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Siegmund Ginzberg
Racconti contagiosi
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© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione in “Varia” novembre 2015
Stampa Grafica Veneta S.p.A. di Trebaseleghe - PD
ISBN 978-88-07-49287-7
www.feltrinellieditore.it
Libri in uscita, interviste, reading,
commenti e percorsi di lettura.
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1.
Il virus a ogni pagina
Parafrasando Marx
“Tutta la storia finora conosciuta è storia della lotta contro le epidemie.”
Parafrasi da Karl Marx, Friedrich Engels, Il Manifesto
del Partito comunista
La Peste è La vita
“Ma che vuol dire la peste? È la vita, ecco tutto.”
Albert Camus, La peste
Quando Peggio di così non Poteva andare
“Non si riesce a trovare un’autoambulanza,” disse Adam,
“e non ci sono più letti liberi. E non riusciamo a trovare un
medico o un’infermiera. Sono tutti impegnati […]”
“Allora siamo davvero a questo punto.”
“Peggio di così non potrebbe andare,” rispose Adam,
“sono chiusi tutti i teatri e quasi tutti i negozi e le trattorie e
tutto il giorno le strade sono state piene di funerali, e tutta
notte di ambulanze.”
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Katherine Anne Porter, Bianco cavallo, bianco cavaliere,
sull’epidemia di Spagnola in America, nel 1918.
sosPiro di soLLievo: si esce di casa
“Di poi che fu proibito il non uscire delle case ò non stare fuori di casa doppo la campana del Bargello, cche comincia à sonare doppo l’una hora di notte, si è visa grandissimo
miglioramento che, per gratia di dio, sono per la città in tutto
circha a quatro malati il giorno […] Adì 14 di agosto 1633.
Per gratia di Dio benedetto possiamo dire che la peste sia finita, essendo stato da 15 giorni che non ci è stato che 4 malati di contagio, che piaccia a Sua Divina Maestà [che ne] restiamo liberi affatto, acciò si apra li passi di potere mandare
fuori mercantie e riceverne […]”
Giovanni Baldinucci, Quaderno. Peste, guerra e carestia
nell’Italia del Seicento
Poesia deLL’infLuenza
“Considerato quanto sia comune la malattia, di quali
proporzioni il mutamento spirituale che essa produce, quanto stupefacenti, allorché le luci della salute si spengono, i territori vergini che allora si dischiudono, quali lande deserte
dell’anima esponga un piccolo attacco di influenza, quali
precipizi e prati, sparsi di vividi fiori, riveli un minimo aumento della temperatura, quali antiche resistenti querce siano sradicate in noi dall’atto della nausea, come precipitiamo
nel pozzo della morte e sentiamo le acque della dissoluzione
chiudersi sopra le nostre teste e ci svegliamo pensando di
trovarci alla presenza degli angeli e degli arpisti quando ci
tolgono un dente e torniamo alla superficie nella poltrona
del dentista e confondiamo il suo “Sciacqui la bocca, sciacqui la bocca” con il saluto della divinità che, chinandosi, ci
dà il benvenuto in paradiso – quando pensiamo a tutto questo, come spesso siamo costretti a fare, appare davvero stra10
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no che la malattia non figuri insieme all’amore, alle battaglie
e alla gelosia tra i temi principali della letteratura. Verrebbe
da pensare che romanzi interi siano stati dedicati all’influenza; poemi epici alla febbre tifoidea; odi alla polmonite; liriche al mal di denti.”
Virginia Woolf, Sulla malattia, 1926
toujours de La griPPe
“Ancora e sempre l’influenza.”
De la grippe, Encore de la grippe, Toujours de la grippe,
Charles Péguy, in Œuvres en prose complètes, vol. 1 (Bibliothèque de la Pléiade, 1987)
una PandeMia Misteriosa e beffarda
“Epidemia-sfinge, così sfinge che pare si irrida di noi e
delle nostre fissazioni di conoscere.”
Ernesto Bertarelli, su “L’Igiene e la vita”, 1919, sempre a
proposito della Spagnola.
La convinzione deLLa MaLattia
“La malattia è una convinzione e io nacqui con quella
convinzione.”
Italo Svevo, La coscienza di Zeno
La strana favoLa deL “MaLe invisibiLe”
“E c’era per lui, il problema del male: la favola della malattia, la strana favola […] è il ‘male invisibile’ [...].”
Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore
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Uscita dal lockdown cui l’aveva costretta l’attacco di influenza, la signora Dalloway di Virginia Woolf è presa da una
voglia incontenibile di shopping. Il Decameron di Boccaccio
si svolge attorno a un distanziamento sociale volontario nei
giorni della peste. Romeo e Giulietta di Shakespeare muoiono a causa di un eccesso di polizia sanitaria. È stata l’Italia a
inventare nel Trecento le prime misure efficaci per fermare il
contagio. Aveva i migliori medici, fu lodata e imitata nel resto d’Europa. Ma non bastò a impedire una decadenza di
parecchi secoli. Quarantena, distanziamento sociale, stop ai
teatri, alle taverne e alle feste sono sempre stati molto impopolari, ovunque, anche quando hanno funzionato.
Giuseppe Gioachino Belli ci fa sapere che, causa “Er collera mòrribus”, nell’agosto 1835 nella Roma papale sono stati
chiusi i teatri. “Inibbì le commedie?! E che magnnera /
V’immaginate sta leggiaccia infame? / Tanto bene, sor faccia
de tigame / S’apre er teatro, e sta notizia è vera.” (Sonetto
26). Protestano i poveracci che arrotondavano facendo le
comparse: “Un povero garzon de falegname / Che ci abbusca du’ pavoli pe ssera/ Pe nun morì domani de collèra/ S’avrebbe oggi da morì de fame?”. Chiuderanno a un certo
punto pure le chiese. Ma non le osterie. Soliti discorsi da bar,
c’è chi a sto “còllera o collèra” nun ce crede: “Qui da noi
nun ce viè, sippuro è vera”. Eppure si capiva che le cose si
stavano mettendo male. “Qui tutto crolla, e quello che non
crolla trema […]. Una solitudine, una mestizia, uno squallo12
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re, per tutte le vie, per tutte le case, in tutte le facce”, la testimonianza del Belli appena qualche settimana dopo, in una
lettera del 7 settembre. Le autorità pontificie, che a lungo
avevano minimizzato e censurato le notizie sono obbligate a
far chiudere tutto. Il 20 settembre 1836 era stata istituita a
Roma, nel più assoluto silenzio per non allarmare la cittadinanza, una “Commissione straordinaria di pubblica incolumità per provvedere ai possibili bisogni all’occasione che vi
si manifestasse il cholera asiatico”. Non sappiamo cosa avessero discusso, e quali provvedimenti avessero allora deciso.
Le deliberazioni erano secretate, esattamente come è poi
successo con le discussioni del Comitato tecnico-scientifico
contro il Covid nominato il 3 febbraio 2020. Il lockdown imposto dopo tanto minimizzare e tante esitazioni proibiva
l’ingresso in città degli zampognari, e persino di allestire presepi, per cui ai Romani gli rovinò il Natale. Poi il 14 gennaio
del 1837 gli fu proibito anche il Carnevale. Di fronte all’ira
del popolo fecero una parziale marcia indietro e autorizzarono la Festa dei Moccoletti, che si svolgeva tradizionalmente
il martedì grasso. Ripartì naturalmente il contagio, e dovettero richiudere tutto. “Adesso ha da venì sto serra-serra / De
porcaccia infamaccia ammalatia,” lamenta il Belli nel sonetto
del 24 dicembre 1836. “Pure Pulcinella è morto.” C’è poco
da scherzare. “Mòrribus significa se more,” annota, a monito
di tutti i negazionisti, il censore papale sor Belli.
E se mancano o non ci azzeccano i medici?
Il 2 ottobre 1831, quindi alcuni anni prima della peste
che costrinse Roma al lockdown, il Belli inviò all’amica Cencia (la recanatese Vincenza Perozzi) una lettera in cui, come
ne La signora Dalloway di Virginia Woolf, si parte da un capo di abbigliamento per parlare di un’epidemia virale.
“Però è paro che relativamente al bonnet [cuffietta, copricapo femminile] io avrei potuto introdurlo nel bauletto
tra gli altri oggetti che mi piace udir giunti in vostre mani,
dove vi fosse stato il tempo sufficiente per ordinarne ed
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aspettarne la fattura. Così la poteva andare allora: oggi la va
tutt’altrimenti dapoiché il sarto bonnettaro che deve farlo è
malato egli con altre dieci persone che lavorano con lui. Non
vi meravigliate di questo fenomeno che deve certo uscire
nuovo a chi ignori la influenza e chiamiamola pure epidemia
della quale va Roma attualmente travagliata. Non vi dirò una
iperbole allorché vi assicurerò che degli abitanti di questa
città i due terzi se non pure i tre quarti sono Infermi di una
malattia che qui si accoglie sotto il nome di Grippe, abbenché a me non paia essa signora. La grippe di Francia e si sì un
umor bizzarro e repentino, ma della parte morale dell’uomo;
e tutto al più la consomiglianza che con simile capriccio
dell’anima può presentare il nostro malore attuale potrebbe
vedersi sotto l’aspetto della subitaneità capricciosa con che ti
assale a guisa di un ghiribizzo di bella Signora. La gripe poi
di Inghilterra ritiene assai diversa fisionomia dell’idolo che
or noi vagheggiamo. Lasciamo stare il modo della pronuncia
che sarebbe graipe con la e muta: ma proferita alla italiana
eziandio, dietro la sola guida dell’occhio, la gripe non significa che dolore di colica, dal che è tanto lontana la grippe nostra quanto voi siete lontano da me, dico per sesso e per distanza miliare. La nostra grippe consiste in subiti reumi di
capo e di petto, varii intensità nei varii temperamenti; benché il popolo nostro non possa a buon diritto che lagnarsi
più della generalità che dell’asprezza. Pochi furono sin qui i
morti. Moltissimi gl’infermi: anzi dite a Roma, dappoichè chi
‘prima scappa dopo incappa’.”
Belli e i suoi contemporanei san bene distinguere tra epidemie micidiali, come il colera, e una “semplice influenza”,
che passa senza fare strage. O almeno dovrebbe passare. Belli nota nella stessa lettera una importante eccezione, di spaventosa attualità nei nostri giorni del Covid: “Ne’ soli Spedali, gremiti di malati, accadono frequenti casi di morte; perché
nella classe che frequenta que’ luoghi di riposo per disposizioni sfavorevoli e per ritardo di appello il male assai facilmente degenera in acuto e porta al Creatore […]”. Attualissima anche l’osservazione che segue, circa l’indisponibilità
dei medici di famiglia nel momento in cui più servivano, nel
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pieno della crisi: “L’altr’ieri in certa famiglia che visitai, di 11
persone che tra padroni e domestici la compongono, n’eran
malate 14! E ciò come? Infermò anche un servitore di supplimento, e poi il medico, e poi il chirurgo. I medici, o sono
in letto, o pochi visitano, dico pochi rispetto ai moltissimi
che entrano sulle loro liste”.
Petrarca ce l’ha a morte con i medici. Nell’Ottocento ancora li linciavano, altro che applausi! Ben che gli vada, li
prendono in giro. Vedremo meglio in un capitolo che ho voluto scherzosamente intitolare: Maledetti medici e infermieri.
Tra le scherzose ragioni del suo elogio della peste, nel 1532
Francesco Berni elenca il minor affollamento (“In chiesa non
è più chi ti urti o ti pesti”), il distanziamento prodotto dalla
paura (“Se tu vai fuor, non hai chi ti dia impaccio; / anzi ti è
dato luogo e fatto onore / tanto più se vestito sei di straccio”), l’inedita disponibilità di fondi a fondo perduto (“Non
si tien conto di chi accatti o presti: / accatta e fa’ pure debiti,
se sai, / ché non è creditor che ti molesti”).
Nella Milano della peste del 1576 (non quella dei Promessi sposi, che è del secolo successivo) San Carlo Borromeo
fa un po’ come papa Francesco: per conciliare fede e misure
anti-contagio fa pregare e cantare dai balconi, anziché in
chiesa o in processione. Ritrovare nelle vecchie e nuove narrazioni la cronaca di oggi non è solo un’esercitazione più o
meno divertente. Ci può aiutare, credo, a comprendere. Il
virus è da sempre misterioso. Ha comportamenti strani, non
si capisce perché uccida alcuni e altri li lasci illesi. Qualcuno
non ci crede. Altri fanno finta di non crederci. Negano, e negano soprattutto a sé stessi. Il momento cruciale, della verità,
in tutte le narrazioni, a cominciare da Tucidide (ma anche
prima ancora), è quando non si riesce più nemmeno a seppellire i morti. Nella nostra esperienza recente è venuto con
le immagini dei camion militari che trasportavano bare, di
notte, per le strade deserte di Bergamo.
Da millenni si dà la caccia al Paziente zero o agli untori.
La pandemia viene sempre, immancabilmente dall’Oriente.
Anche Dracula viene dall’Est, dai Balcani contesi tra Russia
e Turchia. Nel clima in cui Bram Stoker scrive il romanzo,
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forse il vampiro è proprio la minaccia russa.. Oggi forse Dracula verrebbe dalla Cina. Una delle scene chiave di Nosferatu
di Friedrich Wilhelm Murnau (Nosferatu è Dracula, avevano dovuto cambiargli nome per questioni di diritti d’autore)
è quando, dalla nave diretta in Inghilterra con la bara del
vampiro, sbarcano frotte di topi schifosi. Nel 1922, la data in
cui uscì il film, che ha come sottotitolo “Eine Symphonie des
Grauens”, una sinfonia dell’orrore, si sapeva già che sono i
topi con le loro pulci a portare la peste. Il vampiro di Murnau ha una faccia da sifilitico. Meno di vent’anni dopo, nel
film di propaganda nazista (e di giustifcazione, anzi incitamento allo sterminio) Der Ewige Jude, l’Eterno ebreo, si vede ripetutamente una stessa identica scena, di ratti che sbarcano da una nave correndo lungo la gomena dell’ancora, a
illustrare l’invasione giudaica dell’Europa. Nell’immaginazione inizi Novecento a invadere Europa e America con le
loro orde di immigrati, a portare le pesti, contagi repellenti
di ogni genere, sono, oltre ai soliti ebrei dall’Est, anche gli
italiani, e soprattutto i cinesi. Jack London immagina che la
Cina venga punita con un bombardamento batteriologico,
che risolve il problema una volta per tutte: sterminando tutti
i cinesi,.
Shopping a Bond Street
“La Signora Dalloway disse che i guanti li avrebbe comprati lei [nel romanzo diventeranno “fiori”, preferisco i “guanti” del racconto: un accessorio di moda si presta meglio alla
shopping compulsivo, risarcitorio del lockdown].” Attraversa
il parco. Si dirige verso Bond Street, la strada delle boutique.
È una sopravvissuta. A un’epidemia da virus che, ora lo sappiamo, aveva ucciso più gente che la guerra. Sopravvissuta,
ma non senza conseguenze. “Il suo cuore, indebolito, dicevano, dall’influenza.” Passeggia. Pensa. Rimugina ricordi alla rinfusa. Cerca di ricordarsi dei versi di Shelley, e di Shakespeare: “Dal contagio della lenta macchia del mondo… Non
temere più il calore del sole… E ora non potrà più piangere,
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non potrà più piangere [mourn, piangere i defunti]…”.
“L’orgoglio la costringeva a stare eretta […] abituata alla disciplina e alla sofferenza. Come soffriva la gente, come soffriva, pensò, pensando alla signora Foxcroft, che l’altra sera
all’ambasciata tutta ingioiellata, si rodeva l’anima perché
quel caro ragazzo era morto.” Morto come, di cosa? In guerra? O di spagnola? “E ora non potrà piangere, non potrà
piangere, ripeté, cercando di guardare oltre la vetrina […] i
moderni non hanno scritto nulla che a uno gli venga voglia di
leggere sulla morte, pensò; e si allontanò.”
Virginia Woolf di malattie virali ne sapeva qualcosa, anche se, né nel racconto uscito in rivista nel 1923, né nel romanzo pubblicato nel 1925 non menziona mai la Spagnola.
Sua madre era morta di arresto cardiaco attribuito all’influenza del 1895. Lei stessa si era ammalata diverse volte. “I
germi dell’influenza non hanno effetto su di me,” annotava
spavalda nel 1915 nel suo diario. Ma se l’era presa l’anno
successivo. Si lamenta in una lettera alla sorella delle ramanzine del medico che continua ogni giorno a ripeterle che l’influenza può essere dannosa per sistema nervoso e cuore. È di
nuovo influenzata nel 1918. Probabilmente è Spagnola l’influenza che la colpisce a fine 1919 (“Ho pensato di morire”),
e forse lo è anche la ricaduta del 1922.
Cara signora Dalloway, così frivola, così seria, così dura,
così forte, così fragile, così pallida, così invecchiata… “Ciò
che amava era: la vita, Londra, quell’attimo di giugno.” “[...]
E i Sonetti di Shakespeare. Li sapeva a memoria. Lei e Phil
avevano discusso tutto il giorno della Dark Lady, e Dick aveva esordito quella sera a cena dicendo che non aveva mai
sentito parlare di lei. Davvero, lo aveva sposato per quello!
Non aveva mai letto Shakespeare!”
Romeo e Giulietta, vittime della quarantena
I frati che dovevano avvertire il Romeo di Shakespeare
che la morte di Giulietta è finta sono trattenuti in quarantena
forzata, sprangati dentro l’edificio in cui alloggiano, perché
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si pensa che possano per la loro professione aver avuto contatti con appestati:
“Andavo a cercare un frate scalzo – uno del nostro ordine, qui in città a visitare gli ammalati – perché mi tenesse
compagnia in viaggio, quando le guardie sanitarie, sospettando che fossimo stati in una casa in cui imperversava la
peste contagiosa (infectious pestilence), sprangarono le porte
e non ci fecero più uscire. A quel punto la mia missione a
Mantova si è interrotta,” racconta frate Giovanni. “E allora
chi ha portato la mia lettera a Romeo?” gli chiede allarmato
il confratello frate Lorenzo. “Nessuno. Eccola qui. Non sono riuscito a inoltrarla, né a rimandartela. Tanto tutti avevano paura del contagio (infection).” (Romeo e Giulietta, atto
V, scena 3)
Una scorsa alla concordanza delle opere di Shakespeare
rivela centodiciotto ricorrenze del termine plague (peste),
nelle sue diverse forme (plagues, plagued, e persino, anche se
un volta sola, unplagued, sarebbe a dire “spestato”), e quattordici ricorrenze di pestilence. Ma quasi sempre in funzione
di metafora. O di interlocuzione, di esclamazione del volgare
quotidiano, tipo in bocca a Falstaff: “Peste gli venga se i ladri
non si possono fidare l’uno dell’altro”. Pestilenza è il sospetto che Jago insinua nell’orecchio di Otello, o il veleno che
Claudio versa nell’orecchio del padre di Amleto, principe di
una Danimarca infestata da “una sporca pestilenziale accozzaglia di vapori” (Amleto, atto II, scena 2, 306). È una dichiarazione politica, non epidemiologica. Come politica è la
ripetuta, paritetica invettiva di Mercuzio morente contro
Montecchi e Capuleti: “A plague o’ both your houses. Peste
su entrambe le vostre famiglie! […] me l’hanno proprio attaccata, e per bene per giunta. Le vostre famiglie!”. (Romeo
e Giulietta, atto III, scena 1)
Shakespeare non teme la peste. Ci scherza, per lui è soprattutto una metafora, un’esclamazione. Forse si riteneva
immune. Forse l’aveva avuta senza conseguenze. Eppure la
sua è un’epoca di epidemie. Con la peste ci era nato, si potrebbe dire. “Hic incipit pestis, qui comincia la peste”, si legge nel registro della Holy Trinity Church di Stratford-u18
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pon-Avon accanto all’annotazione della morte di Oliver
Gunne, apprendista tessitore. Solo pochi mesi prima era stata annotato, dalla stessa mano, quella del vicario John
Bretchgirdle, il battesimo di “Guglielmus filius Johannis Shaksepere”, in data 26 aprile 1564.
Il contagio andava e veniva, scompariva per qualche anno, giusto il tempo che la gente se ne potesse dimenticare, e
poi puntualmente ricompariva, quando meno se l’aspettavano. Malgrado tutte le misure di prevenzione suggerite dai
medici. Tra queste c’erano già anche dei dispositivi di protezione individuale, una sorta di mascherine: la gente andava
in giro schiacciandosi sul volto mezze arance farcite di chiodi di garofano. Si pensava che il soffio della pestilenza andasse combattuto con le stesse armi, fumigando con incenso o
rosmarino, o anche col bruciare vecchie scarpe di cuoio. Male forse non faceva. Altri rimedi erano assai più controproducenti. L’uccisione di cani e gatti non è il rimedio più efficace per controllare un contagio come la peste che si diffonde
tramite i topi e le pulci. Altri metodi di profilassi erano più
simili a quelli dei nostri giorni, e forse più efficaci. Si raccoglievano ogni settimana i dati sui decessi a causa di peste annotati nei registri delle parrocchie. Se superavano la trentina,
venivano banditi gli assembramenti, le riunioni, le feste, le
fiere, le gare di tiro con l’arco, e così via. Erano esclusi i servizi religiosi, perché si riteneva inconcepibile che il contagio
avvenisse durante le preghiere in chiesa. Non erano sprovveduti. Alle prime avvisaglie di epidemia le autorità imponevano restrizioni agli spostamenti e ai commerci. Si impediva
l’entrata in città di villici e vagabondi, ne venivano cacciati
quelli che già c’erano. La City di Londra emanava ordinanze
e comminava pene severissime. Si proibì la compravendita di
materassi usati e si impose che tutti spazzassero la strada di
fronte alle proprie case, allo scopo dichiarato di impedire
che questo lavoro venisse affidato a estranei, magari a “vagabondi, persone disoccupate, indigenti, dissolute e pericolose”, ammassate in baracche anguste, sudicie e malsane (e ricettacolo, ma questo non lo si sapeva ancora, di topi e pulci).
Il pirata e favorito della Regina, John Hawkins, proponeva
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di spedirli tutti in America, in Virginia, così battezzata in
onore della Sovrana. Ma la cosa che colpì maggiormente
Shakespeare e compagnia, tutti i grandi autori e tutte le compagnie dell’era elisabettiana, fu la frequente chiusura dei teatri. Durante l’epidemia di peste del 1603 il lockdown durò
un anno intero.
Le ragioni addotte per la chiusura dei teatri sono sanitarie. Ma c’è anche chi ritiene che la chiusura faccia bene anche alle anime. La Corporation of London (la municipalità)
scrive nel 1584 al Privy Council (il governo di Sua Maestà):
“Fare le recite in tempo di peste significa accrescere la peste
con l’infezione: fare le recite fuori dal tempo di peste significa attirare la peste offendendo Dio con tali commedie”.
Qualcuno ce l’ha con i teatri e gli spettacoli anche a prescindere. “La causa della peste è il peccato; la causa del peccato
sono gli spettacoli; perciò causa della peste sono gli spettacoli,” recita il sillogismo dei sermoni. Nel 1633 il puritano William Prynne dice che gli spettacoli sono “molti per numero,
contagiosi per qualità, capaci di avvelenare, infettare coloro
che li avvicinino più di quanto lo sia uno tutto coperto di
pustole pestilenziali aperte”.
In una pagina del suo saggio Sulla malattia Virginia Woolf cerca di spiegare perché Shakespeare andrebbe letto meglio da malati, se costretti a letto con l’influenza:
“L’incoscienza è una delle qualità della malattia – fuorilegge che siamo – e proprio da incoscienti abbiamo bisogno
di leggere Shakespeare: non perché vada letto in stato di torpore, ma perché, quando siamo pienamente consapevoli, la
sua fama ci intimidisce e logora, e tutte le opinioni di tutti i
critici smorzano in noi quel tuono di idee che, benché sia
un’illusione, è pur sempre un’illusione proficua, un piacere
prodigioso, uno stimolo efficace a leggerlo. Stanno corrompendo Shakespeare; un governo protettivo potrebbe ben
proibire di scrivere su di lui, così come a Stratford hanno
collocato il suo monumento fuori dalla portata di eventuali
scarabocchiatori. In questo ronzio di critica, uno può azzardare le sue ipotesi in privato, segnare note a margine; ma,
sapendo che qualcuno l’ha già detto prima, o detto meglio, la
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voglia passa. La malattia, nella sua regale sublimità, spazza
tutto questo e lascia soltanto Shakespeare e noi stessi. Grazie
al suo strepitoso potere e alla nostra strepitosa arroganza, le
barriere crollano, i nodi si sciolgono, il cervello squilla e risuona di Re Lear e di Macbeth”.
È un paese malato quello su cui regna Macbeth. “Ahimé,
povero Paese! Che ha quasi paura di riconoscere se stesso!
[…]. Dove nessuno se non chi tutto ignora viene mai visto
sorridere; dove vengono lanciati, ma non colti da alcuno, sospiri e gemiti e grida; dove violenti dolori sembrano la normalità [A modern ecstasy, che nell’inglese di Shakespeare
non è un complimento, sta per cosa di ogni giorno, ordinaria, banalità scontata]. La campana a morto suona senza che
nemmeno ci si chieda per chi, e la vita della brava gente si
estingue pima dei fiori nei loro cappelli: muoiono prima ancora di essersi ammalati.” (Macbeth, atto IV, scena 3, 165175). Un’epidemia micidiale, un contagio fulminante? No,
peggio. Un paese malato di tirannia, di cattivo governo, in
mano a un leader bugiardo, incompetente, mosso da un’incontenibile pulsione autodistruttiva. Questa l’interpretazione, in tempi di Covid, in un articolo sul “New Yorker”, di
uno dei più brillanti interpreti contemporanei di Shakespeare, Stephen Greenblatt. Al lettore decidere se questo Macbeth ha qualcosa di Trump, o di Bolsonaro, di Erdogan, di
Putin o Xi Jinping. Di sicuro, Macbeth, che si fida solo di
coloro che, come le streghe di Elsinore, gli dicono quel che
gli piace sentire, celerebbe e negherebbe l’evidenza di una
pandemia.
Macbeth è del 1606, lo stesso anno di Lear. Tre anni prima, Londra aveva conosciuto una delle tante terribili epidemie di peste. Il 1603 fu l’anno in cui morì Elisabetta I. Non
morì di peste. Ma anche fosse stata peste, nessuno se ne sarebbe meravigliato. S’era già presa il vaiolo che aveva appena
ventinove anni. I medici la salvarono tenendola accanto al
camino acceso, avvolta in una coperta rossa. Regnò altri sessantuno anni. Ma restò deturpata per il resto del suo regno, è
la ragione per cui viene sempre ritratta con un trucco pesantissimo e una parrucca rossa. Neanche re e regine sono im21
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muni. Ma hanno più possibilità di sopravvivere dei poveracci. Nel 1658 il Re Sole Luigi XIV era ventenne quando una
febbre lo condusse in fin di vita. Influenza virale? Tifo? Il
suo medico personale non ne aveva la minima idea. Lo salassarono, visse e regnò altri cinquantasette anni. Nei soli anni
1603-1604 furono pubblicati a Londra ben ventitré libri che
trattavano di peste, molti puntualmente ristampati in occasione delle epidemie successive. Per lo più prediche e sermoni religiosi, oppure manuali pratici per la prevenzione e la
cura, instant book di ciarlatani e astrologi. Ma anche opere
letterarie di autori di tutto rispetto, come Ben Jonson, Thomas Middleton o Thomas Dekker.
Pandemie e malattie contagiose sono una vecchia conoscenza per l’Inghilterra dei tempi di Shakespeare & Co. Così
come lo sono nel resto dell’Europa. Dalla peste nera di metà
1300 all’Italia del Rinascimento, la convivenza con le pandemie dura da un paio di secoli. Vengono, vanno, tornano. Le
chiamano tutte plague, dal latino plaga, piaga, ferita, colpo
inferto. Così come per comodità continuiamo a chiamare indistintamente “peste” tutte le epidemie antiche. Ma può benissimo essere qualche altro malanno. In inglese pests sono
gli insetti e gli altri animaletti nocivi, i parassiti, anche, in metafora, gli scocciatori. Sono una molteplicità, caterve. Ma anche le “pesti”, intese come malattie, sono tante. Milioni di
milioni, come le stelle, come le variazioni di batteri e virus.
Febbri “terzana” o “quartana” (che poi sarebbero malaria), febbre da carestia, febbre degli ospedali, febbre tifoidea, tifo petecchiale, spotted fever, febbre “maculosa”, che
produce anch’essa macchie nerastre e rigonfiamenti che si
possono confondere con bubboni. Come il tifo, la febbre a
macchie è una rickettosi, dal nome del patologo di Chicago
Howard Taylor Ricketts, scopritore, nel 1909, del micro-organismo responsabile del tifo. Da non confondersi con un
altro scienziato americano, altrettanto se non ancora più famoso, il biologo Ed Ricketts, uno dei padri dell’ecologia,
coautore con Steinbeck de Il mare di Cortez, e ritratto nel
personaggio di Doc in Cannery Row e in Sweet Thursday
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(Quel fantastico giovedì). Una rickettosi non è un bacillo come la peste. È una specie di via di mezzo tra batteri e virus, e
come i virus si riproduce solo all’interno di una cellula vivente. Oltre che per alcuni dei sintomi, somiglia alla peste anche
in qualcos’altro: passa dagli animali all’uomo. È trasmessa da
pidocchi, pulci, cimici o zecche. Anche questa la chiamano
spesso peste. A meno che la chiamino apposta in un altro
modo per depistare, perché peste fa troppa paura, produce
panico indesiderato. Se è peste, si finisce in quarantena, si
viene murati in casa, si bloccano i commerci, si perdono soldi, si chiudono i teatri.
