconto. Dio mio, fai che non succeda così, non si palleggino le responsabilità sulla riapertura delle scuole, il commento di chi legge oggi, quasi un secolo e mezzo dopo. I drammi di echov sono pieni di medici ed epidemie, oltre che di burocrati. Lo Zio Vanja inizia col medico Astrov che racconta di un’epidemia di tifo in un villaggio: “Nelle isbe la gente giaceva ammucchiata, uno sopra l’altro…,…, una sporcizia, una puzza, un fumo… i vitelli, per terra insieme ai malati… c’erano anche dei porcellini… Ho lavorato su e giù, tutto il giorno, senza sedermi un momento, senza prendere un boccone o un goccio d’acqua e, appena tornato a casa, non mi hanno portato su un cantoniere. L’ho steso sul tavolo per operarlo, e quello mi muore sotto il cloroformio[…]”. La tubercolosi, che lui definiva “influenza”. Se la tenne per vent’anni. Il giardino dei ciliegi lo scrisse in sanatorio a Yalta. Nel dicembre 1903 si recò, contro il parere dei suoi medici curanti, a Mosca per assistere alla prima. Morì il 17 gennaio 1904, il giorno del suo quarantaquattresimo compleanno. 36 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 36 08/10/20 09:49 Mezza Europa con i polmoni deboli Anche Kafka era un malato cronico e morì di tubercolosi. Così come di tubercolosi morì Katherine Mansfield e, un secolo prima, era morto John Keats. Era una delle malattie contagiose dell’Ottocento, continuò a essere una delle malattie più temute del Novecento, fino a quando si inventarono gli antibiotici. Mi vengono in mente i racconti di mio padre, che negli anni trenta si era ammalato di tubercolosi intestinale. Non morì di tubercolosi. Al contrario, la tubercolosi gli salvò la vita: doveva operarsi, non poté seguire il fratello agente di Stalin, che voleva portarlo in Russia a studiare come si fa la rivoluzione. Sono sicuro che, fosse andato, sarebbe finito nel Gulag. Il mal sottile, la consunzione, era comunque incomparabilmente più “nobile” del colera, o del tifo. Faceva paura ma non schifo. In Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino sbocciano storie d’amore tra i ricoverati alla Rocca di Palermo, “in quell’estate del quarantasei” dove il protagonista giunge “da molto lontano, con un lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo, dopo essermi trascinata dietro, di stazione in stazione, con le dita aggranchite sul ferro della maniglia, una cassetta militare, minuscola bara d’abete per i miei vent’anni dai garretti recisi”. Corteggia Marta, un’altra paziente in libera uscita come lui. Lei tossicchia, continua ad avere “una qualche febbre”. “Sì, l’analisi mi rassicura, dicono che fanno uscire solo i puliti. Eppure io sento, io so, che ogni mio fiato è un veleno, che tutto quanto tocco o mi tocca s’infetta”, lo mette in guardia lei, mentre sono seduti a un tavolo di trattoria. Anzi rincara: “A volte mi viene un’idea: di usare di proposito un tale onnipotente potere d’incubazione e di semina; mi vedo entrare in una casa; e sia una casa felice; mi vedo sputare con diligenza ai quattro canti di ciascuna stanza, su una federa, su un biberon…”. E lui, come se niente fosse, le propone di andare a letto: “Sai come si dice, nel mio dialetto, dare il contagio? Ammiscari si dice. Cioè mescolare, mescolarsi con uno […] la confusione su un letto di due corpi amici”. Hanno girova37 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 37 08/10/20 09:49 gato per ore per la città. Lei sceglie su una bancarella e gli regala “due volumi che le parvero facessero al caso nostro”: “uno sciolto e bisunto, di un Mattia Naldi, che parlava della peste e dei modi di guardarsene nell’anno Domini milleseicento e rotti; l’altro, che conservo e ho qui davanti, di un anonimo dell’Ottocento neonato: Guida per la Real Casa dei Matti di Palermo […]”. Di tisi sono malate alcune delle più amate eroine dell’Ottocento, a cominciare da La Dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio (la traviata di Verdi). Ne La Montagna incantata, scritta prima della Grande guerra, Thomas Mann ambientò in una sanatorio sulle Alpi il male oscuro e la fine di quell’epoca. L’Europa si stava suicidando, come fa Aschenbach in Morte a Venezia. A Vienna l’influenza spagnola veniva chiamata Lungenpest, peste dei polmoni. Kafka era convinto che metà dell’Europa avesse i polmoni deboli. Lo scrisse in una lettera a Milena. Le malattie del Continente, quelle vere, ma anche quelle che non si vedono, si è magari tentati di considerarle di secondo piano. O di sminuirle chiamandole psichiatriche, psicosomatiche, magari solo immaginarie. Qualcuno non ci sta. Avverte che c’è qualcosa che non funziona. Lo urla con i mezzi di cui dispone. Si torna ai racconti-mondo, quelli in cui si affronta la totalità dell’esperienza umana, come in Boccaccio, Rabelais, Shakespeare, Cervantes. È il momento delle grandi narrazioni che iniziano prima della guerra, ma resteranno incompiute anche dopo la guerra: l’universo di Kafka, incompleto al punto che chiese all’amico Max Brod di bruciare i manoscritti dopo la sua morte (cosa che fortunatamente Brod non fece) appunto, ma anche quello dell’Uomo senza qualità di Musil, o il microcosmo di quel geniale ipocondriaco che era Ettore Schmitz, alias Italo Svevo, l’autore de La coscienza di Zeno. Hanno una cosa in comune: parlano, anche se in modo obliquo, cifrato, anche se a prima vista non sembra, delle malattie, dei contagi della loro epoca. 38 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 38 08/10/20 09:49 L’influenza che somigliava alla peste In un dispaccio da Madrid, datato 28 ottobre 1918, con titolo su una sola colonna come si usava allora, il ““Times”” riferisce che un medico spagnolo ha isolato il microbo che causa la nuova terribile influenza che sta devastando Europa e America (e, ora lo sappiamo, ma allora i giornali se ne curavano meno, il resto del mondo). Non è nessuno dei bacilli conosciuti, neanche il bacillo di Pfeiffer (haemophilus influentiae, individuato da Richard Pfeiffer, responsabile sanitario della Seconda armata del Kaiser, dopo che si era ammalata di polmonite un’intera compagna di artiglieri diretti al fronte). Ma somiglia, anche se non è identico, a quello della peste. Avrebbe la stessa colorazione. Molti altri giornali riprendono la notizia, rincarando: “C’è chi la chiama peste… molti cadaveri diventano bluastro-neri”; “C’è chi dice che è come la Peste di Londra”, e così via. In realtà non ha niente a che fare con la peste bubbonica, quella, lo si era scoperto da non molto, veniva da un batterio che poi verrà chiamato Yersinia Pestis. La nuova pandemia è prodotta da un virus. Colpiva non gli anziani come il Covid, ma i giovani nel pieno delle forze, e anche donne e bambini. Che sia stato isolato in Spagna è la ragione per cui la nuova pandemia verrà chiamata “Spagnola”. È il nome che ha attecchito, l’aggettivo che accompagna la più generica e antica denominazione di influenza, flu in inglese, grippe in francese. Desueti Blitzkatarrh, o “PUO”, Pyrexia of Unknown Origin, come era stata definita inizialmente. Nei paesi in guerra non se ne parlava, era un segreto militare. La Spagna era rimasta neutrale, per questo i medici spagnoli potevano confidare le proprie ricerche ai giornali. Imperversava da mesi, almeno dalla primavera del 1917, prima nei campi di addestramento del corpo di spedizione Usa destinato all’Europa, poi nelle trincee, infine tra la popolazione civile. C’è chi ritiene che fu la Spagnola a mettere fine alla guerra. I tedeschi, che avevano trasferito dall’Est al fronte occidentale tutte le loro divisioni dopo aver firmato la pace con la Russia ormai sovietica, non furono in grado di usarle: l’influenza le 39 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 39 08/10/20 09:49 aveva messe fuori combattimento. Dovettero chiedere l’armistizio. Forse non sapevano che nelle stesse condizioni erano tre quarti degli effettivi francesi e metà di quelli britannici. “Epidemia-sfinge, così sfinge che pare si irrida di noi e delle nostre fissazioni di conoscere,” scrive nel 1919 il dottor Ernesto Bertarelli, medico, epidemiologo, giornalista. Anche perché all’inizio, come i governi fanno spesso, da che mondo è mondo, non si voleva che si sapesse. C’erano i proclami, le misure sanitarie, consigli e prescrizioni a non finire, una profusione di inserzioni pubblicitarie su farmaci, rimedi miracolosi, dispositivi di protezione personale e apparecchi per disinfettare i luoghi pubblici. Ma poco o nulla su con che cosa si avesse a che fare. A cent’anni e rotti di distanza della Spagnola, su quella “strana malattia” ne sappiamo ancora poco. Così come sappiamo tutto sommato poco della Morte nera di mezzo millennio prima. E, malgrado gli strumenti avanzati di cui disponiamo, continuiamo a sapere molto meno di quel che vorremmo sapere del Covid. Il Novecento breve, quello che inizia con la Grande guerra, è un secolo malato come quelli che l’hanno preceduto. Anche se, paradossalmente, è quello che registra più successi contro le malattie. È segnato dalla Grande pandemia del 1917-19, come il 1300 e il 1600, e anche i secoli in mezzo, erano stati segnati, dalla peste che faceva strage all’improvviso quando nessuno se l’aspettava, andava via altrettanto all’improvviso e poi tornava, a bussare, a ripetizione, con la stessa maschera o travestendosi in altro modo. Quella pandemia il secolo ce l’ha nel sangue, anche quando in apparenza non lo dà a vedere, sembra essersela lasciata alle spalle. Non riesce a togliersela di testa, anche quando apparentemente pensa e scrive d’altro. La pandemia non è solo sullo sfondo dei pensieri della gentile Signora Dalloway. Straripa da ogni verso del The Waste Land di T.S. Eliot, anche se non viene mai evocata direttamente. Nel 1919, a guerra finita, William Butler Yeats, che fino ad allora aveva scritto di fate, folletti e splendide poesie 40 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 40 08/10/20 09:49 d’amore, scrive una profezia cupissima sul mondo che sta andando a pezzi. The Second Coming, la seconda venuta è un grido contro la guerra, il caos, ma anche contro la malattia. Fu composto al capezzale della moglie incinta che stava per morire d’influenza. Per molti autori è un’esperienza diretta, personale, spesso tragica. Anche se per scriverne non è necessario, e certo non basta essersi ammalati di peste, di spagnola o di Covid. Eliot e sua moglie Vivien si erano infettati probabilmente nel dicembre 1918, nella seconda ondata che aveva spazzato l’Inghilterra. Sua zia era morta in dicembre, suo padre nel gennaio 1919. In febbraio si era ammalata di polmonite virale la loro cameriera, e Vivien, che la curava, aveva avuto una ricaduta. Faulkner e Dos Passos, arruolatisi volontari per andare a combattere in Europa, furono bloccati dall’influenza contratta nei campi di addestramento. Gustav Klimt morì il 6 febbraio 1918, all’età di cinquantasei anni, probabilmente per una complicanza dell’influenza. Il suo pupillo Egon Schiele ne morì il 31 ottobre, che aveva solo ventotto anni. Tre giorni prima di influenza era morta sua moglie, incinta di sei mesi. Schiele stava lavorando a un dipinto, Famiglia, in cui si ritraeva assieme alla moglie e al nascituro. È rimasto incompiuto, viene considerato una rappresentazione profetica del morbo. C’è un autoritratto del 1919 in cui Edvard Munch si dipinge convalescente dalla spagnola. C’è chi ritiene che il design della Bauhaus, i suoi mobili minimalisti, siano stati concepiti per rispondere alle esigenze di semplicità e facilità di disinfezione imposte dalla Spagnola. C’è un rapporto stretto tra orrori e trauma della Spagnola e orrori e trauma di quella che un papa senza peli sulla lingua, Benedetto XV, già nel 1917 aveva chiamato l’“inutile strage”. Agli inizi di novembre del 1918 Blaise Cendrars stava girando, da assistente regista di Abel Gance, la scena finale di J’accuse, quella in cui un’orrida folla di morti nelle trincee, zombie ante litteram, va a turbare il sonno dei sopravvissuti. Gli capita di pranzare a Parigi con Guillaume Apollinaire. “Parlammo dell’epidemia di spagnola che stava facendo più morti della guerra. Avevo viaggiato in automobi41 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 41 08/10/20 09:49 le attraverso mezza Francia, e avevo visto alla periferia di Lione bruciare i cadaveri delle vittime dell’epidemia, dopo averli cosparsi di benzina, perché in città mancavano le bare […].” E a questa immagine se ne associa immediatamente un’altra, quella delle fabbriche che bruciano dopo un attacco aereo. Guerra e peste. Cendrars e Apollinaire avevano fatto la guerra, entrambi erano stati feriti gravemente. Cendrars aveva perso un braccio. Apollinaire era stato ferito alla testa. Pochi giorni dopo l’incontro a pranzo con Cendrars, Apollinaire fu ricoverato con l’influenza e morì di polmonite acuta. Il corteo funebre, racconta sempre Cendrars, incrociò una folla in festa per l’armistizio, che cantava, danzava, si abbracciava, e probabilmente diffondeva il contagio. Virginia Woolf ha però probabilmente ragione a ritenere che la sua epoca non sembra fare molta attenzione a quel che lei percepisce così nitidamente: al fatto che un attacco di influenza può “cambiare il mondo”. Quando niente cambia si può avere, o spacciare, l’impressione che tutto sia cambiato. Quante volte abbiamo sentito dire che “niente sarà come prima”? Invece, quando davvero tutto cambia, capita di non accorgersene. A quella generazione la Spagnola, l’influenza letale per antonomasia, cinquanta, forse cento milioni di morti, gli era passata addosso come un camion. Si sono rialzati in stato di shock. Hanno reagito quasi come non gli fosse successo niente, o almeno niente di così grave rispetto a tutto il resto. Altri ci misero anni a maturare l’accaduto. L’epidemia di influenza in Bianco cavallo, bianco cavaliere di Katherine Ann Porter è ambientata nel 1919, ma la novella fu pubblicata nel 1939. L’allora giovanissima reporter di un giornale di Denver, nel Colorado, era quasi morta di influenza. Ci aveva messo vent’anni a ripensare quello scontro col virus. Dicono che uno dei sintomi del Covid sia la perdita del senso del gusto e dell’olfatto. Se è così, le cose stanno molto diversamente dai sintomi che ricordano i sopravvissuti alla Spagnola. Ecco quel che Miranda, l’alter ego della Porter, ricorda (o le sembra di ricordare) al risveglio in ospedale: “Tornava il dolore, un dolore terribile, insistente, che le cor42 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 42 08/10/20 09:49 reva nelle vene, simile a un fuoco denso, e il fetore della corruzione le riempì le narici, l’odore dolciastro e nauseabondo della carne in putrefazione, del pus; aprì gli occhi e vide un debole chiarore attraverso un panno bianco e ruvido che le copriva la faccia, e s’accorse che l’odore di morte era nel suo corpo […]” Molti l’hanno definita “l’influenza dimenticata”. La memoria è selettiva. Capita che i sopravvissuti abbiano voglia o necessità di dimenticare. Ma sarà poi vero che i contemporanei quell’epidemia l’avevano presto dimenticata? O l’avevano piuttosto rimossa, interiorizzata? L’attenzione si concentrava su tutt’altro: sulla guerra, sul grande massacro nelle trincee, su un’intera generazione decimata, sul rimpianto del mondo perduto di ieri, sulle “migliaia di giovani morti perché le cose potessero continuare”, perché si perpetuasse il mondo di ieri (questa la sintesi della Signora Dalloway sulla Grande guerra, che vale intere biblioteche di storia). Per decenni si continuò a discutere sul se ci sarebbe stata un’altra guerra come quella. Oppure se si poteva evitare, e a quale prezzo. Pochi, quasi nessuno, si chiedevano se ci sarebbe stata un’altra epidemia. A scatenare passioni e fantasia erano piuttosto la Rivoluzione in Russia, la lotta di classe e la lotta politica in Occidente, la disoccupazione, la crisi. Più tardi l’attenzione si spostò sulla reazione alla lotta di classe e al bolscevismo, sul fascismo, sulla nomina a cancelliere di Hitler. Tutte cose che pure forse hanno qualcosa a che fare – lo vedremo in un capitolo successivo – con quella Grande pandemia. Intanto però ci si avventurava piuttosto nei labirinti della psiche, dell’intimo. Si passavano al vaglio del microscopio le ore e i giorni, le giungle del privato, le guerre intestine dell’anima. Anche gli agenti patogeni a dire il vero, ma meno. Le masse, la gente (e se è per quello anche la maggioranza degli intellettuali) non pensavano a quello, avevano ben altro di cui preoccuparsi. Che tanto se uno si ammala di influenza, o di tifo, di tubercolosi, o di qualche altra diavoleria, non c’è molto da fare. Inutile cercare e dare colpe, se passa bene, altrimenti ciccia. Se uno si becca il raffreddore, la più 43 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 43 08/10/20 09:49 diffusa malattia virale sulla faccia della terra, che ancora oggi non ha vaccino né cura, se lo tiene e cerca di farselo passare. Sempre lo stesso racconto? Ce la raccontano, ce la siamo raccontata da sempre. Influenza, pesti, contagi ci accompagnano da tempi immemorabili. Ci raccontano epidemie che hanno vissuto sulla propria pelle, di cui sono stati testimoni diretti. Oppure epidemie di cui hanno sentito dire, o di cui hanno letto. Ogni pandemia è diversa dall’altra. Eppure hanno qualcosa in comune. I racconti si somigliano. E soprattutto somigliano in modo impressionante alle cronache dei nostri giorni. A volte si ha l’impressione che si tratti dello stesso racconto, che si ripete continuamente. Succede nelle migliori famiglie, nei romanzi come nelle fiabe. Nella grammatica della narrativa di Algirdas Julien Greimas e nella morfologia delle fiabe di Vladimir Jakovlevi Propp tutti i racconti così minuziosamente analizzati e catalogati sono in fondo variazioni dello stesso racconto. Leggi Boccaccio – uno dei più grandi e precisi narratori della pandemia –– tra poco rileggeremo per intero il passo saliente della Cornice del Decamerone – e scopri che la peste che si abbatté su Firenze nel 1348 somiglia come una goccia d’acqua, nei sintomi, nel terrore, nella morìa, nelle conseguenze devastanti sull’animo umano, sull’ordine sociale, sulla solidarietà verso il prossimo, e anche i propri cari, a quella di Atene descritta da Tucidide. Somiglia, fin troppo, a tutte le altre pesti, pandemie, di cui scrivono gli autori classici, anzi a tutte le pesti letterarie di ogni tempo, comprese quelle che abbiamo letto sui giornali, le cronache dell’attualità. Boccaccio conosce bene i suoi classici. Così come li conosce Petrarca. Prendono ispirazione da Ovidio, forse da Livio, da Lucrezio. Leggi Lucrezio, e scopri che nei versi sulla peste riporta tali e quali passi di Tucidide. Tucidide, a sua volta, forse ha preso dalle Epidemie di Ippocrate, certamente è in- 44 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 44 08/10/20 09:49 fluenzato da come si parla di pestilenza nell’Edipo Re di Sofocle. Boccaccio era presente alla peste di Firenze, e Tucidide si era ammalato durante la peste di Atene. Manzoni invece la peste la conosceva solo dalle letture. “Copia”, oltre che da mille altre fonti d’archivio (tra i critici, il severissimo e pignolo Fausto Nicolini, l’amico di Benedetto Croce, scriverà tutto un libro, Peste e untori nei “Promessi sposi” e nella realtà storica, per rimproverargli di averle spesso e volentieri travisate). Prende un’infinità di idee, compresa la scena che ci ha fatto venire le lacrime sui banchi di scuola, della madre con in braccio la figlioletta Cecilia morta di peste, dal De Pestilentia del cardinale Federigo Borromeo. Il quale cardinale, a sua volta, pur essendo stato testimone diretto dell’epidemia di Milano del 1630, copia intere pagine di Tucidide. L’ultimo uomo di Mary Shelley è del 1826. Segue di poco il suo Frankenstein. Immagina un unico sopravvissuto alla pandemia che colpisce il mondo nell’anno 2092. Si tratta di un morbo misterioso. Inizia da Costantinopoli, si diffonde attraverso l’Asia, “dalle rive del Nilo alle sponde del Caspio, dall’Ellesponto al mare di Oman”. All’inizio l’Inghilterra si crede del tutto sicura. “Di mezzo, tra noi e la pestilenza c’erano Francia, Germania, Italia e Spagna, muri ancora senza breccia.” Poi distrugge e spopola intere nazioni: “Le grandi città dell’America, le fertili pianure dell’Hindustan, le popolose contrade della Cina”. Anche la superba civiltà industriale britannica si riduce a tribù primitive che si fanno la guerra l’un l’altra. È del 1842, meno di un ventennio dopo, La maschera della morte rossa dell’americano Edgar Allan Poe. Racconta di un’epidemia che sta devastando un regno medievale. Non è peste, è anche peggio. Un principe e la sua corte si rifugiano in un castello inaccessibile isolato tra i monti. Se ne fregano della peste che si accanisce sulla povera gente. Si credono immuni. Festeggiano e folleggiano. Finché ad uno splendido ballo in maschera si presenta un ospite sconosciuto e terrificante: la Morte rossa in persona. Molti hanno notato i debiti che Poe ha verso Shakespeare. Debiti 45 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 45 08/10/20 09:49 peraltro riconosciuti dall’autore: il principe si chiama Prospero come il mago protagonista della Tempesta; e anche il titolo del racconto di Poe viene da lì, dalla maledizione che Calibano lancia sul suo padrone: You taught me language, and my profit on’t Is, I know how to curse. The red plague rid you For learning me your language! Mi hai insegnato il linguaggio, e il profitto che ne cavo / è che ho imparato a maledire. Che ti prenda la Peste rossa… (The Tempest, Act I, scene II, 137) Negli anni trenta: già i negazionisti La peste è il terreno privilegiato della metafora. Per Montaigne “la peste dell’uomo è la presunzione del sapere”. E giù di seguito il carico da novanta: “Ecco perché l’ignoranza ci viene tanto raccomandata dalla nostra religione come qualità propria alla fede e all’obbedienza”. Il suo era il secolo dei processi e dei roghi delle streghe. Per Hitler la malattia che contagiava – in senso figurato ma anche in senso letterale –– la Germania e l’occidente erano gli ebrei, da eliminare come i pidocchi e altri parassiti. Per contro, nelle ultime campagne elettorali nella Repubblica di Weimar, tra 1932 e 1933, si poteva trovare, sui manifesti affissi per le strade, e anche nei giornali, la messa in guardia contro Die Nazi-Pest, la peste nazista. La peste bruna, è intitolato il diario di Daniel Guérin sugli ultimi giorni della Germania di Weimar. La sua lezione sul Teatro e la Peste, Antonin Artaud la pronunciò alla Sorbona il 6 aprile 1933. Hitler era al governo in Germania da tre mesi. Karel apek è l’autore di La peste bianca, satira teatrale in tre atti su epidemie e dittatura, tanto profetica quanto la satira sulla dittatura dei robot in R.U.R. La scrisse nel 1937, proprio alla vigilia dell’invasione della sua Cecoslovacchia. 46 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 46 08/10/20 09:49 Ecco una scena del primo atto, in un salotto per bene: Il padre (che è in poltrona intento a leggere il suo giornale): Questa dannata malattia! La smettessero una buona volta, come se non avessimo altro a cui pensare […] Il padre: L’hanno gonfiata di brutto. Basta uno starnuto, ed ecco che lo chiamano Peste bianca. Un caso o due e i giornali impazziscono […] Stupidaggini, storie per spaventare la gente! Dicono che viene dalla Cina. Ma perché dovremmo tirar fuori soldi per aiutare questi paesi arretrati? Fame e povertà, pestilenze e virus – sono terreni di coltura delle malattie! […] Ma mettiamoli in riga una buona volta! […] Dice che è contagioso. Ebbene, spediamoli nei campi [di concentramento], così non ci possono più contaminare! Ed ecco risolto, in quattro e quattr’otto! È una vergogna […]. Karel apek, La peste bianca Non ci sarebbe Macondo in Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, se non fosse per un’epidemia molto particolare, molto ironica e molto metaforica, la “peste dell’insonnia”, cui si rimedia con una quarantena che inverte completamente i ruoli di sani e ammalati: “Quando José Arcadio Buendía si accorse che la peste aveva invaso il villaggio, riunì i capi famiglia per spiegar loro quello che sapeva sulla malattia dell’insonnia, e fu deciso di adottare delle misure per impedire che il flagello si propagasse ad altre popolazioni della palude. Fu così che si tolsero ai capri le campanelle che gli arabi barattavano coi pappagalli, e furono messe all’entrata del villaggio a disposizione di coloro che trascuravano i consigli e le suppliche delle sentinelle e insistevano nel voler visitare il villaggio. Ogni forestiero che in quell’epoca percorreva le strade di Macondo doveva far suonare la sua campanella perché i malati sapessero che era sano. Non gli si permetteva né di mangiare né di bere nulla durante il soggiorno, perché non c’era dubbio che la malattia si trasmetteva soltanto per bocca, e tutte le cose da bere e da mangiare erano contaminate di insonnia. In quel modo si mantenne la peste circoscritta al perimetro dell’abitato. La quarantena fu così efficace, che giunse il 47 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 47 08/10/20 09:49 giorno in cui lo stato di emergenza venne considerato come cosa naturale, e si organizzò la vita in modo tale che il lavoro riacquistò il suo ritmo e nessuno si preoccupò più dell’inutile abitudine di dormire” (Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine). Le epidemie non mancano nella letteratura sudamericana. Se non è peste, è cólera-morbo, febre amarela… E le malattie contagiose si intrecciano col destino, col fado, forse più che ad altre latitudini. I morbi non potevano certo mancare nei romanzi del maggiore scrittore e poeta brasiliano, Joaquim Maria Machado de Assis, povero, balbuziente, epilettico, figlio di un imbianchino mulatto discendente di schiavi e di una lavandaia portoghese. Nelle Memorie postume di Brás Cubas, del 1881, fa già la comparsa il personaggio di Quincas Borba, il quale “diceva che, per quanto fosse orrendo lo spettacolo, aveva un vantaggio di molto peso: la sopravvivenza del maggior numero”. E poi, nel successivo romanzo al quale dà vent’anni dopo il titolo, lo stesso personaggio continua a ponderare che “questo supposto è un beneficio, non solo perché elimina gli organismi deboli, incapaci di resistere, ma anche perché consente l’osservazione scientifica, la scoperta di farmaci curativi…”. E poi sentenzia che “l’igiene è figlia di marciumi secolari: la dobbiamo a milioni di putrefatti e infetti…”. Una versione letteraria ottocentesca delle teorie dell’“immunità di gregge”, più infetti più immuni, e peggio per chi ci resta secco? Il modello di Bolsonaro? Tutto è metafora ne La peste di Albert Camus, uno dei testi più belli, più letti e riletti, più citati in tema. Così come è metafora il colera in Provenza nell’Ussaro sul tetto di Jean Giono, pubblicato nel 1951. Camus non è testimone diretto di una catastrofe medica, non c’è stata epidemia di peste a Orano, in Algeria, nel 1940. Anche Camus, come tutti i grandi che hanno scritto di pandemie, ha fatto i suoi compiti a casa sui classici: ha letto, annotato e usato Tucidide. La peste di cui scrive, che si diffonde senza che ci sia modo di arrestarla, che non sparirà mai del tutto neanche quando sembra 48 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 48 08/10/20 09:49 finita, e la gente scende nelle strade a festeggiare, è l’invasione nazista della Francia, i germi sono quelli del fascismo, dell’intolleranza. Più tardi ci furono anche polemiche, qualcuno lo accusò di aver preso l’idea di ambientare la pandemia a Orano dal titolo di un romanzo di un autore italiano, Raoul Maria De Angelis, La peste a Urana, uscito in prima edizione nel luglio del 1943. La metafora politica era diffusissima. “Scrivo in un paese devastato dalla peste”, dice Louis Aragon in Le Musée Grevin, pubblicato nel 1943, in piena occupazione nazista con lo pseudonimo di François la Colère. Anche Jean-Paul Sartre ebbe l’incarico da una casa cinematografica di scrivere una sceneggiatura sulla peste. Ma nel frattempo la guerra era finita e l’ambientò invece in una Malesia immaginaria, trasformando la metafora contro il fascismo in metafora contro il colonialismo. Era intitolata Typhus. Ruota non tanto sull’epidemia quanto su un traffico di certificati di vaccinazione. La vaccinazione è obbligatoria, ma si è diffusa la voce che sia nociva. Un medico senza scrupoli vende certificati ai ricchi che vogliono evitare l’iniezione. Il film non si fece mai. 1944, anziché il non definito 194- di Camus, è la data in cui viene ambientato Nemesis di Philip Roth. Non tratta di peste ma di polio. Anche questo libro di Roth, come gli altri romanzi, è ricco di metafore, mi verrebbe da dire profezie, sull’America di quegli anni e degli anni successivi. L’Horror!, l’Horror! C’è un intero genere letterario che a che fare in ultima analisi con contagi ed epidemie: l’horror. Edgar Allan Poe ne è il gran maestro. H.P. Lovecraft il sublime, un po’ antipatico, continuatore. Il terrore si percepisce, incombe, ma è invisibile, come lo sono virus e batteri. Jack London, ne La peste scarlatta (1912), prende di peso da L’ultimo uomo di Mary Shelley (1826) l’idea dell’apocalisse da pandemia raccontata dal sopravvissuto riscagliato allo stato selvaggio. E prende tutta la suspense dell’orrore, dell’impossibilità per i ricchi di 49 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 49 08/10/20 09:49 sfuggire al contagio, da un altro racconto ottocentesco, La maschera della morte rossa di Poe (1842). Il quale Poe, abbiamo già visto, aveva preso da Shakespeare. La Shelley aveva ambientato la vicenda nel per lei lontanissimo 2092, London la ambienta in un profetico 2012. Anno più, anno meno, quasi azzecca il Covid. London è un populista, un pochino razzista, immaginerà di sterminare, con bombe ai batteri, tutti i cinesi. Eppure piaceva da impazzire al ribellismo di sinistra nel secolo scorso. La Shelley è invece, come il marito poeta morto giovanissimo, una progressista. Veniva letta appassionatamente dalle figlie di Marx. E, ci scommetterei, anche dal vecchio Karl (in una lettera chiama i malanni che lo stanno tormentando: “i miei Frankenstein”). Poe, da buon americano, è un individualista, che coltiva recriminazioni e terrori personali. C’è chi ha osservato che forse l’idea della morte rossa che si infila al ballo in maschera dei potenti, che si illudono di avere scampato la peste isolandosi dai poveracci, ha a che fare con un astio personale, nei confronti del ricco patrigno, il quale aveva tagliato Poe fuori dall’eredità, lasciandolo in ristrettezze, proprio mentre la moglie stava morendo di tisi. I secoli della peste avevano inventato e bruciato le streghe. L’Ottocento e il Novecento creano mostri di fantasia, che gli procurano un brivido di piacere. Inventano il romanzo finto-medievale, il genere gothic, i vampiri, i fantasmi, le sedute spiritiche. I fantasmi non sono più solo allucinazioni da febbre, quelli che, stando al racconto di Tucidide, i cittadini appestati di Atene incontravano all’angolo di casa o per la strada. Non nascono più solo con l’epidemia. Diventano frequentazione quotidiana. Infestano ogni castello o rovina, ogni cavea o sotterraneo. Divorano impercettibilmente, dall’interno, distruggono e si autodistruggono come La Casa degli Usher, che anticipa la senescenza e la “peste” delle infrastrutture ai giorni nostri, l’erosione, la ruggine, la mancanza di manutenzione che fa crollare i ponti e dissesta le strade. Non hanno più consistenza materiale, sono solo spiriti, non più spiriti che si mostrano, come il fantasma del pa50 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 50 08/10/20 09:49 dre di Amleto, o l’ombra di Banquo. Sono invece entità terribili ma del tutto invisibili, come i germi di cui la scienza ha cominciato ad accorgersi. Ci penserà il cinema, nel Novecento, a dargli un volto. Lo vedremo più avanti. Il terrore è l’ignoto. Ciò che sta in agguato nel buio. Se non è peste è la lebbra. Come ne Il Marchio della bestia di Rudyard Kipling, giusto a cavallo tra 1800 e 1900. Un militare ubriaco fradicio in India entra in un tempio dedicato al Dio Scimmia. Oltraggia l’idolo di Hanuman. Esce dal buio una figura bianca, sembra un lebbroso, si limita ad abbracciarlo, gli poggia la testa sul petto. Il mattino dopo scopre di avere un segno, un marchio dove quello l’ha toccato. Suda, ha strani brividi, gli amici cominciano a preoccuparsi quando comincia a mangiare come un animale, strappa a morsi la carne sanguinolenta dall’osso, si rotola per terra e ulula. Il medico diagnostica idrofobia. Ma non c’entra. S’è beccato per contagio una malattia sconosciuta. Una zoonosi, da bestia a bestia… Anche nell’Ombra su Innsmouth di Lovecraft, che è del 1931, il terrore è qualcosa che non si vede, uno strano contagio che ha degenerato gli abitanti; ha a che fare con un’oscura trasgressione razziale, anzi un salto di specie… L’horror si intreccia alla scienza, alla medicina, al fantastico, al poliziesco, all’ipnosi, al mesmerismo alle sedute spiritiche. Poe è anche l’inventore del romanzo giallo, con Il delitto della Rue Morgue. Lo Sherlock Holmes di Conan Doyle ha a che fare con cattivi che maneggiano veleni. C’è un filo rosso che collega orrore, contagi, scienza e fantasia, da Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1891), all’ Isola del dottor Moreau di H.G.Wells (1896), al Dracula di Bram Stoker (1897). Robert Louis Stevenson dedica un suo racconto ai “Trafugatori di salme” (The Body Snatcher) che riforniscono clandestinamente il teatro anatomico dell’Università di Edimburgo. A parte L’isola del tesoro, il più noto dei suoi racconti è forse Lo strano caso del Dr. Jekyll e del signor Hyde, del 1886 in cui si mischiano horror, giallo e farmacologia. 51 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 51 08/10/20 09:49 Il soave, raffinato dottor Jekyll ha inventato una droga potentissima (una polverina conservata in bustine) che tira fuori la bestia che è in lui (che forse è in tutti noi). “Poi tutto d’un tratto proruppe in una furia incontenibile […] perse il lume degli occhi e con un colpo terribile lo fece stramazzare a terra. Si mise subito a calpestarlo come un gorilla inferocito, scaricandogli addosso una tale tempesta di colpi che si udiva lo scricchiolio delle ossa fracassate, mentre il corpo sobbalzava sul selciato […]” Sembra la cronaca recentissima dell’aggressione a un ragazzino che si era intromesso per fermare un pestaggio. Ho letto da qualche parte che il padre dei fratelli ultrapalestrati accusati del bestiale omicidio avrebbe ridimensionato: “Era solo uno di colore…”. Dracula ha letto Manzoni? Molto ricco di suggestioni, e anche molto divertente è il saggio, del 2008, di un allievo di Umberto Eco, Renato Giovannoli, intitolato Il vampiro innominato, sottotitolo “Il ‘Caso Manzoni-Dracula’ e altri casi di vampirismo letterario” (Edizioni Medusa). Documenta, a tratti scherzosamente, a tratti sul serio, le molteplici “contaminazioni” tra I promessi sposi (1827, edizione definitiva 1840-42) e il Dracula di Bram Stoker (1897). Da non perdere, oltre ai puntuali confronti testuali, le illustrazioni molto “gothic”, commissionate, con precise indicazioni, da Manzoni in persona al pittore e scenografo piemontese Francesco Gonin per l’edizione definitiva. Il delizioso, avvincente, documentatissimo gioco comparativo, con le sue sorprese a ogni pagina, continua e si estende, in un altro capitolo-dossier, al “Caso Manzoni-Poe”, a un “Caso Dracula-Joyce”, a un “Caso Dracula-Kafka”, persino a un “caso Dracula-Peter Pan”. Se vi va di leggere un solo libro sui contagi letterari a proposito di peste, vampiri, zombi, untori e altre “horrorerie”, leggetevi questo, sarei tentato di suggerire. Non c’è grande scrittore che non “copi” da qualcun al52 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 52 08/10/20 09:49 tro. Non c’è il minimo intento denigratorio nell’uso che faccio di questo termine. Tutta la letteratura, tutto lo scibile umano procede dall’elaborazione, dallo sviluppo di qualcos’altro, da una mutazione delle analogie, infinita come sono infinite le mutazioni in ogni organismo vivente, e dei virus, che ne sono un’infinitesima componente. Anche i virus copiano, all’infinito: copiano se stessi, e, tanto per non annoiarsi, introducono mutazioni, fanno errori di trascrizione. Lo fanno utilizzando strutture e materiale altrui, da soli non sarebbero in grado. Gli errori di trascrizione sono la malattia. O talvolta ne sono l’antidoto. I libri – anche, oserei dire soprattutto, i grandi libri – si contagiano l’un l’altro. Non è banale plagio. È un contagio estremamente produttivo. Ciascuno aggiunge qualcos’altro. Il risultato è qualcosa di nuovo, spesso più ricco e profondo dell’originale; anche se talvolta ha il difetto di riprodurre errori, credenze superate o smentite, banalità. Pure le idee sono contagiose. A proposito, la pandemia ha fatto fiorire sul web consigli su come si disinfettano i libri: pare che il metodo più consigliato sia ripassarli con uno straccio imbevuto di alcol, amuchina o altro disinfettante. Anche questa non è un’idea del tutto originale. Nel Settecento, in un’epoca in cui le quarantene erano diventate norma, e, come accade ancora oggi, venivano viste come la peste dai commercianti, i capitani delle navi che giungevano in porto dovevano fare una sorta di autocertificazione: giuravano di aver adeguatamente disinfettato le merci trasportate e di non avere avuto malati a bordo. Giuravano su Bibbie che erano state immerse in acqua di mare. In alternativa, per rendere a prova di virus i libri, si potrebbe “bombardarli” con raggi ultravioletti. Oppure metterli in un forno a bassa temperatura, 160 Fahrenheit, che sarebbero 71 gradi centigradi. È la temperatura a cui muoiono anche acari e cimici. “I libri no, non li rovina!” rassicurano. Ma non mi va di provare, perché mi fa venire in mente quelli che i libri li bruciavano, e ancora vorrebbero bruciarli. 53 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 53 08/10/20 09:49 2. Un racconto tira l’altro firenze 1348 “Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. E in quella non valendo alcuno senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazione della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel co54 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 54 08/10/20 09:49 minciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’ altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno. A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra ‘l terzo giorno dalla apparizione de’ sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare. Maravigliosa cosa è da udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna udito l’avessi. Dico che di tanta effica55 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 55 08/10/20 09:49 cia fu la qualità della pestilenzia narrata, nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte un dì così fatta esperienza: che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra. Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno medesimo salute acquistare. E erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere; e fatta brigata, da ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori di morte o d’infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimorano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando attorno e sollazzando e il sodisfare d’ogni cosa all’appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male; e così come il dicevano mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l’altrui case faccendo, solamente che cose vi sentisse56 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 56 08/10/20 09:49 ro che lor venissero a grado o in piacere E ciò potevan far di leggiere, per ciò che ciascun, quasi non più viver dovesse, aveva, sì come sé , le sue cose messe in abbandono; di che le più delle case erano divenute comuni, e così l’usava lo straniere, pure che ad esse s’avvenisse, come l’avrebbe il proprio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl’infermi fuggivano a lor potere. E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era d’adoperare. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via, non strignendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell’altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza rinchiudersi andavano a torno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l’aere tutto paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente. Alcuni erano di più crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona come il fuggir loro davanti; e da questo argomento mossi, non curando d’alcuna cosa se non di sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propia città, le propie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado, quasi l’ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse; o quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta. E come che questi così variamente oppinanti non moris57 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 57 08/10/20 09:49 sero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata né petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o l’avarizia de’ serventi, li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quelli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno, e i più di tali servigi non usati, li qual niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl’infermi addomandate o di riguardare quando morieno; e, servendo in tal servigio, sé molte volte col guadagno perdeano. E da questo essere abbandonati gli infermi da’ vicini, da’ parenti e dagli amici e avere scarsità di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito: che niuna, quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava d’avere a’ suoi servigi uomo, egli si fosse o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire non altramenti che a una femina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse; il che, in quelle che ne guerirono, fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette, cagione. E oltre a questo ne seguio la morte di molti che per avventura, se stati fossero atati, campati sarieno; di che, tra per lo difetto degli oportuni servigi, li quali gl’infermi aver non poteano, e per la forza della pistolenza, era tanta nella città la moltitudine di quegli che di dì e di notte morieno, che uno stupore era a udir dire, non che a riguardarlo. 58 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 58 08/10/20 09:49 Per che, quasi di necessità, cose contrarie a’ primi costumi de’ cittadini nacquero tra coloro li quali rimanean vivi. Era usanza (sì come ancora oggi veggiamo usare) che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano e quivi con quelle che più gli appartenevano piagnevano; e d’altra parte dinanzi alla casa del morto co’ suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini e altri cittadini assai, e secondo la qualità del morto vi veniva il chericato; ed egli sopra gli omeri sé suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta anzi la morte n’era portato. Le quali cose, poi che a montar cominciò la ferocità della pistolenza tutto o in maggior parte quasi cessarono e altre nuove in lor luogo ne sopravennero. Per ciò che, non solamente senza aver molte donne da torno morivan le genti, ma assai n’erano di quegli che di questa vita senza testimonio trapassavano; e pochissimi erano coloro a’ quali i pietosi pianti e l’amare lagrime de’ suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di quelle s’usavano per li più risa e motti e festeggiar compagnevole; la quale usanza le donne, in gran parte postposta la donnesca pietà, per la salute di loro avevano ottimamente appresa. E erano radi coloro, i corpi de’ quali fosser più che da un diece o dodici de’ suoi vicini alla chiesa acompagnato; li quali non gli orrevoli e cari cittadini sopra gli omeri portavano, ma una maniera di beccamorti sopravenuti di minuta gente (che chiamar si facevan becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva), sotto entravano alla bara; e quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la morte disposto ma alla più vicina le più volte il portavano, dietro a quattro o a sei cherici con poco lume e tal fiata senza alcuno; li quali con l’aiuto de’ detti becchini, senza faticarsi in troppo lungo oficio o solenne, in qualunque sepoltura disoccupata trovavano più tosto il mettevano. Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana, era il raguardamento di molto maggior miseria pieno; per ciò che essi, il più o da speranza o da povertà ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano; e non essendo né serviti né atati d’alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione, tutti morivano. E assai n’erano 59 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 59 08/10/20 09:49 che nella strada publica o di dì o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de lor corpi corrotti che altramenti facevano a’ vicini sentire sé esser morti; e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno. Era il più da’ vicini una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione de’ morti non gli offendesse, che da carità la quale avessero a’ trapassati. Essi, e per sé medesimi e con l’aiuto d’alcuni portatori, quando aver ne potevano, traevano delle lor case li corpi de’ già passati, e quegli davanti alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n’avrebbe potuti veder senza numero chi fosse attorno andato: e quindi fatte venir bare, e tali furono, che, per difetto di quelle, sopra alcuna tavola ne ponieno. Né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente, né avvenne pure una volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie e ‘l marito, di due o tre fratelli, o il padre e il figliuolo, o così fattamente ne contenieno. E infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quatro bare, da’ portatori portate, di dietro a quella: e, dove un morto credevano avere i preti a sepellire, n’avevano sei o otto e tal fiata più. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati; anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre; per che assai manifestamente apparve che quello che il naturale corso delle cose non avea potuto con piccoli e radi danni a’ savi mostrare doversi con pazienza passare, la grandezza de’ mali eziandio i semplici far di ciò scorti e non curanti. Alla gran moltitudine de’ corpi mostrata, che a ogni chiesa ogni dì e quasi ogn’ora concorreva portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo dare a ciascun luogo proprio secondo l’antico costume, si facevano per gli cimiterii delle chiese, poi che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravegnenti: e in quelle stivati, come si mettono le mercatantie 60 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 60 08/10/20 09:49 nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno infino a tanto che la fossa al sommo si pervenia. E acciò che dietro a ogni particularità le nostre passate miserie per la città avvenute più ricercando non vada, dico che, così inimico tempo correndo per quella, non per ciò meno d’ alcuna cosa risparmiò il circustante contado. Nel quale, (lasciando star le castella, che simili erano nella loro piccolezza alla città) per le sparte ville e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno. Per la qual cosa essi, così nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d’aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per che adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li campi (dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte ma pur segate) come meglio piaceva loro se n’andavano. E molti, quasi come razionali, poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza alcuno correggimento di pastore si tornavano satolli. Che più si può dire (lasciando stare il contado e alla città ritornando) se non che tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra ‘l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l’esser molti infermi mal serviti o abbandonati né lor bisogni per la paura ch’aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l’accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti?” Boccaccio, Decameron, Prima giornata. 61 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 61 08/10/20 09:49 atene, 430 avanti cristo “I medici nulla potevano, per fronteggiare questo morbo ignoto, che per loro era nuovo. Ne morivano anzi più di frequente, poiché più facilmente erano esposti ai contatti con i malati. Ogni altra scienza o arte umana non poteva lottare contro il contagio. Le suppliche rivolte agli altari, il ricorso agli oracoli e ad altri simili rimedi riuscirono completamente inefficaci: alla fine si rinunciò a ogni tentativo, e ci si arrese al male. A quanto si dice, la peste comparve per la prima volta in Etiopia, al di là dell’Egitto, calò poi nell’Egitto e in Libia e si diffuse in quasi tutti i domini del re [di Persia]. Su Atene si abbatté all’improvviso, attaccando per primi gli abitanti del Pireo. Cosicché si mormorava che fosse colpa dei Peloponnesi [gli Spartani e i loro alleati], i quali avrebbero avvelenato le cisterne d’acqua piovana, ché lì [al Pireo] erano ancora sprovvisti d’acqua di fonte. Ma il contagio non tardò poi a dilagare nella città alta, e il numero dei decessi ad ampliarsi, con una progressione sempre più irrefrenabile. Dunque intorno a questa malattia ognuno, dotto o meno nell’arte medica, dica pure quel che sa, da dove pesa che essa sia venuta, e perché si sia scatenata con tanta virulenza. Da parte mia invece mi limiterò a esporre come si manifestava, da quali sintomi era preannunciata, di modo che se un giorno di nuovo si manifestasse di nuovo, tutti possano sapere di che cosa si tratta, e possano riconoscerla. Quell’anno, a giudizio di tutti, era trascorso completamente immune da altre forme di malattia. E se qualcuno aveva contratto in precedenza qualche altro morbo, questo degenerava senza eccezione nella presente infermità. Gli altri, fino a quel momento sani, senza motivo apparente, all’improvviso, erano dapprima assaliti da forti vampate di calore al capo. Gli occhi si arrossavano e si gonfiavano. Gli organi interni come la laringe e la lingua prendevano subito a buttare sangue. Il respiro esalava irregolare, e fetido. Sopraggiungevano altri sintomi, dopo i primi: starnuti e raucedine. In breve il male calava nel petto, con violenti attacchi di tosse. 62 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 62 08/10/20 09:49 Penetrava e si fissava poi nello stomaco: onde nausee frequenti, accompagnate da tutte quelle forme di evacuazione della bile che i medici hanno catalogato con i loro nomi. In questa fase le sofferenze erano molto acute. In più casi, l’infermo era squassato da urti di vomito, a vuoto, che gli procuravano all’interno spasimi tremendi: per alcuni, ciò avveniva subito dopo che si erano diradati i sintomi precedenti, mentre altri dovevano attendere lungo tempo. Al tocco esterno il corpo non rivelava una temperatura elevata fuori dell’ordinario, né un eccessivo pallore: ma si presentava rossastro, livido, coperto da una fioritura di pustolette e di minuscole ulcerazioni. Dentro, il malato bruciava di tale arsura da non tollerare neppure il contatto di vesti o tessuti per quanto leggeri, o di veli: solo nudo poteva resistere. Il loro più grande sollievo era di poter gettarsi nell’acqua fredda. E non pochi vi riuscirono, eludendo la sorveglianza dei loro familiari e lanciandosi nei pozzi, in preda a una sete insaziabile. Ma il bere misurato o abbondante produceva il medesimo effetto. Senza pause li tormentava l’insonnia e l’impossibilità assoluta di riposare. Le energie fisiche non si andavano spegnendo, nel periodo in cui la virulenza del male toccava l’acme, ma rivelavano di poter resistere in modo inaspettato e incredibile ai patimenti: sicché in molti casi la morte sopraggiungeva al nono e al settimo giorno, per effetto dell’interna arsura, mentre il malato era ancora discretamente in forze. Se invece superava la fase critica, il male s’estendeva aggredendo gli intestini, al cui interno si produceva una ulcerazione disastrosa accompagnata da una violenta diarrea: ne conseguiva una spossatezza, un esaurimento molte volte mortali. La malattia, circoscritta dapprima in alto, alla testa, si ampliava in seguito percorrendo tutto il corpo, e se si usciva vivi dagli stadi più acuti, il suo marchio restava, a denunciarne il passaggio, almeno alle estremità. Ne rimanevano intaccati i genitali, e le punte dei piedi e delle mani: molti, sopravvivendo al male, perdevano la facoltà di usare questi organi, alcuni restavano privi anche degli occhi. Vi fu anche chi riacquistata appena la salute, fu 63 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 63 08/10/20 09:49 colto da un oblio così profondo e completo da non conservare nemmeno la coscienza di se stesso e da ignorare i suoi cari. Il carattere di questo morbo trascende ogni possibilità descrittiva: non solo i suoi attacchi si rivelavano sempre più maligni di quanto le difese a disposizione della natura umana potessero tollerare, ma anche nel particolare seguente risultò che si trattava di un fenomeno morboso profondamente diverso dagli altri consueti: tutti gli uccelli e i quadrupedi che si cibano di cadaveri umani (molti giacevano allo scoperto) questa volta non si accostavano, ovvero morivano, dopo averne mangiato. Se ne ha una prova sicura poiché questa specie di volatili scomparve del tutto e non era più possibile notarli intenti al loro pasto macabro, né altrove. Ma indizi ancora più visibili della situazione erano offerti dal comportamento dei cani, per il loro costume di passar la vita tra gli uomini. È questo il generale e complessivo quadro della malattia, sebbene sia stato costretto a tralasciare molti fenomeni e caratteri peculiari per cui ogni caso, anche se di poco, tendeva sempre a distinguersi dall’altro. Nessun’altra infermità di tipo comune insorse nel periodo in cui infuriava il contagio, e gli eventuali sintomi di quelle confluivano [in quelli della pandemia]. I decessi si dovevano in parte alle cure assai precarie, ma anche un’assistenza assidua e precisa si rivelava inefficace. Non si riuscì a determinare, si può dire, neppure una sola linea terapeutica la cui applicazione risultasse universalmente positiva. (Un farmaco salutare in un caso, era nocivo in un altro). Nessuna complessione, di debole o vigorosa tempra, mostrò mai di possedere in sé energie bastanti a contrastare il morbo, che rapiva indifferentemente chiunque, anche quelli circondati dalle precauzioni più scrupolose. Nel complesso di dolorosi particolari che caratterizzavano questo flagello, uno s’imponeva, tristissimo: lo sgomento, da cui ci si lasciava cogliere, quando si faceva strada la certezza di aver contratto il contagio (la disperazione prostrava rapida lo spirito, sicché ci si esponeva molto più inermi all’attacco del morbo, con un cedimento immediato); inoltre 64 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 64 08/10/20 09:49 la circostanza che, nel desiderio di scambiarsi cure e aiuti, i rapporti reciproci s’intensificavano, e la gente moriva, come le pecore. Era questa la causa della enorme mortalità. Chi per paura rifiutava ogni contatto, periva solo. Famiglie al completo furono distrutte per mancanza di chi fosse disposto a curarle. Chi invece coltivava amicizie e relazioni, perdeva egualmente la vita: quelli in particolare che tenevano a far mostra di nobiltà di spirito. Mossi da rispetto umano, si recavano in visita dagli amici, disprezzando il pericolo, quando perfino gli intimi trascuravano la pratica del lamento funebre sui propri congiunti, abbattuti e vinti sotto la sferza della calamità. Una compassione più viva, su un morto o verso un malato, dimostravano quelli che ne erano scampati vivi: conoscevano di persona l’intensità del soffrire e si facevano forti d’un sentimento di sicurezza. Il male non aggrediva mai due volte: o, almeno l’eventuale ricaduta non era letale. Erano giudicati felici dagli altri e nella eccitata commozione di un momento si abbandonavano alla speranza, illusoria e incerta, che anche in futuro nessuna malattia si sarebbe più impossessata di loro, strappandoli a questo mondo. L’imperversare dell’epidemia era reso più insopportabile dal continuo afflusso di villici alla città: la prova più dolorosa colpiva gli sfollati. Poiché non disponevano di abitazioni adatte e vivevano in baracche soffocanti per quella stagione dell’anno: il contagio mieteva vittime con furia disordinata. I cadaveri giacevano a mucchi e tra essi, alla rinfusa, alcuni ancora in agonia. Per le strade si voltolavano strisciando uomini già prossimi a morire, disperatamente tesi alle fontane, pazzi di sete. I santuari che avevano offerto una sistemazione provvisoria, erano colmi di morti: individui che erano spirati lì dentro, uno dopo l’altro. La violenza selvaggia del morbo aveva come spezzato i freni morali degli uomini che, preda di un destino ignoto, non si attenevano più alle leggi divine e alle norme di pietà umana. Le pie usanze che fino a quell’epoca avevano regolato le esequie funebri caddero travolte in abbandono. Ciascuno seppelliva come poteva. Molti si ridussero a funerali indecorosi per la scarsità di arredi neces65 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 65 08/10/20 09:49 sari, causata dal grande numero di morti che avevano già avuto in famiglia: deponevano il cadavere del proprio congiunto su pire preparate per altri e vi appiccicavano la fiamma prima che i proprietari vi facessero ritorno, mentre altri gettavano sul rogo già acceso per un altro il proprio morto, allontanandosi subito dopo. Anche in campi diversi, l’epidemia travolse in più punti gli argini della legalità fino allora vigente nella vita cittadina. Si scatenarono dilagando impulsi prima lungamente repressi, alla vista di mutamenti di fortuna inaspettati e fulminei: decessi improvvisi di persone facoltose, gente povera da sempre che ora, in un batter di ciglia, si ritrovava ricca di inattese eredità. Considerando ormai la vita e il denaro come valori di passaggio, bramavano godimenti e piaceri che s’esaurissero in fretta, in soddisfazioni rapide e concrete. Nessuno si sentiva trasportare dallo zelo di impegnare con anticipo energie in qualche impresa ritenuta degna, nel dubbio che la morte giungesse a folgorarlo, a mezzo del cammino. L’immediato piacere e qualsiasi espediente atto a procurarlo costituivano gli unici beni considerati onesti e utili. Nessun freno di pietà divina o di umana regola: rispetto e sacrilegio non si distinguevano, da parte di chi assisteva al quotidiano spettacolo di una morte che colpiva senza distinzione, ciecamente. Inoltre, nessuno concepiva il serio timore di arrivar vivo a rendere conto alla giustizia dei propri crimini. Avvertivano sospesa sul loro capo una condanna ben più pesante: e prima che s’abbattesse, era umano cercare di goder qualche po’ della vita. Tale flagello aveva prostrato Atene, imponendovi il suo giogo. Dentro le mura cadevano le vittime del contagio; fuori, le campagne subivano la devastazione nemica. Venne naturalmente alla luce, mentre il morbo incrudeliva, la memoria di quell’oracolo che, a detta dei più anziani, risaliva a tempi molto antichi: “Verrà la guerra Dorica e pestilenza con essa”. Si discusse se gli antichi avessero veramente pronunciato nel testo di quell’oracolo l’espressione “pestilenza” [loimos] e non piuttosto “carestia” [limos]. Prevalse, come ci si può ragionevolmente aspettare, considerate le circostan66 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 66 08/10/20 09:49 ze, l’interpretazione secondo cui nel testo suddetto compariva la parola pestilenza, in quanto la gente configurava il suo ricordo alle presenti sofferenze. Ma io sono convinto che se i Dori, successiva a questa, scatenassero un’altra guerra ed esplodesse una carestia prevarrebbe allora l’altra interpretazione, come è del resto naturale. Inoltre, quanti ne erano al corrente, rammentarono l’altro oracolo riguardante gli Spartani, quello espresso dal dio in occasione della loro richiesta se dovessero dichiarare la guerra, con la risposta che la vittoria avrebbe arriso a loro, se s’impegnavano a fondo nei combattimenti, e con la promessa di un aiuto particolare del dio. Si congetturava che gli eventi coincidevano con le parole dell’oracolo: l’invasione dei Peloponnesi aveva segnato l’esplosione immediata dell’epidemia, che non era invece penetrata nel Peloponneso, almeno non con conseguenze degne di menzione. Invase soprattutto Atene e, in un processo di tempo, anche le fasce più popolose delle altre regioni. Questo è quanto concerne l’epidemia.” Tucidide, Storie, Libro II, 45-55 La versione di Lucrezio “Ora dirò quale causa provochi le malattie, donde scoppi, all’improvviso, la pestilenza che fa strage degli uomini e delle Mandrie e dei Greggi punto a capo vi sono nei corpi, Anzitutto, come ho già detto, vi sono molti germi (semina rerum) per noi vitali, e ne debbono volare altri che portano le malattie e danno la morte …. ed ecco che tosto un nuovo flagello pestilenziale, o cade nelle acque, o si insinua dentro le messi e altro cibo degli uomini e delle bestie, o anche resta sospeso nell’aria ….. Un morbo e flusso mortifero di questo tipo un tempo colpì Atene, ne funestò i campi, ne desolò le strade, svuotò la città di abitanti […] ne morivano a caterve [...] … 67 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 67 08/10/20 09:49 Dapprima la testa gli bruciava forte, e ambedue gli occhi ardevano rossi. La bocca annerita trasudava sangue, non riuscivano più a emettere voce, tanto la gola era chiusa dalle piaghe; la lingua che fa da interprete all’anima, indebolita dal male, pesante a muoversi, ruvida al tatto, colava sangue. La virulenza del morbo, invaso e riempito il petto, scendeva sin dentro il cuore oppresso. Allora si dissolveva quel che tiene allacciata la vita, il fiato che usciva dalla bocca mandava un atroce fetore, quello di putrefazione di cui puzzano le salme insepolte […] a questi mali intollerabili si accompagnava costantemente un’inquietudine angosciosa, e lamento frammisto a pianto. I singhiozzi frequenti, continui, di notte di giorno, facevano tendere senza tregua nervi e membra, scioglievano ogni forza residua […]. Al tatto la pelle non ardeva in superficie di un calore eccessivo, anzi dava alla mano la sensazione di essere solo tiepida. Ma tutto il corpo era già rosso di chiazze come fossero ustioni […] e internamente bruciava fino alle ossa, dentro lo stomaco ardeva una fiamma come dentro una fornace. Non sopportavano di coprirsi con nulla, per quanto leggero e sottile […] solo vento fresco e acqua gelata davano un qualche sollievo […] e alcuni si precipitarono nei pozzi, con spalancata la bocca […] all’arsura della sete non gli faceva differenza una pioggia torrenziale o poche gocce d’acqua. Non dava pausa il male: i corpi giacevano esausti […]. Balbettava la medicina zittita dal timore […]. Molti erano i sintomi che presagivano la morte: l’animo sconvolto tra frizione paura, un’espressione di mestizia, il viso agitato e duro, le orecchie disturbate piene di rumori, un respiro frequente e affannoso, Oh rumoroso ma lento ma diradato, grosse gocce lucide di sudore che colavano per il collo, sputi piccoli e radi, macchiati di colore giallognolo, amari, espulsi a fatica attraverso la gola da una tosse secca. Non smettevano di contrarsi i nervi delle mani, di tremare gli arti, e il freddo saliva gradualmente dai piedi in su. Di solito rendevano l’anima all’ottavo giorno e se alcuni, come accadeva, la scampavano al momento, la morte li ghermiva in seguito tra orride piaghe e neri flussi di ventre, con dolori al capo ed espulsione di sangue corrotto dal naso. 68 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 68 08/10/20 09:49 A chi sopravviveva all’emorragia il morbo entrava dentro nervi e arti, fin nelle parti genitali […] alcuni venivano amputati coi ferri delle parti virili; alcuni pur rimanevano in vita senza più mani, alcuni senza più piedi, alcuni perdevano gli occhi […] vi furono di quelli che persero del tutto la memoria al punto che non riuscivano neanche a riconoscere se stessi [...] Neanche un istante cessava di passare dall’uno all’altro il famelico contagio […] come tra pecore lanose e mandrie cornute […] e questo moltiplicava morte su morte […].” Lucrezio, De Rerum Natura, Libro VI, 1090-1286 La Peste Mitica di ovidio “Una peste tremenda, causata dall’ira dell’ingiusta Giunone, s’abbatté su questa terra, che ha nome dall’odiata rivale. Finché parve un male naturale e non si capiva la causa di tanta sciagura, si combatté con la medicina. Ma ogni soccorso era vano e falliva All’inizio il cielo gravò la terra con spessa caligine, strinse nella sua morsa di nubi una calura opprimente, e il tempo che la luna impiegò a colmare quattro volte il suo disco riunendo le corna, e, restringendosi, a disfarlo, un caldo austro spirò coi suoi soffi letali. Si apprende che il male s’è esteso alle sorgenti, ai laghi, molte migliaia di serpenti han preso a vagare per i campi incolti contaminando i fiumi coi loro veleni. Una strage di cani, da principio, e di uccelli, pecore, buoi, e di fiere fece capire la forza del morbo. L’aratore meschino vede abbattersi al lavoro tori in perfetta salute e giacere tra i solchi. Ai greggi lanosi, che mi mandano strazianti belati, la lana cade da sola e il corpo si piaga. Il cavallo un tempo focoso e di gran fama negli stadi non riesce più a vincere e, dimentico dell’antica gloria negli stazzi geme in attesa di una morte ingloriosa. Il cinghiale non sa più infuriarsi, la cerva affidarsi 69 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 69 08/10/20 09:49 alla fuga, gli orsi attaccare capi di bestiame robusti. Tutto è in preda all’inerzia: nei boschi, nei campi nelle strade corpi corrotti giacciono, l’aria contaminata. Dirò una cosa stupefacente: non li toccarono i cani, non gli uccelli rapaci, non i lupi grigi: si disfano, si sciolgono con, con i miasmi diffondono vasto contagio. Passa la peste a colpire con danno maggiore i miseri contadini e imperversa nelle mura della grande città. Prima si infiammano i visceri, il rossore è sintomo di fiamma nascosta e un respiro affannoso e stentato. La lingua, ruvida, si gonfia, la bocca essiccata s’apre ai venti afosi, s’inspira aria pesante. Non si sopporta né letto né alcun tipo di stoffa, nudi si giace proni sulla terra, e il corpo non gela contatto del suolo, Non c’è chi mitighi il male, la strage crudele si abbatte sui medici stessi, nuoce l’arte ai suoi stessi autori. Quanto più uno è vicino e più fedelmente cura il malato, più presto conosce la morte. e quando ogni speranza di salvezza se n’è andata e l’esito del male è solo la morte, ci si abbandona all’istinto, non si pensa più a ciò che potrebbe giovare: nulla infatti potrebbe. In disordine, senza ritegno, ci si attacca fonti a fiumi a pozzi capaci. Ma la sete bevendo non si estingue prima della vita. Così appesantiti, molti non riescono a risollevarsi e muoiono nell’acqua: Ma qualcuno beve anche da quella! E tanto è insopportabile per quei miseri l’odioso letto, che saltano giù, o, se non hanno forza d’alzarsi, rotolano a terra e fuggono via dei Penati. La propria casa appare funesta a ciascuno. E, non sapendo la vera causa, si incolpa il piccolo spazio. Mezzi morti li avresti veduti errare per le vie, finché Stavano in piedi, altri piangere distesi a terra Strabuzzando gli occhi stanchi in un ultimo moto. E tendere le braccia agli astri del cielo incombente, e spirare: quiqui, lì, dove la morte li coglie. … I corpi dei morti non ricevono i funerali consueti: 70 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 70 08/10/20 09:49 sto le porte della città non contengono tante processioni; o giacciono a terra insepolti, o sono posti sui roghi senza doni. E non c’è più rispetto per nulla: ci si accapiglia per i roghi, si crema col fuoco altrui Manca chi pianga, le ombre dei piccolini e dei padri, dei giovani e dei vecchi vagano incompiante, non c’è poper seppellire, non basta la legna per i roghi.” Ovidio, Metamorfosi, Libro VII 523-613 La Peste di giustiniano, anno doMini 542 “Quell’anno scoppiò una pestilenza da cui poco mancò che andasse distrutto l’intero genere umano. Di solito, a tutti i flagelli mandati dal cielo gli uomini cercano di dare delle spiegazioni, con molta presunzione: tali sono le varie ipotesi che con vani sproloqui amano avanzare coloro che si dicono esperti in materia, su fenomeni assolutamente incomprensibili per l’uomo, inventando strane teorie scientifiche, sebbene sappiano benissimo di dire cose senza alcun senso; però si considerano paghi se riescono a convincere chi capita loro a tiro, sbalordendolo con gran discorsi. Ma per questa pestilenza non c’è alcuna possibilità di esprimere a parole o anche solo di immaginare col pensiero una qualche spiegazione: resta unicamente da attribuire al volere di Dio. Essa non si abbatté soltanto su di una parte del mondo o solo su di un gruppo di uomini, né fu circoscritta a una determinata stagione dell’anno, di modo che sarebbe stato forse possibile fare congetture sulle sue cause; dilagò invece per tutto quanto l’universo e stroncò la vita di tanti uomini anche lontanissimi e diversissimi fra di loro, senza far distinzione né di età né di sesso. Infatti, sia che differissero per il luogo in cui abitavano e per consuetudine di vita, per caratteristiche fisiche, per attività di lavoro, o qualunque altra cosa in base alla quale gli uomini si diversificano tra di loro, Questo contagio non fece nessuna distinzione. Alcuni li 71 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 71 08/10/20 09:49 colpì d’estate, altri di inverno, altri ancora nelle altre stagioni dell’anno. […] mi limito a riferire dove la pestilenza incominciò a manifestarsi e in che modo fece strage fra gli uomini. Scoppiò innanzitutto in Egitto, tra gli abitanti della città di Pelusio [all’estremità orientale del Nilo] e di lì si propagò in due direzioni: l’una verso Alessandria e il resto dell’Egitto, l’altra verso le regioni della Palestina confinanti con l’Egitto; poi si sparse per tutta la terra, avanzando sempre, nei momenti a essa più favorevoli. Sembrava che si muovesse secondo una regola fissa, sostando in ciascun paese per un determinato periodo di tempo e colpendo tutti col suo contagio, e non alla leggera, per poi trasferirsi in un’altra zona, fino agli estremi confini della terra, come se temesse che qualche angolo del mondo le potesse sfuggire. Difatti non lasciò indenni né una sola isola né una spelonca in cima a un monte, ove si trovassero esseri viventi; e se per caso saltava qualche villaggio senza attaccare gli uomini che vi abitavano o sfiorandoli appena, tornava poi sui suoi passi, ma senza più toccare i vicini che aveva già decimato in precedenza, accanendosi invece o finché non avesse pareggiato il numero dei morti che nei villaggi limitrofi aveva fatto la prima volta. Il contagio cominciava sempre dalle regioni costiere, per poi diffondersi nell’entroterra. Nel secondo anno, a metà primavera, arrivò pure a Bisanzio, dove io allora mi trovavo. Molti cittadini cominciarono coll’avere apparizioni di fantasmi, simili nell’aspetto a persone; e quando si imbattevano in essi, avevano l’impressione di venire colpiti, in qualche parte del corpo. Subito dopo l’apparizione, venivano colti dalla pestilenza. Da principio chi vedeva i fantasmi cercava di cacciarli facendo scongiuri, ma senza risultato. Tant’è vero che molti morirono persino nelle chiese in cui avevano cercato rifugio. [Chi vedeva queste apparizioni] rifiutava persino di ricevere gli amici che venivano a fargli visita, e si chiudeva nella propria stanza, fingendo di non sentire se qualcuno bussava alla porta […]. Ma alla maggior parte succedeva di essere colti dalla pestilenza senza preavviso […]. Erano assaliti all’improvviso 72 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 72 08/10/20 09:49 dalla febbre […] il loro corpo non cambiava colore, né diveniva caldo, come avviene a chi ha la febbre, e neppure appariva alcuna infiammazione, anzi per tutta la giornata la febbre era così debole che né ai malati stessi né al medico che gli tastava il polso pareva preannunciare pericolo. Nessuno pensava di morire per quello. Ma alcuni il giorno stesso, altri il giorno dopo, altri ancora qualche giorno dopo, vedevano formarsi un bubbone in quella parte del corpo che è chiamata inguine, oppure sotto le ascelle, e, in qualche caso, anche sul collo, o in un punto qualsiasi delle cosce. A questo stadio della malattia più o meno i sintomi erano uguali per chiunque ne fosse colpito; ma da quel momento in poi cominciavano manifestazioni differenti, non so dire se per la diversità delle costituzioni fisiche o perché così era la volontà di Colui che aveva mandato l’epidemia. Alcuni cadevano in un coma profondo, erano presi da un violento delirio […] quelli in coma, indifferenti a tutto, sembrava dormissero in continuazione. Se c’era qualcuno che si prendeva cura di loro, di tanto in tanto assaggiavano un po’ di cibo, Ma se erano abbandonati a se stessi, per mancanza di nutrimento in breve tempo morivano. Invece quelli che erano presi dal delirio soffrivano di frequenti allucinazioni, e immaginando che qualcuno venisse a ucciderli erano scossi da una terribile agitazione, per cui si precipitavano in fuga, gridando disperatamente. Così coloro che li assistevano stavano in continua apprensione […] tanto che tutti avevano compassione di loro non meno che dei malati, e non perché avrebbero potuto contrarre la pestilenza avvicinandosi ai loro assistiti: Infatti non accadde che alcun medico o alcuna persona venissero contagiati dalla peste per aver toccato un malato o un morto, Tant’è vero che molti i quali erano sempre occupati a curare e a seppellire anche estranei, contrariamente a quanto si potrebbe supporre, continuarono nella loro attività, mentre molti altri furono colpiti inesorabilmente dalla malattia e morirono non in breve tempo […]. Era dura [per gli infermieri], quando i malati cadevano dal letto e si rotolavano a terra, gli toccava risollevarli, e quando tentavano di gettarsi giù dal tetto gli toccava affer73 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 73 08/10/20 09:49 rarli e strapparli via a forza. Se per caso si trovavano vicino a un corso d’acqua, volevano buttarsi dentro, non perché avessero sete, si sarebbero buttati anche nel mare. La causa era la loro alterazione mentale. Gli assistenti dovevano anche faticare molto a fargli assumere del prendere cibo, ché non gli andava di mangiare, tanto che molti, morirono o consunti dalla fame o per essersi gettati giù dall’alto […]. Ora, alcuni medici, trovandosi in imbarazzo perché non riconoscevano tutti questi sintomi, congetturarono che il focolaio della malattia consistesse nei bubboni, e perciò decisero di esaminare i cadaveri […] e, scoprirono che nel loro interno si era formata una specie di carbonchio purulento […] in certi casi fiorivano su tutto il corpo delle pustole nerastre grosse come lenticchie […] altri erano colti all’improvviso da sbocchi di sangue, che li soffocavano. […] Medici assai rinomati diagnosticarono a molti che sarebbero ben presto defunti, ed essi invece poco dopo si sentirono inaspettatamente liberi da ogni male; ma a molti altri assicurarono che si sarebbero salvati, e invece erano già moribondi. Di questa malattia non c’era nessuna spiegazione possibile per la scienza perché il decorso era sempre imprevedibile. Ad alcuni era di giovamento fare il bagno, altri erano stroncati dalla morte anche se si lavavano; molti morivano per mancanza di cure, altri invece inaspettatamente si salvavano. Le cure avevano effetti differenti su ciascun singolo paziente. Si può dire, insomma, che nessuno sapeva come fare per salvarsi, sia che prendesse precauzioni onde evitare il contagio, sia che cercasse di superare la malattia una volta che se l’era beccata. Si cadeva ammalati senza motivo e si guariva per puro caso.” Procopio di Cesarea, La guerra persiana, Libro II, 22 74 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 74 08/10/20 09:49 Chiedo scusa al lettore per l’inusitata, spropositata lunghezza delle citazioni in esergo a questo capitolo. Ma ho preferito dare la parola per esteso agli autori citati, anziché riassumerli, farli a pezzi, anatomizzarli, servirli a bocconi. “Il testo, il testo” ci insegnava, con la sua insistenza e l’accento siciliano, Salvatore Guglielmino, uno degli straordinari maestri che ho avuto la fortuna di avere al liceo Carducci di Milano (l’altro era Renato Fabietti). È faticoso. Può darsi che a qualcuno venga a noia. Ma credo ne valga la pena. Rende l’idea di quanto ognuna di queste narrazioni abbia a che fare con ciascun’altra. Nella scelta ho privilegiato le Historiae, rispetto alle Fabulae. Con una eccezione però, Ovidio, il quale racconta un mito, una favola per eccellenza, ma ha una posizione centrale rispetto a tutti gli altri, a quelli che hanno scritto prima e a quelli che hanno scritto dopo di lui. È quello che più carica il racconto di “effetti speciali”. La sua narrazione in qualche modo riassume quella degli altri. Le quali hanno tutte, per quanto siano precise, dettagliate, si riferiscano a una pandemia e a un momento storico determinato, hanno tutte qualcosa di favolistico. Quello di Boccaccio è il racconto più completo, e giustamente più famoso. È un vero e proprio “pezzo di bravura descrittiva”, come ebbe a definirlo Vittore Branca. Lì c’è tutto, ma proprio tutto. Contiene tutti gli elementi del dramma senza fine. Andrebbe letto e riletto, e ogni volta ci si trova 75 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 75 08/10/20 09:49 qualcosa che prima ci era sfuggito. Provare per credere. C’è la sorpresa per un male che colpisce a tradimento, che piomba all’improvviso, non si sa bene da dove. C’è l’impotenza della scienza medica: “Né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto”. La stessa impotenza di cui scriveva due millenni prima, con quasi le stesse parole, Tucidide: “I medici nulla potevano, per fronteggiare questo morbo ignoto, che tentavano di curare per la prima volta. Ne erano anzi le vittime più frequenti, poiché con maggiore facilità si trovavano esposti ai contatti con i malati”. E di cui poi scrisse Ovidio: “Si combatté con la medicina. Ma ogni soccorso era vano e falliva”. C’è la rapidità con cui la pandemia colpisce. C’è l’orrore dei morti insepolti, tanto numerosi che è ormai impossibile tributargli i consueti onori. C’è, onnipresente, la paura. C’è l’orrore dei sintomi, descritti con precisione minuziosa, fin troppo minuziosa e troppi tutt’insieme per consentire un’anamnesi accurata. Infine c’è lo sfaldarsi della pietà umana, della convivenza sociale. La peste del 1348 colpì l’immaginario dei contemporanei, quanto quello delle generazioni successive. Aveva spopolato mezza Europa, ucciso metà della popolazione, forse addirittura due terzi. Diede vita a un vero e proprio genere letterario, il racconto della peste. Un genere a sé, alla stregua del Giallo e del Noir a noi più vicini, e altrettanto popolare. Sono metà di mille i cronisti e i novellieri del Trecento che ne riferiscono. Talvolta con bizzarre differenze, altre volte in termini quasi identici. Ma c’c’è anche un’infinità di cronache dai conventi, memoriali di archivi municipali, testamenti, e ovviamente trattati medici e manuali d’igiene e prevenzione. “Letteratura popolare”, l’ha definita qualcuno. La Cronaca fiorentina del banchiere Baldassarre Buonaiuti, in arte Marchionne di Coppo Stefani, aggiunge, alle usuali descrizioni, immagini di particolare effetto, tipo il bizzarro paragone culinario per le sepolture a strati nelle fosse comuni, “a suolo, con poca terra, come si minestrasse lasagne a fornire di formaggio”.”