C’è una pagina del Diario dell’anno della peste, la fiction
che Defoe pubblicò nel 1722 sulla grande pestilenza a Londra di oltre mezzo secolo prima, in cui si racconta che mentre saliva vertiginosamente il numero dei decessi, i bollettini
medici registravano invece un incremento di casi di “febbre”, “febbre maculosa”, e persino “infezione ai denti”, poi
davano quale causa di decesso “vecchiaia”, “consunzione”,
“ascessi”, “coliche”, “vomito”, e simili, pur di non parlare di
“peste”. “Tutti coloro che potevano celare la loro malattia, lo
facevano. Per evitare che i vicini li scansassero, rifiutassero di
conversare con loro; e anche per impedire che le Autorità li
chiudessero in casa, cosa che non era ancora nemmeno messa in pratica ma solo minacciata, al che la gente era terrorizzata all’estremo, al solo pensiero.”.”
Appena si può, ci si arrampica sugli specchi terminologici per evitare di menzionare la parola che in quel momento
fa più paura. “In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di profferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea si immette per isbieco in
un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in
un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale
non si sa trovare un altro nome. Finalmente peste senza dubbio e senza contrasto; ma già ci si è attaccata un’altra idea,
l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde
l’idea espressa dalla parola che non si può mandare indietro,” spiega Manzoni nei Promessi sposi.
Il catalogo delle malattie infettive di massa cui si fa ricor23
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so pur di evitare di parlare di peste (o di colera, o di qualcosa
di simile) è infinito, fa a gara con quello delle conquiste di
Don Giovanni. C’erano state anche ondate di influenze virali, di zoonosi passate dalle bestie agli uomini, o viceversa. O
almeno così si può supporre dalla descrizione dei sintomi,
dai racconti dei testimoni. C’era stata persino il Sudor anglicus, la “sweating sickness”, la malattia del sudore, di cui non
si sa quasi nulla, se non che si diffondeva a macchia di leopardo, con straordinaria rapidità di contagio. Cominciava
con brividi e febbre alta. La fase acuta durava al massimo un
giorno e una notte, poi il paziente o guariva o moriva. Spopolò per quasi un secolo soprattutto le campagne, e poi improvvisamente scomparve dopo il 1551, misteriosamente come era venuta. Si sospetta che fosse una malattia virale
“atipica”. Una specie di influenza, che colpiva reni o polmoni. Talvolta non aveva altri sintomi che un pochino di febbre
e tosse, oltre alla copiosa sudorazione. Un po’ come il Covid,
insomma.
Riderne allunga davvero la vita?
L’Inghilterra elisabettiana conosce una vera e propria fioritura di manuali e testi di medicina che prescrivono l’allegria scacciapensieri, il raccontare storie, e in modo specifico
l’andare a teatro. C’erano due posizioni in conflitto pressoché inconciliabile: da una parte quelli che prescrivevano l’allegria, lo star su con il morale come il miglior profilattico,
anzi un toccasana contro le epidemie; e quelli che invece
mettevano in guardia contro i rischi di diffusione del contagio nei luoghi affollati. Autori e attori, professione oblige, sostenevano ovviamente la prima delle due posizioni. Non c’erano ovviamente né tv né computer, né streaming né differite.
A teatro bisognava andarci di persona, magari ammassati in
platea, coi rischi che comporta.
Il teatro, del resto, a quanto pare nasce con la peste, anzi
ne è il “doppio”, l’immagine speculare. “Fra l’appestato che
corre urlando dietro alle proprie allucinazioni, e l’attore che
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si lancia alla ricerca della propria sensibilità; fra l’uomo che
si inventa personaggi ai quali senza la peste non avrebbe ami
pensato, e li raffigura in mezzo a un pubblico di cadaveri e di
alienati in delirio, e il poeta che inventa intempestivamente i
suoi e li affida a un pubblico altrettanto inerte o delirante,
esistono altre analogie che confermano le sole verità importanti, e pongono l’azione del teatro, come quella della peste,
sul piano di un’autentica epidemia” (Antonin Artaud, “Il
teatro e la peste”, in Il teatro e il suo doppio). In Sofocle, Edipo indaga, o fa finta di indagare, finché si scopre che è proprio lui il colpevole della funesta pestilenza che ha colpito
Tebe, la città di cui è diventato re, anzi “tiranno”. E certo
non è a caso che la pièce venga composta e rappresentata che
è ancora vivo ad Atene il ricordo della pandemia che l’aveva
devastata durante la guerra con Sparta. Anche la nascita del
teatro a Roma antica ha a che fare con una pandemia, se prestiamo fede a quanto ci racconta Livio. C’era quell’anno giusto un momento di pausa negli intrighi politici e nelle guerre,
che scoppiò una grande pestilenza (pestilentia ingens orta).
Non essendo efficaci altri rimedi, vennero istituiti “degli
spettacoli scenici (ludi quoque scaenici), cosa nuova per quel
popolo bellicoso, che fino ad allora non aveva altri spettacoli
che quelli del circo”. “Mimi fatti venire dall’Etruria si esibivano in danze garbate, all’usanza etrusca, senza canti, senza
mimiche rappresentazioni che tenessero luogo della recitazione verbale, danzando al suono di un flauto […] I nostri
giovani presero a imitarli, scambiandosi tra loro facezie in
rozzi versi e accordando gli atteggiamenti con le parole. La
variazione non dispiacque: spesso ripetuta, divenne di uso
comune […]” (Livio, Storia di Roma, VII, 2). Se così riuscissero a lenire il contagio, o invece lo accrescessero, non si sa.
Un effetto curativo della risata è quello che lo scrittore e
drammaturgo Thomas Dekker nell’incipit del suo libro The
Wonderfull Yeare 1603, l’anno “straordinario” in cui a Londra si chiusero, causa la gran peste, i teatri, promette ai lettori: “Se lo leggerete potrete farvi allegre risate ed è mio desiderio che ciò avvenga, perché l’allegria è curativa e benefica
contro la peste, malattia dalla quale (a dire il vero) il libro è
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(anche se in modo non grave) in parte affetto. Ma, vi prego,
non allontanatelo dalla vostra compagnia per questo […]”.
Anche se il problema è che con la sua tremenda prosa barocca, tutta allusioni, e i suoi stucchevoli giochi di parole Dekker
probabilmente non riesce a far ridere nemmeno i suoi contemporanei.
Anche François Rabelais, medico e scrittore, insiste nella
dedica al Quart livre, sull’effetto curativo dell’allegria e della
risata. A difesa delle proprie “mitologie pantagrueliche” dalle critiche di “certi cannibali, misantropi e agelasti [la spiegazione dei termini la dà lui stesso in una ‘Breve dichiarazione
di alcune dizioni più oscure’: Cannibali, popolo mostruoso
aventi la faccia come cani e abbaianti invece di ridere; Misantropi, odiatori degli uomini; Agelasti: che non ridono affatto]” certifica che: “Molte persone languenti, malate, o in
altro modo incomodate e desolate avevano con tale lettura
[del Gargantua e del Pantagruele], ingannati i loro fastidi,
passato allegramente il tempo, e recuperato allegria e nuovo
conforto […]. Componendole [le mitologie pantagrueliche]
io per puro divertimento, non pretendevo né gloria né lode
alcuna: avevo solo riguardo e intenzione di dare così scrivendo quel poco di sollievo che potevo agli afflitti e malati assenti: come volentieri faccio, quando c’è bisogno, a quelli
presenti che ricorrono all’arte mia e al mio servizio” (Dalla
dedica del Libro quarto a Monsignor Odet, cardinale di Chastillon; era il fratello maggiore di Gaspard de Coligny, ammiraglio di Francia e leader degli Ugonotti, che fu ammazzato
nel massacro della notte di San Bartolomeo. Lo stesso Odet,
che al momento della dedica da parte di Rabelais era vescovo
di Beauvais, poco dopo si era fatto calvinista, si era sposato e
aveva riparato in Inghilterra, dove poi morì avvelenato dai
sicari papisti, che non andavano per il sottile più di quelli di
Putin.
L’humour come profilassi non è però una scoperta inglese, e neppure francese. Ci avevano già pensato gli italiani, un
paio di secoli prima. È quello che fanno le giovinette e i giovani del Decameron di Boccaccio. La “lieta brigata” scampa
la peste che imperversa a Firenze ritirandosi in ameno luogo
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fuori città a raccontarsi storie. Praticano una forma sostenibile di distanziamento sociale. Se lo possono permettere, sono giovani di “buona famiglia”, privilegiati. Ma è anche una
loro scelta. Potrebbero darsi ad altre forme di “diletto”, poniamo il gioco (“Qui è bello e fresco stare, e hacci, come voi
vedete, e tavolieri e scacchieri…”). Preferiscono invece “novellare”.
Negli anni e decenni a seguire il Decameron, un’infinità
di testi di medicina, di trattati e di manuali avrebbero prescritto il raccontarsi storie e lo stare allegri e di buon umore
come profilassi specifica contro la peste. Ma vennero prima
le ricette, o vennero prima le storie? C’è, tra gli studiosi, chi
sostiene che sia stato il Boccaccio a mutuare la sua ricetta dai
testi di medicina del suo tempo, e non viceversa. Comunque,
i medici continuarono a lungo a raccomandare questa specifica profilassi. Raccontar storie per allungarsi la vita è una
strategia antica: è quello che già fa Shéhérazade nelle Mille e
una notte, una favola al giorno per evitare che il sultano le
faccia tagliare la testa. La finzione del raccontarsi storie in
tempi di pandemia torna e ritorna in mille forme anche dopo
Boccaccio. Ce n’è persino una versione anni novanta del secolo scorso in Generation X, del canadese Douglas Coupland, in cui si narra di una crisi generazionale in tempi di
Aids: tre giovani si ritirano a raccontarsi le storie della loro
vita, come se fossero “favole della buonanotte”, in un appartamento in un grattacielo. Mi risuona nelle orecchie il coro
dei cortigiani nel Rigoletto: “Co’ fanciulli e coi dementi /
spesso giova il simular”. Giova il raccontar.
L’invito a stare allegri, non farsi vincere dalla malinconia
è un tema ricorrente nelle antiche prescrizioni profilattiche.
“Fuze le rixe, tristitie, melenconie, i gran pensieri, e specialiter il pensieri di morte, di la peste; staga alegri cum dilecti,
soni e canti e somigianti, iochano a zochi de dilecto e di piacere per solazo sempre, azò che avaritia non mene a ira, conturbatione di mente, a melanconia e somegianti (Fuggi le liti,
le tristezze, la malinconia, i pensieri gravi, e in modo particolare i pensieri di morte e di peste; state allegri con intrattenimenti, musica, canti e simili, giocando giochi che divertano e
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diano piacere, di modo che l’avarizia non porti a ira, turbamento di mente, malinconia e cose del genere)”. Così ad
esempio suggerisce, accanto a molti altri autori, Michele Savonarola, stimato medico presso la Corte degli Estensi, nonno del gran fustigatore fiorentino di costumi fra’ Girolamo,
nel suo De preservatione a peste et eius cura del 1349.
Il che è precisamente quel che si propone di fare, indirizzandosi ai compagni, uno dei giovani di Boccaccio nell’introduzione alla prima Giornata: “Io non so quel che dei vostri
pensieri voi v’intendete di fare: li miei li lasciai io dentro della porta della città […] e per ciò o voi a sollazzare e a ridere e
a cantare con meco insieme vi disponete, o voi mi licenziate
che io per li miei pensier mi ritorni e steami nella città tribolata” (Decameron, I, Intr. 93).
Analogo suggerimento di spensieratezza e di star lontani
dalle cattive notizie, di ritirarsi “in luogo dove non si oda né
suono, ne romore alcuno del luogo amorbato” dà, oltre un
secolo dopo, in occasione del ritorno della peste a Firenze
nel 1478, Marsilio Ficino nel Consiglio contro la pestilenza.
Altri ancora suggeriscono letture. Narrativa, qualcosa “di
non troppo difficile” suggerisce il senese Ugo Benzi che fu
anche medico del re di Francia, “libri dilettevoli, massimamente contenenti descrittioni di paesi, con belle & amene
viste” consiglia Lorenzo Condio nella sua Medicina filosofica
contra la peste, del 1581. Dal passa che ti canta al leggi di
viaggi che ti passa.
Contrariamente a quanto gli viene talvolta attribuito,
Boccaccio non sostiene che “ridersi e beffarsi” sia “medicina
certissima a tanto male”. Dice solo che certuni la pensavano
così, non che lui condivide. Individua due distinti comportamenti, senza prendere a prima vista partito per l’uno o per
l’altro: “Alcuni, li quali avvisavano che il viver modestamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto
accidente resistere; e fatta brigata, da ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove
niuno infermo fosse”; altri, i quali, “in contraria oppinion
tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando
attorno e sollazzando e il sodisfare d’ogni cosa all’appetito
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che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser
medicina certissima a tanto male; e così come il dicevano il
mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a
quella taverna, ora a quell’altra andando, bevendo senza modo e senza misura”. Insomma, alcuni osservano limitazioni
autoimposte, praticano una sorta di “io me ne sto a casa”,
sacrificano il proprio stile di vita precedente, praticano un
isolamento sociale volontario, sia pure di gruppo; altri danno sotto ancor più di prima alla movida, affollano “ora quella ora quell’altra taverna”, pub, ristoranti, dancing, rave e
feste. La differenza non è tra frugali e spendaccioni, tra prudenti e incoscienti, tra chi si flagella e chi non vuole rinunciare a niente. Gli uni e gli altri pari sono in egoismo e in illusione: “a un fine tiravano assai crudele, di schifare e fuggire gli
infermi e le lor cose; e così facendo si credeva ciascuno medesimo salute acquistare”. La discriminante è a ben vedere
un’altra, di immutata attualità: praticare il distanziamento o
fregarsene.
Canta che ti passa, ma dai balconi.
È scontato che fa bene la musica, fa bene cantare, e fa
bene pregare. Le serenate dal balcone e dalle finestre e dai
tetti di casa che hanno alleviato (dire allietato sarebbe troppo) il periodo di clausura per il covid hanno un precedente.
Dovuto al cambio di strategia contro la peste milanese del
1576-78 attuato dal cardinale, e poi santo, Carlo Borromeo
(non Federigo che è il cardinale, e pure lui santo, della successiva peste manzoniana del 1630). Tre processioni di seguito nell’ottobre del 1576, con migliaia di flagellanti (il cardinale in persona si era messo un cappio al collo e procedeva
scalzo, in guisa di criminale condannato) avevano moltiplicato i contagi (ottanta penitenti caddero morti nel giro di
un’ora, dicono le fonti). Allora il cardinale diede il contrordine: milanesi pregate, ma statevene a casa. Le litanie specificamente composte per le processioni furono adattate per essere cantate in casa, o alla finestra. Scelta coraggiosa quanto
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la decisione di papa Bergoglio di accettare la sospensione
delle messe in pubblico. Ché anche a quei tempi c’era chi era
contrario, anzi tacciava di “grande abominio” il bando alle
processioni, il sospettare, non fidarsi delle feste di Dio e dei
Santi”. “Al suono della campana, tutti andavano alle finestre,
un sacerdote o altra persona preposta iniziava la preghiera, e
tutti in ginocchio rispondevano, ciascuno col libro di preghiere che il cardinale aveva fatto stampare a questo scopo,”
scrive Giovanni Pietro Giussano, autore di una seicentesca
Vita di S. Carlo Borromeo. “Quando la peste cominciò a crescere la pratica [di cantare e pregare in pubblico] fu interrotta, di modo da evitare che le congregazioni alimentassero il
contagio. Ma le orazioni non cessarono, ché ognuno stette a
casa o alla finestra o porta e le fece da lì […]. Pensate, passeggiando per Milano non si sentiva altro che cantare, venerare Dio, supplicare i Santi, al punto che uno quasi avrebbe
desiderato che quelle tribolazioni durassero più a lungo.”
Così la testimonianza di Paolo Bisciola, nella sua Relatione
verissima del progresso della peste di Milano. Qual principiò
nel mese d’Agosto 1576, e seguì sino al mese di Maggio 1577
(Bologna 1630). Non è per niente tenero con il cardinale
santo Franco Cordero nel suo La fabbrica della peste, ma
questa almeno gliel’avrebbe dovuta passare.
Uno che se la ride allegramente della peste nel 1500 è
Francesco Berni. E ci lascerebbe un po’ perplessi, se non ci
fosse chi ci spiega che la sua ironia, nel tessere l’elogio della
peste, è la stessa di Erasmo nel tessere l’Elogio della follia.
“Rovesciamento d’un rovesciamento” – questa l’interpretazione che ne dà Sergio Givone nel suo Metafisica della peste,
dove “non è il comico a oltrepassare il tragico, dissolvendolo
[…]. Semmai è il tragico a sostanziarsi del comico”. “Roma è
rinata, il mondo è riavuto / La peste è spenta, allegri gli uffiziali: / o che ventura che noi abbiamo avuto!”, così l’ironia di
Berni nei versi del “Capitolo di Papa Adriano”, del 1522. È
l’anno dell’ascesa al Soglio, col nome di Adriano VI, di un
monaco tedesco, che si era messo in testa di moralizzare la
Chiesa, tuonava contro il lusso, pretendeva di abolire i con30
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tratti di vendita dei pubblici uffici e per questo era inviso
all’elegante cortigiano rinascimentale Berni. Ed è anche l’anno in cui, per far cessare la peste a Roma, fu portato in processione il “Crocifisso miracoloso” conservato a San Marcello al Corso, quello visitato da Francesco – un altro papa
inviso ai cortigiani – nella sua prima uscita nei giorni del
lockdown.
Del 1532, di un decennio dopo, è invece il “Capitolo primo della peste”, nel quale si loda scherzosamente, ma forse
neanche troppo scherzosamente, il tempo di pestilenza come
la migliore, senza confronti, di tutte le stagioni:
Prima, ella porta via tutti i furfanti:
gli strugge e vi fa buche e squarci drento,
come si fa dell’oche l’ognisanti.
E fa gran bene a cavarli di stento:
in chiesa non è più chi ti urti o pesti
in su ‘l più bel levar del sacramento.
Non si tien conto di chi accatti o presti:
accatta e fa’ pur debiti, se sai,
ché non è creditor che ti molesti;
se pur ne vien qualch’un, di’ che tu hai
doglia di testa e che ti senti al braccio:
colui va via senza voltarsi mai.
Se tu vai fuor, non hai chi ti dia impaccio;
anzi ti è dato luogo e fatto onore,
tanto più se vestito sei di straccio.
Sei di te stesso e de gli altri signore,
vedi fare alle genti i più strani atti,
ti pigli spasso dell’altrui timore.
Vìvesi allor con nuove leggi e patti,
tutti i piaceri onesti son concessi,
quasi è lecito a gli uomini esser matti.
Buoni arrosti si mangiano e buon lessi;
quella nostra gran madre vacca antica
si manda via con taglie e bandi espressi.
Sopra tutto si fugge la fatica,
ond’io son schiavo alla peste in catena,
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ché l’una e l’altra è mia mortal nemica.
Vita scelta si fa, chiara e serena:
il tempo si dispensa allegramente
tutto fra il desinare e fra la cena.
S’hai qualche vecchio ricco tuo parente,
puoi disegnar di rimanergli erede,
pur che gli muoia in casa un solamente.
Ma questo par che sia contra la fede,
però sia detto per un verbigrazia,
ché non si dica poi: “Costui non crede”.
Di far pazzie la natura si sazia,
perché in quel tempo si serran le scuole,
che a’ putti esser non può maggior disgrazia.
Fa ogniun finalmente ciò ch’e’ vuole:
dell’alma libertà quell’è stagione,
ch’esser sì cara a tutto ‘l mondo suole.
È salvo allor l’avere e le persone:
non dubitar, se ti cascassin gli occhi,
trova ogniun le sue cose ove le pone.
La peste par ch’altrui la mente tocchi,
e la rivolti a Dio: vedi le mura
di san Bastian dipinte e di san Rocchi.
Essendo adunque ogni cosa sicura,
questo è quel secol d’oro e quel celeste
stato innocente primo di natura.
Or se queste ragioni son manifeste,
se le tocchi con man, se le ti vanno,
conchiudi e di’ che ‘l tempo della peste
è ‘l più bel tempo che sia in tutto l’anno.
Francesco Berni, Rime, LI, “Capitolo primo della Peste”
Fingi di ridere per dire cose che altrimenti non potresti
dire. Ridi per denunciare. Ridi per protestare. Ridi per non
piangere. O ridi che ti passa, il ricorso all’umorismo come
rimedio. Magari anche come rimedio medico. In tempi di
epidemia, quando le cose si mettono male, non resta altro da
fare che raccontarsi delle storie. Quando le cose vanno anche peggio, non resta altro che ridere. È uno sfogo naturale:
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si rideva anche nei campi di concentramento nazisti. Comici
ebrei continuavano a fare il loro mestiere, raccontavano barzellette, facevano sketch anche sui treni per Auschwitz.
Quella del giullare è una professione molto seria. Purché l’umorismo non diventi pura idiozia (gli esempi attuali il lettore
non faticherà a trovarli), non copra cinismo o arroganza di
chi si sente immune, intoccabile, o non diventi, peggio ancora, tirarsi la iella (“Andrà tutto bene” sarà carino disegnato
dai bambini, tira su il morale, può avere un senso contro il
panico, ma non porta necessariamente bene).
Tutte storie d’amore? No, di contagio.
Il contagio è onnipresente in Shakespeare, così come in
Virginia Woolf. Ma anche in quasi tutto quello che è stato
scritto prima e dopo di loro. Quand’ero giovane, e passavo
da un amore infelice a un altro, mi capitò di divorare il saggio di Denis De Rougemont L’Amore e l’Occidente, in cui si
sostiene che tutta la letteratura europea, a cominciare dal romanzo di Tristano e Isotta, ruota attorno al tema dell’amore
triste, che finisce male, dell’amore e della morte. De Rougemont scriveva negli anni trenta. Non poteva non cogliere che
anche “la Nazione e la Guerra sono legate come l’Amore e la
Morte”. Tutta la letteratura parla quindi di guerra, e di amore?
Oggi emenderei e aggiungerei un altro elemento, altrettanto fondamentale: tutta la narrazione sinora conosciuta
parla di malattie, epidemie, contagi.
L’intera letteratura occidentale, nientemeno, inizia con
una pandemia. Già i primi versi dell’Iliade di Omero raccontano di un’epidemia micidiale che falcidia le fila dei Greci
che assediano Troia. Un dio, Apollo, ascolta le preghiere di
un suo sacerdote a cui il prepotente Agamennone ha sottratto la figlia per farne la propria concubina. Apollo, l’arciere,
scende invisibile, “come la notte”. “Si postò dunque lontano
dalle navi, lanciò una freccia, / e fu pauroso il ronzio dell’arco d’argento. / I muli colpiva in principio e i cani veloci, / ma
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poi mirando sugli uomini la freccia acuta, / lanciava: e di
continuo ardevano le pire, fitte” (Iliade, libro I, 48-52).
Virginia Woolf, nell’esordio del suo saggio Sulla malattia,
trova strano che la letteratura parli così poco delle malattie, e
in particolare della malattia più seria e più diffusa del suo
tempo, l’influenza detta “Spagnola”.
“Considerato quanto sia comune la malattia […] quali
lande deserte dell’anima esponga un piccolo attacco di influenza, quali precipizi e prati, sparsi di vividi fiori, riveli un
minimo aumento della temperatura, quali antiche resistenti
querce siano sradicate in noi dall’atto della nausea, come
precipitiamo nel pozzo della morte e sentiamo le acque della
dissoluzione chiudersi sopra le nostre teste e ci svegliamo
pensando di trovarci alla presenza degli angeli e degli arpisti
quando ci tolgono un dente e torniamo alla superficie nella
poltrona del dentista e confondiamo il suo ‘Sciacqui la bocca, sciacqui la bocca’ con il saluto della divinità che, chinandosi, ci dà il benvenuto in paradiso – quando pensiamo a
tutto questo, come spesso siamo costretti a fare, appare davvero strano che la malattia non figuri insieme all’amore, alle
battaglie e alla gelosia tra i temi principali della letteratura.
Verrebbe da pensare che romanzi interi siano stati dedicati
all’influenza; poemi epici alla febbre tifoidea; odi alla polmonite; liriche al mal di denti. Ma no; salvo poche eccezioni ––
De Quincey tentò qualcosa del genere nelle sue Confessioni
di un oppiomane, un paio di volumi sull’infermità devono
essere sparsi nelle pagine di Proust – la letteratura fa del suo
meglio perché il proprio campo di indagine rimanga la mente […]. Alle grandi guerre che il corpo, servito dalla mente,
muove, nella solitudine della camera da letto. Contro gli assalti della febbre o l’avvicinarsi della malinconia, nessuno
bada.”
Ma come sarebbe a dire “poche eccezioni”? No, romanzi
interi sono stati dedicati all’argomento. Quasi tutto quello
che è stato scritto trasuda di malattie, contagi, pesti, influenze. La grande letteratura della prima metà del Novecento
quasi non parla d’altro. Anche quando a prima vista non ne
fa neppure menzione, tratta di tutt’altro. Virginia Woolf era
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una fanatica di Proust, quanto di Shakespeare. Difficile le
sfuggisse che la Recherche tracima di infermità. Non sono sicuro che sapesse quanto la Recherche di Marcel Proust deve
alla memoria di suo padre, il dottor Adrien Proust, esimio
epidemiologo, autore di La défense de l’Europe contre le
choléra e La défense de l’Europe contre la peste. Il dottor
Proust era stato, a fine Ottocento, uno dei maggiori teorici
della necessità di misure sanitarie severe delle quarantene,
del distanziamento sociale.
Čechov e la riapertura delle scuole
echov faceva di mestiere il medico. “La medicina è la
mia consorte legittima, la letteratura è la mia amante,” diceva. Aveva iniziato con un’inchiesta sulle condizioni sanitarie
dei detenuti nell’isola di Sakhalin, al largo della Siberia. Ma
la sua dissertazione non era piaciuta alle autorità. La facoltà
di medicina di Mosca gliela bocciò perché troppo sociologica. Passò a fare il medico in un villaggio un’ottantina di chilometri a sud della capitale. Tra le sue opere giovanili c’è un
racconto del 1885 (tradotto solo di recente anche in italiano
dalle edizioni Barta, con una prefazione di Andrea Camilleri) nel quale si immaginano una serie di inghippi burocratici
micidiali che si abbattono sulla scuola, minacciata dall’epidemia. Roba forte, da incrociare le dita, da toccarsi, insomma da scaramanzia obbligatoria di questi tempi.
I responsabili scolastici lo segnalano alle autorità sanitarie. Passa un mese prima che la direzione sanitaria scriva al
commissario di polizia chiedendo la chiusura della scuola
“fino a quando non sarà debellata l’epidemia”. Passa un altro mese prima che il commissario si dia una mossa. Ma lo fa
limitandosi a rilanciare la palla al direttore della scuola. Gli
chiede di mandare a casa gli scolari “per prevenire e fermare
il diffondersi del contagio”. Passa un altro mese ancora e il
direttore sanitario dichiara che l’epidemia è finita e la scuola
può essere riaperta. In realtà non era mai stata chiusa. Comunque il direttore fa sapere che lui è troppo impegnato per
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potersi occupare di questo tipo di “elucubrazioni burocratiche”. Parte un carteggio di accuse reciproche e recriminazioni fra polizie e direzione sanitaria. Si fa strada l’insinuazione
che in fondo sia tutta colpa del maestro che ha segnalato l’epidemia, sarebbe stato meglio non parlarne per evitare fastidi. A quattro mesi dalla segnalazione dei primi casi l’ispettore scolastico ordina finalmente la chiusura della scuola “onde
evitare l’ulteriore diffondersi dell’epidemia”. Intanto i bambini continuano ad attaccarsi la malattia e a morire. Solo dopo ventotto scambi di messaggi tra i burocrati il dossier si
conclude con un ritaglio di giornale: “Ma non parliamo più
di questa impennata di mortalità infantile, e passiamo a cose
più allegre e piacevoli” dice l’articolo. Basta storie di bambini che si ammalano a scuola, si passa alla cronaca delle nozze
della figlia di un industriale della carta con un ricco borghese. “Che gioia essere il proprietario di una cartiera!”, l’esclamazione con la quale echov conclude il racconto. Dio mio,
fai che non succeda così, non si palleggino le responsabilità
sulla riapertura delle scuole, il commento di chi legge oggi,
quasi un secolo e mezzo dopo.