. È un uomo pratico Marchionne, attento ai conti, alla lista della spesa. Come secoli 76 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 76 08/10/20 09:49 dopo lo sarà Defoe nel suo Diario della peste di Londra. Nota che “li beccamorti, che facevano gli servigi, erono prezzolati di sì gran prezzo, che molti n’arricchirono”, sebbene che poi di questi “molti ne morirono, chi ricco e chi con poco guadagno, ma gran prezzo avieno”. E ancora: “Le serviziali, o serviziali, che servieno li malati volieno da uno in tre fiorini per dì […]. Le cose che mangiavano i malati, confetti e zucchero, smisuratamente valevano […]. Li pollastri e altri pollami carissimi […]. La cera era miracolo […]. Lo vestire di stamigna [tela grossa], che si usava ne morti, che soleva costare a donna, gonnella, guarnacca e mantello e veli, fiorini tre, montò in pregio di fiorini trenta, e sarebbe ito in fiorini cento, se non che si levò il vestire di stamigna, e chi era ricco vestiva di panno, e chi non era ricco in lenzoletto lo cucìa […]. Di questa mortalità arricchirono speziali, medici, pollaiuoli, beccamorti, [e i venditori di] trecche di malba, ortiche, marcorelle ed altre erbe da impiastri per macerare”, contro i mali odori pestiferi. La puzza L’odore! L’odore! Prima ancora del “The horror! L’orrore!” con cui si chiude Cuore di tenebra di Conrad. In tutti gli autori classici, con pochissime eccezioni, la peste si riconosce innanzitutto dall’odore. La puzza dei cadaveri abbandonati in decomposizione, l’odore acre del fumo delle pire, e, prima ancora, l’odore di marciume, di sporcizia, che produce il miasma che si diffonde e contagia. Pestifero odore corporum in Livio. Non è solo un generico odore di marcio. È un odore che non si dimentica: persistente, dolciastro. L’ho sentito aleggiare tra le macerie dei terremoti assassini, tra le rovine bucherellate da colpi di arma da fuoco nelle città dove era passata la guerra, era ancora nell’aria a Bhopal dove la fuga di gas dall’impianto della Union Carbide aveva ucciso nel sonno decine di migliaia di persone. Nel volgarizzamento di Boccaccio, che tradusse Livio, tabes vale “putrefazione, corruzione” dei corpi, il puzzo insostenibile è prodotto dalla 77 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 77 08/10/20 09:49 “sozzura”. Nel passo saliente del Decameron riprodotto per esteso poco sopra, molti pensano di tener lontano la peste tenendone lontano gli odori, anzi coprendoli. Se ne vanno in giro “portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l’aere tutto paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente”. È una profumeria ambulante la maschera del Medico della Peste che da Venezia si sarebbe diffusa in tutta Europa. Nel lungo becco sono stipate erbe odorose. Nel corso dei secoli si sono fumigate, nettate, imbiancate e profumate le case degli appestati o sospetti appestati. “Fu allora che i profumieri cominciarono a purificare le case. Faticammo a lungo per farli arrivare (ché non appena il male si manifesta bisogna per prima cosa bruciare e purificare). La violenza e rapidità con cui agiva la peste li aveva intimiditi […]. Per poter entrare negli appartamenti con qualche sicurezza fecero prima bruciare nel mezzo delle stanze delle erbe odorifere, per dissipare le esalazioni pestilenziali e i miasmi diffusi. Qualche momento dopo fecero aprire porte e finestre. In seguito si gettavano dalle finestre gli effetti personali degli ammalati, per bruciarli sul ciglio della strada. Spazzati gli appartamenti, asportate con cura tutte le immondizie, si chiudevano di nuovo porta e finestre, e ogni altra apertura, per farvi il seguente profumo forte: “Noce di cipresso in polvere lb. 4, acquavite lb. 4, polvere di zolfo lb. 6, pece lb. 1, resina lb.2, salpetro e antimonio, in tutto lb. 3.” Così la ricetta, in una dettagliata relazione manoscritta, conservata negli archivi comunali di Martigues, nel Sud della Francia, sull’“ultima peste” europea, quella del 1720. Segue la raccomandazione di lasciare poi finestre e bauli aperti per almeno quattro giorni, e un’altra ricetta specifica, a base di alcool e trementina, per purificare i capi di abbigliamento. Pecunia comunque non olet. Tra i testimoni fiorentini che aggiungono notizie ai trattamenti letterari della Peste fiorentina del 1348, ci sono i due fratelli Villani, Giovanni e Mat78 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 78 08/10/20 09:49 teo, e il figlio di Matteo e nipote di Giovanni, Filippo. Sono uomini d’affari, hanno senso pratico, sono legati alla compagnia dei banchieri Bonaccorsi. Hanno una visione che va ben oltre la cinta delle mura cittadine, internazionale, globale si direbbe oggi. Hanno fatto i loro compiti sui classici. Ma sono più interessati ad aggiornarli in base alle news. Le loro cronache non hanno ambizione letteraria, quanto il raccontare degli intrichi e intrighi di politica interna e politica mondiale, delle guerre (e della loro possibile ricaduta sugli affari). La loro è una dinastia di cronisti. A cui si deve la cronaca più dettagliata delle vicende di Firenze, e del resto del mondo allora conosciuto, nel 1300. Le loro Croniche sono piene di pesti, epidemie, contagi, come dire, “locali”, anche prima e dopo quella del 1348. Ma quest’ultima è quella davvero universale, e ne rintracciano il percorso, da molto prima che si manifestasse nella loro Firenze: Cominciossi nelle parti d’Oriente, nel detto anno [1346, non 1348, alla stessa modo che il Covid si chiama 19 e non 20, perché già si aggirava nel 2019], inverso il Cattai e l’India superiore e nelle altre provincie circustanti a quelle marine dell’Oceano, una pestilenzia tra gli uomini d’ogni condizione di catuna età e sesso: che cominciavano a sputare sangue e morivano chi di subito, chi in due o in tre dí, e alquanti sostenevano più al morire. E avveniva che chi era a servire questi malati, appiccandosi quella malattia, o infetti, di quella medesima corruzione incontanente malavano, e morivano per somigliante modo; e a’ più ingrossava l’anguinaia [l’inguine], e a molti sotto le ditella [ascelle] delle braccia a destra e a sinistra, e altri in altre parti del corpo, che quasi generalmente alcuna enfiatura singulare nel corpo infetto si dimostrava. Questa pestilenzia si venne di tempo in tempo e di gente in gente apprendendo: comprese infra’l termine d’uno anno la terza parte del mondo che si chiama Asia. E nell’ultimo di questo tempo s’aggiunse alle nazioni del Mare Maggiore [mar Nero] e alle ripe del Mare Tirreno, nella Soria e Turchia, e in verso l’Egitto e la riviera del Mar Rosso, e dalla parte settentrionale la Russia e-lla Grecia, l’Erminia [Armenia] e l’altre conseguenti province. E in quello tempo galee d’Italiani si partirono del Mare Maggiore e della Soria e di Romania per fuggire la morte e recare le loro mercatanzie inn-Italia: e’ non poterono cansare [evitare] che gran parte di loro non morisse in mare di quella infermità. E arrivati in Cicilia conversaro co’ paesani e 79 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 79 08/10/20 09:49 lasciàrvi di loro malati, onde incontanente si cominciò quella pestilenzia ne’ Ciciliani. E venendo le dette galee a Pisa e poi a Genova, per la conversazione di quegli uomini cominciò la mortalità ne’ detti luoghi, ma non generale. Poi conseguendo il tempo ordinato da-d Dio a’ paesi, la Cicilia tutta fu involta in questa mortale pestilenzia. E l’Africa nelle marine e nelle sue provincie di verso levante, e le rive del nostro Mare Tirreno. E venendo di tempo in tempo verso il ponente, comprese la Sardigna e la Corsica e l’altre isole di questo mare; e dall’altra parte, ch’è detta Europa, per simigliante modo aggiunse alle parti vicine verso il ponente, volgendosi verso il mezzogiorno con più aspro assalimento che sotto le parti settentrionali. E negli anni di Cristo MCCCXLVIII [1348] ebbe infetta tutta Italia, salvo che la città di Milano e certi [luoghi] circustanti all’Alpi che dividono l’Italia dall’Alamagna, ove gravò poco. E in questo medesimo anno cominciò a passare le montagne e stendersi in Proenza e in Savoia e nel Dalfinato e in Borgogna e per la marina di Marsilia e d’Acquamorta [Marsiglia e Aigues-Mortes], e per la Catalogna e nell’isola di Maiolica [Majorca]e in Ispagna e in Granata. E nel MCCCXLVIIII [1349] ebbe compreso fino nel ponente, le rive del Mare Oceano, d’Europa e d’Africa e d’Irlanda, e l’isola d’Inghilterra e di Scozia, e l’altre isole di ponente e tutto infra terra [le regioni interne] con quasi eguale mortalità, salvo in Brabante ove poco offese. E nel MCCCL [1350] premette gli Alamanni e li Ungheri, Frigia [Frisia, cioè Paesi Bassi], Donnesmarche, Gotti [abitanti della Svezia meridionale] e Vandali e li altri popoli e nazioni settantrionali. E la successione di questa pestilenzia durava nel paese ove s’apprendeva cinque mesi continovi, ovvero cinque lunari: e questo avemmo per sperienza certa di molti paesi. Avvenne, perché parea che questa pestifera infezione s’appiccasse per la veduta e per lo toccamento, che, come l’uomo o la femmina o i fanciulli si conoscevano malati di quella enfiatura, molti n’abandonavano: e inumerabile quantità ne morirono che sarebbono campati se fossono stati aiutati delle cose bisognevoli. Tra-lli ‘infedeli cominciò questa inumanità crudele, che-lle madri e’ padri abbandonavano i figliuoli, e i figliuoli e i padri e-lle madri i figliuoli, e l’uno fratello l’altro e gli altri congiunti: cosa crudele e maravigliosa [spaventosa] e molto strana [aliena] dalla umana natura, detestata tra’ fedeli cristiani, ne’ quali, seguendo le nazioni barbere, questa crudeltà si trovò. Cosmopoliti ma di parte, sfegatati, verrebbe da dire nazional-populisti, sovranisti questi Villani. Al punto da contrapporre l’“umanità” occidentale alla “disumanità” che viene dall’Oriente, e inventare che quel che di disumano nei 80 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 80 08/10/20 09:49 comportamenti dei loro concittadini emerge nei giornidella peste sia anch’essa un contagio di abitudini straniere. Mentre tutto quello che c’è di “umano”, l’assistenza agli ammalati, il prodigarsi per il prossimo, sarebbe una virtù locale. Essendo cominciata nella nostra città di Firenze, fu biasimata da’ discreti la sperienza veduta di molti, i quali si provvidono e rinchiusono in luoghi solitari e di sana aria, forniti d’ogni buona cosa da vivere, ove non era sospetto di gente infetta; in diverse contrade il divino giudicio (a -ccui non si può serrare le porti) gli abbatté come gli altri che non s’erano provveduti. E molti altri, i quali si dispuosero alla morte per servire i loro parenti e amici malati, camparono avendo male, e assai non l’ebbono continovando quello servigio; per la qual cosa ciascuno si ravvide, e cominciarono sanza sospetto ad aiutare e servire l’uno l’altro: onde molti guarirono, ed erano più sicuri a servire li altri.” …… Nella nostra città cominciò generale all’entrare del mese d’aprile gli anni Domini MCCCXLVIII [1348], e durò fino al cominciamento del mese di settembre del detto anno. E morì, tra nella città, contado e distretto di Firenze, d’ogni sesso e di catuna età de’ cinque i tre e più, compensando il minuto popolo e i mezzani e’ maggiori, perché alquanto fu più menomato, perché cominciò prima ed ebbe meno aiuto e più disagi e difetti. E nel generale per tutto il mondo mancò la generazione umana per simigliante numero e modo, secondo le novelle che avemmo di molti paesi strani e di molte provincie del mondo. Ben furono provincie nel Levante dove vie più ne moriro. L’Oriente non solo gestisce la pandemia in modo più “disumano”. Ne è anche direttamente responsabile. Poco manca che i Villani parlino di “virus cinese” o di “peste islamica”: Avemmo da mercatanti genovesi, uomini degni di fede, che aveano avute novelle di què paesi, che alquanto tempo innanzi a questa pestilenzia, nelle parti dell’Asia superiore uscì della terra ovvero cadde dal cielo un fuoco grandissimo, il quale stendendosi verso il ponente, arse e consumò grandissimo [gran parte del] paese senza alcuno riparo. E alquanti dissono che del puzzo di questo fuoco si generò la materia corruttibile della generale pestilenzia: ma questo non possiamo accertare. Appresso sapemmo da uno venerabile frate minore di Firenze vescovo di … del Regno, uomo degno di fede, che s’era tro- 81 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 81 08/10/20 09:49 vato in quelle parti dov’è la città di Lamech [la Mecca, in Arabia] ne’ tempi della mortalità, che tre dí e tre notti piovvono in quello paese biscie con sangue che appuzzarono e corruppono tutte le contrade: e in quella tempesta fu abbattuto parte del tempio di Maometto e alquanto della sua sepoltura”. La pandemia e il destino sono crudeli con i Villani. Giovanni Villani, il capostipite della dinastia di cronisti, deve interrompere la sua Nuova cronica perché muore nella peste del 1348. Il fratello Matteo continua il racconto iniziando la sua Cronica (che, malgrado il titolo, è il sequel, non il prequel della Nuova Cronica) con una delle più note e dettagliate descrizioni del cammino della peste, dal Catai (Cina) all’India, all’Estremo Occidente. Poi Matteo muore anche lui, di uno dei tanti ritorni della peste, nel 1363. E la continuazione del racconto tocca a suo figlio Filippo… Cronaca infinita, come infinito è il racconto del contagio. Somiglia a quel che narra Boccaccio nel Decameron. Ma non saprei dire se è Villani ad aver copiato Boccaccio, o viceversa, o se entrambi si rifacciano alle medesime letture. Testimoni oculari? Dice di aver visto coi propri occhi, Boccaccio. Ché, se quel che racconta “dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto” non oserebbe crederlo, tanto meno scriverlo, anche se l’avesse udito da testimoni degni di fede. Certo era a Firenze nei giorni della peste. Gli era stato affidato l’incarico quadrimestrale di “Signore delle gabelle”, cioè di sovrintendente alle imposte indirette del Comune. Se poi rimase eroicamente al suo posto o se ne scappò in campagna, non sappiamo. Non attinge, a sua detta, al sentito dire. Attinge però, e a piene mani, a quanto ha letto nei suoi autori preferiti, i classici. All’Ovidio delle Metamorfosi principalmente, che per Boccaccio era praticamente livre de chevet, forse a Tucidide e Lucrezio, certamente a Tito Livio. Ci sono affascinanti analisi filologiche a proposito. È stata notata la imitatio da parte di Boccaccio di un passo della Historia Lango82 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 82 08/10/20 09:49 bardorum di Paolo Diacono (II, 4,5), la precisa corrispondenza nei due testi di dettagli medici, e di temi quali l’abbandono delle case, lo sfaldamento degli affetti familiari, l’abbandono degli infermi e dei cadaveri, la quasi scomparsa dei funerali, lo stop alle attività agricole e il conseguente vagare nei campi di animali domestici non più custoditi. Ma c’è anche un testo di Livio, sullo scoppio di una pestilentia durante l’assedio di Siracusa nell’autunno del 212 a.C., commune malum, malanno comune a entrambi gli schieramenti, cartaginese e romano, che fa passare a entrambi la voglia di combattere. “Prima si ammalavano e morivano per effetto della stagione e dell’insalubrità del luogo; poi erano le stesse cure che si prestavano agli infermi e il contatto con costoro a diffondere il morbo (volgabat morbos). Sì che o morivano senza essere assistiti oppure comunicavano il contagio a quelli che li assistevano e li curavano; ragione per cui i funerali erano all’ordine del giorno, la morte era sempre sotto gli occhi, e giorno e notte risuonavano dappertutto lamenti. Da ultimo l’abitudine al male aveva indurito gli animi al punto che non solo non accompagnavano più i morti con pianti e con le dovute lamentazioni, ma neppure li portavano a seppellire, per cui i cadaveri giacevano sotto gli occhi di quelli che aspettavano la stessa morte, e i morti infettavano gli infermi, e gli infermi i sani, con la paura, con la putrefazione, con la puzza pestifera dei corpi. E per morire piuttosto di spada, alcuni assalivano da soli le guardie nemiche” (Tito Livio, Storia di Roma ab urbe condita, Libro XXV, 26). Contagio dai morti ai sani, lamenti che si sentono giorno e notte, e, al tempo stesso, rinuncia ai riti, al cordoglio rituale e collettivo (comploratus), ai funerali e alla sepoltura stessa, la gran puzza che ammorba: tutto questo torna tale e quale dalle letture erudite nella descrizione “di prima mano” del Boccaccio. “La peste noi conoscevamo per nome e per averne lette le descrizioni ne’ libri. Ma una peste universale venuta per distruggere il genere umano né veduta, né letta, né udita venne mai: ed ecco già da venti anni noi l’abbiamo vista invadere tutti i paesi, per modo che sospesa forse e latente si rimase in qualche luogo, ma in nessuno fu estinta: e ogni 83 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 83 08/10/20 09:49 giorno la vediamo tornare donde la credemmo partita, e ci assale dopo averci ingannato con breve gioia […],” così scrive Petrarca nel 1367 da Venezia all’amico Guido Sette, arcivescovo di Genova (Senili, 6, X, 2). La peste l’ha vista da vicino, ne è stato inseguito nelle sue peregrinazioni da una città all’altra d’Italia, e anche d’Europa. Ha visto morire di peste la donna amata, i figli, gli amici più cari. “Che fare adesso, fratello? […]. Il tempo, come dicono, ci è scivolato tra le dita, le nostre antiche speranze sono sepolte con gli amici. Il mille trecento quarantotto è l’anno che ci ha reso poveri e soli […]”, è l’esordio della prima delle lettere Familiari. Petrarca non conosce certo l’epidemia solo per sentito dire, oppure solo per averne letto. Ma quando scrive di peste, non può neanche lui fare a meno di tornare ai suoi classici: “Non dar retta a coloro che, immaginando sia avvenuto quello che bramano, dan fede ai sogni della speranza. Scemò forse alcun poco della sua primiera violenza, ma grande tuttora infuria e mena strage la peste. Odi per ogni dove gemiti e pianti, e a ogni volger di sguardo ti stanno dinanzi caldi ancora i cadaveri: le strade sono ingombre di funebri corteggi: e da implacabile morte ad ogni istante percosse vedi per ogni dove cadere le vittime del contagio desolatore. Come Virgilio diceva di una città venuta in mano ai nemici, pare che dir si debba di questa: Tutto è pianto crudele e spavento: e in mille modi Vedi di morte in ogni dove il ceffo”. Così Petrarca, da Venezia, al veneziano padre Bonaventura Baffo. Con un’aggiunta che rivela però quanto poco, pur soffrendo dell’isolamento sociale, si avventurasse fuori di casa: “Delle quali cose io ti confesso che non il timore ma il ribrezzo mi tiene chiuso nelle domestiche mura, e spesso mi fa dolorosamente sentire il desiderio delle amichevoli tue visite” (Senili, 3, III, 9). L’unico tra i padri fiorentini della lingua italiana a non nominare mai la parola “peste” è Dante Alighieri. Usa “pestilenza”, ma solo in riferimento alle morie di animali. Cono84 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 84 08/10/20 09:49 sce a menadito il suo Virgilio, che descrive un’epidemia tra greggi e mandrie nelle sue Georgiche, in modo così efficace che sarebbe servita da modello a innumerevoli descrizioni successive di pandemie umane. Dante la gran pandemia di metà 1300 l’ha scampata, anche se per poco. Scrive di scabbia, malaria, lebbra, altri contagi. La sua Commedia è un’enciclopedia dello scibile dell’epoca, ha frequentato i luminari della medicina a Bologna, lui stesso è stato membro della corporazione degli speziali, la tunica rossa con la quale viene sempre ritratto è la divisa dei farmacisti. Conosce le malattie, anche quelle epidemiche. Conosce l’idropisia, la tisi, la mal’aria (di cui forse morì, causa le paludi attorno a Ravenna). Conosce ogni genere di piaga, comprese le lesioni a pois, le macchie rosse o nere, con cui nei secoli successivi alla peste i pittori avrebbero rappresentato la peste e altre malattie contagiose affini, esantematiche e pustolose, tipo vaiolo, scarlattina, morbillo, febbri emorragiche e simili. E soprattutto conosce anche lui a menadito il suo Ovidio, da cui prende di peso il mito della pandemia che spopolò l’isola di Egina e di come fu ripopolata con un popolo di formiche, i Mirmidoni: Qual dolor fora, se de li spedali, di Valdichiana tra ‘l luglio e ‘l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali fossero in una fossa tutti ‘nsembre, tal era quivi, e tal puzzo n’usciva qual suol venir de le marcite membre […] Non credo ch’a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo quando fu l’aere sì piena di malizia che li animali, infin al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo, si ristorar di seme di formiche […]. (Inferno, XXIX, 46-51 e 57-64). 85 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 85 08/10/20 09:49 Due testimoni colti e paurosi (o prudenti?) Le pesti di Firenze con cui ebbe a che fare Machiavelli sono quella 1503, quella del 1527 e quella, ancora più violenta, del 1527. La peste con cui ebbe a che fare Montaigne è del 1563, poi del 1585. Le ondate si susseguivano in tutta Europa. In Francia almeno una volta ogni decennio. In Italia quasi con la stessa frequenza; è stato calcolato che tra il 1346 e il 1656-57, la peste si sia ripresentata per ventisette volte. Entrambi avevano imparato ad averne paura, o, se vogliamo metterla in modo da non offendere nessuno, ad essere prudenti. Il 17 novembre 1503 Totto il fratello di Niccolò Machiavelli, il quale si trova in missione a Roma, gli scrive da Firenze in risposta ad una lettera (che non ci è pervenuta) in cui questi dice che ha avuto la febbre e teme di aver frequentato degli appestati. Totto, che doveva essere un po’ negazionista, o forse voleva solo rassicurare il fratello, gli fa notare che non basta trovarsi vicino a deli appestati per prendere la peste: “L’anno scorso a Vinegia in su le medesime barche fumo più volte persone insieme, che infra 3 o 4 dì poi si morirono di peste. E che più? E i nostri giovani che sono al paese di levante, passano a ogni ora di Pera in Costantinopoli con le medesime barche che passono e morti di morbo e in fatto fatto a ualcuno s’apica e muore, ma de’ 10 anni un tratto ne muore uno de’ nostri mercatanti, che in tanto tempo n sono passati parechi migliaia di volte, e pertanto non ne fanno riguardi veruno. Ma per questo io non dico che non sia bene riguardarsi, ma non si disperare […] che lo invilire è cosa da fanciulli o da donne”. A Roma la peste a quei tempi era endemica, ma probabilmente quello per cui Machiavelli si accorava doveva essere una comune influenza virale. In effetti in una successiva lettera ai suoi superiori, il Consigli dei Dieci, Niccolò, per giustificarsi di non essere partito subito, come gli era stato ordinato, per una missione in Romagna, preciserà di essere stato “infecto d’una malattia comune che è in questa città, et queste sono tossi et catarri che intruonono ad altri il capo et il 86 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 86 08/10/20 09:49 pecto, in modo che una agitatione violenta come la posta mi avrebbe fatto danno”. Insomma, era uno che ci teneva a riguardarsi” (in Niccolò Machiavelli, Opere, volume II, Lettere, legazioni e commissarie, Einaudi 1999) Quando a Firenze nel 1522-23 imperversò la peste vera, con gran morìa, Machiavelli si esercitò, assieme all’amico Lorenzo Strozzi, della famiglia dei banchieri, in una scherzosa Epistola della peste. C’è una diatriba infinita su se sia davvero di mano di Machiavelli, ma Pasquale Stoppelli, che ne ha fatto un’edizione critica pubblicata nel 2019 dalle Edizioni di storia e letteratura sostiene di sì. È un componimento bizzarro, più fiction che testimonianza. Il racconto sulla peste attinge abbondantemente, talvolta verbatim, ai classici che i due amici fiorentini conoscono bene, in particolare a Boccaccio: Non altrimenti che si resti una città dagli infideli forzatamente presa et poi abbandonata, si truova al presente la misera Fiorenza nostra. Parte degli habitatori, sì come voi la pestifera mortalità fuggiendo, per le sparte ville riducti si sono, parte morti, parte in sul morire, in modo che le cose presenti ci offendono, le future ci minacciano; eet così nlla morte si stenta, nlal vita si teme […] Le pulite et belle contrade, che piene di richi et nobili cittadini essere solevano, sono hora puzolente et brutte, di poveri ripiene, per la impromptitudine de’ quali et paurose strida non si puote andare. Sono serrate le botteghe, gli exercitii fermi, e fori tolti via, prostrate le leggi: hora s’intende questo furto, hora quello homicidio. Le piaze, i mercati dove adunarsi frequentemente i cittadini soleano, sepolcri sono or fatti et di vili brigate riceptaculi […] l’uno parente se pure l’altro truova o il fratello o la moglie il marito, ciascuno va al largo. Et che più? Schifano i padri et le madri i propri loro figliuoli et gli abandonano. Chi fiori, chi odorifere herbe, chi spugne, chi ampolle, chi palle di diverse spetierie composte in man porta, o per meglio dire al naso sempre tiene, et questi sono i provvedimenti. Sonci certe canove [botteghe] ove si distribusce pane anzi per ricorre gavoccioli si semina [sono diventate luoghi di contagio]. Poi il racconto prosegue con una sorta di avventura erotica, tipo quelle che il Machiavelli raccontava per iscritto al suo amico Vettori: un incontro galante in chiesa con un’avvenente vedova… 87 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 87 08/10/20 09:49 Anche Montaigne è uno, come dire, prudente, e, al tempo stesso un attento lettore dei classici e di Boccaccio. Nel luglio 1585 era sindaco di Bordeaux. Quando si seppe che era arrivata ancora una volta la peste, si trovava in missione fuori città. Piuttosto che tornare si dimise e si rifugiò nel suo castello. Gli avevano chiesto di presenziare all’assemblea che avrebbe dovuto eleggere il nuovo sindaco. Se ne guardò bene. Scrisse a “Messieurs les Jurats de la ville de Bourdeaux“ che non era il caso di correre il rischio “visto il cattivo stato in cui ci si trova“. Ma la peste lo raggiunse comunque. “Tanto fuori che dentro la mia casa fui assalito da una peste violenta quant’altre mai”, annota negli Essais. Fuggì nuovamente, con famiglia, servitù e masserizie. “Dovetti sopportare questa piacevole situazione: che la vista della mia casa mi riempiva di terrore. Tutto quello che vi si trovava era senza custodia e abbandonato a chiunque ne avesse voglia. Io che sono tanto ospitale fui in estrema difficoltà per trovare un asilo per la mia famiglia; una famiglia sbandata, che faceva paura ai suoi amici e a se stessa, e orrore ovunque cercasse di fermarsi, costretta a cambiar dimora appena uno della compagnia cominciava a sentir male alla punta di un dito. Tutte le malattie sono prese per peste; non ci si da il tempo di riconoscerle. E il bello è che, secondo le regole dell’arte, a qualsiasi sintomo che si manifesti bisogna star quaranta giorni con la paura di quel male, mentre intanto l’immaginazione vi tormenta a suo piacere e fa ammalare la vostra stessa salute” (Saggi, Libro III, capitolo XII). Quel che non ha visto, Montaigne l’ha letto, anche quando ci fa credere di essere stato testimone oculare: “Guardate costoro: dato che muoiono tutti nello stesso mese, bambini, giovani, vecchi, non si spaventano più, non piangono più. Ne ho visti alcuni che temevano di rimanere ultimi, come in un orribile solitudine; che non vidi in genere altra cura che quella delle sepolture: li turbava vedere i corpi sparsi per i campi, alla mercé delle bestie, che vi pullularono immediatamente. […] Un tale, sano, scavava già la propria fossa; altri gli si adagiavano ancora vivi. E uno dei miei braccianti a forza di mani e di piedi, si tirò addosso la terra morendo”. L’ha 88 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 88 08/10/20 09:49 letto nei classici greci e latini, che colmavano la sua splendida biblioteca, in Boccaccio che forse lesse nell’originale italiano, in Nostradamus che già aveva scritto del cliché di una donna che cuce sé stessa nel proprio sudario, in Ambroise Paré che ha già l’immagine del “sano che già scavava la propria fossa” e del “manovale che si tirava addosso la terra”, nelle narrazioni di peste del Le théâtre du monde di Boaistuau… Le colpe dei leader C’è chi ritiene che anche dietro la precisissima descrizione che della peste di Atene del 430 a.C. fa Tucidide ci sia un modello letterario: l’Edipo Re di Sofocle. Certamente Tucidide si rifà a un modello medico: la terminologia con cui descrive la peste nelle sue Storie delle guerre del Peloponneso trova corrispondenza nei trattati Sulle epidemie del suo contemporaneo Ippocrate, anche lui ateniese (il quale però pare abbia lasciato la città ai primi segni della pandemia). Ma è ben possibile che abbia assistito alla rappresentazione dell’Edipo Re, anzi Tiranno (týrannos). “La città è satura di fumi / e insieme di canti e di lamenti […],” esordisce Edipo (3-4). Ed è evidente per gli spettatori che si parla di pire e lamenti funebri. Di mali infiniti e infiniti malati, dice più avanti il Coro: “Ahimé, innumerevoli mali sopporto, una moltitudine di cittadini è colpita dal morbo / e non esiste difesa a cui si possa pensare / con cui allontanarlo. Periscono i figli / di questa terra gloriosa, e periscono le donne, prostrate dalla fatica del parto […]. Privata in massa (anarithmos, senza che si riesca a contarli) dei suoi cittadini, la città muore” [168-179]. La peste di Sofocle si propaga per “contagio mortale”, e non ha rimedi che possano fermarla. Chi governa (Edipo, il Re) è impotente, e al tempo stesso colpevole. La sua colpa verrà svelata, indizio dopo indizio, come in un’indagine poliziesca. Ha ucciso suo padre e ha sposato sua madre. Questo gli spettatori ateniesi già lo sanno prima ancora che lo spettacolo inizi. “Lui, ucciso il padre, la 89 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 89 08/10/20 09:49 sposò”: c’è già nell’Odissea, e poi in Pindaro, e anche nei Sette contro Tebe di Eschilo. La novità in Sofocle, un elemento aggiuntivo alle precedenti versioni del mito, è la peste. Fa propendere per la datazione della tragedia a dopo la Peste di Atene. L’altra novità è l’indagine mediante cui si arriva a scoprire la verità. La cosa che non si sa, e che resta ambigua, è se lui, Edipo, ignori davvero fino alla fine la sua colpa, o faccia solo finta di ignorarla. Qualche sospetto deve pure averlo, se sobbalza ogni volta che nell’indagine emerge qualcosa che potrebbe incriminarlo, se rimuove tutti gli indizi che gli vengono forniti uno dopo l’altro. “Il faut que cet Œdipe soit idiot pour ne pas comprendre”, era la critica che Voltaire faceva a Sofocle. E se invece Sofocle fosse molto più sottile? Edipo non è stupido. Si arrampica sugli specchi per scartare gli indizi che non gli garbano, accusa gli altri – l’indovino cieco Tiresia, il cognato Creonte –– di complottare ai suoi danni, di essersi messi d’accordo per diffondere sospetti e maldicenze sul suo conto, di volersi sostituire a lui alla testa del governo. Di “omertà” tra lui e la madre Giocasta parla la lettura “anamorfica”, attraverso una lente volutamente deformante, di Franco Maiullari. Manca solo che a un certo punto dica: “Non permetto che si dubiti della mia integrità”. Talvolta le pandemie impongono tregua alle guerre. Mai alle lotte per il potere, all’istinto di autoconservazione del despota. Solo quando le prove si accumulano, diventano irrefutabili, Edipo accetta l’idea di essere lui stesso la peste, il male, il miasma che ha contaminato la città. Gli spettatori dell’Atene di allora avevano ricordo fresco di un’epidemia micidiale, e di un leader (nella fattispecie un grandissimo leader) che avrebbe fatto carte false pur di non ammettere le proprie responsabilità. Idem i lettori di Tucidide. I capitoli sulla peste nelle Storie seguono immediatamente il discorso con cui Pericle, in spaventoso calo di popolarità, cerca di “dissipare lo sdegno degli ateniesi [perché non vuole venire a patti con gli Spartani], e di allontanare il loro pensiero dai mali presenti [la guerra che butta male, la pandemia]”. Il discorso è un capolavoro di retorica. Da vero populista, figlio 90 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 90 08/10/20 09:49 di buona donna, come notò Umberto Eco. Non li convince del tutto. Pericle fu condannato a una multa in denaro (il che comportava anche l’interdizione dai pubblici uffici). Ciò nonostante, “subito dopo però, com’è abitudine della plebaglia, lo elessero nuovamente stratego e gli affidarono tutti gli affari; divenuti ormai meno ombrosi per i mali privati, lo consideravano il più adatto perché tutta quanta la città traesse giovamento”. Gli Ateniesi insomma fecero come se dopo il Covid gli americani avessero rieletto Trump, i britannici Boris Johnson, i Brasiliani Jair Bolsonaro. Tucidide sembra tutto sommato dare ragione a chi scelse la “moderazione” di Pericle. Ce l’ha, lo sappiamo, per partito preso, e anche per fatto personale, con i successori, i quali riuscirono nell’impresa di fare più guai di Pericle. Se avrebbero continuato a rieleggerlo quando le cose continuarono ad andare di male in peggio non è dato sapere. Pericle “morì due anni e sei mesi dopo”, in una delle ondate di ritorno dell’epidemia. Tucidide non dice apertamente che Pericle è, come Edipo, colpevole della peste. Né lo accusa apertamente di aver scatenato la guerra con Sparta, e avere poi perseverato nell’errore. Anzi, quel discorso è stato spesso considerato un elogio della sua leadership. Ma molti degli indizi potrebbero però far propendere per il sì a un’“autorizzazione a procedere” contro Pericle, esattamente come gli indizi forniti passo a passo dal drammaturgo Sofocle contro Edipo. L’antico teatro greco è inseparabile dalla peste, dalla pandemia e dal contagio. La malattia, il nosos, è il filo conduttore anche di altre tragedie di Sofocle, come le Trachinie o il Filottete. Un malato, sia pure di avvelenamento, è Eracle, dopo aver indossato la camicia intinta nel sangue del centauro Nesso, spacciato alla gelosa Deianira come infallibile elisir d’amore. Malato è Ajace impazzito. Malato è Filottete, crudelmente abbandonato (possiamo dire quarantenato?) dai compagni sull’isola di Lemno perché dalla sua ferita emana un puzzo insopportabile. Traboccano di immagini e riferimenti alla malattia i drammi di Euripide. Peste e malattia ricompaiono in forma di parodia nelle commedie di Aristofa- 91 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 91 08/10/20 09:49 ne. In tutti i casi c’è un intreccio, talvolta esplicito, altre volte in sordina, realistico o in metafora, tra peste e politica. Quasi mille anni dopo Sofocle e Tucidide, il bizantino Procopio di Cesarea racconta la cosiddetta “peste di Giustinano”. Lo fa con quasi le stesse parole di Tucidide, con un’accurata descrizione di sintomi pressappoco simili a quelli della Peste di Atene, con simile itinerario seguito dal contagio, con simili reazioni da parte dell’umanità colpita e sofferente. Anche in quel caso l’epidemia si inserisce in un quadro di guerre e carestie, ha conseguenze politiche. Procopio è il primo a parlare esplicitamente di qualcosa che può somigliare ai bubboni. Scrive di pustole nerastre “su tutto il corpo”, “grandi come lenticchie”, e non solo di rigonfiamenti che si presentano esclusivamente all’inguine e alle ascelle o sul collo. Simili a quella di Procopio sono le descrizioni dei sintomi in Evagrio Scolastico, Giovanni da Efeso, Gregorio di Tours e Paolo Diacono. Un racconto tira l’altro, forse è stato Tucidide a contagiarli tutti. Il racconto di Procopio non è però semplicemente la descrizione più o meno accurata di un’epidemia. È una denuncia delle condizioni in cui versa l’impero bizantino. Anche se non in termini espliciti, militanti, come nelle Carte segrete in cui se la prende ferocemente con le lotte delle fazioni politiche e del Circo a Bisanzio, la corruzione del potere, e procede al linciaggio mediatico dell’imperatrice Teodora. Esattamente come il racconto di Tucidide non era solo una cronaca medica ma una metafora della disgregazione dell’impero ateniese, causa una guerra che non avrebbero mai dovuto fare. Tutti gli autori classici riprendono, citano per così dire, talvolta sviluppano, talvolta arricchiscono (o al contrario impoveriscono) un racconto più antico. Quelli che seguono si rifanno a un racconto precedente. Cambia epoca, cambia il contesto, cambia l’ambientazione, ma le narrazioni si somigliano. Talvolta oltre alla narrazione è identica anche la locazione. Jacques Le Goff ha osservato ad esempio come il racconto della peste di Marsiglia fatto nel 588 da Gregorio di Tours sia identico ai racconti della peste di Marsiglia del 1720, cioè di dodici secoli dopo. 92 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 92 08/10/20 09:49 Chateaubriand, contemporaneo di Manzoni, nelle sue Mémoires d’outre-tombe dedica un capitolo (il 14 del libro XXXV) alle Pesti (al plurale), e uno (il 15) al colera. Riconosce il suo debito a Tucidide (“che ci ha lasciato una descrizione copiata (copiée), tra gli antichi, da Lucrezio, Virgilio, Ovidio, Lucano, e, tra i moderni, da Boccaccio e Manzoni”). Ma è su Marsiglia che si esercita in un pezzo di bravura, ad effetto: “Furono chiuse le porte della città e le finestre della case. In mezzo al silenzio generale si sentiva a volte aprirsi una finestra e cadere un cadavere; i muri grondavano del suo sangue infetto (gangrené), e cani randagi lo attendevano in basso per divorarlo. In un quartiere dove tutti gli abitanti erano periti, li avevano murati a domicilio, come per impedire alla morte di uscire […] il selciato dei crocicchi era coperto di ammalati e moribondi, su pagliericci, abbandonati senza soccorso. Carcasse giacevano mezzo decomposte, coperte di vecchi stracci infangati; altri corpi restavano appoggiati ai muri, nell’atteggiamento in cui erano spirati”. Chateaubriand non era neanche ancora nato, quindi non era un testimone oculare. Ma aveva letto molto. Era così scontato che gli autori classici nelle loro narrazioni di epidemie si fossero influenzati, per non dire copiati l’un l’altro, che nel II secolo Luciano fa satira su un certo Crepeius Calpurnianus di Pompeiopolis, “storico” probabilmente di sua pura invenzione, che avrebbe trasportato di peso, attraverso mezzo millennio, pagine intere della descrizione della peste di Atene in Tucidide alla propria descrizione di una pestilenza a Nisibis, città della Siria. Un rimedio antico: chissà che funzioni ancora Di esilarante comicità anche la sua descrizione di una strana febbre alta che aveva colpito gli abitanti di Abdera, e li aveva fatti impazzire, con la conseguenza che si misero a recitare tragedie da mane a sera. Evidente la presa in giro del 93 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 93 08/10/20 09:49 descrivere gli stessi sintomi per tutte le pesti. Fantastico il rimedio alla pandemia che viene suggerito. Ecco il passo: Si racconta, o mio Filone, che quelli di Abdera, al tempo del re Lisimaco, furono presi da una nuova malattia. A tutti veniva una febbre molto alta sin dall’inizio, e persistente; poi verso il settimo giorno, a chi scorreva molto sangue dal naso, a chi compariva largo sudore, e la febbre diminuiva. Ma il male stravolgeva le loro menti in modo ridicolo, tutti impazzivano per la tragedia, e recitavano versi giambi, e gridavano, e specialmente declamavano, ciascuno tra sé e sé l’Andromeda di Euripide, e i versi del soliloquio di Perseo: sicché tutta la città era piena di gialli e magri declamatori che a gran voce belavano […]. La cosa durò un pezzo: finché venuto l’inverno e un freddo grande, li risanò di quella pazzia. Della quale, io credo, era stato cagione Archelao, famoso tragedo di quel tempo, che aveva fatto rappresentare l’Andromeda nel bel mezzo dei grandi bollori dell’estate, di modo che i molti che erano ammassati nello stesso teatro furono assaliti dalla febbre, e poi si diedero a recitar tragedie […]. Luciano di Samosata, Come si deve scrivere la storia 94 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 94 08/10/20 09:49 3. Di quale malattia parliamo? è Lei! no, no, non è Lei… C’est la Carmencita! …. Non, non, ce n’est pas elle! (Bizet, Carmen, atto I, scena 8) QuaLsiasi MaLattia Può essere La Peste “Pestis non est unus morbus determinatus, sed quicumque morbus potest esse pestis.” (La peste non è una determinata malattia, ma qualunque malattia può essere peste) Girolamo Mercuriale, De pestilentia, 1577 seMPre gLi stessi sintoMi “Questa mattina mi sento orribilmente debole, il mio viso è di un pallore spettrale, e mi fa male la gola. Deve esserci qualcosa che non va nei miei polmoni, perché ho l’impressione che mi manchi l’aria.” Bram Stoker, Dracula, Dal Diario di Lucy Westenra. 95 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 95 08/10/20 09:49 sebben che non siaMo Medici “Non siamo soliti trattare di cose che non conosciamo. Come potremmo dunque ora noi che mai applicammo alla medicina né gli occhi né le orecchie, per non parlare dell’animo, trattare di cose di pertinenza della medicina in un consesso di esperti?” (Petrarca, Senili, XII 1, 2-3). Da verificare osservare, ascoLtare, Paragonare, Pensare, PriMa di ParLare “In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro. Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.” Manzoni, Promessi sposi, 1840 uoMini e toPi “La mattina del 16 aprile il dottor Bernard Rieux uscì dal 96 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 96 08/10/20 09:49 suo studio e si imbatté in un ratto morto, in mezzo al pianerottolo. Sul momento scartò la bestia senza fare attenzione e discese le scale. Ma, giunto in strada, gli venne da pensare che quel ratto non era nel posto dove doveva essere, e tornò sui propri passi per dirlo al portiere. Dinanzi alla reazione del vecchio signor Michel, avvertì meglio quel che la sua scoperta aveva di insolito. La presenza di quel ratto morto gli era parsa solo bizzarra, mentre per il portiere costituiva uno scandalo. La sua posizione era categorica: non c’erano ratti in casa. Il dottore aveva un bel da fare ad assicurargli che ce n’era uno al pianerottolo del primo piano, e probabilmente morto, la convinzione del signor Michel restava incrollabile. Non c’erano ratti in casa, quindi qualcuno doveva avercelo portato da fuori. Insomma, doveva essere stata una burla…” Albert Camus, La peste 97 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 97 08/10/20 09:49 Non si sa che malattia fosse la “peste” di cui scrive Tucidide. Malgrado la precisione con cui ne descrive i sintomi, gli specialisti continuano a discuterne senza che si riesca ad arrivare a conclusioni certe. Febbre alta, arrossamenti, pustole ed escrescenze cutanee che poi diventano nerastre e si trasformano in cancrena, emorragie, tosse secca violenta, vomito, diarrea. Potrebbe essere qualsiasi cosa, dal tifo, alla febbre tifoidea, al vaiolo, al morbillo, alla scarlattina, all’influenza virale. Potrebbe trattarsi di una zoonosi, trasmessa da parassiti come i pidocchi, le pulci o le zanzare. Gli storici della medicina si sono sbizzarriti, anche e specialmente nel corso degli ultimi anni, a trovare coincidenze tra i sintomi di cui scrive Tucidide –– che tra l’altro non sono così precisi nemmeno alla luce della terminologia medica della sua epoca, e ne è dubbia la traduzione – e le malattie conosciute. Tra i sintomi elencati da Tucidide, l’attenzione si è concentrata su Phlyktainai, che viene tradotto, secondo di che umore è, e dove vuole parare il traduttore, con bolle, ulcere, vesciche, pustole, macchie, foruncoli, eruzioni, geloni, persino calli. Qualcuno si allarga e traduce addirittura bubboni. Termine che tira decisamente verso la peste. Ippocrate usa il vocabolo per indicare bruciature, eritemi, dermatiti da contatto. La febbre alta di cui parla Tucidide è un sintomo ancora più universale, di quasi tutte le malattie dove gli anticorpi si trovano a fronteggiare un’infiammazione. Altri sintomi abbastanza comuni sono il delirio, la spossatezza, il vomito, la 98 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 98 08/10/20 09:49 diarrea, la difficoltà a respirare. E pure l’amnesia totale, che Tucidide segnala per alcuni dei sopravvissuti. Quante testimonianze abbiamo ascoltato di sopravvissuti al Covid che dicono di non ricordare più nulla di quel che è successo? Le emorragie hanno fatto venire in mente – non a sprovveduti giornalisti, ma a specialisti di malattie infettive –– Ebola. Il senso di oppressione al petto, la difficoltà a respirare, la tosse secca, accompagnata da sbocchi di sangue, potrebbero far pensare a una polmonite. Qualcuno ora potrebbe anche azzardare l’ipotesi che si tratti di un virus. “Gli occhi rossi come rubini, la faccia una massa senza espressione, tutta graffi. Le macchie rosse, che fino a pochi giorni prima apparivano come lentiggini a stella, si sono allargate e di sono fuse in grandi, spontanee macchie violacee […] Cedono i muscoli della faccia. Si sta dissolvendo il tessuto connettivo, e la sua faccia sembra pendere dall’osso sottostante, come se stesse per staccarsi dal teschio. Apre la bocca, annaspa, la infila nel sacchetto, e continua a vomitare senza tregua […] i sacchetti si riempiono sino all’orlo con una sostanza cui viene dato il nome di vomito nero, una poltiglia di granuli color catrame misti a sangue fresco […].” Mi viene la tentazione di fare un quiz al lettore: da dove viene questa descrizione di sintomi? Da Tucidide? Da Boccaccio? Da Edgar Allan Poe? No, è da The Hot Zone di Richard Preston. La non-fiction di metà anni novanta che parla dell’outbreak di Ebola in Africa. Febbre alta, dolori articolari, tosse, difficoltà a respirare “come se uno avesse un’incudine sul petto”, sono tra i sintomi registrati per il Covid-19. Ma ce ne sono anche altri, più strani o meno frequenti: perdita del senso dell’olfatto, e del sapore; perdita di sensibilità alle estremità; mal di testa, ma anche nausea, vomito, diarrea; micro-emorragie e coaguli dovuti all’eccesso di reazione immunitaria; ma anche eruzioni cutanee dovute alla rottura dei capillari, bollicine tipo varicella, o lesioni tipo geloni all’estremità delle dita di mani e piedi, che sono state definite “alluce da Covid”, o più semplicemente “dita blu”. Ma l’annerimento da cancrena alle estremità è stato de99 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 99 08/10/20 09:49 scritto anche per altre malattie. Ad esempio la peste, sia nell’antichità sia nel Novecento. Il poeta e sinologo tedesco Günter Eich riprende proprio questo sintomo inusuale per profetizzare, negli anni cinquanta, il ritorno di una malattia caduta in oblio presso le nuove generazione: “Esamina le punta delle dita. Esamina le punta delle dita per vedere se hanno cambiato colore. Un giorno tornerà il contagio che si pensava sradicato. Il postino la lascerà nella cassetta della posta, con la pubblicità. Comparirà sul tuo piatto con la porzione di aringa. La mamma che allatta la passerà al suo bambino. Cosa faremo, dato che nessuno di coloro che l’avevano affrontata è più vivo? Chi è assuefatto all’orrore può attenderla tranquillo. Facciamo sempre posto alla felicità Ma quando mai lei viene ad accomodarsi da noi. È già troppo tardi”. “Questo virus gioca a travestirsi con i sintomi più disparati, cambia continuamente aspetto”, il commento di un professore del centro di medicina sperimentale dell’Imperial College di Londra. Lo stesso si è detto di altre pandemie. “In such changeable shapes dis Cameleon-like sickness appeare”, in tali e tante mutevoli forme appare questa malattia simile a un camaleonte, scrive Dekker della peste del 1600 a Londra. I medici stanno ancora faticando a venirne a capo, di tutti questi travestimenti, di tutte le bizzarrie del nuovo Coronavirus, malgrado tutte le conoscenze già acquisite. Figurarsi venire a capo dei travestimenti più antichi. Per la peste di Giustiniano si è ipotizzato addirittura che l’agente patogeno virale fosse lo stesso della “Spagnola” del 1918. Per la “peste” di Atene sono state tirate in ballo malattie moderne, di cui non si ha conoscenza nell’antichità, come la tularemia (identificata nel 1911), infezione batterica trasmessa da insetti succhiatori di sangue che, dopo un breve periodo di incubazione (2-5 giorni), comincia bruscamente con febbre elevata, brividi, profuse sudorazioni, cefalea, vomito, prostrazione, e poi produce ulcere cutanee e tumefa100 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 100 08/10/20 09:49 zioni linfonodali; la febbre di Lassa (identificata in Africa nel 1965), virale, prodotta dal contatto coi topi morti, che si manifesta con forti dolori di testa, sanguinamento della bocca o del tratto gastrointestinale; persino la sifilide, oltre all’Ebola (identificata nel 1976) e altre febbri emorragiche e zoonosi virali. C’è persino chi ha argomentato che potrebbe trattarsi di avvelenamento da tossine da funghi di cereali mal conservati (cosa sempre possibile per chi subisce un lungo assedio, come successe agli ateniesi e alle moltitudini che si erano rifugiate dentro le mura). Si sono confrontati i sintomi e l’l’epidemiologia con flagelli noti quali la peste bubbonica, l’antrace, le diverse febbri tifoidee, le malattie da stafilococco, quelle causate dai diversi tipi di arbovirus (arthropod-born-viruses) e quelle causate da virus che usano l’RNA, il materiale genetico delle cellule. Tra questi ultimi, per intenderci, ci sono vecchie conoscenze come i diversi tipi di influenza, e ci sono terrori recentissimi come Sars, Ebola, Epatite C. Qualcuno ora certamente aggiungerà anche il Covid. Può darsi che la peste di Atene sia stata una malattia che non s’è più vista dopo di allora, opera di un microrganismo oggi sconosciuto. Il che ovviamente non esclude che possa tornare in altra forma, con un travestimento nuovo. Potrebbe trattarsi di una combinazione di fattori patologici: una forma di influenza virale accompagnata da uno shock tossico di origine alimentare; potrebbe trattarsi di tifo più peste, di tifo più dissenteria, di febbre tifoidea più febbre gialla, febbre tifoidea più scorbuto, e così via. Potrebbe essere una vecchia conoscenza, che magari ha subito mutazioni che la rendono irriconoscibile nel corso dei secoli. Oppure, a rigore, potrebbe non essere mai esistita in quanto epidemia specifica, clinicamente accertabile, potrebbe trattarsi di fiction letterarie che riuniscono in un unico racconto diverse epidemie, diversi terrori… Tra gli indiziati, ci sono i “soliti ignoti”. Il principale sospettato attualmente resta la febbre tifoide. Per molto tempo era stato invece il vaiolo, soprattutto a causa delle lesioni cutanee a cui è associato. Che si trattasse di tifo, era l’ipotesi privilegiata del biologo di Harvard Hans Zinsser, autore del 101 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 101 08/10/20 09:49 classico Rats, Lice, and History, (Ratti, pidocchi e storia), pubblicato nel 1935. In scavi fatti nel 2001 in una fossa comune che potrebbe anche risalire ai tempi della peste di Atene, sono state rinvenute, su tre scheletri, tracce di un batterio antico, la Salmonella enterica serovar typhimurium. È quindi lui il colpevole? Non è detto. Le febbri tifoidi erano endemiche nella Grecia di allora. Potrebbe quindi essere una condizione pregressa, o collaterale. Tucidide dice che le altre malattie più comuni non si manifestavano mentre infuriava quel loimos, e i rispettivi sintomi confluivano in quelli di un male del tutto nuovo, del tutto diverso da quelli già noti. Da un autore all’altro ritroviamo lo stesso linguaggio, spesso le stesse identiche parole, lo stesso nome per le pandemie, le stesse osservazioni sui sintomi, persino gli stessi rimedi e raccomandazioni, e anche la stessa angoscia. Come avessero copiato l’uno dall’altro. Una cosa ancora che accomuna tutti i racconti è che la pandemia arriva all’improvviso, colpisce inaspettata, di soppiatto, invisibile. Le epidemie più micidiali agiscono sempre in modo furtivo, silenzioso, talvolta senza che i sintomi diano alcuna avvisaglia della gravità. Boccaccio dice che molti morivano senza avvertire sintomi, che uno poteva far tranquillamente colazione la mattina, senza sentirsi male per niente, e ritrovarsi la sera a cenare coi propri antenati, cioè al cimitero. Nei Promessi sposi don Rodrigo si sente benissimo prima di avvertire qualche brivido, appena un po’ di malessere, ha passato la sera a far bisboccia, attribuisce la cosa all’aver bevuto un po’ troppo. Durante l’epidemia di peste polmonare in Manciuria, nel 1910, il dottor Reginald Farrar, inviato dall’India britannica, visita un ospedale presso Mukden. Poi coi colleghi va a ispezionare le baracche dove sono alloggiati i manovali migranti arrivati dallo Shandong, “Coolies” li chiamano i britannici, deformando il cinese per “gente che lavora duro”. Sei di loro sono seduti su un kang, letto in muratura riscaldato da un fuoco acceso all’interno. In Manciuria si gela. Chiacchierano tranquilli. Non sembrano per nulla 102 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 102 08/10/20 09:49 malati. Ma uno di loro tossisce. Farrar gli fa una sorta di tampone, chiede a ciascuno di loro di sputare in un fazzoletto. I fazzoletti sono tutti sporchi di sangue. Il giorno dopo erano tutti morti. Furtiva era anche la poliomielite. Mieteva vittime a sorpresa, non c’erano avvisaglie, sintomi particolari, prima che il virus, arrivando ai centri nervosi, in genere attraverso le pareti intestinali, producesse le paralisi. Anche il Covid non avverte. Si possono avere cariche virali tali da contagiare mezzo mondo intorno senza il minimo sintomo. Conosciamo abbastanza bene i sintomi della peste asiatica di fine Ottocento. Paul-Louis Simond, lo scopritore del ruolo che hanno nel contagio dell’uomo le pulci dei roditori, lavorava sul campo con gli appestati a Bombay e a Karachi. Così descrive i segni visibili: “Une petit phlyctène, una piccola bolla, meno grande di una testa di spillo, talvolta contornata da una minuscola aureola rosea, sovente non lontana dall’estremità di un membro alla cui radice si sviluppava il bubbone. Si poteva riscontrarla in qualunque parte del corpo, ma sempre sulla traiettoria dei vasi linfatici corrispondenti alla regione del bubbone. Era dolorosa e lo restava nel corso della sua evoluzione. Cresceva fino a raggiungere, ma molo raramente, la grandezza di una noce; d’ordinario superava di poco la grandezza di una lenticchia. Raggiunta una certa dimensione, poteva essere il punto di partenza di una necrosi della pelle, e determinare una lesione nota come carbonchio pestoso […la sua comparsa coincideva] sempre con il primo sintomo della malattia, cioè con l’inizio della febbre, o poteva anche precederla […]. Segnala sempre il punto d’ingresso del virus. La si incontra sempre nelle regioni dove la pelle è più fine, dorso del piede, malleoli, tronco […] regioni privilegiate per le punture da parte di insetti parassiti”. I segni visibili e gli altri sintomi descritti da Tucidide, Ovidio, Lucrezio, e poi Boccaccio, sono a prima vista abbastanza simili. Per forza, mica sono medici, il loro racconto non si basa su esperienze cliniche. Si basa su emozioni, reazioni comuni a molte comunità umane di fronte alla paura della pandemia, e, per ciascuno di loro, su modelli letterari che gli consentono di esprimere tutto ciò al meglio, nel mo103 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 103 08/10/20 09:49 do più efficace. Una cosa è però evidente: certamente non si tratta della stessa malattia. Le hanno chiamate tutte “peste”. Ma in realtà non sappiamo bene di che cosa si tratti. È la peste! No, no, non è lei! Complessità pestilenziali “La peste è malattia furiosa, tempestosa, mostruosa, spaventosa, orrenda, terribile, feroce, traditrice…,” scriveva Ambroise Paré, medico alla Corte di Francia a metà Cinquecento. Meno scontato è che malattia fosse. La peste in senso stretto è la malattia prodotta da un batterio identificato solo a fine Ottocento, e che più tardi, solo negli anni cinquanta del secolo scorso, ha preso il nome da uno dei suoi scopritori, il patologo svizzero, poi naturalizzato francese, Alexandre Yersin. Prima lo chiamavano Pasteurella, in onore del maestro di Yersin, Louis Pasteur. Yersin aveva isolato il batterio durante l’epidemia di peste del 1894 a Hong Kong. A essere precisi non era stato il solo. Allo stesso risultato era arrivato, quasi allo stesso tempo un giapponese, Shibasabur Kitasato, anche lui inviato a Hong Kong dal suo governo. Ma Kitasato era di un’altra scuola, quella del tedesco Koch. E i francesi, si sa, non avrebbero mai ceduto il primato ai tedeschi. Non a quei tempi comunque. Un altro francese, Paul-Louis Simond, anche lui della scuola di Louis Pasteur, avrebbe quattro anni dopo accertato che il batterio viene trasmesso dalle pulci. Yersin era un bel tipo. Un personaggio da romanzo. Ma qui ne tratteremo solo in relazione alla sua principale scoperta. Nello spirito della tradizione di Pasteur e della fiducia assoluta della sua epoca nei vaccini, appena scoperto l’agente della peste Yersin aveva iniziato immediatamente sperimentazioni di laboratorio per arrivare a un vaccino. Non ci riuscì, e un vaccino contro la peste non c’è ancora nemmeno oggi. Ci sono cure, gli antibiotici. La peste è praticamente scomparsa, anche se è endemica tra i roditori selvatici. Ma la corsa verso il vaccino, prima ancora di indagare i meccanismi complessi del contagio e della sua epidemiologia, non ha 104 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 104 08/10/20 09:49 giovato alla conoscenza del nemico. Speriamo non succeda la stessa cosa col Covid. La malattia stessa è multiforme. Si è sempre presentata in diverse vesti: bubbonica, polmonare, setticemica. In ciascuno di questi casi, cambia la forma di contagio, e cambiano i sintomi. Il che complica alquanto le cose, specie se si deve diagnosticare un’epidemia antica. Dell’agente patogeno Yersinia sono state individuate almeno diciassette specie differenti, solo tre delle quali contagiano uomini e animali: Yersinia pestis, Yersinia pseudotuberculosis, Yersinia enterocolitica. Geneticamente la seconda e terza specie si separarono tra 41 e 186 milioni di anni fa, quando gli uomini non c’erano ancora. I tre ceppi hanno subìto tutti complesse mutazioni La separazione tra secondo e terzo tipo di batterio avvenne tra 1500 e 20.000 anni fa. Il killer è solo il primo. Entra in scena tardi, dopo gli altri. E fa più danni degli altri. Peste vera e propria, dovuta allo Yersinia pestis fu probabilmente quella, raccontata da Procopio, che devastò l’Impero romano all’epoca di Giustiniano, forse quella di metà 1300, forse quella del Manzoni nel 1630, certamente lo fu quella individuata nella Cina meridionale, in Manciuria e poi in India a cavallo tra Ottocento e Novecento. Ciascuna di queste pandemie ebbe ondate di ritorno, code che si trascinarono per decenni, a volte per secoli. Che fosse effettivamente peste bubbonica non è però affatto assodato e accettato da tutti, nemmeno per la Morte nera. Samuel Cohn, uno studioso che ha raccolto una quantità spaventosa di materiale su questa epidemia, continua a sostenere di no. Anzi, ha scritto che “la Morte nera del 1347-52 in Europa, e le sue ondate successive fino al XVIII secolo, furono qualsiasi altra malattia, tranne la peste bubbonica”. Diversi altri studiosi concordano con lui, anche se non in modo così categorico e con altrettanta veemenza. La disputa a tratti è violenta, sembra un litigio tra comari, a me fa venire in mente il battibecco corale tra le sigaraie nell’atto primo della Carmen di Bizet, con quelle che incolpano la bella gitana, e quelle che la di- 105 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 105 08/10/20 09:49 fendono: Sì, sì, è stata la Carmencita… No, no, non è stata lei… Gli argomenti di chi nega che la peste fosse davvero peste sono molteplici. E talvolta convincenti, nel senso che c’è effettivamente qualcosa che non quadra. Intanto il bubbone: nei racconti c’è e non c’è. Eppure il rigonfiamento nei gangli linfatici dove si accumulano e fanno diga i batteri dovrebbe essere il segno distintivo della peste vera e propria, quella bubbonica. C’è chi ne parla esplicitamente, come fa Boccaccio (“certe enfiature”, “gavoccioli”). Rabelais, che è medico, e ha ben letto il suo Boccaccio, nel 1532 ne parla buttandola sul ridere, anzi ne fa l’origine dei suoi “giganti”, e in particolare di Pantagruele: “Venne in corpo a tutti un molto orribile gonfiore [Rabelais dice enfleure, pari pari le enfiature di Boccaccio]; ma non a tutti nello stesso luogo. Infatti ad alcuni gonfiarono i ventri […]. Ad altri gonfiarono le spalle […]. Ad altri gonfiò in lunghezza il membro, che si suole chiamare creapopoli […]. Ad altri crescevano invece i coglioni […]. Altri invece crescevano per le gambe […]. Ad altri cresceva il naso che sembrava lo stelo di un alambicco: tutto screziato, tutto costellato di bitorzoli, pullulante e purpureo, a bottoni, ben smaltato, ricco di porri e inquartato di rosso. […]. Ad altri crescevano le orecchie […]. Ad altri invece cresceva tutto il corpo in lunghezza. E sono quelli che diedero origine ai Giganti, dai quali discese Pantagruele”. (Libro II, capitolo I) Altri contemporanei della peste di metà Trecento, e anche nei secoli successivi, i bubboni li ignorano, forse si dimenticano di menzionarli. Oppure parlano di qualche cosa che gli somiglia, ma non è necessariamente un bubbone della peste. Uno dei primi testimoni, il canonico Heyligen de Beeringen, in una lettera del 27 aprile 1348, ne parla come di un segno secondario, anche se la distinzione che fa tra le diverse forme che può assumere la peste è clinicamente ineccepibile: Il male può assumere tre aspetti: gli uomini soffrivano ai polmoni e alla respirazione e non potevano scampare o vivere più di due giorni. 