I drammi di echov sono pieni di medici ed epidemie,
oltre che di burocrati. Lo Zio Vanja inizia col medico Astrov
che racconta di un’epidemia di tifo in un villaggio: “Nelle
isbe la gente giaceva ammucchiata, uno sopra l’altro…,…,
una sporcizia, una puzza, un fumo… i vitelli, per terra insieme ai malati… c’erano anche dei porcellini… Ho lavorato su
e giù, tutto il giorno, senza sedermi un momento, senza prendere un boccone o un goccio d’acqua e, appena tornato a
casa, non mi hanno portato su un cantoniere. L’ho steso sul
tavolo per operarlo, e quello mi muore sotto il cloroformio[…]”. La tubercolosi, che lui definiva “influenza”. Se la
tenne per vent’anni. Il giardino dei ciliegi lo scrisse in sanatorio a Yalta. Nel dicembre 1903 si recò, contro il parere dei
suoi medici curanti, a Mosca per assistere alla prima. Morì il
17 gennaio 1904, il giorno del suo quarantaquattresimo compleanno.
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Mezza Europa con i polmoni deboli
Anche Kafka era un malato cronico e morì di tubercolosi. Così come di tubercolosi morì Katherine Mansfield e, un
secolo prima, era morto John Keats. Era una delle malattie
contagiose dell’Ottocento, continuò a essere una delle malattie più temute del Novecento, fino a quando si inventarono gli antibiotici. Mi vengono in mente i racconti di mio
padre, che negli anni trenta si era ammalato di tubercolosi
intestinale. Non morì di tubercolosi. Al contrario, la tubercolosi gli salvò la vita: doveva operarsi, non poté seguire il
fratello agente di Stalin, che voleva portarlo in Russia a studiare come si fa la rivoluzione. Sono sicuro che, fosse andato, sarebbe finito nel Gulag. Il mal sottile, la consunzione,
era comunque incomparabilmente più “nobile” del colera,
o del tifo. Faceva paura ma non schifo. In Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino sbocciano storie d’amore tra i ricoverati alla Rocca di Palermo, “in quell’estate del quarantasei” dove il protagonista giunge “da molto lontano, con un
lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo, dopo
essermi trascinata dietro, di stazione in stazione, con le dita
aggranchite sul ferro della maniglia, una cassetta militare,
minuscola bara d’abete per i miei vent’anni dai garretti recisi”.
Corteggia Marta, un’altra paziente in libera uscita come
lui. Lei tossicchia, continua ad avere “una qualche febbre”.
“Sì, l’analisi mi rassicura, dicono che fanno uscire solo i puliti. Eppure io sento, io so, che ogni mio fiato è un veleno, che
tutto quanto tocco o mi tocca s’infetta”, lo mette in guardia
lei, mentre sono seduti a un tavolo di trattoria. Anzi rincara:
“A volte mi viene un’idea: di usare di proposito un tale onnipotente potere d’incubazione e di semina; mi vedo entrare in
una casa; e sia una casa felice; mi vedo sputare con diligenza
ai quattro canti di ciascuna stanza, su una federa, su un biberon…”. E lui, come se niente fosse, le propone di andare a
letto: “Sai come si dice, nel mio dialetto, dare il contagio?
Ammiscari si dice. Cioè mescolare, mescolarsi con uno […]
la confusione su un letto di due corpi amici”. Hanno girova37
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gato per ore per la città. Lei sceglie su una bancarella e gli
regala “due volumi che le parvero facessero al caso nostro”:
“uno sciolto e bisunto, di un Mattia Naldi, che parlava della
peste e dei modi di guardarsene nell’anno Domini milleseicento e rotti; l’altro, che conservo e ho qui davanti, di un
anonimo dell’Ottocento neonato: Guida per la Real Casa dei
Matti di Palermo […]”.
Di tisi sono malate alcune delle più amate eroine dell’Ottocento, a cominciare da La Dame aux camélias di Alexandre
Dumas figlio (la traviata di Verdi). Ne La Montagna incantata, scritta prima della Grande guerra, Thomas Mann ambientò in una sanatorio sulle Alpi il male oscuro e la fine di
quell’epoca. L’Europa si stava suicidando, come fa
Aschenbach in Morte a Venezia. A Vienna l’influenza spagnola veniva chiamata Lungenpest, peste dei polmoni. Kafka
era convinto che metà dell’Europa avesse i polmoni deboli.
Lo scrisse in una lettera a Milena.
Le malattie del Continente, quelle vere, ma anche quelle che non si vedono, si è magari tentati di considerarle di
secondo piano. O di sminuirle chiamandole psichiatriche,
psicosomatiche, magari solo immaginarie. Qualcuno non ci
sta. Avverte che c’è qualcosa che non funziona. Lo urla con
i mezzi di cui dispone. Si torna ai racconti-mondo, quelli in
cui si affronta la totalità dell’esperienza umana, come in
Boccaccio, Rabelais, Shakespeare, Cervantes. È il momento delle grandi narrazioni che iniziano prima della guerra,
ma resteranno incompiute anche dopo la guerra: l’universo
di Kafka, incompleto al punto che chiese all’amico Max
Brod di bruciare i manoscritti dopo la sua morte (cosa che
fortunatamente Brod non fece) appunto, ma anche quello
dell’Uomo senza qualità di Musil, o il microcosmo di quel
geniale ipocondriaco che era Ettore Schmitz, alias Italo
Svevo, l’autore de La coscienza di Zeno. Hanno una cosa in
comune: parlano, anche se in modo obliquo, cifrato, anche
se a prima vista non sembra, delle malattie, dei contagi della loro epoca.
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L’influenza che somigliava alla peste
In un dispaccio da Madrid, datato 28 ottobre 1918, con
titolo su una sola colonna come si usava allora, il ““Times””
riferisce che un medico spagnolo ha isolato il microbo che
causa la nuova terribile influenza che sta devastando Europa
e America (e, ora lo sappiamo, ma allora i giornali se ne curavano meno, il resto del mondo). Non è nessuno dei bacilli
conosciuti, neanche il bacillo di Pfeiffer (haemophilus influentiae, individuato da Richard Pfeiffer, responsabile sanitario della Seconda armata del Kaiser, dopo che si era ammalata di polmonite un’intera compagna di artiglieri diretti al
fronte). Ma somiglia, anche se non è identico, a quello della
peste. Avrebbe la stessa colorazione. Molti altri giornali riprendono la notizia, rincarando: “C’è chi la chiama peste…
molti cadaveri diventano bluastro-neri”; “C’è chi dice che è
come la Peste di Londra”, e così via. In realtà non ha niente a
che fare con la peste bubbonica, quella, lo si era scoperto da
non molto, veniva da un batterio che poi verrà chiamato Yersinia Pestis. La nuova pandemia è prodotta da un virus. Colpiva non gli anziani come il Covid, ma i giovani nel pieno
delle forze, e anche donne e bambini.
Che sia stato isolato in Spagna è la ragione per cui la nuova pandemia verrà chiamata “Spagnola”. È il nome che ha
attecchito, l’aggettivo che accompagna la più generica e antica denominazione di influenza, flu in inglese, grippe in francese. Desueti Blitzkatarrh, o “PUO”, Pyrexia of Unknown
Origin, come era stata definita inizialmente. Nei paesi in
guerra non se ne parlava, era un segreto militare. La Spagna
era rimasta neutrale, per questo i medici spagnoli potevano
confidare le proprie ricerche ai giornali. Imperversava da
mesi, almeno dalla primavera del 1917, prima nei campi di
addestramento del corpo di spedizione Usa destinato all’Europa, poi nelle trincee, infine tra la popolazione civile. C’è
chi ritiene che fu la Spagnola a mettere fine alla guerra. I tedeschi, che avevano trasferito dall’Est al fronte occidentale
tutte le loro divisioni dopo aver firmato la pace con la Russia
ormai sovietica, non furono in grado di usarle: l’influenza le
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aveva messe fuori combattimento. Dovettero chiedere l’armistizio. Forse non sapevano che nelle stesse condizioni erano tre quarti degli effettivi francesi e metà di quelli britannici.
“Epidemia-sfinge, così sfinge che pare si irrida di noi e
delle nostre fissazioni di conoscere,” scrive nel 1919 il dottor
Ernesto Bertarelli, medico, epidemiologo, giornalista. Anche
perché all’inizio, come i governi fanno spesso, da che mondo
è mondo, non si voleva che si sapesse. C’erano i proclami, le
misure sanitarie, consigli e prescrizioni a non finire, una profusione di inserzioni pubblicitarie su farmaci, rimedi miracolosi, dispositivi di protezione personale e apparecchi per disinfettare i luoghi pubblici. Ma poco o nulla su con che cosa
si avesse a che fare. A cent’anni e rotti di distanza della Spagnola, su quella “strana malattia” ne sappiamo ancora poco.
Così come sappiamo tutto sommato poco della Morte
nera di mezzo millennio prima. E, malgrado gli strumenti
avanzati di cui disponiamo, continuiamo a sapere molto meno di quel che vorremmo sapere del Covid.
Il Novecento breve, quello che inizia con la Grande guerra, è un secolo malato come quelli che l’hanno preceduto.
Anche se, paradossalmente, è quello che registra più successi
contro le malattie. È segnato dalla Grande pandemia del
1917-19, come il 1300 e il 1600, e anche i secoli in mezzo,
erano stati segnati, dalla peste che faceva strage all’improvviso quando nessuno se l’aspettava, andava via altrettanto
all’improvviso e poi tornava, a bussare, a ripetizione, con la
stessa maschera o travestendosi in altro modo. Quella pandemia il secolo ce l’ha nel sangue, anche quando in apparenza non lo dà a vedere, sembra essersela lasciata alle spalle.
Non riesce a togliersela di testa, anche quando apparentemente pensa e scrive d’altro.
La pandemia non è solo sullo sfondo dei pensieri della
gentile Signora Dalloway. Straripa da ogni verso del The Waste Land di T.S. Eliot, anche se non viene mai evocata direttamente. Nel 1919, a guerra finita, William Butler Yeats, che
fino ad allora aveva scritto di fate, folletti e splendide poesie
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d’amore, scrive una profezia cupissima sul mondo che sta
andando a pezzi. The Second Coming, la seconda venuta è un
grido contro la guerra, il caos, ma anche contro la malattia.
Fu composto al capezzale della moglie incinta che stava per
morire d’influenza. Per molti autori è un’esperienza diretta,
personale, spesso tragica. Anche se per scriverne non è necessario, e certo non basta essersi ammalati di peste, di spagnola o di Covid. Eliot e sua moglie Vivien si erano infettati
probabilmente nel dicembre 1918, nella seconda ondata che
aveva spazzato l’Inghilterra. Sua zia era morta in dicembre,
suo padre nel gennaio 1919. In febbraio si era ammalata di
polmonite virale la loro cameriera, e Vivien, che la curava,
aveva avuto una ricaduta. Faulkner e Dos Passos, arruolatisi
volontari per andare a combattere in Europa, furono bloccati dall’influenza contratta nei campi di addestramento. Gustav Klimt morì il 6 febbraio 1918, all’età di cinquantasei anni, probabilmente per una complicanza dell’influenza. Il suo
pupillo Egon Schiele ne morì il 31 ottobre, che aveva solo
ventotto anni. Tre giorni prima di influenza era morta sua
moglie, incinta di sei mesi. Schiele stava lavorando a un dipinto, Famiglia, in cui si ritraeva assieme alla moglie e al nascituro. È rimasto incompiuto, viene considerato una rappresentazione profetica del morbo. C’è un autoritratto del
1919 in cui Edvard Munch si dipinge convalescente dalla
spagnola. C’è chi ritiene che il design della Bauhaus, i suoi
mobili minimalisti, siano stati concepiti per rispondere alle
esigenze di semplicità e facilità di disinfezione imposte dalla
Spagnola.
C’è un rapporto stretto tra orrori e trauma della Spagnola e orrori e trauma di quella che un papa senza peli sulla
lingua, Benedetto XV, già nel 1917 aveva chiamato l’“inutile
strage”. Agli inizi di novembre del 1918 Blaise Cendrars stava girando, da assistente regista di Abel Gance, la scena finale di J’accuse, quella in cui un’orrida folla di morti nelle trincee, zombie ante litteram, va a turbare il sonno dei
sopravvissuti. Gli capita di pranzare a Parigi con Guillaume
Apollinaire. “Parlammo dell’epidemia di spagnola che stava
facendo più morti della guerra. Avevo viaggiato in automobi41
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le attraverso mezza Francia, e avevo visto alla periferia di
Lione bruciare i cadaveri delle vittime dell’epidemia, dopo
averli cosparsi di benzina, perché in città mancavano le bare
[…].” E a questa immagine se ne associa immediatamente
un’altra, quella delle fabbriche che bruciano dopo un attacco aereo. Guerra e peste. Cendrars e Apollinaire avevano
fatto la guerra, entrambi erano stati feriti gravemente. Cendrars aveva perso un braccio. Apollinaire era stato ferito alla
testa. Pochi giorni dopo l’incontro a pranzo con Cendrars,
Apollinaire fu ricoverato con l’influenza e morì di polmonite
acuta. Il corteo funebre, racconta sempre Cendrars, incrociò
una folla in festa per l’armistizio, che cantava, danzava, si abbracciava, e probabilmente diffondeva il contagio.
Virginia Woolf ha però probabilmente ragione a ritenere
che la sua epoca non sembra fare molta attenzione a quel che
lei percepisce così nitidamente: al fatto che un attacco di influenza può “cambiare il mondo”.
Quando niente cambia si può avere, o spacciare, l’impressione che tutto sia cambiato. Quante volte abbiamo sentito dire che “niente sarà come prima”? Invece, quando davvero tutto cambia, capita di non accorgersene. A quella
generazione la Spagnola, l’influenza letale per antonomasia,
cinquanta, forse cento milioni di morti, gli era passata addosso come un camion. Si sono rialzati in stato di shock. Hanno
reagito quasi come non gli fosse successo niente, o almeno
niente di così grave rispetto a tutto il resto. Altri ci misero
anni a maturare l’accaduto. L’epidemia di influenza in Bianco cavallo, bianco cavaliere di Katherine Ann Porter è ambientata nel 1919, ma la novella fu pubblicata nel 1939. L’allora giovanissima reporter di un giornale di Denver, nel
Colorado, era quasi morta di influenza. Ci aveva messo
vent’anni a ripensare quello scontro col virus.
Dicono che uno dei sintomi del Covid sia la perdita del
senso del gusto e dell’olfatto. Se è così, le cose stanno molto
diversamente dai sintomi che ricordano i sopravvissuti alla
Spagnola. Ecco quel che Miranda, l’alter ego della Porter, ricorda (o le sembra di ricordare) al risveglio in ospedale:
“Tornava il dolore, un dolore terribile, insistente, che le cor42
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reva nelle vene, simile a un fuoco denso, e il fetore della corruzione le riempì le narici, l’odore dolciastro e nauseabondo
della carne in putrefazione, del pus; aprì gli occhi e vide un
debole chiarore attraverso un panno bianco e ruvido che le
copriva la faccia, e s’accorse che l’odore di morte era nel suo
corpo […]”
Molti l’hanno definita “l’influenza dimenticata”. La memoria è selettiva. Capita che i sopravvissuti abbiano voglia o
necessità di dimenticare. Ma sarà poi vero che i contemporanei quell’epidemia l’avevano presto dimenticata? O l’avevano piuttosto rimossa, interiorizzata? L’attenzione si concentrava su tutt’altro: sulla guerra, sul grande massacro nelle
trincee, su un’intera generazione decimata, sul rimpianto del
mondo perduto di ieri, sulle “migliaia di giovani morti perché le cose potessero continuare”, perché si perpetuasse il
mondo di ieri (questa la sintesi della Signora Dalloway sulla
Grande guerra, che vale intere biblioteche di storia). Per decenni si continuò a discutere sul se ci sarebbe stata un’altra
guerra come quella. Oppure se si poteva evitare, e a quale
prezzo. Pochi, quasi nessuno, si chiedevano se ci sarebbe stata un’altra epidemia. A scatenare passioni e fantasia erano
piuttosto la Rivoluzione in Russia, la lotta di classe e la lotta
politica in Occidente, la disoccupazione, la crisi. Più tardi
l’attenzione si spostò sulla reazione alla lotta di classe e al
bolscevismo, sul fascismo, sulla nomina a cancelliere di Hitler. Tutte cose che pure forse hanno qualcosa a che fare – lo
vedremo in un capitolo successivo – con quella Grande pandemia. Intanto però ci si avventurava piuttosto nei labirinti
della psiche, dell’intimo. Si passavano al vaglio del microscopio le ore e i giorni, le giungle del privato, le guerre intestine
dell’anima. Anche gli agenti patogeni a dire il vero, ma meno.
Le masse, la gente (e se è per quello anche la maggioranza degli intellettuali) non pensavano a quello, avevano ben
altro di cui preoccuparsi. Che tanto se uno si ammala di influenza, o di tifo, di tubercolosi, o di qualche altra diavoleria,
non c’è molto da fare. Inutile cercare e dare colpe, se passa
bene, altrimenti ciccia. Se uno si becca il raffreddore, la più
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diffusa malattia virale sulla faccia della terra, che ancora oggi
non ha vaccino né cura, se lo tiene e cerca di farselo passare.
Sempre lo stesso racconto?
Ce la raccontano, ce la siamo raccontata da sempre. Influenza, pesti, contagi ci accompagnano da tempi immemorabili. Ci raccontano epidemie che hanno vissuto sulla propria pelle, di cui sono stati testimoni diretti. Oppure
epidemie di cui hanno sentito dire, o di cui hanno letto. Ogni
pandemia è diversa dall’altra. Eppure hanno qualcosa in comune. I racconti si somigliano. E soprattutto somigliano in
modo impressionante alle cronache dei nostri giorni. A volte
si ha l’impressione che si tratti dello stesso racconto, che si
ripete continuamente. Succede nelle migliori famiglie, nei
romanzi come nelle fiabe. Nella grammatica della narrativa
di Algirdas Julien Greimas e nella morfologia delle fiabe di
Vladimir Jakovlevi Propp tutti i racconti così minuziosamente analizzati e catalogati sono in fondo variazioni dello
stesso racconto.
Leggi Boccaccio – uno dei più grandi e precisi narratori
della pandemia –– tra poco rileggeremo per intero il passo
saliente della Cornice del Decamerone – e scopri che la peste
che si abbatté su Firenze nel 1348 somiglia come una goccia
d’acqua, nei sintomi, nel terrore, nella morìa, nelle conseguenze devastanti sull’animo umano, sull’ordine sociale, sulla solidarietà verso il prossimo, e anche i propri cari, a quella
di Atene descritta da Tucidide. Somiglia, fin troppo, a tutte
le altre pesti, pandemie, di cui scrivono gli autori classici, anzi a tutte le pesti letterarie di ogni tempo, comprese quelle
che abbiamo letto sui giornali, le cronache dell’attualità.
Boccaccio conosce bene i suoi classici. Così come li conosce
Petrarca. Prendono ispirazione da Ovidio, forse da Livio, da
Lucrezio. Leggi Lucrezio, e scopri che nei versi sulla peste
riporta tali e quali passi di Tucidide. Tucidide, a sua volta,
forse ha preso dalle Epidemie di Ippocrate, certamente è in-
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fluenzato da come si parla di pestilenza nell’Edipo Re di Sofocle.
Boccaccio era presente alla peste di Firenze, e Tucidide si
era ammalato durante la peste di Atene. Manzoni invece la
peste la conosceva solo dalle letture. “Copia”, oltre che da
mille altre fonti d’archivio (tra i critici, il severissimo e pignolo Fausto Nicolini, l’amico di Benedetto Croce, scriverà tutto un libro, Peste e untori nei “Promessi sposi” e nella realtà
storica, per rimproverargli di averle spesso e volentieri travisate). Prende un’infinità di idee, compresa la scena che ci ha
fatto venire le lacrime sui banchi di scuola, della madre con
in braccio la figlioletta Cecilia morta di peste, dal De Pestilentia del cardinale Federigo Borromeo. Il quale cardinale, a
sua volta, pur essendo stato testimone diretto dell’epidemia
di Milano del 1630, copia intere pagine di Tucidide.
L’ultimo uomo di Mary Shelley è del 1826. Segue di poco
il suo Frankenstein. Immagina un unico sopravvissuto alla
pandemia che colpisce il mondo nell’anno 2092. Si tratta di
un morbo misterioso. Inizia da Costantinopoli, si diffonde
attraverso l’Asia, “dalle rive del Nilo alle sponde del Caspio,
dall’Ellesponto al mare di Oman”. All’inizio l’Inghilterra si
crede del tutto sicura. “Di mezzo, tra noi e la pestilenza c’erano Francia, Germania, Italia e Spagna, muri ancora senza
breccia.” Poi distrugge e spopola intere nazioni: “Le grandi
città dell’America, le fertili pianure dell’Hindustan, le popolose contrade della Cina”. Anche la superba civiltà industriale britannica si riduce a tribù primitive che si fanno la guerra
l’un l’altra. È del 1842, meno di un ventennio dopo, La maschera della morte rossa dell’americano Edgar Allan Poe.
Racconta di un’epidemia che sta devastando un regno medievale. Non è peste, è anche peggio. Un principe e la sua
corte si rifugiano in un castello inaccessibile isolato tra i
monti. Se ne fregano della peste che si accanisce sulla povera
gente. Si credono immuni. Festeggiano e folleggiano. Finché
ad uno splendido ballo in maschera si presenta un ospite
sconosciuto e terrificante: la Morte rossa in persona. Molti
hanno notato i debiti che Poe ha verso Shakespeare. Debiti
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peraltro riconosciuti dall’autore: il principe si chiama Prospero come il mago protagonista della Tempesta; e anche il
titolo del racconto di Poe viene da lì, dalla maledizione che
Calibano lancia sul suo padrone:
You taught me language, and my profit on’t
Is, I know how to curse. The red plague rid you
For learning me your language!
Mi hai insegnato il linguaggio, e il profitto che ne cavo / è
che ho imparato a maledire. Che ti prenda la Peste rossa…
(The Tempest, Act I, scene II, 137)
Negli anni trenta: già i negazionisti
La peste è il terreno privilegiato della metafora. Per Montaigne “la peste dell’uomo è la presunzione del sapere”. E
giù di seguito il carico da novanta: “Ecco perché l’ignoranza
ci viene tanto raccomandata dalla nostra religione come qualità propria alla fede e all’obbedienza”. Il suo era il secolo dei
processi e dei roghi delle streghe. Per Hitler la malattia che
contagiava – in senso figurato ma anche in senso letterale ––
la Germania e l’occidente erano gli ebrei, da eliminare come
i pidocchi e altri parassiti. Per contro, nelle ultime campagne
elettorali nella Repubblica di Weimar, tra 1932 e 1933, si poteva trovare, sui manifesti affissi per le strade, e anche nei
giornali, la messa in guardia contro Die Nazi-Pest, la peste
nazista. La peste bruna, è intitolato il diario di Daniel Guérin
sugli ultimi giorni della Germania di Weimar. La sua lezione
sul Teatro e la Peste, Antonin Artaud la pronunciò alla Sorbona il 6 aprile 1933. Hitler era al governo in Germania da
tre mesi. Karel apek è l’autore di La peste bianca, satira teatrale in tre atti su epidemie e dittatura, tanto profetica quanto la satira sulla dittatura dei robot in R.U.R. La scrisse nel
1937, proprio alla vigilia dell’invasione della sua Cecoslovacchia.
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Ecco una scena del primo atto, in un salotto per bene:
Il padre (che è in poltrona intento a leggere il suo giornale): Questa
dannata malattia! La smettessero una buona volta, come se non avessimo altro a cui pensare
[…]
Il padre: L’hanno gonfiata di brutto. Basta uno starnuto, ed ecco che
lo chiamano Peste bianca. Un caso o due e i giornali impazziscono
[…] Stupidaggini, storie per spaventare la gente! Dicono che viene
dalla Cina. Ma perché dovremmo tirar fuori soldi per aiutare questi
paesi arretrati? Fame e povertà, pestilenze e virus – sono terreni di
coltura delle malattie! […] Ma mettiamoli in riga una buona volta!
[…] Dice che è contagioso. Ebbene, spediamoli nei campi [di concentramento], così non ci possono più contaminare! Ed ecco risolto,
in quattro e quattr’otto! È una vergogna […].
Karel apek, La peste bianca
Non ci sarebbe Macondo in Cent’anni di solitudine di
Gabriel Garcia Marquez, se non fosse per un’epidemia molto particolare, molto ironica e molto metaforica, la “peste
dell’insonnia”, cui si rimedia con una quarantena che inverte
completamente i ruoli di sani e ammalati:
“Quando José Arcadio Buendía si accorse che la peste
aveva invaso il villaggio, riunì i capi famiglia per spiegar loro
quello che sapeva sulla malattia dell’insonnia, e fu deciso di
adottare delle misure per impedire che il flagello si propagasse ad altre popolazioni della palude. Fu così che si tolsero
ai capri le campanelle che gli arabi barattavano coi pappagalli, e furono messe all’entrata del villaggio a disposizione di
coloro che trascuravano i consigli e le suppliche delle sentinelle e insistevano nel voler visitare il villaggio. Ogni forestiero che in quell’epoca percorreva le strade di Macondo
doveva far suonare la sua campanella perché i malati sapessero che era sano. Non gli si permetteva né di mangiare né di
bere nulla durante il soggiorno, perché non c’era dubbio che
la malattia si trasmetteva soltanto per bocca, e tutte le cose
da bere e da mangiare erano contaminate di insonnia. In
quel modo si mantenne la peste circoscritta al perimetro
dell’abitato. La quarantena fu così efficace, che giunse il
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giorno in cui lo stato di emergenza venne considerato come
cosa naturale, e si organizzò la vita in modo tale che il lavoro
riacquistò il suo ritmo e nessuno si preoccupò più dell’inutile abitudine di dormire” (Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine).
Le epidemie non mancano nella letteratura sudamericana. Se non è peste, è cólera-morbo, febre amarela… E le malattie contagiose si intrecciano col destino, col fado, forse più
che ad altre latitudini. I morbi non potevano certo mancare
nei romanzi del maggiore scrittore e poeta brasiliano, Joaquim Maria Machado de Assis, povero, balbuziente, epilettico, figlio di un imbianchino mulatto discendente di schiavi e
di una lavandaia portoghese. Nelle Memorie postume di Brás
Cubas, del 1881, fa già la comparsa il personaggio di Quincas
Borba, il quale “diceva che, per quanto fosse orrendo lo
spettacolo, aveva un vantaggio di molto peso: la sopravvivenza del maggior numero”. E poi, nel successivo romanzo
al quale dà vent’anni dopo il titolo, lo stesso personaggio
continua a ponderare che “questo supposto è un beneficio,
non solo perché elimina gli organismi deboli, incapaci di resistere, ma anche perché consente l’osservazione scientifica,
la scoperta di farmaci curativi…”. E poi sentenzia che “l’igiene è figlia di marciumi secolari: la dobbiamo a milioni di
putrefatti e infetti…”. Una versione letteraria ottocentesca
delle teorie dell’“immunità di gregge”, più infetti più immuni, e peggio per chi ci resta secco? Il modello di Bolsonaro?
Tutto è metafora ne La peste di Albert Camus, uno dei
testi più belli, più letti e riletti, più citati in tema. Così come è
metafora il colera in Provenza nell’Ussaro sul tetto di Jean
Giono, pubblicato nel 1951. Camus non è testimone diretto
di una catastrofe medica, non c’è stata epidemia di peste a
Orano, in Algeria, nel 1940. Anche Camus, come tutti i grandi che hanno scritto di pandemie, ha fatto i suoi compiti a
casa sui classici: ha letto, annotato e usato Tucidide. La peste
di cui scrive, che si diffonde senza che ci sia modo di arrestarla, che non sparirà mai del tutto neanche quando sembra
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finita, e la gente scende nelle strade a festeggiare, è l’invasione nazista della Francia, i germi sono quelli del fascismo,
dell’intolleranza. Più tardi ci furono anche polemiche, qualcuno lo accusò di aver preso l’idea di ambientare la pandemia a Orano dal titolo di un romanzo di un autore italiano,
Raoul Maria De Angelis, La peste a Urana, uscito in prima
edizione nel luglio del 1943. La metafora politica era diffusissima. “Scrivo in un paese devastato dalla peste”, dice
Louis Aragon in Le Musée Grevin, pubblicato nel 1943, in
piena occupazione nazista con lo pseudonimo di François la
Colère. Anche Jean-Paul Sartre ebbe l’incarico da una casa
cinematografica di scrivere una sceneggiatura sulla peste. Ma
nel frattempo la guerra era finita e l’ambientò invece in una
Malesia immaginaria, trasformando la metafora contro il fascismo in metafora contro il colonialismo. Era intitolata
Typhus. Ruota non tanto sull’epidemia quanto su un traffico
di certificati di vaccinazione. La vaccinazione è obbligatoria,
ma si è diffusa la voce che sia nociva. Un medico senza scrupoli vende certificati ai ricchi che vogliono evitare l’iniezione. Il film non si fece mai.
1944, anziché il non definito 194- di Camus, è la data in
cui viene ambientato Nemesis di Philip Roth. Non tratta di
peste ma di polio. Anche questo libro di Roth, come gli altri
romanzi, è ricco di metafore, mi verrebbe da dire profezie,
sull’America di quegli anni e degli anni successivi.
L’Horror!, l’Horror!
C’è un intero genere letterario che a che fare in ultima
analisi con contagi ed epidemie: l’horror. Edgar Allan Poe ne
è il gran maestro. H.P. Lovecraft il sublime, un po’ antipatico, continuatore. Il terrore si percepisce, incombe, ma è invisibile, come lo sono virus e batteri. Jack London, ne La peste
scarlatta (1912), prende di peso da L’ultimo uomo di Mary
Shelley (1826) l’idea dell’apocalisse da pandemia raccontata
dal sopravvissuto riscagliato allo stato selvaggio. E prende
tutta la suspense dell’orrore, dell’impossibilità per i ricchi di
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sfuggire al contagio, da un altro racconto ottocentesco, La
maschera della morte rossa di Poe (1842). Il quale Poe, abbiamo già visto, aveva preso da Shakespeare. La Shelley aveva
ambientato la vicenda nel per lei lontanissimo 2092, London
la ambienta in un profetico 2012. Anno più, anno meno,
quasi azzecca il Covid. London è un populista, un pochino
razzista, immaginerà di sterminare, con bombe ai batteri,
tutti i cinesi. Eppure piaceva da impazzire al ribellismo di sinistra nel secolo scorso. La Shelley è invece, come il marito
poeta morto giovanissimo, una progressista. Veniva letta appassionatamente dalle figlie di Marx. E, ci scommetterei, anche dal vecchio Karl (in una lettera chiama i malanni che lo
stanno tormentando: “i miei Frankenstein”). Poe, da buon
americano, è un individualista, che coltiva recriminazioni e
terrori personali. C’è chi ha osservato che forse l’idea della
morte rossa che si infila al ballo in maschera dei potenti, che
si illudono di avere scampato la peste isolandosi dai poveracci, ha a che fare con un astio personale, nei confronti del ricco patrigno, il quale aveva tagliato Poe fuori dall’eredità, lasciandolo in ristrettezze, proprio mentre la moglie stava
morendo di tisi.
I secoli della peste avevano inventato e bruciato le streghe. L’Ottocento e il Novecento creano mostri di fantasia,
che gli procurano un brivido di piacere. Inventano il romanzo finto-medievale, il genere gothic, i vampiri, i fantasmi, le
sedute spiritiche. I fantasmi non sono più solo allucinazioni
da febbre, quelli che, stando al racconto di Tucidide, i cittadini appestati di Atene incontravano all’angolo di casa o per
la strada.
Non nascono più solo con l’epidemia. Diventano frequentazione quotidiana. Infestano ogni castello o rovina,
ogni cavea o sotterraneo. Divorano impercettibilmente,
dall’interno, distruggono e si autodistruggono come La Casa
degli Usher, che anticipa la senescenza e la “peste” delle infrastrutture ai giorni nostri, l’erosione, la ruggine, la mancanza di manutenzione che fa crollare i ponti e dissesta le
strade. Non hanno più consistenza materiale, sono solo spiriti, non più spiriti che si mostrano, come il fantasma del pa50
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dre di Amleto, o l’ombra di Banquo. Sono invece entità terribili ma del tutto invisibili, come i germi di cui la scienza ha
cominciato ad accorgersi. Ci penserà il cinema, nel Novecento, a dargli un volto. Lo vedremo più avanti.
Il terrore è l’ignoto. Ciò che sta in agguato nel buio. Se
non è peste è la lebbra. Come ne Il Marchio della bestia di
Rudyard Kipling, giusto a cavallo tra 1800 e 1900. Un militare ubriaco fradicio in India entra in un tempio dedicato al
Dio Scimmia. Oltraggia l’idolo di Hanuman. Esce dal buio
una figura bianca, sembra un lebbroso, si limita ad abbracciarlo, gli poggia la testa sul petto. Il mattino dopo scopre di
avere un segno, un marchio dove quello l’ha toccato. Suda,
ha strani brividi, gli amici cominciano a preoccuparsi quando comincia a mangiare come un animale, strappa a morsi la
carne sanguinolenta dall’osso, si rotola per terra e ulula. Il
medico diagnostica idrofobia. Ma non c’entra. S’è beccato
per contagio una malattia sconosciuta. Una zoonosi, da bestia a bestia… Anche nell’Ombra su Innsmouth di Lovecraft,
che è del 1931, il terrore è qualcosa che non si vede, uno
strano contagio che ha degenerato gli abitanti; ha a che fare
con un’oscura trasgressione razziale, anzi un salto di specie…
L’horror si intreccia alla scienza, alla medicina, al fantastico, al poliziesco, all’ipnosi, al mesmerismo alle sedute spiritiche. Poe è anche l’inventore del romanzo giallo, con Il
delitto della Rue Morgue. Lo Sherlock Holmes di Conan
Doyle ha a che fare con cattivi che maneggiano veleni. C’è un
filo rosso che collega orrore, contagi, scienza e fantasia, da Il
ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1891), all’ Isola del
dottor Moreau di H.G.Wells (1896), al Dracula di Bram
Stoker (1897).
Robert Louis Stevenson dedica un suo racconto ai
“Trafugatori di salme” (The Body Snatcher) che riforniscono
clandestinamente il teatro anatomico dell’Università di
Edimburgo. A parte L’isola del tesoro, il più noto dei suoi
racconti è forse Lo strano caso del Dr. Jekyll e del signor Hyde, del 1886 in cui si mischiano horror, giallo e farmacologia.
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Il soave, raffinato dottor Jekyll ha inventato una droga potentissima (una polverina conservata in bustine) che tira fuori la bestia che è in lui (che forse è in tutti noi).
“Poi tutto d’un tratto proruppe in una furia incontenibile […] perse il lume degli occhi e con un colpo terribile lo
fece stramazzare a terra. Si mise subito a calpestarlo come un
gorilla inferocito, scaricandogli addosso una tale tempesta di
colpi che si udiva lo scricchiolio delle ossa fracassate, mentre
il corpo sobbalzava sul selciato […]”
Sembra la cronaca recentissima dell’aggressione a un ragazzino che si era intromesso per fermare un pestaggio. Ho
letto da qualche parte che il padre dei fratelli ultrapalestrati
accusati del bestiale omicidio avrebbe ridimensionato: “Era
solo uno di colore…”.
Dracula ha letto Manzoni?
Molto ricco di suggestioni, e anche molto divertente è il
saggio, del 2008, di un allievo di Umberto Eco, Renato Giovannoli, intitolato Il vampiro innominato, sottotitolo “Il ‘Caso Manzoni-Dracula’ e altri casi di vampirismo letterario”
(Edizioni Medusa). Documenta, a tratti scherzosamente, a
tratti sul serio, le molteplici “contaminazioni” tra I promessi
sposi (1827, edizione definitiva 1840-42) e il Dracula di Bram
Stoker (1897). Da non perdere, oltre ai puntuali confronti
testuali, le illustrazioni molto “gothic”, commissionate, con
precise indicazioni, da Manzoni in persona al pittore e scenografo piemontese Francesco Gonin per l’edizione definitiva. Il delizioso, avvincente, documentatissimo gioco comparativo, con le sue sorprese a ogni pagina, continua e si
estende, in un altro capitolo-dossier, al “Caso Manzoni-Poe”,
a un “Caso Dracula-Joyce”, a un “Caso Dracula-Kafka”,
persino a un “caso Dracula-Peter Pan”. Se vi va di leggere un
solo libro sui contagi letterari a proposito di peste, vampiri,
zombi, untori e altre “horrorerie”, leggetevi questo, sarei
tentato di suggerire.
Non c’è grande scrittore che non “copi” da qualcun al52
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tro. Non c’è il minimo intento denigratorio nell’uso che faccio di questo termine. Tutta la letteratura, tutto lo scibile
umano procede dall’elaborazione, dallo sviluppo di qualcos’altro, da una mutazione delle analogie, infinita come sono infinite le mutazioni in ogni organismo vivente, e dei virus, che ne sono un’infinitesima componente. Anche i virus
copiano, all’infinito: copiano se stessi, e, tanto per non annoiarsi, introducono mutazioni, fanno errori di trascrizione.
Lo fanno utilizzando strutture e materiale altrui, da soli non
sarebbero in grado. Gli errori di trascrizione sono la malattia. O talvolta ne sono l’antidoto. I libri – anche, oserei dire
soprattutto, i grandi libri – si contagiano l’un l’altro. Non è
banale plagio. È un contagio estremamente produttivo. Ciascuno aggiunge qualcos’altro. Il risultato è qualcosa di nuovo, spesso più ricco e profondo dell’originale; anche se talvolta ha il difetto di riprodurre errori, credenze superate o
smentite, banalità. Pure le idee sono contagiose. A proposito, la pandemia ha fatto fiorire sul web consigli su come si
disinfettano i libri: pare che il metodo più consigliato sia ripassarli con uno straccio imbevuto di alcol, amuchina o altro
disinfettante. Anche questa non è un’idea del tutto originale.
Nel Settecento, in un’epoca in cui le quarantene erano diventate norma, e, come accade ancora oggi, venivano viste
come la peste dai commercianti, i capitani delle navi che
giungevano in porto dovevano fare una sorta di autocertificazione: giuravano di aver adeguatamente disinfettato le
merci trasportate e di non avere avuto malati a bordo. Giuravano su Bibbie che erano state immerse in acqua di mare. In
alternativa, per rendere a prova di virus i libri, si potrebbe
“bombardarli” con raggi ultravioletti. Oppure metterli in un
forno a bassa temperatura, 160 Fahrenheit, che sarebbero 71
gradi centigradi. È la temperatura a cui muoiono anche acari
e cimici. “I libri no, non li rovina!” rassicurano. Ma non mi
va di provare, perché mi fa venire in mente quelli che i libri li
bruciavano, e ancora vorrebbero bruciarli.
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2.
Un racconto tira l’altro
firenze 1348
“Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza,
oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le
nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione
mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti
orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro
continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata.
E in quella non valendo alcuno senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a
ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazione della
sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte
e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno
predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in
miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente
aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era
manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel co54
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minciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella
anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune
crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e
alcune più e alcun’ altre meno, le quali i volgari nominavan
gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve
spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità
a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e
per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a
molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il
gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo
indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui
venieno.
A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto:
anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza
de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così
di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo)
non conoscesse da che si movesse e per consequente debito
argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra ‘l terzo giorno dalla apparizione
de’ sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza
alcuna febbre o altro accidente, morivano.
E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa
dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche
o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora
ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma
ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare.
Maravigliosa cosa è da udire quello che io debbo dire: il
che, se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto,
appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna udito l’avessi. Dico che di tanta effica55
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cia fu la qualità della pestilenzia narrata, nello appiccarsi da
uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo,
che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa
dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da
un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente
della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo
spazio uccidesse.
Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte un dì così fatta esperienza: che, essendo gli
stracci d’un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo
alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra.
Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o
maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli
che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e
così faccendo, si credeva ciascuno medesimo salute acquistare.
E erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così
fatto accidente resistere; e fatta brigata, da ogni altro separati
viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e
ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori di
morte o d’infermi alcuna novella sentire, con suoni e con
quegli piaceri che aver poteano si dimorano.
Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando attorno e sollazzando e il
sodisfare d’ogni cosa all’appetito che si potesse e di ciò che
avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto
male; e così come il dicevano mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra
andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più
ciò per l’altrui case faccendo, solamente che cose vi sentisse56
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ro che lor venissero a grado o in piacere E ciò potevan far di
leggiere, per ciò che ciascun, quasi non più viver dovesse,
aveva, sì come sé , le sue cose messe in abbandono; di che le
più delle case erano divenute comuni, e così l’usava lo straniere, pure che ad esse s’avvenisse, come l’avrebbe il proprio
signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl’infermi fuggivano a lor potere.
E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e esecutori di quelle, li
quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o
sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare;
per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era
d’adoperare.
Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una
mezzana via, non strignendosi nelle vivande quanto i primi
né nel bere e nell’altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano e
senza rinchiudersi andavano a torno, portando nelle mani
chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie,
quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa
che l’aere tutto paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente.
Alcuni erano di più crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere
contro alle pestilenze migliore né così buona come il fuggir
loro davanti; e da questo argomento mossi, non curando
d’alcuna cosa se non di sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propia città, le propie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado, quasi l’ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con
quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente
a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor città si
trovassero, commossa intendesse; o quasi avvisando niuna
persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser
venuta.
E come che questi così variamente oppinanti non moris57
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sero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone
di ciascuna molti e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando
sani erano, essemplo dato a coloro che sani rimanevano,
quasi abbandonati per tutto languieno.
E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e
quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme
rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata né petti degli uomini
e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il
nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le
madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire
schifavano.
Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro
sussidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o l’avarizia de’ serventi, li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti servieno, quantunque per tutto ciò molti non
fossero divenuti: e quelli cotanti erano uomini o femine di
grosso ingegno, e i più di tali servigi non usati, li qual niuna
altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl’infermi
addomandate o di riguardare quando morieno; e, servendo
in tal servigio, sé molte volte col guadagno perdeano.
E da questo essere abbandonati gli infermi da’ vicini, da’
parenti e dagli amici e avere scarsità di serventi, discorse uno
uso quasi davanti mai non udito: che niuna, quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava
d’avere a’ suoi servigi uomo, egli si fosse o giovane o altro, e a
lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire non
altramenti che a una femina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse; il che, in quelle che ne
guerirono, fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette, cagione. E oltre a questo ne seguio la morte di molti
che per avventura, se stati fossero atati, campati sarieno; di
che, tra per lo difetto degli oportuni servigi, li quali gl’infermi aver non poteano, e per la forza della pistolenza, era tanta
nella città la moltitudine di quegli che di dì e di notte morieno, che uno stupore era a udir dire, non che a riguardarlo.
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Per che, quasi di necessità, cose contrarie a’ primi costumi
de’ cittadini nacquero tra coloro li quali rimanean vivi.
Era usanza (sì come ancora oggi veggiamo usare) che le
donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano e
quivi con quelle che più gli appartenevano piagnevano; e
d’altra parte dinanzi alla casa del morto co’ suoi prossimi si
ragunavano i suoi vicini e altri cittadini assai, e secondo la
qualità del morto vi veniva il chericato; ed egli sopra gli omeri sé suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta anzi la morte n’era portato. Le quali
cose, poi che a montar cominciò la ferocità della pistolenza
tutto o in maggior parte quasi cessarono e altre nuove in lor
luogo ne sopravennero. Per ciò che, non solamente senza
aver molte donne da torno morivan le genti, ma assai n’erano
di quegli che di questa vita senza testimonio trapassavano; e
pochissimi erano coloro a’ quali i pietosi pianti e l’amare lagrime de’ suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di
quelle s’usavano per li più risa e motti e festeggiar compagnevole; la quale usanza le donne, in gran parte postposta la
donnesca pietà, per la salute di loro avevano ottimamente
appresa. E erano radi coloro, i corpi de’ quali fosser più che
da un diece o dodici de’ suoi vicini alla chiesa acompagnato;
li quali non gli orrevoli e cari cittadini sopra gli omeri portavano, ma una maniera di beccamorti sopravenuti di minuta
gente (che chiamar si facevan becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva), sotto entravano alla bara; e quella con
frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la
morte disposto ma alla più vicina le più volte il portavano,
dietro a quattro o a sei cherici con poco lume e tal fiata senza
alcuno; li quali con l’aiuto de’ detti becchini, senza faticarsi
in troppo lungo oficio o solenne, in qualunque sepoltura disoccupata trovavano più tosto il mettevano.
Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana,
era il raguardamento di molto maggior miseria pieno; per ciò
che essi, il più o da speranza o da povertà ritenuti nelle lor
case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano; e non essendo né serviti né atati d’alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione, tutti morivano. E assai n’erano
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che nella strada publica o di dì o di notte finivano, e molti,
ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de lor corpi
corrotti che altramenti facevano a’ vicini sentire sé esser
morti; e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto
pieno.
Era il più da’ vicini una medesima maniera servata, mossi
non meno da tema che la corruzione de’ morti non gli offendesse, che da carità la quale avessero a’ trapassati. Essi, e per
sé medesimi e con l’aiuto d’alcuni portatori, quando aver ne
potevano, traevano delle lor case li corpi de’ già passati, e
quegli davanti alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n’avrebbe potuti veder senza numero chi fosse attorno andato: e quindi fatte venir bare, e tali furono, che, per
difetto di quelle, sopra alcuna tavola ne ponieno.
Né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente, né avvenne pure una volta, ma se ne sarieno assai
potute annoverare di quelle che la moglie e ‘l marito, di due
o tre fratelli, o il padre e il figliuolo, o così fattamente ne contenieno. E infinite volte avvenne che, andando due preti con
una croce per alcuno, si misero tre o quatro bare, da’ portatori portate, di dietro a quella: e, dove un morto credevano
avere i preti a sepellire, n’avevano sei o otto e tal fiata più. Né
erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia
onorati; anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe
di capre; per che assai manifestamente apparve che quello
che il naturale corso delle cose non avea potuto con piccoli e
radi danni a’ savi mostrare doversi con pazienza passare, la
grandezza de’ mali eziandio i semplici far di ciò scorti e non
curanti.
Alla gran moltitudine de’ corpi mostrata, che a ogni chiesa ogni dì e quasi ogn’ora concorreva portata, non bastando
la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo dare a
ciascun luogo proprio secondo l’antico costume, si facevano
per gli cimiterii delle chiese, poi che ogni parte era piena,
fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravegnenti: e in quelle stivati, come si mettono le mercatantie
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nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno infino
a tanto che la fossa al sommo si pervenia.
E acciò che dietro a ogni particularità le nostre passate
miserie per la città avvenute più ricercando non vada, dico
che, così inimico tempo correndo per quella, non per ciò
meno d’ alcuna cosa risparmiò il circustante contado. Nel
quale, (lasciando star le castella, che simili erano nella loro
piccolezza alla città) per le sparte ville e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica
di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e
per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come
uomini ma quasi come bestie morieno. Per la qual cosa essi,
così nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi, di
niuna lor cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel
giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d’aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e
delle loro passate fatiche, ma di consumare quegli che si
trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per che
adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli
e i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li campi (dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte ma pur segate)
come meglio piaceva loro se n’andavano. E molti, quasi come razionali, poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte
alle lor case senza alcuno correggimento di pastore si tornavano satolli.
Che più si può dire (lasciando stare il contado e alla città
ritornando) se non che tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e
forse in parte quella degli uomini, che infra ‘l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità
e per l’esser molti infermi mal serviti o abbandonati né lor
bisogni per la paura ch’aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di
Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l’accidente
mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti?”
Boccaccio, Decameron, Prima giornata.
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atene, 430 avanti cristo
“I medici nulla potevano, per fronteggiare questo morbo
ignoto, che per loro era nuovo. Ne morivano anzi più di frequente, poiché più facilmente erano esposti ai contatti con i
malati. Ogni altra scienza o arte umana non poteva lottare
contro il contagio. Le suppliche rivolte agli altari, il ricorso
agli oracoli e ad altri simili rimedi riuscirono completamente
inefficaci: alla fine si rinunciò a ogni tentativo, e ci si arrese al
male.
A quanto si dice, la peste comparve per la prima volta in
Etiopia, al di là dell’Egitto, calò poi nell’Egitto e in Libia e si
diffuse in quasi tutti i domini del re [di Persia]. Su Atene si
abbatté all’improvviso, attaccando per primi gli abitanti del
Pireo. Cosicché si mormorava che fosse colpa dei Peloponnesi [gli Spartani e i loro alleati], i quali avrebbero avvelenato le cisterne d’acqua piovana, ché lì [al Pireo] erano ancora
sprovvisti d’acqua di fonte. Ma il contagio non tardò poi a
dilagare nella città alta, e il numero dei decessi ad ampliarsi,
con una progressione sempre più irrefrenabile. Dunque intorno a questa malattia ognuno, dotto o meno nell’arte medica, dica pure quel che sa, da dove pesa che essa sia venuta, e
perché si sia scatenata con tanta virulenza. Da parte mia invece mi limiterò a esporre come si manifestava, da quali sintomi era preannunciata, di modo che se un giorno di nuovo
si manifestasse di nuovo, tutti possano sapere di che cosa si
tratta, e possano riconoscerla.
Quell’anno, a giudizio di tutti, era trascorso completamente immune da altre forme di malattia. E se qualcuno aveva contratto in precedenza qualche altro morbo, questo degenerava senza eccezione nella presente infermità. Gli altri,
fino a quel momento sani, senza motivo apparente, all’improvviso, erano dapprima assaliti da forti vampate di calore
al capo. Gli occhi si arrossavano e si gonfiavano. Gli organi
interni come la laringe e la lingua prendevano subito a buttare sangue. Il respiro esalava irregolare, e fetido. Sopraggiungevano altri sintomi, dopo i primi: starnuti e raucedine. In
breve il male calava nel petto, con violenti attacchi di tosse.
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Penetrava e si fissava poi nello stomaco: onde nausee frequenti, accompagnate da tutte quelle forme di evacuazione
della bile che i medici hanno catalogato con i loro nomi. In
questa fase le sofferenze erano molto acute. In più casi, l’infermo era squassato da urti di vomito, a vuoto, che gli procuravano all’interno spasimi tremendi: per alcuni, ciò avveniva
subito dopo che si erano diradati i sintomi precedenti, mentre altri dovevano attendere lungo tempo.
Al tocco esterno il corpo non rivelava una temperatura
elevata fuori dell’ordinario, né un eccessivo pallore: ma si
presentava rossastro, livido, coperto da una fioritura di pustolette e di minuscole ulcerazioni. Dentro, il malato bruciava di tale arsura da non tollerare neppure il contatto di vesti
o tessuti per quanto leggeri, o di veli: solo nudo poteva resistere. Il loro più grande sollievo era di poter gettarsi nell’acqua fredda. E non pochi vi riuscirono, eludendo la sorveglianza dei loro familiari e lanciandosi nei pozzi, in preda a
una sete insaziabile. Ma il bere misurato o abbondante produceva il medesimo effetto. Senza pause li tormentava l’insonnia e l’impossibilità assoluta di riposare. Le energie fisiche non si andavano spegnendo, nel periodo in cui la
virulenza del male toccava l’acme, ma rivelavano di poter resistere in modo inaspettato e incredibile ai patimenti: sicché
in molti casi la morte sopraggiungeva al nono e al settimo
giorno, per effetto dell’interna arsura, mentre il malato era
ancora discretamente in forze. Se invece superava la fase critica, il male s’estendeva aggredendo gli intestini, al cui interno si produceva una ulcerazione disastrosa accompagnata da
una violenta diarrea: ne conseguiva una spossatezza, un
esaurimento molte volte mortali. La malattia, circoscritta
dapprima in alto, alla testa, si ampliava in seguito percorrendo tutto il corpo, e se si usciva vivi dagli stadi più acuti, il suo
marchio restava, a denunciarne il passaggio, almeno alle
estremità. Ne rimanevano intaccati i genitali, e le punte dei
piedi e delle mani: molti, sopravvivendo al male, perdevano
la facoltà di usare questi organi, alcuni restavano privi anche
degli occhi. Vi fu anche chi riacquistata appena la salute, fu
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colto da un oblio così profondo e completo da non conservare nemmeno la coscienza di se stesso e da ignorare i suoi cari.
Il carattere di questo morbo trascende ogni possibilità
descrittiva: non solo i suoi attacchi si rivelavano sempre più
maligni di quanto le difese a disposizione della natura umana
potessero tollerare, ma anche nel particolare seguente risultò
che si trattava di un fenomeno morboso profondamente diverso dagli altri consueti: tutti gli uccelli e i quadrupedi che
si cibano di cadaveri umani (molti giacevano allo scoperto)
questa volta non si accostavano, ovvero morivano, dopo
averne mangiato. Se ne ha una prova sicura poiché questa
specie di volatili scomparve del tutto e non era più possibile
notarli intenti al loro pasto macabro, né altrove. Ma indizi
ancora più visibili della situazione erano offerti dal comportamento dei cani, per il loro costume di passar la vita tra gli
uomini.
È questo il generale e complessivo quadro della malattia,
sebbene sia stato costretto a tralasciare molti fenomeni e caratteri peculiari per cui ogni caso, anche se di poco, tendeva
sempre a distinguersi dall’altro.
Nessun’altra infermità di tipo comune insorse nel periodo in cui infuriava il contagio, e gli eventuali sintomi di quelle confluivano [in quelli della pandemia]. I decessi si dovevano in parte alle cure assai precarie, ma anche un’assistenza
assidua e precisa si rivelava inefficace. Non si riuscì a determinare, si può dire, neppure una sola linea terapeutica la cui
applicazione risultasse universalmente positiva. (Un farmaco
salutare in un caso, era nocivo in un altro). Nessuna complessione, di debole o vigorosa tempra, mostrò mai di possedere in sé energie bastanti a contrastare il morbo, che rapiva
indifferentemente chiunque, anche quelli circondati dalle
precauzioni più scrupolose.
Nel complesso di dolorosi particolari che caratterizzavano questo flagello, uno s’imponeva, tristissimo: lo sgomento,
da cui ci si lasciava cogliere, quando si faceva strada la certezza di aver contratto il contagio (la disperazione prostrava
rapida lo spirito, sicché ci si esponeva molto più inermi
all’attacco del morbo, con un cedimento immediato); inoltre
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la circostanza che, nel desiderio di scambiarsi cure e aiuti, i
rapporti reciproci s’intensificavano, e la gente moriva, come
le pecore. Era questa la causa della enorme mortalità.
Chi per paura rifiutava ogni contatto, periva solo. Famiglie al completo furono distrutte per mancanza di chi fosse
disposto a curarle. Chi invece coltivava amicizie e relazioni,
perdeva egualmente la vita: quelli in particolare che tenevano a far mostra di nobiltà di spirito. Mossi da rispetto umano, si recavano in visita dagli amici, disprezzando il pericolo,
quando perfino gli intimi trascuravano la pratica del lamento
funebre sui propri congiunti, abbattuti e vinti sotto la sferza
della calamità. Una compassione più viva, su un morto o verso un malato, dimostravano quelli che ne erano scampati vivi: conoscevano di persona l’intensità del soffrire e si facevano forti d’un sentimento di sicurezza.
Il male non aggrediva mai due volte: o, almeno l’eventuale ricaduta non era letale. Erano giudicati felici dagli altri e
nella eccitata commozione di un momento si abbandonavano alla speranza, illusoria e incerta, che anche in futuro nessuna malattia si sarebbe più impossessata di loro, strappandoli a questo mondo.
L’imperversare dell’epidemia era reso più insopportabile
dal continuo afflusso di villici alla città: la prova più dolorosa
colpiva gli sfollati. Poiché non disponevano di abitazioni
adatte e vivevano in baracche soffocanti per quella stagione
dell’anno: il contagio mieteva vittime con furia disordinata. I
cadaveri giacevano a mucchi e tra essi, alla rinfusa, alcuni ancora in agonia. Per le strade si voltolavano strisciando uomini già prossimi a morire, disperatamente tesi alle fontane,
pazzi di sete. I santuari che avevano offerto una sistemazione
provvisoria, erano colmi di morti: individui che erano spirati
lì dentro, uno dopo l’altro. La violenza selvaggia del morbo
aveva come spezzato i freni morali degli uomini che, preda
di un destino ignoto, non si attenevano più alle leggi divine e
alle norme di pietà umana. Le pie usanze che fino a quell’epoca avevano regolato le esequie funebri caddero travolte in
abbandono. Ciascuno seppelliva come poteva. Molti si ridussero a funerali indecorosi per la scarsità di arredi neces65
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sari, causata dal grande numero di morti che avevano già
avuto in famiglia: deponevano il cadavere del proprio congiunto su pire preparate per altri e vi appiccicavano la fiamma prima che i proprietari vi facessero ritorno, mentre altri
gettavano sul rogo già acceso per un altro il proprio morto,
allontanandosi subito dopo.
Anche in campi diversi, l’epidemia travolse in più punti
gli argini della legalità fino allora vigente nella vita cittadina.
Si scatenarono dilagando impulsi prima lungamente repressi, alla vista di mutamenti di fortuna inaspettati e fulminei:
decessi improvvisi di persone facoltose, gente povera da
sempre che ora, in un batter di ciglia, si ritrovava ricca di
inattese eredità. Considerando ormai la vita e il denaro come
valori di passaggio, bramavano godimenti e piaceri che s’esaurissero in fretta, in soddisfazioni rapide e concrete. Nessuno si sentiva trasportare dallo zelo di impegnare con anticipo energie in qualche impresa ritenuta degna, nel dubbio
che la morte giungesse a folgorarlo, a mezzo del cammino.
L’immediato piacere e qualsiasi espediente atto a procurarlo
costituivano gli unici beni considerati onesti e utili. Nessun
freno di pietà divina o di umana regola: rispetto e sacrilegio
non si distinguevano, da parte di chi assisteva al quotidiano
spettacolo di una morte che colpiva senza distinzione, ciecamente. Inoltre, nessuno concepiva il serio timore di arrivar
vivo a rendere conto alla giustizia dei propri crimini. Avvertivano sospesa sul loro capo una condanna ben più pesante: e
prima che s’abbattesse, era umano cercare di goder qualche
po’ della vita.