106 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 106 08/10/20 09:49 Furono fatti esami da dottori in molte città d’Italia e anche ad Avignone, per ordine del Papa, per scoprire le cause del male. Molti cadaveri furono aperti e sezionati, e si trovò che tutti quelli morti così all’improvviso avevano i polmoni e il sangue infetti. Non ci sono mezzi di protezione contro il contagio: chi vede, o visita, o è in relazione, o porta uno colpito dal male al cimitero, ben presto lo segue. C’è un’altra forma di malattia che infuria contemporaneamente a questa prima: consiste in certi gonfiori che appaiono sotto le braccia e per questi la gente rapidamente muore. E c’è anche una terza forma che procede di pari passo con le prime due: quella per cui persone di ambo i sessi soffrono di gonfiori all’inguine. Questa parimenti è presto fatale. Quasi tutti parlano di pustole, macchie e altre cose simili (carbunculi, seu antracis aut alicuius similis). Tra le molte raffigurazioni abbondano quelle in cui la malattia viene rappresentata a puntini rossi, tipo morbillo o varicella. I cronisti medici delle isole britanniche parlano piuttosto di “pokkes”, pustole, che è anche il termine che si usa per il vaiolo.. Il problema è che il formarsi di rigonfiamenti nelle ghiandole linfatiche, e la formazione di lesioni emorragiche, non sono prerogativa esclusiva della peste. Si possono manifestare anche in una molteplicità di altre malattie contagiose: in diverse sindromi febbrili, nelle ricadute gravi di malaria, nelle febbri tifoidee e nel tifo vero e proprio, nelle febbri ghiandolari, nella tularemia, nel linfogranuloma inguinale, in casi di filariasi. Nel “tifo fluviale giapponese” (dovuto al batterio Orientia tsutsugamushi), produce ascessi sotto le ascelle e allo scroto, nell’orchite filariale l’ingrossamento delle ghiandole si manifesta in bubboni di anche 5-7,5 cm di diametro. In un gran numero di narrazioni – e anche in molte rappresentazioni pittoriche – il tradizionale, sarei tentato di dire classico, bubbone si accompagna ad altre eruzioni, pustole, lenticchie, carbonchi e così via. Lo fa Boccaccio descrivendo le peste a Firenze, ma anche il francescano Michele da Piazza, cronista dell’arrivo della peste nel 1347 a Messina. Lo stesso fanno i medici della peste nella Londra del 1665 e nella Marsiglia del 1720. C’è il problema della mortalità: un tasso altissimo per la peste del quattordicesimo secolo. Perì, calcolano i contem107 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 107 08/10/20 09:49 poranei, da metà a due terzi della popolazione d’Europa. Anche ammesso che si tratti di un’esagerazione, che le vittime fossero molte meno, non si registra niente del genere per alcuna altra pandemia, prima o dopo. L’influenza “spagnola” del 1918 potrebbe aver fatto a livello mondiale un pari numero di vittime, 50 o 100 milioni, ma molto minore in percentuale sulla popolazione totale considerata. I registri delle tasse rivelano che nei soli mesi estivi del 1348 Firenze perse tre quarti degli abitanti. E questo conferma la versione di Boccaccio sulla mortalità elevata, per quanto possa essere un esercizio letterario. Genova e Napoli a metà Seicento persero due terzi della popolazione. L’obiezione è che nessuna malattia da sola può aver causato tante morti. Quindi forse andrebbero cercati molti killer, una concomitanza di patologie, di quel che oggi si dicono condizioni pregresse (costante nelle fonti è il richiamo a carestie che precedono lo scoppio della peste) e di agenti epidemici. In almeno un caso, un cronista inglese descrive un’epidemia del 1369 che combina peste e vaiolo. Poi c’è il problema della velocità con cui si muove il contagio. La peste individuata da Yersin nella Cina meridionale si muoveva molto lentamente, non più di dodici, quindici chilometri all’anno. Ci aveva messo cinquant’anni ad arrivare dallo Yunnan a Canton e Hong Kong. In confronto la velocità della peste di metà Trecento è fulminea. La Morte nera viaggiava a passo di corsa, da 1,5 a 6 chilometri al giorno, non all’anno. Alla velocità di movimento corrisponde un’incredibile rapidità di contagio. Neanche si trattasse di Covid o qualche altra porcheria virale che si trasmette nelle micro goccioline dell’aerosol, e non di un grosso batterio che dovrebbe passare dalle pulci ai ratti, e poi svogliatamente dai ratti morti all’uomo (nella versione canonica la pulce gli trasmette il contagio vomitandogli nella puntura il sangue infetto del ratto morto stecchito, che ha dovuto abbandonare controvoglia). A proposito della peste nel 1347 a Messina i cronisti italiani riferiscono che bastava che i marinai appena sbarcati “parlassero” con dei pescatori al mercato perché questi ca108 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 108 08/10/20 09:49 dessero stecchiti poche ore dopo. Neanche fosse il malocchio, trasmesso istantaneamente con lo sguardo. È certo un’esagerazione, si verifica solo in fantascienza (ad esempio in Andromeda Strain di Michael Crichton, del 1969, da cui furono tratti diversi film). Non è possibile che la Yersinia pestis sia arrivata prima ancora dei marinai, e delle navi che la trasportavano assieme alle pulci e ai topi infetti. Magari prima sarà arrivata qualche altra nave. Ma curiosamente il tema della fulmineità ritorna nelle cronache delle pesti successive, anche di secoli. A Roma nel 1656, a Marsiglia nel 1719, a Messina nel 1743 vengono notati altrettanti contagi istantanei dei portuali, marinai, magistrati addetti all’ispezione delle navi e dei carichi in arrivo. “I facchini che aprirono le balle di merci infette nel Lazzaretto di Marsiglia morirono al primo apparire dell’infezione, come se fossero colpiti da un malore improvviso […] la morte seguiva nel giro di ore,” scrive ad esempio il medico e matematico inglese del Settecento Richard Mead, nel suo A Discourse on the Plague. Luoghi comuni letterari che si rincorrono? La peste Doc individuata in Cina meridionale, a Hong Kong e in India a cavallo tra Ottocento e Novecento non era molto contagiosa. A meno che non si trattasse della forma polmonare. Raramente aveva complicazioni polmonari, e, anche quando tutta la numerosa parentela si affollava attorno al letto in corsia, come era tradizione specie in India, il contagio non si trasmetteva facilmente. I medici britannici inviati dall’Impero a contenerla spesso notano che “gli ospedali sono i luoghi più sicuri”. Pochissimi si ammalarono, a differenza invece degli anatomopatologi, i quali invece trafficavano direttamente con il batterio. Al contrario, la peste che investì l’Europa dal 1357 in poi è ritenuta contagiosissima, come fosse un’influenza virale, come fosse il comune raffreddore. Sempre Richard Mead si pronuncia contro “l’affollare i malati [crowding the sick] negli ospedali”, perché “non porta niente di buono, anzi invece promuove e diffonde il contagio”. Lo sgretolarsi dei sistemi sanitari, di ogni paese, anche di quelli più ricchi, e a ogni latitudine aveva già 109 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 109 08/10/20 09:49 reso gli ospedali luoghi pericolosi. Il Covid li ha resi, nella percezione dei più, luoghi micidiali. Una differenza importante tocca la durata e la permanenza delle epidemie. Un’altra differenza riguarda la stagionalità. La peste nera restò endemica per tutto il 1300, il 1400 e il 1500, tornò in pieno nel 1600, continuò fino al 1700 e, contrariamente a quanto si sostiene spesso, non sparì affatto del tutto dall’Europa dopo la grande peste di Marsiglia del 1720. Fece quarantottomila vittime a Messina nel 1743, e oltre centomila a Mosca nel 1771-72. Le epidemie di Yersinia furono debellate nel giro di pochi mesi, al massimo anni, ben prima che la penicillina relegasse il batterio a qualche focolaio di roditori selvatici qua e là per il mondo. La peste bubbonica vera e propria, quella documentata da Yersin, tende a manifestarsi in estate e agli inizi dell’autunno, la peste polmonare è, come quasi tutte le malattie che colpiscono gli organi respiratori, un habitué dell’inverno, quando la gente tende a raffreddarsi e a stare in casa e in ambienti chiusi. La peste nera invece non guardava in faccia le stagioni, colpiva tutto l’anno. Tra gli studiosi c’è chi ha sostenuto che la curva di mortalità stagionale è il principale indizio contro l’ipotesi che si trattasse di peste bubbonica. Non solo la curva è ballerina e capricciosa. Il fatto è che non rispetta affatto i cicli della presenza di ratti e pulci, senza i quali non ci dovrebbe essere Yersinia. La peste medievale in Toscana, a Bologna, in Umbria, a Roma aveva raggiunto il picco in giugno. Nel milanese aveva raggiunto il picco in ottobre, nel 1468 in luglio, ma quella “manzoniana” del 1630 lo raggiunse in novembre. Quando tocca tocca, non pare esserci regola per cui la pandemia scoppia in una determinata stagione e cessa in un’altra. Esattamente come si sono rivelate inesatte le previsioni per cui il Covid-19 si sarebbe squagliato ai primi caldi. Pestilential Complexities è il titolo, particolarmente indovinato, di un volume che raccoglie gli atti di una conferenza sulla peste medievale organizzata dal Wellcome Trust a Londra nel 2006, con contributi di altissimo livello. Non sono i libri che mancano sulla peste. Una bibliografia comprenderebbe migliaia, forse centinaia di migliaia di titoli. Quel che 110 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 110 08/10/20 09:49 forse manca un po’ è la memoria, uno sfoltimento di tutta questa complessità. Ma se non era peste, che era? Questo non si sa. Scusate, non sappiamo ancora bene, malgrado tutta la strumentazione scientifica di cui disponiamo, cos’è il Covid-19. Come possiamo pretendere di conoscere cosa furono queste pandemie antiche che ci siamo abituati a chiamare pesti? Dove sono finiti i topi? E le pulci? Il primo segno della peste nel romanzo di Camus è un ratto morto che il protagonista, il dottor Rieux, trova sul pianerottolo. Poi di topi moribondi e morti ne La peste ne spuntano a decine, a centinaia, a migliaia. I cadaveri dei roditori si accumulano per strada, in mezzo alla spazzatura. Sono pagine molto efficaci. Non ha alcuna importanza che non ci sia stata peste a Orano e che Camus non abbia mai assistito a un’epidemia di peste. Racconta, grazie alla sua immaginazione e alle sue conoscenze mediche, quel che dovrebbe succedere in un’epidemia di peste bubbonica da manuale, in cui la pulce portatrice del batterio infetta i roditori, morto il roditore lo abbandona per passare per disperazione, con estrema riluttanza, all’uomo, il cui sangue non è affatto la sua dieta preferita. La pulce lo punge perché affamata. Ha lo stomaco pieno di sangue del roditore defunto, ma bloccato per l’accumulo dei batteri nel vestibolo del suo apparato digerente. Non riuscendo a succhiare e ingerire il sangue del suo nuovo ospite, gli vomita nella ferita il sangue infetto. Camus certo ha fatto i suoi compiti. Conosce le descrizioni sulla peste moderna, che comprendono anche morìe di topi. Ha letto Tucidide e Ovidio. Lo provano gli appunti, i Cahiers, un intero saggio rimasto inedito. C’è però un problema: quasi nessuno degli autori “classici” parla di ratti o topi. Non se ne vedono in giro né nella peste del 1348 raccontata da Boccaccio e dai cronisti suoi contemporanei, né in quella di Atene descritta da Tucidide, e nemmeno in quel111 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 111 08/10/20 09:49 la di cui racconta Procopio. Gli animali menzionati in rapporto con la peste sono altri. Tucidide scrive che “tutti gli uccelli e gli animali a quattro zampe che si cibano di cadaveri umani (molti giacevano allo scoperto) questa volta non si accostavano, ovvero morivano, dopo averne mangiato”. Ma non fa menzione di ratti o topi. Anche in Ovidio le bestie schifano il contagio: i cadaveri degli appestati “non li toccarono i cani, non gli uccelli rapaci, non i lupi grigi”. Boccaccio dice essere cosa maravigliosissima, cioè da non credersi, che se un infermo toccava un qualsiasi animale, “non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse”. All’inizio di ogni epidemia di peste ci avevano pensato comunque gli uomini ad ammazzare cani e gatti, perché ritenuti, a torto, portatori del contagio. I cani randagi furono le prime vittime, anche perché erano troppo numerosi. All’epoca di Shakespeare alcune parrocchie retribuivano dei poveri con la sola mansione di allontanare i cani. A Riom un editto della Commissione di Sanità ordina nel 1631 di abbattere tutti i gatti, e anche i piccioni nei colombiers. In un’incisione seicentesca di Jan de Ridder c’è una vera e propria esecuzione di massa, a pistolettate, di cani e gatti. All’avversione nei confronti dei gatti, ritenuti responsabili di malattie, oltre che all’avversione ancora più marcata nei confronti dei loro padroni che coccolano i gatti e affamano i garzoni, si può far risalire il Gran massacro dei gatti a opera degli apprendisti tipografi della rue Saint Séverin a Parigi, documentato da Robert Darnton. Tra parentesi, se fosse vero che la peste la portano i topi, attraverso le loro pulci, lo sterminio dei gatti non fece che aumentare il contagio. Nei processi, le streghe venivano accusate di trasformarsi in gatti per introdursi nelle case e contaminare, o succhiare sangue, midollo e cervello dei neonati. Qualcuna confessa. Manzoni, che alle stregonerie e agli untori ovviamente non ci crede, non rinuncia a riferire “tra le storie che quel delirio dell’unzioni fece immaginare”, un paio di leggende metropolitane tipo fantasy horror. Una in cui il diavolo appestatore si presenta in piazza del Duomo “con un tiro a sei”, manco fosse il Gatto con gli sti112 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 112 08/10/20 09:49 vali, o il Voland di Bulgakov col gattone nero che compare all’improvviso nella Mosca di Stalin. Una seconda in cui altri reclutatori di untori svaniscono trasformandosi in “un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra”. Nei Racconti di Liao Zhai e in altre fantasie cinesi, le streghe sono volpi. Il vampiro appestatore Dracula si trasforma in pipistrello, viaggia accompagnato da stuoli di ratti. Lo Spillover, le zoonosi virali, sono state ampiamente anticipate in forma romanzata. I cronisti medievali contemporanei alla peste nera raramente parlano di topi o ratti. Parlano di scorpioni, serpenti, lumache, rospi, scarafaggi. Il medico abruzzese Sebastiano Tranzi nel suo Trattato di peste del 1587 cita il moltiplicarsi di “zanzare, rane, sorci [sorici], cimici, grilli, farfalle, e altri animali simili, nati dalla putrefazione”, come segni premonitori della peste. È uno dei pochi a menzionare i topi, anche se in compagnia di parassiti che trasmettono malattie diverse dalla peste, e di insetti assolutamente innocenti. Nella tavola di Bosch che raffigura la visita della morte, vestita come sempre da scheletro, all’avaro, la stanza di quest’ultimo è piena di animaletti e mostriciattoli di ogni tipo, di quelli che solo Bosch sapeva immaginare. Da sotto un cassettone spunta una sola coda che potrebbe essere di ratto. Altrimenti, quasi nessuno se la prende con i topi, anzi neanche si accorge della loro esistenza. Il Bhgavata Pura, testo sacro dell’induismo la cui redazione viene fatta risalire all’XI secolo, contiene già il consiglio: “Se vedi un ratto che cade a terra dal tetto e si trascina come fosse ubriaco, fuggi che la peste è vicina”. Wu Lienteh, che su incarico di Pechino indagò l’epidemia di peste del 1911 in Manciuria e Mongolia, cita i versi di una poesia cinese del 1792: “Pochi giorni dalla morte dei ratti/e muoiono gli uomini uno dietro l’altro”. E del resto in cinese “peste bubbonica” è parola composta dai caratteri per “ratto” e “epidemia”. Ma poi fu accertato che la peste manciuriana veniva non dai ratti ma dal tarbagan, un roditore selvatico cacciato per la sua pelliccia. Samuel Pepys annota con grande pignoleria tutti i minimi dettagli di ciò che succedeva a 113 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 113 08/10/20 09:49 Londra durante la grande peste del 1665, ma non menziona alcuna morìa di ratti. Non ci sono ratti nei Promessi sposi. C’è ogni genere di altri animali, dai polli di Renzo ai muli, al cavallo di cui (nel Fermo e Lucia) si impadronisce don Rodrigo, ormai in preda al delirio nel Lazzaretto. C’è un intero zoo di bestie in carne e ossa, o tirate in ballo in senso figurato. In un rigo Agnese si preoccupa della casa abbandonata a “topi” e “faine”, ma Manzoni non fa alcun riferimento a ratti o altri roditori in relazione alla peste. E pour cause: quando lui scrive il ciclo pulce-ratti-uomo era ben al di qua dall’essere scoperto, o anche solo immaginato. L’assenza dei topi nella letteratura e nelle cronache della peste è uno degli argomenti principali della scuola “revisionista”, per cui la peste nera non sarebbe peste, o per lo meno non peste bubbonica. Ma i tradizionalisti rispondono che i ratti erano tanto comuni che nessuno si sarebbe preso la briga di notarne l’assenza o la presenza. Quanto all’assenza di qualsiasi riferimento a morìe in massa di topi, potrebbe dipendere dal fatto che non faceva conto parlarne, oppure più semplicemente dal fatto che i topi casalinghi generalmente non se ne vanno in giro a morire, muoiono dove stanno nascosti, negli interstizi dei muri, in buchi inaccessibili. Certo, decomponendosi puzzano. E questo sarebbe coerente con la gran puzza che c’è in tutte le narrazioni della peste, e che anzi viene indicata come l’origine stessa del contagio. Ci sono rattoni a non finire nelle incisioni di Bruegel, specie quelle sui Vizi capitali. Minacciano allettati, forse ammalati. In compagnia di un’infinità di altri mostriciattoli fantastici o animali immondi che razzolano nella sporcizia. Ma non si tratta di ratti moribondi. Anzi, semmai hanno l’aria dispettosa. Pieno di ratti è il dipinto di argomento biblico, “La peste di Ashdod (o Azoth?)” – oggi al Louvre –– che Nicolas Poussin fece a Roma nel 1630. Era l’anno che tornò la peste. Ma non a Roma, che fu risparmiata. Sarà stato per caso, sarà stato perché già l’anno prima, nel 1629, alle primissime avvisaglie nella penisola e in città, erano state prese misure preventive, era stata istituita un’apposita Congrega114 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 114 08/10/20 09:49 zione di Sanità guidata dal cardinale Barberini. La commissione si riuniva due volte alla settimana, fu sciolta solo nel 1634, che ormai la peste era passata. Per uno di quei bizzarri giochi del destino, anche quella volta la Roma barocca e decadente fece meglio della ricca Milano. I ratti di Poussin sono vispissimi, non sono morti o moribondi. È ben possibile che Poussin ne abbia visti a caterve: anche nella Roma di allora la spazzatura per strada non mancava. Ma più che di un’intuizione del rapporto che c’è tra la peste e i ratti (e le loro pulci), la presenza dei roditori nel dipinto potrebbe essere dovuta alla fedeltà al testo biblico cui si riferisce: il libro di Samuele, dove si racconta della pestilenza con cui la mano del Signore aveva colpito i Filistei che si erano impadroniti dell’Arca dell’alleanza, con “rigonfiamenti”, bubboni, nelle “parti nascoste del corpo”, e un’infestazione di topi che avevano “invaso la terra”, e secondo alcune traduzioni, anche “le loro navi”. Un ratto dal brutto ceffo si vede in primo piano anche in uno dei “teatrini” in cera policroma realizzati attorno al 1690 dall’abate Gaetano Zumbo (o Zummo), e ora al Museo La Specola di Firenze. La scena è particolarmente raccapricciante: i ratti, anche in questo caso vispi e tutt’altro che moribondi, si stanno contendendo i visceri fuorusciti dalla pancia di uno dei cadaveri di appestati in decomposizione. I ratti quindi c’erano, eccome. Un’analisi chimica recente, condotta con tecniche molto sofisticate, delle tracce biologiche sulla superficie dei certificati di morte nell’estate 1630, l’anno della peste del Manzoni, conservati all’Archivio di Stato di Milano, rivela presenze sorprendenti – e inattese dagli stessi ricercatori: sul margine inferiore dei fogli, quello toccato dai polpastrelli degli scrivani, ci sono proteine tipiche del Yersinia pestis, proteine di topo o di ratto, tracce di carota, altre verdure e latte di capra. È probabile che quelle registrazioni di decesso fossero compilate direttamente nel Lazzaretto, da scrivani immuni come i monatti, che negli stessi locali consumavano i loro pasti frugali a base di verdure (la carne era un genere di lusso), che quei locali fossero nottetempo visitati da stuoli di ratti in cerca di cibo. In una 115 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 115 08/10/20 09:49 stampa antica che raffigura il Lazzaretto, al cui centro si ergono tende come fosse un accampamento militare, si distingue una capra, che serviva a procurare il latte agli infanti delle ricoverate. Ancor meno visibile dei ratti è la pulce. Per Aristotele le pulci nascevano dalla sporcizia. Alla pulce dedica una fiaba Esopo (così come la dedica ai topi, distinguendo tra quello di città e quello di campagna). Di pulci, e rimedi per liberarsene, scrivono Plauto, Varrone, Columella, Celso, Marziale. Il naturalista rinascimentale Ulisse Aldrovrandi le dedica un intero capitolo del suo De animalibus insectis. Galileo Galilei informa i colleghi dell’Accademia dei Lincei di aver contemplato con le sue lenti “moltissimi animalucci, con infinita ammirazione, tra i quali la pulce è orribilissima”. Qualche rara volta la pulce viene indicata come responsabile del contagio. Ma più che altro simbolicamente, in metafora. Ad esempio, nel suo Successo della peste occorsa in Padova l’anno M.D.LXXVI, in piena epidemia del 1576, Alessandro Canobbio si dice terrorizzato da “beccatura di pulce”, ma nel senso di piccolissima ferita: “Io che per continuo vedeva davanti la mia porta queste miserie, ero ridotto a tal spavento, che molte volte non sapeva s’io fosse vivo, ò morto; sano ò appestato. Se una beccatura di pulce in alcun luogo della vita io vedeva, subito pensava di essere ferito”. Diffusa si è l’idea che qualche animaletto poco o punto visibile, qualche mostriciattolo orrendo debba essere responsabile del contagio, e talvolta lo si rappresenta anche, ma si tratta di mostri immaginari, fantastici: draghi che sputano fuoco, serpenti, mostri immondi, creature diaboliche alate. Nell’edizione originale (Paolo Megietti Libraro in Padoua, 1577) del Successo della peste di Canobbio ci sono due strane e inquietanti incisioni capolettera che hanno un possibile riferimento alla peste: una P in cui si vede un drago che sputa fuoco e minaccia una donzella incatenata, alla cui difesa accorre un Perseo volante, e una L raffigurante una donna e due bambini atterriti da un inquietante bestia mezzo ratto mezzo rettile. “[…] ci pare haver ben detto Marsilio Ficino 116 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 116 08/10/20 09:49 che la peste è un dracone col suo corpo di aere, il quale spira veneno contra l’uomo,” approva il medico Ingrassia. Mostriciattoli strani figurano anche in dipinti di Giorgione e nel Miracolo del piede risanato in cui Tiziano, secondo alcuni critici, dipinse Giorgione morente. Sia Giorgione che Tiziano morirono di peste a Venezia. Tra i primi a raffigurare con precisione la pulce è il gesuita Filippo Bonanni, nelle sue Observationes circa viventia quae in rebus non viventibus reperiuntur, cum micrographia curiosa, del 1691. Con lo “spulciamento” si sono cimentati moltissimi pittori. Dal bolognese Giuseppe Maria Crespi, detto “lo spagnolo”, a Gerrit van Honthorst, detto Gherardo delle Notti, che raffigura una cortigiana che viene aiutata a spulciarsi. Tema ripreso da un altro seicentesco, l’ungherese Andries Botha, in una Caccia al lume di candela in cui è invece una donna a cercare a lume di candela pulci sul dorso di un uomo. Anatomia dell’artropodo e horror onirico si mescolano nel Ghost of a Flea, il fantasma di una pulce, disegnato tra 1819 e 1820 da William Blake, il grande esperto di Apocalissi e Profezie. Sarebbe profetico, se non fosse che Blake non poteva avere la minima cognizione del ruolo che la pulce ha nel trasmettere la peste. Così come non ce l’aveva nessuno degli autori sopra citati, i quali parlano di pulci, ma mai in connessione, nemmeno remota, con la peste. La coabitazione tra pulci e uomini è piuttosto antica. Se ne sono trovate negli scavi di Tell el-Amarna, che risalgono all’antico Egitto. Erano già in America prima che arrivasse Colombo. A differenza delle cimici, che invece furono importate dagli europei, i quali in cambio si presero e riportarono in Europa la sifilide. Come le pulci, a quanto pare le cimici inizialmente preferivano gli animali all’uomo. C’è chi ritiene che le cimici fossero in origine parassiti dei pipistrelli, e siano entrate in contatto con i primi cavernicoli quando questi invasero il loro habitat. Come le pulci, le cimici si trovano a loro agio, e talvolta sopravvivono a lungo, oltre che nella peluria degli animali e delle persone, nelle pellicce, nei tessili e nei capi di abbigliamento. Nel quindicesimo secolo le stole che le dame indossavano sulle spalle venivano chia117 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 117 08/10/20 09:49 mate “pellicce da pulce”. In diverse lingue è rimasta l’espressione “mercato delle pulci”. Si conoscono oltre duemila specie di pulci. La pulci che trasmettono la peste all’uomo sono la Xenopsylla cheopis ovvero la pulce del Rattus rattus, il ratto nero, una specie orientale che forse fu portata in Europa dai Crociati, ama i granai e i solai, e non disdegna le navi, specie se trasportano cereali, e il Nosopsyllus fasciatus, il quale invece predilige il Rattus norvegicus, ovvero la pantegana che nuota nelle fogne. Entrambe queste pulci hanno nel loro apparato digerente un proventricolo che finisce bloccato dall’accumulo di batteri di Yersinia. È determinante per il meccanismo con cui possono infettare l’uomo. Le pulci sono molto esigenti in fatto di dieta, non cambiano volentieri ospite. Passano dal ratto all’uomo solo quando questo muore. Lo pungono, ma il blocco del proventricolo gli impedisce di succhiare altro sangue. Lo infettano vomitando nella ferita una poltiglia di sangue rappreso e batteri. Questo meccanismo non funziona con altre specie di pulci che non hanno il proventricolo. Ad esempio la comune pulce dell’uomo, il Pulex irritans, non ce l’ha, quindi il batterio non dovrebbe potersi trasmettere dai ratti alle persone, e da persona a persona in questa maniera. Negli anni quaranta del secolo scorso due medici francesi, George Blanc e Marcel Baltazard provarono a dimostrare il contrario, che l’infezione poteva essere trasmessa anche dalle comuni pulci domestiche, o dai pidocchi. E in apparenza ci riuscirono, nel corso di esperimenti condotti in Marocco, iniettando nelle cavie colture di batteri raccolti dai cadaveri di morti di peste. Ma c’è chi, come dire, gli fa le pulci, e osserva che i loro esperimenti dimostrano in realtà che è pressoché impossibile che la peste si trasmetta tramite le pulci degli umani. Solo un esperimento su nove gli riuscì, e con una concentrazione forzata, quasi impossibile in natura, di pulci infette. Forse non è sempre colpa del topo, e neanche della pulce, forse si tratta di un altro parassita, mettiamo i pidocchi, forse certe pesti si trasmettono altrimenti, oppure non sono peste ma qualcos’altro. Cherchez la puce non sem118 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 118 08/10/20 09:49 pre risolve l’enigma, esattamente come non tutto si spiega con Cherchez la femme… daLLa Parte degLi insetti. da KafKa a caPeK 119 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 119 08/10/20 09:49 4. Zone rosse e pazienti Zero infettare i ProPri cari “L’intero esercito [dei Tartari] fu colpito da una malattia che li sopraffece. Morivano a migliaia ogni giorno […]. All’improvviso mostravano segni sui loro corpi… gli umori si coagulavano nell’inguine o alle ascelle [in bubboni], e seguiva una febbre putrida [febbre tifoidea, accompagnata da petecchie?] e morivano, senza che consulti e le cure dei medici potessero in nessun modo aiutarli […]. I Tartari, prostrati da questa malattia pestilenziale, stupefatti nel vedersi morire senza speranze di guarigione, persero interesse nell’assedio. Ma ordinarono che i cadaveri fossero messi sulle catapulte e li scagliarono dentro la città di Caffa, così che, a causa di questi indesiderati ospiti, a loro volta gli assediati cominciarono a morire diffusamente. Si crearono così montagne di morti, dalle quali i cristiani non potevano nascondersi né fuggire, o essere liberati da un tale disastro […] e ben presto l’aria fu contaminata e l’acqua avvelenata, corrotta e putrefatta, e si diffuse un odore insopportabile […]. La mortalità era così elevata e così diffusa che [in tutto l’Oriente] si levarono alti lamenti, grida e strepiti, fra i Cinesi, gli Indiani, i Persiani, i Medi, i Curdi, gli Armeni, i Georgiani, i Nubiani, gli Etiopi, i Turchi, gli Egiziani, gli Arabi, i Saraceni, i Greci […] 120 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 120 08/10/20 09:49 Fra coloro che erano fuggiti da Caffa via mare vi erano alcuni marinai che erano stati infettati da questo male velenoso. Alcune navi si diressero a Genova, altre a Venezia o in altri luoghi di religione cristiana. Quando i marinai raggiunsero queste località si mescolarono con le persone che vi abitavano, fu come se avessero portato con sé uno spirito maligno, ogni città, ogni insediamento, ogni luogo fu avvelenato dalla pestilenza, e gli abitanti, uomini o donne che fossero, morirono improvvisamente. E quando una persona aveva contratto la malattia, avvelenava tutta la sua famiglia anche quando cadeva e moriva, così che coloro che allestivano i preparativi per la sepoltura erano colti dalla morte allo stesso modo […]. Ahimè le nostre navi entrano in porto, ma di 1000 marinai ne sono sopravvissuti a stento 10. Entrammo nelle nostre case come se fossimo accompagnati da uno spirito maligno […] parenti amici e vicini ci raggiunsero da ogni parte […]. Sventura a noi che portavamo le frecce della morte, essi ci stringevano e ci abbracciavano e ci baciavano e mentre noi parlavamo dalle nostre bocche emanavamo veleno insieme alle parole. E così, tornando alle proprie case, costoro avvelenarono tutta la famiglia e nel giro di tre giorni sarebbero tutti periti […]. Innumerevoli i cadaveri da seppellire […] non c’era abbastanza terreno libero per le tombe [...] furono costretti a scavare le fosse vicino alla piazza o in aree di campagna dove non c’erano mai state […] Un numero enorme di persone giovani, Specialmente donne incinte, morì in breve tempo […] i cittadini eminenti e i nobili venivano sepolti nelle stesse tombe con i popolani e gli indigenti, Perché i morti erano tutti uguali […] mariti e mogli che avevano diviso serenamente il talamo matrimoniale erano ora separati […] la madre spesso rifiutava di toccare il figlio, il marito la moglie […] la vittima giaceva ammalata sola a casa […]. I medici non volevano nemmeno entrare […] i sacerdoti attoniti amministravano i sacramenti con timore […]. Cosa dobbiamo fare? Fuggire è impossibile; nascondersi è inutile […]. Pensavate che la prosperità vi desse sicurezza, ora la 121 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 121 08/10/20 09:49 stessa fossa vi copre tutti, abbienti e non […]. Il passato ci ha divorato, il presente ci rode le viscere, il futuro minaccia perigli ancora più grandi. Ci eravamo dati da fare per accumulare freneticamente; nel giro di un’ora abbiamo perso tutto…” Gabriel De Mussis, Historia de morbo sive mortalitate quae fuit Anno Domini MCCCXLII oro, fuoco, forca “Ignis, furca, aurum sunt medicina mali.” Giovan Filippo Ingrassia, Informatione del pestifero, et contagioso morbo: il quale affligge et have afflitto questa città di Palermo, & molte altre città, e terre di questo Regno di Sicilia, nell’anno 1575 et 1576 distanziaMento obbLigatorio di 2 braccia “[…] quando conversi, stia discosto dal compagno die braccia al meno, & al luogo aperto, & quando è di sospetto stia etiam più lungi almeno sei braccia, & allo scoperto, & fa che il vento non venga da lui inverso a te.” Marsilio Ficino, Contro la peste, 1576 vietato uscir di casa, Pena La Morte “Vietato a chiunque l’uscir dalle case infette quali sono chiuse et interdette, posse essere ammazzato impunemente.” “Proibito l’approssimarsi alle case serrate, permesso il parlare con le persone in esse rinchiuse, ma nella distanza di due braccia; fuggitivi dalle stesse siano banditi, retenuti in contraffazion di bando, siano impiccat.i” “Padovani esercenti lanificio et arrivati in questa città già un mese, partano tosto in pena di forca […].” Le leggi di Sanità della Repubblica di Venezia, 1511 e 1528 122 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 122 08/10/20 09:49 La Mascherina aLMeno rassicura “Estrasse da uno sterilizzatore due maschere di garza idrofila, ne porse una a Rambert e lo invitò a indossarla. Il giornalista domandò se serviva a qualcosa e Tarrou rispose di no, ma che rassicurava gli altri. … So con certezza […] che ciascuno la porta in sé la peste, perché nessuno, no, nessuno al mondo ne è indenne. E che bisogna sorvegliarsi senza cessa per non essere portati, in un istante di distrazione, a respirare in faccia a qualcuno e appiccicargli l’infezione […]. L’uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che si distrae il meno possibile. E ce ne vuole di volontà e di tensione per non essere mai distratti! Sì, Rieux, essere appestati è molto faticoso; ma è ancora più faticoso non volerlo essere. È per questo che tutti appaiono stanchi: tutti, oggi, si ritrovano un po’ appestati […].” Camus, La peste un ordine assurdo o ProvvidenziaLe? “Gli archivi della piccola città di Cagliari, in Sardegna, contengono la relazione di uno straordinario fatto storico. Una notte, alla fine d’aprile o all’inizio di maggio del 1720, venti giorni prima dell’arrivo a Marsiglia del Grand-Saint-Antoine, il cui approdo coincise con la più stupefacente esplosione di peste che mai sia germogliata nella storia di questa città, Saint-Rémy, viceré di Sardegna, reso forse sensibile ai virus più perniciosi dalle sue ridotte responsabilità di monarca, fece un sogno particolarmente sgradevole: vide se stesso appestato e la peste devastare il suo minuscolo Stato. Sotto l’azione del flagello, le strutture della società si disgregano. L’ordine crolla. Egli assiste al totale sconvolgimento della morale, a tutte le disfatte della psicologia, sente il mormorio dei propri umori, straziati e in piena rovina, 123 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 123 08/10/20 09:49 che in un vertiginoso disfacimento della materia si appesantiscono e si trasformano a poco a poco in carbone. È dunque troppo tardi per scongiurare il flagello? Ma, benché distrutto, annichilito, organicamente polverizzato e arso nelle midolla, egli sa che nei sogni non si muore, che la volontà vi agisce sino all’assurdo, sino alla negazione del possibile, sino a una sorta di trasmutazione della menzogna da cui si riproduce la verità. Si sveglia. Tutte le voci di peste, i miasmi di un virus venuto dall’Oriente, ora sarà in grado di allontanarli. Una nave salpata da Beirut un mese prima, il Grand-Saint-Antoine, chiede l’autorizzazione ad approdare. Ed è a questo punto che gli dà l’ordine pazzesco, l’ordine che il popolo e tutte le persone che gli sono vicine giudicano farneticante, assurdo, sciocco e dispotico. In tutta fretta invia alla nave che presume contaminata la barca del pilota con alcuni uomini, incaricati di imporre al Grand-Saint-Antoine di virare immediatamente di bordo e di spiegare le Vele lontano dalla città, pena l’affondamento a colpi di cannone. La guerra contro la peste. L’autocrate andava per le spicce.” Antonin Artaud, Il teatro e la peste asPettare, o non asPettare? Questo è iL ProbLeMa Sì, bisognava ricominciare e la peste non dimenticava mai qualcuno troppo a lungo: durante il mese di dicembre fiammeggiò nei petti dei nostri concittadini, accese il forno, popolò i campi d’ombre con le mani vuote, insomma non cessò di progredire con la sua andatura paziente e a scatti. Le autorità avevano contato sui giorni freddi per bloccare il cammino della peste, ma questa passava traverso i primi rigori della stagione senza disarmare. Bisognava aspettare ancora; ma non si aspetta più a forza di aspettare, e la nostra città intera viveva senza futuro. Camus, La peste 124 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 124 08/10/20 09:49 Nell’ottobre 1347, Genova chiuse il porto alle proprie galee che rientravano dalla Crimea. Erano precedute da voci tremende. Si diceva che portavano la peste. Avrebbero scatenato violente epidemie in tutti i porti in cui avevano fatto scalo: a Trebisonda, Costantinopoli, a Messina in Sicilia. Marsiglia, con una bella e spregiudicata operazione commerciale, decise invece di accoglierle: così pensavano di soffiare gli affari alla rivale Genova. Invece si presero la peste anche loro, e quindi la diffusero in tutta Europa. Le città italiane avrebbero potuto vantarsi di aver inventato per prime la quarantena, le zone rosse, i cordoni e controlli sanitari, i lazzaretti in cui isolare i contagiati. Anche quella volta avrebbero potuto essere un modello per tutti. Se solo non fossero state troppo occupate in ben altro: a farsi la guerra le une con le altre, e anche a scannarsi al loro interno. La scuola di medicina a Bologna era la più avanzata al mondo. Lì aveva studiato il celebre medico che Clemente VI si era portato ad Avignone, Guy de Chauliac (Cauliaco). Riuscì a convincere il papa a evitare gli assembramenti (in particolare le processioni) e a far isolare i malati. Gli salvò probabilmente la vita ordinando di accendere grandi fuochi all’interno degli appartamenti papali. Se peste era, i fuochi probabilmente tennero lontani topi e pulci, che trasmettono la malattia, anche se all’epoca ancora nessuno poteva saperlo. Se era un qualche virus dell’influenza, servirono a evitare malattie da raffred- 125 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 125 08/10/20 09:49 damento. Non riuscì a salvare la vita della Laura di Petrarca, il che gli attirò l’odio eterno del poeta, esteso a tutti i medici. Il notaio piacentino Gabriel De Mussis è il primo a narrare di come arrivò la peste nera. Sua è la famosa descrizione di come i Tartari, decimati dalla peste che imperversava tra le fila dei propri soldati, prima di levare l’assedio alla colonia genovese di Caffa sul Mar Nero, catapultassero i cadaveri dei propri soldati morti di peste all’interno della fortezza. È uno che avrebbe potuto fare il giornalista. Sa raccontare. È generoso nel dare i particolari. Sembra che lui fosse lì, presente agli avvenimenti, sia fuggito da Caffa su quelle navi che portavano il contagio, sia arrivato in porto con i superstiti… E invece non si mosse mai da Piacenza. La sua è una versione romanzata. E pure improbabile. Anche se gli assedianti avessero voluto praticare la guerra batteriologica, non gli sarebbe servito a nulla catapultare cadaveri. A meno che avessero avuto l’accortezza di catapultare cadaveri freschissimi, o addirittura moribondi ma ancora in vita. La peste bubbonica si trasmette – come si sarebbe scoperto solo a fine Ottocento – dai topi alle pulci, e poi dalle pulci che abbandonano i topi morti, all’uomo. Le pulci hanno bisogno di un ospite vivo, non abitano i cadaveri. Questi li abbandonano non appena la temperatura corporea scende al di sotto dei tredici gradi. E anche nel caso gli fossero rimasti addosso o attaccati ai vestiti, dovrebbero trovare un ratto su cui traslocare. La peste bubbonica non si trasmette direttamente da uomo a uomo. Lo fa solo nella variante polmonare, coi colpi di tosse, via aerosol. Ma i cadaveri non tossiscono. A meno che non si tratti affatto di peste, ma di un’altra diavoleria, tipo tifo, o di un virus. In realtà l’epidemia si era presentata già l’anno prima a Costantinopoli, porto obbligato di passaggio dal Mar Nero al Mediterraneo. Che abbia avuto origine nelle steppe, o dalle parti della Cina, e si sia mossa con i cavalieri tartari è plausibile. Che in Europa sia arrivata via nave, e magari di navi genovesi, con il loro carico di merci, topi, pulci, e compagnia bella è ben possibile. Ma cercare il paziente zero (o l’untore zero se si vuole) della pandemia che a metà 1300 126 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 126 08/10/20 09:49 sterminò due terzi della popolazione europea è assai più difficile che nella Lombardia di inizi 2020. L’Italia prima della classe Se fu infettata Piacenza, e a ruota furono investite altre grandi città in Europa, perché invece furono risparmiate, in quella prima esplosione della peste, negli anni 1348-49, Milano e altre città della Lombardia, a nord del Po? Una possibile risposta è quella suggerita nella Cronica di Matteo Villani, e poi accettata da diversi storici: che i Visconti, già allora “tiranni” di Milano, presero misure aggressive, persino crudeli. Alle prime avvisaglie, l’arcivescovo Giovanni Visconti, fratello di Luchino, designato dallo stesso come Signore Generale alla sua morte, decise che le prime tre case infettate nelle immediate vicinanze della città venissero immediatamente murate con dentro gli ammalati, che vennero lasciati morire al loro interno. Contestualmente impose un lockdown totale della città, bloccando ogni tipo di ingresso se non quello di merci che venivano debitamente controllate. Milano aveva anticipato la linea della fermezza. Altri la imitarono, senza pietà. Per i contravventori c’era la forca. Divenne politica standard in tutta Europa. Ma l’isolamento sociale imposto con tanta durezza non veniva accettato alla leggera, suscitava rabbia, risentimento nei confronti delle autorità, oltre che terrore. Ambroise Paré, il celebre barbiere chirurgo dei re di Francia, nota nel suo Traicté de la peste: de la petite verolle & rougeolle: avec vne brefe description de la lepre (1568): “Questa malattia rende dappertutto l’uomo così miserabile che, non appena viene sospettato, la sua casa (che sino a quel momento era per lui il luogo più libero e sicuro) gli serve da crudele prigione: infatti lo si chiude dentro senza che ne possa uscire, né può alcuno entrare per soccorrerlo”. La prima reazione delle autorità in genere è negare che ci sia la peste, minimizzare, attribuire i decessi a “febbri” non bene specificate. Poi, una volta “pubblicato” che proprio di 127 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 127 08/10/20 09:49 peste si tratta, spesso quando è già troppo tardi, si tende ad applicare quello che uno studioso ha definito “terrore sanitario”. I sospetti ammalati vengono “inchiavardati” dentro le rispettive abitazioni, o dovunque malauguratamente si trovino in quel momento, vengono appostate per strada guardie perché nessuno sfugga. I ricchi e i potenti, gli istruiti, quelli che hanno seconde case e possono comprare le guardie fuggono lo stesso, applicano la massima attribuita a Galeno: Cito, longe fugeas et tarde redeas, fuggi presto e lontano, torna tardi. Portano spesso con sé i propri servitori. Interi quartieri della Londra del Seicento finiscono abitati solo da poveri. Non hanno comunque altra scelta. Mugugnano, protestano, talvolta si ribellano. C’è un’intera branca di letteratura e di pamphlettistica popolare che lamenta “tempi in cui viene considerato un crimine imperdonabile far visita a un amico malato, è colpa l’amore e peccato la carità”, dà voce alla rabbia contro la “crudeltà” del governo. Il quale governo, spesso e volentieri, incolpa della diffusione del contagio i poveri e gli ignoranti che non obbediscono alle regole. Si dà anche, bisogna dirlo, parecchio da fare per assistere chi fa più fatica a campare, e per allestire pesthouses, ricoveri in cui alloggiare chi si è ammalato e chi ha avuto contatti con gli ammalati e quindi si ritiene possa ammalarsi, facendo anche attenzione a tenere separate le due categorie. Ma poi una direttiva riservata, non pubblica, del Privy Council, ovvero del gabinetto di Sua Maestà, in pratica il Consiglio dei ministri, decide che chi non rispetta le regole vada punito col mandarli a stare assieme agli appestati. Altra curiosità, tra i verbali del Privy Council setacciati dalla studiosa di Yale Kira Newman: “nel 1636 erano preoccupati sì della peste, dell’andamento dei contagi e delle misure sanitarie, ma dedicavano un tempo assai maggiore a discutere di altro: dai sussidi all’industria del sapone ai negoziati sul commercio con la Francia”. Succede a Venezia e Padova. Succede a Firenze. Succede in Francia. Succede nella Londra del 1636 poi in quella del 1665. Ma è facile corrompere le guardie e far sì che si voltino dall’altra parte. Qualche guardia viene impiccata per questo. 128 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 128 08/10/20 09:49 I “marcatori” appongono gran croci a vernice bianca in Francia, rossa in Inghilterra, e aggiunta la scritta “Lord, Have Mercy Upon Us, Dio abbia pietà di noi”. Croce anche sulle case dove tutti erano già morti, ma senza iscrizioni. Porte e finestre vengono sigillate con sbarre di ferro. Nel Sud della Francia lo chiamano asper, gli archivi dell’un tempo fiorente città mercato di Agen conservano il contratto di un fabbro che riceveva la somma di 25 lire al mese per “asper” le case in tempo di epidemia. Un altro documento rivela che un certo Gabriel Faure, fabbro di serramenta, mise 6.012 “aspes” nell’agosto 1653. In Bretagna la chiamano serrade. Le prime misure drastiche e impopolari imposte dal Visconti nel 1348 non impedirono comunque che la peste arrivasse anche a Milano un decennio dopo, negli anni 1361-63. È una cosa notata da tutti i cronisti: non basta scamparla nel momento in cui più infuria. Non perdona le disattenzioni. Può tornare, ripassare dai luoghi che aveva risparmiato, quando meno la si aspetta. Nella primavera del 1361 Petrarca si trovava a Milano. Se ne fuggì via. Lasciando in città il figlio, che non voleva seguirlo. Questi morì il 10 luglio 1361, che aveva trentasei anni. La notizia fu comunicata qualche giorno dopo al padre che si trovava a Padova. Il dolore e forse il rimorso Petrarca li ha affidati a una nota manoscritta a margine della sua copia di Virgilio, oggi custodita all’Ambrosiana: “Il nostro Giovanni, nato per il mio tormento e il mio dolore, da vivo mi ha afflitto con gravi e continue preoccupazioni e da morto mi ha colpito con un acuto dolore, lui che ha trascorso pochi giorni lieti in vita sua […]. Morì a Milano nella strage inaudita provocata dalla peste che fino ad ora aveva lasciato quella città indenne da questo male, ma ora l’ha trovata e l’ha invasa”. Altre città italiane presero, chi presto, chi più tardi, misure sanitarie. Che poi furono imitate nel resto dell’Europa. Boccaccio cita, per la peste del 1348, tra i “molti consigli dati a conservazione della sanità”, che “fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati” e che fu “vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo”. Insomma igiene e isolamento da contagi dall’esterno. In effetti dovevano esse129 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 129 08/10/20 09:49 re piuttosto sozze le città italiane di quei tempi. Petrarca in una delle Senili (Libro XIV,1) scrive a Francesco Carrara, signore di Padova, per attirare la sua attenzione su una cosa che lui stesso si rende conto essere “per se stessa veramente ridicola”: maiali che razzolano per le vie, la città “così splendida e gloriosa” ridotta a porcile, imbrattata dagli escrementi, deturpata in modo “ributtante e schifoso”, coi cittadini ormai assuefatti che sopportano con indifferenza la “turpe vista”, mentre “i forestieri ne prendono scandalo e meraviglia”. Non vale che ci siano regolamenti municipali, nessuno più osserva nemmeno le antiche leggi romane, figurarsi i regolamenti municipali. Per cui bisogna assolutamente che chi governa la città ne procuri l’osservanza, di modo che “imparino a loro spese questi porcai cittadini, che chi possiede quegli immondi animali deve pascerli nei campi, e se campi non ne ha, li tenga chiusi dentro casa…”. Mi sembra di sentire mia moglie, quando pesta una cacca di cane per le vie di Roma. Lo sforzo continuava, secolo dopo secolo. Eppure il contagio ritornava. “Essendo la schifezza madre della corruzione, e questa della peste, le strade continuamente si spazzavano per tener la città pulita,” scrive Francesco Rondinelli, nella sua Relazione del contagio stato in Firenze l’anno 1630 e 1633. Come per altre pesti antiche, anche in quella occasione medici e autorità sanitarie non erano sicuri se si trattasse di peste, di tifo, o di qualcos’altro. Arrivarono alla conclusione che si trattava di un mix tra le diverse malattie. C’erano diverse scuole, i “contagionisti”, per i quali bisognava soprattutto impedire che la pestilenza si diffondesse, e gli “ambientalisti”, per i quali la priorità era igienizzare e sanificare. In qualche modo avevano ragione entrambi. Si potrebbe dire che le due scuole di pensiero rispuntarono in modo simile anche quando si scoprirono i batteri, i virus e i meccanismi di diffusione del contagio. A ben vedere questa divisione tra gli esperti torna, ovviamente in forme nuove, anche oggi. Comunque sia, ci si diede da fare per liberarsi dalla “schifezza”. 130 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 130 08/10/20 09:49 Dalli ai poveracci: infastidiscono La “schifezza” includeva i soliti “brutti, sporchi e cattivi”, cioè i poveracci. Durante l’epidemia del 1630 a Firenze le autorità di Sanità attribuivano la colpa del crescente numero di malati alla “mala vita fatta da alcuni poveri mendichi […] che hanno messo la città in bisbiglio”. Per cui “ordinorno a birri che terranno purgata la città de’ poveri”. “Si nettò la Città de i poveri, i quali vanno accattando, col metterli tutti in luogo separato fuor di porta,” riferisce il Rondinelli. Anche questo sa di déjà vu. Così come sembrano scene viste ieri, o lette su un giornale o un blog della Padania, quelle narrate dal cancelliere e titolare dell’ufficio di Sanità di Bergamo, l’anno prima che arrivasse la peste, ma che c’era stata una tremenda carestia per cui torme di questuanti provenienti dalle valli (non stranieri né migranti) si riversarono in città: “Indicibile era la mestizia e inesplicabile la molestia che l’importunità di costoro recava: i negotî venivano interrotti, le devozioni traviate e disturbati i domestici riposi. Le strade, le logge, i fori, i tempî ed ogni pubblico loco era da sozzi questuanti occupato: nulla valeva lo star rinchiuso in casa per lo sfuggimento di cotanta importunità, poiché a tutte l’hore di giorno ed anco di notte, entro i più secreti gabinetti penetravano querele, voci e s’udiva in ogni parte un continuo picchiar di porte; dar un passo non si poteva né dappresso né da lontano entro il recinto della fortezza che di subito non si urtasse in qualche torma di questi importuni che, importunamente, senza alcun minimo riguardo, assalivano chi loro veniva avanti addimandando elemosina”. (L. Ghirardelli, Il memorando contagio seguito in Bergamo l’anno 1630. Historia scritta d’ordine pubblico, in Bergamo 1681, per i fratelli Rossi. L’autore, cancelliere della città e dell’ufficio di Sanità, non riuscì a vedere pubblicata in vita quest’opera che è la più vasta tra quelle relative allo Stato veneto). 131 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 131 08/10/20 09:49 I primi commissari straordinari A Venezia, importante porto mercantile, quindi particolarmente esposta al contagio che arriva via mare dall’oriente, la peste arriva nell’autunno del 1347, quindi prima ancora che a Firenze. La morìa è spaventosa, periscono non solo i poveracci che si erano ammassati in città provenienti dall’entroterra devastato quell’anno dai terremoti e dalla carestia, ma anche i nobili. Dei 1250 patrizi che compongono il Maggior Consiglio, ne sopravvivono solo duecentonovantuno, e cinquanta famiglie addirittura si estinguono. Si corre ai ripari. La medicina è impotente. Già il 30 marzo 1348 il Maggior Consiglio istituisce una nuova magistratura plenipotenziaria per il tempo di pandemia, composta da tre “sapientes” che hanno il compito di mettere in opera tutte le misure che ritengano necessarie per la tutela della salute pubblica (diligenter super omni modo et via quod videretur eis pro conservatione salutis). Sono i primi commissari speciali. Chiudono le locande, sospendono le processioni, rimpiazzano i funzionari deceduti, liberano i prigionieri perché vengano utilizzati a portar via i cadaveri insepolti. Non sono medici, sono burocrati. Il Senato decide una serie di provvedimenti per la ripresa: liberare i prigionieri per debiti, abolire certe tasse sull’iscrizione alle corporazioni, bandire le manifestazioni di lutto, considerate inopportune in quanto deprimono il morale e incoraggiano l’inattività e, per ripristinare i ranghi lasciati vuoti nella manodopera e nell’amministrazione, decide pure di incoraggiare l’immigrazione, e facilitare l’accesso alla cittadinanza veneziana. Un secolo dopo, nel 1440, con l’epidemia che va e viene in continuazione, viene istituita un’altra commissione, sempre di tre saggi, incaricata di prendere anche provvedimenti specificamente sanitari, individuare ciò che corrompe l’aria a Venezia (omnia quae habent corrumpere aeres) e di affidarsi all’esperienza dei medici dell’Università di Padova (illos medicos qui intelligentes eis videantur). Nel 1459 la troika diventa permanente, ma dipende finanziariamente dal Magistrato del Sale e, quanto al computo dei decessi, spetta ai 132 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 132 08/10/20 09:49 Signori della Notte, una magistratura di polizia notturna che si occupa anche delle prostitute. Il contagio continua, a intermittenza. Finché vengono istituiti dei nuovi plenipotenziari, i Provveditori alla Sanità. “Niuno è il qual non intendi quanti incomodi jacture et danni habi sostenuto questa nostra cità, si per privato come per publico rispeto per la peste, la qual nella passata estate così crudelmente in quella regnò et al presente regnar non cessa”, questa la motivazione del provvedimento. Sono sempre tre. Senza stipendio, come tutte le magistrature veneziane, appannaggio dei nobili, “ricchi di famiglia” che non dovrebbero lasciarsi corrompere. Che cuccagna! Nel 1423 era stato istituito il primo Lazzaretto. Così chiamato non si sa se perché sull’isolotto che ospitava il convento di Santa Maria di Nazareth (a Nazarethum), o perché ci finivano i poveri lazaros, in spagnolo (da cui anche lazzarone, in napoletano). Di come si stava nei Lazzaretti abbiamo testimonianze discordanti. Ad esempio, Francesco Sansovino, figlio dell’architetto, il quale ringrazia e dipinge un quadro quasi idilliaco della quarantena al Lazzaretto nuovo: ai nuovi arrivati gli si diceva che stessero allegri, che si mangiava gratis e non si doveva lavorare, come al paese di Cuccagna; ma era ben in vista anche una forca, a monito di coloro che avessero l’idea di svignarsela, violando l’isolamento forzoso: […] Fu fatto l’anno 1468, un altro Lazzareto chiamato nuovo, per esser posteriore in fabbrica al vecchio, con 100 camere […] ma vi vanno solamente i sani essendosi mescolati con gli infermi, dubitando di qualche contagio, si ritirano a quello luogo & vi fanno contumacia di 22 giorni. La qualcosa havendo io conosciuta per prova con mio gravissimo danno per la morte di Aurora mia figlioletta di 11 anni, et per lo disturbo di Benedetta Misocca mia consorte, allora che fu la peste, l’anno 1576, mi piace di raccontar […], qual sia la singolar carità dei nostri padri e signori verso il popolo […]. Erano adunque da 8 in 10 mila persone in 3 mila o più barche. A tutti quelli per la maggior parte poveri (perciocché vi erano ancora diversi Nobili & cittadini, che vivevano a spese proprie) & spogliati dei loro 133 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 133 08/10/20 09:49 beni infetti, lasciati A Venezia, si dava la spesa del pubblico per 22 giorni […]. Il numero di tanti legni così piccioli come […] avea sembianza d’armata che assediava la città di mare. Si vedeva in alto una bandiera, oltre alla quale non era lecito di passare, & poco presso era la forca, per castigo di coloro che non avessero obbedito a comandamenti […]. La mattina a hora competente comparivano i visitatori, i quali andando a barca per barca, intendevano se vi era alcuno ammalato: & trovandogli mandavano al Lazzaretto Vecchio. Non molto dopo apparivano altri barchi di pane, di carne cotta, di pesce & di vino [… e ai nuovi arrivati gli dicevano] che stessero di buon animo, perché non vi si lavorava ed erano nel paese di Cucagna […]. Francesco Sansovino, Venetia, città nobilissima, et singolare, 1663. Il notaio veneziano Rocco Benedetti, testimone della stessa peste del 1576, dice invece del Lazzaretto dove venivano inviati gli appestati accertati che “Rassembrava ad un inferno”: “Si vedevano da tutte le hore, nuvoli di fumo stendersi in aere per l’abrusciar de corpi. Ne stavan tre o quattro per letto. Non facevasi altro che levar morti dai letti e gettarli nelle fosse che di quei che si trovavano in agonia o a star intronati senza parlar né muoversi veniano come spediti da pizigamorti [becchini], levati e slanciati sopra il monte dei cadaveri”. (Novi avisi di Venetia, ne’ quali si contengono tutti i casi miserabili, ecc. ,1577)”. Analoga l’immagine da girone infernale riferita da un altro cronista contemporaneo, il veronese Alessandro Canobbio per Padova: “Dillo smorbare, & dal bruciare de mobili infetti si vedeva per tutta la Città una caligine di fumo molto spiacevole, & una puzza insopportabile, la quale continuò per più di quattro mesi; & a punto non vi mancava altro per fare complete le miserie; poscia che da i pianti, & da sospiri, & dal vedere gettare i morti a guisa di bestie sopra i carri, & dal vedere quei Smorbatori tutti neri con fiaccole accese in mano, le quali perché ardessero ben spesso erano coperte di pece, si che questa infelice Città più rassembrava luogo de dannati & luogo di pene in altra vita, che a Città di questo mondo”. II successo della peste occorsa in Padova nell’anno MDLXXVI. Sempre al Canobbio piange il cuore a vedere abbruciare tanto ben di dio, ma la pena per chi raccoglie o distribuisce la roba infetta è la morte: “E ben vero che di principio del male si ritrovavano di bellissimi mobili per la strada, che tutti furono giudicati infetti, & per ciò che per la maggior parte si abbrucciarono & fu fatta legge con pena capitale à chi ciò andasse seminando & altre pure à chi trovate le pigliasse. 134 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 134 08/10/20 09:49 Distanza 2 braccia e lavarsi spesso le mani Venezia, prima a istituire la quarantena e il distanziamento, è anche la prima a imporre regole e punizioni severissime ai trasgressori. Le leggi di Sanità della Repubblica di Venezia elencate nella monumentale raccolta in più volumi da Nelli-Elena Vanzan Marchini vietano, pena la morte, di uscire dalle case infette e messe in quarantena: “Vietato a chiunque l’uscir dalle case infette quali sono chiuse et interdette, posse essere ammazzato impunemente” (1511). Ma concedono che alle persone ivi rinchiuse si possa parlare, purché si rispetti un distanziamento di almeno due braccia, grosso modo quello consigliato per il Covid: “Proibito l’approssimarsi alle case serrate, permesso il parlare con le persone in esse rinchiuse, ma nella distanza di due braccia; fuggitivi dalle stesse siano banditi, retenuti in contraffazion di bando, siano impiccati” (1528). Espulsione forzata, sotto pena di morte, anche per i mercanti di panni giunti dalla vicina Padova, benché sia territorio della Serenissima: “Padovani esercenti lanificio et arrivati in questa città già un mese, partano tosto in pena di forca […]” (1528). La prescritta distanza di sicurezza di due braccia è canonica. Torna ad esempio in Marsilio Ficino, il quale distingue tra distanza necessaria in luogo aperto, 2 braccia, e maggiore distanza necessaria in altre circostanze, “quando è di sospetto”, o quando, anche all’aperto, soffi vento contrario: “[…] quando conversi, stia discosto dal compagno due braccia al meno, & al luogo aperto, & quando è di sospetto stia etiam più lungi almeno sei braccia, & allo scoperto, & fa che il vento non venga da lui inverso a te”. (Marsilio Ficino), Contro la peste, 1576. Non abbiamo proprio inventato nulla. Quanto alla mascherina, allora non era obbligatoria, ma caldamente consigliata. In una tavola del Fasciculo de Medicina attribuito a Johannes de Ketham (Venezia 1493) si vede un medico che visita un ammalato, presumibilmente appestato, tastandogli con la destra il polso e schiacciandosi con la sinistra sul proprio naso una spugna imbevuta di aceto, 135 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 135 08/10/20 09:49 mentre un fante regge con una mano un cero acceso contro i cattivi odori, e con l’altra un turibolo di profumi odorosi. La concezione dominante era che il contagio provenisse dai miasmi, dall’aria infetta, e che gli appestati divenivano una specie di serbatoio di effluvi velenosi esalati con la traspirazione e la respirazione. Da cui la necessità di turarsi il naso. L’aceto era un preservativo che andava a ruba, manco fosse amuchina o gel disinfettante. I negozi esponevano ciotole piene di aceto in cui depositare i soldi, e magari immergere le dita. Giovanni Dondi dell’Orologio, uno dei pochi medici di cui il Petrarca si dice “amico”, nel manoscritto nel codice di fine 1400 Modus vivendi tempore pestilentiali, raccomanda di lavarsi spesso mani, polsi e tempie con aceto, oltre che di aggiungerlo a ogni piatto. Il siciliano Ingrassia, nel 1576, raccomanda di lavarsi “tutti bene, con acqua calda, over liscia, nella quale siano state cotte viole, rosmarino, lauro, cipresso, foglie, & scorse di cedri, o almen di narancio, o di limoni, maggiorana, mortella, basilico, scorse di pomi, o tutte queste cose, o la maggior parte, aggiungendovi ancor vino & aceto”. C’è una globalizzazione dei consigli e dei rimedi da un capo all’altro d’Europa. “Ciascuno deve fare attenzione a non frequentare luoghi o persone infette, né consentire che questi gli respirino addosso […],” raccomanda Thomas Lodge, medico e scrittore di drammi contemporaneo di Shakespeare, nel suo popolarissimo Treatise of the Plague pubblicato a Londra nel 1603. Ma dichiaratamente i consigli sono copiati di sana pianta da un trattato del medico francese François Vallériole, che a sua volta è una compilazione di testi spagnoli e italiani. Oltre alla solita profumeria (“profumare giorno e notte casa e stanze con fumi di rosmarino, ginepro, rose secche, lavanda e simili”), Lodge raccomanda in modo particolare di “lavarsi le mani, la fronte e le narici”, ovviamente con acqua profumata. E invita tutti a non prendere sottogamba le norme decise dalle autorità cittadine: “Le regole e la diligente osservanza di esse sono necessarie oltre che profittevoli, perché la malattia, la peste e il contagio sono la rovina delle città che invadono”. 136 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 136 08/10/20 09:49 La misura di prevenzione principale (e più semplice) restava comunque il distanziamento. Nel Ragionamento sopra le infermità che vengono dall’aere pestilenziale del presente anno MDLV (Venezia 1555) Niccolò Massa consiglia di segnalare i sospetti appestati con fazzoletti bianchi al collo, in modo da non essere avvicinati dai sani. Perché no, già segnalavano gli ebrei con un contrassegno giallo. Ma non sappiamo se il consiglio abbia mai funzionato, così come non sappiamo che efficacia abbia avuto l’App Sicuri, di cui non si è più sentito quasi più parlare. Comunque non era scaricabile su metà dei telefonini in uso, quelli con sistemi operativi un pochino più vecchi. Le minacce di pene ai trasgressori non erano retoriche e solo iperboliche come quelle del governatore della Campania ai giorni nostri. La Repubblica aveva un armamentario straordinario di strumenti di tortura e di esecuzioni capitali. Che veniva anche usato e non si limitava a fungere da deterrente. Lo documenta efficacemente la mostra «Venice Secrets. Crime & Justice», su cinque piani e trentasei sale di Palazzo Zaguri, in campo San Maurizio, inaugurata giusto alla vigilia del lockdown per Covid. La violazione degli ordini di restare tappati in casa e di rispettare il distanziamento si accompagnò alla repressione degli “untori”, accusati di spandere deliberatamente il contagio. La peste non se ne andava, dava qualche tempo di tregua, poi tornava, in ondate successive, distanziate anche decenni. La ferocia pubblica nel reprimere le trasgressioni, vere o immaginate che fossero, suscitava risentimenti, ma godeva probabilmente di un forte sostegno popolare, specie quando si rivelava di qualche efficacia. Il paziente zero non veniva dall’Oriente C’è chi ritiene di aver individuato i pazienti zero della peste che fece cinquantamila morti, su una popolazione di centottantamila, nella Venezia del 1575 e anni successivi. Hanno nome e cognome. Lui si chiamava Matteo Farcinatore, lei 137 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 137 08/10/20 09:49 Lucia Cadorina. Erano due valligiani, provenienti da un paesino vicino a Trento. Erano venuti, assieme al figlio, a trovare il signor Vincenzo Franceschi, che abitava nei pressi di Campo San Marziale. Qui lui si ammalò, infettò la propria famiglia, poi contagiò la famiglia che li ospitava. Di lì la peste si propagò per tutta Venezia. Come avevano fatto a beccarsi la peste in un paesino di montagna? Probabilmente a una fiera. Alessandro Canobbio ritiene probabile che il focolaio originario della peste che colpì Venezia, e poi, secondo lui, da Venezia passò a Padova, si fosse sviluppato nella fiera annuale che si teneva a giugno a Trento, e che probabilmente fu frequentata dai due valligiani che portarono l’infezione nella città lagunare. Era tradizione tenere ogni anno quattro grandi fiere, che duravano tra gli otto e i dieci giorni: quella di San Giovanni Battista, che si teneva appunto a giugno, poi quella di San Matteo, a settembre, di San Gallo in ottobre e di San Vigilio in novembre. Se poi la peste fosse già presente in focolai dormienti alimentati da roditori selvatici locali, come si può ipotizzare per molte epidemie che colpirono o passarono, se non addirittura originarono da vallate alpine, oppure fosse stata portata per le vie commerciali provenienti da Est (da Costantinopoli o dai Balcani), oppure da Nord (dalla Germania), non si può sapere. Così come non si è mai riusciti ad appurare se il paziente zero del contagio che ha decimato Alzano Lombardo, la Val Seriana e la Bergamasca, fosse qualcuno che era stato in Cina, o avesse avuto contatti con persone provenienti dalla Cina, oppure il virus sia invece arrivato dalla Germania. L’unica cosa sicura è che gli affollamenti, quali si verificano ad esempio a una fiera, in cui per giorni e giorni affluiscono mercanti, artigiani, facchini, osti, clienti, curiosi, che si stringono addosso gli uni agli altri, si scambiano strette di mano e denaro contante, mangiano a contatto di gomito, e magari sputano dove mangeranno altri, sono il modo migliore per diffondere il contagio. Scoppiata la peste, il Senato veneziano aveva proibito la successiva grande fiera annuale d’agosto a Bergamo, punto di incontro di mercanti veneti, lombardi, svizzeri e tedeschi. 138 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 138 08/10/20 09:49 Ma deputati e anziani della città convinsero i rettori a far annullare il decreto governativo: il denaro maneggiato negli affari – dicevano nella supplica – era di oltre un milione in oro e i suoi benefici si spandevano ovunque. Il decreto avrebbe rovinato gli imprenditori e i commercianti locali “le quali tutte si fabbricano nelle montagne e valli di questo territorio, che si sostentano appunto con la loro industria”. Vi ricorda le argomentazioni di qualche pressione più recente per non far chiudere le industrie nella Bergamasca, o gli stabilimenti della movida danzante? Fu forse una ragione di Stato diplomatica a causare la successiva Gran peste a Venezia del 1630. Le rigide, ormai ben collaudate regole di prevenzione vennero violate per il marchese De Strigis, ambasciatore del Ducato di Mantova, che non voleva stare al Lazzaretto e ottenne invece di essere confinato in quarantena nell’isola di San Clemente. Il falegname che andò a sistemare i suoi alloggiamenti portò la peste a Venezia, causando la morte di un abitante su quattro. Così racconta Nelli-Elena Vanzan Marchini, grande esperta degli archivi veneziani, nonché eccellente affabulatrice. Da allora in poi le autorità veneziane (cui poi subentrarono quelle austriache) furono inflessibili. Il cordone sanitario attorno alla città lagunare fu rafforzato. Gli accesi da terra e da mare erano un numero limitato e facilmente sorvegliabili. Venivano presidiati da ufficiali di sanità che avevano ai loro comandi guardie armate e anche i capitani di tutte le altre magistrature, che pattugliavano per riscuotere i dazi, controllare eventuali andirivieni di banditi e fuorusciti, contrastare il contrabbando. Avvistata una nave, le veniva inviata una scialuppa armata per prelevare il capitano e condurlo all’Ufficio di Sanità, presso la Zecca, dove, in un’apposita stanza, veniva interrogato a debita distanza dal segretario affacciato a una finestrella. Venivano esaminati i libri di carico delle merci e le Fedi di Sanità di tutti i viaggiatori. Il capitano poteva mentire e falsificare i documenti. Ma a suo rischio perché notoriamente la Serenissima possedeva in tutti i porti del Mediterraneo la più formidabile rete di spionaggio che ci sia mai stata. 