Tale flagello aveva prostrato Atene, imponendovi il suo
giogo. Dentro le mura cadevano le vittime del contagio; fuori, le campagne subivano la devastazione nemica. Venne naturalmente alla luce, mentre il morbo incrudeliva, la memoria di quell’oracolo che, a detta dei più anziani, risaliva a
tempi molto antichi: “Verrà la guerra Dorica e pestilenza con
essa”. Si discusse se gli antichi avessero veramente pronunciato nel testo di quell’oracolo l’espressione “pestilenza”
[loimos] e non piuttosto “carestia” [limos]. Prevalse, come
ci si può ragionevolmente aspettare, considerate le circostan66
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ze, l’interpretazione secondo cui nel testo suddetto compariva la parola pestilenza, in quanto la gente configurava il suo
ricordo alle presenti sofferenze. Ma io sono convinto che se i
Dori, successiva a questa, scatenassero un’altra guerra ed
esplodesse una carestia prevarrebbe allora l’altra interpretazione, come è del resto naturale. Inoltre, quanti ne erano al
corrente, rammentarono l’altro oracolo riguardante gli Spartani, quello espresso dal dio in occasione della loro richiesta
se dovessero dichiarare la guerra, con la risposta che la vittoria avrebbe arriso a loro, se s’impegnavano a fondo nei combattimenti, e con la promessa di un aiuto particolare del dio.
Si congetturava che gli eventi coincidevano con le parole
dell’oracolo: l’invasione dei Peloponnesi aveva segnato l’esplosione immediata dell’epidemia, che non era invece penetrata nel Peloponneso, almeno non con conseguenze degne
di menzione. Invase soprattutto Atene e, in un processo di
tempo, anche le fasce più popolose delle altre regioni. Questo è quanto concerne l’epidemia.”
Tucidide, Storie, Libro II, 45-55
La versione di Lucrezio
“Ora dirò quale causa provochi le malattie, donde scoppi, all’improvviso, la pestilenza che fa strage degli uomini e
delle Mandrie e dei Greggi punto a capo vi sono nei corpi,
Anzitutto, come ho già detto, vi sono molti germi (semina
rerum) per noi vitali, e ne debbono volare altri che portano le
malattie e danno la morte
….
ed ecco che tosto un nuovo flagello pestilenziale, o cade
nelle acque, o si insinua dentro le messi e altro cibo degli uomini e delle bestie, o anche resta sospeso nell’aria
…..
Un morbo e flusso mortifero di questo tipo un tempo
colpì Atene, ne funestò i campi, ne desolò le strade, svuotò la
città di abitanti […] ne morivano a caterve [...]
…
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Dapprima la testa gli bruciava forte, e ambedue gli occhi
ardevano rossi. La bocca annerita trasudava sangue, non riuscivano più a emettere voce, tanto la gola era chiusa dalle
piaghe; la lingua che fa da interprete all’anima, indebolita
dal male, pesante a muoversi, ruvida al tatto, colava sangue.
La virulenza del morbo, invaso e riempito il petto, scendeva
sin dentro il cuore oppresso. Allora si dissolveva quel che
tiene allacciata la vita, il fiato che usciva dalla bocca mandava
un atroce fetore, quello di putrefazione di cui puzzano le salme insepolte […] a questi mali intollerabili si accompagnava
costantemente un’inquietudine angosciosa, e lamento frammisto a pianto. I singhiozzi frequenti, continui, di notte di
giorno, facevano tendere senza tregua nervi e membra, scioglievano ogni forza residua […]. Al tatto la pelle non ardeva
in superficie di un calore eccessivo, anzi dava alla mano la
sensazione di essere solo tiepida. Ma tutto il corpo era già
rosso di chiazze come fossero ustioni […] e internamente
bruciava fino alle ossa, dentro lo stomaco ardeva una fiamma
come dentro una fornace. Non sopportavano di coprirsi con
nulla, per quanto leggero e sottile […] solo vento fresco e
acqua gelata davano un qualche sollievo […] e alcuni si precipitarono nei pozzi, con spalancata la bocca […] all’arsura
della sete non gli faceva differenza una pioggia torrenziale o
poche gocce d’acqua. Non dava pausa il male: i corpi giacevano esausti […]. Balbettava la medicina zittita dal timore
[…]. Molti erano i sintomi che presagivano la morte: l’animo
sconvolto tra frizione paura, un’espressione di mestizia, il viso agitato e duro, le orecchie disturbate piene di rumori, un
respiro frequente e affannoso, Oh rumoroso ma lento ma diradato, grosse gocce lucide di sudore che colavano per il collo, sputi piccoli e radi, macchiati di colore giallognolo, amari, espulsi a fatica attraverso la gola da una tosse secca. Non
smettevano di contrarsi i nervi delle mani, di tremare gli arti,
e il freddo saliva gradualmente dai piedi in su. Di solito rendevano l’anima all’ottavo giorno e se alcuni, come accadeva,
la scampavano al momento, la morte li ghermiva in seguito
tra orride piaghe e neri flussi di ventre, con dolori al capo ed
espulsione di sangue corrotto dal naso.
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A chi sopravviveva all’emorragia il morbo entrava dentro
nervi e arti, fin nelle parti genitali […] alcuni venivano amputati coi ferri delle parti virili; alcuni pur rimanevano in vita
senza più mani, alcuni senza più piedi, alcuni perdevano gli
occhi […] vi furono di quelli che persero del tutto la memoria al punto che non riuscivano neanche a riconoscere se
stessi [...]
Neanche un istante cessava di passare dall’uno all’altro il
famelico contagio […] come tra pecore lanose e mandrie
cornute […] e questo moltiplicava morte su morte […].”
Lucrezio, De Rerum Natura, Libro VI, 1090-1286
La Peste Mitica di ovidio
“Una peste tremenda, causata dall’ira dell’ingiusta Giunone,
s’abbatté su questa terra, che ha nome dall’odiata rivale.
Finché parve un male naturale e non si capiva
la causa di tanta sciagura, si combatté con la medicina.
Ma ogni soccorso era vano e falliva
All’inizio il cielo gravò la terra con spessa caligine,
strinse nella sua morsa di nubi una calura opprimente,
e il tempo che la luna impiegò a colmare quattro volte
il suo disco riunendo le corna, e, restringendosi,
a disfarlo, un caldo austro spirò coi suoi soffi letali.
Si apprende che il male s’è esteso alle sorgenti, ai laghi,
molte migliaia di serpenti han preso a vagare per i campi
incolti contaminando i fiumi coi loro veleni.
Una strage di cani, da principio, e di uccelli, pecore, buoi,
e di fiere fece capire la forza del morbo.
L’aratore meschino vede abbattersi al lavoro
tori in perfetta salute e giacere tra i solchi.
Ai greggi lanosi, che mi mandano strazianti belati,
la lana cade da sola e il corpo si piaga.
Il cavallo un tempo focoso e di gran fama negli stadi
non riesce più a vincere e, dimentico dell’antica gloria
negli stazzi geme in attesa di una morte ingloriosa.
Il cinghiale non sa più infuriarsi, la cerva affidarsi
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alla fuga, gli orsi attaccare capi di bestiame robusti.
Tutto è in preda all’inerzia: nei boschi, nei campi
nelle strade corpi corrotti giacciono, l’aria contaminata.
Dirò una cosa stupefacente: non li toccarono i cani, non
gli uccelli rapaci, non i lupi grigi: si disfano, si sciolgono
con, con i miasmi diffondono vasto contagio.
Passa la peste a colpire con danno maggiore i miseri
contadini e imperversa nelle mura della grande città.
Prima si infiammano i visceri, il rossore è sintomo
di fiamma nascosta e un respiro affannoso e stentato.
La lingua, ruvida, si gonfia, la bocca essiccata
s’apre ai venti afosi, s’inspira aria pesante.
Non si sopporta né letto né alcun tipo di stoffa, nudi
si giace proni sulla terra, e il corpo non gela contatto del
suolo,
Non c’è chi mitighi il male, la strage crudele si abbatte
sui medici stessi, nuoce l’arte ai suoi stessi autori.
Quanto più uno è vicino e più fedelmente cura il malato,
più presto conosce la morte. e quando ogni speranza
di salvezza se n’è andata e l’esito del male è solo la morte,
ci si abbandona all’istinto, non si pensa più a ciò che
potrebbe giovare: nulla infatti potrebbe. In disordine,
senza ritegno, ci si attacca fonti a fiumi a pozzi capaci.
Ma la sete bevendo non si estingue prima della vita.
Così appesantiti, molti non riescono a risollevarsi e
muoiono nell’acqua: Ma qualcuno beve anche da quella!
E tanto è insopportabile per quei miseri l’odioso letto,
che saltano giù, o, se non hanno forza d’alzarsi,
rotolano a terra e fuggono via dei Penati.
La propria casa appare funesta a ciascuno.
E, non sapendo la vera causa, si incolpa il piccolo spazio.
Mezzi morti li avresti veduti errare per le vie, finché
Stavano in piedi, altri piangere distesi a terra
Strabuzzando gli occhi stanchi in un ultimo moto.
E tendere le braccia agli astri del cielo incombente,
e spirare: quiqui, lì, dove la morte li coglie.
…
I corpi dei morti non ricevono i funerali consueti:
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sto
le porte della città non contengono tante processioni;
o giacciono a terra insepolti, o sono posti sui roghi
senza doni. E non c’è più rispetto per nulla:
ci si accapiglia per i roghi, si crema col fuoco altrui
Manca chi pianga, le ombre dei piccolini e dei padri,
dei giovani e dei vecchi vagano incompiante, non c’è poper seppellire, non basta la legna per i roghi.”
Ovidio, Metamorfosi, Libro VII 523-613
La Peste di giustiniano, anno doMini 542
“Quell’anno scoppiò una pestilenza da cui poco mancò
che andasse distrutto l’intero genere umano. Di solito, a tutti
i flagelli mandati dal cielo gli uomini cercano di dare delle
spiegazioni, con molta presunzione: tali sono le varie ipotesi
che con vani sproloqui amano avanzare coloro che si dicono
esperti in materia, su fenomeni assolutamente incomprensibili per l’uomo, inventando strane teorie scientifiche, sebbene sappiano benissimo di dire cose senza alcun senso; però si
considerano paghi se riescono a convincere chi capita loro a
tiro, sbalordendolo con gran discorsi. Ma per questa pestilenza non c’è alcuna possibilità di esprimere a parole o anche
solo di immaginare col pensiero una qualche spiegazione: resta unicamente da attribuire al volere di Dio.
Essa non si abbatté soltanto su di una parte del mondo o
solo su di un gruppo di uomini, né fu circoscritta a una determinata stagione dell’anno, di modo che sarebbe stato forse possibile fare congetture sulle sue cause; dilagò invece per
tutto quanto l’universo e stroncò la vita di tanti uomini anche lontanissimi e diversissimi fra di loro, senza far distinzione né di età né di sesso. Infatti, sia che differissero per il luogo in cui abitavano e per consuetudine di vita, per
caratteristiche fisiche, per attività di lavoro, o qualunque altra cosa in base alla quale gli uomini si diversificano tra di
loro, Questo contagio non fece nessuna distinzione. Alcuni li
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colpì d’estate, altri di inverno, altri ancora nelle altre stagioni
dell’anno.
[…] mi limito a riferire dove la pestilenza incominciò a
manifestarsi e in che modo fece strage fra gli uomini.
Scoppiò innanzitutto in Egitto, tra gli abitanti della città
di Pelusio [all’estremità orientale del Nilo] e di lì si propagò
in due direzioni: l’una verso Alessandria e il resto dell’Egitto,
l’altra verso le regioni della Palestina confinanti con l’Egitto;
poi si sparse per tutta la terra, avanzando sempre, nei momenti a essa più favorevoli. Sembrava che si muovesse secondo una regola fissa, sostando in ciascun paese per un determinato periodo di tempo e colpendo tutti col suo contagio, e
non alla leggera, per poi trasferirsi in un’altra zona, fino agli
estremi confini della terra, come se temesse che qualche angolo del mondo le potesse sfuggire. Difatti non lasciò indenni né una sola isola né una spelonca in cima a un monte, ove
si trovassero esseri viventi; e se per caso saltava qualche villaggio senza attaccare gli uomini che vi abitavano o sfiorandoli appena, tornava poi sui suoi passi, ma senza più toccare
i vicini che aveva già decimato in precedenza, accanendosi
invece o finché non avesse pareggiato il numero dei morti
che nei villaggi limitrofi aveva fatto la prima volta.
Il contagio cominciava sempre dalle regioni costiere, per
poi diffondersi nell’entroterra. Nel secondo anno, a metà
primavera, arrivò pure a Bisanzio, dove io allora mi trovavo.
Molti cittadini cominciarono coll’avere apparizioni di
fantasmi, simili nell’aspetto a persone; e quando si imbattevano in essi, avevano l’impressione di venire colpiti, in qualche parte del corpo. Subito dopo l’apparizione, venivano
colti dalla pestilenza. Da principio chi vedeva i fantasmi cercava di cacciarli facendo scongiuri, ma senza risultato. Tant’è
vero che molti morirono persino nelle chiese in cui avevano
cercato rifugio. [Chi vedeva queste apparizioni] rifiutava
persino di ricevere gli amici che venivano a fargli visita, e si
chiudeva nella propria stanza, fingendo di non sentire se
qualcuno bussava alla porta […].
Ma alla maggior parte succedeva di essere colti dalla pestilenza senza preavviso […]. Erano assaliti all’improvviso
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dalla febbre […] il loro corpo non cambiava colore, né diveniva caldo, come avviene a chi ha la febbre, e neppure appariva alcuna infiammazione, anzi per tutta la giornata la febbre era così debole che né ai malati stessi né al medico che gli
tastava il polso pareva preannunciare pericolo. Nessuno
pensava di morire per quello. Ma alcuni il giorno stesso, altri
il giorno dopo, altri ancora qualche giorno dopo, vedevano
formarsi un bubbone in quella parte del corpo che è chiamata inguine, oppure sotto le ascelle, e, in qualche caso, anche
sul collo, o in un punto qualsiasi delle cosce.
A questo stadio della malattia più o meno i sintomi erano
uguali per chiunque ne fosse colpito; ma da quel momento
in poi cominciavano manifestazioni differenti, non so dire se
per la diversità delle costituzioni fisiche o perché così era la
volontà di Colui che aveva mandato l’epidemia. Alcuni cadevano in un coma profondo, erano presi da un violento delirio
[…] quelli in coma, indifferenti a tutto, sembrava dormissero in continuazione. Se c’era qualcuno che si prendeva cura
di loro, di tanto in tanto assaggiavano un po’ di cibo, Ma se
erano abbandonati a se stessi, per mancanza di nutrimento
in breve tempo morivano. Invece quelli che erano presi dal
delirio soffrivano di frequenti allucinazioni, e immaginando
che qualcuno venisse a ucciderli erano scossi da una terribile
agitazione, per cui si precipitavano in fuga, gridando disperatamente. Così coloro che li assistevano stavano in continua
apprensione […] tanto che tutti avevano compassione di loro non meno che dei malati, e non perché avrebbero potuto
contrarre la pestilenza avvicinandosi ai loro assistiti: Infatti
non accadde che alcun medico o alcuna persona venissero
contagiati dalla peste per aver toccato un malato o un morto,
Tant’è vero che molti i quali erano sempre occupati a curare
e a seppellire anche estranei, contrariamente a quanto si potrebbe supporre, continuarono nella loro attività, mentre
molti altri furono colpiti inesorabilmente dalla malattia e
morirono non in breve tempo […].
Era dura [per gli infermieri], quando i malati cadevano
dal letto e si rotolavano a terra, gli toccava risollevarli, e
quando tentavano di gettarsi giù dal tetto gli toccava affer73
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rarli e strapparli via a forza. Se per caso si trovavano vicino a
un corso d’acqua, volevano buttarsi dentro, non perché
avessero sete, si sarebbero buttati anche nel mare. La causa
era la loro alterazione mentale. Gli assistenti dovevano anche
faticare molto a fargli assumere del prendere cibo, ché non
gli andava di mangiare, tanto che molti, morirono o consunti
dalla fame o per essersi gettati giù dall’alto […].
Ora, alcuni medici, trovandosi in imbarazzo perché non
riconoscevano tutti questi sintomi, congetturarono che il focolaio della malattia consistesse nei bubboni, e perciò decisero di esaminare i cadaveri […] e, scoprirono che nel loro
interno si era formata una specie di carbonchio purulento
[…] in certi casi fiorivano su tutto il corpo delle pustole nerastre grosse come lenticchie […] altri erano colti all’improvviso da sbocchi di sangue, che li soffocavano.
[…] Medici assai rinomati diagnosticarono a molti che
sarebbero ben presto defunti, ed essi invece poco dopo si
sentirono inaspettatamente liberi da ogni male; ma a molti
altri assicurarono che si sarebbero salvati, e invece erano già
moribondi. Di questa malattia non c’era nessuna spiegazione
possibile per la scienza perché il decorso era sempre imprevedibile. Ad alcuni era di giovamento fare il bagno, altri erano stroncati dalla morte anche se si lavavano; molti morivano per mancanza di cure, altri invece inaspettatamente si
salvavano. Le cure avevano effetti differenti su ciascun singolo paziente. Si può dire, insomma, che nessuno sapeva come fare per salvarsi, sia che prendesse precauzioni onde evitare il contagio, sia che cercasse di superare la malattia una
volta che se l’era beccata. Si cadeva ammalati senza motivo e
si guariva per puro caso.”
Procopio di Cesarea, La guerra persiana, Libro II, 22
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Chiedo scusa al lettore per l’inusitata, spropositata lunghezza delle citazioni in esergo a questo capitolo. Ma ho preferito dare la parola per esteso agli autori citati, anziché riassumerli, farli a pezzi, anatomizzarli, servirli a bocconi. “Il
testo, il testo” ci insegnava, con la sua insistenza e l’accento
siciliano, Salvatore Guglielmino, uno degli straordinari maestri che ho avuto la fortuna di avere al liceo Carducci di Milano (l’altro era Renato Fabietti). È faticoso. Può darsi che a
qualcuno venga a noia. Ma credo ne valga la pena. Rende l’idea di quanto ognuna di queste narrazioni abbia a che fare
con ciascun’altra. Nella scelta ho privilegiato le Historiae, rispetto alle Fabulae. Con una eccezione però, Ovidio, il quale
racconta un mito, una favola per eccellenza, ma ha una posizione centrale rispetto a tutti gli altri, a quelli che hanno
scritto prima e a quelli che hanno scritto dopo di lui. È quello che più carica il racconto di “effetti speciali”. La sua narrazione in qualche modo riassume quella degli altri. Le quali
hanno tutte, per quanto siano precise, dettagliate, si riferiscano a una pandemia e a un momento storico determinato,
hanno tutte qualcosa di favolistico.
Quello di Boccaccio è il racconto più completo, e giustamente più famoso. È un vero e proprio “pezzo di bravura
descrittiva”, come ebbe a definirlo Vittore Branca. Lì c’è tutto, ma proprio tutto. Contiene tutti gli elementi del dramma
senza fine. Andrebbe letto e riletto, e ogni volta ci si trova
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qualcosa che prima ci era sfuggito. Provare per credere. C’è
la sorpresa per un male che colpisce a tradimento, che piomba all’improvviso, non si sa bene da dove. C’è l’impotenza
della scienza medica: “Né consiglio di medico né virtù di
medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto”. La
stessa impotenza di cui scriveva due millenni prima, con
quasi le stesse parole, Tucidide: “I medici nulla potevano,
per fronteggiare questo morbo ignoto, che tentavano di curare per la prima volta. Ne erano anzi le vittime più frequenti, poiché con maggiore facilità si trovavano esposti ai contatti con i malati”. E di cui poi scrisse Ovidio: “Si combatté con
la medicina. Ma ogni soccorso era vano e falliva”. C’è la rapidità con cui la pandemia colpisce. C’è l’orrore dei morti insepolti, tanto numerosi che è ormai impossibile tributargli i
consueti onori. C’è, onnipresente, la paura. C’è l’orrore dei
sintomi, descritti con precisione minuziosa, fin troppo minuziosa e troppi tutt’insieme per consentire un’anamnesi accurata. Infine c’è lo sfaldarsi della pietà umana, della convivenza sociale.
La peste del 1348 colpì l’immaginario dei contemporanei, quanto quello delle generazioni successive. Aveva spopolato mezza Europa, ucciso metà della popolazione, forse
addirittura due terzi. Diede vita a un vero e proprio genere
letterario, il racconto della peste. Un genere a sé, alla stregua del Giallo e del Noir a noi più vicini, e altrettanto popolare. Sono metà di mille i cronisti e i novellieri del Trecento che ne riferiscono. Talvolta con bizzarre differenze,
altre volte in termini quasi identici. Ma c’c’è anche un’infinità di cronache dai conventi, memoriali di archivi municipali, testamenti, e ovviamente trattati medici e manuali d’igiene e prevenzione. “Letteratura popolare”, l’ha definita
qualcuno. La Cronaca fiorentina del banchiere Baldassarre
Buonaiuti, in arte Marchionne di Coppo Stefani, aggiunge,
alle usuali descrizioni, immagini di particolare effetto, tipo
il bizzarro paragone culinario per le sepolture a strati nelle
fosse comuni, “a suolo, con poca terra, come si minestrasse
lasagne a fornire di formaggio”.”. È un uomo pratico Marchionne, attento ai conti, alla lista della spesa. Come secoli
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dopo lo sarà Defoe nel suo Diario della peste di Londra.
Nota che “li beccamorti, che facevano gli servigi, erono
prezzolati di sì gran prezzo, che molti n’arricchirono”, sebbene che poi di questi “molti ne morirono, chi ricco e chi
con poco guadagno, ma gran prezzo avieno”. E ancora: “Le
serviziali, o serviziali, che servieno li malati volieno da uno
in tre fiorini per dì […]. Le cose che mangiavano i malati,
confetti e zucchero, smisuratamente valevano […]. Li pollastri e altri pollami carissimi […]. La cera era miracolo
[…]. Lo vestire di stamigna [tela grossa], che si usava ne
morti, che soleva costare a donna, gonnella, guarnacca e
mantello e veli, fiorini tre, montò in pregio di fiorini trenta,
e sarebbe ito in fiorini cento, se non che si levò il vestire di
stamigna, e chi era ricco vestiva di panno, e chi non era ricco in lenzoletto lo cucìa […]. Di questa mortalità arricchirono speziali, medici, pollaiuoli, beccamorti, [e i venditori
di] trecche di malba, ortiche, marcorelle ed altre erbe da
impiastri per macerare”, contro i mali odori pestiferi.
La puzza
L’odore! L’odore! Prima ancora del “The horror! L’orrore!” con cui si chiude Cuore di tenebra di Conrad. In tutti gli
autori classici, con pochissime eccezioni, la peste si riconosce innanzitutto dall’odore. La puzza dei cadaveri abbandonati in decomposizione, l’odore acre del fumo delle pire, e,
prima ancora, l’odore di marciume, di sporcizia, che produce il miasma che si diffonde e contagia. Pestifero odore corporum in Livio. Non è solo un generico odore di marcio. È un
odore che non si dimentica: persistente, dolciastro. L’ho sentito aleggiare tra le macerie dei terremoti assassini, tra le rovine bucherellate da colpi di arma da fuoco nelle città dove
era passata la guerra, era ancora nell’aria a Bhopal dove la
fuga di gas dall’impianto della Union Carbide aveva ucciso
nel sonno decine di migliaia di persone. Nel volgarizzamento
di Boccaccio, che tradusse Livio, tabes vale “putrefazione,
corruzione” dei corpi, il puzzo insostenibile è prodotto dalla
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“sozzura”. Nel passo saliente del Decameron riprodotto per
esteso poco sopra, molti pensano di tener lontano la peste
tenendone lontano gli odori, anzi coprendoli. Se ne vanno in
giro “portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi
diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori
confortare, con ciò fosse cosa che l’aere tutto paresse dal
puzzo de’ morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente”. È una profumeria ambulante la maschera del Medico della Peste che da Venezia si sarebbe diffusa in tutta Europa. Nel lungo becco sono stipate erbe
odorose.
Nel corso dei secoli si sono fumigate, nettate, imbiancate
e profumate le case degli appestati o sospetti appestati. “Fu
allora che i profumieri cominciarono a purificare le case. Faticammo a lungo per farli arrivare (ché non appena il male si
manifesta bisogna per prima cosa bruciare e purificare). La
violenza e rapidità con cui agiva la peste li aveva intimiditi
[…]. Per poter entrare negli appartamenti con qualche sicurezza fecero prima bruciare nel mezzo delle stanze delle erbe
odorifere, per dissipare le esalazioni pestilenziali e i miasmi
diffusi. Qualche momento dopo fecero aprire porte e finestre. In seguito si gettavano dalle finestre gli effetti personali
degli ammalati, per bruciarli sul ciglio della strada. Spazzati
gli appartamenti, asportate con cura tutte le immondizie, si
chiudevano di nuovo porta e finestre, e ogni altra apertura,
per farvi il seguente profumo forte: “Noce di cipresso in polvere lb. 4, acquavite lb. 4, polvere di zolfo lb. 6, pece lb. 1,
resina lb.2, salpetro e antimonio, in tutto lb. 3.” Così la ricetta, in una dettagliata relazione manoscritta, conservata negli
archivi comunali di Martigues, nel Sud della Francia,
sull’“ultima peste” europea, quella del 1720. Segue la raccomandazione di lasciare poi finestre e bauli aperti per almeno
quattro giorni, e un’altra ricetta specifica, a base di alcool e
trementina, per purificare i capi di abbigliamento.
Pecunia comunque non olet. Tra i testimoni fiorentini che
aggiungono notizie ai trattamenti letterari della Peste fiorentina del 1348, ci sono i due fratelli Villani, Giovanni e Mat78
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teo, e il figlio di Matteo e nipote di Giovanni, Filippo. Sono
uomini d’affari, hanno senso pratico, sono legati alla compagnia dei banchieri Bonaccorsi. Hanno una visione che va ben
oltre la cinta delle mura cittadine, internazionale, globale si
direbbe oggi. Hanno fatto i loro compiti sui classici. Ma sono più interessati ad aggiornarli in base alle news. Le loro
cronache non hanno ambizione letteraria, quanto il raccontare degli intrichi e intrighi di politica interna e politica mondiale, delle guerre (e della loro possibile ricaduta sugli affari). La loro è una dinastia di cronisti. A cui si deve la cronaca
più dettagliata delle vicende di Firenze, e del resto del mondo allora conosciuto, nel 1300.
Le loro Croniche sono piene di pesti, epidemie, contagi,
come dire, “locali”, anche prima e dopo quella del 1348. Ma
quest’ultima è quella davvero universale, e ne rintracciano il
percorso, da molto prima che si manifestasse nella loro Firenze:
Cominciossi nelle parti d’Oriente, nel detto anno [1346, non 1348,
alla stessa modo che il Covid si chiama 19 e non 20, perché già si aggirava nel 2019], inverso il Cattai e l’India superiore e nelle altre provincie circustanti a quelle marine dell’Oceano, una pestilenzia tra gli
uomini d’ogni condizione di catuna età e sesso: che cominciavano a
sputare sangue e morivano chi di subito, chi in due o in tre dí, e alquanti sostenevano più al morire. E avveniva che chi era a servire
questi malati, appiccandosi quella malattia, o infetti, di quella medesima corruzione incontanente malavano, e morivano per somigliante
modo; e a’ più ingrossava l’anguinaia [l’inguine], e a molti sotto le
ditella [ascelle] delle braccia a destra e a sinistra, e altri in altre parti
del corpo, che quasi generalmente alcuna enfiatura singulare nel corpo infetto si dimostrava.
Questa pestilenzia si venne di tempo in tempo e di gente in gente
apprendendo: comprese infra’l termine d’uno anno la terza parte del
mondo che si chiama Asia. E nell’ultimo di questo tempo s’aggiunse
alle nazioni del Mare Maggiore [mar Nero] e alle ripe del Mare Tirreno, nella Soria e Turchia, e in verso l’Egitto e la riviera del Mar
Rosso, e dalla parte settentrionale la Russia e-lla Grecia, l’Erminia
[Armenia] e l’altre conseguenti province. E in quello tempo galee
d’Italiani si partirono del Mare Maggiore e della Soria e di Romania
per fuggire la morte e recare le loro mercatanzie inn-Italia: e’ non
poterono cansare [evitare] che gran parte di loro non morisse in mare di quella infermità. E arrivati in Cicilia conversaro co’ paesani e
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lasciàrvi di loro malati, onde incontanente si cominciò quella pestilenzia ne’ Ciciliani. E venendo le dette galee a Pisa e poi a Genova,
per la conversazione di quegli uomini cominciò la mortalità ne’ detti
luoghi, ma non generale. Poi conseguendo il tempo ordinato da-d
Dio a’ paesi, la Cicilia tutta fu involta in questa mortale pestilenzia. E
l’Africa nelle marine e nelle sue provincie di verso levante, e le rive
del nostro Mare Tirreno. E venendo di tempo in tempo verso il ponente, comprese la Sardigna e la Corsica e l’altre isole di questo mare; e dall’altra parte, ch’è detta Europa, per simigliante modo aggiunse alle parti vicine verso il ponente, volgendosi verso il
mezzogiorno con più aspro assalimento che sotto le parti settentrionali.
E negli anni di Cristo MCCCXLVIII [1348] ebbe infetta tutta Italia,
salvo che la città di Milano e certi [luoghi] circustanti all’Alpi che
dividono l’Italia dall’Alamagna, ove gravò poco. E in questo medesimo anno cominciò a passare le montagne e stendersi in Proenza e in
Savoia e nel Dalfinato e in Borgogna e per la marina di Marsilia e
d’Acquamorta [Marsiglia e Aigues-Mortes], e per la Catalogna e
nell’isola di Maiolica [Majorca]e in Ispagna e in Granata. E nel
MCCCXLVIIII [1349] ebbe compreso fino nel ponente, le rive del
Mare Oceano, d’Europa e d’Africa e d’Irlanda, e l’isola d’Inghilterra
e di Scozia, e l’altre isole di ponente e tutto infra terra [le regioni interne] con quasi eguale mortalità, salvo in Brabante ove poco offese.
E nel MCCCL [1350] premette gli Alamanni e li Ungheri, Frigia
[Frisia, cioè Paesi Bassi], Donnesmarche, Gotti [abitanti della Svezia meridionale] e Vandali e li altri popoli e nazioni settantrionali. E
la successione di questa pestilenzia durava nel paese ove s’apprendeva cinque mesi continovi, ovvero cinque lunari: e questo avemmo
per sperienza certa di molti paesi. Avvenne, perché parea che questa
pestifera infezione s’appiccasse per la veduta e per lo toccamento,
che, come l’uomo o la femmina o i fanciulli si conoscevano malati di
quella enfiatura, molti n’abandonavano: e inumerabile quantità ne
morirono che sarebbono campati se fossono stati aiutati delle cose
bisognevoli. Tra-lli ‘infedeli cominciò questa inumanità crudele,
che-lle madri e’ padri abbandonavano i figliuoli, e i figliuoli e i padri
e-lle madri i figliuoli, e l’uno fratello l’altro e gli altri congiunti: cosa
crudele e maravigliosa [spaventosa] e molto strana [aliena] dalla
umana natura, detestata tra’ fedeli cristiani, ne’ quali, seguendo le
nazioni barbere, questa crudeltà si trovò.
Cosmopoliti ma di parte, sfegatati, verrebbe da dire nazional-populisti, sovranisti questi Villani. Al punto da contrapporre l’“umanità” occidentale alla “disumanità” che viene dall’Oriente, e inventare che quel che di disumano nei
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comportamenti dei loro concittadini emerge nei giornidella
peste sia anch’essa un contagio di abitudini straniere. Mentre tutto quello che c’è di “umano”, l’assistenza agli ammalati, il prodigarsi per il prossimo, sarebbe una virtù locale.
Essendo cominciata nella nostra città di Firenze, fu biasimata da’ discreti la sperienza veduta di molti, i quali si provvidono e rinchiusono in luoghi solitari e di sana aria, forniti d’ogni buona cosa da vivere, ove non era sospetto di gente infetta; in diverse contrade il divino
giudicio (a -ccui non si può serrare le porti) gli abbatté come gli altri
che non s’erano provveduti. E molti altri, i quali si dispuosero alla
morte per servire i loro parenti e amici malati, camparono avendo
male, e assai non l’ebbono continovando quello servigio; per la qual
cosa ciascuno si ravvide, e cominciarono sanza sospetto ad aiutare e
servire l’uno l’altro: onde molti guarirono, ed erano più sicuri a servire li altri.”
……
Nella nostra città cominciò generale all’entrare del mese d’aprile gli
anni Domini MCCCXLVIII [1348], e durò fino al cominciamento
del mese di settembre del detto anno. E morì, tra nella città, contado
e distretto di Firenze, d’ogni sesso e di catuna età de’ cinque i tre e
più, compensando il minuto popolo e i mezzani e’ maggiori, perché
alquanto fu più menomato, perché cominciò prima ed ebbe meno
aiuto e più disagi e difetti. E nel generale per tutto il mondo mancò
la generazione umana per simigliante numero e modo, secondo le
novelle che avemmo di molti paesi strani e di molte provincie del
mondo. Ben furono provincie nel Levante dove vie più ne moriro.
L’Oriente non solo gestisce la pandemia in modo più
“disumano”. Ne è anche direttamente responsabile. Poco
manca che i Villani parlino di “virus cinese” o di “peste
islamica”:
Avemmo da mercatanti genovesi, uomini degni di fede, che aveano
avute novelle di què paesi, che alquanto tempo innanzi a questa pestilenzia, nelle parti dell’Asia superiore uscì della terra ovvero cadde
dal cielo un fuoco grandissimo, il quale stendendosi verso il ponente,
arse e consumò grandissimo [gran parte del] paese senza alcuno riparo. E alquanti dissono che del puzzo di questo fuoco si generò la
materia corruttibile della generale pestilenzia: ma questo non possiamo accertare. Appresso sapemmo da uno venerabile frate minore di
Firenze vescovo di … del Regno, uomo degno di fede, che s’era tro-
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vato in quelle parti dov’è la città di Lamech [la Mecca, in Arabia] ne’
tempi della mortalità, che tre dí e tre notti piovvono in quello paese
biscie con sangue che appuzzarono e corruppono tutte le contrade: e
in quella tempesta fu abbattuto parte del tempio di Maometto e alquanto della sua sepoltura”.
La pandemia e il destino sono crudeli con i Villani. Giovanni Villani, il capostipite della dinastia di cronisti, deve interrompere la sua Nuova cronica perché muore nella peste
del 1348. Il fratello Matteo continua il racconto iniziando la
sua Cronica (che, malgrado il titolo, è il sequel, non il prequel
della Nuova Cronica) con una delle più note e dettagliate descrizioni del cammino della peste, dal Catai (Cina) all’India,
all’Estremo Occidente. Poi Matteo muore anche lui, di uno
dei tanti ritorni della peste, nel 1363. E la continuazione del
racconto tocca a suo figlio Filippo… Cronaca infinita, come
infinito è il racconto del contagio. Somiglia a quel che narra
Boccaccio nel Decameron. Ma non saprei dire se è Villani ad
aver copiato Boccaccio, o viceversa, o se entrambi si rifacciano alle medesime letture.
Testimoni oculari?
Dice di aver visto coi propri occhi, Boccaccio. Ché, se
quel che racconta “dagli occhi di molti e da’ miei non fosse
stato veduto” non oserebbe crederlo, tanto meno scriverlo,
anche se l’avesse udito da testimoni degni di fede. Certo era
a Firenze nei giorni della peste. Gli era stato affidato l’incarico quadrimestrale di “Signore delle gabelle”, cioè di sovrintendente alle imposte indirette del Comune. Se poi rimase
eroicamente al suo posto o se ne scappò in campagna, non
sappiamo. Non attinge, a sua detta, al sentito dire. Attinge
però, e a piene mani, a quanto ha letto nei suoi autori preferiti, i classici. All’Ovidio delle Metamorfosi principalmente,
che per Boccaccio era praticamente livre de chevet, forse a
Tucidide e Lucrezio, certamente a Tito Livio. Ci sono affascinanti analisi filologiche a proposito. È stata notata la imitatio da parte di Boccaccio di un passo della Historia Lango82
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bardorum di Paolo Diacono (II, 4,5), la precisa
corrispondenza nei due testi di dettagli medici, e di temi
quali l’abbandono delle case, lo sfaldamento degli affetti familiari, l’abbandono degli infermi e dei cadaveri, la quasi
scomparsa dei funerali, lo stop alle attività agricole e il conseguente vagare nei campi di animali domestici non più custoditi. Ma c’è anche un testo di Livio, sullo scoppio di una
pestilentia durante l’assedio di Siracusa nell’autunno del 212
a.C., commune malum, malanno comune a entrambi gli
schieramenti, cartaginese e romano, che fa passare a entrambi la voglia di combattere. “Prima si ammalavano e morivano
per effetto della stagione e dell’insalubrità del luogo; poi erano le stesse cure che si prestavano agli infermi e il contatto
con costoro a diffondere il morbo (volgabat morbos). Sì che o
morivano senza essere assistiti oppure comunicavano il contagio a quelli che li assistevano e li curavano; ragione per cui
i funerali erano all’ordine del giorno, la morte era sempre
sotto gli occhi, e giorno e notte risuonavano dappertutto lamenti. Da ultimo l’abitudine al male aveva indurito gli animi
al punto che non solo non accompagnavano più i morti con
pianti e con le dovute lamentazioni, ma neppure li portavano
a seppellire, per cui i cadaveri giacevano sotto gli occhi di
quelli che aspettavano la stessa morte, e i morti infettavano
gli infermi, e gli infermi i sani, con la paura, con la putrefazione, con la puzza pestifera dei corpi. E per morire piuttosto di spada, alcuni assalivano da soli le guardie nemiche”
(Tito Livio, Storia di Roma ab urbe condita, Libro XXV, 26).
Contagio dai morti ai sani, lamenti che si sentono giorno
e notte, e, al tempo stesso, rinuncia ai riti, al cordoglio rituale
e collettivo (comploratus), ai funerali e alla sepoltura stessa,
la gran puzza che ammorba: tutto questo torna tale e quale
dalle letture erudite nella descrizione “di prima mano” del
Boccaccio. “La peste noi conoscevamo per nome e per averne lette le descrizioni ne’ libri. Ma una peste universale venuta per distruggere il genere umano né veduta, né letta, né
udita venne mai: ed ecco già da venti anni noi l’abbiamo vista invadere tutti i paesi, per modo che sospesa forse e latente si rimase in qualche luogo, ma in nessuno fu estinta: e ogni
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giorno la vediamo tornare donde la credemmo partita, e ci
assale dopo averci ingannato con breve gioia […],” così scrive Petrarca nel 1367 da Venezia all’amico Guido Sette, arcivescovo di Genova (Senili, 6, X, 2). La peste l’ha vista da vicino, ne è stato inseguito nelle sue peregrinazioni da una
città all’altra d’Italia, e anche d’Europa. Ha visto morire di
peste la donna amata, i figli, gli amici più cari. “Che fare
adesso, fratello? […]. Il tempo, come dicono, ci è scivolato
tra le dita, le nostre antiche speranze sono sepolte con gli
amici. Il mille trecento quarantotto è l’anno che ci ha reso
poveri e soli […]”, è l’esordio della prima delle lettere Familiari. Petrarca non conosce certo l’epidemia solo per sentito
dire, oppure solo per averne letto. Ma quando scrive di peste, non può neanche lui fare a meno di tornare ai suoi classici:
“Non dar retta a coloro che, immaginando sia avvenuto quello che
bramano, dan fede ai sogni della speranza. Scemò forse alcun poco
della sua primiera violenza, ma grande tuttora infuria e mena strage
la peste. Odi per ogni dove gemiti e pianti, e a ogni volger di sguardo
ti stanno dinanzi caldi ancora i cadaveri: le strade sono ingombre di
funebri corteggi: e da implacabile morte ad ogni istante percosse vedi per ogni dove cadere le vittime del contagio desolatore. Come Virgilio diceva di una città venuta in mano ai nemici, pare che dir si
debba di questa:
Tutto è pianto crudele e spavento: e in mille modi
Vedi di morte in ogni dove il ceffo”.
Così Petrarca, da Venezia, al veneziano padre Bonaventura Baffo. Con un’aggiunta che rivela però quanto poco,
pur soffrendo dell’isolamento sociale, si avventurasse fuori
di casa:
“Delle quali cose io ti confesso che non il timore ma il ribrezzo mi tiene chiuso nelle domestiche mura, e spesso mi fa
dolorosamente sentire il desiderio delle amichevoli tue visite” (Senili, 3, III, 9).
L’unico tra i padri fiorentini della lingua italiana a non
nominare mai la parola “peste” è Dante Alighieri. Usa “pestilenza”, ma solo in riferimento alle morie di animali. Cono84
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sce a menadito il suo Virgilio, che descrive un’epidemia tra
greggi e mandrie nelle sue Georgiche, in modo così efficace
che sarebbe servita da modello a innumerevoli descrizioni
successive di pandemie umane. Dante la gran pandemia di
metà 1300 l’ha scampata, anche se per poco. Scrive di scabbia, malaria, lebbra, altri contagi. La sua Commedia è un’enciclopedia dello scibile dell’epoca, ha frequentato i luminari
della medicina a Bologna, lui stesso è stato membro della
corporazione degli speziali, la tunica rossa con la quale viene
sempre ritratto è la divisa dei farmacisti. Conosce le malattie,
anche quelle epidemiche. Conosce l’idropisia, la tisi, la
mal’aria (di cui forse morì, causa le paludi attorno a Ravenna). Conosce ogni genere di piaga, comprese le lesioni a pois,
le macchie rosse o nere, con cui nei secoli successivi alla peste i pittori avrebbero rappresentato la peste e altre malattie
contagiose affini, esantematiche e pustolose, tipo vaiolo,
scarlattina, morbillo, febbri emorragiche e simili. E soprattutto conosce anche lui a menadito il suo Ovidio, da cui
prende di peso il mito della pandemia che spopolò l’isola di
Egina e di come fu ripopolata con un popolo di formiche, i
Mirmidoni:
Qual dolor fora, se de li spedali,
di Valdichiana tra ‘l luglio e ‘l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti ‘nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
qual suol venir de le marcite membre
[…]
Non credo ch’a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo
quando fu l’aere sì piena di malizia
che li animali, infin al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo,
si ristorar di seme di formiche […].
(Inferno, XXIX, 46-51 e 57-64).
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Due testimoni colti e paurosi (o prudenti?)
Le pesti di Firenze con cui ebbe a che fare Machiavelli
sono quella 1503, quella del 1527 e quella, ancora più violenta, del 1527. La peste con cui ebbe a che fare Montaigne è
del 1563, poi del 1585. Le ondate si susseguivano in tutta
Europa. In Francia almeno una volta ogni decennio. In Italia
quasi con la stessa frequenza; è stato calcolato che tra il 1346
e il 1656-57, la peste si sia ripresentata per ventisette volte.
Entrambi avevano imparato ad averne paura, o, se vogliamo
metterla in modo da non offendere nessuno, ad essere prudenti.
Il 17 novembre 1503 Totto il fratello di Niccolò Machiavelli, il quale si trova in missione a Roma, gli scrive da Firenze in risposta ad una lettera (che non ci è pervenuta) in cui
questi dice che ha avuto la febbre e teme di aver frequentato
degli appestati. Totto, che doveva essere un po’ negazionista,
o forse voleva solo rassicurare il fratello, gli fa notare che non
basta trovarsi vicino a deli appestati per prendere la peste:
“L’anno scorso a Vinegia in su le medesime barche fumo
più volte persone insieme, che infra 3 o 4 dì poi si morirono
di peste. E che più? E i nostri giovani che sono al paese di
levante, passano a ogni ora di Pera in Costantinopoli con le
medesime barche che passono e morti di morbo e in fatto
fatto a ualcuno s’apica e muore, ma de’ 10 anni un tratto ne
muore uno de’ nostri mercatanti, che in tanto tempo n sono
passati parechi migliaia di volte, e pertanto non ne fanno riguardi veruno. Ma per questo io non dico che non sia bene
riguardarsi, ma non si disperare […] che lo invilire è cosa da
fanciulli o da donne”.
A Roma la peste a quei tempi era endemica, ma probabilmente quello per cui Machiavelli si accorava doveva essere
una comune influenza virale. In effetti in una successiva lettera ai suoi superiori, il Consigli dei Dieci, Niccolò, per giustificarsi di non essere partito subito, come gli era stato ordinato, per una missione in Romagna, preciserà di essere stato
“infecto d’una malattia comune che è in questa città, et queste sono tossi et catarri che intruonono ad altri il capo et il
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pecto, in modo che una agitatione violenta come la posta mi
avrebbe fatto danno”. Insomma, era uno che ci teneva a riguardarsi” (in Niccolò Machiavelli, Opere, volume II, Lettere, legazioni e commissarie, Einaudi 1999)
Quando a Firenze nel 1522-23 imperversò la peste vera,
con gran morìa, Machiavelli si esercitò, assieme all’amico
Lorenzo Strozzi, della famiglia dei banchieri, in una scherzosa Epistola della peste. C’è una diatriba infinita su se sia davvero di mano di Machiavelli, ma Pasquale Stoppelli, che ne
ha fatto un’edizione critica pubblicata nel 2019 dalle Edizioni di storia e letteratura sostiene di sì. È un componimento
bizzarro, più fiction che testimonianza. Il racconto sulla peste attinge abbondantemente, talvolta verbatim, ai classici
che i due amici fiorentini conoscono bene, in particolare a
Boccaccio:
Non altrimenti che si resti una città dagli infideli forzatamente presa
et poi abbandonata, si truova al presente la misera Fiorenza nostra.
Parte degli habitatori, sì come voi la pestifera mortalità fuggiendo,
per le sparte ville riducti si sono, parte morti, parte in sul morire, in
modo che le cose presenti ci offendono, le future ci minacciano; eet
così nlla morte si stenta, nlal vita si teme […] Le pulite et belle contrade, che piene di richi et nobili cittadini essere solevano, sono hora
puzolente et brutte, di poveri ripiene, per la impromptitudine de’
quali et paurose strida non si puote andare. Sono serrate le botteghe,
gli exercitii fermi, e fori tolti via, prostrate le leggi: hora s’intende
questo furto, hora quello homicidio. Le piaze, i mercati dove adunarsi frequentemente i cittadini soleano, sepolcri sono or fatti et di
vili brigate riceptaculi […] l’uno parente se pure l’altro truova o il
fratello o la moglie il marito, ciascuno va al largo. Et che più? Schifano i padri et le madri i propri loro figliuoli et gli abandonano. Chi
fiori, chi odorifere herbe, chi spugne, chi ampolle, chi palle di diverse spetierie composte in man porta, o per meglio dire al naso sempre
tiene, et questi sono i provvedimenti. Sonci certe canove [botteghe]
ove si distribusce pane anzi per ricorre gavoccioli si semina [sono
diventate luoghi di contagio].
Poi il racconto prosegue con una sorta di avventura erotica, tipo quelle che il Machiavelli raccontava per iscritto al
suo amico Vettori: un incontro galante in chiesa con un’avvenente vedova…
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Anche Montaigne è uno, come dire, prudente, e, al tempo stesso un attento lettore dei classici e di Boccaccio. Nel
luglio 1585 era sindaco di Bordeaux. Quando si seppe che
era arrivata ancora una volta la peste, si trovava in missione
fuori città. Piuttosto che tornare si dimise e si rifugiò nel suo
castello. Gli avevano chiesto di presenziare all’assemblea che
avrebbe dovuto eleggere il nuovo sindaco. Se ne guardò bene. Scrisse a “Messieurs les Jurats de la ville de Bourdeaux“
che non era il caso di correre il rischio “visto il cattivo stato
in cui ci si trova“. Ma la peste lo raggiunse comunque. “Tanto fuori che dentro la mia casa fui assalito da una peste violenta quant’altre mai”, annota negli Essais. Fuggì nuovamente, con famiglia, servitù e masserizie.
“Dovetti sopportare questa piacevole situazione: che la
vista della mia casa mi riempiva di terrore. Tutto quello che
vi si trovava era senza custodia e abbandonato a chiunque ne
avesse voglia. Io che sono tanto ospitale fui in estrema difficoltà per trovare un asilo per la mia famiglia; una famiglia
sbandata, che faceva paura ai suoi amici e a se stessa, e orrore
ovunque cercasse di fermarsi, costretta a cambiar dimora appena uno della compagnia cominciava a sentir male alla punta di un dito. Tutte le malattie sono prese per peste; non ci si
da il tempo di riconoscerle. E il bello è che, secondo le regole
dell’arte, a qualsiasi sintomo che si manifesti bisogna star
quaranta giorni con la paura di quel male, mentre intanto
l’immaginazione vi tormenta a suo piacere e fa ammalare la
vostra stessa salute” (Saggi, Libro III, capitolo XII).
Quel che non ha visto, Montaigne l’ha letto, anche quando ci fa credere di essere stato testimone oculare: “Guardate
costoro: dato che muoiono tutti nello stesso mese, bambini,
giovani, vecchi, non si spaventano più, non piangono più.
Ne ho visti alcuni che temevano di rimanere ultimi, come in
un orribile solitudine; che non vidi in genere altra cura che
quella delle sepolture: li turbava vedere i corpi sparsi per i
campi, alla mercé delle bestie, che vi pullularono immediatamente. […] Un tale, sano, scavava già la propria fossa; altri
gli si adagiavano ancora vivi. E uno dei miei braccianti a forza di mani e di piedi, si tirò addosso la terra morendo”. L’ha
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letto nei classici greci e latini, che colmavano la sua splendida biblioteca, in Boccaccio che forse lesse nell’originale italiano, in Nostradamus che già aveva scritto del cliché di una
donna che cuce sé stessa nel proprio sudario, in Ambroise
Paré che ha già l’immagine del “sano che già scavava la propria fossa” e del “manovale che si tirava addosso la terra”,
nelle narrazioni di peste del Le théâtre du monde di Boaistuau…
Le colpe dei leader
C’è chi ritiene che anche dietro la precisissima descrizione che della peste di Atene del 430 a.C. fa Tucidide ci sia un
modello letterario: l’Edipo Re di Sofocle. Certamente Tucidide si rifà a un modello medico: la terminologia con cui descrive la peste nelle sue Storie delle guerre del Peloponneso
trova corrispondenza nei trattati Sulle epidemie del suo contemporaneo Ippocrate, anche lui ateniese (il quale però pare
abbia lasciato la città ai primi segni della pandemia). Ma è
ben possibile che abbia assistito alla rappresentazione dell’Edipo Re, anzi Tiranno (týrannos).
“La città è satura di fumi / e insieme di canti e di lamenti
[…],” esordisce Edipo (3-4). Ed è evidente per gli spettatori
che si parla di pire e lamenti funebri. Di mali infiniti e infiniti
malati, dice più avanti il Coro: “Ahimé, innumerevoli mali
sopporto, una moltitudine di cittadini è colpita dal morbo /
e non esiste difesa a cui si possa pensare / con cui allontanarlo. Periscono i figli / di questa terra gloriosa, e periscono le
donne, prostrate dalla fatica del parto […]. Privata in massa
(anarithmos, senza che si riesca a contarli) dei suoi cittadini,
la città muore” [168-179]. La peste di Sofocle si propaga per
“contagio mortale”, e non ha rimedi che possano fermarla.
Chi governa (Edipo, il Re) è impotente, e al tempo stesso
colpevole. La sua colpa verrà svelata, indizio dopo indizio,
come in un’indagine poliziesca. Ha ucciso suo padre e ha
sposato sua madre. Questo gli spettatori ateniesi già lo sanno
prima ancora che lo spettacolo inizi. “Lui, ucciso il padre, la
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sposò”: c’è già nell’Odissea, e poi in Pindaro, e anche nei Sette contro Tebe di Eschilo.
La novità in Sofocle, un elemento aggiuntivo alle precedenti versioni del mito, è la peste. Fa propendere per la datazione della tragedia a dopo la Peste di Atene. L’altra novità è
l’indagine mediante cui si arriva a scoprire la verità. La cosa
che non si sa, e che resta ambigua, è se lui, Edipo, ignori davvero fino alla fine la sua colpa, o faccia solo finta di ignorarla.
Qualche sospetto deve pure averlo, se sobbalza ogni volta
che nell’indagine emerge qualcosa che potrebbe incriminarlo, se rimuove tutti gli indizi che gli vengono forniti uno dopo l’altro. “Il faut que cet Œdipe soit idiot pour ne pas comprendre”, era la critica che Voltaire faceva a Sofocle. E se
invece Sofocle fosse molto più sottile? Edipo non è stupido.
Si arrampica sugli specchi per scartare gli indizi che non gli
garbano, accusa gli altri – l’indovino cieco Tiresia, il cognato
Creonte –– di complottare ai suoi danni, di essersi messi
d’accordo per diffondere sospetti e maldicenze sul suo conto, di volersi sostituire a lui alla testa del governo. Di “omertà” tra lui e la madre Giocasta parla la lettura “anamorfica”,
attraverso una lente volutamente deformante, di Franco
Maiullari. Manca solo che a un certo punto dica: “Non permetto che si dubiti della mia integrità”.
Talvolta le pandemie impongono tregua alle guerre. Mai
alle lotte per il potere, all’istinto di autoconservazione del
despota. Solo quando le prove si accumulano, diventano irrefutabili, Edipo accetta l’idea di essere lui stesso la peste, il
male, il miasma che ha contaminato la città. Gli spettatori
dell’Atene di allora avevano ricordo fresco di un’epidemia
micidiale, e di un leader (nella fattispecie un grandissimo
leader) che avrebbe fatto carte false pur di non ammettere le
proprie responsabilità. Idem i lettori di Tucidide. I capitoli
sulla peste nelle Storie seguono immediatamente il discorso
con cui Pericle, in spaventoso calo di popolarità, cerca di
“dissipare lo sdegno degli ateniesi [perché non vuole venire
a patti con gli Spartani], e di allontanare il loro pensiero dai
mali presenti [la guerra che butta male, la pandemia]”. Il discorso è un capolavoro di retorica. Da vero populista, figlio
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di buona donna, come notò Umberto Eco. Non li convince
del tutto. Pericle fu condannato a una multa in denaro (il che
comportava anche l’interdizione dai pubblici uffici). Ciò nonostante, “subito dopo però, com’è abitudine della plebaglia, lo elessero nuovamente stratego e gli affidarono tutti gli
affari; divenuti ormai meno ombrosi per i mali privati, lo
consideravano il più adatto perché tutta quanta la città traesse giovamento”. Gli Ateniesi insomma fecero come se dopo
il Covid gli americani avessero rieletto Trump, i britannici
Boris Johnson, i Brasiliani Jair Bolsonaro. Tucidide sembra
tutto sommato dare ragione a chi scelse la “moderazione” di
Pericle. Ce l’ha, lo sappiamo, per partito preso, e anche per
fatto personale, con i successori, i quali riuscirono nell’impresa di fare più guai di Pericle. Se avrebbero continuato a
rieleggerlo quando le cose continuarono ad andare di male
in peggio non è dato sapere. Pericle “morì due anni e sei mesi dopo”, in una delle ondate di ritorno dell’epidemia. Tucidide non dice apertamente che Pericle è, come Edipo, colpevole della peste. Né lo accusa apertamente di aver scatenato
la guerra con Sparta, e avere poi perseverato nell’errore. Anzi, quel discorso è stato spesso considerato un elogio della
sua leadership. Ma molti degli indizi potrebbero però far
propendere per il sì a un’“autorizzazione a procedere” contro Pericle, esattamente come gli indizi forniti passo a passo
dal drammaturgo Sofocle contro Edipo.
L’antico teatro greco è inseparabile dalla peste, dalla pandemia e dal contagio. La malattia, il nosos, è il filo conduttore anche di altre tragedie di Sofocle, come le Trachinie o il
Filottete. Un malato, sia pure di avvelenamento, è Eracle,
dopo aver indossato la camicia intinta nel sangue del centauro Nesso, spacciato alla gelosa Deianira come infallibile elisir
d’amore. Malato è Ajace impazzito. Malato è Filottete, crudelmente abbandonato (possiamo dire quarantenato?) dai
compagni sull’isola di Lemno perché dalla sua ferita emana
un puzzo insopportabile. Traboccano di immagini e riferimenti alla malattia i drammi di Euripide. Peste e malattia ricompaiono in forma di parodia nelle commedie di Aristofa-
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ne. In tutti i casi c’è un intreccio, talvolta esplicito, altre volte
in sordina, realistico o in metafora, tra peste e politica.
Quasi mille anni dopo Sofocle e Tucidide, il bizantino
Procopio di Cesarea racconta la cosiddetta “peste di Giustinano”. Lo fa con quasi le stesse parole di Tucidide, con
un’accurata descrizione di sintomi pressappoco simili a quelli della Peste di Atene, con simile itinerario seguito dal contagio, con simili reazioni da parte dell’umanità colpita e sofferente. Anche in quel caso l’epidemia si inserisce in un
quadro di guerre e carestie, ha conseguenze politiche. Procopio è il primo a parlare esplicitamente di qualcosa che può
somigliare ai bubboni. Scrive di pustole nerastre “su tutto il
corpo”, “grandi come lenticchie”, e non solo di rigonfiamenti che si presentano esclusivamente all’inguine e alle ascelle o
sul collo. Simili a quella di Procopio sono le descrizioni dei
sintomi in Evagrio Scolastico, Giovanni da Efeso, Gregorio
di Tours e Paolo Diacono. Un racconto tira l’altro, forse è
stato Tucidide a contagiarli tutti.
Il racconto di Procopio non è però semplicemente la descrizione più o meno accurata di un’epidemia. È una denuncia delle condizioni in cui versa l’impero bizantino. Anche se
non in termini espliciti, militanti, come nelle Carte segrete in
cui se la prende ferocemente con le lotte delle fazioni politiche e del Circo a Bisanzio, la corruzione del potere, e procede al linciaggio mediatico dell’imperatrice Teodora. Esattamente come il racconto di Tucidide non era solo una cronaca
medica ma una metafora della disgregazione dell’impero ateniese, causa una guerra che non avrebbero mai dovuto fare.