139 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 139 08/10/20 09:49 In caso di problemi equipaggi, merci e passeggeri venivano inviati per la “quarantena” al Lazzaretto. L’espurgo delle navi e del loro contenuto era un business importante, ma regolamentato da norme severe. Le merci venivano espurgate da bastazzi, cioè da facchini esperti nel trattamento delle mercanzie, che venivano estratti a sorte. Ad esempio, i tappeti venivano stesi e coperti di sabbia, le balle di lana e cotone aperte ed esposte al sole, le cere immerse in acqua salata, gli animali pennuti e lanuti trattati con acqua e aceto, le lettere fumigate. I priori, cioè i direttori responsabili dei diversi settori di contumacia, non potevano avere rapporti di parentela con altri dipendenti del Magistrato di Sanità, né alcun interesse in attività mercantili o commerciali, avevano l’obbligo di risiedere nel Lazzaretto, erano stipendiati annualmente, e all’inizio del loro mandato dovevano addirittura versare una caparra di 1000 ducati a garanzia della propria onestà. Va da sé che, malgrado regole e precauzioni, c’era tra i guardiani chi chiudeva un occhio in cambio di danaro. Nel 1719 ad esempio furono condannati al bando perpetuo, alla confisca dei beni e all’esecuzione capitale tre guardiani di Sanità che sottraevano balle di tabacco per rivenderle. Se la cavarono con la fuga. Il 21 marzo 1751 fu invece pubblicamente giustiziato il marangon (falegname, marangoz in turco) Francesco Lorenzoni. Incaricato di eseguire lavori di restauro, aveva cercato di sottrarre quaranta masse di seta provenienti da Costantinopoli. Pesci piccoli. La cosa strana è che non risultano processi a carico di personalità e alti funzionari. Comunque questo avveniva dopo il caso di Marsiglia, dove nel 1720 erano state le ragioni del commercio, e ancora una volta una grande fiera, quella di Beaucaire, in Provenza, e la fregola di mandarvi merci che erano state sbarcate clandestinamente in barba alle misure sanitarie e di quarantena, a produrre l’ultima grande epidemia assassina di peste in Europa. A metà del Cinquecento tutte le principali città del Nord Italia avevano le loro Magistrature della Sanità pubblica. “Sulla scorta dell’esempio italiano, si ebbero sviluppi analo140 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 140 08/10/20 09:49 ghi a nord delle Alpi, ma fuori d’Italia le organizzazioni sanitarie rimasero a un livello più primitivo per tutto il Cinquecento e il Seicento. All’interno della stessa penisola italiana, a sud di Firenze gli sviluppi furono tardivi e le organizzazioni per la sanità rimasero relativamente rudimentali,” riassume Carlo M. Cipolla, che ha studiato l’argomento documentandosi minuziosamente negli Archivi ed esponendo i risultati della sua ricerca con piglio da grande scrittore, direi anzi romanziere. Cita ad esempio l’ambasciatore fiorentino il quale riferiva nel 1628 che a Roma “tali ufficiali [i magistrati della Sanità] non vi sono e che li Conservatori di Roma, ch’è il magistrato della città, soglion deputare questi uficiali sopra la sanità in tempo solamente di sospetto di contagio”. Ci sono molte ragioni per cui l’Italia è ancora sostanzialmente divisa in due, tra Nord e Sud. Che il diverso atteggiamento sulla Sanità (e la prevenzione delle epidemie) sia una di queste? O dobbiamo compiacerci che l’esperienza del Covid abbia mostrato una sorta di accorciamento delle distanze, nel senso che l’incuria, l’insipienza, il prevalere delle pressioni economiche, dell’ansia di non far perdere guadagni hanno pesato più della preoccupazione per la salute e la vita della gente? Altre cose, come il rimpallarsi delle responsabilità da Regione a Regione, da autorità centrale ad autorità locale e viceversa, non paiono essere cambiate. Un capitolo molto documentato e divertente de Il pestifero e contagioso morbo di Carlo M. Cipolla è dedicato alle defatiganti discussioni che si svolsero nel 1652 tra l’ambasciatore inviato dalla Magistratura suprema della Sanità del Granducato di Toscana, con sede a Firenze e la Città di Genova, su quali delle due potenze dovesse per prima levare il bando alle merci provenienti dall’altra o dai rispettivi domini in Sardegna e in Corsica. Erano sul punto di farsi la guerra, poi raggiunsero un accordo. Ma non riuscirono a convincere Napoli spagnola e Roma del papa a concertare anche loro le misure preventive. Più poteva la concorrenza commerciale. “Bando e sospensione erano termini tecnici usati comunemente per indicare l›interruzione del commercio delle comunicazioni regolari. Né persone, né imbarcazioni, né mer141 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 141 08/10/20 09:49 canzie, né lettere provenienti da un’area bandita o sospesa potevano entrare nel territorio dello Stato che aveva pronunciato il bando, tranne che in alcuni porti o varchi di ingresso ben specificati, dove erano state istituite delle stazioni di quarantena. Presso tali stazioni persone, imbarcazioni e mercanzie in arrivo erano sottoposte alla quarantena nella disinfezione, anche quando recassero certificazioni sanitarie rilasciate dai luoghi di partenza. Nei casi di pericolo eccezionale le autorità si riservavano il diritto di rifiutare di ammettere persone, imbarcazioni e mercanzie persino alle stazioni di quarantena. Coloro che violavano il bando o la sospensione, che stessero tentando di entrare surrettiziamente nel territorio che aveva pronunciato il bando, o di introdurvi surrettiziamente delle merci, venivano considerati ‘banditi’ ed erano soggetti per questo alla pena capitale,»”, spiega Carlo. M. Cipolla ne Il pestifero e contagioso morbo. La prima quarantena fu messa in atto sull’Adriatico, a Ragusa, nel 1377. Seguì Venezia, che, come d’abitudine, volle accaparrarsi il primato dell’invenzione. Le merci erano anch’esse sballate e sottoposte alla purificazione all’aria e al sole. Ma non appena si ha a che fare con un provvedimento che non garba si trova il modo di aggirarlo. Le Bollette di sanità, l’equivalente antico delle “autocertificazioni” di fresca memoria, venivano spesso e volentieri falsificate. Talvolta a fin di bene. Ne Chi ruppe i rastelli (attenzione: rastelli, no rastrelli) a Monte Lupo Cipolla racconta come padre Antonio Dragoni, il prete locale che faceva funzioni di commissario alla Sanità, pur essendo ligissimo alle leggi, avesse chiesto e ottenuto sbirri per far applicare le disposizioni, supplicasse le autorità superiori di essere un pochino più elastici sui lasciapassare perché la povertà del luogo era giunta a un limite insopportabile. Tra gli argomenti, la constatazione che se non gli si dà tregua se la prenderanno comunque: “A ogni modo entrano [in Firenze] una gran parte con bullette false procacciate da questi preti del contorno che hanno l’autorità di farle”. E avanti tira e molla. Finché successe il “pasticcio” grosso della processione non autorizzata, della forzatura dei 142 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 142 08/10/20 09:49 sigilli e della resistenza ai pubblici ufficiali che volevano far rispettare il divieto di assembramento. “Le guardie [prese a male parole dalla folla] fecero finta di non sentire e non vedere. Loro compito era quello di ‘non lasciare entrare in chiesa donne e ragazzi che non havevano voluto obbedire al bando’. Non si riusciva a tenerli in casa: che almen non si pigiassero nella chiesa. Il prete però s’andava via via più riscaldando e visto che le guardie non si partivano a un certo punto […testimonierà l’ufficiale] Li dissi che ero mandato dalli Ministri della Sanità per levare il concorso di donne e ragazzi. Allora rispose il reverendo suddetto che ci levassimo di quivi e lasciassimo andare ogni persona; che il suo popolo ce lo voleva tutto e che non voleva mandar via persona e se non ci partivamo che ci harebbono fatto partire con l’archibusate.” “‘Che il suo popolo ce lo voleva tutto’. I demagoghi, quando vogliono fare i loro comodi [e come vedremo in seguito, sulla base di una lettera del commissario Sacchetti, don Antonio voleva fare il suo comodo] – i demagoghi, dico, quando vogliono fare i loro comodi tirano sempre in ballo il popolo, strumentalizzandolo, come s’usa dire oggi.” Oro, fuoco, forca “Ignis, furca, aurum sunt medicina mali”, fuoco, forca, oro, sono i rimedi alla pandemia, scriveva il medico siciliano Giovanni Filippo Ingrassia, nel riassumere il modo in cui fu affrontata la peste del 1575-1576 a Palermo. Il fuoco sono le misure igieniche e sanitarie, la forca è la determinazione a farle prendere sul serio e rispettare, l’oro sono le risorse finanziarie, senza le quali non si riuscirebbe a fare nulla, nemmeno le prime due cose. Un secolo dopo il medico napoletano Geronimo Gatta precisa: “Tocca servirsi del fuoco primo, senza mirar a interesse di questo e di quell’altro mercante che sogliono col loro tragitto di merci da contaggiati luoghi entrodur il contaggio […] e dar quelle alle fiamme non ostante di valute e pretiose […]. Dell’oro deve servirsi chi 143 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 143 08/10/20 09:49 governa, con stipendio di spie e guardie acciò con il maggior rigore e fedeltà possibile si proceda in casi di sospetto […]. Servitosi chi governa dei due primi instromenti fuoco e oro, dee anco ricorrere al terzo, cioè alle forche e con supplicii di morte castigar transgressori, occulti nemici de’ popoli e de’ medesimi principi” (Di una gravissima peste che nella passata Primavera, e Estate dell’anno 1656 depopulò la città di Napoli […], 1659). Le misure adottate dalle città italiane contro il contagio non erano solo un modello per il resto dell’Europa. Erano anche, a giudizio di molti storici, un primo abbozzo di Sanità pubblica. Con in embrione tutti i pregi e i difetti. L’amministrazione e la contabilità degli enti ospedalieri passò progressivamente alle autorità cittadine, anche se carità e assistenza restavano affidate soprattutto alleopere religiose e di categoria. Un corollario era che i medici, dipendenti dalle autorità politiche, tendevano ad assecondare il potere, a seguire piuttosto che a sollecitare. A sud di Firenze rimasero in genere più arretrati che nel Nord Italia. Con qualche eccezione però. Ad esempio il modo in cui fu gestita l’emergenza peste a Palermo nel 1576. A volte la differenza la fanno anche gli uomini. L’uomo che godeva della fiducia del Luogotenente del Regno, anche perché era il suo medico di famiglia, si chiamava Giovanni Filippo Ingrassia, aveva studiato a Padova. Anche se di fronte ai primi casi fece come fan tutti, negò che si trattasse di “vera peste”, poi si corresse, adottando misure drastiche. Non si fece distrarre né dalle teorie per cui dipendeva dalle congiunzioni, “influenze” astrali, né dalla teorica dei “miasmi”, né dai suggerimenti che si trattasse di “peste manufatta”, di mano umano o demoniaca. Andò subito al dunque. Concluse che la peste era arrivata a bordo di una galeotta infetta proveniente dalla Barberia, e si era diffusa con il suo cargo. Ordinò di bruciare le merci e quant’altro avesse avuto contatto con gli appestati. Minacciò e comminò pene severissime per i contravventori. L’aiutava certo l’esperienza acquisita come membro dell’Inquisizione. Il libro in cui raccoglie le sue esperienze, la Informatione del pestifero 144 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 144 08/10/20 09:49 et contagioso morbo, divenne il testo di riferimento per la gestione delle pandemie in tutta Europa. Ignis, furca, aurum: il fuoco serviva a purificare e disinfettare, la forca a far rispettare le misure di quarantena e di prevenzione, per quanto impopolari, l’oro a coprire le spese a carico dell’erario pubblico. Ma le spese, che sono coperte dalle tasse, vanno giustificate, pena il sospetto che vadano in tasca ai soliti profittatori e il rischio che ingenerino una protesta e una reazione ancora più violenta delle misure di prevenzione. Un documento veneziano, ritrovato da Nelli-Elena Vanzan Marchini, e riportato nel suo delizioso La follia, una nave, una città. Storia di pazzi e pazzie a Venezia nel ‹700 (Brenctani Editrice 1981) riassume efficacemente il problema. Potrebbe essere intitolato: “Statuto dell›infermo”. (È datato Venezia 1º settembre 1797: “Il governo deve garantire la vita, la proprietà, il lavoro a chi non ha proprietà, la sussistenza a chi non ha né proprietà, né è capace al lavoro. Se manca la prima garanzia il governo è tirannico, se la seconda è ingiusto, se la terza è improvvido, se la quarta è inumano […]. L›invalido deve essere assicurato della sua sussistenza dalla Patria. Questa è la condizione con cui gli uomini sono uniti in società. La patria che li soccorre paga un debito. I soli tiranni ammettevano il nome di ‘soccorso’ il titolo di ‘carità’ […]. [Per rendere realizzabile un equo soccorso a tutti i cittadini si stabilisce di creare:] un dipartimento per gli infermi di ogni genere di malattia, come siano raccolte le partorienti, gli infanti per l›inoculazione del vaiuolo, gli affetti dal celtico, i malconci da croniche affezioni, i febbricitanti, i feriti, gli invalidi, i pazzi […]. Allora non proveremo più il dolore di vedere i nostri cittadini infermi abbandonati sulle strade, mentre i ministri degli ospitali vivono in un lusso voluttuoso. Certi che qualora cominceremo a realizzare alcune di queste opere avremo le benedizioni dei nostri cittadini; che non si potrà più allarmare il popolo sopra i cambiamenti che 145 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 145 08/10/20 09:49 dovremmo fare nelle scuole, nelle fraterne, nelle commissari e, negli altri luoghi, allorché si vedrà che ogni cambiamento, ogni risparmio, viene convertito a benefizio dei poveri […]. Archivio di Stato di Venezia, Miscellanea legislativa, 17221797 Come farla finita con la movida Uno degli aspetti più difficili del distanziamento, in ogni tempo e luogo, è il rapporto tra uomini e donne. Il Dondi, per esempio, consigliava caldamente di evitare gli “abraciamenti di femine”. I trattati medici sostenevano, chissà perché, che le donne erano maggiormente predisposte a contrarre il male, e a trasmetterlo. Ce l’avevano in particolare con le meretrici, non solo per ragioni di ordine sanitario, ma per ragioni di ordine morale. Il “coito” perturberebbe “gli umori” e quindi sarebbe tra le cause della malattia. Alcuni, come il Savonarola medico ferrarese (zio del più celebre castigacostumi fiorentino), usavano questa teoria come spauracchio per i ricchi: “Aprite le orecchie, voy nobili […]: i nobili in tal tempo per lo esercitio grande nel paysare, cazare et cetera morti sono”. Altri, al contrario, sostenevano che sarebbero stati i poveri i più predisposti a contrarre il male, perché immoderati negli atti sessuali, il che li rendeva “pieni di mali umori”. Il Mercuriale, l’autorevolissimo docente di medicina pratica nello Studio di Padova che nel 1576, alla vigilia della peste a Venezia, consultato dal governo della Serenissima, aveva commesso l’errore madornale di sostenere che “non era peste”, insisteva nel 1577, migliaia di vittime dopo, sulla necessità di espellere dalla città le meretrici. La professione più antica del mondo era nel Cinquecento, accanto ai commerci, una delle risorse economiche più importanti, molto più di quanto lo siano oggi il turismo o le discoteche. Il padovano Canobbio ha una curiosa accusa riguardo questa terribile pestilenza del 1576: che la peste sarebbe arrivata a Padova 146 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 146 08/10/20 09:49 perché avevano chiuso le porte a nobili e mercanti provenienti dall’esterno, ma non alle “meretrici”. A Firenze nel 1630 il lockdown è totale. Non solo non si entra e non si esce dalla città, non solo si chiudono le case dei sospetti appestati, ma diventa proibito frequentare i vicini, e anche solo parlarsi alla finestra. Una prostituta, Lucrezia di Francesco Bianchi, viene arrestata non perché sta esercitando il suo mestiere in contravvenzione alle ordinanze sanitarie, ma perché è andata a chiacchierare con un’amica, la moglie del mugnaio, che abita nella “casa dirimpetto”. La sua giustificazione dinanzi al giudice: “Non volevo stare sola in casa”. La solitudine fa più paura del contagio, più paura delle possibili punizioni. Il cancelliere annota pure che le due donne avevano concordato di vedersi dopo essersi parlate dalle rispettive finestre. Tale Antonio di Francesco Traballesi viene arrestato e trascinato dinanzi al giudice. Gli dice: “Mercoledì passato andavo verso la porta della Croce, quando fui vicino alla Porta, una donna chiamata Monna Maria vedova, che era serrata in casa dalla Sanità, da una finestra mi domandò come stavo. Io le dissi che stavo bene, e mentre ragionavo così vennero i birri e mi menava a prigione”. Poi aggiunge un dettaglio che risulterà decisivo per l’assoluzione: “La finestra era a [piano] terreno, ma io li stavo […] dall’altro parte della strada”. Se no rischiava, minimo, “la fune”, ovvero la lussazione dei giunti. Proibito giocare, a qualsiasi gioco, al pallone o a carte, proibite le riunioni conviviali, chiusi ovviamente i locali e i teatri. Proibito farlo per strada, ma proibito anche farlo in casa. Le pene vengono inasprite quando la Sanità nota che “nonostante si sia fatto prohibizione [che] non si faccino radunate di giuochi, si sente che per la città in molte botteghe di barbieri, et in altri luoghi, concorrono molte persone a giuochare a diverse sorte di giuochi”. Il divieto vale anche per le case private. In una casa alla Porta della Croce vengono arrestati Francesco di Michelagnolo, detto “Diavolini”, Francesco di Ceseri Fantasti e Ugolino Bastiano il Rosso “quali tutti sono stati trovati in fragranti crimine a giocare alle pallottole”. Le autorità sanitarie sono giustamente preoccupate delle conseguenze di 147 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 147 08/10/20 09:49 assembramenti. Allora non potevano sapere che la peste si propaga tramite le pulci, e che stare in casa era altrettanto, anzi più pericoloso che andar per strada. Proibitissima comunque la danza. Due adolescenti, Maria d’Andrea e Cammilla d’Antonio in Via Gora, alle quali “gl’era ammalato la madre d’una di esse et andata al Lazzeretto di San Miniato”, vengono denunciate da un vicino di casa perché scendono all’appartamento di sotto, dove abitano una vedova e il suo compagno muratore. I birri li sorprendono “in conversazione”, anzi, peggio ancora, “che ballavano”. Li portano in prigione “perché non infettino altra gente”. Fra Paolo Bellintani da Salò, nel suo Dialogo della peste, ha poi un rimedio decisivo al pericolo di diffusione del contagio rappresentato dalla Movida. Era il cappuccino responsabile del Lazzaretto di Milano nei giorni della peste di San Carlo. Questo il suo racconto: E forza che narri un caso che forse farà ridere e piangere insieme. Una notte si faceva un festino ballando sì per stare allegri in una camera del Lazzaretto, quantunque io avessi ciò proibito sotto gravissime pene. Il giorno avanti ricordandosi questo frate Andrea fra gli altri morti avere scaricata da un carro una donna vecchissima, si risolse di andare a pigliare e con essa guastare la festa e di mettere terrore a quelli che ballavano. Per il che andatosene la notte senza lume alla grande fossa in mezzo al Lazzaretto ove si gettavano i corpi morti, e cercato con gran diligenza finalmente trovò la detta vecchia; nel levarsela in ispalla gli venne a stringere il ventre per il che il vento che era nel ventre gli uscì dalla bocca con grande strepito. Chi non si sarebbe spaventato? Ma egli animoso disse in lingua nostra: Tas, tas, Meda, che te voi portà a balà; et andato alla porta della stanza ove ballavano e bussato, gli fu risposto: chi é là? Et egli rispose, non come diciamo noi: Deo gratias ma: Gente che vuol ballare, et aperto che gli fu, gettò la vecchia in mezzo al ballo dicendo: fate ballare anche questa. Poi soggiunse: è possibile che avendo poi la morte in bocca vogliate stare qui a far bagordi et offendere Iddio? ed altre parole disse a questo proposito e poi partissi et così disfece il ballo… Ballarono una sola estate Effettivamente, convincere che si ha a che fare con malat148 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 148 08/10/20 09:49 tie contagiose e pericolose è sempre stato difficile. Specie quando si ha a che fare con i giovani, specie quando sono convinti che il contagio non esista, sia un’invenzione per fargli paura, e comunque anche se c’è non li tocchi. L’ultima epidemia di peste in Italia, una delle ultime in Europa, scoppiò a Noja, nel Barese, nel 1815. Ecco cosa ne dice un testimone diretto, il medico pugliese Vitangelo Morea nella sua Storia della peste di Noja: Intanto i Nojani non credevano nella peste […]. Uno degli spettacoli cui non si poteva assistere senza fremere, era di vedere i Nojani in faccia alla barriera stare affollati, e in perfetto contatto, anche con gli agenti sanitari: a nulla giovarono né le insinuazioni, né le minacce: sarebbe stato necessario di punire col fatto per essere intesi. […] Dopo seria discussione fu conchiuso di trattarsi di febbre pestilenziale, e se ne pose inscritto il parere, scusandosi li medici di non averla chiamata tale nel precedente rapporto, per non confermare l›allarme prima di assicurarsene all›evenienza […]. In seguito di ciò tenendosi presenti le istruzioni del magistrato si propose la immediata fissazione del cordone […] non vi era altro scampo che quello di mettere la provincia nello stato di guerra, e obbligare chiunque a prestarsi per la salute pubblica: non si agiva di trovare semplicemente convenevole il cordone, ma bisognava formarlo, alimentare la truppa, e con essa i Nojani, che dovevano restare chiusi; impedirsi il commercio […] isolare i suoi malati e sospetti, […]: avvertirsi Nojani, sotto pena di morte a non uscire dal loro paese, e gli abitanti della provincia di non riceverli, e denunciarli alle autorità, laddove li vedessero raminghi. E fin qui è, ancora una volta, la solita storia: gli “esperti” e le autorità che prima esitano, per non allarmare, poi impongono misure drastiche, che vengono accolte con incredulità e con ostilità dalla popolazione. E poi ci sono anche quelli che “senza riflettere”, cioè per pura stupidità, o riflettendoci, pensando di coltivare il consenso a poco prezzo, sgarrano. Tra questi anche chi, per il ruolo che ricopre, dovrebbe agire in modo un pochino più responsabile: Il Rione detto di Pagano, abitato da gente bisognosa, stava barricato per la generalità del contagio che vi regnava, ed era economicamente affidato, per il buon ordine, alla direzione di un tale Pietro Contessa, 149 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 149 08/10/20 09:49 che figurava da comandante della piazza […]. Contessa dimenticandosi dell’espresso divieto del magistrato, e ricordandosi che tra gli specifici preservativi contro la peste raccomandati vi era l›allegria, dopo di aver fatto mangiare bere i suoi amministrati, invitò quelli a ballare in sua casa; senza riflettere […]. Con le loro sgambate, saltando la tarantella, di 50 che vollero spazzare il loro Calcagno, 45 tra cui tutta la famiglia di Contessa, in 8 giorni, per essersi a vicenda contagiati nel ballo, andarono a giacere loro malgrado nel comune cimiterio. Dispositivi di protezione individuale Una delle più note maschere del Carnevale veneziano è quella del “Medico della peste”. Ma all’inizio non era una maschera, era parte dell’uniforme degli operatori sanitari. Un lungo becco da uccello da preda, che veniva riempito di spezie e odori, per far fronte alla puzza e al “pestifero miasma”, occhiali con spesse lenti di cristallo per proteggere gli occhi, un bastone per poter toccare (o tenere) gli appestati a debita distanza. Figura in tutte le illustrazioni. Persino nella vignetta incisa della famosissima pagina di titolo del Leviatano di Hobbes, quella in cui si vede il re composto da molteplici figure umane, due di queste indossano questa maschera. Ma pare che non siano stati i veneziani a inventarla. Pare che a inventare il primo scafandro anticontagio fosse stato un medico alla corte di Luigi XIII, durante la peste del 1619 a Parigi. Consisteva in una tunica stagna di pelle di capretto, con una maschera anch’essa di pelle, imbottita di aglio e dotata di occhiali protettori. Conferma il di solito attendibile Cipolla che primi furono i francesi: Cominciarono a indossare una palandrana di toile-cirée, vale a dire di una sottile tela di lino rivestita di una pasta fatta di cera mescolata a sostanze aromatiche”. Poi questo sinistro vestito divenne molto popolare, soprattutto in Italia, e durante l’epidemia del 1630-31 venne spesso impiegato non solo in città come Bologna, Lucca, e Firenze, ma anche in piccoli paesi della Toscana come Montecarlo, Pescia e Poppi. Allorché una nuova epidemia di peste devastò parte dell’Italia nel 1656-57, il costume tornò a essere di uso comune a Roma e a 150 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 150 08/10/20 09:49 Genova. (A Roma i dottori della peste non erano obbligati soltanto a indossare un ‘habito di tela cerata’ ma dovevano anche andare in una carrozza di tela incerata”). L’idea che stava dietro alla confezione e all’utilizzo dell’abito cerato era che gli atomi velenosi dei miasmi non si ‘attaccavano’ alla superficie liscia e scivolosa. E dal momento che il suo impiego sembrava funzionare e rispondere allo scopo, i medici del tempo trovarono in ciò una conferma alle loro teorie sul contagio e sul ruolo dei miasmi” (Carlo M. Cipolla, Il pestifero e contagioso morbo). Non tutti a dire il vero. C’era anche chi non aveva molta fiducia nel dispositivo. “La tonica incerata in un Lazaretto non ha buon effetto, solo le pulci non si facilmente vi s’annidano,” osservava ad esempio padre Antero Maria da San Bonaventura, il frate incaricato della gestione del lazzaretto di Genova durante l’epidemia del 1657. Non sappiamo se intendesse dire anche che quelle maschere allarmano e demoralizzano i ricoverati, come dissero e sciaguratamente fecero i responsabili al Pio Albergo Triulzio. Il frate non si era reso conto di quanto, pur protestando l’inutilità del dispositivo, ci avesse visto giusto: sono le pulci a trasmettere lo Yersinia pestis dai ratti all’uomo, se la tonaca cerata riusciva a tenerle lontano poteva bastare e avanzare. Le maschere a Venezia erano nel Settecento un accessorio obbligatorio. Non per ragioni di sanità pubblica ma per ragioni di ordine morale. Nella magnifica antologia di relazioni degli Agenti segreti di Venezia 1705-1797 curata da quel grande scrittore che è Giovanni Comisso, abbondano le “soffiate” in cui si informano le autorità di polizia che la taluna o tal altra dama sono state viste in teatro “senza portare la maschera”. Nella prefazione alla nuova edizione del 1962, Comisso ci informa che la prima edizione, uscita in pieno fascismo da Bompiani, ebbe un gran successo, ma poi l’editore ricevette nel 1941 comunicazione dal Ministero della Cultura popolare, noto anche come Minculpop, che l’edizione andava ritirata. Comisso aveva incluso una comunicazione dell’agente segreto G.B. Manuzzi che denunciava un certo “Moisé Mussolin ebreo, partitante per i Prussiani durante la guerra dei Sette anni, il quale in Piazza San Marco suscitava discussioni”. Pensò di rimediare sostituendo il nome Musso151 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 151 08/10/20 09:49 lin con Massarin, e togliendo la parola ebreo. Ai censori non bastava. Allora inventò di sana pianta un rapporto di informatore ignoto il quale riferiva che orecchiando nelle taverne la gente non parlava di nulla, se non di cose allegre. “Questo mio scherzo non fu avvertito da alcuno, perché non era tanto facile comprendere l’ironia in un tempo in cui si sentiva soprastare il terrore e la strage,” scrive Comisso. A proposito di Mussolini, un’altra curiosità: a differenza dei leader populisti e di destra di oggi, allergici alla mascherina e istintivamente negazionisti sulla pericolosità del virus, non era contrario al ricorso ai più elementari accorgimenti di igiene e, si presume, all’uso dei dispositivi di protezione individuale. C’era anche una motivazione di propaganda spicciola: durante l’epidemia di spagnola i fascisti lodavano la superiorità igienica del saluto romano rispetto alla stratta di mano. “Che si impedisca a ogni italiano la sudicia abitudine di stringere la mano e la pandemia scomparirà nel corso della notte,” si legge sul “Popolo d’Italia”, il giornale da lui diretto, nell’ottobre 1918. Obey the laws / And wear the gauze. / Protect your Jaws / From Septic Paws (Rispetta le leggi / E metti la garza / Proteggiti la bocca / Dalle manacce infette), recita una filastrocca diffusa in California. Negli stessi giorni una pubblicità sul “Corriere della Sera” offre al prezzo di 4,50 lire una mascherina “raccomandata da celebrità Medico-Sanitarie, a coloro che assistono malati di influenza o di polmonite e loro famigliari”. “Subito dopo che è stato reso obbligatorio l’uso della mascherina, il comune ha invitato i cittadini ad andare nel distretto commerciale a fare il loro shopping. Assicurando che la mascherina avrebbe dato una protezione completa. Le vendite hanno avuto un picco immediato per tutti gli operatori coinvolti, con l’eccezione, probabilmente, di quelli che trattano abiti da uomo. Noi crediamo che nelle comunità in cui l’epidemia è in corso e il commercio è crollato, non ci sia nulla che possa stimolare il business, e rianimarlo rapidamente, quanto l’uso universale delle mascherine.” Queste e altre chicche in 1918. La grande epidemia. Quindici storie 152 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 152 08/10/20 09:49 della febbre spagnola, il libro di Riccardo Chiaberge dove un intero divertente capitolo è dedicato alle mascherine. Alla Cina spetta, se non proprio il primato, una certa visibilità nell’uso contemporaneo delle mascherine protettive. Ma è pure una priorità antica. E non solo in campo medico. Già Marco Polo nota e riferisce che ai banchetti alla corte del Gran Khan coloro che servono alla sua tavola “hanno fasciata la bocca e il naso con bei tovaglioli di seta e di oro, affinché il loro fiato non vada sui cibi e sulle bevande del Gran Signore”. Nel secolo scorso maschere quasi identiche a quelle chirurgiche di oggi tornarono a essere usate diffusamente durante l’epidemia di peste del 1911 in Manciuria e l’epidemia di influenza spagnola del 1918 negli Stati Uniti. C’è un’infinità di foto in cui le si vede indossate da tutti, medici, infermieri, portantini, altri operatori sanitari, poliziotti, autisti di taxi. A inventarle e renderle obbligatorie a Harbin era stato il commissario incaricato da Pechino, il dottor Wu Tien-lieh. Nella sua autobiografia il dottor Wu racconta, in terza persona, un episodio in cui il collega francese Gérald Mesny, che di mascherine non voleva sentir parlare, contesta le sue disposizioni: “Il dottor Wu sedeva su una grande poltrona imbottita, cercando di appianare col sorriso le loro divergenze. Il francese era agitato, continuava ad andar avanti e indietro nella stanza surriscaldata. All’improvviso non riuscì più a contenersi. Si piantò di fronte al dottor Wu, e con gli occhi quasi fuori dalle orbite si mise a urlare: ‘Cinese di merda, come osi prenderti gioco di me e contraddire un tuo superiore?’. Mesny continuò a esercitare negli ospedali, tra i malati di peste, senza maschera. Contrasse la malattia e morì qualche giorno dopo. Il decesso del negazionista contribuì a far passare la linea del dottor Wu, e la mascherina poco dopo fu adottata universalmente. “Anche per strada la indossavano tutti, di un tipo o di un altro che fosse”, la sua testimonianza, pubblicata molti anni dopo. A provarlo c’è un album fotografico di Views of Harbin (Fuchiatien) Taken During the Plague Epidemic, December 1910-March 1911, che lo stesso dottor Wu fece stampare per farne omaggio ai delegati inter153 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 153 08/10/20 09:49 nazionali alla Conferenza sulla peste tenutasi a Mukden nell’aprile di quell’anno. Delle sessantuno foto a piena pagina, quarantasette sono ritratti, trentadue mostrano persone che indossano la mascherina, in totale si possono contare duecentocinquanta figure umane che la indossano. In moltissime foto del 1918-19, gli anni della Spagnola, si vedono mascherine chirurgiche. Le indossano tutti. Soprattutto in America, coast to coast: i polizotti di New York, gli infermieri di San Francisco, i pompieri, gli spazzini, i passanti. Li indossano nelle corsie, negli ospedali improvvisati, sui luoghi di lavoro, e anche per strada. A chi malgrado tutto continua ad avere a noia le mascherine, continua a sostenere che tanto non servono a niente, danno solo fastidio, si fa fatica a respirare, e via protestando, a tutti gli ostinati, noncuranti, menefreghisti, bastian contrari, scellerati o solo cretini che siano, a quelli che non sanno, o pensano di saperne una più degli altri, dedicherei la risposta che nella Peste di Camus il dottor Tarrou dà, nella citazione in esergo a questo capitolo, al giornalista che gli chiede se le mascherine servono a qualcosa: «Rispose di no, ma che rassicurava gli altri”. Marsiglia 1720: il costo di piccole disavvertenze Marsiglia era ormai abituata alle quarantene. Il meccanismo, sperimentato per decenni, anzi secoli, era collaudato, funzionava ormai in automatico, come un orologio. Finché di navi gliene sfuggì una, una soltanto, quasi per caso si potrebbe dire, per un cumulo di disgraziate circostanze, di piccole insignificanti disattenzioni, minime infrazioni. Piccolezze, sciocchezzuole, che finirono per scatenare una strage, le più violenta dei ritorni di epidemia dopo la Morte nera di metà 1300 e la Peste del 1630. Ogni anno a Marsiglia arrivavano millecinquecento velieri mercantili. Un terzo di questi proveniva dagli “Scali del Levante”, da Costantinopoli, Smirne, Algeri e dagli altri porti del Nord Africa, dove la peste continuava a essere endemi154 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 154 08/10/20 09:49 ca. Le autorità portuali prestavano particolare attenzione a questi arrivi, specie alle navi che facevano la spola con gli “Scali di Barberia”. La regolare applicazione delle misure cautelari era affidata a una Commissione di Sanità composta da sedici eletti, in rappresentanza dei mercanti, commercianti e uomini d’affari della città. All’arrivo in porto ogni capitano doveva presentarsi negli uffici di Sanità presso il forte di Saint-Jean, mostrare i certificati forniti dalle autorità dei porti mediterranei in cui aveva fatto scalo, dichiarare merci e passeggeri. Nel caso ci fossero stati casi di peste, o morti o febbri sospette a bordo, dovevano ancorare e far la loro brava quarantena nell’isola di Jarre, a una ventina di miglia da Marsiglia. Se proprio avevano fretta, potevano accorciare la quarantena esibendo i certificati sanitari ottenuti nei porti da dove erano passati, mettiamo quelli italiani. Ma anche in questo caso, siccome di quei certificati le autorità di Marsiglia si fidavano poco, una quarantena, sia pure dimezzata, dovevano farla lo stesso. Navi ed equipaggi la facevano nell’isola di Pomègues, passeggeri e merci venivano trattenuti al Lazzaretto nuovo di Arenc, distante poche centinaia di metri dalla porta La Joliette. La Grand-Saint-Antoine era un tre alberi che arrivò in vista di Marsiglia il 25 maggio 1720. L’aveva lasciata l’anno prima in luglio. Era passata da Smirne, Cipro, Seita, infine da Tripoli. A Tripoli il 18 aprile 1720 aveva imbarcato quindici passeggeri. Un passeggero turco era morto qualche giorno dopo, e, come usanza, la salma gettata a mare. Nei giorni successivi erano morti sette marinai. Sulla via del ritorno il veliero aveva fatto tappa a Livorno, dove le autorità avevano dovutamente segnalato la cosa nei documenti rilasciati al capitano, e da mostrare negli scali successivi. In Sardegna – se prendiamo per buona la versione di Artaud –– la nave non l’avevano lasciata neanche avvicinare. Ma può anche darsi che l’episodio sia di pura fantasia, Artaud se lo sia sognato, così come fa sognare la peste al viceré. Nel suo enciclopedico e ormai classico Les hommes et la peste en France et dans les pays méditerranéens (1975) Jean-Noël Biraben fornisce un resoconto dettagliato, giorno per giorno, del viaggio della 155 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 155 08/10/20 09:49 Grand-Saint-Antoine, ma non c’è menzione della Sardegna. Un altro grande scrittore francese, Balzac, era stato finanziariamente rovinato da una quarantena forzata al largo di Alghero. Nel 1837 era diretto in Sardegna nella speranza di fare soldi: aveva sentito dire che c’erano miniere inutilizzate di argento e piombo. Ma la nave fu costretta a stare all’ancora. Trascorsa la quarantena, lo fecero sbarcare, ma le concessioni delle miniere erano già andate ad altri. Dovette tornare a Parigi, e mettersi a scrivere come un forsennato, per rimediare alla mancanza di fondi. All’arrivo a Marsiglia, secondo le norme, la Grand-Saint-Antoine avrebbe dovuto essere immediatamente dirottata all’isola di Jarre, davanti alle Calanques marsigliesi, ed essere bruciata con tutto il suo carico. Il capitano richiese, e ottenne, di fare solo una quarantena “ordinaria” a Pomégues, lo scalo destinato ai “sospetti”, ma off limits agli appestati accertati. Pare che avesse pure falsificato il registro di bordo, facendo risultare che i decessi di marinai verificatisi durante la traversata erano dovuti a intossicazioni alimentari, e non a “febbri pestilenziali”, come pure aveva dichiarato a Livorno. Nottetempo fece trasbordare sulle scialuppe il carico e lo depositò in città, a La Joliette, prima di tornare a fare la quarantena nell’isola di Jarre. La Joliette era stata originariamente un lazzaretto per lebbrosi, avrebbe continuato a fungere da lazzaretto fino al 1850, ai tempi del colera. Aveva del personale dedicato, che alloggiava chiuso dentro. Come mai glielo lasciarono fare? Perché le autorità chiusero un occhio, o forse due? L’armatore della nave, e principale destinatario del carico, Jean-Baptiste Estelle, era un personaggio influente, niente meno che premier échevin, “primo assessore”, praticamente il sindaco di Marsiglia. Tra l’altro faceva pure parte della Commissione di Sanità. Si può presumere che avessero fretta di vendere il prezioso carico di tessili. Se si rispettava la quarantena rischiavano di perdere le fiere di stagione, in particolare quella di Beaucaire, un enorme bazar a cielo aperto, grosso modo a metà strada tra Marsiglia e Tolone. Si teneva il 22 luglio, durava un’intera settimana, attirava grossisti, clienti e curiosi da tutta la Fran156 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 156 08/10/20 09:49 cia, anzi da tutta Europa. Per il proprietario di un veliero da carico era impensabile perdere l’occasione. E per cosa avrebbero dovuto rischiare di rimetterci tutti quei soldi? Per qualche marinaio morto di malattia, che non era stata neanche accertata come peste? E diamine, erano vent’anni almeno che non c’era stata la peste in Francia. Qualcosa forse fu sballato e venduto già in città, pulci, batteri e compagnia bella inclusi. Il resto fu forse avviato verso Beaucaire. Ma quelle sete e broccati non riuscirono mai a venderle. A luglio già imperversava la peste, e la fiera fu annullata. Bisogna anche tener conto che pesava la concorrenza spietata tra i porti europei, che si facevano tra loro una vera e propria guerra a colpi di false notizie. Si nascondevano nella misura del possibile le proprie magagne sanitarie, e si ingigantivano quelle dei concorrenti. Nel 1722, due anni dopo la peste di Marsiglia, il console di Francia a Livorno spiegava come i genovesi facevano correre voci false sul rischio di contagio nel porto toscano. Nel 1730 i responsabili della Sanità a Marsiglia temono che la “cattiva pubblicità” fatta al loro porto dalle relazioni dei consoli stranieri possa “interrompere il commercio, indebolirlo, restringerlo”. C’è da tenere presente quella che pochi anni dopo David Hume avrebbe definito “gelosia del commercio”, cioè “l’abitudine di trattare come rivali tutti gli stati commercianti, con il pretesto che è impossibile che uno di loro prosperi se non a spese degli altri”. Risuonano le orecchie? Finì che la Grand-Saint-Antoine fu effettivamente data alle fiamme, e fu fatta affondare nei pressi dell’isola di Jarre. Il relitto è stato scoperto e recuperato nel 1978. Nel 2013 fu restaurato e oggi è accessibile al pubblico. Ci fu un processo. Il capitano Jean-Baptiste Chataud finì in prigione al Chteau d’If, la Alcatraz della baia di Marsiglia, la fortezza in cui Dumas immagina venga recluso il suo conte di Montecristo. Vi scontò tre anni. Si era difeso sostenendo che nei porti da cui era passato, in Siria, a Cipro, aveva ottenuto i necessari certificati sanitari, e che aveva dovutamente informato le autorità sanitarie di Marsiglia di quanto era successo durante il viaggio. Il sindaco Estelle morì senza che si riuscisse a dimostrare 157 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 157 08/10/20 09:49 che aveva esercitato pressioni per far sbarcare la mercanzia. L’ufficiale sanitario della nave era morto prima ancora che terminasse la quarantena imposta all’equipaggio, il referto del chirurgo del porto dichiarò che era morto di “vecchiaia”. Il primo caso si manifestò a Marsiglia il 20 giugno: si ammalò una donna che viveva in una via chiamata “Escale”, lo scalo. Poi il 28 giugno si ammalò e morì, infettando tutta la famiglia, un sarto che lavorava nella piazza chiamata “Place du Palais”. Il primo luglio si ammalò e morì un’altra donna che abitava nella via de l’Escale, e poi pure una sua vicina. Il 21 luglio decedette uno dei passeggeri del Grand-Saint-Antoine che era in quarantena. Da qui la peste si diffuse a macchia d’olio, no, sarebbe più preciso dire a macchia di leopardo, in tutta Marsiglia. Furono prese le prime, tardive, misure di contenimento. Già il 2 luglio il Parlamento di Aix aveva emanato un decreto che proibiva i contatti tra gli abitanti di Marsiglia e il resto della Provenza. Suscitò immediatamente rivolte: “Così moriamo di fame, non di peste,” diceva il popolo. Marsiglia era nel caos tra rivolte e saccheggi, le vittime aumentavano in progressione geometrica, gli ospedali erano soverchiati, morirono anche venticinque medici, si accumulavano cadaveri e infermi in strada. Dovette intervenire l’esercito. Ci sono diverse rappresentazioni dell’epidemia di Marsiglia in pittura. La più famosa è una grande tela di Michel Serre, conservata al museo di Montpellier, che raffigura il comandante militare, il Chevalier Nicolas de Roze che, a cavallo, e impeccabilmente vestito con un’elegante redingote azzurra, dà istruzioni sulla rimozione dei cadaveri grazie a un bastone che gli consente di tenersi a debita distanza dalla plebaglia e dagli appestati. Conto di tornarci, su questo dipinto, e altre rappresentazioni del contagio in pittura, nel capitolo che segue. La manovalanza addetta all’ingrato compito sono galeotti precettati. Molti di loro si infettarono e morirono a loro volta, la flotta di galee reali, privata dei forzati rematori, dovette essere di lì a poco dopo smantellata. Per isolare Marsiglia dal resto della Provenza si costruì 158 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 158 08/10/20 09:49 addirittura una specie di grande muraglia, lunga trentasei chilometri, poi una seconda muraglia, concentrica, lunga oltre un centinaio di chilometri. Per lasciare Marsiglia bisognava avere un certificato sanitario. Ma la gente scappava lo stesso, verso Avignone, e gli altri centri del Sud della Francia, e inevitabilmente portava con sé il contagio. A quel primo Cordon sanitaire furono assegnate guardie armate, con l’ordine di sparare a vista su chi cercasse di superare gli sbarramenti. E ancora la città non voleva sentir parlare di peste. È forse una delle ragioni per cui lo stato di emergenza era stato proclamato con grande ritardo. Anche i medici erano divisi. Alcuni ritenevano che si trattasse di malattia contagiosa trasmessa per via aerea. Altri dicevano che assolutamente no, non era contagiosa. Era stata nominata una commissione composta da medici provenzali, che rispondevano nientemeno che al medico personale del Reggente di Francia, il dottor Pierre Chirac. Il primo rapporto del dottor Chirac sosteneva trattarsi di “una febbre maligna, abbastanza comune […] dovuta all’alimentazione una del popolino […] nient’affatto di peste venuta dal Levante”. Studi di paleo-epidemiologia molecolare, condotti nel 2011 sulla polpa dentaria di scheletri ritrovati in una fossa comune a Marsiglia, e che si ritiene risalga a quel fatidico 1720, sembrerebbero confermare tracce di Yersinia pestis. In ottobre le misure drastiche cominciarono ad avere effetto. Il contagio calò, anche se non scomparve del tutto. L’articolo di Christian Devaux a cui sto attingendo, Small Oversights that Led to the Great Plague of Marseille (172023): Lessons From the Past (da “Infection, Genetics and Evolution», n. 14, 2013) riporta tra le illustrazioni anche un grafico che mi ha colpito: la “curva” del contagio sale precipitosamente tra luglio e settembre, poi si abbassa altrettanto precipitosamente, tra settembre e ottobre, ma non si azzera, continua, sia pure a bassa intensità, in novembre e dicembre. Mi ha fatto venire in mente, facendo le corna, la curva del Covid, che cala, risale e poi cala di nuovo, ma rifiuta ostinatamente di azzerarsi. Il peggio sembrava passato. Cominciarono a moltipli159 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 159 08/10/20 09:49 carsi pressioni perché le misure di contenimento venissero allentate, si tornasse a lavorare, riaprissero il porto e i commerci. Intervennero le corporazioni dei mercanti, degli armatori, degli scaricatori. Era una pressione a cui il governo non riusciva a resistere. La città era effettivamente in ginocchio, avevano chiuso le fabbriche, i cantieri e quasi tutte le attività, le finanze erano in rovina, al punto che il Sovrano dovette concedere una dilazione di quindici anni per il pagamento delle imposte. Gli altri porti europei, non solo gli italiani e gli spagnoli, ma anche inglesi e olandesi, non volevano avere più nulla a che fare con Marsiglia, avevano chiuso al commercio con i francesi. A Marsiglia riaprirono, tolsero i blocchi e il divieto di circolazione. E tornò la peste. Peggio che prima, perché si estese a tutta la Provenza. Parigi, allarmata, fece richiudere, dichiarò zona rossa tutto il Sud della Francia. L’epidemia andò avanti per altri due anni, fino al 1722 inoltrato. Fece, si calcola, centoventimila morti su quattrocentomila abitanti della regione. A Tolone, dei ventiseimila abitanti ne erano sopravvissuti tredicimila (settemila non erano stati infettati, tremila erano guariti). Ci sarebbero voluti quarant›anni prima che tornasse ad avere la popolazione di prima della peste. Solo a Marsiglia ci furono più di cinquantamila morti. La lezione servì. Da allora fecero più attenzione. La peste, con poche eccezioni (Malta 1813, Noja, nel Barese, 1815, Corfù 1816, Majorca 1820), scomparve dall’Europa occidentale. Lasciando il posto ad altre pandemie, altrettanto letali, per giunta capaci di superare anche le quarantene tradizionali. Al punto che si ricominciò a sostenere che le quarantene non servono a nulla. Il 1720 è comunque un caso da manuale di come piccole, forse in sé trascurabili negligenze, sottovalutazioni apparentemente innocenti (ma che sarà mai chiudere un occhio una volta tanto?), una dopo l’altra, possano portare a immani catastrofi. Errare può essere umano. Ma il ripetere l’errore, riaprendo troppo presto, solo perché c’è chi scalpita e preme, sa di diabolico. 160 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 160 08/10/20 09:49 Gli asintomatici di Mr. Robinson Crusoe La peste a Marsiglia aveva impressionato molto il resto d’Europa, specie l’Inghilterra. Suscitava il terrore di un ripetersi delle grandi epidemie, della Morte nera di metà 1300, della peste del 1600. Londra era nel panico. A quanto pare la gente non parlava e non leggeva d’altro. Attorno al 1720 si pubblicarono una quantità enorme di libri, opuscoli, memoriali, articoli di giornale sull’argomento. Divenne una questione politica. Il governo Walpole traballava. A complicare le cose era da poco scoppiata la crisi della Bolla dei Mari del Sud, la madre di tutte le Bolle e imbrogli finanziari. Il governo da una parte cercava di arginare le apprensioni predisponendo severe misure di quarantena per le navi e le merci in arrivo, dall’altra era sotto pressione e costretto a fronteggiare le critiche di chi temeva che le quarantene minacciassero l’economia. Fu emanato un Quarantine Act. Ma poco dopo, di fronte alla levata di scudi, furono costretti a ritirare il decreto e sostituirlo con una versione più leggera. Nel pieno delle polemiche, nel 1721, Daniel Defoe pubblicò Due Preparations for the Plague (Preparazioni necessarie per la peste), un instant book che difendeva a spada tratta le scelte del governo, utilizzando materiali relativi alla peste di sessant’anni prima. Sì alla quarantena commerciale, che avvantaggia tutti, sia i mercanti che i poveretti. No alla chiusura delle case degli appestati che “imprigiona”, e però “nell’insieme serve a poco o a nulla”. E comunque tranquilli, sereni, che ci pensa il governo. Se poi qualcosa non va per il verso giusto, è inutile recriminare e dare la colpa al governo. È sempre e comunque colpa della gente. “Fossero state dovutamente e scrupolosamente osservate le ingiunzioni imposte [dal governo] sul nostro popolo, avremmo forse avuto qualche ragione in più di sperare di esserne salvi [dalla peste].” Defoe ha un’idea fissa, e non è nemmeno sbagliata: “L’intero impianto del mio ragionamento ha lo scopo di separare, quanto più possibile, la gente gli uni dagli altri”. Defoe non era esattamente un giornalista indipendente e obiettivo. Era uno scrittore, bravissimo, ma prezzolato, al 161 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 161 08/10/20 09:49 servizio dei governi. Di qualsiasi governo, di destra o di sinistra (per così dire), per i tory o per i whig, per Robert Harley o per Robert Walpole. È documentato, faceva anche la spia, c’è una sua lettera in cui riferisce al Parlamento conservatore di una missione di spionaggio in Scozia. Addison, il fondatore dello “Spectator”, lo definì “farabutto”, Swift scrisse i suoi Viaggi di Gulliver anche per prendere in giro il suo Robinson. Aveva continuamente bisogno di denaro. Morì mentre cercava di nascondersi dai creditori. Sapeva bene quanto vale l’informazione. E come le notizie si possono manipolare e “abbellire” (o rendere più allarmanti, il che è la stessa cosa). Sapeva bene cosa siano le fake news e quanto possano far male. “All’epoca non c’erano giornali che diffondessero voci e notizie sugli avvenimenti, e che le ingigantissero con la fantasia degli uomini, come in seguito vidi fare,” dice nelle prime righe di A Journal of the Plague Year, il Diario dell’anno della peste, il romanzo vero e proprio che seguì di poco il solo apparentemente più fattuale Due Preparations. Nell’insistere sul tema c’erano certamente anche considerazioni commerciali. I libri sulla pandemia a quanto pare si vendevano come il pane. E più facevano venire i brividi, più erano “marketable”. Per diverse pagine del suo Diario dell’anno della peste Daniel Defoe elenca, una dopo l’altra, in dettaglio, paragrafo dopo paragrafo, categoria interessata dopo categorie interessata di cittadini e operatori, le ordinanze emanate dalla città di Londra per far fronte al contagio della peste del 1665. Vengono trattati i doveri di ispettori, custodi, chirurghi, infermiere. Si affrontano per filo e per segno le norme sulla denuncia dei malati, sull’isolamento dei malati, sulla disinfezione delle suppellettili, sulla chiusura delle abitazioni, sul divieto di trasferire persone dalle case infette, sulla sepoltura dei cadaveri, sul divieto di far circolare oggetti infetti, sul divieto di trasferire persone da case infette, sull’obbligo di segnalare ogni casa infetta, sull’obbligo di vigilare ogni casa infetta, sui coinquilini, sulle vetture a noleggio, sull’obbligo di tenere pulite le strade, sull’obbligo degli spazzini di portar via l’immondizia dalle case, sull’obbligo di trasferire i rifiuti 162 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 162 08/10/20 09:49 lontano dalla City, sul pericolo di carni e cibi guasti e di granaglie ammuffite, sul che fare degli accattoni, sugli spettacoli, sul divieto di organizzare banchetti, sulle osterie… Sembra ed è avvincente quanto può essere una lista della spesa. Defoe è un pignolo, un grande compilatore di elenchi. Gli piacciono da morire i libri contabili, le partite doppie, i bilanci, le conte dei morti riga per riga, giorno per giorno, come vengono registrati dalle parrocchie, gli inventari, gli elenchi di oggetti comuni o desueti che siano. È un espediente letterario non privo di efficacia. Se ne servirà parecchio anche nel Robinson Crusoe. Consente di inventare facendo finta di attenersi ai crudi fatti. La sua non è una testimonianza, non è un reportage, è un romanzo. Camus appone in esergo, all’inizio della sua Peste, una citazione da Defoe: “È ragionevole rappresentare un tipo di prigionia con un altro, quanto rappresentare qualcosa che esiste realmente con qualcosa che non esiste”. Non è una citazione dal Diario dell’anno della peste, bensì dal Robinson Crusoe. Camus sa di cosa parla. Fingendo di scrivere di peste, lui scrive dell’occupazione nazista della Francia. Scrivendo della peste nella Londra del 1665, Defoe tratta della paura della peste nella Londra dei suoi tempi. O piuttosto di tutti i tempi? Defoe si dice convinto che le sue osservazioni “potranno servire in futuro a coloro nelle cui mani capiterà questo scritto, se mai si troveranno nel mezzo di un’epidemia altrettanto terrificante”. Fa una certa impressione leggere degli asintomatici, “molte persone che, anche se non si sapeva che erano malate – e non lo erano ancor palesemente –,–, tuttavia avevano già la peste addosso; e godendo di una illimitata libertà di andare in giro, pur essendo costrette a tener nascoste le loro condizioni di salute (e forse ignorandole loro stessi), trasmettevano la malattia agli altri, e diffondevano il contagio in modo spaventoso”. Peggio ancora nella “Fase 2”, “quando si diffuse la notizia che la peste non era più maligna come prima, e che chi ne era colpito non era condannato a morte sicura, e poiché si constatava che ogni giorno guariva molta gente malata, la popolazione divenne così imprudente e così incurante di sé e dell’infezio163 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 163 08/10/20 09:49 ne, che considerò la peste poco più di una normale febbre, e forse nemmeno quello”. “È molto doloroso pensare che persone come queste furono altrettanti assassini ambulanti, forse anche per una settimana o due, che rovinarono coloro per i quali avrebbero messo a repentaglio la vita, diffondendo morte con il respiro. E magari baciando e abbracciando affettuosamente i propri bambini.” Assoluzione piena naturalmente, per il governo: “A cosa potevano servire tutti i piani di distanziamento o trasferimento degli ammalati […] se vi sono migliaia di persone che sembrano sane e portano invece la morte in tutti i gruppi con cui vengono in contatto”?. La colpa è nella “folle condotta del popolo”: “Non solo frequentò incoscientemente chi aveva addosso tumori e pustole aperti, ma cominciò anche a mangiare e a bere con degli ammalati, ad andare a casa loro, a visitarli e – mi è stato riferito – a entrare nelle stanze in cui giacevano allettati”; “la gente correva ormai incautamente in mezzo al pericolo, rinunciando a tutte le precedenti cautele e attenzioni, e alla condotta accorta che aveva adottato in precedenza”. È duro con le fake news. Anche quelle messe in giro, sia pure a fin di bene, dal governo. Ma soprattutto quelle messe in giro dai concorrenti del commercio inglese. Erano sufficienti i numeri registrati dai bollettini settimanali ed era sufficiente il fatto che ogni settimana morissero due, tre, quattromila persone per mettere in allarme tutti i porti del mondo […]. D’altra parte le voci erano enormemente esagerate, e non dobbiamo meravigliarci se ai nostri amici all’estero – come ad esempio ai corrispondenti […] in Italia e in Portogallo, paesi con cui intratteneva[mo] molte relazioni commerciali – giungeva la notizia che a Londra morivano ventimila persone a settimana, che sorgevano ovunque cataste di morti insepolti, che non bastavano i vivi per seppellire i morti, né i sani per assistere i malati […] e loro non credevano alle nostre parole quando li informavamo di come stavano realmente le cose […] che la gente stava ricominciando a camminare per le strade, che chi era fuggito stava tornando, che in giro c’era comunque la solita folla, anche se era vero che ogni famiglia aveva perso qualche parente o qualche conoscente, e così via. Vi garantisco che non ci credevano; e se ora si andasse a fare qualche domanda a Napoli o altre città italiane, vi direbbero che molti anni fa a Londra ci fu una peste spaventosa e che morivano ventimila persone a settimana, esattamente come 164 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 164 08/10/20 09:49 noi a Londra dicevamo che nella città di Napoli, nel 1656, c’era stata un’epidemia in cui perivano ventimila persone al giorno […].” Defoe non nasconde quale sia la cosa che gli sta più a cuore: “Queste dicerie erano non solo molto dannose per il nostro commercio, ma anche ingiuste e offensive […] dovette passare molto tempo prima che i nostri scambi commerciali con quei paesi potessero risollevarsi. I fiamminghi e gli olandesi, soprattutto questi ultimi, ricavarono enormi vantaggi dall’avere tutto il mercato a loro completa disposizione, e arrivarono addirittura ad acquistare prodotti nelle regioni dell’Inghilterra che erano state risparmiate dalla peste, e ricondurli da loro, per poi trasportarli in Spagna e in Italia come fossero stati di loro fabbricazione”. Nihil novi sotto il cielo dei conflitti di interessi commerciali. Governo bugiardo, panico assicurato Defoe dedica molte pagine, tra le più divertenti del suo Diario, alle voci incontrollate, le superstizioni, le leggende metropolitane, le allucinazioni collettive, la credulità incorreggibile del “popolo”, e anche a chi prontamente ne approfitta per trarne profitto: I timori della gente venivano ulteriormente accresciuti dalle idee sbagliate che circolavano in un tempo in cui il popolo era più portato a credere alle profezie, agli scongiuri degli astrologhi, ai sogni e alle storie delle anziani comari […] e appena si resero conto che si stava avvicinando un’epidemia, tutte le loro profezie parlarono di una peste spaventosa che avrebbe devastato l’intera città e il regno, e avrebbe distrutto quasi tutta la nazione, sia gli animali che gli esseri umani […] queste paure indussero il popolo a infinite debolezze, idiozie e perversità […] Questa insensatezza fece pullulare la città di una perfida schiera di presunti esperti […]. È nella sua natura lodare e giustificare il governo. Quindi approva che siano stati fatti “numerosi sforzi per sopprimere la stampa di quei libri che terrorizzavano la gente, e per inti165 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 165 08/10/20 09:49 midire coloro che li propagandavano, alcuni dei quali furono tratti in arresto; ma poi, per quanto ne so, non se ne fece nulla; perché il governo non voleva esasperare il popolo, che era, se mi è consentito dire così, già fuori di testa per conto suo”. Una vera e propria apologia della menzogna di Stato e della censura, sia pure mitigata dall’humour sulla moderazione persecutoria, dettata dalla necessità di non esasperare ulteriormente gli animi. Ma abbiamo visto che persino lui, così pronto a difendere a spada tratta il potere del momento, è costretto ad ammettere che se si fossero mossi un tantino prima, avessero preso i provvedimenti necessari al momento giusto, senza curarsi solo degli effetti negativi sull’economia e il commercio, si sarebbero salvate più vite. I governi, tutti i governi, in ogni epoca e a qualsiasi latitudine, hanno la tendenza a negare, sopire, minimizzare, nascondere, dire e non dire, o almeno non dirla tutta, o addirittura censurare. La giustificazione è in genere evitare di creare panico. Quando nell’anno 1500 ricompare la peste a Parigi, il prévôt, vale a dire il prefetto, il funzionario che comanda in nome del re, rifiuta di rendere pubblica la notizia, anzi proibisce sotto pene severissime che se ne parli anche in conversazioni private: “per evitare che tra la folla si diffonda la paura”. È l’argomento che ha usato anche Donald Trump nell’intervista a Bob Woodward: lui sapeva sin dall’inizio, ma avrebbe continuato a negare, minimizzare, dire che si trattava di una banale influenza, che non c’era niente di cui preoccuparsi, perché – così sostiene – non voleva creare panico. Così fan tutti, potremmo dire con Mozart. Ma nascondere le informazioni. O, peggio ancora, mentire spesso è il miglior modo per diffondere il panico, renderlo incontrollato. Le voci girano, e le false voci girano più di quelle vere. Di ritorno all’hotel [Aschenbach, il protagonista di La Morte a Venezia, al quale sono giunte all’orecchio voci su casi di colera in città] si recò nella lobby e si mise a sfogliare i numerosi giornali sul tavolo. Non riuscì a trovare niente [nessuna notizia sul colera] sulla stampa straniera”. Thomas Mann è sempre scrupoloso nel ricavare la sua fiction da fatti di cronaca autentici. I coniugi Mann, in viaggio di tu166 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 166 08/10/20 09:49 rismo sull’Adriatico, erano arrivati a Venezia a fine maggio 1911. La nave viene come d’abitudine sottoposta all’ispezione delle autorità sanitarie. Già c’erano stati i primi casi, era stata identificata dalle autorità la prima vittima accertata, una lavandaia. Erano state prese immediatamente misure di disinfezione dei locali interessati (con la scusa di lavori urgenti di ristrutturazione). A metà maggio si era verificata la presenza del vibrione sui cadaveri anneriti di un barcaiolo e di una fruttivendola. La notizia corre di bocca in bocca. Ma da Roma arriva l’ordine preciso e tassativo alla stampa di non parlare di colera. Viene direttamente dal Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, che in quel momento ha anche l’interim di ministro dell’Interno e di massimo responsabile dea Sanità. Una circolare che porta la sua firma chiede al prefetto di convocare la stampa e avvertirla delle pene cui vanno incontro nel caso si azzardino a contravvenire e solo far cenno al colera. Vanno da una multa salata a pene detentive. Sono avvertiti, tramite il Prefetto, anche i medici: “Deploro vivamente inconsulta criminosa agitazione medici ospedalieri – Chiami subito a sé capi movimento e faccia loro presente responsabilità che si assumerebbero persistendo in una agitazione che è un vero delitto verso la loro città e il loro paese. Il timore del governo è che un’ammissione riguardo il colera rovini la stagione turistica, mini la posizione dell’Italia impegnata in importanti iniziative diplomatiche, susciti allarmi sulla stampa estera, magari moti popolari contro medici, infermieri e pubblica sicurezza, come ormai avveniva regolarmente, anno dopo anno, in Calabria e in Sicilia. Eppure Giolitti, che potremmo considerare “di sinistra”, non è il peggiore dei primi ministri che l’Italia abbia avuto. È vero che Gaetano Salvemini lo definì “Il ministro della malavita”, ma Togliatti poi l’avrebbe storicamente rivalutato, fosse stato ancora in giro avrebbe potuto magari anche sostenerlo come Presidente del Consiglio nell’Italia repubblicana. L’occhio attento di Mann nota nel romanzo l’affissione “ad ogni angolo di strada, di manifesti proclamanti che, a causa di certe affezioni gastro-intestinali, niente di straordinario in questo periodo dell’anno, le autorità municipali vietano il consumo di ostriche e cozze”. In effetti, già nella prima metà di maggio c’era stata la prima vittima straniera, il turista austriaco Anton Franzky, deceduto di sospetto colera al suo ritorno a Graz. Le autorità veneziane preferirono at167 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 167 08/10/20 09:49 tribuire il decesso a un’intossicazione da molluschi. In effetti non c’è brodo di cultura migliore del vibrione dei canali di Venezia dove si scaricavano allora (e si scaricano in gran parte ancora oggi) le feci. Venezia non ha mai avuto fognature. Quando nascosero il contagio del premier Il Primo ministro conservatore, Lord Salisbury, si era sentito male poco dopo aver lasciato Downing street ed essersi ritirato nella sua casa di campagna a Hatfield, dove avrebbe trascorso il Natale del 1889 con la famiglia. Il 27 avevano chiamato al suo capezzale il suo medico, fatto venire da Londra. Avevano informato la Regina Vittoria. Ma tennero deliberatamente nascosta la malattia ai giornali per diversi giorni. Si può supporre che non volessero allarmare la pubblica opinione, già sulle spine per le voci che correvano sull’arrivo di una micidiale, e misteriosa nuova influenza che stava mietendo migliaia di vittime. La notizia comparve sul “Times” solo il 1 gennaio, e in forma edulcorata, come si trattasse di un normale raffreddore. Diceva che il Primo ministro “è rimasto a letto per due giorni” e che nel pomeriggio del terzo c’era stato “un notevole miglioramento”. Avrebbero detto quasi la stessa identica cosa quando si prese il Covid Boris Johnson. Continuavano a tranquillizzare sulle sue condizioni di salute anche quando lo si dovette ricoverare. A quel punto la Gran Bretagna tremava all’idea che potesse contagiarsi (e magari morirne, dato l’età avanzata), anche la Sovrana. Victoria nel 1890 era ottantenne, Elisabetta nel 2020 era novantaquattrenne. Lord Salisbury si riprese. Anche se dovette trascorrere un mese intero prima che fosse in grado di riprendere la corrispondenza con la Regina. I premier britannici sono evidentemente di costituzione robusta e hanno buoni medici, specie quelli conservatori. L’influenza, che era originata in Russia (ma secondo alcuni giornali dell’epoca veniva invece dalla Cina, dal bacino del Fiume Giallo, dove c’erano state terribili inondazioni) passò, ma solo dopo aver infuriato per 168 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 168 08/10/20 09:49 ben tre ondate successive (nell’89, nel 91 e nel 92), e dopo che, nella sola prima ondata, si erano ammalati 4 milioni di britannici e ne erano morti 27.000 (125.000 se si tiene conto delle ondate successive). L’influenza “Russa” aveva fatto, nelle maggiori aree urbane dell’Inghilterra, più morti delle terribili epidemie di colera e vaiolo che avevano imperversato per tutto l’Ottocento. Il Times avrebbe notato che erano stati colpiti dall’influenza il doppio di britannici rispetto a quelli che avevano votato alle elezioni politiche. Era stata la prima pandemia virale davvero globale. Una prova generale per la Spagnola che avrebbe colpito una ventina d’anni dopo. Avrebbero potuto magari trarne qualche lezione, far tesoro di qualche esperienza. E invece, appena passata, la “Russa” fu quasi del tutto dimenticata. L’ho trovata in un articolo giovanile, di un decennio fa, di Mark Hongisbaum, diventato frattanto uno dei più autorevoli esperti britannici di storia delle pandemie. Ma mi pare che nessuno l’abbia ripresa al tempo del Covid, nemmeno lui a dire il vero. La Russa aveva con la Spagnola in comune parecchi sintomi, a cominciare dalle difficoltà a carico dell’apparato respiratorio. Ma anche stranezze, come le estese conseguenze neurologiche. Londra conobbe un’esplosione di “conseguenze nervose”, esaurimenti, psicosi, persino un aumento significativo dei suicidi. Le fonti dell’epoca riferiscono che la gente dava di matto, un po’ come scrivevano Tucidide della “peste” di Atene e Procopio di quella di Giustiniano. Non si sa che tipo di virus fosse, così come si sa poco della di poco successiva Spagnola. C’è chi ha ipotizzato che potesse trattarsi di uno dei rari virus che in qualche modo riescono a infilarsi nel sistema nervoso e vago, o addirittura superare la “barriera” che impedisce a batteri e virus di arrivare al cervello. Era una pandemia “moderna” ed egualitaria, non di quelle che si accanivano – come il tifo o il colera - quasi solo sulle classi subalterne, sugli operai e la feccia della società che abitava con scarsa igiene nei quartieri dissestati o malfamati. Questa mieteva vittime anche in alto luogo. Non risparmiava le celebrità, i ricchi, i nobili e i politici. Ne era morto l’arcivescovo di York. Si erano ammalati anche l’e169 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 169 08/10/20 09:49 rede al trono, il Principe di Galles, diversi esponenti del governo conservatore, e anche il leader dell’opposizione, Gladstone. Pare che il contagio privilegiasse e gli adulti in età produttiva, e i maschi, risparmiando le donne. Alcune occupazioni furono decimate: i medici, i postini, i guidatori di omnibus e tram, i primi ad essere infettati erano stati i controllori dei treni. Ne risentirono i servizi pubblici. Forse semplicemente il virus colpiva chi aveva più contatti. Ci furono anche pesanti conseguenze economiche: alcune delle banche più antiche e rispettate della City rischiavano di fallire, le salvò solo un’iniezione di aiuti governativi. Il panico che si voleva evitare censurando le notizie ci fu lo stesso. La gente era così allarmata che correva in ospedale ai primi sintomi. Naturalmente intasandoli. Dicevano, ricorda un medico: “Stamane sono andato al lavoro che stavo bene, ma poi verso le 11 mi sono sentito poco bene e ho dovuto staccare”. Sembra quel che racconta Boccaccio quando scrive che durante la peste di Firenze facevano colazione coi famigliari vivi, e cenavano con quelli defunti. Zitti per non danneggiare le vendite di Natale It’s the epidemics, stupid? Prima ancora che a Londra l’influenza russa era arrivata a Parigi. E non l’avevano presa sul serio. Era esplosa, già agli inizi di dicembre del 1889, tra i commessi e i clienti dei Grands Magasins du Louvre. La parola d’ordine iniziale è rassicurare, minimizzare (“si tratta di una normale grippe stagionale”, è benigna, passerà come sono passae tutte le altre influenze. La preoccupazione prevalente è non danneggiare le vendite natalizie. Sin dall’inizio la stampa parigina si divide. “Le Petit Journal” deride i toni allarmistici di alcune pubblicazioni concorrenti. “L’influenza… della stampa” ironizza un titolo del 13 dicembre. L’articolo deride la moda di chiamare con un termine esotico, l’italiano “influenza” un semplice malanno stagionale. Rassicura i lettori che, “malgrado l’agitazione 170 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 170 08/10/20 09:49 creata da giornali pronti a seminare panico”, non c’è nulla di cui preoccuparsi. Il giorno dopo pubblicano la lettera del direttore dei Grands Magasins du Louvre. Lamenta un calo della clientela dovuta all’impropria associazione “da parte di certa stampa, della nostra insegna con l’epidemia”. Ancora il 23 dicembre un editoriale si erge a difesa delle “3.000 vere vittime dell’influenza”, che sarebbero gli impiegati dei Grands Magasins, ingiustamente additati come “appestati”, i quali rischiano di perdere il posto di lavoro. Le Matin e La Presse invece sostengono che pubblico e responsabili dovrebbero preoccuparsi di più di quella che si sta trasformando in un’emergenza sanitaria. “I pericoli dell’influenza. L’epidemia si aggrava”, titola La Presse il 27 dicembre; “L’epidemia aumenta” ribadisce il 28, “Sempre l’influenza. Colpevole indifferenza dei Poteri”, rincara il 29. La Presse denuncia esperti e scienziati che trattano con leggerezza un’epidemia che in poche settimane “ha già fatto 200.000 vittime a San Pietroburgo”. Si intervistano gli esperti. Il 13 dicembre L’Echo de Paris riesce a intervistare Louis Pasteur. L’intervista è breve, pare che Pasteur fosse anche lui influenzato. Il celebre scienziato non si espone. Alle domande su quale tipo di germe ritiene sia responsabile della nuova epidemia risponde: “Ve l’ho già detto, non si sa… bisogna cercare…”. Il dottor Adrien Proust, ispettore generale dei Servizi d’Igiene (sì, è il padre di Marcel, dell’autore della Recherche) intervistato da L’Eclair, sostiene di aver appreso dell’epidemia in Russia solo dai giornali, non dalle autorità governative, e invita a prestare la stessa vigilanza che per il colera, la peste o la febbre gialla. Gli contrappongono altri esperti i quali sostengono che invece non ci sarebbe nulla per cui allarmarsi. Le statistiche, sostengono, dimostrerebbero che tassi di contagio e mortalità sarebbero bassi. A fine anno le Pompe le funebri parigine non riescono più a smaltire i decessi. Sono colpite le scuole e le caserme. Nella sola Parigi si registrano oltre 3.000 contagi al giorno. Muoiono i vecchi. Il dottor Proust presenta al governo un rapporto in cui conferma l’aggravarsi della situazione, attira 171 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 171 08/10/20 09:49 l’attenzione sull’eccezionalità del nuovo contagio, fa notare che, se anche si trattasse di un normale influenza, presenta gravi complicazioni, speso mortali, per i soggetti più fragili. Quasi lo linciano, con argomenti che ricordano quelli usati dai negazionisti contro Fauci, Ferguson e gli esperti che invitavano a non prendere sottogamba il Covid. Qualche giornale pubblica vignette in cui si insinua che l’epidemia sia un’invenzione di medici e farmacisti, desiderosi di incrementare le proprie entrate. La Francia attraversa un momento politico delicato. È appena fuggito in Belgio, inseguito da accuse di golpismo e malversazioni finanziarie, il generale Georges Boulanger, fondatore di un movimento populista che vorrebbe cambiare la Repubblica fondata sul “parlamentarismo corrotto”. Si dicono né di sinistra né di destra. La loro parola d’ordine è “pane e popolo”. Tuonano contro la grande finanza. Vogliono un “governo forte”, il loro. Hanno avuto un notevole successo alle ultime elezioni. I loro deputati sono stati eletti metà con l’appoggio degli elettori monarchici, l’altra metà con l’appoggio degli elettori che prima votavano per la sinistra. Guarda caso, i giornali più scatenati nel negare l’epidemia, e criticare i provvedimenti per arginarla, sono quelli di destra, o legati al movimento boulangista, in quel frangente all’opposizione. Salvo ricredersi, e accusare il governo di non aver fatto nulla quando l’epidemia non si può più negare. “La Presse” è addirittura diretto da un deputato ex fedelissimo di Boulanger. Qualcosa del genere si sarebbe verificato, un ventennio dopo, attorno all’epidemia di spagnola. Prima negavano, anche perché si era in guerra e le notizie di epidemia avrebbero minato i morale delle truppe e della nazione. Poi attribuivano la colpa della diffusione del morbo ai nemici, e ai loro agenti all’interno. Secondo lo storico Zeev Sternhell, il boulangismo francese, aveva anticipato quel mix di nazionalismo, antiparlamentarismo, autoritarismo e populismo che nel secolo successivo avrebbe dato vita al fascismo. Il ruolo avuto dalla Grande influenza del 1918 sarebbe ancora tutto da studiare ed accertare. La sinistra di allora a 172 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 172 08/10/20 09:49 dire il vero non prestò attenzione a questo aspetto. Non aveva voglia o tempo di occuparsi di epidemie. Mi ha incuriosito uno Staff report della Federal Reserve Bank di New York a firma Kristian Blickle pubblicato il 20 maggio 2020, in piena pandemia Covid. Si intitola Pandemics Change Cities: Municipal Spending and Voter Extremism in Germany, 1918-1933. Suggerisce, con una profusione di dati alla mano, che la spagnola, con le sofferenze inflitte alla popolazione, e a causa delle difficoltà finanziarie che avevano impedito alle amministrazioni locali di svolgere appieno il loro ruolo di assistenza, ebbe conseguenze rilevanti nell’ allontanare nei primi anni trenta l’elettorato tedesco dalla democrazia di Weimar e spingerlo verso i partiti estremisti, in particolare quello nazionalsocialista di Hitler. It’s the epidemics, stupid? Una breccia nella Muraglia cinese Il caso più clamoroso di iniziale censura, e di gravi ritardi nel darne notizia e prendere le misure necessarie, è Wuhan. L’oftalmologo Ki Wenliang, il medico che aveva rotto il silenzio imposto dalle autorità, e pubblicato già il 20 dicembre 2019 online sulla piattaforma cinese WeChat un messaggio in cui avvertiva della presenza di un nuovo virus che produceva gravi e mortali insufficienze respiratorie era stato arrestato per “diffusione di informazioni false via internet”, assieme ad altri otto colleghi che avevano inoltrato i suoi messaggi. Liberato dopo che era diventato insostenibile che le sue informazioni fossero false, e tornato a lavorare all’Ospedale centrale di Wuhan, era stato infettato ed era deceduto di Covid il 7 febbraio 2020. In questo caso la novità non è che in Cina si censurino le notizie. Questo succede da sempre, da millenni Succede per le notizie che hanno valenza politica, ma anche per le notizie notizie. La Cina fu l’unico paese al mondo in cui non venne data notizia dell’atterraggio di un volo umano sulla luna. Si rimediava (e si rimedia ancora) con il passa173 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 173 08/10/20 09:49 parola. La figlia di Deng Xiaoping ha raccontato di quando l’intera famiglia era detenuta in un campo di rieducazione attraverso il lavoro e suo padre infoIl sogno del villaggio dei Dingrmò silenziosamente sua madre tracciandole col dito dei caratteri sul palmo della mano: “Lin Piao è morto”. Segreto di Stato è tutto quello che non è confermato dalle fonti ufficiali: credo che sia questa la definizione a cui ancora si ispira il codice penale. La violazione una volta poteva essere punita con la pena di morte. Vale anche per le catastrofi naturali. Un’amica, allora studentessa in Cina, ricorda che quando ci fu il terremoto a Tangshan, nel Nord-est (250 mila morti) si trovano a Wuhan, fu sorpresa che dall’Italia la chiamassero per sapere se stava bene. A Wuhan nessuno diceva niente, non sapevano nemmeno che ci fosse stato un terremoto. A differenza che a Pechino, dove le scosse erano state avvertite, nel resto della Cina non erano stati informati, i giornali tacevano, non c’erano ancora internet e cellulari. La Banda dei quattro pagò la censura, e la spaventosa inefficienza dei soccorsi con la rimozione, resa possibile dal fatto che poche settimane dopo era morto il loro protettore Mao. Xi Jinping rischiava (e forse rischia ancora grosso, la faccenda ha e continuerà probabilmente ad avere pesanti ripercussioni internazionali). Se l’è cavata addossando ogni responsabilità sulle autorità locali. È stato raccolto in volume, e tradotto anche in italiano il blog quotidiano che la scrittrice Fang Fang ha tenuto nei giorni del Covid. Si intitola Wuhan: Diari da una città chiusa. Si presterebbe ad una lettura comparata con a fronte i diari di Daniel Defoe e di Samuel Pepys sulla peste di Londra di quatto secoli prima. Registra l’altalena quotidiana di paure e speranze, disperazione e sollievo nei settantasei giorni di lockdown totale. Nel pieno della crisi il blog aveva raggiunto 380 milioni di visualizzazioni su Weibo, il google cinese. Come Defoe e come Pepys l’autrice non è irrimediabilmente critica nei confronti del governo. Come lo è invece il suo collega e maggiore sostenitore, il pechinese Yan Lianke, il quale è giunto a sostenere che la propaganda e la disinformazione 174 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 174 08/10/20 09:49 sono peggio del virus. Yan dice di temere che ci si dimentichi di Wuhan e del Covid, come ci si è presto dimenticati del Sars e di altre mille storie atroci, come quella che lui racconta nel suo romanzo più noto, Il sogno del villaggio dei Ding, dove tutti si sono ammalati di Aids, a causa dell’avidità e noncuranza dei trafficanti di sangue e delle autorità che li hanno lascati fare chiudendo entrambi gli occhi. Come Defoe e Pepys, Fang Fang racconta invece del quotidiano, anche delle piccole cose ad esempio del come procurarsi vettovaglie e mascherine, insomma anche della lista della spesa. Ma almeno non hanno chiuso i tabaccai Un testimone vero, non immaginario come Defoe, è Samuel Pepys, che tenne un Diario stenografato dal 1660 al 1669. Nella versione “abbreviata” pubblicata nei Penguin Classics occupa milleseicento pagine in caratteri piccoli. Durante la Grande peste del 1665, Defoe aveva appena cinque anni. Pepys, che aveva sfollato in campagna la famiglia ma era rimasto a Londra a causa dei suoi impegni all’Ammiragliato (l’Inghilterra era in guerra con l’Olanda, e lui era anche un membro del Parlamento), e forse anche a curare i suoi affari privati, trovò ugualmente il tempo di annotare tutto e di tutto, giorno e notte. C’è chi ha osservato: era un blogger instancabile. È oggetto di controversia, tra gli addetti ai lavori, se tra le fonti di Defoe ci fossero anche i Diari di Pepys. Pare di no, furono decifrati e pubblicati assai più tardi. Ma qualcuno ha scoperto che Defoe conosceva e frequentava la persona che li aveva in custodia. Le avvisaglie del contagio si hanno sin dalla primavera. Ma ancora in aprile, benché senta il diffondersi di “una gran paura nella City”, può compiacersi di come gli stanno andando bene gli affari: “Finisco il mese molto soddisfatto di come stanno andando le cose per il mio patrimonio”. Poi comincia ad accorgersi che le cose si stanno mettendo male, quando trova che due dei suoi pub preferiti sono stati chiusi all’improvviso, con le finestre inchiodate. Altri pub rimane175 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 175 08/10/20 09:49 vano aperti, ma furono bloccate le licenze per nuovi locali. Pepys nota la chiusura delle scuole, e anche delle Università di Oxford e Cambridge (tra gli studenti rimandati a casa, nel suo caso non in città manella residenza di campagna della famiglia, c’era un tale Isaac Newton; l’insegnamento a distanza si rivelò estremamente produttivo, gli consentì di concentrarsi sul calcolo infinitesimale). Certo Pepys è dispiaciuto nell’apprendere che il cameriere che lo serviva “ha dovuto seppellire il suo bambino e sta morendo lui stesso”, che uno dei lacchè che aveva mandato in campagna, ad avere notizie dei suoi, è morto di peste, che il suo acquaiolo, che gli portava l’acqua fresca tutti i giorni, “si è sentito male appena fatta la consegna venerdì scorso”, e poi è morto. Certo gli fa impressione sentire che il cocchiere (di vetture a noleggio, in pratica il suo tassista) che “guidava così bene” sta male, e a malincuore decide di noleggiare un’altra vettura, “col cuore pesante per il poveretto”. Aggiungendo immediatamente (Pepys è onesto, scrive per se stesso, non per un pubblico): “E anche per me stesso, a pensare che [proprio il suo cocchiere] poteva avere la peste”. Ma è più interessato al suo abito nuovo. Lo irrita che non piaccia alla moglie. La spedisce in quarantena da un amico fuori città (trova l’occasione di togliersela di torno “molto opportuna”). Quindi esce, “per sfoggiare il mio nuovo abito”. In giugno è chiaro che non c’è da stare granché allegri, gli secca, ma non più di tanto che siano chiusi tutti i teatri (riapriranno solo l’anno successivo), ma soprattutto gli fa gran pena andare in Borsa e vedere che in giro non c’è più nessuno, anche se per sua fortuna, come avvenne anche da noi durante l’intero lockdown, i tabaccai restano aperti: 7 giugno 1665. Oggi controvoglia sono passato da Drury Lane e ho visto molte case con la scritta ‘Signore abbi pietà di noi’ sotto una croce rossa. È uno spettacolo triste, è il primo di questo tipo in cui mi sono imbattuto! Mi sentivo soffocare e non avevo neanche il coraggio di respirare a pieni polmoni. Perciò ho acquistato tabacco da masticare e così le mie paure si sono un po’ calmate... 176 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 176 08/10/20 09:49 Poi, tra luglio e agosto, la situazione precipita, in rapida progressione. Immancabilmente, la cosa che gli fa più impressione sono i funerali, le bare, il crescere percepibile del numero dei morti. È la prima cosa che notano tutti: da Tucidide, a Boccaccio, a chiunque abbia scritto di una pandemia letale. Anche da noi il punto psicologico di svolta si è verificato quando al telegiornale si sono visti per le vie di Bergamo i cortei di autocarri militari che trasportavano nottetempo le bare che non trovavano più posto nei cimiteri locali. Io invece a Roma potevo stare tranquillo: giusto sotto casa, tra i cipressi di viale Mazzini, avevano messo un enorme tabellone pubblicitario con la scritta cubitale: “C’è chi bara e chi non bara”. Più sotto si spiegava che la ditta Tal dei Tali offriva ai propri clienti il feretro gratis, o, per dire più correttamente, compreso nel prezzo. Dopo un po’ l’hanno tolto. Non so se le bare andassero a ruba. Ma torniamo a Pepys. Anche a lui fa impressione il crescere delle sepolture. Non è che i morti li stia a contare, come avrebbe poi fatto Defoe, e come facevano ogni sera alla televisione. Pepys lo deduce da quando si seppelliscono: se lo si fa alla luce del giorno, non significa certo che hanno smesso di nascondere la reale portata della morìa, vuol dire che ormai i decessi sono tanti e che non c’è verso di nasconderli: “Il tasso di mortalità è così alto che i morti non vengono più seppelliti di notte, come avveniva in precedenza ma anche durante il giorno. Mylord [il sindaco di Londra] ha disposto che tutte le persone sane devono ritirarsi in casa entro le 9 per consentire ai malati di uscire a prendere aria”. E poi ancora: 16 agosto 1665. Oh mio Dio, che tristezza vedere le strade della città diventate deserte! Ogni casa, Ogni porta chiusa induce a sospettare. Sono chiusi due negozi su tre. […] 30 agosto 1665. Ho incontrato il nostro commesso: gli ho chiesto aggiornamenti e mi ha fatto sapere che l›epidemia si diffonde sempre più anche nella nostra zona dove sono morte 9 persone benché solo 6 siano state dichiarate ufficialmente: un fatto, questo, assoluta177 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 177 08/10/20 09:49 mente deprecabile perché la gente non realizzerà la gravità dell›infezione se si continua a tenere nascoste le cifre reali. […] 14 settembre 1665. Ho attraversato un ponte perché l›epidemia ha fatto molte vittime nei dintorni, e sono giunto alla Borsa. Era stranamente affollata. Ho fatto fatica a mantenermi celato e a cercare di parlare con meno persone possibili. Ormai le prescrizioni sulla chiusura delle case infette non vengono più rispettate. E così c’è il rischio di fermarsi a parlare con persone già ammalate […].[...]” A settembre il numero dei morti sale a settemila la settimana. Nel giro di sette mesi perisce un quarto della popolazione. Qualcuno ha osservato: come se nell’anno del Covid morissero a New York quattro milioni di persone. Ma, se può consolare, nel giro di un paio d’anni si erano ripresi. Pepys non è un sentimentale. È un uomo pratico. Non smette nemmeno un istante di pensare ai propri affari. Che continuano, malgrado tutto, ad andare sorprendentemente bene: 31 dicembre 1665. L›anno termina in maniera molto positiva da questo punto di vista: in questo anno ho aumentato il mio capitale da 1400 sterline a 4400 […] abbiamo avuto un periodo tremendo a causa dell›epidemia che mi ha anche cagionato grosse perdite di denaro per aver dovuto mantenere la famiglia fuori Londra […]. Ma mi auguro che il re vorrà prendere la cosa in considerazione [accordando una facilitazione fiscale]. Ora l›epidemia pare completamente eliminata. Io spero di ritornare definitivamente a Londra al più presto […] la città con nostra grande soddisfazione si sta di giorno in giorno ripopolando, e i negozi riaprono […]. Ma non è mai il caso di festeggiare troppo presto, soprattutto non porta bene. La seconda ondata è sempre in agguato. E in genere bussa sempre una seconda volta. Nel Diario di Pepys arriva già prima che finisca l’inverno, la doccia fredda è già nella entry del 13 febbraio 1666: “Nel pomeriggio mi sono recato all’Exchange [la Borsa], poi a pranzo dallo sceriffo […] pare che la pestilenza si stia rinfocolando e che ne siano colpite molte zone della città […]”. Niente di peggio che ricominciare tutto da capo. 178 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 178 08/10/20 09:49 Il postino suona sempre due volte La seconda ondata si rivela anche peggio della prima. Nel 1666 re Carlo II è costretto a emanare un’ordinanza che proibisce ogni genere di assembramento, compresi i funerali. Il postino suona sempre due volte. E la seconda, talvolta, più forte della prima. Tutte le grandi pandemie, dalla peste di Atene di cui scrive Tucidide in poi, bussano almeno due volte, o anche più. L’influenza di “spagnola” del 1918 ebbe almeno tre picchi. Il contagio torna quasi subito, non appena si festeggia lo scampato pericolo, si riformano assembramenti e riprende la vita di sempre, oppure molto più in là, magari a anni di distanza. Cosa dovevamo aspettarci per il Covid? 179 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 179 08/10/20 09:49 5. Untori e negazionisti incredibiLe indifferenza “Ma […] ciò che fa nascere un›altra e più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All’arrivo di quelle nuove de› paesi che n›erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città quasi un semicircolo, in alcuni punti distante da essa non più di diciotto o venti miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla. La penuria dell’anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d’animo, parvero più che bastanti a render ragione della mortalità: sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de’ decurioni, in ogni magistrato.” Alessandro Manzoni, I promessi sposi, capitolo XXI (1840) 180 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 180 08/10/20 09:49 L’è un’invenzione deL governo “El popol, che l’è popol in eterno, el comenza a negà, ch’el maa el ghe sia: disen: L’è on borridon del nost Governo per srarì on poo i pitoch de Lombardia!” Libera traduzione: il popolo, che sempre popolo è, comincia a negare che il colera esista: dice che è un’invenzione del nostro governo per sfoltire un po’ di poveri. Giovanni Rajberti, El cholera e i medegh de Milan, 1836 sosPetti gLi itaLiani deL continente “Per colmo di sventura si propagava ogni di più e metteva radici profonde nel popolo l’antica superstizione che il colèra fosse effetto di veleni sparsi per ordine del governo […] ogni provvedimento aveva il colore d’un attentato, in ogni ordine si sospettava una mira scellerata, da ogni menomo indizio si traeva argomento a conferma del veneficio, in ogni nonnulla se ne vedeva una prova. Gli ospedali, le disinfezioni, le visite dei pubblici officiali, tutto era oggetto di diffidenza, di paura, di abborrimento. I poveri non si risolvevano a lasciarsi trasportare negli spedali che nei momenti estremi, quando ogni cura riusciva inefficace. Morivano la più parte, e per ciò appunto si credeva più fermamente dal volgo che le medicine fossero veleni, e i medici assassini. Preferivano morire abbandonati, senza soccorsi, senza conforti. Non credevano al contagio […] e però abitavano insieme alla rinfusa sani ed infermi, famiglie numerose in angusti e immondi abituri. Eran sospetti di veneficio tutti gli agenti della forza pubblica, i carabinieri, i soldati, i percettori delle dogane, gli officiali governativi. In alcuni paesi della Sicilia era sospetto di avvelenamento qualunque italiano del continente; in qualche luogo tutti indistintamente gli stranieri erano sospetti. Si spargevano e si affiggevano per le vie proclami sediziosi, eccitanti alla vendetta ed al sangue. Tratto tratto le popolazioni 181 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 181 08/10/20 09:49 armate di falci, di picche, di fucili, si assembravano, percorrevano tumultuosamente le vie del paese cercando a morte gli avvelenatori; minacciavano o assalivano le caserme dei carabinieri e dei soldati; irrompevano nelle case dei medici, e le mettevano a sacco; si gettavano nelle farmacie e vi distruggevano e disperdevano ogni cosa; invadevano l’ufficio del comune, laceravano la bandiera nazionale, abbruciavano i registri e le carte; costringevano le guardie nazionali a batter con loro la campagna in traccia degli avvelenatori; andavano a cercarli nelle case; credevano d’averli rinvenuti, li costringevano coi pugnali alla gola a immaginare e confessare dei complici, li trucidavano, ne straziavano i cadaveri e li abbruciavano nelle vie e nelle piazze del paese. Intere famiglie, accusate di veneficio, venivano improvvisamente aggredite di notte da turbe di popolani, e vecchi, donne, bambini cadevano sgozzati gli uni ai piedi degli altri senza aver tempo di scolparsi o di supplicare; si ardevano le case e se ne disperdevano le rovine. A Via Grande, a Bel passo, a Gangi, a Menfi, a Monreale, a Rossano, a Morano, a Frassineto, a Porcile, nel Potentino, nell’Avellinese, in cento altri luoghi, continui assembramenti e ribellioni e delitti orrendi di sangue.” Edmondo de Amicis, La vita militare, capitolo “Durante il colèra del 1867” cQua da noi nun ce viè, siPPuro è vvera “Bbasta, o sse1 chiami còllera o ccollèra, io sce ggiuco la testa s’un baiocco che sta pidemeria sarvo me tocco, cqua da noi nun ce viè, sippuro è vvera. Nun zentite l’editto? che cchi spera ne la Madon de mezz’agosto è un sciocco si nn’ha ppavura? E cce vò ddunque un gnocco, sor Marchionne, a accorasse in sta maggnera. Disce: ma a Nninza fa ppiazza pulita. 182 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 182 08/10/20 09:49 Seggno che cqueli matti mmaledetti nun ze sanno avé ccura de la vita. S’invesce de cordoni e llazzaretti se sfrustassino er culo ar Caravita, poteríano bbruscià ppuro li letti. Giuseppe Gioacchino Belli , Er còllera mòribbus, Convezzazzione a l’osteria de la ggènzola indisposta e ariccontata co ttrentaquattro sonetti, e tutti de grinza (4 agosto 1835) L’asino esPiatorio Un male terribile, fatale, che il Ciel forse inventò per castigar le colpe della terra, un mal pien di spavento capace, se va bene, d’empire i cimiteri in un momento, la Peste insomma - dirla pur conviene faceva agli animali tanta guerra, che morivan colpiti a cento a cento. Nessuno ormai voleva curarsi d’una vita orrida troppo; ogni cibo faceva fastidio e groppo, e lupi e volpi ciaschedun viveva le mani e i piedi in mano; fuggian le tortorelle per dispetto, fuggia l’Amor lontano e fuggia coll’Amor ogni diletto. Allor tenne il Leone un gran consiglio, e disse: – Amici miei, poiché davanti al Ciel tutti siam rei di colpe, ed è perciò che ne castiga, 183 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 183 08/10/20 09:49 per toglierci di briga, ecco, direi che quei che ha più peccato nella sua vita, sia sacrificato. Il suo sangue (e la storia ci dimostra che più volte giovò l’espediente) forse otterrà la guarigione nostra. Facciamo orsù l’esame di coscienza fratelli, e confessiam senza indulgenza i fatti nostri. Già per parte mia confesso che provai ghiottoneria di molti agnelli, poveri innocenti, e che mi venne fatto per errore di mangiar qualche volta anche il pastore. Io son pronto a scontar colle mie vene le colpe mie, se farlo oggi conviene, ma prima ciaschedun con altrettanta sincerità confessi, onde il più reo colla sua vita paghi il giubileo. – Sire, – disse la Volpe, – un sì buon re al mondo come voi forse non c’è. Che scrupoli son questi, Maestà, per quattro canagliucce di montoni? Non vedo che vi possa esser peccato a mangiar questa razza di minchioni. No, no, signor, anzi fu un grande onore a ognun d’essi il sentirsi rosicchiato dai vostri denti. In quanto a quel pastore, meritava di peggio in verità, visto ch’egli osa il titolo di re vantar sopra le bestie, e non gli va –. A questo dir scoppiar grandi gli applausi tra i cortigiani. In quanto ai Tigri, agli Orsi e agli altri illustri poi non si cercò 184 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 184 08/10/20 09:49 il pel nell’ovo e i minimi trascorsi, dal più ringhioso all’ultimo dei cani per poco non sembrarono al capitolo dei santi a cui si può baciar le mani. S’avanza in fine a confessarsi l’Asino contrito in cor, e confessando il vero, narra che un giorno, andando nel fresco praticel d’un monistero, o fosse tentazione del demonio, o fame o gola di quell’erba tenera, brucò dell’erba (e fu cosa rubata per essere sincero), ma ne prese soltanto una boccata. Udito ciò, gridarono anatèma quei santi padri al povero Asinello. Un Lupo, intinto di teologia, sorto a parlar sul tema, mostrò che la cagion della moria venìa da questo tristo spelacchiato, che per il suo malfare bisognava che almen fosse impiccato. Mangiar dell’erba altrui…! ma si può dare azione più nefanda? La morte era una pena troppo blanda per espiar sì orribile misfatto. E come disse il giudice fu fatto. Della giustizia quando siede al banco, sempre il potente come giglio è bianco, ma se a seder si pone il poveraccio, è un sacco di carbone.” Jean de la Fontaine, Fables: “Les animaux malades de la peste”, nella traduzione ottocentesca di Emilio De Marchi. 185 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 185 08/10/20 09:49 La prima reazione è negare che la pandemia ci sia. Negano le autorità. Nega la gente, nega quel che chiamano “il popolo”. Negano per convinzione, o perché qualcuno ha interesse a convincerli. Negano perché non sanno. O negano appunto perché sanno. Negano per incoscienza, negano per comodità (o piuttosto per non essere scomodati), negano per viltà, o negano per calcolo. Quando il contagio ormai già imperversa, non si può più negare, si cerca e si inventa il colpevole, si passa ai pogrom, alla caccia alle streghe e all’untore. Manzoni è tra quelli che raccontano bene il meccanismo. All’inizio l’indifferenza delle autorità, che hanno ben altro a cui pensare in quel momento (la guerra, l’economia, le nomine, le lotte interne alla nomenclatura, la necessità di ingraziarsi il potere centrale). Non vogliono essere distratti da un altro grattacapo. Poi l’insipienza dei medici e degli esperti che si guardano bene dall’indisporre le autorità. E, peggio ancora, “ragion di più forte maraviglia” l’indifferenza, più ancora dell’incredulità, della gente comune, di coloro che non sono stati ancora toccati dal contagio ma avrebbero più ragione di temerlo. Le autorità sanitarie milanesi mandano a informare il governatore, la più alta autorità in loco, che risponde direttamente a Madrid. “V›andarono, e riportarono: aver lui di tali nuove provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser più pressanti: sed belli graviores esse curas. […] Due o tre giorni dopo, il 18 di 186 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 186 08/10/20 09:49 novembre, emanò il governatore una grida, in cui ordinava pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d›un gran concorso, in tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato parlato di nulla”. Povero marchese Ambrogio Spinola, così maltrattato dal Manzoni e (forse appena un po’ meno) dalla storia! Provate a mettervi nei panni di chi aveva l’ingrato compito di riferire del coronavirus a Xi Jinping a Pechino, a Trump alla Casa Bianca, a Putin al Cremlino, all’Ak Saray di Erdogan ad Ankara, a Bolsonaro al Palácio da Alvorada e al 10 di Downing Street occupato da Boris Johnson. Se non se ne curano in alto loco, figurarsi che glie ne può importare a quelli su cui ricade l’incomodità (e il costo) delle misure che andrebbero adottate. Senza contare che (meraviglia un po’ la maraviglia di Manzoni su questo) chi non ha avuto ancora la peste (o il Covid o qualsiasi altra diavoleria) tende a ritenere che la cosa non lo riguardi, è istintivamente portato a ritenersi immune (se non mi è capitato sinora perché dovrebbe capitarmi ora), a considerarlo un problema altrui, di quelli che, sfortunati loro, ci sono cascati. Salvo prendersi una strizza pazzesca quando gli tocca, viene il loro turno. La pima reazione quindi non è la paura. È l’incredulità. Un’incredulità dal basso, che si accompagna, anzi viene incoraggiata da un’incredulità dall’alto (come succede per un’infinità di malanni storici, il “sovversivismo” ad esempio, per dirla con Gramsci, o il disprezzo delle legge o delle tasse). La peste non esiste. Se esiste non mi tocca. Se la sono inventati per farci paura, per spillarci soldi, e così via… Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s›attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de› casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de› pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di pe187 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 187 08/10/20 09:49 ste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso. Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci pervenivano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl›ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s›ebbero, con danari, falsi attestati. Guai a chi dice che c’è un problema L’immunologo Anthony Fauci, che è a capo della Task force Usa contro il Covid e il professor Neill Ferguson, che ha diretto il rapporto dell’Imperial College di Londra che avvertiva di non prendere sottogamba il Covid hanno un predecessore nei Promessi Sposi: il Protofisico (Medico capo) Lodovico Settala. Per poco lo linciavano, benché fosse già quasi ottuagenario. Ecco come la, racconta Manzoni: Un giorno che andava in bussola [portantina] a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa d›amici, che per sorte era vicina. Questo gli toccò per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone. Salvo poi rifarsi in popolarità quando liscia il pelo al populismo peggiore, agli istinti peggiori: quando sposa la teoria che i responsabili della peste siano gli untori, o “[…] quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei, allora ne avrà avuta presso il pubblico nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile a pensare, nuovo titolo di benemerito”. 188 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 188 08/10/20 09:49 La gente era infastidita che per far fronte alla peste il tribunale “ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al Lazzaretto”, che gli si proibissero assembramenti, chiudessero le osterie, gli si limitasse la libertà di movimento. Infastidita non è la parola giusta, bisognerebbe dire piuttosto inferocita, “persuasi, com’eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, senza costrutto”. C’è, come vedremo meglio nel capitolo seguente, una strana maledizione che pesa sui medici. Anche durante la peste di Milano, se dobbiamo credere al Manzoni, “l›odio principale cadeva sui medici”: […] a tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello, d›affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d›incontrare ostacoli dove cercavano aiuti, e d›essere insieme bersaglio delle grida, avere il nome di nemici della patria: pro patriae hostibus, dice il Ripamonti. Di quell›odio ne toccava una parte anche agli altri medici che, convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di credulità e d›ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento. Finché anche i più caparbi negazionisti sono costretti ad ammettere che la peste esiste davvero e non è cosa da prendersi alla leggera. Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra› poveri, cominciò a toccar persone più conosciute. E tra queste, come allora fu il più notato, così merita anche adesso un›espressa menzione il protofisico Settala. Avranno almen confessato che il povero vecchio aveva ragione? 704 Chi lo sa? Caddero infermi di peste, lui, la moglie, due figliuoli, sette persone di servizio. Lui e uno de› figliuoli n›usciron salvi; il resto morì. 189 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 189 08/10/20 09:49 Certo cambiano le percezioni quanto capita a te, a qualcuno della tua famiglia, “a persone più conosciute”. Boris Johnson ha cambiato atteggiamento da quando è finito in terapia intensiva. Non si fida più dell’”immunità di gregge”, non liquiderebbe più la faccenda con un cinico: “Dobbiamo abituarci a perdere qualcuno dei nostri cari (sottinteso: qualche vecchietto). Forse ha cambiato idea Silvio Berlusconi. La cambierebbe forse anche Matteo Salvini, così allergico alla mascherina (lo si è sentito dire persino: mia figlia a scuola non la mando se la obbligano a mettere la mascherina”). Ma torniamo al Manzoni: “Questi casi […], occorsi nella Città in case Nobili, disposero la Nobiltà, et la plebe a pensare, et gli increduli Medici, et la plebe ignorante et temeraria cominciò stringere le labra, chiudere li denti, et inarcare le ciglia”. Il guaio è però che a quel punto si fa strada un’altra favola, quella della “peste manufatta”, del contagio diffuso ad arte da perfidi e diabolici nemici. “Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que› mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un grand›inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse messa in campo. Per disgrazia, ce n›era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d›Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe”. È la favola degli untori. Antica quanto sono antiche le epidemie e i racconti sulle epidemie. La si è rivoltata nel corso dei secoli, anzi dei millenni, in tutte le maniere. La caccia ai colpevoli è permanente. Qualcuno è accusato più frequentemente di altri. Si va dalle interpretazioni a rovescio delle piaghe d’Egitto, che sono antiche quasi quanto lo è la Bibbia (altro che fuga e liberazione dalla schiavitù, gli Ebrei furono 190 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 190 08/10/20 09:49 cacciati dal Faraone perché infettavano gli Egiziani!), ai massacri di ebrei durante la Peste nera perché li si accusava di avvelenare i pozzi, alla parabola nazista che giustificò l’Olocausto: sono loro, gli Ebrei, la Peste in persona. Ben che andasse gli davano dei “gufi”. Judenfieber, febbre giudaica veniva chiamato il tifo, e forse non è un caso che per sterminarli poi usarono il Zyklon B, ritrovato che originariamente doveva servire ad eliminare i pidocchi, portatori di tifo. Anche gli Armeni erano stati indicati, durante i massacri del 1915-19, come portatori di tifo. Ma almeno in un caso lo stigma di infetti, portatori di contagio, fu salvifico. E non si tratta nemmeno di una favola. Quando nell’ottobre 1943 i nazisti occupavano Roma ed erano già in corso le retate nel Ghetto, un medico dell’Ospedale Fatebenefratelli, sull’antistante Isola Tiberina, Adriano Ossicini, e il suo primario Giovanni Borromeo, con la complicità anche di altri operatori sanitari, inventarono il reparto per gli ammalati del “morbo di K”. K stava per l’iniziale di Kesselring, il comandante supremo delle armate tedesche in Italia, o forse per Kappler, il responsabile della Gestapo a Roma. I ricoverati erano ebrei e altri ricercati in fuga. Funzionò. I tedeschi si guardarono bene dall’ispezionare il reparto dove erano ricoverati i degenti che le false cartelle cliniche indicavano come colpiti da quella malattia “contagiosissima”. La favola dell’untore continua ad essere propagata anche ai giorni nostri, e ovviamente non solo contro gli Ebrei. Il Covid si è accompagnato, almeno all’inizio, alla caccia ai Cinesi un po’ ovunque nel mondo, e ci sono stati episodi di caccia agli Africani in Cina. Gli Indù hanno dato la caccia ai musulmani in India, mentre in Pakistan se la prendevano con i non musulmani. Ogni volta che si diffonde una nuova epidemia scatta la caccia agli “stregoni” in Africa (o ai bianchi, non fa una così grande differenza, il principio è lo stesso, tranne che viene notato di più). È aperta quasi ovunque la caccia all’untore straniero, specie all’untore immigrato, e il Cielo ce ne guardi, dall’immigrato clandestino. Anche in Italia, come se il virus non si diffondesse altrettanto, anzi peg- 191 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 191 08/10/20 09:49 gio, da italiano ad italiano. Salvo offendersi se sono gli altri ad applicare restrizioni a noi. Tre gattoni sul comò Manzoni, che è un grande narratore, non resiste a riferire un paio delle favole che circolavano. Ecco la prima: Tra le storie che quel delirio dell’unzioni fece immaginare, una merita che se ne faccia menzione, per il credito che acquistò, e per il giro che fece. Si raccontava, non da tutti nell’istessa maniera (che sarebbe un troppo singolar privilegio delle favole), ma a un di presso, che un tale, il tal giorno, aveva visto arrivar sulla piazza del duomo un tiro a sei, e dentro, con altri, un gran personaggio, con una faccia fosca e infocata, con gli occhi accesi, coi capelli ritti, e il labbro atteggiato di minaccia. Mentre quel tale stava intento a guardare, la carrozza s›era fermata; e il cocchiere l›aveva invitato a salirvi; e lui non aveva saputo dir di no. Dopo diversi rigiri, erano smontati alla porta d›un tal palazzo, dove entrato anche lui, con la compagnia, aveva trovato amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale; e in esse, fantasime sedute a consiglio. Finalmente, gli erano state fatte vedere gran casse di danaro, e detto che ne prendesse quanto gli fosse piaciuto, con questo però, che accettasse un vasetto d›unguento, e andasse con esso ungendo per la città. Ma, non avendo voluto acconsentire, s›era trovato, in un batter d›occhio, nel medesimo luogo dove era stato preso. Gli serve probabilmente, nell’economia del romanzo, per alleggerire uno capitolo un po’ arido. Ma anche per dir bene di un personaggio dell’epoca cui lui tiene: il cardinale Federigo Borromeo. Eccola: Questa storia, creduta qui generalmente dal popolo, e, al dir del Ripamonti, non abbastanza derisa da qualche uomo di peso (Apud prudentium plerosque, non sicuti debuerat irrisa), girò per tutta Italia e fuori. In Germania se ne fece una stampa: l›elettore arcivescovo di Magonza scrisse al cardinal Federigo, per domandargli cosa si dovesse credere de› fatti maravigliosi che si raccontavan di Milano; e n›ebbe in risposta ch›eran sogni. 192 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 192 08/10/20 09:49 Ed ecco la seconda favola, o secondo sogno che dir si voglia: Ma ciò che reca maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che fin da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino, il quale l›aveva pronosticata, vista entrare, tenuta d›occhio, per dir così, nel suo progresso, il quale aveva detto e predicato che l›era peste, e s›attaccava col contatto, che non mettendovi riparo, ne sarebbe infettato tutto il paese, vederlo poi, da questi effetti medesimi cavare argomento certo dell›unzioni venefiche e malefiche; lui che in quel Carlo Colonna, il secondo che morì di peste in Milano, aveva notato il delirio come un accidente della malattia, vederlo poi addurre in prova dell›unzioni e della congiura diabolica, un fatto di questa sorte: che due testimoni deponevano d›aver sentito raccontare da un loro amico infermo, come, una notte, gli eran venute persone in camera, a esibirgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le case del contorno; e come al suo rifiuto quelli se n›erano andati, e in loro vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra, «che sino al far del giorno vi dimororno. Negazione e terrore, paura e immaginazione sono le due facce della stessa medaglia. Anche chi non crede alle favole o ai sogni, come non ci crede il cardinale Federigo Borromeo, non può non credere all’evidenza, alle prove, alle confessioni. Perché sì, gli untori i loro misfatti li confessano, così come le streghe confessavano i loro commerci con il Diavolo. Gli uni e le altre con dovizia di dettagli immaginifici, grandi voli di fantasia. Confessavano, è vero sotto tortura, ma così si usava allora. Si sarebbe continuato ad usarla come metodo inquisitorio anche molto, ma molto dopo Cesare Beccaria e Pietro Verri. Giudici che sbagliano o burocrati del Male? Sul processo agli untori della peste di Milano si è scritto l’ira di Dio. I commentatori si sono divisi in manzoniani e anti-manzoniani, hanno fatto a pezzi o esaltato La storia della colonna infame, il saggio storico che Manzoni aveva voluto separare dai Promessi sposi. Hanno riscartabellato fonti e do193 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 193 08/10/20 09:49 cumenti. Si sono dilaniati per partito preso, come si trattasse di una controversia tra garantisti e giustizialisti. Nel suo Peste e untori del 1937 Fausto Nicolini, in polemica con Manzoni, aveva ricordato che in quel processo che si concluse con la confessione, la condanna e l’atroce esecuzione dei presunti untori l’istruttoria era stata affidata “a un Monti e a un Visconti, ch’è quanto dire a uomini di cui tutta Milano venerava l’integrità, l’illibatezza, l’ingegno, l’amore pel bene pubblico, lo spirito di sacrificio e il grande coraggio civile”. Leonardo Sciascia, nella sua Introduzione alla Storia della colonna infame, in polemica con Fausto Nicolini, gli risponde che, come gli aguzzini nazisti “buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica e rispettosi degli a animali”, “quei giudici furono ‘Burocrati del Male’: e sapendo di farlo”. Torna invece a spezzare una lancia dalla parte dei giudici Franco Cordero nella sua Fabbrica della peste. Ecco il modo in cui Paolo Preto, nel suo Epidemia, paura e politica nell›Italia moderna riassume, credo non senza un pizzico di ironia, la posizione di Cordero: Con La fabbrica della peste di Franco Cordero il processo degli untori incontra finalmente uno storico del diritto armato di robusta e puntuale conoscenza della teoria e della prassi giudiziaria milanese nel 600: ’stavolta avviene tutto legalmente’, ‘non constano abusi’ nell’uso della tortura, i giudici restano quasi sempre ‘nei limiti della perversione connaturata al sistema inquisitorio, dove regole confuse e flessibili permettono quasi tutto’, ‘i diritti della difesa sono salvi’[…] I giudici sono onesti e davvero convinti del complotto, operano con ‘accanimento analitico’ e scrupolo garantistico ignoti nella prassi europea contemporanea […] E poi quei giudici hanno a che fare con delinquenti patentati, dei noti malavitosi, i quali sotto interrogatorio si contraddicono e si accusano l’un l’altro: Gli interrogatori degli imputati, riletti secondo la prassi giudiziaria, la mentalità, le circostanze culturali e politiche di quel momento storico, indicano precisi indizi di reità: Mora, ‘servizievole, untuoso, integratissimo, vigliacco, moderatamente imbroglione’ […] Piazza è 194 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 194 08/10/20 09:49 un ‘manigoldo dallo sguardo duro’ classificato nella malavita dall’opinione pubblica […] “Quanto alle unzioni poi, il reato contestato agli imputati, ci sono state: sono autentiche ‘le fatture nella pentola e quelle manovre nell’osteria, intese alla disseminazione benefica’, […] ‘Milano impestata sta diventando un enorme affare economico’, la peste è una ‘grossa occasione criminosa’ e, ‘a parte Mora e Piazza, non sembra contestabile che a Milano abbiano unto’, Milano è città adatta a ‘maleficia su vasta scala’, ‘chiunque voglia se lo fabbrica un unto benefico, pescando in massime comuni o specialistiche, su secrezioni cadaveriche, veleni animali e roba simile’. Le motivazioni delle unzioni sono agevoli da individuare: ‘attese apocalittiche’, ‘rabbia sovversiva’ che ‘ripete jaqueries urbane esplose nei secoli prima’ […] un ‘impulso eversivo classistico’ […] ‘insomma sarebbe un miracolo se nessuno avesse unto’ […] “In una Milano avvolta da credenze stregoniche e demoniache, fresca di processi alle streghe meno garantisti di questo, i crimini atrocissimi imputati a Mora e Piazza appaiono probabili a magistrati onesti. Insomma l’errore giudiziario c’era stato, questo nessuno lo può negare. Gli untori, non erano untori. Ma non erano neanche stinchi di santo. Guazzavano nella palude della criminalità diffusa di una grande metropoli. Si erano contraddetti e accusati a vicenda (ma questo succede nelle migliori famiglie: l’avevano fatto anche i vecchi Bolscevichi nei processi di Mosca degli anni ’30). «Vedete quello che volete che dica che lo dirò», continua a ripetere sotto tortura il barbiere Mora. Nella Milano della peste fiorivano gli affari loschi, c’era da guadagnare parecchio col traffico di rimedi ciarlataneschi, e anche dalla diffusione della peste, magari per conservare il posto di lavoro, come succede coi pompieri che appiccano incendi. Forse erano loro stessi convinti di aver fatto gli untori, come probabilmente erano davvero convinte di avere poteri di fattura molte delle streghe mandate al rogo. 195 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 195 08/10/20 09:49 Poi c’erano i precedenti, la pietra di paragone (o, secondo i punti di vista, la corda al collo di ogni giurisprudenza). Era già da un secolo che si facevano processi e roghi di untori, engraisseurs, a Ginevra e nelle vallate alpine. Ce l’ha con i protestanti Il lionese Claude Rubys, che nel suo Discours sur la contagion de peste qui a esté ceste presente annee en la ville de Lyon, contenant les causes d›icelle, l›ordre, moyen et police tenue pour en purger, nettoyer et deliurer la ville, del 1577, fa risalire l’abitudine delle unzioni appestatrici addirittura all’imperatore Commodo. I protestanti attribuiscono le unzioni ai cattolici. A Tolosa nel 1530 “alcuni italiani” furono accusati di “seminare” la peste nelle città ugonotte del Sud della Francia. Prontamente processati, attanagliati e sottoposti ad altre torture, furono poi decapitati. Volevano distruggere l’Italia C’era poi la guerra. Niente di più plausibile che a diffondere la peste fossero i nemici. Nel processo agli untori spuntano ad ogni piè sospinto accuse ai “forastieri”, agli stranieri. Uno dei baristi della malfamata Osteria dei Sei ladri, frequentata dagli accusati, testimonia che “si diceva” che le unzioni venissero dai Francesi: “Volevano distruggere l’Italia”. Altri tiravano in ballo i Tedeschi, il che non sarebbe così peregrino, visto che, a quanto sembra, il Paziente Zero fu, già nell’ottobre 1629, un soldato milanese, tale Pietro Antonio Lovato, il quale aveva comprato panni razziati per le valli bergamasche da un lanzichenecco. La prova? Gli untori erano quasi sempre “vestiti alla francese”. Ne La peste di Milano del 1630, una tragedia quasi contemporanea agli avvenimenti attribuita a padre Benedetto Cinquanta, che alcuni ritengono sia una delle fonti dei Promessi sposi, il protagonista, Casimiro, ritiene che lo abbiano preso per untore dai milanesi perché la sua foggia di vestire lo tradisce come “straniero”: infatti non è milanese, viene da Bologna. Correvano le voci più disparate: che a capo della grande cospirazione ci fosse il Principe di Condé, no il cardinale Ri196 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 196 08/10/20 09:49 chelieu, no il Wallenstein, comandante supremo delle forze imperiali, no gli eretici ginevrini, no il Duca di Savoia che avrebbe pagato e sguinzagliato almeno una settantina di “untori piemontesi”, attentatori suicidi di quei tempi. Non manca il “grande vecchio”, un’altrimenti innominata “persona grande” che reggerebbe le fila di tutto. Ci fu addirittura chi sosteneva che i francesi si fossero messi d’accordo con i loro nemici spagnoli, allora padroni di Milano, per “annientare tutta l’Italia”. Come si vede, le conspiracy theories più bizzarre non sono nate con l’11 settembre, e nemmeno le più recenti campagne tipo quelle contro Soros o Bill Gates, accusato di voler profittare del Covid, anzi di averlo addirittura inventato, per promuovere i suoi vaccini. Non mancano nella peste di Milano accuse contro alcuni banchieri, che finanzierebbero gli untori per fare confusione, evitare la bancarotta e arricchirsi. Vengono perquisiti i loro uffici, loro stessi accusati, ma se la cavano versando ingenti cauzioni. Uno di questi, Girolamo Turconi, viene accusato di essere in combutta con Venezia. A Madrid il conte-duca Olivares accredita ufficialmente l’accusa e convoca l’ambasciatore di Venezia. Minaccia che “se consterà tanta sceleraggine... i Venetiani saranno fatti cenere”. Non avete l’impressione di aver sentito qualcosa del genere detto di recente dal capo di un’altra Superpotenza planetaria? La Serenissima naturalmente è sdegnata per le accuse infamanti. Ma invita il proprio ambasciatore a lasciar cadere, ché “è tanto insussistente il motivo, che non merita se ne reflette, né se ne parli” e ribadisce che è evidente a tutti quanti che la peste è nata invece dalla “discesa degli alemanni”, cioè dell’esercito imperiale, in Italia. Comunque la cosa finì lì e non se ne parlò più. A me ricorda lo scambio di accuse tra Washington e Pechino su da dove sia originato il Coronavirus, se sia scappato dal laboratorio militare di Wuhan o sia arrivato invece dall’America. Ma forse i Veneziani qualche idea del genere, di guerra chimica o batteriologica, l’avevano avuta se, appena qualche anno dopo, nel 1646, il provveditore generale in Dalmazia, Lunardi Foscolo, sollecita gli Inquisitori di Stato a inviargli veleni “che saranno le più si197 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 197 08/10/20 09:49 cure armi co quali per aventura potrà offendersi nemico potente, iniquo e vicino” e poi nuovamente, il 5 febbraio 1650 invia a Venezia un progetto ancora più ambizioso, quello di “approfittare dell’occasione opportunissima di questa pestilentia” [l’epidemia che ha colpito Candia nel 1646] per utilizzare contro i Turchi il ritrovato di un medico “valoroso”, Michelangelo Salomone di Zara, “un liquore scatturito da fieli, bubone et carboni d’appestati con altri ingredienti, che averà forza et virtù, dove sarà sparso, essendo la quinta essenza della peste, di privar di vita nel spatio di poco tempo qualsivoglia numero di persone” (Archivio di Stato Venezia, Consiglio dei Dieci, Misto, reg. 19, c 75, citato in Paolo Preto, Epidemia, paura e politica nell›Italia moderna. C’è la pandemia, governo untore! La fenomenologia dell’untore è sterminata. Prima e dopo la peste manzoniana. Mi chiedo se il Manzoni, nello scrivere di peste, untori, sommosse per il pane, folle ostili nel 1600, avesse in mente le caccie agli untori e le sommosse per il colera dei suoi tempi. Arrivato in Europa dall’India, forse dalla Russia, il colera aveva raggiunto anche l’Italia nel 1835. Aveva imperversato a ondate successive, di decrescente virulenza, (nel 1849, 1854-55, 1863, 1865-67, 1873, 1884-86, 1893 e 1910-11. Ma tutte accompagnate da rivolte popolari contro i governi del momento, linciaggi di presunti avvelenatori, attacchi a medici, ospedali e farmacie, oltre che alle forze dell’ordine. Il popolo crede, fortissimamente crede agli untori e ai veleni. E crede, fortissimamente crede che l’epidemia sia un’espediente dei ricchi per eliminare i poveracci e del governo – qualsiasi sia il governo, di qualsiasi tipo e colore – per spremere più tasse alla gente. È impressionante la documentazione fornita da Paolo Preto su ciò che succede, decennio dopo decennio, tra Ottocento e inizi del Novecento nell’Italia meridionale, e sulla ricaduta che voci, dicerie dell’untore, hanno nella cronaca e nella letteratura. 198 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 198 08/10/20 09:49 Un personaggio dei Malavoglia di Verga si becca il colera da un untore, o così almeno sono tutti convinti: “La Longa una volta, mentre tornava da Aci Castello, col paniere al braccio, si sentì così stanca che le gambe le tremavano, e sembrava fossero di piombo. Allora si lasciò vincere dalla tentazione di riposare due minuti su quelle quattro pietre liscie messe in fila all›ombra del caprifico che c›è accanto alla cappelletta, prima d›entrare nel paese; e non si accorse, ma ci pensò dopo, che uno sconosciuto, il quale pareva stanco anche lui, poveraccio, c›era stato seduto pochi momenti prima, e aveva lasciato sui sassi delle gocce di certa sudiceria che sembrava olio. Insomma ci cascò anche lei; prese il colera e tornò a casa che non ne poteva più, gialla come un voto della Madonna, e colle occhiaie nere”. I Malavoglia restano soli, il paese intero li evita, che “ciascuno pensava alla pelle”, prete compreso. Tranne il farmacista, che Lui invece, se gli avessero portato la ricetta del medico per qualche medicina, avrebbe aperto la spezieria anche di notte, che non aveva paura del colèra; e diceva pure che era una minchioneria di credere che il colera lo buttassero per le strade e dietro gli usci. — Segno che è lui che sparge il colèra! — andava soffiando don Giammaria. “La povera gente se la prendeva con gli “Assassini del governo!...” racconta De Roberto ne I Viceré Scambiava commenti sulle notizie del colera, sull›origine della pestilenza, sulla fuga universale che spopolava la città. I più credevano al malefizio, al veleno sparso per ordine delle autorità; e si scagliavano contro gl’’italiani’, untori quanto i Borboni. Al Sessanta, i patriotti avevano dato a intendere che non ci sarebbe stato più colera, perché Vittorio non era nemico dei popoli come Ferdinando; e adesso, invece, si tornava da capo! Allora, perché s›era fatta la rivoluzione? Per veder circolare pezzi di carta sporca, invece delle belle monete d›oro e d›argento […]? O per pagar la ricchezza mobile e la tassa di successione, inaudite invenzioni diaboliche dei nuovi ladri del Parlamento? […] Eran questi tutti i vantaggi dell’Italia una?... Luigi Capuana fa esperienza di persona del colera del 199 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 199 08/10/20 09:49 1887 come sindaco di Mineo, dove il popolino non glie n’é per niente grato, perché “crede che sia il sindaco quello incaricato di spargere il veleno del governo”. Tutti lo sanno chi sta ordendo scientificamente il massacro, hanno persino una macchina fatta apposta per ammazzare la gente nel modo più rapido possibile: Arrivavano brutte notizie da Palermo, da Catania, da Messina: la gente moriva come mosche. Si sapeva di certa scienza che la macchina per buttare il veleno era già arrivata al Pretore e al Maresciallo dei carabinieri. Solamente il Parroco non s›era ancor messo d›accordo col Maresciallo, col Pretore […]. Il piemontese Edmondo de Amicis, l’autore di Cuore, nei suoi Ricordi della Vita militare, aggiunge, per esperienza diretta, che erano “sospetti di veneficio tutti gli agenti della forza pubblica, i carabinieri, i soldati, i percettori delle dogane, gli officiali governativi”. E che, anzi, “in alcuni paesi della Sicilia era sospetto di avvelenamento qualunque italiano del continente”. Altro che “Piove governo ladro!”, il modo di dire nazionale su cui Gramsci rifletteva in carcere. È un coro senza fine di “Porco governo untore!”. 200 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 200 08/10/20 09:49 6. Maledetti medici e infermieri non era iL san raffaeLe “Dopo un giorno di viaggio, in treno, Giuseppe Conte arrivò, una mattina di marzo, alla città dove c’era la famosa casa di cura. Aveva un po’ di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi la strada tra la stazione e l’ospedale, portandosi la sua valigetta. Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Conte era stato consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che quell’unica malattia.” Dino Buzzati, Sette piani, in Sessanta racconti Perché ci si infetta negLi osPedaLi “Languebam: sed tu comitatus protinus ad me Venisti centum, Symmache, discipulis. Centum me tetigere manus aquilone gelatae: non habui febrem, Symmachae, nunc habeo.” “Stavo poco bene, Simmaco. E tu sei venuto subito Con i tuoi assistenti – un centinaio almeno. E cento mani mi hanno toccato, Gelate come il vento di tramontana: 201 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 201 08/10/20 09:49 Non avevo la febbre, Simmaco, adesso ce l’ho.” Marziale, Epigrammi, V, 9 MANCA TITOLO Chirurgus fuerat, nunc est vispillus Diaulus Quod vispillus facit, fecerat et medicus Era chirurgo, ora fa il becchino Da becchino fa quel che faceva da medico Marziale Epigrammi, I, 47 Prognosi discutibiLi “Poiché agli otto di maggio repentinamente mi assalse la solita violentissima febbre, convennero subito attorno al mio letto in folla i medici, parte inviati dal signore della città, parte spontaneamente mossi dall›amore che mi portano, e dopo avere secondo il loro costume lungamente disputato in contrarie sentenze, pronunciarono che alla metà di quella notte io dovevo morir. Era della notte passata già la quarta parte: vedi dunque quanto poco mi restava da vivere se fossero state vere le ciance di quegli Ippocrati. Ma io di giorno in giorno sempre più mi confermo nella mia opinione intorno a loro. Sentenziarono che unico mezzo a prolungarmi un poco la vita erano lo stringermi con non so quali funicelle per impedire che mi addormentassi. E così si poteva sperare di farmi vivere fino all›aurora. Mercato incomodo per sì magro acquisto. E io credo che il togliermi il sonno in quelle condizioni sarebbe stato tutt›uno che darmi la morte. Ma non vi fu chi badasse alle loro prescrizioni. Poiché io avevo già con preghiera chiesto agli amici, e con comando ingiunto ai miei servi, che nulla mai di quanto i medici ordinassero essi eseguissero sulla persona mia: o se alcunché far si volesse, fosse sempre il contrario di quel che si diceva da loro. Dunque quella notte io passai assorto in sonno profondissimo, e come Virgilio dice, simile a placida morte. Certi che io 202 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 202 08/10/20 09:49 dovessi a mezzanotte aver dato l›estremo sospiro, tornarono i medici la mattina con animo forse di assistere alle esequie, e mi trovarono occupato a scrivere. Sbalorditi a quella vista, e non sapendo che dire, esclamarono essere io un uomo meraviglioso; e dopo essersi tante volte ingannati sul conto mio, non si vergognano di ripetere sempre lo stesso, non sapendo quel che si dicono, né trovano altro schermo alla loro ignoranza. Affé che se meraviglioso son io, essi sono meravigliosissimi; e non meravigliosi soltanto, ma portentosi al tutto son da dire coloro che prestan fede alle loro ciance. Eccoti dunque detto […] in qual stato io mi trovo. Sono fatto vero zimbello alla fortuna, e se pure talvolta mostri di star bene, in verità sto sempre male: ché, se fosse altrimenti, non si saprebbe spiegare donde improvvisamente nascano e ripullilino queste violentissime febbri. Ma anche se fossi morto a metà di quella notte, o se morissi in questo istante, che vi sarebbe di male? Non è questa la meta a cui sono molti miei passi? E che importa se cada adesso chi ogni modo deve cadere; o che giova il rialzarsi per ricadere tra breve? Petrarca, Senili, 9 XIII, 8 [9], a Pandolfo Malatesta: gli dà notizie delle sue condizioni di salute. È datata Colli Euganei. Arquà fu l›ultimo rifugio del Petrarca, che morì l›anno seguente.” Portar Pazienza, ci vuoLe iL suo teMPo “Un morbo nato non credere di guarirlo in un istante, che lo esacerberai, vole fare il suo corso, et ha il suo tempo statuito per venire alla crise, dove nell’acuti si attende, né il medico ha che fare, se non in giudicare se sii buona o no” Paolo Sarpi, Pensieri naturali, metafisici e matematici secreto sicurissiMo Per non Mai Morire “Quando la morte verrà per pigliarti, subito le soffiarai in 203 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 203 08/10/20 09:49 faccia, ma averti bene non mai ti fermare, perché se ti fermi subito sei morto.” Da un’incisione ironica di Giuseppe Maria Mitelli, in cui si vede un paziente allettato che continua a soffiare in faccia alla morte, uno scheletro con falce e cappa, visibilmente seccato. a Meno di non Preferire La cLorochina “Comprate il mio specifico, per poco io ve lo do. Ei move i paralitici, spedisce gli apopletici Gli asmatici, gli asfitici, gl’isterici, i diabetici, guarisce timpanitidi, e scrofole e rachitidi, e fino il mal di fegato che in moda diventò.” Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore, libretto di Felice Romani 204 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 204 08/10/20 09:49 Ero in un letto d’ospedale, appena trasferito in corsia dal reparto rianimazione, quando mia figlia mi portò un volume con i Sessanta racconti di Dino Buzzati, consigliandomi di cominciare col leggere quello intitolato “Sette piani”. Racconta di un signore che va in un celebre sanatorio, specializzato in un’unica malattia, la sua. Non si precisa quale sia la malattia, tranne che i sintomi iniziali sono leggerissimi, appena un po’ di febbre, tanto che lui l’ospedale lo raggiunge a piedi, non in ambulanza, e neanche in taxi. Dopo una prima sommaria visita, il paziente viene messo “in una gaia camera del settimo e ultimo piano”: I mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria, le poltrone erano di legno, i cuscini rivestiti di policrome stoffe. La vista spaziava su uno dei più bei quartieri della città. Tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante”. Conversando con una giovane infermiera, che si presume fosse anche carina, viene a sapere della “strana caratteristica” di quell’ospedale: I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l’ultimo, era per forme leggerissime, Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile sperare […]. Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette progressive caste. Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari regole, con le sue speciali tradizioni. E siccome ogni settore era affi- 205 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 205 08/10/20 09:49 dato a un medico diverso, si erano formate, sia pure minime, ma precise differenze nei metodi di cura […]. Lo rassicurano, le sue condizioni sono stazionarie, il ricovero è più che altro una precauzione. Finché un giorno il capo-infermiere gli chiede una cortesia: “Deve entrare in ospedale una signora con due bambini; due camere erano libere, proprio a fianco della sua, ma mancava la terza; non avrebbe acconsentito a trasferirsi in un’altra camera, altrettanto confortevole?”. Nessuna difficoltà: “una camera o un’altra per lui erano lo stesso; gli sarebbe anzi toccata forse una nuova e più graziosa infermiera”. Così inizia una serie di trasferimenti, di piano in piano, finché il malcapitato finisce al piano degli agonizzanti. “In quanti anni, sì bisognava pensare proprio ad anni, egli sarebbe riuscito a risalire fino all’orlo di quel precipizio?” Un grande Buzzati, col piglio di Kafka. Avevo appena finito di leggere questo racconto che arrivò un medico a dirmi che mi stavo riprendendo in modo promettente, suggerì il trasferimento in una clinica specializzata in riabilitazione. Risposi di no, che volevo andare a casa. Contro i medici Uno che ce l’aveva coi medici era Francesco Petrarca. Abbiamo già visto, in esergo a questo capitolo, in che conto tenesse i medici che lo curavano. L’iroso e acrimonioso poeta scrisse anche una lunga Invective contra medicum in cui leva la pelle di dosso alla odiata e disprezzata professione. Per essere più precisi se la prende in modo specifico con un esponente della professione. Non lo nomina. Ma ci sono parecchi indizi per ritenere che ce l’abbia con Guy de Chauliac, il celebre chirurgo che papa Clemente VI si era portato dietro ad Avignone e che poi fu archiatra anche di altri due papi. A differenza di altri medici, che all’arrivo della grande pestilenza del 1348 avevano lasciato la città, rimase al suo posto e fu lui a organizzare la difesa, isolare la residenza papale, dare assistenza agli ammalati. Sua l’idea di far accende206 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 206 08/10/20 09:49 re grandi fuochi, che bruciavano notte e giorno nella camera da letto e nelle altre sale della residenza papale. “Per purificare l’aria col fuoco” era la giustificazione, in base alle teorie allora correnti, per cui la peste era prodotta dai miasmi, dall’aria infetta. La teoria era sbagliata, ma il rimedio servì: l’intenso calore certamente disturbava pulci e topi, i veri ma allora ancora sconosciuti responsabili della peste. Era convinto, come tutti, che la causa delle peste fosse l’influenza dei “corpi celesti”. Ma almeno non prendeva per buone, anzi, peggio ancora, per certe altre cause, che pure cita per completezza: “Da alcuni si credeva che il mondo fosse stato avvelenato dagli ebrei, e li si uccideva; da altri che fosse colpa dei poveri o degli storpi, e li si cacciava; altri ancora ritenevano che fosse colpa dei nobili, ai quali veniva impedito di lasciare la città, o degli stranieri, ai quali si impediva l’ingresso in città appostando delle guardie”. Lui era un chirurgo. Ed è questa la ragione per cui Petrarca nella Invettiva contro i medici gli dà del “meccanico”, dell’ignorante che sa solo tagliare e cucire. Per indagare le cause della peste, da bravo chirurgo Chauliac si mise a fare autopsie. Forse talvolta faceva anche vivisezioni. “Gli ascessi venivano fatti maturare con fichi e cipolle cotte, mescolate a lievito e burro e poi incisi e trattati col medicamento con cui si curano le ulcerazioni. I carbonchi venivano aspirati, poi cicatrizzati e cauterizzati…,” scrive. Osserva e racconta. Lo colpisce la repulsione che i malati suscitano anche nei loro cari, nelle persone che gli sono più vicine: “Il Padre non visitava il figlio, né il figlio il padre, le persone morivano da sole e venivano seppellite senza prete: la carità era morte e la speranza abbattuta”. Osservazione diretta? O ripresa di un tema letterario onnipresente nei racconti delle pesti? La cosa certa è che gli ammalati lui li ha visti davvero. E da vicino. Sa benissimo che la sua medicina è insufficiente, impotente di fronte a questa malattia. Cerca di osservarne e ne descrive i sintomi, il decorso, l’esito. Non nasconde la paura, ma non scappa come hanno fatto molti suoi colleghi. “E io, per evitare l’infamia, non osavo assentarmi, ma continuavo [a fare il mio lavoro] e, con grande paura, continuavo a provare tutti i 207 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 207 08/10/20 09:49 rimedi…” Malgrado le cautele si ammalò anche lui, ma guarì in sei settimane. Curò anche, si dice, Laura de Noves, la Laura di Petrarca, ma non riuscì a salvarla. E sarebbe questa la ragione principale dell’astio di Petrarca nei suoi confronti. Qui Petrarca qualche ragione potrebbe avercela. I rimedi prescritti da Chauliac erano gli unici conosciuti all’epoca e raccomandati anche da tutti gli altri medici, cioè purghe, salassi, farmaci come la teriaca per “sostenere il cuore”. Facevano più male che bene, ma di questo non si può fargliene colpa. Nessun medico dell’epoca conosceva cure per la peste, solo palliativi. Si era fatto così per secoli e si continuava a farlo. Ma non è affatto sicuro che abbia avuto in cura Laura, né che lui e Petrarca si siano mai incontrati di persona. Secondo alcuni studiosi le ragioni per cui Petrarca ce l’aveva con lui sono di altra natura, sono politiche, questioni di potere. Petrarca era stato mandato due volte ad Avignone in missione diplomatica, col compito di persuadere il papa a tornare a Roma. Si scontrò con l’ostilità della corte papale e in particolare quella dei suoi medici, i quali lo sconsigliavano (e forse non a torto). Probabilmente considerava come una propria sconfitta personale che il papa avesse scelto di portare ad Avignone come suo medico personale un chirurgo, cioè agli occhi di un fine letterato poco più di un barbiere, e per giunta francese, anziché il candidato che lui gli aveva suggerito, l’italiano Teodorico de’ Borgognoni. Anche ai giorni nostri si scatenano guerre sulle nomine dei primari. Di certo c’è che scrisse a Clemente VI una lettera in cui gli raccomandava di stare alla larga da medici avidi e incapaci o “temerari e pazzi” e ricordandogli che l’imperatore Adriano morente avrebbe esclamato “Turba medicorum occidit”, i medici ammazzano, e l’epitaffio del tale che sulla propria tomba aveva fatto scrivere: “Sono morto per troppi medici”. Praticamente era come denunciare il Chauliac come incapace, corrotto e assassino. Poco ci mancava che denunciasse un complotto dei medici, magari eretici o ebrei, come quello da cui era ossessionato Stalin poco prima di morire. Il tono è quello di Marco Porcio Catone (sì, quello che continuava a tuonare 208 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 208 08/10/20 09:49 che bisognava distruggere Cartagine, così come qualcuno nell’amministrazione Trump tuona che bisogna cambiare il regime in Iran e ricacciare indietro la Cina) il quale, a quanto riferisce Plinio, ce l’aveva con i medici greci, accusati di voler sterminare i romani. Nell’Invective contra medicum Petrarca ci va ancora più pesante. Nei suoi classici Petrarca poteva reperire ad abundantiam esempi di vilipendio dei medici, additati come incapaci, avidi, affaristi, crudeli. Negli Apophthegmata, la sua collezione di aneddoti e detti, Plutarco ha una trentina di facezie che riguardano i medici. I medici li prendeva già in giro Aristofane, specie nell’attribuire loro l’abitudine di trarre vantaggio (far soldi) sui mali del prossimo. Plinio è feroce nel denunciare il connubio tra medicina e “affarismo”. Idem Giovenale e Marziale, anche se con molto humour, e non senza un certo garbo. L’uno e l’altro ci offrono siparietti di straordinaria comicità senza tempo. Marziale gioca sull’accoppiata medico-becchino, un tantino logora, visto che morire si muore tutti, che si sia in cura dai medici o meno, e il fatto che un paziente defunga non è necessariamente colpa del medico. Ma trovo irresistibile la gag in cui insinua che sia stato il medico, col suo codazzo di assistenti a fargli venire la febbre che prima non aveva, a forza di toccarlo. Non si lavavano abbastanza le mani? Ci sarà pure un motivo per cui le infezioni da Covid si sono impennate inizialmente soprattutto negli ospedali e nelle case di cura per anziani. Chi mi spiega come mai a un certo punto, in piena emergenza Covid, la mortalità nella città dove abito, Roma, si era dimezzata rispetto allo stesso periodo dell’anno prima? Perché i reparti erano chiusi, non si facevano più operazioni chirurgiche, si rinviavano esami e cure, pure per i malati di cuore e di cancro? Ancora più fantasticamente proiettato sul nostro presente il populista Giovenale, che era riuscito a immaginare, in un colpo solo, con una punta di antisemitismo, la psicanalisi e Hollywood. Deliziosa, quasi alla Woody Allen, la scenetta i cui, nella Satira VI, “un’ebrea tutta tremiti” si guadagna da vivere interpretando sogni per la facoltosa matrona romana: 209 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 209 08/10/20 09:49 “Per due soldi, i giudei vendono tutti i sogni che vuoi, aere minuto quaiacumque voles Iudaei somnia vendunt” (VI, 544547). Fa venire in mente la battuta che Sigmund Freud avrebbe fatto al compagno di viaggio Jung quando la nave su cui si recavano in America fu in vista di New York: “Non sanno che gli portiamo la peste”. Lacan sostenne di averla appresa per bocca di Jung. Anche Lacan aveva molta fantasia. Ma non è così campata in aria come potrebbe sembrare. Allo spuntare del Novecento, la stampa di New York era convinta che gli immigrati ebrei dall’Europa dell’Est gli stessero portando il colera e tutte le altre epidemie possibili. Forse il tenere i medici in poca considerazione aveva nell’antica Roma qualcosa a che fare con il fatto che nessuno di quelli che praticavano l’arte del guarire era “italiano”, erano i tutti “stranieri” o schiavi. Neanche Seneca, il quale nei confronti dei medici sembra nutrire un minimo di rispetto, anzi li considera “amici”, resiste alla tentazione di accostare medicina e guadagni eccessivi: scrive di “medicis gravis annus in questu est”, in cui “si fanno buoni affari quanti ne fanno i medici durante una pestilenza” (tantum negotii habes quantum in pestilentia medicus), di quanto sia infame che i medici vadano sollecitando occasioni di guadagno, “gravissima infamia est medici opus querere”, di “multi, quos auxerant morbos et irritaverant, ut gloria maiore sanarent, non potuerunt discutere aut cum magna miserorum vexatione vicerunt”, di molti (medici) che anziché giovare ai loro pazienti, avevano aggravato ed esasperato le loro malattie, per poterle sanare a loro maggiore gloria, e invece non riuscirono a estirparle (discutere), oppure le vinsero, ma dopo aver torturato a lungo i pazienti. Ben che gli vada, il medico viene preso in giro, è oggetto di lazzi. Non risparmia battute sui medici e la medicina Rabelais, che pure è medico. Studente di medicina alla Sorbona è stato anche quel simpatico mascalzone della sua creatura, quel “birboncello” di Panurge, compagno inseparabile di Pantagruele, il cui motto è: “Mancanza di denari malattia 210 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 210 08/10/20 09:49 senza pari”. Tra i brutti scherzi di quest’ultimo, una “Tartina alla Borbonese” (per sapere com’è fatta il lettore dovrà andare al capitolo XVI del Libro II del Gargantua e Pantagruele, qui certo non glielo dico), dopo di che “tutta quella brava gente si mise a vomitare in pubblico, come se fosse in punto di morte, e ne morì forse una dozzina per l’infezione, quattordici ne ebbero la lebbra, diciotto la rogna, e più di ventisette la sifilide”. Mi fermo qui per la medicina del sedicesimo secolo, mentre per quella del diciassettesimo basta vedere come tratta i medici Molière. Le malade imaginaire è la sua ultima commedia. Soffriva di tossi convulse, forse aveva la tubercolosi, forse si trattava di polmoniti virali. Riuscì a morire in scena nel 1673, durante la quarta rappresentazione. Non si sa se successe proprio durante la scena in cui il dottor Purgon, dal nome che è tutto un programma, minaccia il malato immaginario di farlo morire in meno di quattro giorni, visto che non vuole ascoltare i suoi consigli. Ecco il dialogo tra i due, infarcito di termini difficili: – E voglio che entro quattro giorni vi ritroviate in uno stato incurabile – Ah! Misericordia! – E che cadiate nella bradipepsia. – Monsieur Purgon! – E dalla bradipepsia alla dispepsia – Monsieur Purgon! – Dalla dispepsia all’apepsia – Monsieur Purgon! – Dall’apepsia alla dissenteria – Monsieur Purgon! – Dalla dissenteria all’idropisia... – Monsieur Purgon! – E dall’idropisia alla privazione della vita, dove vi avrà condotto la vostra follia. Al dottor Purgone subentra la serva Tonina, travestita da medico, la quale si presenta così: – Sono un medico viaggiatore, che va di città in città, di provincia in provincia, di regione in regione, in cerca di epidemie rilevanti, per trovare malati degni di essere presi in cura, che abbiano gravi malattie capaci di mettere alla prova i grandi e meravigliosi rimedi che ho scoperto nella medicina. Io non spreco il mio tempo a giocherellare 211 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 211 08/10/20 09:49 con delle malattie comuni, come reumatismi, febbriciattole, mal di testa… Io voglio malattie importanti: delle belle febbri continue con irritazioni al cervello, delle forti febbri virali, una bella pestilenza, una importante idropisia, delle buone pleuriti con infiammazione polmonare: questo è quello che mi piace, qui io trionfo; e vorrei, signore, che voi aveste tutte le malattie che ho nominato e che vi trovaste abbandonato da tutti i medici, disperato, agonizzante, per mostrarvi la pregevolezza dei miei rimedi e il grande desiderio che ho di rendervi un servizio. Niente applausi per le infermiere Se scarseggiano gli applausi per i medici, non va meglio per gli infermieri. Abbondano le punzecchiature, le voci, le accuse, le calunnie. Si può pescare a caso. Per esempio