Tutti gli autori classici riprendono, citano per così dire,
talvolta sviluppano, talvolta arricchiscono (o al contrario impoveriscono) un racconto più antico. Quelli che seguono si
rifanno a un racconto precedente. Cambia epoca, cambia il
contesto, cambia l’ambientazione, ma le narrazioni si somigliano. Talvolta oltre alla narrazione è identica anche la locazione. Jacques Le Goff ha osservato ad esempio come il racconto della peste di Marsiglia fatto nel 588 da Gregorio di
Tours sia identico ai racconti della peste di Marsiglia del
1720, cioè di dodici secoli dopo.
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Chateaubriand, contemporaneo di Manzoni, nelle sue
Mémoires d’outre-tombe dedica un capitolo (il 14 del libro
XXXV) alle Pesti (al plurale), e uno (il 15) al colera. Riconosce il suo debito a Tucidide (“che ci ha lasciato una descrizione copiata (copiée), tra gli antichi, da Lucrezio, Virgilio,
Ovidio, Lucano, e, tra i moderni, da Boccaccio e Manzoni”).
Ma è su Marsiglia che si esercita in un pezzo di bravura, ad
effetto: “Furono chiuse le porte della città e le finestre della
case. In mezzo al silenzio generale si sentiva a volte aprirsi
una finestra e cadere un cadavere; i muri grondavano del suo
sangue infetto (gangrené), e cani randagi lo attendevano in
basso per divorarlo. In un quartiere dove tutti gli abitanti
erano periti, li avevano murati a domicilio, come per impedire alla morte di uscire […] il selciato dei crocicchi era coperto di ammalati e moribondi, su pagliericci, abbandonati senza soccorso. Carcasse giacevano mezzo decomposte, coperte
di vecchi stracci infangati; altri corpi restavano appoggiati ai
muri, nell’atteggiamento in cui erano spirati”. Chateaubriand non era neanche ancora nato, quindi non era un testimone oculare. Ma aveva letto molto.
Era così scontato che gli autori classici nelle loro narrazioni di epidemie si fossero influenzati, per non dire copiati
l’un l’altro, che nel II secolo Luciano fa satira su un certo
Crepeius Calpurnianus di Pompeiopolis, “storico” probabilmente di sua pura invenzione, che avrebbe trasportato di peso, attraverso mezzo millennio, pagine intere della descrizione della peste di Atene in Tucidide alla propria descrizione
di una pestilenza a Nisibis, città della Siria.
Un rimedio antico: chissà che funzioni ancora
Di esilarante comicità anche la sua descrizione di una
strana febbre alta che aveva colpito gli abitanti di Abdera, e
li aveva fatti impazzire, con la conseguenza che si misero a
recitare tragedie da mane a sera. Evidente la presa in giro del
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descrivere gli stessi sintomi per tutte le pesti. Fantastico il rimedio alla pandemia che viene suggerito. Ecco il passo:
Si racconta, o mio Filone, che quelli di Abdera, al tempo del re Lisimaco, furono presi da una nuova malattia. A tutti veniva una febbre
molto alta sin dall’inizio, e persistente; poi verso il settimo giorno, a
chi scorreva molto sangue dal naso, a chi compariva largo sudore, e
la febbre diminuiva. Ma il male stravolgeva le loro menti in modo ridicolo, tutti impazzivano per la tragedia, e recitavano versi giambi, e
gridavano, e specialmente declamavano, ciascuno tra sé e sé l’Andromeda di Euripide, e i versi del soliloquio di Perseo: sicché tutta la
città era piena di gialli e magri declamatori che a gran voce belavano
[…].
La cosa durò un pezzo: finché venuto l’inverno e un freddo grande,
li risanò di quella pazzia. Della quale, io credo, era stato cagione Archelao, famoso tragedo di quel tempo, che aveva fatto rappresentare
l’Andromeda nel bel mezzo dei grandi bollori dell’estate, di modo
che i molti che erano ammassati nello stesso teatro furono assaliti
dalla febbre, e poi si diedero a recitar tragedie […].
Luciano di Samosata, Come si deve scrivere la storia
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3.
Di quale malattia parliamo?
è Lei! no, no, non è Lei…
C’est la Carmencita!
….
Non, non, ce n’est pas elle!
(Bizet, Carmen, atto I, scena 8)
QuaLsiasi MaLattia Può essere La Peste
“Pestis non est unus morbus determinatus, sed quicumque
morbus potest esse pestis.”
(La peste non è una determinata malattia, ma qualunque
malattia può essere peste)
Girolamo Mercuriale, De pestilentia, 1577
seMPre gLi stessi sintoMi
“Questa mattina mi sento orribilmente debole, il mio viso è di un pallore spettrale, e mi fa male la gola. Deve esserci
qualcosa che non va nei miei polmoni, perché ho l’impressione che mi manchi l’aria.”
Bram Stoker, Dracula, Dal Diario di Lucy Westenra.
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sebben che non siaMo Medici
“Non siamo soliti trattare di cose che non conosciamo.
Come potremmo dunque
ora noi che mai applicammo alla medicina né gli occhi né
le
orecchie, per non parlare dell’animo, trattare di cose di
pertinenza
della medicina in un consesso di esperti?”
(Petrarca, Senili, XII 1, 2-3). Da verificare
osservare, ascoLtare, Paragonare, Pensare, PriMa di ParLare
“In principio dunque, non peste, assolutamente no, per
nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo.
Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso;
non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un
altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto:
ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del
malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola
che non si può più mandare indietro.
Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia
dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un
simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro
evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole,
come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo
e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo,
d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.”
Manzoni, Promessi sposi, 1840
uoMini e toPi
“La mattina del 16 aprile il dottor Bernard Rieux uscì dal
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suo studio e si imbatté in un ratto morto, in mezzo al pianerottolo. Sul momento scartò la bestia senza fare attenzione e
discese le scale. Ma, giunto in strada, gli venne da pensare
che quel ratto non era nel posto dove doveva essere, e tornò
sui propri passi per dirlo al portiere. Dinanzi alla reazione
del vecchio signor Michel, avvertì meglio quel che la sua scoperta aveva di insolito. La presenza di quel ratto morto gli
era parsa solo bizzarra, mentre per il portiere costituiva uno
scandalo. La sua posizione era categorica: non c’erano ratti
in casa. Il dottore aveva un bel da fare ad assicurargli che ce
n’era uno al pianerottolo del primo piano, e probabilmente
morto, la convinzione del signor Michel restava incrollabile.
Non c’erano ratti in casa, quindi qualcuno doveva avercelo
portato da fuori. Insomma, doveva essere stata una burla…”
Albert Camus, La peste
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Non si sa che malattia fosse la “peste” di cui scrive Tucidide. Malgrado la precisione con cui ne descrive i sintomi,
gli specialisti continuano a discuterne senza che si riesca ad
arrivare a conclusioni certe. Febbre alta, arrossamenti, pustole ed escrescenze cutanee che poi diventano nerastre e si
trasformano in cancrena, emorragie, tosse secca violenta, vomito, diarrea. Potrebbe essere qualsiasi cosa, dal tifo, alla
febbre tifoidea, al vaiolo, al morbillo, alla scarlattina, all’influenza virale. Potrebbe trattarsi di una zoonosi, trasmessa
da parassiti come i pidocchi, le pulci o le zanzare. Gli storici
della medicina si sono sbizzarriti, anche e specialmente nel
corso degli ultimi anni, a trovare coincidenze tra i sintomi di
cui scrive Tucidide –– che tra l’altro non sono così precisi
nemmeno alla luce della terminologia medica della sua epoca, e ne è dubbia la traduzione – e le malattie conosciute.
Tra i sintomi elencati da Tucidide, l’attenzione si è concentrata su Phlyktainai, che viene tradotto, secondo di che
umore è, e dove vuole parare il traduttore, con bolle, ulcere,
vesciche, pustole, macchie, foruncoli, eruzioni, geloni, persino calli. Qualcuno si allarga e traduce addirittura bubboni.
Termine che tira decisamente verso la peste. Ippocrate usa il
vocabolo per indicare bruciature, eritemi, dermatiti da contatto. La febbre alta di cui parla Tucidide è un sintomo ancora più universale, di quasi tutte le malattie dove gli anticorpi
si trovano a fronteggiare un’infiammazione. Altri sintomi abbastanza comuni sono il delirio, la spossatezza, il vomito, la
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diarrea, la difficoltà a respirare. E pure l’amnesia totale, che
Tucidide segnala per alcuni dei sopravvissuti. Quante testimonianze abbiamo ascoltato di sopravvissuti al Covid che
dicono di non ricordare più nulla di quel che è successo? Le
emorragie hanno fatto venire in mente – non a sprovveduti
giornalisti, ma a specialisti di malattie infettive –– Ebola. Il
senso di oppressione al petto, la difficoltà a respirare, la tosse
secca, accompagnata da sbocchi di sangue, potrebbero far
pensare a una polmonite. Qualcuno ora potrebbe anche azzardare l’ipotesi che si tratti di un virus.
“Gli occhi rossi come rubini, la faccia una massa senza
espressione, tutta graffi. Le macchie rosse, che fino a pochi
giorni prima apparivano come lentiggini a stella, si sono allargate e di sono fuse in grandi, spontanee macchie violacee
[…] Cedono i muscoli della faccia. Si sta dissolvendo il tessuto connettivo, e la sua faccia sembra pendere dall’osso sottostante, come se stesse per staccarsi dal teschio. Apre la
bocca, annaspa, la infila nel sacchetto, e continua a vomitare
senza tregua […] i sacchetti si riempiono sino all’orlo con
una sostanza cui viene dato il nome di vomito nero, una poltiglia di granuli color catrame misti a sangue fresco […].” Mi
viene la tentazione di fare un quiz al lettore: da dove viene
questa descrizione di sintomi? Da Tucidide? Da Boccaccio?
Da Edgar Allan Poe? No, è da The Hot Zone di Richard Preston. La non-fiction di metà anni novanta che parla dell’outbreak di Ebola in Africa.
Febbre alta, dolori articolari, tosse, difficoltà a respirare
“come se uno avesse un’incudine sul petto”, sono tra i sintomi registrati per il Covid-19. Ma ce ne sono anche altri, più
strani o meno frequenti: perdita del senso dell’olfatto, e del
sapore; perdita di sensibilità alle estremità; mal di testa, ma
anche nausea, vomito, diarrea; micro-emorragie e coaguli
dovuti all’eccesso di reazione immunitaria; ma anche eruzioni cutanee dovute alla rottura dei capillari, bollicine tipo varicella, o lesioni tipo geloni all’estremità delle dita di mani e
piedi, che sono state definite “alluce da Covid”, o più semplicemente “dita blu”.
Ma l’annerimento da cancrena alle estremità è stato de99
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scritto anche per altre malattie. Ad esempio la peste, sia
nell’antichità sia nel Novecento. Il poeta e sinologo tedesco
Günter Eich riprende proprio questo sintomo inusuale per
profetizzare, negli anni cinquanta, il ritorno di una malattia
caduta in oblio presso le nuove generazione:
“Esamina le punta delle dita.
Esamina le punta delle dita per vedere se hanno cambiato colore.
Un giorno tornerà il contagio che si pensava sradicato.
Il postino la lascerà nella cassetta della posta, con la pubblicità.
Comparirà sul tuo piatto con la porzione di aringa.
La mamma che allatta la passerà al suo bambino.
Cosa faremo, dato che nessuno di coloro che l’avevano affrontata è
più vivo?
Chi è assuefatto all’orrore può attenderla tranquillo.
Facciamo sempre posto alla felicità
Ma quando mai lei viene ad accomodarsi da noi.
È già troppo tardi”.
“Questo virus gioca a travestirsi con i sintomi più disparati, cambia continuamente aspetto”, il commento di un professore del centro di medicina sperimentale dell’Imperial
College di Londra. Lo stesso si è detto di altre pandemie. “In
such changeable shapes dis Cameleon-like sickness appeare”,
in tali e tante mutevoli forme appare questa malattia simile a
un camaleonte, scrive Dekker della peste del 1600 a Londra.
I medici stanno ancora faticando a venirne a capo, di tutti
questi travestimenti, di tutte le bizzarrie del nuovo Coronavirus, malgrado tutte le conoscenze già acquisite. Figurarsi
venire a capo dei travestimenti più antichi.
Per la peste di Giustiniano si è ipotizzato addirittura che
l’agente patogeno virale fosse lo stesso della “Spagnola” del
1918. Per la “peste” di Atene sono state tirate in ballo malattie moderne, di cui non si ha conoscenza nell’antichità, come
la tularemia (identificata nel 1911), infezione batterica trasmessa da insetti succhiatori di sangue che, dopo un breve
periodo di incubazione (2-5 giorni), comincia bruscamente
con febbre elevata, brividi, profuse sudorazioni, cefalea, vomito, prostrazione, e poi produce ulcere cutanee e tumefa100
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zioni linfonodali; la febbre di Lassa (identificata in Africa nel
1965), virale, prodotta dal contatto coi topi morti, che si manifesta con forti dolori di testa, sanguinamento della bocca o
del tratto gastrointestinale; persino la sifilide, oltre all’Ebola
(identificata nel 1976) e altre febbri emorragiche e zoonosi
virali. C’è persino chi ha argomentato che potrebbe trattarsi
di avvelenamento da tossine da funghi di cereali mal conservati (cosa sempre possibile per chi subisce un lungo assedio,
come successe agli ateniesi e alle moltitudini che si erano rifugiate dentro le mura). Si sono confrontati i sintomi e l’l’epidemiologia con flagelli noti quali la peste bubbonica, l’antrace, le diverse febbri tifoidee, le malattie da stafilococco,
quelle causate dai diversi tipi di arbovirus (arthropod-born-viruses) e quelle causate da virus che usano l’RNA, il materiale
genetico delle cellule. Tra questi ultimi, per intenderci, ci sono vecchie conoscenze come i diversi tipi di influenza, e ci
sono terrori recentissimi come Sars, Ebola, Epatite C. Qualcuno ora certamente aggiungerà anche il Covid.
Può darsi che la peste di Atene sia stata una malattia che
non s’è più vista dopo di allora, opera di un microrganismo
oggi sconosciuto. Il che ovviamente non esclude che possa
tornare in altra forma, con un travestimento nuovo. Potrebbe trattarsi di una combinazione di fattori patologici: una
forma di influenza virale accompagnata da uno shock tossico
di origine alimentare; potrebbe trattarsi di tifo più peste, di
tifo più dissenteria, di febbre tifoidea più febbre gialla, febbre tifoidea più scorbuto, e così via. Potrebbe essere una
vecchia conoscenza, che magari ha subito mutazioni che la
rendono irriconoscibile nel corso dei secoli. Oppure, a rigore, potrebbe non essere mai esistita in quanto epidemia specifica, clinicamente accertabile, potrebbe trattarsi di fiction
letterarie che riuniscono in un unico racconto diverse epidemie, diversi terrori…
Tra gli indiziati, ci sono i “soliti ignoti”. Il principale sospettato attualmente resta la febbre tifoide. Per molto tempo
era stato invece il vaiolo, soprattutto a causa delle lesioni cutanee a cui è associato. Che si trattasse di tifo, era l’ipotesi
privilegiata del biologo di Harvard Hans Zinsser, autore del
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classico Rats, Lice, and History, (Ratti, pidocchi e storia),
pubblicato nel 1935. In scavi fatti nel 2001 in una fossa comune che potrebbe anche risalire ai tempi della peste di Atene, sono state rinvenute, su tre scheletri, tracce di un batterio
antico, la Salmonella enterica serovar typhimurium. È quindi
lui il colpevole? Non è detto. Le febbri tifoidi erano endemiche nella Grecia di allora. Potrebbe quindi essere una condizione pregressa, o collaterale. Tucidide dice che le altre malattie più comuni non si manifestavano mentre infuriava quel
loimos, e i rispettivi sintomi confluivano in quelli di un male
del tutto nuovo, del tutto diverso da quelli già noti.
Da un autore all’altro ritroviamo lo stesso linguaggio,
spesso le stesse identiche parole, lo stesso nome per le pandemie, le stesse osservazioni sui sintomi, persino gli stessi rimedi e raccomandazioni, e anche la stessa angoscia. Come
avessero copiato l’uno dall’altro.
Una cosa ancora che accomuna tutti i racconti è che la
pandemia arriva all’improvviso, colpisce inaspettata, di soppiatto, invisibile. Le epidemie più micidiali agiscono sempre
in modo furtivo, silenzioso, talvolta senza che i sintomi diano
alcuna avvisaglia della gravità. Boccaccio dice che molti morivano senza avvertire sintomi, che uno poteva far tranquillamente colazione la mattina, senza sentirsi male per niente, e
ritrovarsi la sera a cenare coi propri antenati, cioè al cimitero. Nei Promessi sposi don Rodrigo si sente benissimo prima
di avvertire qualche brivido, appena un po’ di malessere, ha
passato la sera a far bisboccia, attribuisce la cosa all’aver bevuto un po’ troppo. Durante l’epidemia di peste polmonare
in Manciuria, nel 1910, il dottor Reginald Farrar, inviato
dall’India britannica, visita un ospedale presso Mukden. Poi
coi colleghi va a ispezionare le baracche dove sono alloggiati
i manovali migranti arrivati dallo Shandong, “Coolies” li
chiamano i britannici, deformando il cinese per “gente che
lavora duro”. Sei di loro sono seduti su un kang, letto in muratura riscaldato da un fuoco acceso all’interno. In Manciuria si gela. Chiacchierano tranquilli. Non sembrano per nulla
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malati. Ma uno di loro tossisce. Farrar gli fa una sorta di tampone, chiede a ciascuno di loro di sputare in un fazzoletto. I
fazzoletti sono tutti sporchi di sangue. Il giorno dopo erano
tutti morti. Furtiva era anche la poliomielite. Mieteva vittime
a sorpresa, non c’erano avvisaglie, sintomi particolari, prima
che il virus, arrivando ai centri nervosi, in genere attraverso
le pareti intestinali, producesse le paralisi. Anche il Covid
non avverte. Si possono avere cariche virali tali da contagiare
mezzo mondo intorno senza il minimo sintomo.
Conosciamo abbastanza bene i sintomi della peste asiatica di fine Ottocento. Paul-Louis Simond, lo scopritore del
ruolo che hanno nel contagio dell’uomo le pulci dei roditori,
lavorava sul campo con gli appestati a Bombay e a Karachi.
Così descrive i segni visibili: “Une petit phlyctène, una piccola bolla, meno grande di una testa di spillo, talvolta contornata da una minuscola aureola rosea, sovente non lontana
dall’estremità di un membro alla cui radice si sviluppava il
bubbone. Si poteva riscontrarla in qualunque parte del corpo, ma sempre sulla traiettoria dei vasi linfatici corrispondenti alla regione del bubbone. Era dolorosa e lo restava nel
corso della sua evoluzione. Cresceva fino a raggiungere, ma
molo raramente, la grandezza di una noce; d’ordinario superava di poco la grandezza di una lenticchia. Raggiunta una
certa dimensione, poteva essere il punto di partenza di una
necrosi della pelle, e determinare una lesione nota come carbonchio pestoso […la sua comparsa coincideva] sempre con
il primo sintomo della malattia, cioè con l’inizio della febbre,
o poteva anche precederla […]. Segnala sempre il punto
d’ingresso del virus. La si incontra sempre nelle regioni dove
la pelle è più fine, dorso del piede, malleoli, tronco […] regioni privilegiate per le punture da parte di insetti parassiti”.
I segni visibili e gli altri sintomi descritti da Tucidide,
Ovidio, Lucrezio, e poi Boccaccio, sono a prima vista abbastanza simili. Per forza, mica sono medici, il loro racconto
non si basa su esperienze cliniche. Si basa su emozioni, reazioni comuni a molte comunità umane di fronte alla paura
della pandemia, e, per ciascuno di loro, su modelli letterari
che gli consentono di esprimere tutto ciò al meglio, nel mo103
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do più efficace. Una cosa è però evidente: certamente non si
tratta della stessa malattia. Le hanno chiamate tutte “peste”.
Ma in realtà non sappiamo bene di che cosa si tratti.
È la peste! No, no, non è lei! Complessità pestilenziali
“La peste è malattia furiosa, tempestosa, mostruosa, spaventosa, orrenda, terribile, feroce, traditrice…,” scriveva
Ambroise Paré, medico alla Corte di Francia a metà Cinquecento. Meno scontato è che malattia fosse. La peste in senso
stretto è la malattia prodotta da un batterio identificato solo
a fine Ottocento, e che più tardi, solo negli anni cinquanta
del secolo scorso, ha preso il nome da uno dei suoi scopritori, il patologo svizzero, poi naturalizzato francese, Alexandre
Yersin. Prima lo chiamavano Pasteurella, in onore del maestro di Yersin, Louis Pasteur. Yersin aveva isolato il batterio
durante l’epidemia di peste del 1894 a Hong Kong. A essere
precisi non era stato il solo. Allo stesso risultato era arrivato,
quasi allo stesso tempo un giapponese, Shibasabur Kitasato, anche lui inviato a Hong Kong dal suo governo. Ma Kitasato era di un’altra scuola, quella del tedesco Koch. E i francesi, si sa, non avrebbero mai ceduto il primato ai tedeschi.
Non a quei tempi comunque. Un altro francese, Paul-Louis
Simond, anche lui della scuola di Louis Pasteur, avrebbe
quattro anni dopo accertato che il batterio viene trasmesso
dalle pulci.
Yersin era un bel tipo. Un personaggio da romanzo. Ma
qui ne tratteremo solo in relazione alla sua principale scoperta. Nello spirito della tradizione di Pasteur e della fiducia assoluta della sua epoca nei vaccini, appena scoperto l’agente
della peste Yersin aveva iniziato immediatamente sperimentazioni di laboratorio per arrivare a un vaccino. Non ci riuscì, e un vaccino contro la peste non c’è ancora nemmeno
oggi. Ci sono cure, gli antibiotici. La peste è praticamente
scomparsa, anche se è endemica tra i roditori selvatici. Ma la
corsa verso il vaccino, prima ancora di indagare i meccanismi complessi del contagio e della sua epidemiologia, non ha
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giovato alla conoscenza del nemico. Speriamo non succeda
la stessa cosa col Covid.
La malattia stessa è multiforme. Si è sempre presentata in
diverse vesti: bubbonica, polmonare, setticemica. In ciascuno di questi casi, cambia la forma di contagio, e cambiano i
sintomi. Il che complica alquanto le cose, specie se si deve
diagnosticare un’epidemia antica. Dell’agente patogeno Yersinia sono state individuate almeno diciassette specie differenti, solo tre delle quali contagiano uomini e animali: Yersinia pestis, Yersinia pseudotuberculosis, Yersinia enterocolitica.
Geneticamente la seconda e terza specie si separarono tra 41
e 186 milioni di anni fa, quando gli uomini non c’erano ancora. I tre ceppi hanno subìto tutti complesse mutazioni La separazione tra secondo e terzo tipo di batterio avvenne tra
1500 e 20.000 anni fa. Il killer è solo il primo. Entra in scena
tardi, dopo gli altri. E fa più danni degli altri.
Peste vera e propria, dovuta allo Yersinia pestis fu probabilmente quella, raccontata da Procopio, che devastò l’Impero romano all’epoca di Giustiniano, forse quella di metà
1300, forse quella del Manzoni nel 1630, certamente lo fu
quella individuata nella Cina meridionale, in Manciuria e poi
in India a cavallo tra Ottocento e Novecento. Ciascuna di
queste pandemie ebbe ondate di ritorno, code che si trascinarono per decenni, a volte per secoli. Che fosse effettivamente peste bubbonica non è però affatto assodato e accettato da tutti, nemmeno per la Morte nera. Samuel Cohn, uno
studioso che ha raccolto una quantità spaventosa di materiale su questa epidemia, continua a sostenere di no. Anzi, ha
scritto che “la Morte nera del 1347-52 in Europa, e le sue
ondate successive fino al XVIII secolo, furono qualsiasi altra
malattia, tranne la peste bubbonica”. Diversi altri studiosi
concordano con lui, anche se non in modo così categorico e
con altrettanta veemenza. La disputa a tratti è violenta, sembra un litigio tra comari, a me fa venire in mente il battibecco
corale tra le sigaraie nell’atto primo della Carmen di Bizet,
con quelle che incolpano la bella gitana, e quelle che la di-
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fendono: Sì, sì, è stata la Carmencita… No, no, non è stata
lei…
Gli argomenti di chi nega che la peste fosse davvero peste
sono molteplici. E talvolta convincenti, nel senso che c’è effettivamente qualcosa che non quadra.
Intanto il bubbone: nei racconti c’è e non c’è. Eppure il
rigonfiamento nei gangli linfatici dove si accumulano e fanno
diga i batteri dovrebbe essere il segno distintivo della peste
vera e propria, quella bubbonica. C’è chi ne parla esplicitamente, come fa Boccaccio (“certe enfiature”, “gavoccioli”).
Rabelais, che è medico, e ha ben letto il suo Boccaccio, nel
1532 ne parla buttandola sul ridere, anzi ne fa l’origine dei
suoi “giganti”, e in particolare di Pantagruele:
“Venne in corpo a tutti un molto orribile gonfiore [Rabelais dice enfleure, pari pari le enfiature di Boccaccio]; ma non a tutti nello stesso
luogo.
Infatti ad alcuni gonfiarono i ventri […]. Ad altri gonfiarono le spalle […]. Ad altri gonfiò in lunghezza il membro, che si suole chiamare
creapopoli […]. Ad altri crescevano invece i coglioni […]. Altri invece crescevano per le gambe […]. Ad altri cresceva il naso che sembrava lo stelo di un alambicco: tutto screziato, tutto costellato di bitorzoli, pullulante e purpureo, a bottoni, ben smaltato, ricco di porri
e inquartato di rosso. […]. Ad altri crescevano le orecchie […]. Ad
altri invece cresceva tutto il corpo in lunghezza. E sono quelli che
diedero origine ai Giganti, dai quali discese Pantagruele”.
(Libro II, capitolo I)
Altri contemporanei della peste di metà Trecento, e anche nei secoli successivi, i bubboni li ignorano, forse si dimenticano di menzionarli. Oppure parlano di qualche cosa
che gli somiglia, ma non è necessariamente un bubbone della
peste. Uno dei primi testimoni, il canonico Heyligen de Beeringen, in una lettera del 27 aprile 1348, ne parla come di un
segno secondario, anche se la distinzione che fa tra le diverse
forme che può assumere la peste è clinicamente ineccepibile:
Il male può assumere tre aspetti: gli uomini soffrivano ai polmoni e
alla respirazione e non potevano scampare o vivere più di due giorni.
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Furono fatti esami da dottori in molte città d’Italia e anche ad Avignone, per ordine del Papa, per scoprire le cause del male. Molti cadaveri furono aperti e sezionati, e si trovò che tutti quelli morti così
all’improvviso avevano i polmoni e il sangue infetti. Non ci sono
mezzi di protezione contro il contagio: chi vede, o visita, o è in relazione, o porta uno colpito dal male al cimitero, ben presto lo segue.
C’è un’altra forma di malattia che infuria contemporaneamente a
questa prima: consiste in certi gonfiori che appaiono sotto le braccia
e per questi la gente rapidamente muore. E c’è anche una terza forma che procede di pari passo con le prime due: quella per cui persone di ambo i sessi soffrono di gonfiori all’inguine. Questa parimenti è
presto fatale.
Quasi tutti parlano di pustole, macchie e altre cose simili
(carbunculi, seu antracis aut alicuius similis). Tra le molte raffigurazioni abbondano quelle in cui la malattia viene rappresentata a puntini rossi, tipo morbillo o varicella. I cronisti
medici delle isole britanniche parlano piuttosto di “pokkes”,
pustole, che è anche il termine che si usa per il vaiolo.. Il problema è che il formarsi di rigonfiamenti nelle ghiandole linfatiche, e la formazione di lesioni emorragiche, non sono
prerogativa esclusiva della peste. Si possono manifestare anche in una molteplicità di altre malattie contagiose: in diverse sindromi febbrili, nelle ricadute gravi di malaria, nelle febbri tifoidee e nel tifo vero e proprio, nelle febbri ghiandolari,
nella tularemia, nel linfogranuloma inguinale, in casi di filariasi. Nel “tifo fluviale giapponese” (dovuto al batterio
Orientia tsutsugamushi), produce ascessi sotto le ascelle e allo scroto, nell’orchite filariale l’ingrossamento delle ghiandole si manifesta in bubboni di anche 5-7,5 cm di diametro. In
un gran numero di narrazioni – e anche in molte rappresentazioni pittoriche – il tradizionale, sarei tentato di dire classico, bubbone si accompagna ad altre eruzioni, pustole, lenticchie, carbonchi e così via. Lo fa Boccaccio descrivendo le
peste a Firenze, ma anche il francescano Michele da Piazza,
cronista dell’arrivo della peste nel 1347 a Messina. Lo stesso
fanno i medici della peste nella Londra del 1665 e nella Marsiglia del 1720.
C’è il problema della mortalità: un tasso altissimo per la
peste del quattordicesimo secolo. Perì, calcolano i contem107
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poranei, da metà a due terzi della popolazione d’Europa.