nel Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe: Circolavano anche innumerevoli storie sullo spietato comportamento delle infermiere che assistevano i malati, le quali si diceva che affrettavano la fine di coloro che curavano […] infermiere, che assoldate per badare ai malati, li trattavano barbaramente, li lasciavano morire di fame, li soffocavano, o ne affrettavano la fine con altri crudeli sistemi, insomma li assassinavano […]. Bisogna notare in realtà che le donne, in quella catastrofe, erano le creature più violente, ostinate e disperate, e le numerose infermiere che giravano nelle case per assistere i malati commettevano molti piccoli furti nelle case dove lavoravano. Alcune furono pubblicamente fustigate per questo motivo, quando forse avrebbero dovuto piuttosto essere impiccate, affinché servissero da esempio […]. Questi furti riguardavano soprattutto vestiti, tessuti, gioielli e denaro, su cui le donne riuscivano a mettere le mani quando moriva la persona che era stata loro affidata, ma non si trasformavano in un saccheggio generale della casa e io potrei riferire la storia di una di queste, che diversi anni dopo, sul letto di morte, confessò con estremo orrore i furti che aveva commesso quando faceva l’infermiera e grazie a cui si era arricchita. Quanto agli omicidi, non mi risulta che vi siano mai state le prove dei fatti che venivano riportati, eccetto per i casi che ho esposto […]. Mi è stato raccontato, in effetti, di una infermiera che, in una casa, aveva messo un panno bagnato sulla faccia di un paziente in agonia, assistito da lei, e che in questo modo aveva ucciso l’uomo, già in fin di vita di suo. E mi è stato detto di un’altra che soffocò una ragazzina affidata alle sue cure, mentre era in deliquio, e che sarebbe potuta tornare 212 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 212 08/10/20 09:49 in sé. E ancora ho udito di donne che uccisero gli infermi dando loro chi una cosa, chi un’altra; e di alcune che li fecero morire di fame. Meno male che Defoe, che pure è un affabulatore non da niente, uno che, per dirla con i miei antenati sefarditi, potrebbe far “enforcar la gente”, aggiunge una nota di cautela sull’attendibilità di tutte queste voci, e un’osservazione che vale per il modo in cui girano e si riproducono tutte le fake news virali: Tuttavia queste storie avevano due particolari alquanto sospetti che le accompagnavano sempre, che mi indussero spesso a non prenderle sul serio o a considerarle semplici frottole con cui la gente si metteva continuamente paura a vicenda. Innanzitutto dovunque sentissimo raccontare fatti del genere, la gente collocava sempre la scena all’estremo opposto della città […]. In secondo luogo, dovunque si sentisse la storia, i particolari erano sempre gli stessi, soprattutto quello del panno doppio messo sulla faccia del moribondo […]. E perciò era evidente – a mio giudizio, almeno – che nella storia c’era più fantasia che realtà. Tuttavia non posso dire che questi racconti non abbiano in qualche misura influito sul popolo […]. Gli operatori sanitari non hanno mai goduto di buona fama. Le antiche cronache e i trattati pullulano di storie di “infedeltà” degli infermieri, degli incaricati dell’assistenza ai malati, della sorveglianza, della disinfezione. Di storie di precari che infettano a bella posta case e ospedali per conservare il posto e trarne vantaggio, che “alimentano la peste affinché, disfacendo gli altri, sostenti loro stessi”. Non una parola, in genere, sul fatto che lo fanno a loro proprio rischio, che il loro mestiere non è grato né ambito, che pochi lo vogliono fare, tanto che il reclutamento è spesso forzoso e si ricorre a chi la peste l’ha già avuta, e quindi si ritiene immune. “Tanto vale rischiare la peste, che morire certamente di fame” è il motto dei candidati becchini, infermieri, disinfestatori, custodi delle case sigillate in quarantena all’epoca della peste di Londra del 1665. Sono vecchie storie, ricorrenti, dall’antichità ai giorni della peste, poi a quelli del colera. Le leggende metropolita213 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 213 08/10/20 09:49 ne non hanno età. Si intrecciano alle horror stories, al tema senza tempo degli “untori”, degli avvelenatori di pozzi e diffusori del contagio, al tema eterno dell’»uomo nero” che appesta le favole per i piccini. Sono il filo conduttore di tutte le “grandi paure”, dell’avversione al povero e al vagabondo, al forestiero, al diverso e al migrante, che si diffonderanno per tutto il Medioevo, e poi ritorneranno a invadere le campagne francesi nel 1789 della Rivoluzione, fino al terrore che incutevano nella popolazione le bande di orfani ragazzini che infestavano la Russia negli anni di Stalin. Abbiamo tutti visto, sentito, partecipato al modo in cui una nazione intera ha applaudito le infermiere, gli infermieri, e i medici che si prodigavano sino allo sfinimento per i pazienti nei giorni del Covid. Ben fatto, ben meritato. Una volta tanto l’Italia si univa nell’apprezzare e ringraziare quelli che si curano degli altri, che pensano al prossimo e non solo al proprio tornaconto spicciolo, apprezzava chi fa semplicemente, senza troppe storie, il proprio dovere, anche se scomodo, faticoso o pericoloso. Il bello era anche che l’applauso era rivolto a persone normali, non a campioni. Diffido per istinto della retorica, di qualsiasi retorica. Anche, mi verrebbe da dire soprattutto, di quella attorno ai santi e agli eroi. Diffido degli eroi troppo buoni, troppo santi, troppo fanatici, troppo convinti, troppo zelanti. Sì, sono sospettoso: so che quasi sempre il mito mente, ha un secondo fine, non è mai innocente anche se lo sembra, che talvolta può coprire o incoraggiare cose ignobili. Non ci sono cascato nemmeno quando i “buoni” apparentemente erano dalla parte giusta. Non mi piacciono i superumani. Preferisco di gran lunga gli umani con le loro pecche, i loro difetti, le loro mediocrità. Tendo a essere scettico, e forse – sarà causa l’età, causa l’averne viste troppe, causa un eccesso di illusioni, causa troppo realismo, causa un pessimismo scaramantico, vedete voi – anche a essere forse un pochino cinico. Ma mi sono dovuto ricredere quando ho visto la risposta che c’e stata all’appello per medici e infermieri volontari. A proposito di infermiere, durante una lunga degenza in ospedale mi è capitato di fare una riflessione. No, tranquilli, 214 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 214 08/10/20 09:49 non vi voglio raccontare delle mie malattie o degenze. Non mi permetterei mai. Né imbarcarmi in una di quelle menate tipo Viaggio intorno alla mia camera (François-Xavier De Maistre, fratello dell’ultrà reazionario Joseph. Lo scrisse a San Pietroburgo nel 1790, che era confinato in casa, non in quarantena ma agli arresti domiciliari, per aver infranto le norme che proibivano i duelli agli ufficiali dello zar). Voglio solo sottoporvi un dilemma, a cui tuttora non sono riuscito a darmi risposta. In corsia avevo avuto occasione di osservare come le infermiere trattavano gli ammalati, e individuato grosso modo due tipologie: le affettuose, prodighe di parole gentili, gesti di attenzione, sorrisi; le dure, mai un sorriso, una domanda o una battuta non professionali, mai un chiacchiericcio sul più o il meno. Le affettuose, le caciarone ogni tanto facevano venire ai loro assistiti il braccio blu causa l’ago infilato male, dimenticavano di dargli qualche farmaco, magari si distraevano nel compilare la cartella…: le altre, le fredde, apparentemente non sbagliavano mai, non gli consentivano il minimo sgarro, applicavano alla lettera, con rigidità teutonica, le disposizioni dei medici. Non c’è bisogno che vi dica quale dei due tipi rendeva più felici i pazienti. Ma non saprei quale dei due tipi augurarmi. Ciarlatani di tutti i tempi Nella Francia del Seicento, per far fronte alla mancanza e alla riluttanza, nonché alle pretese economiche eccessive degli operatori sanitari, avevano avuto un’idea originale: far fare la “prova” dell’avvenuta disinfezione di una casa dove c’è stata la peste a una famiglia povera che ci vada ad abitare provvisoriamente. Gli si fornisce vitto e alloggio. Se le cavie sopravvivono, l’abitazione potrà tornare ai proprietari. Se no, amen. Particolarmente accette sono le vedove con bambini. Forniscono la “prova” migliore della presenza o meno del contagio, perché “la tenera natura (dei bambini) non è in grado di resistere alla qualità contagiosa dell’aria,” spiega il Traité de la peste di César Morin (Parigi, 1602). Ci sono tanto 215 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 215 08/10/20 09:49 di contratti che specificano nel dettaglio oneri e onori: per esempio una vedova si impegna a trasferirsi immediatamente (s’oblnige de deans ce présent jourd’hui) assieme ai suoi due bambini per servire da “prova” (epreuves) durante sei settimane. Ha compiti definiti con precisione: abitare nell’edificio, spolverare i locali e i mobili, lavare e fare il bucato, tutte le volte che sarà necessario. In cambio, oltre al cibo, le regaleranno qualche capo di vestiario della vecchia padrona morta di peste. Un magistrato settecentesco commenta con disapprovazione: “Passato il maggior furore del contagio, era comune vedere, tra la gente del popolo, padri che esponevano i loro bambini a una morte crudele in cambio di pochi soldi, affittando i poveri innocenti come prove (epreuves)”. Naturalmente colpa dei poveracci che vendono i loro piccini, mica dei datori di lavoro che gli offrono un mezzo insperato di sussistenza. Così la mettevano anche nell’avanzatissima Inghilterra della rivoluzione industriale, per giustificare il lavoro minorile. Gli assaggiatori per verificare la presenza o meno di veleni alla tavola dei ricchi e potenti del resto c’erano sempre stati. Ed era molto comune che i ciarlatani facessero ingurgitare sulla pubblica piazza i loro intrugli miracolosi a giovanissimi assistenti, per provare che non facevano male, o addirittura li facessero mordere da vipere per provare l’efficacia del loro antidoto a base di carne di vipera, la teriaca, a lungo considerata come unico rimedio infallibile contro la peste. Quella del farmacista ciarlatano, che offre il rimedio per tutti i mali, il toccasana miracoloso, è una figura senza tempo. E non sempre è simpatico come il Dulcamara de L’Elisir d’amore. C’è chi ha sostenuto che la nostra sarebbe la Società dello spettacolo, che viviamo nell’era degli imbonitori da fiera. Abbiamo visto capi di stato che consultavano maghi e astrologhi, da Brežnev a Ronald Reagan. Ma non si era visto ancora un presidente degli Stati Uniti che spaccia come prevenzione e rimedio infallibile contro il Covid un antimalarico, quale la clorochina o, forse peggio, che dice in conferenza stampa che si potrebbe combattere il virus con qualche 216 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 216 08/10/20 09:49 disinfettante ingerito per via orale (“scherzavo”, si è poi corretto). Si suole dire che la colpa non è mai degli imbroglioni, ma di chi si lascia imbrogliare, di chi gli va dietro, magari li elegge. Sì e no, forse è troppo facile come scusa. Già Fedro usa questo argomento nella favola del “Ciabattino che fa il medico”: Un ciabattino male in arnese, in miseria nera, si faceva passare per medico offrendo un antidoto fasullo (falso) anche nel nome. Si era fatto una gran fama con furbe ciance (strophis verbosis). Il re della città frattanto giaceva afflitto da grave morbo, e volle metterlo alla prova: fingendo di miscelare in una coppa di acqua pura l’antidoto e del veleno, gli chiese di bere, promettendogli mercede. Quello [il ciabattino] allora per timore della morte confessò che non aveva alcuna competenza medica, ma era diventato celebre solo per la stupidità (stupore) del popolo. Al che il re, convocata un’assemblea (advocata contione), così disse: ‘Non vi pare da dementi (dementiae) affidare le vostre teste a uno che non riesce neanche a trovare clienti per le sue scarpe?” (Fedro, Favole, I, 14). Va da sé che il buon Fedro un pochino ciurla nel manico: non risulta che il re si volesse affidare a libere elezioni, né che quei cittadini avessero possibilità di scegliere davvero. Impossibile elencare tutte le fesserie, le fregnacce, le idiozie sentite, riferite, dette, fatte in questi mesi di Covid. Bastava accendere la tv, navigare su internet, leggere i giornali per far venire la pelle d’oca. Confesso che inizialmente avevo pensato di dedicare un capitolo del libro che avete sottomano a questo. Poi ho rinunciato, perché ne sarebbe venuto fuori non un altro libro ma un’enciclopedia. “Ripeti una bugia e verrà considerata verità,” la frase attribuita a Goebbels (in realtà il ministro della Propaganda di Hitler non disse mai qualcosa del genere; mentiva, ma i bugiardi non ammettono mai di mentire, se non altro perché si avviterebbero nel paradosso del mentitore). La valanga di fake news e cretinate mi ha annoiato. Non voglio trasferire la noia al lettore. Impossibile comunque che non gli sia capitato di sentire qual217 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 217 08/10/20 09:49 cuna almeno di queste stupidaggini, in tv, nei talk show, nelle “circolari” via social, nei messaggi che promettono rivelazioni strepitose, fanno le pulci ai già confusi, talvolta incomprensibili, numeri ufficiali dando numeri molto più fasulli, ci informano di quel che “nessuno vuole dirci”, di quel che “il governo ci tiene nascosto”. Un amico si è dato la pena di inviarmi tutti i giorni, per mesi, una sfilza di “ritagli” ricavati da diverse fonti. È martellante. È ridicolo ma non è divertente. Talvolta è becero, puzza di propaganda ultrà a un miglio di distanza. Talvolta si perde la bussola, si perde il confine tra realtà e satira, comico e tragedia, non si capisce più se ti raccontano una sciocchezza con le migliori intenzioni o la sciocchezza è finta, viene attribuita a bella posta a questo o a quello per fargli fare cattiva figura. Altre volte è più sottile, l’idiozia si presenta bene, appare argomentata, disinteressata. A un certo punto mi è venuto addirittura il dubbio che il mio amico ci credesse, condividesse. C’è di tutto e di più: negazionisti a oltranza (“il virus non esiste”, “è un complotto dei governi per controllare la gente e togliergli la libertà”, “sono in combutta con Bill Gates che vuole vendere il suo vaccino”), e poi teorie e cifre fasulle, citazioni fuori contesto, “ammissioni” da parte degli stessi“esperti”, che le cose non stanno come inizialmente cercavano di farci credere, che avevano sbagliato, truccato o cannato i calcoli, manipolato le cifre, avevano esagerato, avevano mentito, lavoravano per il Diavolo, esageravano, minimizzavano, sarebbero al soldo della Cina, no di Soros, no della sinistra, no dell’Europa della Merkel, no di chi lascia sbarcare i migranti, che sono l’unica vera fonte di contagio e malattie, no delle grandi case farmaceutiche che ne vogliono approfittare per fare miliardi di miliardi, e, ancora, insulti a quelli che osavano dire che bisogna prendere la pandemia sul serio, agli “utili idioti” che gli credono e gli vanno dietro, il linciaggio in America del dottor Fauci che osava contraddire l’ottimismo di Donald Trump, il linciaggio dei nostri commissari accusati di non essere abbastanza brillanti, l’irrisione di chi invita a indossare la mascherina, e anche l’irrisione di chi la indossa, la prova provata che non serve, anzi fa male, rende più difficoltoso il re218 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 218 08/10/20 09:49 spirare,la spavalderia sciagurata dei leader politici e governanti che danno il cattivo esempio, di quelli che “io la mascherina non la indosso… e poi magari sbattendo il muso nel contagio hanno un pentimento, cambiano idea, o non la cambiano affatto. Kill the doctors! “Ma ora basta; ormai penso di lasciare te, malato, ai tuoi malati: ti uccideranno, e tu ucciderai loro” Sed iam satis; iam te egrum egris tuis linquere meditor: illi te conficient, tu illos (Petrarca, Invective contra medicum, IV, 53). La violenza dell’invettiva di Petrarca contro i medici è tale da risultare comica. Forse solo un’altra categoria professionale è stata oggetto di tante contumelie da parte degli uomini di lettere: gli avvocati. “Kill all the lawyers!”, ammazzate tutti gli avvocati, grida il popolo in rivolta nell’Enrico V di Shakespeare. “Via gli Ebrei e via i politici,” gridavano nella Germania degli anni trenta. E c’è chi lo grida anche ai giorni nostri. Qualche volta non si sono limitati a dirlo, l’hanno fatto. È subito, agli inizi della peste nera in Europa, che si comincia ad ammazzare gli ebrei. Prima una quarantina a Tolone. Poi si moltiplicano i pogrom in tutto il Sud della Francia, a Manosque, ad Aix, a Narbona, a Carcassonne, e in Catalogna e in Aragona. Ma perché proprio da lì? Azzardo una possibile spiegazione: perché agli inizi ce l’hanno con l’impotenza dei medici, non gli perdonano che non abbiano rimedi funzionanti contro l’epidemia. E in medicina eccellono gli ebrei, che conoscono e traducono gli arabi. La penisola iberica, dove ancora sta fiorendo al Andalus, e la Provenza pullulano di medici ebrei, di università dove il sapere medico è all’avanguardia per l’epoca. Ma non abbastanza all’avanguardia da fermare la peste. Solo in seconda battuta li si accuserà di avvelenare i pozzi, di aver in odio e voler sterminare i cristiani, di voler sfruttare i nobili prestandogli a usura (cosa vera, nobili e regnanti erano affamati di denaro, per 219 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 219 08/10/20 09:49 sostenere le proprie guerre e i propri lussi) e rovinare i poveri (cosa non vera, ai poveri nessuno prestava denari, nemmeno gli ebrei). C’è una sola importante eccezione alla nuova moda di accusare per la peste gli ebrei: l’Italia. Papa Clemente VI li difende. Nell’enciclica Sicut Judeis del 26 ottobre 1348 spazza via le accuse loro rivolte, fa notare che non è vero che gli ebrei siano immuni dalla peste, ne sono colpiti esattamente come gli altri, quindi è assurdo ritenere che siano loro a diffonderla. Fa di più: minaccia la scomunica a coloro che osino promuovere, condonare o unirsi alle persecuzioni. Evidentemente ci teneva ai suoi medici. Il pesce puzza sempre dalla testa. Sono sempre le élite, è chi governa, chi detiene il potere, chi vuole avvicendarsi a qualcun altro al potere a dare il la alla caccia ai presunti colpevoli. Si comincia quindi con tante piccole sommosse e massacri, al di qua e al di là dei Pirenei, fino agli eccidi su grande scala più a nord, a Strasburgo (dove viene sterminata l’intera comunità, duemila persone, ebrei, vecchi, donne e bambini) e poi in altre città tedesche. In Inghilterra non succede nulla, perché gli ebrei erano già stati espulsi in precedenza. Anche allora i tedeschi erano all’avanguardia, facevano le cose metodicamente. Bruciarono gli ebrei in tutta la Teutonia a furore di popolo, “tumulto furente populari et in seditionem concitato”, dirà un monaco che scrive un secolo dopo i fatti (Die Weltchronik des Mönchs Albert). Ma non è vero. Non è per niente spontaneo furore popolare. È studiato, premeditato. A Strasburgo il massacro ha luogo a freddo, prima ancora che arrivi il contagio. La città era governata dalle corporazioni degli artigiani. Nell’autunno del 1348 un vescovo aristocratico e fanatico, Berthold von Bucheck, fa campagna contro gli ebrei, li accusa di voler diffondere la peste, chiede che vengano puniti. Il consiglio della città respinge la richiesta, ma per far fronte alle pressioni del vescovo decide di inviare lettere ai sindaci delle altre città, ai signori dei principali castelli, a feudatari importanti, al duca Albrecht di Austria, al conte di Savoia Amedeo IV, e altri ancora, insomma a mezza Europa, per chiedere cosa ne pensino della responsabilità degli ebrei. Son pervenute sino ai 220 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 220 08/10/20 09:49 giorni nostri solo diciannove fra le risposte. Danno conto del risultato delle indagini. È una specie di sondaggio d’opinione, a colpi di arresti, interrogatori, torture. Vengono nominati una cinquantina di ebrei ritenuti colpevoli. Nessuno dei cinquanta accusati fa l’usuraio, la maggior parte sono medici, studenti, donne, cantori, spesso rabbini. Il consiglio degli artigiani che governa Strasburgo nicchia. Non vede ragioni di procedere. Allora il vescovo chiama a raccolta un’assemblea dei nobili di tutta l’Alsazia, rovescia il governo che continua a non voler prendere misure adeguate contro gli ebrei, lo sostituisce con una junta militare di aristocratici armati. Fanno una retata di tutti gli ebrei, una delle più antiche comunità d’Europa, li concentrano su un’isoletta in mezzo al Reno, e li bruciano vivi, tutti quanti. Ma il secolo in cui l’aggressione ai medici diventa globale è l’Ottocento. La peste in Occidente non c’è più da tempo. Ma è arrivato il colera, seguiranno a ruota tifo e vaiolo. Samuel K. Cohn jr. in Epidemics: Hate and Compassion from the Plague of Athens to Aids (Oxford University Press, 2018) fornisce una documentazione impressionante, sulla base di cronache dai giornali dell’epoca, di sommosse contro medici e infermieri, da un capo all’altro del mondo, dalla Sicilia all’Inghilterra, dall’America alla Russia. In Gran Bretagna, tra il novembre 1831 e il gennaio 1833, i medici vengono ripetutamente minacciati e “persino assaliti” perché accusati di sfruttare l’epidemia, o addirittura di averla inventata a bella posta per “assassinare i poveracci”. Folle inferocite danno l’assalto a ospedali e obitori per impedire che i cadaveri dei defunti vengano sottoposti ad autopsia, formano picchetti per evitare che gli ammalati vengano rimossi dalle loro abitazioni e portati in ospedale. Accusano i medici di uccidere i pazienti per esercitarsi nei loro studi, o per vendere i cadaveri, di speculare sulla pelle della povera gente. A Londra un dottore evita di misura che lo gettino giù da una finestra del secondo piano; un cane feroce viene aizzato contro un chirurgo; un irlandese accoltella un infermiere; a Liverpool ottanta operatori sanitari firmano una circolare in cui denunciano “vergognose aggressioni” malgrado si siano 221 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 221 08/10/20 09:49 offerti di esercitare gratis. A Exeter, in Scozia, una folla di millecinquecento persone tenta di linciare un dottore accusato di “avvelenare” i suoi pazienti ammalati di colera con farmaci che li fanno dormire, cosicché siano sepolti vivi. Nel sobborgo londinese di Camden Town, la folla blocca il trasferimento di un calzolaio all’ospedale dei colerosi. Fanno a pezzi la sedia su cui lo trasportavano e caricano il poveretto seminudo, più morto che vivo, sulle spalle di uno che lo riporti a casa. A Dublino assaltano le ambulanze. Non c’è verso: sono convinti che i medici uccidano la gente per procurarsi materiale per le scuole di anatomia. La protesta violenta contro i medici (occasionalmente accomunati in quanto oggetti di odio ad altre categorie tipo ebrei, bottegai, gendarmi, ecc.) si estende, ondata dopo ondata, alla Francia, all’Europa dell’Est, alla Russia, al Caucaso, all’Italia meridionale, attraversa l’Atlantico, raggiunge New York, poi San Francisco, contagia il Québec, dove vengono attaccati gli ospedali che accolgono i vaiolosi, raggiunge l’India, poi la Cina. L’odio nei confronti dei medici assume spesso connotazioni politiche. O etniche. Nel 1830 la caduta della monarchia in Francia coincideva con l’epidemia di colera. La destra monarchica e reazionaria ne approfittò per accusare il nuovo governo repubblicano e progressista di aver avvelenato l’acqua potabile, i barili di vino e i banchi nei mercati alimentari. Chiamarono alle barricate contro i provvedimenti sanitari, e per rovesciare un “governo di assassini, che sparge il sangue dei cittadini, massacra i prigionieri e fa morire di fame i poveri”. La corrispondenza da Parigi su una rivista medica americana nel 1832 dice che i rivoltosi erano convinti che i medici negli ospedali avvelenassero i pazienti perché “ben pochi ne uscivano vivi”. Poco meno di un secolo dopo, nel 1910, il corrispondente del «The “Lancet»” da Pechino scrive che i cinesi si ribellano alle disposizioni sanitarie e a che i loro cari vengano portati in ospedale perché “non ne escono mai vivi”. Sono convinti che ai bambini cinesi si asportino occhi e cuore per curare gli occidentali, o vengano uccisi per la produzione di vaccini. Si è detto che nelle sommosse per il colera del 1821 a San Pietroburgo, i rivoltosi ce 222 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 222 08/10/20 09:49 l’avevano con i medici perché “li identificavano come agenti polacchi”. Riproducevano l’antipatia verso il personale sanitario che si era manifestata durante la peste di Mosca del 1771. Il popolo ce l’aveva con loro e con le autorità perché gli impedivano di radunarsi ad adorare l’icona della “madre di Dio”, che si riteneva proteggesse dalla peste. Attaccarono ance il Cremlino. Tra le vittime ci fu l’arcivescovo Amvrosij, accusato di tradimento del suo popolo di fedeli, perché non si era opposto alle misure di quarantena, ovverosia di distanziamento sociale. Gli cavarono gli occhi, gli strapparono la barba, lo mutilarono, gli ruppero le ossa fino a ridurne il cadavere a un ammasso di carne sanguinolenta. Nel Regno delle due Sicilie il colera è “borbonico”. Nel Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga c’è il terrore dei veleni, contenuti in “bottiglie che mandano da Napoli per fare morire i cristiani”. Il governo, ritiene il popolino, usa medici, preti, speziali per i suoi fini funesti. Qualche anno dopo diffondono, sempre per ordine del re, che così vorrebbe diminuire il peso della povertà, il tifo. Qualche anno dopo ancora, lo strumento della cospirazione assassina cui si prestano i medici è un micidiale “torcicollo”. Finché ci sono i Borboni “è proprio lu Re che fa menare lu tuossico”, la fake news serve alla propaganda risorgimentale. Poi, arrivati gli italiani, la stessa identica favola si rivolge contro di loro. Comunque sia, di mezzo ci vanno medici e farmacisti. Idem con polenta al Nord. A Brescia nel 1836 lasciano che gli ammalati muoiano di sete, piuttosto di consentire che inghiottano i farmaci prescritti dai medici. Fantasticamente documentati i diversi capitoli che Paolo Preto dedica al “colera politico” nel suo Epidemia, paura e politica nell›Italia moderna, mentre il tema viene esteso e arricchito su scala planetaria nel più recente e ponderoso Epidemics di Samuel K. Cohn jr. Sempre la stessa storia, le stesse voci, la stessa diffidenza nei confronti del governo, lo stesso odio nei confronti dei medici. Continua così, quasi allo stesso modo, decennio dopo decennio, epidemia dopo epidemia, paranoia dopo paranoia, fin dentro Novecento, poi ancora fino ai giorni nostri. 223 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 223 08/10/20 09:49 A ogni latitudine, in ogni regime, di fronte a ogni malattia, dalla peste e dal colera, passando per la Spagnola, fino al Covid-19. I no vax e quelli del “dalli al medico, all’epidemiologo, e a chi li manovra!” ci sono sempre stati. Altro che applausi.. Un medico ironizza su «“La Gazzetta medica della Lombardia»” del novembre 1854: “E allora i medici perché muoiono, come gli altri e più degli altri? Non lo sapete? – Muoiono per isbaglio secondo gli uni; muoiono per meglio colorire la trama, secondo li altri; non è vero che muoiano, secondo i più. – Scompaiono, –– ma ritorneranno quando meno ci si pensa”. 224 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 224 08/10/20 09:49 7. I colori (le immagini) del contagio Entertainment contagioso con brivido spavento inciaMPare nei cadaveri “La prima scoperta dell’uomo è la morte. Non la morte astratta del Medioevo, passaggio verso l’aldilà. Ma la morte incarnata: il Medioevo volgendo al suo termine inciampa nel cadavere.” Jacques Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale esercizi di horror “Inorridirà per la gagliarda rappresentazione del sepolcro pieno di fetore, dove il corpo, cacciato fuori di casa dai più cari, sarà rinchiuso per essere cibo dei vermi, acciocché, con la sua putredine e corruzione, non infetti il mondo.” Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali iL rosso, iL nero, iL vioLa, iL cianotico “La persona colpita dalla peste si sente immediatamente venir meno le forze, il polso in disordine, il cuore che sobbalza, lo stomaco che si contorce; vomita e rimette di continuo, 225 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 225 08/10/20 09:49 una strana mancanza di appetito, febbre estremamente alta; le viscere, e persino la testa, sembrano bruciare dolorosamente; mentre le membra sono gelate, la pancia è tutta gonfia, lo stomaco contratto. È in preda all’ansia, non riesce a dormire, ha continua sonnolenza. La sua faccia cambia del tutto, gli occhi diventano rossi e feroci, le tempie sono in tensione, le narici si allargano, il naso si affila, la bocca, la quale emana un fetore cadaverico, cade mezza aperta, la lingua diventa secca e nera, le labbra diventano cianotiche. Soffre di una grande sete, ha difficoltà a respirare, la pelle diventa ricoperta di pustole e macchie rosse, viola e nere, il corpo si ricopre di bubboni, escrescenze dolorose e altri sintomi orrendi.” Roland, Jacques, Antiloiminie, ou Contre-peste, oeuvre chirurgicale qui traite des moyens de préserver et de guarir chacun de la maladie pestilentieuse, Rouen, 1630 si aLLontanano Per iL ribrezzo “My face is ash-color’d, my sinews gnarl, away from me people retreat.” “La faccia è color di cenere, i nervi sono contratti, la gente si ritrae da me.” Walt Withman, “Song of Myself”, in Leaves of Grass Macabro, entertainMent dei PoPoLi “Fra questi [carri di carnevale], che assai furono et ingegnosi, mi piace toccare brevemente di uno che fu principale invenzione di Piero già maturo di anni, […] una strana e orribile et inaspettata invenzione di non piccola satisfazione a’popoli; ché come ne’ cibi talvolta le cose agre, così in quelli passatempi le cose orribili […] dilettano maravigliosamente il gusto umano: cosa che apparasche [è evidente] nel recitare le tragedie.” Vasari, Vite dei pittori 226 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 226 08/10/20 09:49 Nei grandi dipinti barocchi la pandemia si presenta come un’immane ammucchiata di cadaveri. Raramente si vedono segni specifici della malattia. Quando ci sono, sono simbolici, stereotipati. I san Sebastiano, protettori dalla peste, sono colpiti da frecce. Talvolta le ferite sembrano bubboni o pustole arrossate. I san Rocco, inventati tardi, a dar man forte ai san Sebastiano, mostrano il bubbone, che però in genere non è nemmeno un bubbone, è una piaga stilizzata e poi si trova sempre sulla coscia, non nell’ascella o vicino all’inguine (ed è comprensibile: non si mostra l’inguine di un santo, specie non in piena Controriforma). Quanto a santa Rosalia, era stata inventata come protettrice dalla peste da Van Dyck, al quale era capitato di trovarsi a Palermo, invitato a fare ritratti al viceré Emanuele Filiberto di Savoia e a facoltosi mercanti genovesi, e lì sorpreso dalla peste nel 1624. Ma in nessuna delle cinque sante Rosalie del pittore fiammingo si vedono appestati, al massimo rosei angioletti che si librano sulla città con un teschio in mano. Una delle rappresentazioni pittoriche che mette insieme e cataloga in un unico dipinto tutti i temi che hanno a che fare con la peste è il dipinto votivo per la famiglia padovana dei Papafava eseguito nel 1635 da Luca Ferrari (ora custodito dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo). Si tratta di un vero e proprio repertorio di “motivi”. C’è l’appestato in primo piano che solleva il braccio per mostrare l’ascella a un medico, il quale, a debita distanza, osserva col 227 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 227 08/10/20 09:49 monocolo, affiancato da un elegante assistente. Ci sono il “picegamorti” (becchino, monatto) scamiciato, col campanello, il quale rimuove i morti, e il membro di una confraternita di misericordia, in divisa con croce sulla schiena che presta assistenza. Ci sono le donne sequestrate in casa che calano un cestino da un balcone e la carrozza del nobile che abbandona la città. C’è un uomo che porta sottobraccio un involto, si presume il corpo di un neonato, e c’è, esattamente al centro del dipinto, il bambino steso nudo per strada, coi segni neri del carbonchio. Ci sono i santi e gli angeli in cielo, e la Madonna, cui si rivolge l’enfatica gestualità della preghiera di san Domenico. Ci sono la rassegnazione, l’assuefazione e l’indifferenza in terra, rappresentati nella donna in centro a braccia conserte. Mentre un’altra donna cerca inutilmente di attirare la sua attenzione tirandole un lembo della gonna. In apparenza non manca proprio nulla. Nulla tranne che, come ha osservato qualcuno, “la protagonista [la peste stessa], con le sue componenti primarie, la paura, la ripugnanza della malattia, la morte”. Riserbo? Censura? Eppure ancor prima c’era stato chi i segni clinici della peste li aveva dipinti con straordinaria precisione, li aveva visti bene e da vicino: ad esempio il quattrocentesco “piccardo” Josse Lieferinxe, detto anche “il maestro di san Sebastiano”, il quale dipinge quasi solo immagini del santo della peste, e in uno di questi dipinti, il San Sebastiano intercede per gli appestati (ora al Walters Art Museum di Baltimora) mostra con estrema precisione un bubbone sul collo. Il dipinto non mostra un’ammucchiata di cadaveri, ma, a parte quell’unico moribondo che si contorce sul selciato, sepolture ordinate, di salme avvolte in lenzuoli candidi di bucato, accompagnati da preghiere. Una scena ben diversa da quella “classica” descritta da Boccaccio e da tanti altri. Che l’assistenza e i dovuti ossequi funzionassero meglio nel Nord Europa, nella ricca Borgogna? Comunque, trattandosi di metà Quattrocento, non manca un diavoletto volante, con le canoniche ali da pipistrello che nel cielo della città si scontra con un angioletto vestito da chierichetto. 228 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 228 08/10/20 09:49 Mano a mano che ci si addentra nel Seicento diminuiscono gli scheletri danzanti, i diavoletti e gli altri mostriciattoli che avevano infestato le rappresentazioni visuali tipo Danse macabre (che pure continuavano a essere prodotte in serie nel Nord riformato), e non ci sono più nemmeno i magnifici cavalieri dell’Apocalisse tipo quelli incisi da Dürer. Sono rimasti i simboli, le rappresentazioni allegoriche, il continuo richiamo al memento mori, ricordati che devi morire. È rimasta la rappresentazione simbolica della morte in nero, con o senza maschera, con o senza falce, a cavallo o volante. Lo scheletro alato che domina il celebre “Humana Fragilitas” di Salvator Rosa è pure spiritoso, si atteggia a maestro di scuola, regge servizievole il cartiglio, aiuta il paffuto e roseo bambino seduto in grembo alla giovane mamma a scriverci sopra le parole di una canzone dedicata al pittore dall’amico filosofo Ricciardi: “Rosa, il nascere è pena, il vivere è fatica, et il morir necessità fatale”. Monito filosofico, erga omnes, non legato a una particolare minaccia. A rappresentare l’epidemia si devono far vedere invece caterve di vittime, i morti e gli infermi, ammucchiati, stesi alla rinfusa, per strada o in ricoveri improvvisati, rappresentati, come dire, in carne e ossa, e ci sono, accanto a loro, coloro che li evitano inorriditi, schifati dalla puzza, ma anche coloro che li assistono caritatevolmente, i medici, gli infermieri, i santi in terra e quelli che intervengono dal cielo, con o senza l’aiuto di angeli e cherubini. La Scuola grande di San Rocco, con la sua profusione di Tintoretto e Tiziano, e altre rappresentazioni del contagio, è il più splendido e maestoso omaggio privato che si possa immaginare all’azione pubblica della Serenissima contro la peste. Molti grandissimi artisti avevano conosciuto di persona, a volte sulla propria pelle, la malattia e il contagio. Buonarroto, il fratello di Michelangelo Buonarroti, gli era morto tra le braccia, di peste. A Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, erano morti di peste il padre, il nonno, lo zio. Lui, da poco arrivato a Roma, era stato ricoverato in fin di vita in uno stanzone d’ospedale quasi completamente buio. Non è detto fosse peste, poteva essere qualsiasi cosa: quel che ai 229 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 229 08/10/20 09:49 suoi tempi veniva chiamata “febbre romana”, malaria, influenza, colera o un’altra infezione intestinale. Secondo qualcuno fu in quella corsia buia che concepì lo scuro “caravaggesco”. Parecchi anni dopo morì dopo che gli era venuta la febbre alta mentre viaggiava in mare, come passeggero, su una feluca, portandosi appresso alcuni dei capolavori cui più teneva. L’avevano sbarcato a Porto Ercole. Aveva trentotto anni. Sulle cause della morte si sono sbizzarriti e hanno romanzato in molti. Anche in questo caso potrebbe trattarsi di qualunque cosa. Giorgione morì, a quanto racconta il Vasari, poco più che trentenne, in uno dei Lazzaretti di Venezia, dopo aver voluto dare un ultimo bacio alla sua amante che stava morendo di peste. Di peste morì, non molti anni dopo, anche il suo amico Tiziano, che aveva voluto rendergli un’ultima visita. Si dice che un quadro di Tiziano completato l’anno dopo la morte di Giorgione, il Miracolo del piede risanato, ritragga proprio Giorgione morente, o comunque un giovane che sta morendo di peste. C’è anche chi ha notato, ai piedi del moribondo (che in questo caso viene risanato grazie all’intervento di sant’Antonio), strani animaletti, mostriciattoli, non altrimenti identificabili diavoletti, che potrebbero essere simboli della peste. Raffaello stava per compiere trentasette anni quando, il 6 aprile 1520, “il giorno medesimo ch’e’ nacque”, morì a causa di una “grandissima febbre”. La mostra in occasione del cinquecentesimo anniversario della morte, presentata alle Scuderie del Quirinale a Roma, e subito chiusa per Covid, si apre con un grande dipinto ottocentesco che raffigura il tout le monde accorso al suo capezzale. Se è vero, non si temeva molto il contagio. Il solito pettegolo Vasari attribuisce la sua malattia agli “eccessi amorosi”, cioè alla Fornarina, che non sappiamo se fosse la figlia di un fornaio di Trastevere o una celebre prostituta. Ma poteva essere una banale influenza, un virus qualsiasi. Il Cinquecento è il secolo in cui la peste (o cos’altro diavolo fosse) va e viene di continuo, anche se non con la violenza di metà Trecento. Spesso si alterna ad altre malattie, contagiose o meno. Non è, e non può più essere, un fatto individuale. Anche in pittura si manifesta con grandiose scene corali, collettive, e più tardi 230 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 230 08/10/20 09:49 addirittura di folla. Assolutamente corale è per esempio il San Rocco risana gli appestati che Tintoretto dipinse per la chiesa adiacente la Scuola Grande, dove si vede uno stuolo di ammalati che mostrano ascelle, inguini e cosce, i luoghi classicamente deputati alla comparsa dei bubboni. Tutti i colori della peste “Gli occhi diventano rossi […] la lingua diventa secca e nera, le labbra diventano cianotiche. […] La pelle diventa ricoperte di pustole e macchie rosse, viola e nere […]”: così un trattato medico del 1630 descrive l’apparenza degli appestati. Roland Jacques, chirurgo alla corte dei re di Francia, è un testimone oculare. Ma non si può escludere che, come succede a moltissimi altri autori, la sua descrizione, così particolareggiata riguardo i colori degli appestati, sia indebitata anche a fonti letterarie. Analogo dubbio si ha guardando come peste e pandemie vengono dipinte. Certo se n’è scritto, e l’hanno dipinta, di tutti i colori. È “atra”, scura e fosca la malattia, come scrivono gli autori classici. È “Morte nera” come nel Trecento, “livida” come un cadavere nelle tele di Tintoretto o Poussin, è morte “rossa” come nei morbi emorragici, “morte bianca”, come veniva definita la tubercolosi dal pallore delle vittime, oppure l’influenza nei racconti della Porter. Le polmoniti atipiche prodotte dalla Spagnola venivano anche chiamate “la morte blu”, causa il tipico colore cianotico di labbra e viso dei pazienti morti perché non riuscivano più a respirare. Le malattie veneree sono verdastre, dal colore che assumeva l’ossidazione degli orinali pubblici di un tempo. Un verdastro malaticcio è il colore dominante ne La peste di Arnold Böcklin (1898), rappresentata, falce in mano, a cavalcioni di un orrido drago-insetto (mentre rispettivamente di rosso e bianco brillante sono vestite le figure femminili che ha già falciato). La “febbre gialla”, malattia virale trasmessa dalle zanzare, è così chiamata per l’ittero, la colorazione giallastra della pelle che produce. La malattia contagiosa in Schiele è 231 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 231 08/10/20 09:49 invece multicolore. Così come multicolore è il disfacimento nei dipinti di Lucian Freud. La immagini del virus del Covid lo mostrano di un bel rosa lubrico e brillante. Una pasticceria napoletana ne ha tratto ispirazione, nei giorni pre-lockdown, per un dolce che pare tale quale. Non so quanto abbia avuto successo. In una splendida conferenza alla Milanesiana a Pavia, in riapertura post-Covid, Claudio Magris ha ricordato, tra molte altre cose, la teoria di un geniale e truffaldino gesuita del Seicento, Athanasius Kircher, per cui il colore nasce non dalla luce ma dall’ombra. Teoria certo sbagliata, ma suggestiva nel secolo della peste e, soprattutto, di Caravaggio. Erudito, poliglotta in diciotto lingue, sinologo, tuttologo, erudito con notevole fantasia (a Borges piaceva citare le sue bizzarrie), autore di libri sulla peste, presunto inventore dell’analisi del sangue al microscopio, Kircher sostenne, tra molte altre cose impossibili con la tecnologia di cui disponeva, di aver visto bacilli nel sangue degli appestati. C’era un codice di colore per i diversi servizi legati all’epidemia nella Venezia del 1500. Dipinte di bianco erano le barche con cui si trasportavano malati e convalescenti. Nere quelle con cui si trasportavano i cadaveri. Col colore ha anche a che fare l’etimologia della nozione di contagio in cinese. Chuanran, contagio, letteralmente significa trasmissione mediante tintura, dalla radice ran, tingere. È il verbo con cui si designava una funzione molto importante e delicata, affidata esclusivamente a specialisti alla corte degli Zhou occidentali, dall’XI all’VIII secolo avanti Cristo: la tintura in diversi colori della seta grezza. La tintura “contamina” le fibre della seta. Chao Yunfang, autore del gran classico della medicina cinese del VII secolo, Zhu bing yuan hou lun (Sull’origine e i sintomi di tutte le malattie), distingue tra jianran, tintura per immersione, cioè contagio da contatto prolungato con una fonte di inquinamento, e xiangran, contaminazione da scambio ambientale. Infine una terza forma, in diverse varianti, ranyi (scambio mediante tintura) o zhuyi (scambio a pioggia), indica specificamente il contagio da persona a persona. Il Qi, il soffio attraverso cui avviene il contagio, ha qualche corrispondenza col miasma 232 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 232 08/10/20 09:49 degli autori medievali. Wu Youxing, autore di un classico della medicina cinese di metà Settecento, distingue sei diverse patologie da Qi, e in modo particolare fa una distinzione tra generiche “malattie da raffreddamento” e pandemie vere e proprie. A questo testo si sarebbero ispirati gli esperti di medicina tradizionale cinese nell’individuazione e nel trattamento dell’epidemia di Sars nel 2003, e anche le prescrizioni di medicina tradizionale contro il Sars-Covid 19. I ratti biblici di Poussin È difficile rappresentare visualmente qualcosa che non si vede. Per esempio quegli agenti invisibili del contagio che già nel 1546, nel suo De contagione et de contagiosis morbis et eorum curatione, Girolamo Fracastoro definiva virus (dal latino veleno). Oppure “far vedere” i miasmi pestiferi che, secondo le teorie allora prevalenti, alternative a questa intuizione del Fracastoro, sarebbero state all’origine delle epidemie. Come si “dipingono” la puzza, i cattivi odori? Ci provavano: dipingendo persone che si turano il naso. Ancora più difficile è rappresentare visivamente le emozioni: la paura del contagio, il ribrezzo per le sue conseguenze. Uno che ci provò a rappresentare puzza, panico, emozioni, paura, compassione e indifferenza in pittura è Nicolas Poussin. La sua Peste di Azoth è una delle più note, ammirate e studiate rappresentazioni dell’epidemia. Mostra tutto l’orrore dei morenti e dei cadaveri per strada. Mostra personaggi che si turano il naso per l’insopportabile fetore, tutti in preda al terrore, qualcuno all’indifferenza (come il personaggio che, in secondo piano, si guarda bene dal prestare aiuto al morente sulla scalinata del tempio), altri che non ricusano un gesto di umanità (come l’uomo in primo piano al centro che, pur turandosi il naso, volge un gesto di affetto al bambino sopravvissuto alla mamma e al fratellino gemello, entrambi morti; oppure l’altro personaggio, in primo piano a destra, che con una mano si tura il naso e con l’altra trattiene un ragazzino dall’avvicinarsi ai cadaveri). La grande tela di 233 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 233 08/10/20 09:49 Poussin è un capolavoro. Ma non è una testimonianza diretta, malgrado sia stato dipinto nel 1630, l’anno della peste. È una citazione letteraria, e, al tempo stesso, una straordinaria rielaborazione di citazioni pittoriche. Poussin la peste non l’ha vista coi propri occhi. Quell’anno viveva e lavorava a Roma, dove erano riusciti a (o avevano avuto la fortuna di) tenerla lontano. Eppure, come altri grandi narratori che lavoravano con la penna anziché col pennello, Poussin riesce a raccontarla molto meglio di chi l’ha vista. Non racconta la peste del suo tempo, ma un episodio della Bibbia, nel libro di Samuele, la peste che colpì i Filistei quando questi trafugarono agli Israeliti l’Arca dell’alleanza. “Leggete la storia e il dipinto, allo scopo di sapere se ogni cosa è appropriata al soggetto” è il consiglio che lo stesso pittore avrebbe dato a uno dei suoi mecenati, Paul Fréart Chantelou. Anche se si riferiva non a questo ma a un altro dipinto di soggetto biblico, Gli israeliti raccolgono la manna. Ma si può applicare alla Peste di Azoth, che Poussin a dire il vero preferiva intitolare Il miracolo dell’Arca nel tempio di Dagon. Citazione biblica è l’Arca, in secondo piano, sulla spianata del tempio a sinistra. Così come citazione biblica sono, giusto di fronte all’Arca, i resti dell’idolo di Dagon, “caduto a faccia in giù, persa la testa e le mani, gli era rimasto solo il tronco”. Citazione biblica sono anche i topi (nel dipinto ratti), che secondo la Vulgata avevano invaso la terra dei Filistei, all’interno e sulla costa, e anche le loro navi. Gli viene dalla lettura del Libro di Samuele. È una delle non frequenti rappresentazioni di topi o ratti nei dipinti con argomento la peste, e la cosa ha giustamente attirato attenzione. Ma non significa che Poussin abbia intuito il ruolo che hanno i ratti e le loro pulci nella trasmissione della peste bubbonica. E sono ratti vispissimi, non morti o moribondi come dovrebbero essere se contagiati dallo Yersinia pestis. Ce ne sono altre, di rappresentazioni di cadaveri e topi. Ammucchiati uno sull’altro, per esempio in un manoscritto illuminato del 1250, cioè di un secolo prima della grande peste di metà Trecento (Pierpoint Morgan Library, MS 638, folio 21, 234 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 234 08/10/20 09:49 verso). Ma anche in quel caso si tratta di citazione biblica, riguardo la Peste di Azoth. Numerosissime sono anche le citazioni pittoriche, visuali individuabili nel dipinto di Poussin, a cominciare dalla figura femminile di cadavere a seno nudo, con a fianco i bambini che allattava prima di ammalarsi. In molti hanno individuato tra i modelli di Poussin il Morbetto, l’incisione di Marcantonio Raimondi su disegno di Raffello. Il quale ha a sua volta un riferimento letterario: il passo dell’Eneide di Virgilio in cui i profughi troiani, approdati a Creta, credono di aver finalmente trovato una nuova casa, “senza nemici”, dove rifarsi una vita, dove costruirsi nuovi focolari che possano “amare”, e avere “nuove leggi”, ed ecco che “d’improvviso scoppia, corrottosi il cielo, un contagio (lues) distruttore di corpi, e di alberi, e di seminati, una misera stagione di morte”, per cui “abbandonavano la dolce vita o trascinavano malati i corpi ”(linquebant dulces animas aut aegra trahebant corpora)” (Eneide, III, 136-141). Non si capisce bene, c’è una discussione infinita su quale fosse il flagello che secondo la Bibbia colpì i Palestinesi (e se è per quello anche gli Ebrei ai quali riconsegnarono l’Arca dopo aver deciso di disfarsene, conferma se non altro che si trattava di malattia contagiosa). Solo abbastanza di recente il punto del corpo nel quale si manifestava la malattia, cui il testo si riferisce semplicemente come “parti nascoste”, viene tradotto “bubboni” o “rigonfiamenti”, in passato c’era chi traduceva “emorroidi”. Nel dipinto di Poussin non si vedono bubboni, il segno caratteristico della peste, né, come in altre opere d’arte, il gesto del sollevare il braccio o mostrare la coscia, tipico di chi vuole mostrare il bubbone cresciuto sotto le ascelle o all’inguine, parti normalmente appunto “nascoste”. Ma si “vedono” cose altrimenti impercettibili: si “vede” la paura, si “vede” il contagio, si vedono i colori della morte, il livore, il pallore, l’annerimento. Un saggio magistrale di Sheila Barker pubblicato nel 2004 su «“Art Bulletin»” ha dimostrato con dovizia di argomentazione che Poussin era familiare con le concezioni mediche del suo tempo (in cui si affacciava l’idea del contagio) e con i provvedimenti e le pau235 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 235 08/10/20 09:49 re diffuse riguardo la peste. Due dei suoi più importanti committenti e mecenati a Roma, Cassiano dal Pozzo e il cardinale Francesco Barberini, erano ben addentro l’argomento, corrispondevano con i massimi esperti d’Europa in fatto di medicina e di provvedimenti per arginare la peste. Barberini era stato messo alla testa della Congregazione di Sanità ed ebbe un ruolo nell’evitare che arrivasse a Roma la peste del 1630, quella del Manzoni, che devastò Milano, Venezia e mezza Europa. Avevano ordinato il blocco delle vie di terra e per fiume da Bologna in giù. Misero ronde che pattugliavano gli accessi per mare fino a Civitavecchia. Fu proibito il commercio del pesce, istituito il controllo di tutte le merci e persone che entrassero in città, specie gli stranieri. Furono disinfettati con aceto e fumigazioni tutti i locali pubblici, si procedette alla pulizia sistematica di mercati, strade, immondizie, fogne, e luoghi affollati come carceri e ospedali. A qualcosa servì. L’epidemia a Roma fu bloccata, per il momento (alle prime disattenzioni sarebbe tornata, qualche anno dopo). O fu solo fortuna? Certo che ci vuole anche quella. Cassiano, uomo di corte, e soprattutto raffinato intenditore e collezionista d’arte (si dice che fu lui, in occasione di un viaggio diplomatico in Francia, a dare il nome di Gioconda alla Monna Lisa di Leonardo, ma per altri era stato diversi decenni prima Giovanni Paolo Lomazzo). Era stato Cassiano a presentare Poussin al suo più importante cliente a Roma, il cardinale Barberini; era stato lui a chiedere consulenze in tutta Europa per il morbo gallico (sifilide) con cui si era infettato Poussin. C’è un mistero a latere: come mai Poussin abbia venduto questo capolavoro – e anche un altro dipinto, un pendant, forse un gemello di questo, o una copia, di cui s’è persa traccia, ma di cui c’è un suo disegno – non a uno di cotanti suoi patroni, bensì a un avventuriero siciliano, Fabritio Valguarnera. Il Valguarnera, di antica nobiltà di origine catalana (specialisti in pirateria nel secolo in cui, fingendo una Crociata, saccheggiarono Costantinopoli, diversi catalani si erano stabiliti in Sicilia e, arricchiti, si erano acquisiti titoli nobiliari), era ricercato da Madrid per ricettazione di diamanti 236 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 236 08/10/20 09:49 grezzi, giunti dalla Indie e poi rubati. Il sospetto era che riciclasse la refurtiva comprando opere d’arte. In effetti fu trovata in suo possesso una collezione degna di un re, anzi di un imperatore: dei Poussin, tra i quali appunto la Peste di Azoth, che allora aveva come titolo Il miracolo dell’Arca nel tempio di Dagon, dei Pietro da Cortona, Guercino, un Domenichino, un Guido Reni…: al punto che nacque la leggenda che stesse comprando dipinti per conto di Vélasquez e di Filippo di Spagna. Molti anni dopo il Poussin sulla peste cercò di comprarlo il cardinale Mazzarino, senza riuscirci. Ci riuscì invece il duca di Richelieu, nipote del cardinale, e da questi passò a Luigi XIV. È la ragione per cui il dipinto si trova oggi al Louvre. Essere ricercati dalla Spagna, nella Roma del Seicento era come essere inseguiti da un mandato dell’Interpol. Valguarnera fu arrestato, rinchiuso nel carcere di Tordinona e portato in giudizio. Al processo, tra gli altri, venne a testimoniare anche Poussin, disse che sì gli aveva venduto due grandi dipinti, e quello glieli aveva pagati in contanti. Il processo non si riuscì a concluderlo. Il 7 settembre 1631 si erano sospese le udienze perché l’imputato era malato. “Ha la febbre e vomita,” dice il certificato del medico del carcere. L’annotazione successiva è del 2 gennaio 1632, e dice che il prigioniero è deceduto dopo essere stato “per diversi giorni con la febbre”. Non era probabilmente peste, la malattia non sarebbe durata tanto. Poteva essere qualsiasi cosa. La Napoli di Micco o’ Spadaro Gustaw Herling, il raffinato intellettuale polacco che scrisse e testimoniò dei campi di Hitler e di Stalin, rievoca spesso gli orrori della peste. La sua opera più nota, Un mondo a parte, è dichiaratamente modellata sul Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe. “La lezione (del Diario di Defoe) consisteva nel fatto che certi capitoli ‘della nera storia dell’umanità’ (cataclismi, epidemie, stermini, invasioni barbariche, genocidi) potevano venir ricreati dalla penna di un cro237 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 237 08/10/20 09:49 nista il più possibile impersonale”: questa la sua spiegazione. Dalla penna, o dal pennello. Ecco la pagina in cui nel Diario scritto di notte (1971) racconta l’impressione in lui suscitata dal vedere al Museo storico di Napoli Episodi della peste del maggio 1656 al Largo Mercatello, l’opera del pittore barocco Micco o’ Spadaro (Domenico Gargiulo): Sulla tela di Spadaro il Largo del Mercatello, oggi Piazza Dante, dà l›impressione di un enorme pozzo prosciugato. Il pittore ha ottenuto questo effetto stirando verso il cielo le cupole, le case e le torri visibili al di là delle nude mura della piazza. Perché sono davvero nude, prive di qualsiasi costruzione, il che aumenta il senso di chiusura. Guardando il quadro da una certa distanza si è colpiti dalla sua somiglianza con le stampe illustranti l›inferno nelle vecchie edizioni di Dante. Sul fondo di un abisso tenebroso, un intrico di insignificanti corpiciattoli tormentati, condannati, presi nell›oscura rete della morte. Avvicinandosi alla tela ne emerge il vero soggetto: due episodi della peste napoletana visti nel maggio del 1656 in varie parti della città e poi trasportati sull›unica scena di largo del Mercatello. Per quanto sia facile individuare ogni episodio per osservarlo separato dagli altri, l›impressione è sempre quella di una massa che ,soffoca, risultato che probabilmente più premeva all›artista: fissando a lungo la scena alla fine, come attraverso una botola aperta all›improvviso, raggiungiamo il fondo di un mondo costruito sul disperante nulla della vita. Cumuli di cadaveri lungo i muri, sui carri, su barelle abbandonate, sulla nuda terra; tra di essi degli spettri umani più morti che vivi che trascinano per le braccia o per i piedi quelli appena morti; ecco un uomo, bocca e naso tappati da un fazzoletto, che porta una piccola bara; eccone un altro che, in ginocchio, solleva al cielo le braccia in un grido non di preghiera ma di maledizione; ecco due corpi stretti in ultimo abbraccio; ecco un bambino che succhia il seno di una donna morta. E di nuovo, senza neanche doversi scostare dalla tela, l›informe massa la cui unica espressione è la mancanza di ogni espressione. Senza darsi troppo pensiero delle condizioni imposte dalla realtà, l’Or238 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 238 08/10/20 09:49 cagna, non intralciato da un’esigenza di realismo, aveva dipinto in ben altra maniera il suo Trionfo della morte. Il suo era un monito, questa è una sentenza. ll nucleo del quadro si trova esattamente al centro di largo del Mercatello. Non so che aspetto avesse Spadaro, ma giurerei che si sia ritratto nel giovane vestito di scuro, gli occhi consumati dal pianto come quelli di un cieco, che tiene in mano una brocca inclinata: accanto a lui un uomo ricurvo ne beve l›acqua. È una simbolica sintesi della sete. Sete di che? È impressionante come nei dipinti sulla peste, eanche nei commenti dei dipinti sulla peste, esattamente come nelle narrazioni scritte, tornino più o meno le stesse cose. Si citano l’un l’altro, o più semplicemente raccontano la stessa cosa, le stesse umane reazioni ed emozioni? Anche la caccia agli untori sulla quale si sofferma subito dopo Herling sembra identica in ogni tempo e latitudine: nella Milano del 1630 di cui scrive il Manzoni, nella Napoli del 1656, nella Germania di Hitler, nella Russia di Stalin… e quando e dove ancora? Il popolo va a caccia dei colpevoli, di chi sparge “‘polveri velenose’ sparse dai ‘nemici di Napoli’, non necessariamente stranieri”. “In realtà le cronache presentano il quadro di due pesti, una reale e l’altra psicologica,” sostiene Herling, che la caccia alle streghe, con tanto di consenso popolare, l’ha provata sulla propria pelle. “Stavano per morire […] e si saltavano alla gola l’uno contro l’altro”, la notazione attribuita da Herling a un non precisato cronista. Segue un racconto: Negli atti di una confraternita religiosa ho trovato per caso la storia di un robivecchi di 25 anni: Agostino Lanzuolo. Il 29 maggio fu arrestato dalle guardie come uno della ‘pericolosa folla’ che aveva fatto a pezzi una vecchia venditrice sospetta di seminazione delle polveri velenose. L›indomani mattina fu portato in piazza del Mercato dove si trovava la forca. Dopo aver rifiutato di confessarsi, non volle inginocchiarsi davanti all›altare per respingere il crocifisso tesogli dal cappellano della confraternita. Tracotante, incalzava il boia ripetendo con ‘diabolica ostinazione’: Voglio morire, andiamo presto alla morte. Ottenuto un rinvio dell›esecuzione, il cappellano corse a cercare aiuto dai confratelli. Ne vennero quattro: lo scongiurarono, pregarono, piansero, accesero addirittura un fuoco ‘per rendergli più 239 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 239 08/10/20 09:49 sensibili i tormenti dell›inferno’. Invano. Verso sera, quando non fu più possibile rimandare l›esecuzione, il funzionario dette il segnale. Agostino scoppiò in una sonora risata, salì baldanzoso sul patibolo e appena gli furono sciolte le mani afferrò il cappio ‘per metterselo al collo da solo’. A un tratto avvenne qualcosa che la relazione dei fraticelli definisce ‹‘un evidente intervento del Cielo’: Agostino guardò la folla silenziosa in piazza del Mercato, la esaminò con una tale concentrazione e una ‘tale sofferenza sul volto sbiancato che tutti ne restarono come impietriti. Poi chiese di confessarsi. Il tempo stringeva, per cui si confessò velocemente, ma piangendo abbondantemente e battendosi ripetutamente il petto’. Piangevano e si battevano il petto anche i presenti e ben presto salutarono l›impiccato con grida di gaudio universale. La cosa più interessante è che negli atti della confraternita la relazione termina con la frase: “e fu come se un recipiente d’acqua fosse stato accostato alle labbra riarse e indurite della città appesa sulla croce, più assetata di verità che d’essere salvata dalla peste”. Le chevalier Roze precetta i galeotti Le Il Chevalier Roze devant la Tourette di Jean Francois de Troy e Le chevalier Roze faisant inhumer les pestiférés di Paul Guérin sono le più celebri rappresentazioni della peste di Marsiglia. Entrambe sono opere fortemente propagandistiche. Esaltano l’intervento della monarchia amministrativa, dello stato unitario, che in Francia c’è da molti secoli (e invece in Italia non c’è stato per molti secoli). Ed esaltano il personaggio che in quel momento rappresentava lo stato a Marsiglia, il plenipotenziario Nicolas Roze. Era un aristocratico, un militare, e pure un armatore. All’inizio dell’agosto 1720 la mortalità superava le quattrocento vittime al giorno. Poi la curva si impennò in modo spaventoso: mille, poi duemila morti al giorno. Ecco come riferisce, nel suo rapporto indirizzato a Parigi, il dottor Deydier, inviato dal Reggente Filippo d’Orléans: Non saprei come dipingervi il disordine spaventoso in cui ho trovato 240 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 240 08/10/20 09:49 questa città desolata: entrando dalla porta d’Aix assieme ai signori Verny e Chicoyneau, il colpo d’occhio verso la porta di Roma era la cosa più tremenda al mondo; porte e finestre chiuse, il selciato ricoperto, su entrambi i lati, dai malati e moribondi stesi su materassi senza alcun soccorso; in mezzo alla strada, e specialmente lungo il Corso, non si vedevano che cadaveri ammucchiati e mezzo decomposti, stracci sporchi e carri trascinati da forzati […] ammalati e morti erano talmente stretti che non si poteva fare un passo senza camminargli sopra. È lungo questa strada che, non saprei dire perché, vedemmo un gran numero di donne appestate morte, con ancora attaccati al seno i loro piccoli. L’appestata con attaccato al seno il lattante è una rappresentazione canonica, comune a un gran numero di scritti letterari e dipinti, di diverse epoche, e verrebbe da considerarla di maniera, non fosse di mano di uno mandato apposta a vedere con i propri occhi e riferire. La novità nelle descrizioni e nelle rappresentazioni della peste di Marsiglia è semmai la figura dell’eroe che risolve la situazione (in nome beninteso dello stato). Eroico è il medico inviato dal Reggente. Il dottor Chicoyneau “[…] arriva in città ed entra in tutte le infermerie. I letti delle vittime della peste non lo spaventano. Li esamina come se esaminasse una qualsiasi febbre terzana; respira l’aria che esce dalla bocca di questi sfortunati. Li consola, li nutre con del brodo. Poggia la mano sui bubboni, fa l’autopsia dei cadaveri che portano i segni della peste, ne scruta i visceri, li tocca […]”. È convinto che la peste non sia contagiosa, lo sostiene a spada tratta nei suoi scritti. Incosciente? Può darsi, ma non aveva del tutto torto: la peste bubbonica, a differenza di quella polmonare, è poco contagiosa, quel che bisogna evitare sono le pulci. Altrettanto eroico, noncurante del pericolo, deciso, deve essere per forza anche il funzionario responsabile per le misure di sicurezza sanitaria e la rimozione dei cadaveri. Avevano precettato i forzati delle galere reali e poveracci reclutati nelle campagne circostanti. Non bastando più le fosse, il cavaliere Roze aveva avuto “la geniale idea di trasformare in immensi sepolcri le due casematte de la Tourette, presso il porto, le cui volte, a livello terra, erano facili da scavare”. Duecento forzati delle galere furono accompagnati sul luogo 241 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 241 08/10/20 09:49 scortati da una compagnia del reggimento di Brie, al suono dei pifferi e dotati di un fazzoletto imbevuto di aceto da premersi sul naso. Per persuaderli gli puntarono addosso i fucili. Ma alla vista di quello spettacolo orrendo, di fronte a quell’ammasso di liquami e alla puzza insopportabile (si era d’agosto, quei cadaveri erano rimasti a marcire per settimane), anche i soldati esitavano. Allora, si racconta, il cavaliere de Roze scende da cavallo, afferra per una gamba il primo cadavere che gli capita a tiro, comincia a trascinarlo verso la breccia aperta sulla copertura del bastione, lo scaraventa nell’apertura. È la scena su cui si sono esercitati i pittori. Nel quadro di Troy si vede il cavaliere ancora a cavallo, dar ordini con il suo bastone a uno dei forzati. In quello di Guérin è smontato, e addirittura solleva per la vita uno dei cadaveri. In entrambe le rappresentazioni il suo abbigliamento, di un’eleganza impeccabile, lo distingue dai pezzenti al suo comando. Tunica, camicia, cravatta impeccabili, neanche fosse James Bond, Si ammalò anche lui, ma sopravvisse. Dei milleduecento forzati e altri poveracci che furono complessivamente mobilitati per la rimozione de cadaveri ne sopravvissero pare solo tre. Naturalmente la scelta dell’eroe dipende dalla sensibilità politica del narratore. Per il cattolico Chateaubriand l’eroe assoluto della Peste di Marsiglia non è né il medico mominato dal Re, né il funzionario laico, è l’arcivescovo Monsignor De Belsunce, così come per Manzoni è il cardinale Borromeo. Il rimedio di Napoleone Un’opera di pura, teatrale propaganda, in confronto alla quale impallidisce l’eroismo del cavaliere Roze, sono Gli appestati di Jaffa di Antoine-Jean Gros, entusiasticamente acclamato al Salon parigino del 1804. È la versione ufficiale, gradita a Napoleone Bonaparte, di un episodio della altrimenti disastrosa Campagna d’Egitto e di Siria del 1798-1801. In Egitto era andato bene solo il saccheggio, che consentì a 242 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 242 08/10/20 09:49 Vivant-Denon di gettare le basi della collezione del Louvre. Quella per la conquista della Siria non era neanche cominciata, perché si era diffusa la peste tra le truppe francesi al comando del generale Bonaparte. La peste aveva accompagnato l’Armée durante tutta la campagna, assieme alla dissenteria e altre malattie. Ma era esplosa dopo la presa di Acri e poi Jaffa. All’inizio non la chiamavano nemmeno peste. Parlavano di “febbre”, per non diffondere il panico. Il dottor René-Nicolas Desgenettes, il medico militare della spedizione, rivendica e giustifica la scelta terminologica: “Sapendo come le denominazioni influiscano spesso negativamente sulla mente degli uomini, mi rifiutavo di pronunciare la parola peste. Pensavo che fosse mio dovere, in quelle circostanze, trattare l’esercito come un ammalato al quale è sempre inutile e sovente pericoloso dire troppo di una malattia quando questa è critica”. Ne era tanto convinto che, per provare che non c’era pericolo si inoculò, o fece finta di inocularsi davanti alle truppe il pus degli “appestati”. In effetti i soldati erano terrorizzati. Ci furono diversi suicidi. “Se si fosse detto subito la verità ci sarebbero state meno vittime,” il commento del chirurgo capo, il dottor Larrey. È a Jaffa che la situazione e le bugie diventano insostenibili. Napoleone ancora l’anno prima dava per iscritto a Kléber, a proposito della comparsa di sporadici casi di contagio nella seconda brigata di fanteria, i seguenti consigli: “Fateli spogliare nudi, fategli prendere un bagno di mare; che si strofinino bene dalla testa ai piedi, che lavino bene le uniformi e facciano in modo di tenersi puliti…”. Ma poi la peste iniziò a falcidiare le fila della forza di spedizione francese. Napoleone dovette levare l’assedio ad Acri. “Se avessi preso San Giovanni d’Acri, avrei fatto una rivoluzione in Oriente […] avrei raggiunto Costantinopoli e l’India, avrei cambiato la faccia del mondo,” detterà nel Memoriale di Sant’Elena. Ripiega su Jaffa. Gli aiutanti di campo del generale Bonaparte avevano trattato la capitolazione della guarnigione turca promettendogli salva la vita. Ma ottenuta la resa, Napoleone rinnegò la promessa e ordinò che i prigionieri venissero uccisi. Il massacrò durò due giorni. Si cominciò con la fucila243 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 243 08/10/20 09:49 zione degli arabi sulla spiaggia in riva al mare. Il giorno dopo toccò ai milleduecento cannonieri turchi. Li passarono a filo di baionetta, perché gli era stato ordinato di risparmiare le munizioni. Gli restava da risolvere il problema dei soldati francesi ammalati di peste. Se li erano portati dietro dall’assedio di Acri. Napoleone non voleva. Erano ingombranti. Gli ostacolavano la ritirata. Rischiavano di diffondere il contagio. Erano un pericolo per i loro commilitoni. Soprattutto li demoralizzavano, gli facevano paura. Se li avessero abbandonati sarebbero finiti in mano a un nemico “selvaggio”, che per i prigionieri non aveva pietà. Napoleone avrebbe ordinato di sopprimerli, con una dose letale di oppio. Lo confermerebbe una nota in codice del diario intimo del generale Jean-Baptiste Kléber, decifrata in seguito da un altro generale francese, Dams. “Non potevamo abbandonarli vivi in mano a un nemico che li avrebbe uccisi lo stesso, ma tra atroci sofferenze, dopo averli umiliati, torturati, mutilati, magari sodomizzati”, la scusa. Desgenettes si sarebbe opposto, questo era troppo anche per lui, o almeno così sostiene nella sua Storia medica dell’Armata d’Oriente. Napoleone cedette, decise di portarseli dietro a Jaffa. Ma poi tornò alla decisione originaria, dette ordine di porre fine alle loro sofferenze, farli avvelenare con il laudano. A farsi carico dell’ordine sarebbe stato un farmacista, di nome Royer. Qualcuno però sopravvisse, e lo raccontò agli inglesi che avevano occupato Jaffa abbandonata da Napoleone. Sul doppio massacro, dei prigionieri e dei propri soldati avvitò una feroce campagna di denuncia e di propaganda da parte dei britannici che erano in guerra con i francesi. Si scatenarono la stampa e i caricaturisti. Ma se ne continuava a mormorare anche in Francia, tra le élite, quelli addentro ai segreti, e anche nell’opinione pubblica. È in questo contesto che Napoleone aveva bisogno di un’iniziativa di contropropaganda. E trovò un esecutore di straordinario talento in Gros, allievo di Jean-Luis David. Nel dipinto, eseguito con grandissima perizia scenografica, si vede Napoleone che visita gli ammalati, li consola, addirittura tocca con la mano nuda un gigante seminudo al quale stanno 244 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 244 08/10/20 09:49 incidendo un bubbone. Il dottor Desgenettes tenta di dissuaderlo. Un altro ufficiale si tappa il naso con un fazzoletto, a indicare l’insopportabile fetore che ammorba il luogo. Napoleone non se ne cura. Sarebbe uno di quelli che la mascherina non se la mettono. Il suo è il gesto dei re taumaturghi di Francia, che guariscono gli scrofolosi con l’imposizione della mano. È come fosse già l’Empereur. Da assassino cinico dei suoi stessi soldati in questo dipinto si trasforma in santo guaritore. Gros non poteva aver assistito ad alcuna scena del genere. Non era neanche in Egitto, era rimasto in Italia. Pare che a fargli da regista, a dettargli per filo e per segno la composizione della scena, a descrivergli l’edificio che a Jaffa ospitava gli appestati, sia stato l’ineffabile Denon, discreto romanziere, grande imprenditore delle antichità, genio della propaganda, lo Speer e insieme il Goebbels di Napoleone. Non per niente era assolutamente entusiasta del dipinto. Non si sa se Napoleone sia mai andato davvero a trovare i suoi soldati appestati. E se è per questo pare che nemmeno Denon li abbia visti davvero. Come sempre ci furono anche quelli che ricamarono ancora oltre con la fantasia adulatoria: ci fu chi andava in giro a raccontare che sì, non solo Napoleone aveva toccato i bubboni, ma aveva anche sollevato uno degli appestati. Mancava poco giurassero che li aveva guariti. Ancora qualche anno e ci avrebbe pensato la campagna di Russia a ridare un senso di proporzione. Oltre che dai Russi la Grande Armée fu massacrata dal tifo. E non c’era nemmeno bisogno di fargli l’eutanasia, ci pensava il Generale inverno. Balla con gli scheletri Prima di Poussin, di Giorgione, di Tintoretto, di Tiziano, l’Europa intera aveva ballato per un paio di secoli con la morte. Da Palermo a Tallinn, da Firenze a Clusone, da Pisa a Parigi, le pareti di cimiteri e chiese sono piene di danze macabre, rappresentazioni di scheletri che fanno la predica attraverso le scritte nei cartigli, anticipatori assoluti del fumet245 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 245 08/10/20 09:49 to, e con il linguaggio dei gesti, per chi non era in grado di leggere, l’assoluta maggioranza. Sono immagini destinate a una fruizione collettiva, diffusa. I cadaveri negli affreschi erano comparsi già prima della peste nera. Si discute ancora della datazione del Trionfo della morte negli affreschi del Camposanto di Pisa, così come non si è mai conclusa la discussione su chi ne sia l’autore. Traini o Buffalmacco? Prima o dopo il 1348? Pare ormai accertato: prima. La cosa certa è che dopo la grande peste si moltiplicano, si diffondono a macchia d’olio. E i morti cominciano a fare una cosa che prima non facevano: cominciano a ballare. A cosa servono le danze macabre? Da memento mori, ricordati che devi morire? Ce n’era bisogno? Tutti prima o poi si muore. E non si muore affatto solo di epidemia. È abbastanza scontato: in genere sono prediche dipinte. E spesso quel che si vede nelle immagini corrisponde a un testo che è possibile leggere, talvolta viene addirittura riprodotto come scritta nel dipinto. Servono a promettere l’adilà? Non sembra proprio. Non c’è ombra di paradiso o purgatorio. Servono a infondere terrore? Può darsi. Ma da un certo punto in poi diventano puro spettacolo, che il pubblico gode e apprezza con lo stesso interesse con cui nell’Ottocento si leggeva di Frankenstein e di Dracula, oggigiorno si legge Stephen King e si guarda un film horror. Il brivido non è solo predica: piace, diverte. L’orrore è anche liberazione, catarsi, come nella tragedia greca. “Lo stesso sentimento che si prova al termine della corsa in ottovolante”, un “momento magico di sicurezza e reintegrazione”, quando nel finale lo spettatore ha l’impressione di aver affrontato il peggio, ma essersela cavata, almeno per il momento, dice King nel rammentare la reazione sua e degli altri ragazzini ai film horror degli anni cinquanta: “Credo sia questo sentmento di reintegrazione, che nasce da un genere specializzato in morte, paura e mostruosità, a rendere la danse macabre così appagante e magica… quello e l’abilità sconfinata dell’immaginazione umana nel creare infinite fantasticherie per poi usarle” (Danse macabre). 246 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 246 08/10/20 09:49 “Questi affreschi credo vadano considerati uno spettacolo in senso proprio, tanto più che tornavano ad animarsi, non solo attraverso le parole di un predicatore o di una guida, ma anche quelle sparse nei cartigli lungo tutte le cronici, quelle che prendono posto all’interno dei temi rappresentati o che persino escono dalle bocche dei personaggi dipinti (invenzione particolarmente disprezzata dal Vasari)”, è una delle intuizioni di Chiara Frugoni a proposito del ciclo di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa. Due secoli dopo la funzione di spettacolo, di ricreazione popolare è molto più esplicita. Un tema ricorrente nei Trionfi della morte, oltre al solito scheletro travestito da morte, in diverse fasi di decomposizione, con diversi tipi di appendici che gli consentono di volare (in genere ali di pipistrello), e diverse armi che gli consentono di colpire anche da distanza, senza che la vittima se ne accorga (c’è una miniatura nordica in cui a scagliare freccette è il Padreterno in persona), è il carro, tirato da cavalli altrettanto scheletrici, oppure da buoi o bufali, spesso neri. Ebbene, nel Cinquecento a Firenze si facevano sfilare in occasione del Carnevale, che certo non è ricorrenza di mestizia, carri allegorici di questo tipo. Racconta ad esempio il Vasari di quello commissionato nel 1511 a Piero di Cosimo, il quale “per essere capriccioso e di stravagante invenzione, fu molto adoperato nelle mascherate che si fanno per carnevale”: Fra questi [carri di carnevale], che assai furono et ingegnosi, mi piace toccare brevemente di uno che fu principale invenzione di Piero già maturo di anni, […] una strana e orribile et inaspettata invenzione di non piccola satisfazione a’ popoli; ché come ne’ cibi talvolta le cose agre, così in quelli passatempi le cose orribili […] dilettano maravigliosamente il gusto umano: cosa che apparasche nel recitare le tragedie. Questo fu il carro della morte, da lui segretissimamente lavorato nella sala del Papa, che mai se ne potete spiegare cosa alcuna, ma fu veduto e saputo in un medesimo punto. Era il trionfo un carro grandissimo tirato da bufoli, tutto nero e dipinto di ossa di morti e di croce bianche; e sopra il carro era una morte grandissima in cima, con la falce in mano; et aveva in giro al carro molti sepolcri col coperchio; ed in tutti quei luoghi che il trionfo si fermava a cantare, s’aprivano e uscivano alcuni vestiti di tela 247 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 247 08/10/20 09:49 nera, sopra la quale erano dipinte tutte le ossature di morto nelle braccia, petto, rene e gambe, che il bianco sopra quel nero, et aparendo di lontano alcune di quelle torce con maschere che pigliavano col teschio di morto il dinanzi e ‘l dietro e parimente la gola, oltre al parere cosa naturalissima, era orribile e spaventosa a vedere; e questi morti, al suono di certe trombe sorde e con suon roco e morto, uscivano mezzi di que’ sepolcri, e sedendovi sopra, cantavano in musica piena di malenconia quella oggi nobilissima canzone: Dolor, pianto e penitenzia, etc. Era innanzi e adrieto al carro un gran numero di morti a cavallo, sopra certi cavalli con somma diligentia scelti de’ più secchi e più strutti che si potessino trovare, con copertine nere piene di Croci bianche; e ciascuno aveva 4 staffieri vestiti da morti con torce nere et uno stendaro grande nero con croci et ossa e teste di morto […]. Un sacco di effetti speciali, insomma, da teatro, anzi quasi da film, comunque in funzione di entertainment. Era, ci spiega Anton Francesco Grazzini, nel dedicare nel 1559 a Francesco I de’ Medici la sua enciclopedica collezione di Canti carnascialeschi, festa “della quale tutto il popolo ha preso piacere e contento”, spettacolo per tutti, anche per “le fanciulle in casa”, che vi assistono “facendosi [affacciandosi] a una gelosia o una impannata” e che “senza essere vedute da persona vedono e odono il tutto”. Un musical insomma, del quale “si leggono le parole da ogni gente, e la notte si cantano per ogni luogo”, un prodotto culturale che si esporta dappertutto, manco portasse il marchio Hollywood: “Si mandano non solo in tutto Firenze e in tutte le città d’Italia; ma nella Magna, in Spagna e in Francia, a parenti e agli amici” (Tutti i trionfi, carri, mascherate o canti carnascialeschi andati per Firenze dal tempo del Magnifico Lorenzo de› Medici è [...] per infino a questo anno presente 1559). Succedeva qualcosa di ancora più strano. Lo spettacolo divenne interattivo. Nei secoli della coabitazione con la peste, dei Sabba attribuiti alle streghe, l’Europa intera si ritrovò a ballare davvero, non solo in effigie, in una lunghissima e continua notte della Taranta. Era anche quella a quanto pare una vera e propria epidemia. Colpiva all’improvviso. Era contagiosa. Apparentemente senza alcun motivo, all’improvviso si mettevano a ballare, con o senza musica, e non riusci248 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 248 08/10/20 09:49 vano a fermarsi, continuavano sino all’esaurimento fisico, a volte addirittura fino a morirne. A volte colpiva contemporaneamente interi villaggi, migliaia di persone che si muovevano tutte insieme a un ritmo indiavolato. Come in un mega concerto rock. Paracelso aveva dato alla malattia un termine medico: coreomania. Resta a tutt’oggi misteriosa. Si sono immaginate diverse possibili cause: che si trattasse di psicosi collettiva, di avvelenamento da ergotismo prodotto da funghi tossici nei cereali mal conservati, o da qualche altro microorganismo che provoca stati allucinatori e reazioni psicomotorie, che si trattasse di una reazione nervosa. Secondo altri sarebbe una malattia immaginaria, esattamente come immaginarie sono le streghe che ballano con il demonio e cavalcano scope, immaginari gli untori che diffondono la peste o gli ebrei che a Pasqua dissanguano bambini cristiani per condire le azzime. Ma si sa che le immaginazioni possono avere conseguenze terribili, tutt’altro che immaginarie. L’avevano chiamata ballo di San Vito o l’avevano attribuita al morso di un ragno velenoso, la tarantola. Si rimediava con gli esorcismi, come per gli indemoniati. Se ne hanno innumerevoli segnalazioni, in tutta Europa. Fu diagnosticata in Puglia come “tarantismo” da quel geniale e colto ciarlatano gesuita che si chiamava Athanasius Kircher, in Scozia la chiamarono Leaping Ague, la malattia che fa saltare. Se ne ha testimonianza figurativa in molte illustrazioni e dipinti, compresi i disegni di Bruegel. Perché mai si dovrebbe escludere che si tratti della stessa sindrome che affligge gli scheletri che nelle Danses macabres ballano, con movimenti frenetici e convulsi con le loro controparti ancora viventi ma destinate a lasciare questo mondo? Una favola raccolta dai fratelli Grimm, Il pifferaio di Hamelin, riunisce musica, danza irrefrenabile e topi. Dietro promessa di compenso, il Pifferaio libera la ricca e troppo prospera città dai topi (o ratti) che la stanno distruggendo, li attira con la sua musica e li costringe a gettarsi in mare. Quando gli negano il compenso, si vendica portando via i bambini, che lo seguono danzando freneticamente, incapaci di resistere e fermarsi. Un esperto di Dracula, Radu Flore249 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 249 08/10/20 09:49 scu, ha enunciato in uno dei suoi numerosi libri le molte affinità tra le leggende e le favole attorno al Principe valacco Vlad l’Impalatore, alias Dracula, e la leggenda dei bambini rapiti dalla musica del pifferaio. Uno dei più grandi pittori del Cinquecento, Hans Holbein, prima di trasferirsi e fare fortuna in Inghilterra alla corte di Enrico VIII, si era fatto conoscere nella sua Basilea con una serie di incisioni in cui gli scheletri danzano con rappresentanti di ogni categoria sociale, dal papa e dall’imperatore in giù, e di ogni professione. Sono pieni di ironia. Non terrorizzano, incuriosiscono, divertono. Si vendevano bene, andavano a ruba. Fanno venire in mente gli spassosi scheletri animati da Walt Disney, che non hanno fatto venire gli incubi a nessuno, neanche ai bambini più paurosi (mi aveva fatto molta più impressione la morte della mamma di Bambi). Ballavano i contadini, come nei dipinti di Bruegel. E anche i ricchi e i signori ballavano. Ballando nelle stalle e ballando con le stelle. Nel 1521 i patrizi di Norimberga avevano collegato le danze al proprio potere politico. Come a Monaco, il Palazzo del Comune aveva una sua sala da ballo, e un’ordinanza stabiliva che il diritto di voto spettava solo “alle famiglie che danzavano qui nei vecchi tempi e vi danzano tuttora”. La fascinazione per la danza, che aveva segnato i secoli della peste, stranamente torna nell’Ottocento, il secolo del colera e di tutte le altre malattie contagiose che gli si affollavano attorno. A metà Ottocento “non c’era un londinese che stesse del tutto bene in salute”, è come la mette Peter Ackroyd nella sua biografia di Dickens. Nel 1847 un quarto della popolazione di Londra (allora mezzo milione di abitanti) era stata colpita da una febbre tifoidea. L’anno dopo cinquantamila londinesi morirono per l’influenza, sessantaduemila di colera. Poi c’erano la scarlattina, il vaiolo, la sifilide e la più micidiale e al tempo stesso romantica delle malattie del secolo, la tubercolosi, la “peste bianca”. Curioso, al susseguirsi e affastellarsi delle epidemie faceva riscontro un vero e proprio boom di nuove danze veloci e scatenate: walzer, polka, mazurka, tarantella. È in quegli anni che viene pubblicato e tradotto, e diventa un best-seller, 250 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 250 08/10/20 09:49 Morte nera e mania della danza di Justus Friedrich Karl Hecker, vera e propria enciclopedia di casi clinici ed episodi di cronaca sull’argomento. In appendice ha un capitolo sul tarantismo nell’Italia meridionale. Tra le osservazioni, una che segnala “la generale convinzione” che “il veleno della tarantola si distribuisse in tutto il corpo, e fosse espulso attraverso la pelle, ma che, se ne rimaneva il più piccolo vestigio nei vasi sanguigni, questo diventasse un germe permanente del disturbo, di modo che le crisi danzanti venivano scatenate nuovamente ed eccitate all’infinito dalla musica”. Come si trattasse di un retrovirus, insomma. La situazione della classe operaia in Inghilterra di Friedrich Engels (In base a osservazioni dirette e fonti autentiche, recita il sottotitolo) descrive, per le grandi città, situazioni abitative, igieniche e alimentari tali che meraviglia che non sia andata anche peggio. Tra le sue fonti un dettagliato rapporto del dottor James Kay, membro della Commissione ufficiale incaricata di indagare sulla terribile epidemia di colera del 1832 a Manchester. “All’avvicinarsi dell’epidemia, un’ondata di terrore pervase la borghesia della città; improvvisamente la gente si ricordò delle insalubri dimore dei poveri, e rabbrividì nella certezza che ognuno di quei miseri quartieri sarebbe divenuto un focolaio di infezione, dal quale il morbo si sarebbe diffuso rovinosamente in tutte le direzioni verso le case della classe abbiente. Venne nominata all’istante una commissione d’igiene […].” Ma passato il pericolo, a quanto pare si ridimenticarono del problema. Nessuno era immune, nemmeno i Royals. La regina Vittoria, che avrebbe dato il suo nome al secolo, rimase vedova nel 1861, quando il principe consorte Alberto morì di tifo. I romanzi di Charles Dickens sono pieni di miseria e di malattie contagiose. E anche di danze e balli di società. Verso la fine di La piccola Dorrit, Mr. Merdle, un personaggio che fino a quel momento sembra a tutti baciato dalla fortuna, ha fama di “uomo illustre e onore della nazione”, si ritrova in un salotto della Londra bene e chiede in prestito un temperino. Prende congedo. “Scendendo in strada sembrava saltellare, danzare il walzer, 251 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 251 08/10/20 09:49 e volteggiare, come se fosse posseduto da molti demoni.” Va a casa, e si taglia la gola. Sarà solo coincidenza che Suspiria di Dario Argento sia ambientato in una scuola di danza? Al buio, al cinema Il macabro, il truculento, l’orrido fanno venire brividi. Ma non sempre solo di paura, anche di piacere. Sono entertaining, sono una forma di spettacolo. Le tricoteuses si mettevano, col loro lavoro a maglia, in prima fila davanti alla ghigliottina come se andassero a teatro. Le esecuzioni pubbliche non avevano solo una funzione di intimidazione, non intendevano solo terrorizzare il pubblico, ma anche a soddisfare la voglia di spettacolo. C’è probabilmente un filo rosso che unisce la tragedia greca e il teatro della crudeltà teorizzato da Artaud. Il teatro del Grand Guignol, che aprì i battenti in una cappella sconsacrata di rue Chaptal, nel quartiere dove i borghesi parigini mantenevano le loro cocotte, aveva dato inizio a un genere sterminato di horror sanguinolento e sadico, ma finto, pura messa in scena ed effetti speciali, che avrebbe avuto uno strepitoso successo fino ai giorni nostri e a Quentin Tarantino. Era il 1897, in piena Belle époque, nello stesso anno in cui apparve il Dracula di Bram Stoker. Il pubblico non cessò di appassionarsi nemmeno quando l’orrore si presentò davvero, prima nelle trincee della Grande guerra, poi, più in sordina e in modo molto più subdolo, con la grande epidemia si spagnola. Prima ancora del Grand Guignol a Parigi faceva furore il Cabaret du Néant (il cabaret del Nulla) aperto a partire dal 1892, al 34 di boulevard de Clichy, giusto sotto Montmartre. Il locale accoglieva i clienti in un’atmosfera da catacomba, tra pareti decorate con scheletri e tavoli forma di bara. A proposito di scheletri, cripte, danses macabres, siete mai stati alla catacomba di San Gaudioso nel sottosuolo di tufo del Rione Sanità a Napoli? Tra le particolarità, un’invenzione seicentesca: i crani, privati della parte anteriore tranciata di 252 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 252 08/10/20 09:49 netto, incastrati nelle pareti di tufo, faccia in avanti, per modo di dire. La restante parte del corpo, o per meglio dire dello scheletro, è dipinta sul muro, dal cranio vuoto in giù. Le signore hanno il privilegio di vedere la parte inferiore del proprio scheletro pudicamente coperta da una gonna lunga fino ai piedi. Alcune delle effigi sono accompagnate da elementi didascalici indicanti lo status sociale del defunto ischeletrito. Non fanno paura, semmai fanno sorridere, anzi ridere. Come forse succedeva – qualcuno mi contraddirà – per le danze macabre post medievali. Altra bizzarria del luogo, anch’essa secentesca, cioè di un secolo di peste, una serie di nicchie nel muro, definiti seditoi, o detti anche cantarelle o scolatoi. I ragazzi della Cooperativa La Paranza (inventata nel 2006 dal parroco don Antonio Loffredo per sottrarli alla droga e alla camorra), che accompagnano i visitatori, spiegano che servivano a far essiccare i morti. I cadaveri si gonfiavano per la decomposizione, quindi venivano punti e fatti scoppiare, per far scolare i liquami. Schiatt’o’muorto, in napoletano “becchino” verrebbe appunto da far scoppiare, spremere il morto. Poe o Lovecraft ne avrebbero tratto un racconto. “I’ faccio ‘o schiattamuorto ‘e professione, modestamente sono conosciuto pe tutt› ‘e ccase ‘e dinto a stu rione, pecchè quann›io maneo nu tavuto, songo nu specialista ‘e qualità . I’ tengo mode, garbo e gentilezza. ‘O muorto mmano a me pò stà sicuro, ca nun ave nu sgarbo, na schifezza. lo ‘o tratto come fosse nu criaturo che dice a ‘o pate: “Me voglio jì a cuccà’” Totò, da ‘A livella È al cinema che si intrecciano più compiutamente e raggiungono un più vasto pubblico gli orrori della malattia e del contagio, con i mostri creati dall’immaginazione. Hollywood 253 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 253 08/10/20 09:49 sforna una profusione di pellicole in cui la minaccia biologica assume le forme più svariate, dall’Invasione degli ultracorpi di Don Siegel ad Alien, passando per tutti i mostri, i vampiri, i lupi mannari e invasori da altri mondi immaginabili. Solo a elencare i titoli dei film horror, i loro autori, le opere letterarie da cui sono tratti o ispirati, senza contare gli innumerevoli remake e i sequel e prequel ci vorrebbero diversi volumi. Ci sarebbe da perdersi, come tra i santi e gli angioletti della pittura barocca o gli sceheltri danzanti delle danze macabre. Uno che certamente di horror spettacolo se ne intende, Stephen King, vi ha dedicato a fine anni settanta un volume di 500 pagine, intitolato appunto Danse macabre. È una rassegna quasi esaustiva dell’horror americano dagli anni cinquanta in poi. Offre anche una sorta di classifica e molte osservazioni sul rapporto tra le opere menzionate e la loro epoca, le successive generazioni a cui erano dirette. Altrettanto si potrebbe fare per i mostri inventati dal cinema o dalla fantascienza giapponese (ricordate Godzilla?), o russa, o cinese. Hanno tutti a che fare con la paura. Spesso con la paura del momento, cioè con la politica, e nella fattispecie con la politica internazionale. Per esorcizzare la paura niente è più efficace che renderla spettacolare. Qualcuno ha anche a che fare con la scienza. O con la paura della scienza, o i conflitti tra potere e scienza. Una grande fioritura di film di fantascienza connessi all’argomento virus, contagi ed epidemie c’è stata negli anni in cui infuriava l’Aids, e in quelli successivi. Ognuna di queste opere di immaginazione è legato ad una minaccia specifica, reale, datata. Outbreak (titolo italiano Virus letale), con Dustin Hoffman in tuta scafandro arancione e casco con visiera che anticipa quelli anti-covid, è del 1995, quindi post Ebola. Contagion di Steven Soderbergh è del 2011, quindi post SARS. Ogni volta che l’America si accorge, con orrore, di non essere immune dai mali del resto del mondo, si rende conto che il suo splendido “eccezionalismo” non basta a proteggerla, inventa nuovi orrori di fiction in cui affogare l’ansia e la paura. 254 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 254 08/10/20 09:49 Ma Andromeda strain è del 1971, quindi di prima dell’Aids, e il libro di Michael Crichton da cui il film è tratto era del 1969. Viene a ridosso di una grande successo scientifico: l’allunaggio dell’Apollo 11. Ma precorre i tempi immaginando quel che sarebbe potuto succedere se gli atsronauti avessero riportato con sé una minaccia invisibile e sconosciuta. Sia nel romanzo che nel film il gigantesco laboratorio militare segreto dal quale il contagio è scappato somiglia al Building 37 del Johnson Space Center che ospitava il Lunar Receiving Laboratory, il centro per la quarantena di astorinauti e materiali lunari. Andromeda racconta della rapidissima invasione della terra da parte di un organismo letale per gli esseri umani, specificamente per gli esseri umani e la paricolare acidità che conente alle loro cellule di vivere. Ad essere precisi non è neanche un organismo, non è certo si tratti di qualcosa di vivente, non è un batterio, non è neanche un virus, non ha DNA, non è neanche un prione, non è fatto di proteine, somiglia semmai vagamente ai cristalli. Eppure si diffonde a velocità spaventosa, uccide all’istante, A chiunque ne venga a contatto gli si solidifica il sangue. Tranne a un vecchio alcolizzato e un bambino malato. Saranno questi immuni contro ogni aspettativa a fornire agli scienziati la soluzione. Ha radici profonde anche quest’idea, che i più deboli, i più disprezzati possano essere in realtà i più forti, i più indispensabili. More than human, Più che umano, si intitola un bellissimo racconto di Theodore Sturgeon, che risale al 1953, in cui i dotati di superpoteri, i veri superuomini sono esseri umani che altri chiamerebbero handicappati, esseri che i nazisti avrebbero eliminato. Da almeno un paio di secoli, forse da sempre, convivono, talvolta scorrono una accanto all’altra senza incontrarsi, talvolta si scontrano con violenza, altre volte ancora si mischiano due correnti: quella che privilegia i più forti e quella che difende i più deboli. Sarei tentato di chiamarle destra e sinistra, ma mi rendo conto che si tratta di una definizione imprecisa, insoddisfacente. Credo che le due correnti, i due modi di pensarla, siano venuti fuori anche sul covid. La prima corrente è l’idea che il nuovo coronavirus 255 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 255 08/10/20 09:49 colpirebbe solo, o soprattutto, gli anziani e chi ha già altri guai sanitari, per cui non varrebbe la pena di bloccare tutto per salvare chi comunque prima o poi dovrà defungere. Qualcuno ha fatto anche dei calcoli: ogni vita salvata costerebbe oltre mezzo milione di dollari, e chiede nei blog: sareste disposti a pagarlo con le vostre tasse? Qualcuno pensa che una moria di anziani non sia poi così male: si risparmia sulle pensioni. La corrente opposta è che vanno salvate le vite di tutti, anche dei più deboli, anche degli anziani. Credo che per ora abbia prevalso quest’ultima corrente. È una delle ragioni per cui sostengo – in fondo alla nota che lo conclude, se mai il lettore avrà la pazienza di arrivarci – che il libro che avete in mano avrebbe potuto anche intitolarsi: “Poteva andare peggio”. Spero di non sbagliarmi. Un filone apparentemente in calo è il cyberpunk, l’uomo macchina, anzi l’uomo computer, o mezzo carne mezzo elettronica e high tech. Neuromante di William Gibson è del 1984, guarda caso l’anno che Orwell aveva immaginato per ambientare la sua distopia della dittatura totale. Ci fu subito, tra i maîtres à penser chi gridò all’ “ordine cibernetico neo-capitalista che punta […] al controllo totale”. Inesauribile appare invece il filone degli zombies, dei morti viventi, stretti parenti dei vampiri, che contagiano i vivi, li trasformano in modo da riprodurre copie di sé stessi, esattamente come fanno i virus. L’antichissima paura del revenant riprende il sopravvento sulla paura delle intelligenze artificiali che potrebbero assumere il controllo. La primogenitura del genere zombie, se non il titolo di capolavoro indiscusso spetta a La notte dei morti viventi di George Romero. È del 1968, anno in cui l’America, e la mia generazione, avevano ben altro in testa. Il dopo 9/11 aveva visto il successo (oltre un milione e mezzo di copie) di The Zombie Survival Guide di Max Brooks, nipote dell’attore Mel Brooks, giornalista. Era una parodia delle ansie, delle paranoie e delle ossessioni survivalist. In una divertente successione di capitoli si presenta come un manuale sull’ecologia, i modi per evitare gli zombi (gli undead, i non morti) e le armi per difendersi da loro. Tra i con256 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 256 08/10/20 09:49 sigli fondamentali: evitare gli assembramenti, monitorare la fauna selvatica, non disturbare troppo la natura. Cataloga zombi di ogni g enere. Tra le sue invenzioni anche il virus Solanum: è una creatura che non muore mai (e non è neppure vivente), non abbisogna di ossigeno, né acqua, né cibo, ci mette anni a decomporsi, corre da un continente all’altro, attraversa anche gli oceani. La sua ragione di esistere è divorare i viventi, né mai ne è sazia. Se lo si becca si muore nel giro di ventiquattr›ore, ti si liquefa il cervello. Tutti gli esseri viventi, microbi compresi, cercano di evitarlo. Ne è stata tratta anche una graphic novel, ce n’è una app scaricabile su iphone. Si tratta di un virus antichissimo. Se ne parla, viene segnalato da sessantamila anni. “Immergendoci negli orrori del passato possiamo forse ancora vincerlo quando si ripresenterà ai nostri tempi,” ci viene spiegato. 257 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 257 08/10/20 09:49 8. Tutte le paure del mondo iL sogno di rasKoLniKov “Egli rimase all’ospedale tutta la fine della Quaresima e la Settimana santa. Già convalescente, rammentò i suoi sogni di quando giaceva a letto con la febbre e il delirio. Aveva fantasticato durante la malattia che tutto il mondo era condannato a essere vittima di una tremenda, inaudita e mai vista pestilenza che dal fondo dell’Asia avanzava vero l’Europa. Tutti dovevano perire, tranne alcuni, pochissimi eletti. Erano comparse certe nuove trochine, esseri microscopici che si annidavano nel corpo degli uomini. Ma quegli esseri erano spiriti, dotati di intelligenza e di volere. Gli uomini che li avevano accolti dentro di sé diventavano subito indemoniati e pazzi. Mai, mai però degli uomini si erano stimati così intelligenti e incrollabili nella verità come si stimavano quegli appestati. Mai avevano stimato più incrollabili le loro sentenze, le loro deduzioni scientifiche, le loro convinzioni e fedi morali. Interi villaggi, intere città e popolazioni s›infettavano e facevano pazzie. Tutti erano affannati e non si capivano l’un l’altro, ognuno pensava che in lui solo fosse racchiusa la verità, e si crucciava guardando gli altri, battendosi il petto, piangeva e si torceva le mani. Non sapevano chi giudicare e come, non potevano accordarsi su ciò che fosse da considerarsi come male o come bene. Non sapevano chi 258 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 258 08/10/20 09:49 accusare e chi assolvere. Gli uomini si uccidevano a vicenda in una specie di rancore insensato. Si apprestavano ad andare gli uni contro gli altri con intere armate. Ma le armate ormai in marcia, cominciavano d’un tratto a dilaniarsi per contro loro, le file si scompaginavano, i combattenti si scagliavano l’un contro l’altro, s’infilzavano e si sgozzavano, si mordevano e mangiavano a vicenda. Nelle città l’intera giornata si suonava a martello: si chiamavano tutti a raccolta, ma chi e per cosa chiamasse nessuno sapeva e tutti erano in allarme. Avevano abbandonato i più usuali mestieri, perché ognuno proponeva le sue idee, le sue correzioni e non potevano mettersi d’accordo. Qua e là gli uomini si assembravano a mucchi, convenivano insieme su qualche cosa… ma subito dopo imprendevano cose diverse da quelle che loro medesimi si erano dianzi proposte, si mettevano ad accusarsi a vicenda, rissavano e si scannavano… Cominciarono gli incendi, cominciò la fame… il contagio cresceva e avanzava…” Dostoevskij, Dal capitolo finale di Delitto e Castigo [1866]. un censiMento a coLori “Yes, the dead fall upon the living […] The meat-blood colors and massed bodies, this is a census-taking of awful ways to die.” “Sì, i morti si gettano addosso ai vivi […]. I colori carne-sangue e i corpi ammassati, questo è un censimento di tutti i modi atroci di morire.” Don Delillo, Underworld, a proposito del Trionfo della morte di Bruegel. TITOLO L’emozione più antica del mondo La paura di quel che non si conosce La più antica e più forte emozione dell’umanità è la pau259 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 259 08/10/20 09:49 ra, e il tipo più antico e più forte di paura è la paura di ciò che non si conosce. H.P. Lovecraft, Supernatural Horror in Literature Perché non si crede ai fLageLLi “I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati. Il dottor Rieux era impreparato, come lo erano i nostri concittadini, e in tal modo vanno intese le sue esitazioni. In tal modo va inteso anche com›egli sia stato diviso tra l›inquietudine e la speranza. Quando scoppia una guerra, la gente dice: «Non durerà, è cosa troppo stupida». E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare. La stupidaggine insiste sempre, ce se n›accorgerebbe se non si pensasse sempre a se stessi. I nostri concittadini, al riguardo, erano come tutti quanti, pensavano a se stessi. In altre parole, erano degli umanisti: non credevano ai flagelli. Il flagello non è commisurato all›uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non sempre passa, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano, e gli umanisti, in primo luogo, in quanto non hanno preso le loro precauzioni. I nostri concittadini non erano più colpevoli d›altri, dimenticavano di essere modesti, ecco tutto, e pensavano che tutto era ancora possibile per loro, il che supponeva impossibili i flagelli. Continuavano a concludere affari e a preparare viaggi, avevano delle opinioni. Come avrebbero pensato alla peste, che sopprime il futuro, i mutamenti di luogo e le discussioni? Essi si credevano liberi, e nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno i flagelli.” Camus, La peste 260 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 260 08/10/20 09:49 un coraggio Più abbietto deLLa Paura “Havvi, cosa strana a dirsi, un disprezzo della morte e un coraggio più abbietto e più disprezzabile che la paura: ed è quello de’ negozianti ed altri uomini dediti a far danari, che spessissime volte, per guadagni anche minimi, e per sordidi risparmi, ostinatamente ricusano cautele e provvidenze necessarie alla loro conservazione, e si mettono a pericoli estremi, dove non di rado, eroi vili, periscono con morte vituperata. Di quest’obbrobrioso coraggio si sono veduti esempi insigni, non senza seguirne danni e stragi de’ popoli innocenti, nell’occasione della peste, chiamata più volentieri cholera morbus, che ha flagellata la specie umana in questi ultimi anni.” Leopardi, Pensieri, VII una Paura abbietta e basta “Quando si ha a che fare con un pericolo come il colera, è evidente che gli Stati Uniti starebbero meglio se si negasse rifugio agli Ebrei russi e ungheresi. Già ci offende – ed è dir poco – la presenza di questa gente; me nelle attuali circostanze sono una vera minaccia alla salute di questo Paese. Anche dovessero superare l’esame da parte dei funzionari della quarantena, il loro modo di vita li rende una fonte di pericolo anche quando si sistemano. Il colera, bisogna ricordarlo, nasce nelle case di questa marmaglia (riffraff)” Dall’articolo di apertura del “New York Times”, 29 agosto 1892) 261 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 261 08/10/20 09:49 Un febbricitante fa un sogno. Sogna la pandemia, una pestilenza che viene dall’Oriente, dal “fondo dell’Asia”, chissà, forse dalla Cina. “Aveva fantasticato durante la malattia che tutto il mondo era condannato a essere vittima di una tremenda, inaudita e mai vista pestilenza che dal fondo dell’Asia avanzava vero l’Europa”. Sogna che la pandemia sia prodotta da “esseri microscopici che si annidavano nel corpo degli uomini”. Non può sapere cosa siano i virus, il suo è un sogno di due secoli fa. Ma riesce a immaginare che queste “trochine”, questi esseri microscopici abbiano addirittura una loro “intelligenza”, una loro “volontà”. Non fanno star male, non uccidono, ma fanno impazzire la gente, mettono tutti contro tutti. Dostoevskij non poteva avere idea di cosa fossero i virus. Ma anticipa di oltre un secolo la fantascienza fine Novecento di Virus Clans di Michael Kanaly. Non sappiamo da cosa dipenda la febbre di Raskolnikov, il protagonista di Delitto e Castigo di Fëdor Dostoevskij. Non abbiamo una diagnosi della sua malattia. Non sappiamo se la febbre abbia a che fare con le epidemie dell’Ottocento. Non sappiamo se sia il delirio a produrre la sua febbre o la febbre a produrre il delirio di cui è preda per tutto il romanzo. “Febbre cerebrale”, “frenesia”, viene chiamata in molti romanzi dell’Ottocento. Potrebbe essere tifo, una malattia trasmessa dai pidocchi (ma allora ancora non si sapeva), diffusa nella Russia di Dostoevskij. Può produrre uno stato di delirio violento, col paziente che si alza e smania. 262 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 262 08/10/20 09:49 Non per niente “tifosi” è passato nel linguaggio quotidiano a indicare un’agitazione violenta, fanatismo sconfinato, in genere in campo sportivo. Ma la pestilenza sognata da Raskolnikov è molto più di questo. È fanatismo universale, un fanatismo che porta gli uomini alle guerre e agli stermini. Al tempo stesso va anche oltre le guerre e i conflitti tra gruppi e schieramenti diversi, affronta il tema del conflitto all’interno di ciascun gruppo e comunità, o anche dentro ciascun individuo, ognuno di noi. Ma va oltre anche il “A plague on both your houses!”, il peste colga entrambe le vostre famiglie (o partiti) di Shakespeare. Spalanca visioni sugli abissi dello “sdoppiamento” interiore. Volendo tirarla, si potrebbe addirittura vedervi una metafora della caotica battaglia tra agenti patogeni e anticorpi, tra virus buoni e virus cattivi di cui tratteremo nel capitolo successivo. Anche la cosa è complicata: a volte a ucciderci non sono i germi ma l’eccesso di reazione immunitaria. Dostoevskij ci prospetta un mondo in cui si è persa la distinzione tra bene e male. Ma non è solo follia o delirio individuale, è pazzia collettiva. Il passo è travolgente. Rileggiamolo. Ci dirà ogni volta qualcosa di più di quel che avevamo colto nella lettura precedente: Mai, mai però degli uomini si erano stimati così intelligenti e incrollabili nella verità come si stimavano quegli appestati. Mai avevano stimato più incrollabili le loro sentenze, le loro deduzioni scientifiche, le loro convinzioni e fedi morali. Interi villaggi, intere città e popolazioni s›infettavano e facevano pazzie. Tutti erano affannati e non si capivano l’un l’altro, ognuno pensava che in lui solo fosse racchiusa la verità, e si crucciava guardando gli altri, battendosi il petto, piangeva e si torceva le mani. Non sapevano chi giudicare e come, non potevano accordarsi su ciò che fosse da considerarsi come male o come bene. Non sapevano chi accusare e chi assolvere. Gli uomini si uccidevano a vicenda in una specie di rancore insensato. Si apprestavano ad andare gli uni contro gli altri con intere armate. Ma le armate ormai in marcia, cominciavano d’un tratto a dilaniarsi per contro loro, le file si scompaginavano, i combattenti si scagliavano l’un contro l’altro, s’infilzavano e si sgozzavano, si mordevano e mangiavano a vicenda. Nelle città l’intera giornata si suonava a martello: si chiamavano tutti a raccolta, ma chi e per cosa chiamasse nessuno sapeva e tutti erano in allarme. 263 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 263 08/10/20 09:49 Ci sono autori capaci di dire tutto. Di concentrare il mondo, l’universo, e anche il modo in cui gli uomini pensano o soffrono l’universo. Talvolta riescono a farlo anche in poche righe. Uno di questi è Dostoevskij. Un altro è Kafka. Così come ci sono pittori capaci di raccontare il mondo, il mondo nel senso del tutto, tutto quel che si vede e quel che non si vede, il loro tempo, il passato e anche il futuro, il quotidiano e insieme i sogni e gli incubi dell’umanità. Uno di questi è Bosch. Un altro è Bruegel. C’è tutto nel Giardino delle delizie di Bosch (così come anche negli altri suoi dipinti, e in quelli che vengono attribuiti alla sua scuola). Ci sono sogni ed incubi, speranze e disperazione, amore e violenza, mostri e mostricciattoli, metamorfosi, mitosi e citodieresi, malattie, torture e contagi, ci sono cellule sane o cancerose, germi, batteri, virus, fagociti e provette. Si potrebbero passare giornate intere al Prado, o all’Accademia di Venezia o al Kunsthistorisches di Vienna, a scoprire meraviglie fantastiche, come al microscopio elettronico. Guardate meglio e vedrete anche il coronavirus. Lo stesso nei dipinti del suo allievo Bruegel. La caduta degli angeli ribelli sembra una lotta tra macrofagi.di un sistema immunitario e microbi nocivi. I suoi Proverbi olandesi, il Carnevale e Quaresima, e persino l’apparentemente innocente rassegna di Giochi di bambini sono racconti che possono avere su chi guarda un effetto simile a quello che hanno i racconti di Kafka su chi legge. Dulle Griet, Greta la matta, è un trattato sulla follia. Il trionfo della morte potrebbe essere un’illustrazione del sogno di Raskolnikov che abbiamo appena letto e riletto, anzi di tutto Delitto e castigo. Le torme inesauribili di scheletri che sembrano uscire dalla porta dell’Inferno, e si accompagnano ciascuno, nelle forme e nelle circostanze più disparate, a un vivente, come nelle danze macabre medievali, non sono solo” un censimento di tutti i modi atroci di morire”. E nemmeno solo una denuncia delle atrocità delle guerre di religione nelle Fiandre, che erano l’esperienza, la memoria e il vissuto immediati sia di Bosch che Bruegel. Sono anche lo sdoppiamento, la confusione, il caos 264 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 264 08/10/20 09:49 che c’è in ciascuno di noi, tra bene e male, tra quello che speriamo e quello che ci aspetta. Io ci vedo anche la grande battaglia tra virus maligni e anticorpi che si svolge ad ogni istante all’interno del nostro corpo. Non era certo l’intenzione dell’artista, che non poteva averne la minima idea. Ma sono convinto che sia lecito. Un “classico”, un grande libro, un grande dipinto si rivolgono a chi lo sta leggendo o lo sta guardando, nel momento in cui questi lo sta leggendo e lo sta guardando, non nel momento in cui l’autore l’ha scritto o il pittore l’ha dipinto. Comunque non mancano la malattia e le pestilenze nel grande “censimento” o catalogo che dir si voglia dei modi di morire dipinto da Bruegel. C’è, in primo piano, la scena terrificante di un cane affamato, magrissimo, che si avvicina, si può immaginare con quali intenzioni, al volto di un infante tra le braccia della madre morta, c’è, sempre in primo piano, un’ammalata sorretta da una figura che potrebbe essere la malattia stessa, ci sono il morto avvolto in un sudario bianco, con una strana bara con le ruote, che passa su un altro cadavere anch’esso in sudario bianco, come si trattasse di un incidente automobilistico… Interpretazione inverosimile? Certo. Ma mi serve per dire che ci si può aspettare di tutto dall’ humour a cui Bruegel non rinuncia mai, neanche quando narra e dipinge il macabro. Il contagio del terrore Il terrore viene sempre dal fondo dell’Asia Winston Churchill era un ragazzino, uno studente quindicenne, quando scrisse una poesia, a dire il vero un tantino scolastica, contro “il vile, insaziabile flagello” che veniva dall’Oriente. La poesia si intitolava “The Influenza”. Il flagello era l’epidemia di “influenza Russa” che dalla Cina e dalle “squallide steppe della Siberia”, attraverso l’Alsazia e la “desolata Lorena” minacciava “l’isola della Libertà”, la sua Inghilterra. Ma non sarebbe riuscita, pensava Churchill, ad attraversare la sottile linea, quell’esile braccio di mare, il 265 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 265 08/10/20 09:49 “ruscello di brina” che difendeva l’isola. Il giovane Churchill si sbagliava. Quell’ondata di influenza virale avrebbe colpito con estrema violenza, facendo centinaia di migliaia di vittime, un Paese che non aveva conosciuto epidemie influenzali rilevanti da quasi un quarto di secolo (il precedente, che un quindicenne del 1890 non poteva certo ricordare era l’influenza, comunque assai più leggera, del 1847-48, anch’essa proveniente da San Pietroburgo, e giunta a Londra via Costantinopoli, Alessandria d’Egitto e Nizza). Forse fu anche questo errore di valutazione giovanile a ispirare al futuro Primo ministro britannico diffidenza, no una vera e propria fobia, verso tutto quello che veniva dalla Russia e dall’Oriente. Era già ventiseienne invece Herbert George Wells, quando nel maggio del 1893 si stava avviando verso la stazione della metropolitana di Charing Cross, trascinando una pesante borsa piena di campioni geologici. Avvertì la sensazione tanto temuta, di cui aveva letto tante volte, nei libri, sui giornali. Aveva la bocca piena di sangue trasudato dai polmoni. Giunse a casa, dalla moglie, che il fazzoletto era già zuppo, rosso di sangue. Da allora diventò invalido, Forse era tisi. Forse le conseguenze della “russa”. Pochi anni dopo, nel 1897, pubblicò La guerra dei mondi, in cui i nemici, quelli di cui si deve avere paura, sono stranieri che più stranieri di così non si può: i marziani, gente che viene addirittura da un altro mondo e vorrebbe migrare nel nostro. L’umanità si salva grazie ai germi del comune raffreddore che sterminano gli altrimenti potentissimi marziani (l’anno in cui viene pubblicato La guerra dei mondi è per combinazione anche quello in cui per la prima volta gli scienziati parlano di “virus”). Il terrore viene sempre dal fondo dell’Asia. Tutti, ma proprio tutti, da Tucidide a Procopio, da Boccaccio a Chateubriand, a Dostoevskij, ai nostri contemporanei, danno per scontato che le pandemie arrivino dall’Oriente. Se non sono i tartari è “il male di Costantinopoli”, se non è l’India è la Cina. Il colera nell’Ottocento era sempre accompagnato da un aggettivo geografico: lo chiamavano “colera asiatico”. La 266 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 266 08/10/20 09:49 mia generazione ricorda che una brutta influenza degli anni cinquanta veniva chiamata l’Asiatica. L’Oriente è sporco, oscuro e misterioso, infido, crudele, malato per antonomasia. L’impero ottomano è “the sickman of Europe”. L’impero cinese è il malato del mondo. L’Oriente puzza, diffonde miasmi pestilenziali. Puzza delle viscere che si decompongono, e tormento infinito di mosche Pensando alle brezze di maggio che spirano sulla campagna inglese, Colera, scorbuto, e febbre, la ferita che non si risana. Si studiano ancora in tutte le scuole britanniche questi versi di Alfred Tennyson, fatto Lord dalla regina Vittoria. Le soavi “brezze di maggio” della campagna inglese, e la puzza, lo schifo, le malattie dell’India. Solo che, pressapoco negli stessi anni,a Londra colera e altre febbri mietevano forse più vittime che a Lucknow. L’allora capitale dell’impero e del mondo industrializzato era periodicamente avvolta da fittissime nebbie cariche di polveri di carbone e altre sostanze inquinanti. Nell’inverno del 1879-80 si contarono migliaia di morti attribuite pacificamente all’aria divenuta irrespirabile, in aggiunta a quelle dovute al colera e alle polmoniti. L’episodio spinse William Delisle Hay, scienziato e autore di “pulp fiction di fantasie sul futuro”, un romanzo che viene considerato l’antesignano del genere “catastrofismo ecologico”. Pubblicato nel 1880, The Doom of the Great City; Being the Narrative of a Survivor, Written A.D. 1942, prevede che a metà Novecento l’intera popolazioe di Londra venga sterminata dallo smog velenoso nel giro di una sola notte. Quel che non poteva immaginare è quanto ci si sia andati vicino. Non importa che l’unico vero, immane sterminio batteriologico l’abbiano commesso gli europei a danno degli indigeni americani. Forse senza neanche accorgersene, come fecero i Conquistadores, o in modo deliberato, come quando nel 1763, per domare la rivolta di Pontiac (capo degli indiani alleati coi francesi), il comandante britannico accolse con en267 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 267 08/10/20 09:49 tusiasmo la proposta di donare agli indiani coperte infette di vaiolo. Non importa che la civiltà industriale le malattie e l’inquinamento se la fabbrichi in casa e lo diffonda coi propri fiorenti commerci. Il contagio lo si vede venire sempre da un’altra parte, l’orto del vicino è sempre più inquinato e contagioso del proprio. Minaccia e malattie provengono dal cuore di tenebra dell’Asia, misteriosa, oscura, sporca, dispotica, crudele, malata, contagiosa. Oppure dal cuore di tenebra dell’Africa, dove, nell’oscurità delle foreste e nel verminaio degli slum stanno in agguato virus e malattie nuove e terribili, ancora più terribili perché ancora sconosciute, nuove Aids ed Ebola, che magari non riusciamo ancora nemmeno ad immaginare. La paura in Occidente è sempre stata anche paura dell’Oriente, paura del diverso, paura dell’ignoto. Sognare di sterminare i Cinesi Se la Cina fa paura, il rimedio è sterminarli Un virus per sterminare i Cinesi Un brutto sogno: sterminare i Cinesi Almeno un volta ogni secolo, o giù di lì, la Cina viene a turbare il sonno dell’Occidente. L’incubo è che la Cina li invada con torme di migranti che gli rubano il lavoro, con le sue merci a basso costo, con le sue mafie crudeli, e con le sue malattie, li contagi con le sue pesti, pesti e germi e virus letali. Non importa che lo facciano apposta o gli scappino di mano. L’idea è che il loro obiettivo sia dominare il mondo. Lovecraft è convinto che i cinesi inghiottiranno il mondo intero. Agatha Christie immagina che il suo Poirot debba combattere un›organizzazione che riunisce le migliori menti criminali del mondo. Il capo è cinese. Il nemico implacabile nei fumetti di Flash Gordon è l’Imperatore Ming. I cinesi sono la personificazione del dispotismo asiatico. La loro perfidia e crudeltà sono proverbiali. Hanno assunto, per restare solo agli ultimi cent’anni e rotti, via via le fattezze di Fu Manciù, il cattivissimo personaggio inventato da Sax Rohmer, dell’Orco Mao Tse-tung, dei nemici di James Bond a capo della Spectre, magari di Xi Jinping… 268 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 268 08/10/20 09:49 Un romanzo che contiene tutti questi elementi è The Yellow Danger, Il Pericolo Giallo, di Matthew Phipps Shiel, pubblicato nel 1899. C’è il cinese geniale e diabolico, intento a distruggere le potenze occidentali mettendo le une contro le altre (c’è chi ritiene che abbia il profilo di Sun Yat Sen, il padre della Cina repubblicana). C’è una guerra mondiale all’orizzonte (“The Story of the World’s Greatest War” è il sottotitolo”, inquietante se si tiene presente che il libro fu scritto in piena bell’époque, quando ancora nessuno poteva immaginare l’entità del Grande massacro di un ventennio dopo). C’è una spaventosa invasione dell’Europa da parte di orde di tibetani, mongoli e cinesi, i quali trucidano i nativi e si insediano al loro posto. Solo 27 milioni di turchi, ungheresi e finlandesi vengono risparmiati, perché sono già mongoli. Mentre l’inumana America rifiuta di accogliere i profughi europei in fuga. E soprattutto c’è la pandemia, importata in Europa dai cinesi con l’invasione, e poi restituita con gli interessi dall’eroe protagonista, il quale, dopo aver vinto una battaglia navale nella Manica, fa ripescare 150 cinesi, per poi inoculargli la peste e farli sbarcare, a coppie, nei porti continentali. Senza rendersene conto, Shiel aveva inventato la teoria complottistica della pandemia, le guerre mondiali, e, in sostanza, pure il Brexit (L’Inghilterra si salva isolandosi dall’Europa). Un tantino razzista Shiel, ma con una bella fantasia. Il romanzo tradotto anche in italiano per cui è più famoso è La nube purpurea, catastrofismo ecologico del primissimo Novecento. Di meno di un decennio successivo a The Yellow Danger è il racconto in cui Jack London immagina una soluzione ancora più radicale per far fronte al “Pericolo giallo”: sterminare tutti i Cinesi. Con un virus. Anzi, con una molteplicità di virus, “coltivati nei laboratori batteriologici dell’Occidente”. Il racconto è intitolato The Unparalleled Invasion of China, L’invasione senza precedenti della Cina. “Colui che sfuggiva al vaiolo soccombeva alla febbre gialla. Chi non fosse contagiato dal colera, cadeva preda della scarlattina. Chi resisteva a questa veniva falciato dalla ‘Morte nera’, cioè dalla peste”. A trovare il modo di liberare il mondo dalla minaccia 269 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 269 08/10/20 09:49 cinese è, guarda caso, il presidente Usa (tranquilli, si chiama Moyer, è di pura fantasia). Il piano americano prevede l’isolamento totale della Cina ad opera degli eserciti e delle flotte congiunte di Stati uniti, Giappone, Russia, Germania, Austria, Turchia e ovviamente Italia. E poi di bombardarli con fialette dall’apparenza innocua. L’obiettivo dichiarato è fermare una Cina che si era risvegliata dal millenario torpore, esportava e prosperava, non dipendeva più, né aveva bisogno di piegarsi a nessuno. A dire il vero l’avevano già invasa davvero, non solo con la fantasia, nel 1900, un paio di anni dopo il romanzo di Shiel e pochi anni prima del racconto di London. Le maggiori potenze mondiali di allora, Inghilterra, Germania, Stati uniti, Russia, Giappone, Italia e Austria (le stesse del G8, tranne che l’impero austro-ungarico è stato ora rimpiazzato dal Canada), erano intervenute militarmente in Cina con la scusa di difendere i propri concittadini dal terrorismo dei Boxer. Se ne erano spartiti i porti (la nemesi è che ora è la Cina che compra i porti europei). Si erano macchiati di atrocità più efferate di quelle che dicevano di essere venuti a fermare. In un altro racconto di London, del 1912, La peste scarlatta, il contagio si estende all’intero pianeta. Gli Stati uniti tornano allo stato selvaggio. Dell’Europa non si hanno più nemmeno notizie. A raccontare il tutto ai pronipoti è uno dei pochissimi sopravvissuti. Lo scrittore immagina che la catastrofe abbia avuto luogo nel 2013 (suppergiù ai giorni nostri). Quando la Terra ha 8 miliardi di abitanti (pressappoco la popolazione di oggi). Non si salvano nemmeno i più ricchi, che avevano fatto Presidente uno ricchissimo. Pagano l’arroganza, la noncuranza per i più deboli e per l’ambiente. Inutilmente cercavano di fuggire con i loro “aeromobili” privati verso rifugi paradisiaci. Il contagio, che non guarda in faccia nessuno, se l’erano portato dietro, anzi li aveva preceduti. A parte il fatto che la peste è “scarlatta” e non “nera”, non manca nessuno degli altri temi ricorrenti che hanno caratterizzato la narrazione delle pandemie, da Tucidide, a Boccaccio, ai giorni nostri. E con le stesse identiche parole. La “stupefacente rapidità del germe nel distruggere gli esseri 270 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 270 08/10/20 09:49 umani e il fatto che una volta penetrato in un corpo umano lo uccidesse senza scampo”, tale che “la morte sopraggiungeva entro un’ora dai primi sintomi”. I sintomi stessi: il cuore che “accelerava i battiti”, la febbre, “l’eruzione cutanea scarlatta [che] si diffondeva in un battito sul viso e sul corpo”. L’elevata contagiosità, legata alla rapidità della decomposizione: “Tutti i miliardi di germi di un cadavere venivano così liberati all’istante”. I cadaveri senza sepoltura, l’impotenza della medicina, malgrado l’abnegazione degli operatori sanitari: “come ne moriva uno, un altro si faceva avanti per sostituirlo”, il vaccino che non si riesce a trovare, malgrado fossero riusciti “a isolare per primi il germe a Londra”. E ancora: il panico, la disperazione, le inutili furbizie ed egoismi, lo sgretolarsi di civiltà e convivenza. Ancora più rapidamente del virus, scrive London, si era diffusa la paura. Soprattutto la paura di non avere più notizie. Più di tutto, quando cessarono anche le trasmissioni dei notiziari, tacquero i radio-telegrafi, “destava stupore, sgomento, la mancanza di comunicazione con il resto del mondo”. Porti chiusi agli italiani delinquenti e infetti Il riferimento di London non era però il lontano futuro, e nemmeno l’estremo Oriente, dove pure aveva fatto il reporter, ma quel che succedeva nella sua San Francisco, dove tutti ce l’avevano coi cinesi. Gli operai bianchi, specie quelli irlandesi, li odiavano perché i cinesi lavoravano di più, non protestavano e accettavano di farsi pagare meno. Anche gli irlandesi erano tutti quanti immigrati. Ma timorati di Dio. Mentre i cinesi venivano schifati come sporchi, ladri, stupratori e assassini, senza religione né moralità. Non è bello a dirsi. Ma nei pogrom anti-cinesi si distinsero le donne, specie le operaie. A fomentarli furono preti cattolici e militanti della “sinistra”. “I cinesi se ne devono andare”, tuonava di comizio in comizio il sindacalista Denis Kearney. Incolpavano le cinesi di diffondere la sifilide prostituendosi quasi gratis. Poi iniziò la caccia all’untore. Diedero ai cinesi la colpa delle epi271 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 271 08/10/20 09:49 demie di vaiolo. Esisteva già il vaccino, ma ai poveracci di Chinatown non lo distribuivano. L’ultimo contagio, il peggiore, venne portato da un viaggiatore proveniente da Chicago. Fecero però una legge che bloccava tutti i nuovi arrivi via mare dalla Cina. Un capolavoro di prevenzione epidemiologica: tenevano in ostaggio al largo i migranti cinesi, lasciando però sbarcare e andare dove gli pareva i passeggeri bianchi. Virus ed epidemie passano. L’idiozia a quanto pare no. Gli Stati uniti, si sa, sono un Paese di migranti. Sono stati gli immigrati a farne la fortuna. Malgrado questo, l’accoglienza si è mischiata a esplosioni di ostilità nei confronti dei nuovi arrivati, in particolare gli ultimi arrivati. È la paura delle epidemie a scatenare i primi altolà ai nuovi immigrati a fine 1800. Monta un’agitazione perché l’America “chiuda le porte” ai nuovi arrivati che “portano malattie” e “ci rubano i posti di lavoro”. Chiudere le porte significa chiudere i porti. Le nuove leggi sull’immigrazione proibiscono l’ingresso ai pazzi, agli idioti, “alle persone che è probabile divengano un peso sul pubblico”, e “a chi è sospetto essere portatore di terribili malattie”. Le leggi sulla quarantena danno alle autorità portuali piena discrezione di respingere chi gli pare, e anche di blocco totale degli sbarchi. I cinesi, gli italiani e gli ebrei sono quelli più presi di mira. Il Chinese Exclusion Act del 1892 sospendeva per dieci anni l’ammissione di cinesi, a eccezione di studenti, insegnanti, e di “chi viene negli Stati Uniti per soddisfare la propria curiosità”, cioè dei turisti. Viene escluso che i cinesi, anche se arrivati legalmente, possano acquisire la cittadinanza. I cinesi che non siano in grado di provare, “con l’aiuto di almeno un testimone credibile” di essere già residenti al momento del passaggio della legge andranno immediatamente espulsi. Quando nella primavera del 1891 arriva il vapore Iniziativa i giornali di New York riferiscono che è stato impedito lo sbarco ad alcuni dei passeggeri italiani sospetti di essere portatori di “ripugnanti malattie” (non viene specificato quali). La settimana dopo il “New York Times” che gli italiani sospetti untori sono “scappati” mentre le autorità cerca272 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 272 08/10/20 09:49 vano di riportarli a bordo. Dura settimane la caccia agli “evasi”, senza successo malgrado questo avessero fornito a Ellis Island generalità e destinazione. Erano evidentemente fasulli, e questom secondo la campagna giornalistca, confermerebbe che erano delinquenti. La stampa si accanisce contro gli italiani. Li definiscono “i reietti d’Europa”, dicono che si tratta di gente“con mentalità criminale”. Il “San Francisco Bulletin” invita i lettori a stare in guardia, segnalare alle autorità i clandestini, e in particolare gli “italiani malati” In Texas il “Galveston Daily” titola: “Emigrati indesiderati: gli Stati Uniti non sono una discarica per altri Paesi”. Il “Times Picayune-New Orleans” dà la notizia che a diciannove italiani è stato impedito lo sbarco e sono stati affidati ai capitani delle navi con cui erano arrivati perché vengano riportati indietro. Quattro – si precisa – avevano la tubercolosi, undici una malattia della pelle dovuta a “scarsa pulizia”. Si riferisce che il popolo di New Orleans chiede “si ponga fine all’immigrazione italiana”. Gli ebrei che vengono dall’Europa orientale vengono anch’essi frequentemente definiti “portati alla criminalità”, “sporchi, sozzi, una minaccia”. L’agitazione contro italiani ed ebrei raggiunge il culmine quando giunge nel porto di New York il Massilia un bastimento che aveva imbarcato a Marsiglia 268 ebrei russi e poi a Napoli 470 emigranti italiani. Avevano fatto un esame medico, mi viene quasi da dire un tampone, alla partenza. Passano la quarantena a Ellis Island. Vengono trattenuti e rispediti solo quelli che si ritiene “saranno un peso sull’assistenza pubblica”. Quando, qualche settimana dopo scoppia un’epidemia di tifo nel Lower East Side a New York, si dà immediatamente la colpa , in pari misura, agli italiani e agli immigrati ebrei dalla Russia sbarcati dal Massilia. Non c’entravano niente con l’epidemia. Semmai si erano ammalati a New York. Ma si scatena una campagna contro i nuovi arrivati e quelli che “li hanno lasciati sbarcare”. I giornali sono inondati da lettere in cui si chiede il blocco dell’immigrazione. “Non vogliamo e dovremmo rifiutare lo sbarco a tutti questi sporchi italiani o ebrei russi. Ne abbiamo già abbastanza di sporcizia, miseria, crimine, 273 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 273 08/10/20 09:49 malattie e morti. Non possiamo permettere che delle potenze straniere ce ne addossino ancora di più solo perché vorrebbero disfarsene e scaricarli su di noi”, dice una lettera pubblicata dal New York Times nell’edizione del 21 febbraio 1892. Il giornale titola: “Porre restrizioni all’immigrazione: non è forse ora che si mettano delle barriere?”. Sullo stesso tema martella in continuazione anche con gli editoriali. Il New York World dell’ex immigrato ungherese Joseph Pulitzer pubblica una vignetta che raffigura l’Europa come un gigantesco teschio da cui partono delle navi che si chiamano “Tifo”, “Difterite”, “Febbre gialla”. Il senatore William Chandler se la prende con il commissario per l’Immigrazione, accusandolo di non fare abbastanza per impedire che sbarchino gli infetti. E propone il bando totale dell’immigrazione per un anno, allo scopo di tenere fuori gli indesiderabili, i portatori di tifo e colera, anarchici, nichilisti, poligami, mafiosi, analfabeti, “ciechi e disabili” e “persone prive di mezzi”. Ce l’ha in particolare coi “migranti degenerati (degraded) provenienti dall’Italia, dalla Turchia, dall’Ungheria, dalla Polonia e dalla Russia”. Fischiano le orecchie? Ma non sempre le paure vengono per nuocere Il mondo è mosso dalla paura. Forse non esisteremmo come specie umana se i nostri lontani antenati non avessero avuto paure. O non avessero imparato a controllarle. Possediamo un armamentario infinito di rimedi, strategie, stratagemmi contro la paura. Abbiamo imparato a riderne, persino a divertirci con le paure. Ci hanno raccontato per secoli, e continuano a deliziarci da bambini, favole di orchi, streghe, mostri e altre cose da far paura. L’importante è che le paure non si trasformino in panico, scomposto e paralizzante (ma anche la paralisi può essere una strategia, usata da molti animali: il topo si finge morto per sfuggire alle grinfie del gatto). Ci sono paure ataviche, paure nuove e paure nuovissime. Talvolta ce ne scordiamo. Anche se non ammetteremmo mai di essercene scordati. Succede alla paura della guerra, quan274 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 274 08/10/20 09:49 do ci illudiamo che le guerre non ci tocchino, alla paura delle epidemie, tra un’epidemia e l’altra, alla paura del disastro ecologico, tra un’alluvione e l’altra. Talvolta le paure si fondono, talaltra una paura cancella o almeno fa recedere un’altra. È successo davanti ai nostri occhi, quando la paura dell’immigrato clandestino, la paura del negher, si è sciolta, quasi da un giorno all’altro, di fronte ad una paura più grossa, la paura del virus. “La nostra epoca vive, di fatto, paure sopite, forme d’angoscia arginate e dimenticate. Si pensa alla bomba atomica e poi la si dimentica. Lo stesso per la distruzione ecologica. Il militante, il quale invece non dimentica, è talmente dedicato alla sua lotta che non ha paura. Funzioniamo così. Siamo condannati ad apprendere a vivere con l’incertezza […] Non so se una grave crisi travolgerà il nostro mondo o se, al contrario, ne usciremo apprendendo che bisogna vivere con una certa dose d’incertezza […] I capri espiatori non sono l’unico modo di sopportare l’insopportabile. Esistono anche la convivialità, la solidarietà. I periodi di grande turbamento generano generosità, dedizione, partecipazione alla collettività e, infine, l’amore. La riaffermazione di un legame è uno dei grandi antidoti contro la paura: due esseri che si amano non si dicono continuamente che moriranno, e nemmeno che invecchieranno”. Così ragionava, a fine del secolo scorso, in un momento di ottimismo da nuovo millennio, Edgar Morin. Trent’anni dopo, ormai quasi centenario, il sociologo francese, figlio di ebrei sefarditi immigrati da Salonicco (si chiamava Edgar Nahoum, aveva preso il nome di battaglia Manin, poi deformato in Morin, nella resistenza francese) ha pubblicato Cambiamo strada, le 15 lezioni del coronavirus (Cortina 2020), un’iniezione di ottimismo militante. Inizia con un ricordo personale, quello della madre, Luna Beressi, che aveva contratto una lesione cardiaca, probabilmente dovuta all’influenza spagnola (come successe a molti, anche a Virginia Woolf e al suo personaggio, la Signora Dalloway). 275 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 275 08/10/20 09:49 9. Ce l’abbiamo tutti I clan dei virus La materia dei sogni e dei virus sandoKan non s’intende di Microbi “– Io non ho capito gran cosa, e poi non sono un europeo per sapere che cosa sono i microbi. – I microbi?… Che diavolo!… Ha la peste ed il colera rinchiusi dentro quelle bottiglie? – Che cosa vuoi che ne sappia io? – rispose Sandokan. – Io non mi intendo che di prahos, di carabine, di parangs e di kampilangs. Lui ti spiegherà meglio.” Emilio Salgari, La rivincita di Yanez gaLiLeo: bisogna adoPerar La fantasia “Mi fan patir costoro il grande stento. Che vanno il sommo bene investigando E per ancor non v’hanno dato drento. E mi vo col cervello immaginando Che questa cosa solamente avviene Perché non è dove lo van cercando. Questi dottor non l’hanno mai intesa bene, Mai sono entrati per la buona via […] Perché, secondo l’opinion mia, A chi vuol una cosa ritrovare, 276 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 276 08/10/20 09:49 Bisogna adoperar la fantasia, E giocar d’invenzione, e’ndovinare; E se tu non puoi ire a dirittura, Mill’altre vie ti posson aiutare. Questo par che c’insegni la Natura, Che quand’un non può ir per l’ordinario, Va dret’a una strada più sicura.” Galileo Galilei, “Capitolo contro il portar la toga” [a Pisa 1589-92], in Scritti letterari. virus aL Lavoro da MiLiardi di anni “All’interno dei corpi dei loro ospiti i clan dei virus lavoravano. Mutando, manipolando le strutture del DNA, utilizzando la conoscenza acquisita nel corso di miliardi di anni […] era vero che molti ospiti avrebbero dovuto essere sacrificati prima che si potessero trovare le sequenze chiave, ma di ospiti ce n’era in abbondanza. Si moltiplicavano generazione dopo generazione, finché le loro specie riempirono la terra. Era vero anche che molti ospiti soccombevano alle aberrazioni del metodo per tentativi ed errori, che produceva uno sfortunato numero di morbi e malattie. Ma anche questo era utile ai clan. Gli ospiti che sopravvivevano erano più forti, i loro sistemi rafforzati di immunità erano meglio attrezzati ad affrontare gli effetti residui delle aberrazioni nel campo delle mutazioni.” Michael Kanaly, Virus Clans siaMo tutti chiMere “[La microbiologa Lynn Margulis] sosteneva che le cellule da cui è formato ogni organismo vivente che appartiene alle più complesse divisioni della vita – ogni essere umano, ogni animale, ogni pianta e ogni fungo – sono creature chimeriche, composte da batteri catturati dentro ricettacoli non batterici. Quei particolari batteri si sono tramutati, nel corso 277 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 277 08/10/20 09:49 di estesi periodi di tempo, in organi cellulari. Immaginate un’ostrica, trapiantata in una mucca, che diventa un rene bovino funzionante. Sembrava un’idea folle quando Margulis la propose nel 1967. Ma in gran parte aveva ragione.” David Quammen L’albero intricato La Profezia di zeno “La vita attuale è inquinata alle radici. L›uomo s›è messo al posto degli alberi e delle bestie e ha inquinata l›aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V›è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza… nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco! Ma non è questo, non è questo soltanto. Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c›era altra possibile vita fuori dell›emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s›interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s›ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute. Ma l›occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c›è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l›uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l›ordigno non ha più alcuna relazione con l›arto. Ed è l›ordigno che crea la malattia con l›abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì 278 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 278 08/10/20 09:49 e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quasi innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po› più ammalato, ruberà tale esplosivo e s›arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un›esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.” Italo Svevo, La coscienza di Zeno. che cosa ci stanno nascondendo suL coronavirus? “ATTENZIONE!!! Sto per rivelarvi una verità che tutti i governi, i medici e gli scienziati del mondo tacciono da sempre! Ci sono tantissime cose di questa epidemia che non ci vengono dette. E sapete perché? Aprite le orecchie, ve lo svelo io! Governi, medici e scienziati di tutto il mondo non ci danno tutte le risposte che cerchiamo sul coronavirus perché… …perché non ce le hanno neanche loro! Ora andate e ditelo a tutti, il mondo deve sapere.” Un sedicente “Ricercatore in Bioscienze Computazionali” sul sito Quora 279 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 279 08/10/20 09:49 È colpa mia se mia figlia ha finito col laurearsi in biologia molecolare e poi dottorarsi in neuroscienze, passando, poveraccia, gli anni migliori rinchiusa in laboratorio a impiantare micro-chirurgicamente elettrodi nel cervello dei ratti (tranquilli: sono batteriologicamente sterili, li allevano apposta, non hanno pulci). Quand’era piccolina disegnavamo insieme microbi, germi e virus fantastici. Non avevano granché di mostruoso. Erano simpatici. Così come sono abbastanza simpatici i germi e altri animaletti vettori di malattie micidiali disegnati in The Germ Lab, un albo per bambini che in pieno lockdown Covid mi sono affrettato a ordinare online per la nipotina/nipotino che deve ancora nascere. Ho letto che anche Francis Crick, il padre, assieme a James Watson del modello di DNA a “doppia elica” voleva scrivere un libro per bambini, sulle scale, dal minuscolo al più grande, dell’universo, che però non venne mai pubblicato. Ricordo che ai ragazzi, quando erano piccoli, e stavamo in America, gli davo da leggere i libri illustrati del dottor Seuss e Roald Dahl, che gli piacevano. Poi ci trasferimmo a Parigi, e commisi l’errore di dare al piccolino, in originale e in edizione integrale (le lingue i bambini le imparano in un batter d’occhio), Les Miserables di Victor Hugo. Non lo finì. Cercai di recuperare con Harry Potter. Ma forse era già troppo tardi. Si rifugiò nei numeri. Fa il matematico. Forse potrei ritentare consigliando ad entrambi qualcosa di fantascienza, che so qualche storia di Ray Bradbury. 280 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 280 08/10/20 09:49 Ce n’è una che mi sembra particolarmente adatta ai tempi di virus, e all’argomento di questo capitolo. Si intitola Fever Dream, Sogno da febbre: Aveva tredici anni, Charles. Era metà settembre, e il paesaggio cominciava a prendere fuoco con l’autunno. Stava a letto già da tre giorni quando il terrore cominciò a sopraffarlo. La sua mano stava cambiando. La mano destra. La guardò, ed era calda, e sudaticcia […] era come se pulsasse, cambiasse un pochino. Poi cominciò a cambiare colore […] Nel pomeriggio venne di nuovo il dottore e picchiettò sul suo piccolo petto come fosse un tamburo. ‘Come stai?’, gli chiese, sorridendo. “Va bene, conosco già la risposta: Il mio raffreddore va bene, dottore, ma io mi sento malissimo!”, disse il dottore ridendo alla battuta trita e ritrita. Ma per Charles, la vecchia battuta [il bambino] stava diventando realtà […] ‘Dottore, sussurrò, la mia mano non mi appartiene più. Stamattina si è trasformata in qualcosa di diverso. La voglio indietro, dottore. Dottore!’ […]. Alle quattro del pomeriggio cambiò l’altra mano[…]. Pulsava e cambiava, cellula dopo cellula. Batteva come un cuore caldo. Le unghie diventarono blu, poi rosse. Ci mise un’ora a mutare. E alla fine sembrava una mano normale. Ma non era normale. Non era più sua. [Il bambino] giacque affascinato dall’orrore e cadde in un sonno esausto […]. Poi sono le gambe a bruciare, ad arrossarsi, diventare calde, a “riempire la stanza col calore di questa mutazione febbrile. Il calore saliva dalla punta dei piedi alle caviglie, poi alle ginocchia”. Infine sente che cambiano tutti gli organi, i polmoni che “prendono fuoco” come se fossero irrorati di alcool rosa, e poi il collo, il cervello. “Sono morto”, pensò, “sono stato ucciso eppure vivo ancora. Il mio corpo è tutto malattia, e nessuno lo saprà. Andrò in giro e non sarò più io, sarò qualcos’altro, qualcosa di cattivo, di maligno. Tanto maligno che non è difficile da comprendere, o anche solo pensare…” - La prego, la prego dottore, mi dica cos’ho. - Un caso non grave di scarlattina, complicato da un piccolo raffreddore. - Un germe che vive dentro di me, e ha a sua volta altri germi dentro di lui? […] - Stavo pensando una cosa, disse Charles dopo un po’. Ai germi capita di crescere? Voglio dire, a scuola ci hanno detto di animali che hanno una cellula sola, amebe e cose del genere, e di come milioni di anni fa si sono messi assieme e hanno formato un corpo. E di come più tardi sempre più cellule si sono messe insieme, e sono diventate 281 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 281 08/10/20 09:49 sempre più grandi, e allora magari hanno formato un pesce, e poi siamo arrivati noi, che non siamo altro che un mucchio di cellule le quali hanno deciso di mettersi insieme, e di aiutarsi l’un l’altra? È così dottore? […] E poi hanno deciso di impadronirsi di una persona - Impadronirsi di una persona? - Sì dottore, diventare una persona. Diventare Me, le mie mani, i miei piedi, E se una malattia fosse in qualche modo capace di uccidere una persona, e continuare a vivere dopo di lui?” Il ragazzino guarisce. Sembra del tutto normale. Non vede l’ora di tornare a scuola: “Mi piace andare a scuola. Con gli altri bambini. Voglio giocarci e fare la lotta, e sputargli addosso, e giocare con i codini delle ragazze, e stringere la mano al maestro, e strofinare la mano su tutti i cappotti appesi, e voglio crescere e viaggiare, e stringere la mano a tutti quanti in giro per il mondo, e sposarmi, e avere dei bambini, e andare in biblioteca, maneggiare libri e… A parte il brivido che ci fa venire la prospettiva dell’imminente ritorno a scuola del bambino che non vede l’ora di contagiare i propri compagni, anzi di contagiare il mondo intero, a cominciare da chi maneggia libri, Bradbury fonda il proprio racconto su qualcosa che succede davvero, e non solo quando ci ammaliamo: tutte le cellule del nostro corpo cambiano continuamente, e ognuna viene sostituita più volte nel corso della nostra vita. Siamo sempre la stessa persona, ma siamo ogni istante anche diversi. Siamo un paradosso vivente. Come la mitica nave di Teseo, i cui singoli pezzi cambiano continuamente, di cui neanche un chiodo o una scheggia è l’originale. Circola una storia: che tutte le nostre cellule cambino ogni sette anni. Non è proprio così. I globuli rossi hanno uno span di vita di circa quattro mesi, i globuli bianchi di circa un anno, le cellule della pelle vegono sostituite ogni due-tre settimane, quelle del colon hanno la vita difficile, durano non più di quattro giorni, i neuroni quando muoiono non vengono sostituiti… Il nostro corpo è composto da un 50-70 trilioni (milioni di milioni) di cellule. Solo i neuroni sono oltre 100 miliardi, e ogni neurone ha 7.000 sinapsi, cioè collegamenti con altri neuroni. L’insieme delle connessioni si avvicina all’ordine di grandezza del numero delle stelle 282 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 282 08/10/20 09:49 nell’universo. Ogni cellula ha il suo bravo DNA, è fatta di molecole, e aggregati specializzati di molecole, le proteine e gli enzimi, lunghe catene che facilitano o ostacolano gli interscambi tra cellule, la “trascrizione” delle informazioni genetiche. Oltre alle cellule ci sono i batteri che vivono in noi e con noi, il cui numero è dello stesso ordine di grandezza delle nostre cellule. I virus con cui convivono le nostre cellule e i nostri batteri sono almeno dieci volte (secondo alcuni studiosi cento volte) più numerosi ancora. Si presume che ci siano milioni di specie virali. Centinaia di milioni sono quelli che possono albergare nelle cellule dei mammiferi. Una piccola parte di questi virus possono farci ammalare, altri ci sono utili, alcuni probabilmente indispensabili. Ne conosciamo pochissimo. “Io siamo miliardi” è il modo in cui la mette Guido Silvestri, uno che ve la racconta molto meglio di quanto saprei fare io, e con un talento da narratore, competenza e, insieme, una straordinaria semplicità che gli invidio. Siamo fatti di sogni e virus Il Covid ha fatto riemergere una comprensibile avversione viscerale nei confronti dei virus, tutti i virus. Il coronavirus ha assunto, e non solo nei disegni infantili, l’aspetto di qualcosa di alieno, da bastonare, schiacciare, distruggere, sterminare. Si sprecano le metafore militari. È il nemico, contro cui va condotta una guerra senza quartiere. È una guerra che dura da tempi immemorabili. Ne portiamo i segni e le cicatrici nel nostro genoma. Il biologo dell’evoluzione David Enard ha dimostrato che un terzo delle mutazioni del genoma umano è avvenuta in risposta ai virus. I virus sono antipatici. Benissimo. Tranne che questo tipo di immagine trascura il fatto che senza batteri e virus non potremmo vivere, non esisteremmo nemmeno. Virus, batteri, funghi e altri parassiti hanno avuto e continuano ad avere un ruolo fondamentale per la nostra sopravvivenza (si pensi solo a quello che chiamiamo “flora intestinale”). Sono stati i virus ad addestrarci a resistere alle malattie che avrebbero potuto far 283 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 283 08/10/20 09:49 estinguere la specie umana. E c’è chi ha argomentato che sono stati i virus a renderci “umani”. La stragrande maggioranza dei virus, compresi quelli con cui coabitiamo nel nostro corpo, sono batteriofagi, attaccano batteri. Senza contare che i guai più grossi possono venire non dai nemici o dagli estranei ma dal “fuoco amico” delle nostre cellule B e T che attaccano i microbi invasori. Un eccesso di difesa può rivelarsi più letale dell’invasione. Le reazioni autoimmuni incontrollate sono la principale causa dei decessi per Covid. Il coronavirus provoca un “cytochine storm”, una tempesta di citochine, proteine che chiamano a raccolta le forze di difesa immunitaria. Se incontrollata può avere conseguenze devastanti, riempire di liquido i polmoni, produrre micro-trombi e danni cardiaci. “We are such stuff as dreams are made on”, siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni, dice Prospero nella Tempesta di Shakespeare. Della materia di cui sono fatti i sogni e i virus, mi verrebbe da parafrasare. Siamo fatti di atomi, molecole, cellule, enzimi, batteri e virus. “Siamo tutti una serie allargata di codici DNA. Una specie di gigantesco complesso batterio”, fa dire ad uno dei suoi personaggi Michael Kanaly, autore di un fortunato romanzo fanta-virale di fine Novecento. L’idea che i virus agiscano di concerto, si scambino segnali, siano guidati da una sorta di intelligenza collettiva, paragonabile a quella delle termiti e delle formiche è suggestiva. Ma ovviamente non ha la minima base scientifica. Gli anni in cui sono usciti romanzi come quello di Kanaly sono gli stessi anni della fioritura dei romanzi sulle formiche, come quelli di Bernard Werber. Lo so perché li davo da leggere ai miei figli, e gli piacevano, così come poi gli piacque Antz, Zeta la formica della Disney con gli insetti che hanno la voce di Woody Allen e Sharon Stone. Suggestivo è anche che i virus si raccolgano in clan, lavorino per millenni. Ma infastidisce quella che una critica attenta della fiction di virus, pandemie e affini, Heather Schell, ha efficacemente definito “Germ theory of history”. Mi verrebbe da tradurre, tradendo, “concezione 284 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 284 08/10/20 09:49 virale della storia”, non fosse che l’espressione è indissolubilmente legata alla “teoria germanica della razza”, propugnata a cavallo tra ottocento e novecento da Hubert Howe Bancroft, storico Far West, e da Frederick Jackson Turner, autore di The Frontier in American History. La tesi è che “le razze non ariane” sarebbero inadatte (unfit) a superare le difficoltà della conquista del West. In biologia si traduce in un’esasperazione delle idee di “selezione” naturale, di “sopravvivenza del più forte”. Si tratta di una teoria estremamente contagiosa, endemica nella cultura e nella politica americana. Basta vedere come se n’era servito Donald Trump. Il nostro è il pianeta dei batteri, ha sostenuto Stephen Jay Gould, dopo una vita passata ad occuparsi di dinosauri, evoluzione, estinzioni. Ma è anche il pianeta di qualcosa di più piccolo e ancor più misterioso dei batteri e dei virus, gli archea: una “terza forma di vita”, anzi di “forme biologiche”, che sta tra batteri ed eucarioti (la classe che comprende tutti gli organismi viventi le cui cellule hanno un nucleo distinto: piante, animali, noi stessi). Gli archea non sono né batteri né virus. Hanno una linea evolutiva a sé, di miliardi di anni più antica delle altre forme di vita. Fino a quache decennio fa, coè prima che l’ostinazione del microbiologo dell’Università dall’Ilinois Carl Woese, e della microbiologa di Chicago Lynn Margoulis li portasse alla ribalta, non se ne sapeva nulla. Sono come presenze fossili, archeologiche all’interno di batteri e cellule. Hanno ribosomi, gli ingranaggi basilari della vita, i “messaggeri”, c’è chi dice “l’apparato di traduzione”, di trascrizione del genoma, “le stampanti 3D” le ha definite qualcuno, che consentono la costruzione delle proteine in ogni cellula vivente, si tratti di piante, funghi o di cellule di organismi complessi come il nostro corpo. I ribosomi sono la più piccola struttura identificabile all’interno di una cellula. Una cellula di mammifero può contenere fino a 10 milioni di ribosomi. Ogni ribosoma può sfornare proteine al ritmo di 200 amminoacidi al minuto. Un’ipotesi è che gli archea abbiano modificato e trasmesso informazioni genetiche non “verticalmente” (da una generazione a quella successiva, co285 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 285 08/10/20 09:49 me nei modelli darwiniani) ma “orizzontalmente”, per contagio. Quindi capire come hanno funzionato gli archea potrebbe forse aiutarci a capire come funzionano i virus. Alla storia affascinante della scoperta degli archea, e delle discussioni e furibondi litigi tra chi li studia, è dedicato l’ultimo libro di David Quammen: L’albero Intricato. Una nuova e radicale storia della vita (Adelphi 2020). La vita è meravigliosa, It’s a wonderful life suonava il titolo di un celebre film di Frank Capra e anche di un libro di Stephen Jay Gould che mi aveva appassionato diversi decenni fa. La vita è estremamente complicata mi verrebbe da parafrasare. Gould era un grande narratore, oltre che zoologo, geologo e storico della scienza. Quammen è un narratore, prima ancora che un divulgatore scientifico. Questa è una delle ragioni del grande successo del suo precedente libro, Spillover, a metà saggio a metà reportage, in cui anticipava la possibilità di un nuovo virus che fa il salto di specie da un animale, forse una scimmia, forse un uccello, forse un pipistrello, all’uomo. Ma è inutile dare la colpa ai pipistrelli, tanto meno sterminarli (sono utilissimi, mangiano insetti nocivi). La colpa è solo nostra: “Siamo stati noi a generare l’epidemia di Coronavirus. Potrebbe essere iniziata da un pipistrello in una grotta, ma è stata l’attività umana a scatenarla”, scriveva già il 28 gennaio 2020 in un intervento sul “New York Times”. Erano anni che lo andava ripetendo in tutte le maniere, da molto prima che il Covid-19 facesse di lui un profeta best-seller. In difesa dei pipistrelli e del batterio fecale A Pechino avevo fatto quasi amicizia con un pipistrello. Aveva preso alloggio nell’interstizio tra la tapparella e il vetro della finestra della stanza in cui svolgevo la mia attività di corrispondente dalla Cina. Di giorno lui non si accorgeva nemmeno della mia presenza. Se accendevo le luci perché s’era fatto buio, lui se n’era già uscito a cacciare. Un giorno degli operai che erano venuti ad aggiustare qualcosa lo presero, lo misero in un vasetto di vetro, fecero dei buchi nel 286 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 286 08/10/20 09:49 tappo perché potessero respirare e lo portarono via. Mi dipiacque, ero abituato alla sua presenza discreta, mi teneva compagnia, mi fece pena vedere quanto era spaventato: tremava, orinava nel vasetto. L’operaio mi disse che lo voleva regalare alla figlioletta. Non mi risulta che i cinesi, che pure mangiano di tutto – tutto quello che ha due gambe, tranne la nonna, tutto quello che ha quattro zampe, tranne il tavolo, suona un detto popolare – mangino pipistrelli, tantomeno “pipistrelli vivi” come ebbe a dire il governatore del Veneto, Zaia. Il pipistrello porta fortuna, è benefico in una civiltà contadina. Porta felicità, non disgrazia, non lo si associa a Dracula, a oscuri terrori “gotici” e minacce simili. Ci sono oltre 1400 specie di pipistrelli, diffusi in tutti i continenti, tranne l’Antartico. È vero, si ritiene che alcune specie siano portatori sani di virus letali se passati all’uomo, come Ebola, rabbia e il coronavirus del Covid. Ha forse a che fare col fatto che in genere vivono in colonie numerose appiccicati l’un l’altro (ma il mio era solitario). A differenza dei ratti che venivano infettati di peste dalle loro pulci, i pipistrelli non si ammalano. E sono molto longevi (alcune specie vivono anche 20-40 anni). Anziché disturbarli ed esorcizzarli dovremmo invece imparare da loro. È quel che suggeriscono alcuni studiosi, invitando a studiare e approfondire le ragioni per cui riescono ad avere una così elevata tolleranza ai virus di cui sono portatori, come facciano ad avere immunità, e soprattutto tanto equilibrio nel loro sistema immunitario, un così elevato controllo delle proprie risorse anti-infiammatorie, e a vivere così a lungo. Primo Levi aveva invece fatto amicizia con un batterio. Anzi l’aveva addirittura intervistato. Con il batterio più comune nel nostro intestino, 15 miliardi di esemplari scaricati in media ogni giorno con le nostre feci, avevano parlato persino di politica. “La politica è l’arte del possibile, lo ha detto una mia antenata 500 milioni di anni fa, e noi siamo possibiliste per natura, anzi opportuniste”, aveva risposto l’Escherichia coli al suo interlocutore, che le chiedeva di commentare i progetti di manipolazione del DNA batterico per renderlo utile all’uomo. Ma aveva anche lanciato un avvertimento: 287 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 287 08/10/20 09:49 “Proprio per questo non dovete sottovalutarci. Ai vostri tubetti di vetro, ascolti il mio consiglio, fate buona guardia. Io personalmente sono di buona indole, ma non posso rispondere delle mie colleghe a cui voi avete cambiato il centralino [il DNA]. State attenti: se si dovesse scatenare un’epidemia, ne andreste di mezzo voi, ma anche noi che viviamo in pace nei vostri visceri. Non c’è dubbio che alla lunga ci sapremmo adattare a campare anche nell’intestino di uno scarafaggio o di un’ostrica, ma ci vorrebbero tempo e fatica e un buon numero di defunti” (Primo Levi, dalle Interviste immaginarie, “In diretta dal nostro intestino: l’escherichia coli”). Perché qualcuno si salva e qualcuno no? Per Primo Levi. il chimico sopravvissuto al campo di sterminio, scherzare con i batteri, continuare a far lavorare di fantasia il proprio cervello, è un modo per riaffermare la propria umanità. Levi è curioso di tutto. E in modo particolare delle mutazioni evolutive, delle strategie di sopravvivenza di animali e batteri, delle specie, ma anche della natura, degli elementi chimici. Una domanda che lo ossessiona, e a cui ha cercato risposta per tutta la vita, senza riuscire a trovarla appieno, è il perché alcuni si salvano e altri no, perché alcuni si ammalano e guariscono e altri soccombono. È il tema di quello che forse è il più bello dei suoi libri: I sommersi e i salvati. È come se Primo Levi avesse un senso di colpa per essersi salvato: “I ‘salvati’ del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l›esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie. Non era una regola certa (non c›erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti”. In un caso che lo toccò in profondità, responsabile della “selezione” è lo streptoccocco della scar288 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 288 08/10/20 09:49 lattina, unica malattia infettiva dell’infanzia di origine batterica anziché virale. Suo fratello Alberto, prigioniero come lui nel campo di sterminio di Auschwitz, non si ammala e quindi è costretto a partire come prigioniero al seguito dei Tedeschi in fuga; Primo viene ricoverato in infermeria, proprio poco tempo prima della fuga dei Tedeschi; quindi non parte, viene abbandonato al suo destino e si salva. “Quanto avvenne di me è scritto altrove [ne La tregua]. Alberto se ne partí a piedi […] i tedeschi li fecero camminare per giorni e per notti nella neve e nel gelo […] verso un nuovo capitolo di schiavitú, a Buchenwald ed a Mauthausen. Alberto non è tornato e di lui non resta traccia”. Ha qualcosa a che fare col perché qualcuno si ammala, e magari muore, e altri invece, pur avendo il virus, non hanno alcun sintomo, o li hanno in forma talmente leggera da quasi non accorgersene? C’entra col fatto che certe pandemie (come ad esempio la spagnola) abbiano colpito soprattutto i giovani nel pieno delle forze, e altre (come il Covid) abbiano colpito, almeno nella prima ondata, gli anziani, gli indeboliti da atre malattie? Dipende dal sistema immunitario di ciascun individuo? Da fattori ambientali? Da fattori economici? Dalle differenze sociali? Dal caso? Il complicato gioco della Regina di cuori C’è la descrizione di una strana partita in Alice nel Paese delle meraviglie. Siccome l’autore, il reverendo Charles Dodgson, in arte Lewis Carroll, scrive per i lettori britannici del suo tempo il gioco è il cricket, anzi il croquet. Questa la versione praticata nel campo da gioco della Regina di cuori: Alice osservò che mai in sua vita non avea veduto un terreno più curioso per giuocare il Croquet; era tutto a solchi e zolle; le palle erano ricci, i mazzapicchi erano fenicotteri vivi, e gli archi erano soldati vivi, curvati e reggentisi sulle mani e sui piedi. La prima difficoltà stava in ciò: che Alice non sapeva come maneggiare il suo fenicottero; riuscì a tenerselo bene avviluppato sotto il braccio, con le gambe penzoloni, ma quando gli allungava il collo, e si preparava a picchiare il 289 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 289 08/10/20 09:49 riccio con la testa, il fenicttero girava il capo e poi si metteva a guardarla in faccia con una espressione tanto stupefatta che ella non poteva far di meno di scoppiare dalle risa: e quando gli abbassava di nuovo il collo, e si accingeva a ricominciare, ecco il riccio si era sricciato, e andava via: oltre a ciò e era sempre una zolla o un solco là dove voleva sbalzare il riccio, e siccome i soldati si alzavano sempre e vagavano quà e là, Alice si persuase che quello era un giuoco disperatamente difficile. La fantasia di Lewis Carroll è stata spesso usata per illustrare le difficoltà in microbiologia e nello studio delle malattie infettive. In Alice attraverso lo specchio, che è il sequel di Alice nel Paese delle meraviglie c’è una surreale gara di corsa tra Alice, costretta a correre sempre più in fretta solo per rimanere allo stesso posto, e la Regina rossa. L’immagine è stata presa in prestito da Leigh Van Valen per illustrare la sua teoria della competizione tra specie che evolvono in contemporanea, ed è stata poi resa celebre negli anni ottanta da Matt Ridley per illustrare le sue teorie sulla competizione sessuale. C’è chi ha fatto ricorso all’immagine dei fenicotteri rosa, inaffidabili come mazze da golf perché girano la testa quando uno meno lo si aspetta, e dei ricci, inaffidabili come palle perché si arrotolano e srotolano quando e come gli pare, per sostenere che le previsioni affidate ai modelli matematici non sempre funzionano quando ci sono di mezzo organismi viventi, e meno ancora per le epidemie, dove entrano in gioco gli ancor meno prevedibili comportamenti umani. È un gioco complicato quello delle interazioni tra la specie umana e gli agenti patogeni. Va avanti da migliaia, centinaia di migliaia di anni. Le variabili sono infinite, molte di più che nei giochi in cui solo da poco l’intelligenza artificiale sta imparando a pareggiare le astuzie della mente umana (per il gioco che i cinesi chiamano weiqi e i giapponesi go, non ci siamo ancora). Le semplificazioni non aiutano. Finora la partita non è andata troppo male. Nelle ultime migliaia di anni abbiamo superato a più riprese quella che William McNeill aveva chiamato “confluenza dei bacini di malattie” conseguente al passaggio all’agricoltura e alla domesticazione degli animali (il suo Plagues and Peoples è del 1976). In un altro “classico” degli anni ‘70, 290 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 290 08/10/20 09:49 The Modern Rise of Population di Thomas Mckeown, ci si ricordava come mutamenti sociali e misure amministrative avessero contribuito a frenare la mortalità ben prima che fossero disponibili vaccini e rimedi medici. Qua e là ci siamo fermati o siamo tornati indietro (anche in Italia, e prima che arrivasse il Covid), ma nel complesso non sta andando così male. Gli ultimi cento anni sono stati quelli in cui le conoscenze mediche hanno fatto più progressi, la popolazione mondiale è quasi decuplicata, l’aspettativa di vita è cresciuta da grosso modo 50 a oltre 75 anni. C’è meno mortalità infantile che in qualsiasi altra epoca della storia umana. Cina e India non conoscono più le spaventose carestie e decimazioni di una volta. Insomma, malgrado tutto quello che abbiamo combinato ai danni della nostra specie e del nostro pianeta, poteva andare peggio. Mal che vada, possiamo continuare a dire, come quello che si era buttato dal centesimo piano, e se li vede passare illeso uno dopo l’altro: per il momento tutto bene… Comunque non sarà la fine del mondo C’è un argomento ricorrente in quasi tutte le narrazioni “classiche” della pandemia, da Tucidide a Boccaccio, dall’Apocalisse a Dostoevskij, fino ai giorni nostri: il timore che il contagio stermini l’intera umanità. C’è chi attenua dicendo che a un certo punto si è temuto succedesse, ma poi non è successo, e c’è chi addirittura, come Mary Shelley o Jack London fanno partire la narrazione da parte dell’ultimo o degli ultimi sopravvissuti, fingendo che sia già successo. Il paradosso della fine del mondo lo si potrebbe definire. Nel senso che se il mondo finisce non ci sarebbe alcun senso a raccontarlo. A meno che non si immagini un altro mondo, naturalmente. L’ottocento, fiducioso nella scienza o nella provvidenza, non crede che ci sarà la fine del mondo. E comunque ci tiene a precisare, che anche ci fosse, al resto dell’universo non glie ne potrebbe importare di meno. 291 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 291 08/10/20 09:49 Subito dopo aver raccontato di un accesso di febbre, con “brividi e crampi alle gambe” che lo lascia “a pezzi” (brisé), “in uno stato di malessere”, nel capitolo sul colera (naturalmente “asiatico”, “figlio maggiore di Visnù”), Chateaubriand si pone la domanda: “Cosa succederebbe se tutti gli uomini morissero, colpiti da un contagio generale?”. La risposta è: “Niente. La terra, spopolata, continuerebbe il suo cammino solitario, senza aver bisogno, per contare i propri passi, di altri astronomi oltre a colui che glie li ha misurati per tutta l’eternità; non presenterebbe alcun mutamento agli abitanti di altri pianeti; la vedrebbero compiere le sue solite funzioni; in superficie i nostri piccoli lavori, le nostre città, i nostri monumenti sarebbero rimpiazzati dalle foreste rese alla sovranità dei leoni; non si manifesterebbe alcun vuoto nell’universo”. (Mémoires d’outre-tombe, libro XXXV, capitolo 15). E d’altronde, non era stato forse un re francese a dire, pare conversando con la sua amante: “après moi le déluge!, dopo di me il diluvio? Assai più profondo Leopardi, nel Dialogo tra la Natura e un islandese, del 1824: Natura: immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi e ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei […] Tu mostri non aver posto mente che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe 292 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 292 08/10/20 09:49 parimente in dissoluzione. Per quanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento” . Sappiamo come va a finire la favola. Arriva un leone – il dialogo si svolge in Africa – e si pappa l’islandese. Leopardi si trovava a Napoli quando, nel 1837 fu sorpreso da una seconda ondata di colera. La prima l’aveva evitata lasciando la città. L’amico Ranieri gli consigliava di tornare all’isolamento della villa a Torre del Greco. Il padre, Monaldo, lo avrebbe voluto a Recanati. Era un reazionario, un oscurantista spaventoso, ma le epidemie le prendeva su serio. Era un sostenitore convinto delle vaccinazioni (contro il vaiolo), a differenza dell’illuminista Kant che invece sui vaccini faceva il negazionista. Ma Giacomo, sofferente dei mali suoi, temeva l’isolamento sociale assai più del colera. Non voleva tornare a Recanati che, per dirla con Piero Chiara, “per lui era peggio dei pulcinelli, dei baroni fottuti, dei ladri e del colera di Napoli. Morì quasi da un giorno all’altro, probabilmente di colera. Il giorno prima gli avevano fatto quei dolcetti che gli piacevano tanto. Quanto all’Islanda, terra di natura selvaggia, con i suoi vulcani mille volte più terribili del Vesuvio, e la natura incontrollabile, è l’ambientazione di uno dei romanzi più strani di Alfred Döblin, Giganti. Era uscito nel 1932, l’anno prima della nomina a cancelliere di Hitler. Parla, con prosa che scorre impetuosa come lava, di ogmi specie di disastri naturali, resi ancora più disastrosi dai maldestri tentativi tecnologici per imbrigliare la natura. Me l’aveva segnalato l’amico Guido Martinotti, un’estate che il mondo andava a fuoco, bruciavano le foreste in Russia, eruttavano vulcani e si scioglievano ghiacciai scatenando fiumi di fango e alluvioni. L’unica catastrofe di cui Döblin in quel libro non parla sono le epidemie. Mi sarebbe piaciuto poter chiedere a Guido, che sapeva di tutto, lumi sulle pandemie. Perché abbiamo ancora bisogno di fantasia Nella postfazione a una raccolta di saggi pubblicata nel 1993 dalla Oxford University Press, Emerging Viruses, il microbiologo della Mount Sinai School of Medicine Edwin D. 293 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 293 08/10/20 09:49 Kilbourne aveva ripreso l’idea, e riprodotto l’immagine molto divertente, caricaturale, di un ipotetico virus capace di “massima virulenza”. Il virus di pura invenzione immaginato dallo scienziato ha una struttura poliedrica icosaedrale, per garantirne la stabilità, e consentirgli di passare indenne attraverso ambienti ostili come l’intestino o da un vettore all’altro, è irto di punte sporgenti, spikes, per ottimizzare la sua capacità di agganciarsi alle cellule, è pantropico, nel senso che può attaccarsi a tessuti o mucose di tipo diverso, ha un genoma a segmenti che gli consentono di adattarsi e mutare, simile a quello dei virus dell’influenza, è capace di transcrittasi inversa, da RNA a DNA, cioè di copiare il proprio genoma nelle cellule che infetta, e quindi di mimetizzarsi e “ingannare” gli anticorpi. Un “puro esercizio intellettuale” lo definiva Kilbourne. Potenzialmente letale, ma troppo letale, troppo efficiente, troppo di troppo per avere successo. Il nuovo Coronavirus però gli somiglia, e finora, dal suo punto di vista, sembra aver avuto successo. Sono diversi decenni, almeno dall’esplosione dell’epidemia di Aids in poi, che gli addetti ai lavori insistono sulla necessità di prepararsi ad affrontare nuovi virus sconosciuti o mutazioni inaspettate di virus conosciuti. È stata coniata l’espressione “virus emergenti”, che ricalca quella, in voga un tempo, di “paesi emergenti”. Poi, passata una crisi acuta, o che fa particolarmente presa, per il tipo di malattia, sulle apprensioni del pubblico, si accantona il fervore, e l’investimento di risorse, in attesa della crisi successiva. La fantasia, la fiction, serve anche a tenere desta l’attenzione. Almeno fino a quando non produce assuefazione, noia, rigetto. Ma la fantasia è indispensabile anche per dare le riposte che ci sia aspetta dalla scienza e dalla politica. Ce l’aveva ben presente Galileo Galilei: A chi vuol una cosa ritrovare, Bisogna adoperar la fantasia, E giocar d’invenzione, e’ndovinare; E se tu non puoi ire a dirittura, Mill’altre vie ti posson aiutare. 294 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 294 08/10/20 09:49 Virologia di questo libro Stavo lavorando a tutt’altro, figuratevi, a un libro sulla Cina e la sua cucina politica. L’avevo già una volta interrotto, un paio di anni prima, per il viaggio a ritroso al 1933, l’anno che fu fatto cancelliere Hitler. Mi sembrava in quel momento più urgente. Mi ci ero rimesso di buzzo buono, quando ci è piombato addosso il Covid. Da metà febbraio non riuscivo a leggere, rileggere, cercare, pensare, occuparmi di altro che pandemie, pesti e affini. È diventata un’ossessione, che mi ha tenuto compagnia per diversi mesi. Mi sono imbattuto in molte cose che non sapevo. Mi sono fatto un’idea disperata della quantità infinita di cose che ancora non so, o so in modo abborracciato. Ho tirato giù dagli scaffali classici che non avevo riaperto da molti anni, mi sono perso in numerosi sentieri che per me erano inesplorati. In qualcuno di questi sentieri, devo confessare al lettore, mi sono perso, anche perché si biforcavano all’infinito, come quelli di Borges. Qualche volta ho dovuto tornare indietro, che altrimenti non sarei mai riuscito a portare a termine il viaggio. Il senso di questo libro è condividere almeno alcuni di quei sentieri, il piacere di letture molto note o meno note. Sì, lo so, è ridicolo fare il verso a Marx – ma non c’è salvezza se non si ride un po’ anche delle cose più gravi. Mi piaceva iniziare con un paradosso, una battuta per sdrammatizzare, pour encourager les autres, incoraggiare a sorridere se non altro. Così mi sono azzardato a dire, anzi a far dire a tradimento a Marx, che quasi tutta la letteratura, tutta la storia 295 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 295 08/10/20 09:49 finora conosciuta è storia delle epidemie e delle malattie, di contagi, virus e agenti patogeni. Claro, è una semplificazione, una battuta appunto. Ci sono ancora altri interi universi al di là di quel quasi… Non è proprio così, le cose sono molto più complicate. Era però una semplificazione anche dire, come fanno Marx ed Engels nel Manifesto, che tutta la storia è storia di lotta di classe (poi avrebbero corretto in: “tutta la storia finora conosciuta”). Ma serviva a dare l’idea. Le prime cose in cui mi sono imbattuto, che mi hanno sollecitato e ho “ritagliato” erano articoli di giornale o di rivista, quasi tutti online. Non c’era ancora il lockdown e il 25 febbraio 2020 ho letto con piacere su Mediapart.fr, il quotidiano online fondato dall’ex combattivo redattore capo di Le Monde Edwy Plenel, un articolo di Lise Wajeman dal titolo “Contagions de fiction”. Non conosco l’autrice, tranne che insegna letteratura comparata all’Università di Aix-Marseille. Vorrei poterle fare sapere che è stata lei a sollecitarmi, non dico al libro, che non ne avevo ancora nemmeno un’idea remota, ma a leggere e rileggere fiction sulle pandemie. Settimane dopo ho letto Jill Lepore, “What our contagion fables are really about” sul Newyorker (23 marzo 2020); parecchio più tardi, il 25 maggio, “Infected by ideas” di Leo Robson sul The New Statesman e “Lectures pour temps d’épidémies” di Guy Berger in Commentaire 2020/2 (Numéro 170). E poi, ancora su Mediapart, di Christian Salmon: « Que peut la littérature par temps d’épidémie? » (24 Mai 2020), che avvia una serie di interventi sui molteplici contatti tra Coronavirus e romanzo. Salmon sostiene che dall’inizio del Novecento ci sono state tre grandi crisi inenarrabili, che superano qualunque cosa se ne possa raccontare, dove la fiction deve cedere il passo alla realtà: il grande massacro della Grande guerra, dal quale, per dirla con le parole di Walter Benjamin i sopravvissuti “tornavano muti dal fronte, non più ricchi, ma più poveri in esperienza comunicabile”; l’Olocausto, dopo il quale, secondo l’intuizione di Theodor Adorno “la poesia diviene impossibile”; e infine l’11 Settembre. Ebbene, l’attuale crisi del Covid sarebbe il quarto momento di inenarrabilità. Brillante, anzi troppo brillante per i miei gusti. Mi sono comun296 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 296 08/10/20 09:49 que premunito, nel caso avesse ragione, ripescando i racconti passati. Molte idee virali sui romanzi di fantascienza mi sono venute dai saggi di Heather Schell (il riferimento è più sotto). Da lì in poi è stata in discesa, discesa nel Maelström. Con mio dispiacere non sono invece riuscito a piazzare nulla sui giornali italiani su questo argomento. Mi sono incaponito, ho continuato a occuparmi di questo, dopo un po’ a occuparmi solo di questo. Ho stampato quintali di carta scaricati online (non riesco a leggere sullo schermo, sono un carta-dipendente), ho esaurito fiumi di toner, mi sono arrampicato sulla scala per raggiungere i ripiani impolverati della mia biblioteca, ho cambiato la stampante inceppata, ho sperperato l’eredità dei miei figli ordinando una caterva (altri quintali) di libri in giro per il mondo, mi sono disperato quando folate di vento hanno sparpagliato e mescolato i fogli con i miei appunti, e ogni volta che non ritrovavo più qualcosa che ero sicuro di aver letto e di essermi appuntato. Ho proposto all’editore di posticipare il libro sulla Cina e saltare a questo. Hanno accettato. Questo libro nasce, come quasi tutti i libri, da altri libri, altri racconti. Non credo nella partenogenesi dei libri. Ma non è un’antologia. Ce ne sono di eccellenti. Costanza Geddes di Filicaia, docente di letteratura presso l’Università di Macerata, e il padre Marco, medico ed epidemiologo, hanno pubblicato nel 2015, presso le edizioni Polistampa, per la Biblioteca di medicina & storia del Centro di documentazione per la storia dell’assistenza e della sanità fiorentina, Peste. Il flagello di Dio fra letteratura e Scienza, ricca di testi e di note sui testi e sugli autori considerati. Simile, in inglese, la raccolta curata nel 1994 da Rosemary Horrox per la Serie di Fonti medievali della Manchester University Press: The Black Death. Più stagionato, ma ancora brillante, a cura di Ovidio Capitani, Morire di peste: testimonianze antiche e interpretazioni moderne della “peste nera” del 1348, Patròn 1995. Ricco e denso di testi Metafisica della peste di Sergio Givone, Einaudi 2012, “Colpa e destino” il sottotitolo “gi297 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 297 08/10/20 09:49 rardiano”, anche se, curiosamente, non viene mai citato il saggio anticipatore di René Girard, su “La peste nella letteratura e nel mito”, che risale al 1974 (The Plague in Literature and Myth, in Texas Studies in Literature and Language, Vol. 15, No. 5, A Special Classics Issue on Myth and Interpretation). Capita. Mi accorgo ora che nelle pagine precedenti non ho menzionato Susan Sontag, né Baudrillard, né Focault, né alcun nouveau philosophe. Dimenticanza o lapsus? Credo che il lettore, comprensivo, perdonerà. Istruzioni per un replay senza fine? Shakespeare andrebbe riletto tutto, assaporando verso per verso, o almeno i drammi più “appestati”: Troilo e Cressida, Sogno di una notte di mezz’estate. Mi sono limitato a menzionare Macbeth, Lear e Romeo e Giulietta. Ci sarebbe da scavare ben altro dalle sue metafore pestilenziali. Il personaggio di Falstaff ogni vota che compare è accompagnato da allusioni a contagi venerei quanto a disordini alimentari. Ma ci vorrebbe un altro libro. Le simpatie contagiose di Shakespeare e Fracastoro: Eric Langley, Shakespeare’s Contagious Sympathies (Oxford 2018) e Concetta Pennuto, Simpatia, fantasia e contagio. Il pensiero medico e il pensiero filosofico di Girolamo Fracastoro (Edizioni di Storia e Letteratura 2008). Non solo Shakespeare, ma una profusione di idee, a tutto campo, nella raccolta di saggi a cura di Rebecca Totaro e Ernest B. Gilman, Representing the Plague in Early Modern England (Routledge 2011). Il poscritto di Gilman, “Plague and Metaphor” è un’ottima introduzione a questo aspetto. Solleva anche il problema di come l’universo del “virtuale”, giochi online compresi, apra prospettive illimitate alla narrativa e all’interazione sulle epidemie reali. Mi ha fatto riflettere l’osservazione che il Journal di Defoe potrebbe essere inteso come una replica virtuale della peste del 1665-66, una sorta di inoculazione di vaccino virtuale, di gaming instructions, di manuale di istruzioni per un eventuale replay della peste. E 298 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 298 08/10/20 09:49 se fosse più o meno così per tutte le narrazioni letterarie, tutto quello che è stato scritto sulle pandemie? Ricco di riferimenti a fonti classiche meno conosciute, ma non in modo specifico alle epidemie, è Letteratura e medicina nel mondo antico di Innocenzo Mazzini, in Medicina nei secoli, arte e scienza, supplemento 2011 (Casa editrice Università La Sapienza). Sempre di Mazzini, sul tema degli antecedenti classici delle polemiche contra medicum: Le accuse contro i medici nella letteratura latina ed il loro fondamento in Quaderni linguistici e filologici. Ricerche svolte presso l’Università degli studi di Macerata, 1982. Con orizzonte temporale più ampio, all’osso ma delizioso, di Mauro di Napoli, già medico al Policlinico e al Sandro Pertini di Roma, La malattia e la morte raccontate dai grandi della letteratura, Armando 2020. Ricco di rimandi, preciso nella terminologia, ma anche di piacevolissima lettura, degno di diventare un classico, Luca Serianni, Un Treno Di Sintomi: I Medici e Le Parole: Percorsi Linguistici Nel Passato e Nel Presente (Garzanti 2005). Non starò ad elencare tutti i testi letterari citati. Boccaccio, Tucidide, Ovidio, Manzoni, Defoe, Camus e gli innumerevoli altri. Il lettore li ritroverà, se glie ne viene voglia (spero di sì, se no mea culpa), nelle edizioni di sua preferenza. Citare è sempre un po’ tradire. Le citazioni, anche se lunghe o lunghissime, non sono che un surrogato, sanno di Bigino o Selezione dal Reader’s digest. Qui hanno la funzione di stimolare connessioni mentali, analogie. Del resto sono in buona compagnia: sull’argomento tutti, in qualche modo, hanno citato, in un modo o nell’altro, qualcun altro. Per i testi in italiano ho preferito riportare l’originale, per quanto faticoso. Per gli altri, talvolta la traduzione è mia, tal altra ho integrato, modificato traduzioni altrui. Anche tradurre è spesso tradire. Né sarò esaustivo nell’elencare gli autori di opere, saggi, articoli, pagine web con cui sono in debito. La responsabilità, come si suol dire, è solo mia. Anche, anzi soprattut299 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 299 08/10/20 09:49 to per gli svarioni. Spesso e volentieri gli errori passano di mano in mano. Averli copiati da qualcun altro non è una scusante. Avevo inizialmente pensato ad una sezione iconografica, a delle illustrazioni. Sarebbe stato davvero esagerato, il materiale è sterminato. Poi non è detto che le riproduzioni sarebbero state di qualità accettabile (spesso non lo sono neanche nei libri d’arte). In molti dei dipinti citati il diavoletto è spesso nei dettagli. Se desidera il lettore potrà andarli a vedere online (anche in questo caso la definizione lascia spesso a desiderare), o, meglio ancora, chiusure Covid permettendo, dal vero. Forse si penseranno, sempre a Covid finito, grandi mostre sul tema e dintorni. Ci sono istituzioni in grado di allestirne di fantastiche. Ci sarebbe voluta una filmografia, anche qui la materia prima è enorme, forse ci penserà qualche cineteca o festival cinematografico. Si potrebbe cominciare a farlo anche online. Su Sofocle, ho utilizzato, di Franco Maiullari, L’interpretazione anamorfica dell’Edipo re. Una nuova lettura della tragedia Sofoclea (Ist. Editoriali e Poligrafici, Pisa - Roma, 1999). Bernard Knox in Oedipus at Thebes, del 1957, aveva indagato lucidamente e a fondo la funzione del linguaggio medico nell’Oedipus Tyrannos. Plague and the Athenian Imagination: Drama, History, and the Cult of Asclepius di Robin Mitchell-Boyask (Cambridge University Press 2008) è enciclopedico sulla ricorrenza di loimos e nosos, pestilenza e malattia nel dramma greco. Tutto quello che uno vorrebbe sapere sui racconti di pestilenza nell’antichità romana lo si può trovare in Hunter H. Gardner, Pestilence and the Body Politic in Latin Literature (Oxford University Press 2019). Spagnola: la Pandemia che cambiò il mondo Per il ricorso spropositato alle citazioni in esergo, e anche per il tentativo di raccontare anche di cose serie cercando di annoiare il meno possibile, sono in debito con Riccardo Chiaberge: 1918. La grande epidemia. Quindici storie della Febbre spagnola (Utet 2016). E ancora: Laura Spinney, 1918. 300 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 300 08/10/20 09:49 L’influenza spagnola: La pandemia che cambiò il Mondo (Marsilio e Universale economica Feltrinelli, 2018); i best seller di John M. Barry, The Great Influenza: The Story of the Deadliest Pandemic in History, (Penguin 2005, con la nuova postfazione); e, ancora fresco, dalla prestigiosa autrice di articoli scientifici del New York Time: Gina Kolata, Flu: The Story of the Great Influenza Pandemic of 1918 and the Search for the Virus That Caused It. Per l’Italia: Eugenia Tognotti, La «Spagnola» in Italia. Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo (1918-1919). Un recente corposo e denso libro di Elizabeth Outka pubblicato dalla Columbia University Press, Viral Modernism: The Influenza Pandemic and Interwar Literature dimostra in modo convincente che tutti, tutti i più grandi, anche se non ne scrivono apertamente, anche se sembrano parlare di tutt’altro, scrivono in realtà del trauma, delle cicatrici profonde lasciate dalla Grande influenza. Un magnifico saggio, una miniera di classici, e di altri testi meno noti, riletti e passati al microscopio in cerca del virus, corredato anche di suggestive immagini e altre testimonianze, poco conosciute o inedite, scovate al Collier Archive presso l’Imperial War Museum di Londra, con la sua eccezionale raccolta di inserzioni pubblicitarie sui giornali dell’epoca e di testimonianze, oppure nel Pandemic Influenza Storybook, accessibile online sul sito dello statunitense Centers for Disease Control and Prevention (CDC). Mi hanno stimolato i saggi di Barbara Fass Leavy, in To Blight With Plague: Studies in a Literary Theme (New York University Press 2011). Un pochino confuso, nella distribuzione degli argomenti, e soprattutto nei riferimenti dei passi citati, Nineteenth-Century Narratives of Contagion: ‘Our Feverish Contact’, di Allan Conrad Christensen (Routledge 2005). Si concentra su otto opere ottocentesche, e i rispettivi autori: Old Saint Paul’s di Harrison W. Ainsworth (1841), A Strange Story di Edward Bulwer-Lytton (1862). Bleak House di Charles Dickens (1853), Ruth (1853) di Elizabeth Gaskell, Two Years Ago di Charles Kingsley (1857), I promesi sposi di Alessandro Manzoni (1840), Lavinia di Giovanni Ruffini 301 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 301 08/10/20 09:49 (1860), “Le docteur Pascal” (1893) di Èmile Zola (in Les Rougon-Macquart), L’avevano chiamata “Spagnola” perché in piena guerra solo nella Spagna neutrale si poteva parlarne, Nei paesi belligeranti era un segreto di Stato. Ma è affascinante scoprire come ne risuonino forte e chiaro gli echi non solo tra scrittori “realisti” come Katherine Ann Porter, l’autrice di, Bianco cavallo, bianco cavaliere, o Willa Cather, ma anche in opere che uno non direbbe abbiano immediatamente a che fare con la Grande influenza. Unico limite: si occupa solo di letteratura anglosassone. Magari ci fossero studi altrettanto ricchi sulle altre culture letterarie. Benché l’ambito dichiarato sia il “modernismo”, non si parla di Ibsen, Musil, Pirandello, Döblin; A Proust c’è solo un accenno; non viene menzionato il grande malato immaginario e narratore di malattie Italo Svevo, alias Ettore Schmitz, alias Zeno, e si cita solo di sfuggita il suo altrettanto geniale amico James Joyce. Sulle altre “pesti” dal Novecento ai giorni nostri, dalle influenze polmonari degli anni ’20 alla Legionella, al SARS, a Ebola, Zika e Morbo X: Mark Honigsbaum, Pandemie. Dalla Spagnola al Covid-19, un secolo di terrore e ignoranza (La nave di Teseo, 2020). Sulle complessità delle pesti Mi sono serviti, tra molti altri: Pestilential Complexities: Understanding Medieval Plague (Medical History Supplement No.27, Wellcome Trust for the History of Medicine at Ucl 2008). Contiene, a cura di Vivian Nutton, i testi di un serie di interventi, tutti di specialisti di altissimo livello, alla conferenza organizzata a Londra nel 2006. Dallo sviluppo di uno dei saggi in questa raccolta, “Epidemiology of the Black Death and Successive Waves of plague”, Samuel K, Cohn Jr., a lungo docente di storia medievale all’Università di Glasgow ha poi tratto The Black Death Transformed: Disease and Culture in Early Renaissance Europe ( Hodder Arnold 2002), enciclopedica rassegna di 302 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 302 08/10/20 09:49 cronache, diari, trattati di medicina e consigli pratici contro la peste, vite dei Santi, documenti notarili, registri parrocchiali, testamenti, ecc. dalla Sicilia alla Scozia, da Lisbona all’Uzbekistan, con puntate sin in estremo Oriente. Tesi sostenuta quasi maniacalmente, senza tentennamenti: la Peste nera non era peste. Ancora: Martin A. Lynn, Plague? Jesuit Accounts of Epidemic Disease in the 16th Century (Sixteenth Century Journal Publishers, 1996); e, a cura di M. Signoli, D. Chevé, A. Pascal, Peste: entre épidemies et sociétés (Università degli studi di Firenze 2007), che raccoglie gli atti del colloquio tenuto a Marsiglia nel 2001. Eccellente, del medico radiologo e medievalista Fabio Cavalli il saggio “Considerazioni sulla storia della peste in Europa nel medioevo e nella prima età moderna” uscito su “Quaderni Guarneriani”, 6 (nuova serie), 2015. Neanche le analisi epidemiologiche sono conclusive. Robert J. Littman, autore di esaustive rassegne di ipotesi sulla paleopatologia e l’epidemiologia della “peste” descritta da Tucidide, ha elaborato suggestivi modelli matematici. In base alla velocità del contagio, all’andamento della curva epidemica, al tasso di mortalità, alla durata della virulenza (diversi anni), procede per esclusione di tutto ciò che non dovrebbe essere, ma non arriva a una conclusione su quel che potrebbe essere. A conferma che gallina vecchia fa buon brodo, ho trovato ancora fresco malgrado l’età, Plagues and Peoples dello storico dell’Università di Chicago William H. McNeill, che risale al 1976. Il titolo della traduzione italiana, La peste nella storia. L’impatto delle pestilenze e delle epidemie nella storia dell’umanità non rende la vastità d’orizzonti del plurale “Pesti”. Sulle “parole della peste”, verrebbe da definire “definitivo” lo studio del linguista della Sapienza Matteo Motolese, Lo male rotundo. Il lessico della fisiologia e della patologia nei trattati di peste fra Quattro e Cinquecento (Aracne 2004), accompagnato da un esteso glossario. 303 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 303 08/10/20 09:49 Ratti, pulci e altri animali Un’ampia bibliografia della ricerca senza fine per il ruolo di ratti e pulci nella peste si trova in Anne Karin Hufthammer e Lars Walløe, “Rats cannot have been intermediate hosts for Yersinia pestis during medieval plague epidemics in Northern Europe”, Journal of Archaeological Science Volume 40, Issue 4, April 2013. Documentato e di piacevole lettura “La storia della pulce nell’arte e nella letteratura” di R. Roncalli Amici, storico dell’American Association of Veterinary Parassitologists, in Parassitologia 46, 2004. Già nel titolo chiama in aiuto Sherlock Holmes per individuare il colpevole delle grandi epidemie, se fu peste o cos’altro, il saggio di Stephen Porter, ‘An historical whodunit’, Biologist , 2004, 51 (2): 109–13. Le procedure da polizia scientifica, con tecnica Eva (ethyl vinyl acetate) praticate sui registri dei morti della peste di Milano del 1630 sono descritte in dettaglio in “Of mice and men: Traces of life in the death registries of the 1630 plague in Milano”, di Alfonsina D’Amato, Gleb Zilberstein, Benedetto Luigi Compagnoni, Pier Giorgio Righetti, in Journal of Proteomics (https://doi.org/10.1016/j. jprot.2017.11.028. Su come furono eliminati, o meglio si pensava di eliminare i topi dalle stive delle navi: Sulphuric Utopias: A History of Maritime Fumigation, di Engelmann, Lynteris. Italia all’avanguardia contro il contagio Classici impagabili, anche se purtroppo ormai difficili da trovare, sono Paolo Preto, Epidemia, paura e politica nell’Italia moderna (Laterza 1987) e Franco Cordero, La Fabbrica Della Peste (Laterza1984). Molto ricco di saggi di autori di valore, nonché di illustrazioni, ancora insuperato malgrado l’età (ha passato la quarantina) è Venezia e la peste 1348/1797, il catalogo della mostra organizzata dal Comune di Venezia nel dicembre 1979 (Marsilio 1980). Carlo M. Cipolla ha una produzione sterminata sull’argomento, di affascinante e pia304 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 304 08/10/20 09:49 cevolissima lettura, tal quale fossero romanzi, anche se fondata su una rigorosa, paziente e fortunata ricerca negli archivi. Il pestifero e contagioso morbo. Combattere la peste nell’Italia del Seicento (Il Mulino 2012), riprende le lezioni all’Università del Wisconsin-Madison tenute nel settembre 1978 e pubblicate nel 1981 negli Stati uniti, col titolo Fighting the Plague in Seventeenth-Century Italy. Contro un nemico invisibile. Epidemie e strutture sanitarie nell’Italia del Rinascimento (Il Mulino 1986) riunisce I pidocchi e il Granduca, Cristofano e la peste e Chi ruppe i rastelli a Montelupo?. Del 1989 è Miasmi e umori, nel quale Cipolla, “frugando e rifrugando tra le carte” dell’Archivio di Stato di Firenze mostra quanto nel XVI secolo il Magistrato alla Sanità dello Stato fiorentina fosse all’avanguardia in Europa in fatto di prevenzione sanitaria e dell’igiene pubblica. Il burocrate e il marinaio. La «Sanità» toscana e le tribolazioni degli inglesi a Livorno nel XVII secolo racconta l’impatto, anch’esso senza tempo si potrebbe dire, tra l’arroganza commerciale all’inglese e la burocrazia all’italiana. Un altro studioso molto attento alle sue conseguenze economiche e demografiche è lo storico dell’economia e demografo Guido Alfani, autore de Il Grand Tour dei cavalieri dell’Apocalisse. L’Italia del «lungo Cinquecento» (1494-1629 (Marsilio 2010). Sempre di Alfani e Alessia Melegaro, anche lei bocconiana, Pandemie d’Italia. Dalla peste nera all’influenza suina: l’impatto sulla società, (Egea 2010). Sui provvedimenti sanitari nei singoli Stati italiani, e le reazioni che suscitarono, anche: Paolo Ulvioni, Il gran castigo di dio: Carestia ed epidemie a Venezia e nella Terraferma, 1628-1632, Franco Angeli 1989; Giulia Calvi, Storie di un anno di Peste Comportamenti sociali e immaginario nella Firenze Barocca (Bompiani 1984), un altro classico, in cui l’autrice analizza tra l’altro 300 processi criminali per violazione di regolamenti sanitari; sempre di Giulia Calvi: L’oro, il fuoco, le forche: la peste napoletana del 1656, Archivio Storico Italiano Vol. 139, No. 3 (509) (1981); e il più recente John Henderson, Florence Under Siege: Surviving Plague in an Early 305 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 305 08/10/20 09:49 Modern City (Yale University Press 2019). Infine, per l’orrendo, seppur efficace metodo con cui mettere fine alla movida in tempo di epidemia: Paccagnini, E., (a cura di), Edizione critica di “Paolo Bellintani, Dialogo della peste” (Scheiwiller, 2001). Per la chiusura delle case degli appestati in Inghilterra durante l’episodio epidemico del 1636, il saggio di Kira Newman: “Shutt Up: Bubonic Plague and Quarantine in Early Modern England” in Journal of Social History 45, 3 (March 1, 2012). Diari autentici e di fiction Su Daniel Defoe, ovvero Mr. Robinson: Margaret Healy. Defoe’s journal and the English plague writing tradition, in Literature and Medicine, 2003; Nicholas Seager, Lies, Damned Lies, and Statistics: Epistemology and Fiction in Defoe’s “A Journal of the Plague Year” , in The Modern Language Review Vol. 103, No. 3 (Jul., 2008); Stephen Brown, Making History Novel: Defoe’s Due Preparations and a Journal of the Plague Year The Dalhousie Review, 1987; Benjamin Moore, Governing discourses: problems of narrative authority in “a journal of the plague year”, The Eighteenth Century Vol. 33, No. 2 (Summer 1992). L’idea di una lettura comparata dei diari (autentici) di Pepys e (di fiction) di Daniel Defoe con quello (autentico, ma non privo di fiction) della scrittrice contemporanea Fang Fang mi è venuta appena ho avuto per le mani Wuhan. Diari di una città chiusa, pubblicato da Mondadori e in edicola con Repubblica. La Fondazione Ivo de Carneri ha pubblicato nel 2016 un libriccino (Vibrio. Il viaggio del colera verso l’Europa e il caso inglese di metà ottocento) che raccoglie il passo di Engels sulle “Grandi città”, e scritti di Giacomo Tommasini, docente di medicina a Parma e Bologna, autore di Ricerche Patologiche Sulla Febbre Di Livorno Del 1804, Sulla Febbre Gialla 306 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 306 08/10/20 09:49 Americana, Arricchite Di Una Memoria Sulle Febbri Contagiose (1833), e John Snow, medico della regina Vittoria e autore di un trattato On the Mode of Communication of Cholera (1824). Unzioni e altre fantasie diaboliche Sugli untori e le credenze della “peste manufatta”, oltre ovviamente alle vere e proprie miniere che si trovano in Cordero e Preto, anche: Yves-Marie Bercé, “Les semeurs de peste”, in La vie, la mort, la foi, le temps. Mélanges offerts à Pierre Chaunu. Paris, Presses Universitaires de France 1993. E, soprattutto l’enorme quantità di materiale messa insieme da Samuel K. Cohn Jr. in Epidemics: Hate and Compassion from the Plague of Athens to AIDS (Oxford University Press, 2018). La cui tesi, controcorrente quanto quella sulle pesti che non furono pesti, ma interessantissima e argomentata con passione, e comunque di buon augurio, è che la ricerca del capro espiatorio, l’odio, è meno diffuso di quel che si potrebbe ritenere a pima vista. Più spesso, nel corso dei secoli, di fronte alle epidemia prevalgono ragione, compassione, solidarietà. Per le prime teorie del complotto e i primi processi contro gli engraisseurs nella Ginevra calvinista, già un secolo prima dei processi agli untori di Milano: Plagues, Poisons and Potions: Plague Spreading Conspiracies in the Western Alps C.1530-1640 di William G. Naphy (Manchester University Press 2002). Il classico che fa le pulci a Manzoni è Peste e untori nei “Promessi Sposi” e nella realtà storica di Fausto Nicolini (Laterza 1937), mentre l’introduzione di Leonardo Sciascia alla Storia della colonna infame per l’edizione Sellerio del 1981 è ripubblicata in Cruciverba (Adelphi 1998). Contro i medici, applausi ai ciarlatani 307 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 307 08/10/20 09:49 Contra medicos Naturalmente Petrarca, di cui la Invective contra medicum è stata pubblicata e tradotta a cura di Francesco Bausi da Le Lettere, per l’Edizione nazionale delle Opere di Francesco Petrarca. E anche l’attentissima disamina de “Le Senili mediche”, di Monica Berté e Silvia Rizzo, curatrici per le Senili della Edizione Nazionale. Un gioellino concentrato di rimandi alle fonti classiche il saggio di Giordana Pisi su Il medico amico in Seneca (Università di Parma, 1983). Un riassunto della polemica tra Petrarca e Chauliac, senza che si concluda se Petrarca diffamò l’archiatra dei Papi di Avignone o viceversa, in Petrarca e la Medicina di Maurizio Basile, in Annali italiani di chirurgia, 2007. Su Rabelais e la medicina in Gargantua e Pantagruele: Hobart Brenton, “Les récits et les traités de la peste au début du XVIe siècle et les deux premiers livres de François Rabelais (1532-1542)”, in La Peste à la Renaissance. L’imaginaire d’un fléau dans la littérature au xvie siècle, (Classiques Garnier 2020). E anche, di Alison Williams: “Sick Humour, Healthy Laughter: The Use of Medicine in Rabelais’s Jokes” in Modern Language Review, July 2006, Volume: 101, Issue: 3. Sulla figura del medico nella letteratura spagnola dei siglos de oro, il documentatissimo Le Personnage Du Medecin et La Relation Medecin-Malade Dans La Litterature Iberique XVIe et XVIIe Siecle di Yvonne David-Peyre (Ediciones hispanos americanas, Paris. 1971) Un testo di tutto rispetto sui falsi medici è, di Giorgio Cosmacini, medico e filosofo, autore di numerosi libri sulla storia della medicina: Ciarlataneria e medicina. Cure, maschere, Ciarle, pubblicato nel 1998 da Cortina, nella collana diretta da Giulio Giorello. Ma anche, trovato online, Farmacisti, ciarlatani e cerusici (appunti per una conferenza del 2014), di Federico Mion. Sulla “prova” della peste e l’uso dei bambini come cavie: “Jean- Jacques Hémardinquer, L’ « essai de peste » au XVIIe siècle” , in Revue d’Histoire Moderne & Contemporaine Année 1976 308 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 308 08/10/20 09:49 L’epidemia illustrata The Germ Lab: The Gruesome Story of Deadly Disease, illustrato da John Kelly e scritto da Richard Platt è un libro per bambini in cui la storia degli agenti patogeni è raccontata dagli animaletti che li trasmettono (Kingfisher, l’edizione 2020 è aggiornata al Covid-19). Anche l’autrice dell’illustrazione del 1926 riprodotta sulla copertina di questo volume, Kitty Shannon, ha illustrato libri per bambini. Sulle arti figurative nella pittura italiana del Rinascimento e del Barocco: Hope and Healing: Painting in Italy in a Time of Plague, 1500-1800 (Worcester Art Museum 2005), con una eccellente monografia di Franco Mormando, e altri saggi importanti. Bosch and Bruegel: From Enemy Painting to Everyday Life è il titolo del ponderoso e magnificamente illustrato saggio del critico d’arte Joseph Leo Koerner pubblicato nel 2017 dalla Princeton University Press. Raccoglie un ventennio di ricerche su e attorno i “mondi paralleli” di Bosch e Bruegel e quel che accomuna le loro formidabili fantasie. Anche: Bruegel and the Creative Process, 1559-1563di Margaret Sullivan (Routledge, 2018), e per meglio assaporare quanto c’è di spassoso nel pittore fiammingo: Pieter Bruegel And The Art Of Laughter (University of California Press 2006) di Walter S. Gibson. Sul più generale tema della raffigurazione della morte: Humana Fragilitas. I Temi Della Morte in Europa Tra Duecento e Settecento, a cura di Alberto Tenenti (Clusone, Ferrari, 2000). Il volume contiene numerosi saggi e un’amplissima scelta di illustrazioni sulle Danze macabre in Italia, in Francia e nel Nord Europa. E ancora, a cura di Sergio Rossi: Scienza e miracoli nell’arte del ‘600. Alle origini della medicina moderna. Catalogo della mostra a Roma, palazzo Venezia, 18 marzo-2 giugno 1998 (Electa). Il Centers for Disease Control and Prevention pubblica dal 1995 la rivista Emerging Infectious Diseases. Una selezione di 92 copertine, accompagnate ognuna da un breve saggio su una malattia contagiosa, è stata pubblicata nel 2014 da Oxford University Press. Per vignette e illustrazioni sulle le altre “pesti” ottocentesche: 309 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 309 08/10/20 09:49 Patrice Bourdelais e André Dodin, Visages du cholera (Belin 1987). Un riferimento classico, benché di oltre mezzo secolo fa, è il denso e illustratissimo articolo di Henri Mollaret e Jacqueline Brossollet: “La peste, source méconnue d’inspiration artistique” nell’annuario 1965 del Museo di Anversa (Jaarboek 1965 - Koninklijk Museum voor Schone Kunsten – Antwerpen). Degli stessi autori, su Napoleone e gli appestati in Egitto, il documentatissimo saggio “A propos des ‘Pestiférés de Jaffa’ de A.J. Gros” in Jaarboek 1968 - Koninklijk Museum voor schone kunsten, Antwerpen. Sul tifo nella campagna di Russia: The Illustrious Dead: The Terrifying Story of How Typhus Killed Napoleon’s Greatest Army, di Stephan Talty (2009). Per la nomenclatura e i colori della peste cinesi sono indebitato ad Angela Ki Che Leung, “The Evolution of Chuanruan Contagion in Imperial China”, in Health and Hygiene in Chinese East Asia: Policies and Publics in the Long Twentieth Century (Duke University Press 2010), che contiene anche il saggio di Marta Hanson “Conceptual Blind Spots, Media Blindfolds: The Case of SARS and Traditional Chinese Medicine,” Riguardo le mascherine e i dispositivi di protezione individuale: Christos Lynteris, Plague Masks: The Visual Emergence of Anti-Epidemic Personal Protection Equipment in Medical Anthropology 37: 6, 2018. Le danze macabre Uno studiosa che fa venire voglia di leggere tutto quel che scrive, al pari di Cipolla, è Chiara Frugoni. Per citarne uno solo dei molteplici interventi sull’argomento, a proposito del Trionfo della morte nel camposanto di Pisa: “Altri luoghi, cercando il Paradiso (il ciclo di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa e la committenza domenicana)”, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, 1988. È del 1974, ma resta ancora un testo di riferimento Buffalmacco e il trionfo della morte di Luciano Bellosi. Il testo classico sulla danzamania 310 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 310 08/10/20 09:49 è quello dell’ottocentesco professore berlinese Justus Friedrich Karl Hecker (ne era stata pubblicata nel 1832 anche una traduzione italiana, col titolo Danzimania). Hecker, considerato il fondatore della “patologia storica”, è stato a lungo il riferimento principale d’obbligo per lo studio delle epidemie nel Medioevo e dei testi attinenti. Mi sono servito anche di “The Dancing Plague: a public health conundrum”, di L.J. Donaldson, J. Cavanagh, J. Rankin, in Public Health Volume 111, Issue 4, July 1997 e “Seeds of Discontent: Dancing Manias and Medical Inquiry in Nineteenth-Century British Literature and Culture” di Molly Engelhardt, in Victorian Literature and Culture, Vol. 35, No. 1 (2007). Anche, a cura di Sophie Oosterwijk e Stefanie Knöll: Mixed metaphors: the “danse macabre” in medieval and early modern Europe (Cambridge Scholars, 2011). Sempre di Sophie Oosterwijk, studiosa attenta e molto prolifica, oltre al saggio Sensing Death:The Danse Macabre in Early Modern Europe (in Sense and the Senses in Early Modern Art and Cultural Practice, Visual Culture in Early Modernity, Farnham: Ashgate, 2012), sono in libero accesso online: ‘Fro Paris to Inglond’? The danse macabre in text and image in late-medieval England e ‘Alas, poor Yorick.’ Death, the fool, the mirror and the danse macabre, nella raccolta a cura di S. Knöll, Narren - Masken - Karneval. Meisterwerke von Dürer bis Kubin aus der Düsseldorfer Graphiksammlung “Mensch und Tod” (Regensburg, 2009) Dracula e compagnia Sul folklore del Pifferaio magico di Hamelin e le diverse ramificazioni e interpretazioni della leggenda: In search of the Pied Piper di Radu Florescu, che è anche, anzi soprattutto un fantastico e indefesso raccoglitore di leggende e storie su Dracula e il personaggio storico che ne sarebbe all’origine, Vlad Tepes, ovvero Vlad l’impalatore, feudatario valacco prima alleato dei Turchi, poi loro acerrimo nemico. Sulle filiazioni e parentele di Dracula con altri grandi classici della letteratura, impareggiabile, nonché molto divertente, Il vam311 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 311 08/10/20 09:49 piro Innominato. Il ‘Caso Manzoni-Dracula’ e altri casi di vampirismo letterario di Renato Giovannoli (Medusa 2008). Ci sono un’infinità di studi sui rapporti tra Horror, letteratura e film. Legacies of Plague in Literature, Theory and Film, di Jennifer Cooke (Palgrave Macmillan 2009), The Biology of Horror: Gothic Literature and Film di Jack Morgan (Southern Illinois University Press, 2002) e Knowing Fear: Science, Knowledge and the Development of the Horror Genre (McFarland and Company, 2008) di Jason Colavito mi hanno dato delle idee, ma me le hanno anche confuse, affastellando un po’ troppo alla rinfusa temi e citazioni. Meglio riferirsi direttamente alle rassegne di pugno dei grandi maestri dell’horror, che sull’argomento certamente sanno il fatto loro. Uno più vecchio, H.P. Lovecraft, il quale nel saggio Supernatural Horror in Literature elenca tutti gli antecedenti del genere, tutti coloro che, dai tempi dei cantastorie, dei racconti antichi attorni al focolare hanno immaginato “streghe, vampiri, lupi mannari, e cadaveri viventi”, tutti coloro che hanno scritto di cose che “fanno paura”. L’altro, anche lui un maestro assoluto, ma più nostro contemporaneo, Stephen King, che in Danse macabre (a cura di Giovanni Arduino, Frassinelli 2000) copre con abbondanza di dettagli e commenta tutto l’horror letterario e filmico americano dagli anni cinquanta agli anni ottanta. La paura fa novanta Edgar Morin, intervistato da Bernard Paillard, « Les anti-peurs », Communications (Revue de l’Ecole des hautes etudes en sciences sociales - Centre d’etudes transdisciplinaires) 57, 1993, numero monografico Peurs. Mi è servito anche Épidémies et contagions, L’imaginaire du mal di Gérard Fabre (Presses Universitaires de France, 1998). Un classico sulle conseguenze psicologiche di massa è l’enciclopedico La paura in Occidente di Jean Delumeau, seguito dall’altrettanto corposo sequel: Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XII al XVIII secolo. 312 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 312 08/10/20 09:49 Sul terrore suscitato dalla “Russa”, di Mark Honigsbaum (già citato sopra come autore di Pandemie): “The Great Dread: Cultural and Psychological Impacts and Responses to the ‘Russian’ Influenza in the United Kingdom, 18891893”, in Social History of Medicine July 2010. Sull’atteggiamento della stampa americana di fine Ottocento verso gli immigrati, in particolare cinesi, italiani ed ebrei: “Contagion from Abroad: U.S. Press Framing of Immigrants and Epidemics, 1891 to 189” di Harriet Moore, in The Atlanta Review of Journalism History, September 2009. Per l’atteggiamento della stampa parigina sull’epidemia di influenza russa del 1889-91, Frédéric Vagneron, “Une presse influenzée ? Le traitement journalistique de la pandémie de grippe ‘russe’ à Paris (1889-1890) », Le Temps des médias, 2014. Quarantine!: East European Jewish Immigrants and the New York City Epidemics of 1892 di Markel Howard (Johns Hopkins University Press, 1997) racconta la storia di come a fine Novecento, nell’anno in cui si ebbe il record nel numero di immigrati negli Stati uniti, tifo e colera vennero associati alle navi che trasportavano immigrati ebrei dall’Europa dell’Est e portarono l’allora presidente Benjamin Harrison a dichiarare la temporanea sospensione dell’immigrazione ebraica. Se non sbaglio, The Yellow Danger di M. P. Shiel non è tradotto in italiano. Ci sono dei reprint. Ne parla diffusamente Elena Piana in “The Yellow Peril”, saggio pubblicato in Wars, storia della Distopia militare, Quaderno 2016 della Società Italiana di Storia Militare (Sism) e disponibile online. Fantastici Virus Heather Schell, “Outburst! A chilling true story about emerging-virus narratives and pandemic social change”, in Configurations, 1997 Winter e “The Sexist Gene: Science Fiction and the Germ Theory of History” in American Literary History, Winter 2002; The plague of utopias: Pestilence and the apocalyptic body 313 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 313 08/10/20 09:49 di Elana Gomel, Twentieth Century Literature; Winter 2000; 46, 4; Suggestiva la raccolta di saggi Monstrous Geographies: Places and Spaces of the Monstrous, a cura di Sarah Montin (Inter-Disciplinary Press, 2013), a patto di non prenderla troppo sul serio. Particolarmente divertenti: “Zombies in the Colonies: Imperialism and Contestation of Ethno-Political Space in Max Brooks’ The Zombie Survival Guide”, di Robert E. Saunders e “Enchanted Microcosm or Apocalyptic Warzone? Human Projections into Bug World” di Petra Rehling. Per la fantascienza e la scienza del dottor Michael Crichton (un medico prestato alla letteratura): The Science of Michael Crichton, a cura di Kevin R. Grazier. Dei saggi di questa raccolta è quello del biologo molecolare e scrittore Sergio Pistoi, su “The Andromeda Strain” ad avere attirato la mia attenzione sulla quarantena spaziale per il ritorno di Apollo 11 dalla luna. Tra parentesi: la supertecnologia Nasa faceva acqua da tutte le parti, ci fossero stati davvero organismi letali tipo “Andromeda” sulla Luna, non saremmo qua, né io che scrivo né voi che leggete., Ottimo, di Guido Silvestri, medico senigalliese che lavora alla Emory University ed è considerato uno dei massimi esperti mondiali di HIV, Uomini e Virus. Storia Delle Grandi Battaglie Del Nostro Sistema Immunitario, uscito nel 2019 col titolo Il virus buono e ripubblicato e distribuito nelle edicole con Repubblica nei giorni del Covid con un nuovo titolo, evidentemente ritenuto più confacente alla nuova situazione. Tanto valeva che, per lisciare il mood di quei giorni lo intitolassero: “L’unico virus buono è un virus morto”. Ma anche Ed Yong, Contengo moltitudini. I microbi dentro di noi e una visione più grande della vita (La nave di Teseo, 2016). Notevole talento narrativo, capacità di raccontare cose di scienza come se fosse un romanzo, ha anche il microbiologo e virologo dell’Università San Raffaele di Milano, Roberto Burioni, autore di un tempestivo Virus, la grande sfida. Dal coronavirus alla peste: come la scienza può salvare l’umanità portato nelle librerie da Rizzoli già agli inizi di marzo 2020. Sull’evoluzione delle pandemie, ambiente, mutazioni, 314 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 314 08/10/20 09:49 salti di specie dei virus è diventato ormai imprescindibile Spillover. L’evoluzione delle Pandemie di David Quammen. Ma ho trovato ancora più affascinante, anche se assai più complicato e difficile il libro successivo, L’albero Intricato, Una nuova e radicale storia della vita, uscito in traduzione italiana da Einaudi proprio in coincidenza con il lockdown per Covid. Molto bella la raccolta degli scritti animalisti di Primo Levi curata da Ernesto Ferrero per Einaudi, Ranocchi sulla luna e altri animali. Contiene, oltre all’intervista immaginaria “In diretta dal nostro intestino: l’escherichia coli”, molte altre esilaranti delizie attinenti ai temi qui trattati, tra cui “L’amico dell’uomo”, su come gli assiriologi decifrano il linguaggio segreto dell’ordinamento delle cellule della tenia, “Il salto della pulce”, sulla paura e l’ammirazione per i ragni e, in generale, l’infinita continuità della vita. Ero stato allertato da un articolo dello stesso Ferrero su La Stampa. Un altro studioso di Levi, Francesco Cassata, aveva attirato con Fantascienza? (Einaudi 2016) la mia attenzione sulla sua normalmente trascurata produzione fantascientifica. I sommersi e i salvati è fondamentale per interrogarsi sul tema, del tutto irrisolto, del come e perché malattie, epidemie e virus risparmiano qualcuno e non lasciano scampo ad altri. Poteva andare peggio Vorrei poter dedicare questo libro agli amici che si sono sottratti alla lettura che gli avrei inflitto. Mi mancano. Sono ormai molti. Ad uno di loro, Mario Pirani, avrei potuto rubare per questo saggio il titolo dell’autobiografia che scrisse qualche anno fa: Poteva andare peggio. 315 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 315 08/10/20 09:49 316 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 316 08/10/20 09:49 317 Ginzberg_Racconti contagiosi_49287-7.indd 317 08/10/20 09:49