Anche ammesso che si tratti di un’esagerazione, che le vittime fossero molte meno, non si registra niente del genere per
alcuna altra pandemia, prima o dopo. L’influenza “spagnola” del 1918 potrebbe aver fatto a livello mondiale un pari
numero di vittime, 50 o 100 milioni, ma molto minore in percentuale sulla popolazione totale considerata. I registri delle
tasse rivelano che nei soli mesi estivi del 1348 Firenze perse
tre quarti degli abitanti. E questo conferma la versione di
Boccaccio sulla mortalità elevata, per quanto possa essere un
esercizio letterario. Genova e Napoli a metà Seicento persero due terzi della popolazione. L’obiezione è che nessuna
malattia da sola può aver causato tante morti. Quindi forse
andrebbero cercati molti killer, una concomitanza di patologie, di quel che oggi si dicono condizioni pregresse (costante
nelle fonti è il richiamo a carestie che precedono lo scoppio
della peste) e di agenti epidemici. In almeno un caso, un cronista inglese descrive un’epidemia del 1369 che combina peste e vaiolo.
Poi c’è il problema della velocità con cui si muove il contagio. La peste individuata da Yersin nella Cina meridionale
si muoveva molto lentamente, non più di dodici, quindici
chilometri all’anno. Ci aveva messo cinquant’anni ad arrivare dallo Yunnan a Canton e Hong Kong. In confronto la velocità della peste di metà Trecento è fulminea. La Morte nera
viaggiava a passo di corsa, da 1,5 a 6 chilometri al giorno,
non all’anno. Alla velocità di movimento corrisponde un’incredibile rapidità di contagio. Neanche si trattasse di Covid
o qualche altra porcheria virale che si trasmette nelle micro
goccioline dell’aerosol, e non di un grosso batterio che dovrebbe passare dalle pulci ai ratti, e poi svogliatamente dai
ratti morti all’uomo (nella versione canonica la pulce gli trasmette il contagio vomitandogli nella puntura il sangue infetto del ratto morto stecchito, che ha dovuto abbandonare
controvoglia).
A proposito della peste nel 1347 a Messina i cronisti italiani riferiscono che bastava che i marinai appena sbarcati
“parlassero” con dei pescatori al mercato perché questi ca108
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dessero stecchiti poche ore dopo. Neanche fosse il malocchio, trasmesso istantaneamente con lo sguardo. È certo
un’esagerazione, si verifica solo in fantascienza (ad esempio
in Andromeda Strain di Michael Crichton, del 1969, da cui
furono tratti diversi film). Non è possibile che la Yersinia pestis sia arrivata prima ancora dei marinai, e delle navi che la
trasportavano assieme alle pulci e ai topi infetti. Magari prima sarà arrivata qualche altra nave. Ma curiosamente il tema
della fulmineità ritorna nelle cronache delle pesti successive,
anche di secoli. A Roma nel 1656, a Marsiglia nel 1719, a
Messina nel 1743 vengono notati altrettanti contagi istantanei dei portuali, marinai, magistrati addetti all’ispezione delle navi e dei carichi in arrivo. “I facchini che aprirono le balle
di merci infette nel Lazzaretto di Marsiglia morirono al primo apparire dell’infezione, come se fossero colpiti da un malore improvviso […] la morte seguiva nel giro di ore,” scrive
ad esempio il medico e matematico inglese del Settecento
Richard Mead, nel suo A Discourse on the Plague. Luoghi
comuni letterari che si rincorrono?
La peste Doc individuata in Cina meridionale, a Hong
Kong e in India a cavallo tra Ottocento e Novecento non era
molto contagiosa. A meno che non si trattasse della forma
polmonare. Raramente aveva complicazioni polmonari, e,
anche quando tutta la numerosa parentela si affollava attorno al letto in corsia, come era tradizione specie in India, il
contagio non si trasmetteva facilmente. I medici britannici
inviati dall’Impero a contenerla spesso notano che “gli ospedali sono i luoghi più sicuri”. Pochissimi si ammalarono, a
differenza invece degli anatomopatologi, i quali invece trafficavano direttamente con il batterio. Al contrario, la peste
che investì l’Europa dal 1357 in poi è ritenuta contagiosissima, come fosse un’influenza virale, come fosse il comune raffreddore. Sempre Richard Mead si pronuncia contro “l’affollare i malati [crowding the sick] negli ospedali”, perché
“non porta niente di buono, anzi invece promuove e diffonde il contagio”. Lo sgretolarsi dei sistemi sanitari, di ogni
paese, anche di quelli più ricchi, e a ogni latitudine aveva già
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reso gli ospedali luoghi pericolosi. Il Covid li ha resi, nella
percezione dei più, luoghi micidiali.
Una differenza importante tocca la durata e la permanenza delle epidemie. Un’altra differenza riguarda la stagionalità. La peste nera restò endemica per tutto il 1300, il 1400 e il
1500, tornò in pieno nel 1600, continuò fino al 1700 e, contrariamente a quanto si sostiene spesso, non sparì affatto del
tutto dall’Europa dopo la grande peste di Marsiglia del 1720.
Fece quarantottomila vittime a Messina nel 1743, e oltre centomila a Mosca nel 1771-72. Le epidemie di Yersinia furono
debellate nel giro di pochi mesi, al massimo anni, ben prima
che la penicillina relegasse il batterio a qualche focolaio di
roditori selvatici qua e là per il mondo. La peste bubbonica
vera e propria, quella documentata da Yersin, tende a manifestarsi in estate e agli inizi dell’autunno, la peste polmonare
è, come quasi tutte le malattie che colpiscono gli organi respiratori, un habitué dell’inverno, quando la gente tende a
raffreddarsi e a stare in casa e in ambienti chiusi. La peste
nera invece non guardava in faccia le stagioni, colpiva tutto
l’anno. Tra gli studiosi c’è chi ha sostenuto che la curva di
mortalità stagionale è il principale indizio contro l’ipotesi
che si trattasse di peste bubbonica. Non solo la curva è ballerina e capricciosa. Il fatto è che non rispetta affatto i cicli
della presenza di ratti e pulci, senza i quali non ci dovrebbe
essere Yersinia. La peste medievale in Toscana, a Bologna, in
Umbria, a Roma aveva raggiunto il picco in giugno. Nel milanese aveva raggiunto il picco in ottobre, nel 1468 in luglio,
ma quella “manzoniana” del 1630 lo raggiunse in novembre.
Quando tocca tocca, non pare esserci regola per cui la pandemia scoppia in una determinata stagione e cessa in un’altra. Esattamente come si sono rivelate inesatte le previsioni
per cui il Covid-19 si sarebbe squagliato ai primi caldi.
Pestilential Complexities è il titolo, particolarmente indovinato, di un volume che raccoglie gli atti di una conferenza
sulla peste medievale organizzata dal Wellcome Trust a Londra nel 2006, con contributi di altissimo livello. Non sono i
libri che mancano sulla peste. Una bibliografia comprenderebbe migliaia, forse centinaia di migliaia di titoli. Quel che
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forse manca un po’ è la memoria, uno sfoltimento di tutta
questa complessità.
Ma se non era peste, che era? Questo non si sa. Scusate,
non sappiamo ancora bene, malgrado tutta la strumentazione scientifica di cui disponiamo, cos’è il Covid-19. Come
possiamo pretendere di conoscere cosa furono queste pandemie antiche che ci siamo abituati a chiamare pesti?
Dove sono finiti i topi? E le pulci?
Il primo segno della peste nel romanzo di Camus è un
ratto morto che il protagonista, il dottor Rieux, trova sul pianerottolo. Poi di topi moribondi e morti ne La peste ne spuntano a decine, a centinaia, a migliaia. I cadaveri dei roditori si
accumulano per strada, in mezzo alla spazzatura. Sono pagine molto efficaci. Non ha alcuna importanza che non ci sia
stata peste a Orano e che Camus non abbia mai assistito a
un’epidemia di peste. Racconta, grazie alla sua immaginazione e alle sue conoscenze mediche, quel che dovrebbe succedere in un’epidemia di peste bubbonica da manuale, in cui la
pulce portatrice del batterio infetta i roditori, morto il roditore lo abbandona per passare per disperazione, con estrema
riluttanza, all’uomo, il cui sangue non è affatto la sua dieta
preferita. La pulce lo punge perché affamata. Ha lo stomaco
pieno di sangue del roditore defunto, ma bloccato per l’accumulo dei batteri nel vestibolo del suo apparato digerente.
Non riuscendo a succhiare e ingerire il sangue del suo nuovo
ospite, gli vomita nella ferita il sangue infetto.
Camus certo ha fatto i suoi compiti. Conosce le descrizioni sulla peste moderna, che comprendono anche morìe di
topi. Ha letto Tucidide e Ovidio. Lo provano gli appunti, i
Cahiers, un intero saggio rimasto inedito. C’è però un problema: quasi nessuno degli autori “classici” parla di ratti o
topi. Non se ne vedono in giro né nella peste del 1348 raccontata da Boccaccio e dai cronisti suoi contemporanei, né
in quella di Atene descritta da Tucidide, e nemmeno in quel111
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la di cui racconta Procopio. Gli animali menzionati in rapporto con la peste sono altri. Tucidide scrive che “tutti gli
uccelli e gli animali a quattro zampe che si cibano di cadaveri
umani (molti giacevano allo scoperto) questa volta non si accostavano, ovvero morivano, dopo averne mangiato”. Ma
non fa menzione di ratti o topi. Anche in Ovidio le bestie
schifano il contagio: i cadaveri degli appestati “non li toccarono i cani, non gli uccelli rapaci, non i lupi grigi”. Boccaccio
dice essere cosa maravigliosissima, cioè da non credersi, che
se un infermo toccava un qualsiasi animale, “non solamente
della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo
spazio uccidesse”.
All’inizio di ogni epidemia di peste ci avevano pensato
comunque gli uomini ad ammazzare cani e gatti, perché ritenuti, a torto, portatori del contagio. I cani randagi furono le
prime vittime, anche perché erano troppo numerosi. All’epoca di Shakespeare alcune parrocchie retribuivano dei poveri con la sola mansione di allontanare i cani. A Riom un
editto della Commissione di Sanità ordina nel 1631 di abbattere tutti i gatti, e anche i piccioni nei colombiers. In un’incisione seicentesca di Jan de Ridder c’è una vera e propria esecuzione di massa, a pistolettate, di cani e gatti. All’avversione
nei confronti dei gatti, ritenuti responsabili di malattie, oltre
che all’avversione ancora più marcata nei confronti dei loro
padroni che coccolano i gatti e affamano i garzoni, si può far
risalire il Gran massacro dei gatti a opera degli apprendisti
tipografi della rue Saint Séverin a Parigi, documentato da
Robert Darnton. Tra parentesi, se fosse vero che la peste la
portano i topi, attraverso le loro pulci, lo sterminio dei gatti
non fece che aumentare il contagio. Nei processi, le streghe
venivano accusate di trasformarsi in gatti per introdursi nelle
case e contaminare, o succhiare sangue, midollo e cervello
dei neonati. Qualcuna confessa. Manzoni, che alle stregonerie e agli untori ovviamente non ci crede, non rinuncia a riferire “tra le storie che quel delirio dell’unzioni fece immaginare”, un paio di leggende metropolitane tipo fantasy horror.
Una in cui il diavolo appestatore si presenta in piazza del
Duomo “con un tiro a sei”, manco fosse il Gatto con gli sti112
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vali, o il Voland di Bulgakov col gattone nero che compare
all’improvviso nella Mosca di Stalin. Una seconda in cui altri
reclutatori di untori svaniscono trasformandosi in “un lupo
sotto il letto, e tre gattoni sopra”. Nei Racconti di Liao Zhai e
in altre fantasie cinesi, le streghe sono volpi. Il vampiro appestatore Dracula si trasforma in pipistrello, viaggia accompagnato da stuoli di ratti. Lo Spillover, le zoonosi virali, sono
state ampiamente anticipate in forma romanzata.
I cronisti medievali contemporanei alla peste nera raramente parlano di topi o ratti. Parlano di scorpioni, serpenti,
lumache, rospi, scarafaggi. Il medico abruzzese Sebastiano
Tranzi nel suo Trattato di peste del 1587 cita il moltiplicarsi
di “zanzare, rane, sorci [sorici], cimici, grilli, farfalle, e altri
animali simili, nati dalla putrefazione”, come segni premonitori della peste. È uno dei pochi a menzionare i topi, anche
se in compagnia di parassiti che trasmettono malattie diverse
dalla peste, e di insetti assolutamente innocenti. Nella tavola
di Bosch che raffigura la visita della morte, vestita come sempre da scheletro, all’avaro, la stanza di quest’ultimo è piena
di animaletti e mostriciattoli di ogni tipo, di quelli che solo
Bosch sapeva immaginare. Da sotto un cassettone spunta
una sola coda che potrebbe essere di ratto. Altrimenti, quasi
nessuno se la prende con i topi, anzi neanche si accorge della
loro esistenza.
Il Bhgavata Pura, testo sacro dell’induismo la cui redazione viene fatta risalire all’XI secolo, contiene già il consiglio: “Se vedi un ratto che cade a terra dal tetto e si trascina
come fosse ubriaco, fuggi che la peste è vicina”. Wu Lienteh, che su incarico di Pechino indagò l’epidemia di peste
del 1911 in Manciuria e Mongolia, cita i versi di una poesia
cinese del 1792: “Pochi giorni dalla morte dei ratti/e muoiono gli uomini uno dietro l’altro”. E del resto in cinese “peste
bubbonica” è parola composta dai caratteri per “ratto” e
“epidemia”. Ma poi fu accertato che la peste manciuriana
veniva non dai ratti ma dal tarbagan, un roditore selvatico
cacciato per la sua pelliccia. Samuel Pepys annota con grande pignoleria tutti i minimi dettagli di ciò che succedeva a
113
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Londra durante la grande peste del 1665, ma non menziona
alcuna morìa di ratti.
Non ci sono ratti nei Promessi sposi. C’è ogni genere di
altri animali, dai polli di Renzo ai muli, al cavallo di cui (nel
Fermo e Lucia) si impadronisce don Rodrigo, ormai in preda
al delirio nel Lazzaretto. C’è un intero zoo di bestie in carne
e ossa, o tirate in ballo in senso figurato. In un rigo Agnese si
preoccupa della casa abbandonata a “topi” e “faine”, ma
Manzoni non fa alcun riferimento a ratti o altri roditori in
relazione alla peste. E pour cause: quando lui scrive il ciclo
pulce-ratti-uomo era ben al di qua dall’essere scoperto, o anche solo immaginato.
L’assenza dei topi nella letteratura e nelle cronache della
peste è uno degli argomenti principali della scuola “revisionista”, per cui la peste nera non sarebbe peste, o per lo meno
non peste bubbonica. Ma i tradizionalisti rispondono che i
ratti erano tanto comuni che nessuno si sarebbe preso la briga di notarne l’assenza o la presenza. Quanto all’assenza di
qualsiasi riferimento a morìe in massa di topi, potrebbe dipendere dal fatto che non faceva conto parlarne, oppure più
semplicemente dal fatto che i topi casalinghi generalmente
non se ne vanno in giro a morire, muoiono dove stanno nascosti, negli interstizi dei muri, in buchi inaccessibili. Certo,
decomponendosi puzzano. E questo sarebbe coerente con la
gran puzza che c’è in tutte le narrazioni della peste, e che
anzi viene indicata come l’origine stessa del contagio.
Ci sono rattoni a non finire nelle incisioni di Bruegel,
specie quelle sui Vizi capitali. Minacciano allettati, forse ammalati. In compagnia di un’infinità di altri mostriciattoli fantastici o animali immondi che razzolano nella sporcizia. Ma
non si tratta di ratti moribondi. Anzi, semmai hanno l’aria
dispettosa. Pieno di ratti è il dipinto di argomento biblico,
“La peste di Ashdod (o Azoth?)” – oggi al Louvre –– che
Nicolas Poussin fece a Roma nel 1630. Era l’anno che tornò
la peste. Ma non a Roma, che fu risparmiata. Sarà stato per
caso, sarà stato perché già l’anno prima, nel 1629, alle primissime avvisaglie nella penisola e in città, erano state prese
misure preventive, era stata istituita un’apposita Congrega114
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zione di Sanità guidata dal cardinale Barberini. La commissione si riuniva due volte alla settimana, fu sciolta solo nel
1634, che ormai la peste era passata. Per uno di quei bizzarri
giochi del destino, anche quella volta la Roma barocca e decadente fece meglio della ricca Milano. I ratti di Poussin sono vispissimi, non sono morti o moribondi. È ben possibile
che Poussin ne abbia visti a caterve: anche nella Roma di allora la spazzatura per strada non mancava. Ma più che di
un’intuizione del rapporto che c’è tra la peste e i ratti (e le
loro pulci), la presenza dei roditori nel dipinto potrebbe essere dovuta alla fedeltà al testo biblico cui si riferisce: il libro
di Samuele, dove si racconta della pestilenza con cui la mano
del Signore aveva colpito i Filistei che si erano impadroniti
dell’Arca dell’alleanza, con “rigonfiamenti”, bubboni, nelle
“parti nascoste del corpo”, e un’infestazione di topi che avevano “invaso la terra”, e secondo alcune traduzioni, anche
“le loro navi”. Un ratto dal brutto ceffo si vede in primo piano anche in uno dei “teatrini” in cera policroma realizzati
attorno al 1690 dall’abate Gaetano Zumbo (o Zummo), e ora
al Museo La Specola di Firenze. La scena è particolarmente
raccapricciante: i ratti, anche in questo caso vispi e tutt’altro
che moribondi, si stanno contendendo i visceri fuorusciti
dalla pancia di uno dei cadaveri di appestati in decomposizione.
I ratti quindi c’erano, eccome. Un’analisi chimica recente, condotta con tecniche molto sofisticate, delle tracce biologiche sulla superficie dei certificati di morte nell’estate
1630, l’anno della peste del Manzoni, conservati all’Archivio
di Stato di Milano, rivela presenze sorprendenti – e inattese
dagli stessi ricercatori: sul margine inferiore dei fogli, quello
toccato dai polpastrelli degli scrivani, ci sono proteine tipiche del Yersinia pestis, proteine di topo o di ratto, tracce di
carota, altre verdure e latte di capra. È probabile che quelle
registrazioni di decesso fossero compilate direttamente nel
Lazzaretto, da scrivani immuni come i monatti, che negli
stessi locali consumavano i loro pasti frugali a base di verdure (la carne era un genere di lusso), che quei locali fossero
nottetempo visitati da stuoli di ratti in cerca di cibo. In una
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stampa antica che raffigura il Lazzaretto, al cui centro si ergono tende come fosse un accampamento militare, si distingue una capra, che serviva a procurare il latte agli infanti delle ricoverate.
Ancor meno visibile dei ratti è la pulce. Per Aristotele le
pulci nascevano dalla sporcizia. Alla pulce dedica una fiaba
Esopo (così come la dedica ai topi, distinguendo tra quello
di città e quello di campagna). Di pulci, e rimedi per liberarsene, scrivono Plauto, Varrone, Columella, Celso, Marziale.
Il naturalista rinascimentale Ulisse Aldrovrandi le dedica un
intero capitolo del suo De animalibus insectis. Galileo Galilei
informa i colleghi dell’Accademia dei Lincei di aver contemplato con le sue lenti “moltissimi animalucci, con infinita
ammirazione, tra i quali la pulce è orribilissima”.
Qualche rara volta la pulce viene indicata come responsabile del contagio. Ma più che altro simbolicamente, in metafora. Ad esempio, nel suo Successo della peste occorsa in
Padova l’anno M.D.LXXVI, in piena epidemia del 1576,
Alessandro Canobbio si dice terrorizzato da “beccatura di
pulce”, ma nel senso di piccolissima ferita: “Io che per continuo vedeva davanti la mia porta queste miserie, ero ridotto a
tal spavento, che molte volte non sapeva s’io fosse vivo, ò
morto; sano ò appestato. Se una beccatura di pulce in alcun
luogo della vita io vedeva, subito pensava di essere ferito”.
Diffusa si è l’idea che qualche animaletto poco o punto visibile, qualche mostriciattolo orrendo debba essere responsabile del contagio, e talvolta lo si rappresenta anche, ma si
tratta di mostri immaginari, fantastici: draghi che sputano
fuoco, serpenti, mostri immondi, creature diaboliche alate.
Nell’edizione originale (Paolo Megietti Libraro in Padoua,
1577) del Successo della peste di Canobbio ci sono due strane
e inquietanti incisioni capolettera che hanno un possibile riferimento alla peste: una P in cui si vede un drago che sputa
fuoco e minaccia una donzella incatenata, alla cui difesa accorre un Perseo volante, e una L raffigurante una donna e
due bambini atterriti da un inquietante bestia mezzo ratto
mezzo rettile. “[…] ci pare haver ben detto Marsilio Ficino
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che la peste è un dracone col suo corpo di aere, il quale spira
veneno contra l’uomo,” approva il medico Ingrassia. Mostriciattoli strani figurano anche in dipinti di Giorgione e nel
Miracolo del piede risanato in cui Tiziano, secondo alcuni critici, dipinse Giorgione morente. Sia Giorgione che Tiziano
morirono di peste a Venezia.
Tra i primi a raffigurare con precisione la pulce è il gesuita Filippo Bonanni, nelle sue Observationes circa viventia
quae in rebus non viventibus reperiuntur, cum micrographia
curiosa, del 1691. Con lo “spulciamento” si sono cimentati
moltissimi pittori. Dal bolognese Giuseppe Maria Crespi,
detto “lo spagnolo”, a Gerrit van Honthorst, detto Gherardo delle Notti, che raffigura una cortigiana che viene aiutata
a spulciarsi. Tema ripreso da un altro seicentesco, l’ungherese Andries Botha, in una Caccia al lume di candela in cui è
invece una donna a cercare a lume di candela pulci sul dorso
di un uomo. Anatomia dell’artropodo e horror onirico si mescolano nel Ghost of a Flea, il fantasma di una pulce, disegnato tra 1819 e 1820 da William Blake, il grande esperto di
Apocalissi e Profezie. Sarebbe profetico, se non fosse che
Blake non poteva avere la minima cognizione del ruolo che
la pulce ha nel trasmettere la peste. Così come non ce l’aveva
nessuno degli autori sopra citati, i quali parlano di pulci, ma
mai in connessione, nemmeno remota, con la peste.
La coabitazione tra pulci e uomini è piuttosto antica. Se
ne sono trovate negli scavi di Tell el-Amarna, che risalgono
all’antico Egitto. Erano già in America prima che arrivasse
Colombo. A differenza delle cimici, che invece furono importate dagli europei, i quali in cambio si presero e riportarono in Europa la sifilide. Come le pulci, a quanto pare le cimici inizialmente preferivano gli animali all’uomo. C’è chi
ritiene che le cimici fossero in origine parassiti dei pipistrelli,
e siano entrate in contatto con i primi cavernicoli quando
questi invasero il loro habitat. Come le pulci, le cimici si trovano a loro agio, e talvolta sopravvivono a lungo, oltre che
nella peluria degli animali e delle persone, nelle pellicce, nei
tessili e nei capi di abbigliamento. Nel quindicesimo secolo
le stole che le dame indossavano sulle spalle venivano chia117
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mate “pellicce da pulce”. In diverse lingue è rimasta l’espressione “mercato delle pulci”.
Si conoscono oltre duemila specie di pulci. La pulci che
trasmettono la peste all’uomo sono la Xenopsylla cheopis ovvero la pulce del Rattus rattus, il ratto nero, una specie orientale che forse fu portata in Europa dai Crociati, ama i granai
e i solai, e non disdegna le navi, specie se trasportano cereali,
e il Nosopsyllus fasciatus, il quale invece predilige il Rattus
norvegicus, ovvero la pantegana che nuota nelle fogne. Entrambe queste pulci hanno nel loro apparato digerente un
proventricolo che finisce bloccato dall’accumulo di batteri
di Yersinia. È determinante per il meccanismo con cui possono infettare l’uomo. Le pulci sono molto esigenti in fatto di
dieta, non cambiano volentieri ospite. Passano dal ratto
all’uomo solo quando questo muore. Lo pungono, ma il
blocco del proventricolo gli impedisce di succhiare altro sangue. Lo infettano vomitando nella ferita una poltiglia di sangue rappreso e batteri. Questo meccanismo non funziona
con altre specie di pulci che non hanno il proventricolo. Ad
esempio la comune pulce dell’uomo, il Pulex irritans, non ce
l’ha, quindi il batterio non dovrebbe potersi trasmettere dai
ratti alle persone, e da persona a persona in questa maniera.
Negli anni quaranta del secolo scorso due medici francesi,
George Blanc e Marcel Baltazard provarono a dimostrare il
contrario, che l’infezione poteva essere trasmessa anche dalle comuni pulci domestiche, o dai pidocchi. E in apparenza
ci riuscirono, nel corso di esperimenti condotti in Marocco,
iniettando nelle cavie colture di batteri raccolti dai cadaveri
di morti di peste. Ma c’è chi, come dire, gli fa le pulci, e osserva che i loro esperimenti dimostrano in realtà che è pressoché impossibile che la peste si trasmetta tramite le pulci
degli umani. Solo un esperimento su nove gli riuscì, e con
una concentrazione forzata, quasi impossibile in natura, di
pulci infette. Forse non è sempre colpa del topo, e neanche
della pulce, forse si tratta di un altro parassita, mettiamo i
pidocchi, forse certe pesti si trasmettono altrimenti, oppure
non sono peste ma qualcos’altro. Cherchez la puce non sem118
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pre risolve l’enigma, esattamente come non tutto si spiega
con Cherchez la femme…
daLLa Parte degLi insetti.
da KafKa a caPeK
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4.
Zone rosse e pazienti Zero
infettare i ProPri cari
“L’intero esercito [dei Tartari] fu colpito da una malattia
che li sopraffece. Morivano a migliaia ogni giorno […].
All’improvviso mostravano segni sui loro corpi… gli umori
si coagulavano nell’inguine o alle ascelle [in bubboni], e seguiva una febbre putrida [febbre tifoidea, accompagnata da
petecchie?] e morivano, senza che consulti e le cure dei medici potessero in nessun modo aiutarli […]. I Tartari, prostrati
da questa malattia pestilenziale, stupefatti nel vedersi morire
senza speranze di guarigione, persero interesse nell’assedio.
Ma ordinarono che i cadaveri fossero messi sulle catapulte e
li scagliarono dentro la città di Caffa, così che, a causa di
questi indesiderati ospiti, a loro volta gli assediati cominciarono a morire diffusamente. Si crearono così montagne di
morti, dalle quali i cristiani non potevano nascondersi né
fuggire, o essere liberati da un tale disastro […] e ben presto
l’aria fu contaminata e l’acqua avvelenata, corrotta e putrefatta, e si diffuse un odore insopportabile […]. La mortalità
era così elevata e così diffusa che [in tutto l’Oriente] si levarono alti lamenti, grida e strepiti, fra i Cinesi, gli Indiani, i
Persiani, i Medi, i Curdi, gli Armeni, i Georgiani, i Nubiani,
gli Etiopi, i Turchi, gli Egiziani, gli Arabi, i Saraceni, i Greci
[…]
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Fra coloro che erano fuggiti da Caffa via mare vi erano
alcuni marinai che erano stati infettati da questo male velenoso. Alcune navi si diressero a Genova, altre a Venezia o in
altri luoghi di religione cristiana. Quando i marinai raggiunsero queste località si mescolarono con le persone che vi abitavano, fu come se avessero portato con sé uno spirito maligno, ogni città, ogni insediamento, ogni luogo fu avvelenato
dalla pestilenza, e gli abitanti, uomini o donne che fossero,
morirono improvvisamente. E quando una persona aveva
contratto la malattia, avvelenava tutta la sua famiglia anche
quando cadeva e moriva, così che coloro che allestivano i
preparativi per la sepoltura erano colti dalla morte allo stesso
modo
[…].
Ahimè le nostre navi entrano in porto, ma di 1000 marinai ne sono sopravvissuti a stento 10. Entrammo nelle nostre case come se fossimo accompagnati da uno spirito maligno […] parenti amici e vicini ci raggiunsero da ogni parte
[…]. Sventura a noi che portavamo le frecce della morte, essi
ci stringevano e ci abbracciavano e ci baciavano e mentre noi
parlavamo dalle nostre bocche emanavamo veleno insieme
alle parole. E così, tornando alle proprie case, costoro avvelenarono tutta la famiglia e nel giro di tre giorni sarebbero
tutti periti […]. Innumerevoli i cadaveri da seppellire […]
non c’era abbastanza terreno libero per le tombe [...] furono
costretti a scavare le fosse vicino alla piazza o in aree di campagna dove non c’erano mai state […] Un numero enorme
di persone giovani, Specialmente donne incinte, morì in breve tempo […] i cittadini eminenti e i nobili venivano sepolti
nelle stesse tombe con i popolani e gli indigenti, Perché i
morti erano tutti uguali […] mariti e mogli che avevano diviso serenamente il talamo matrimoniale erano ora separati
[…] la madre spesso rifiutava di toccare il figlio, il marito la
moglie […] la vittima giaceva ammalata sola a casa […]. I
medici non volevano nemmeno entrare […] i sacerdoti attoniti amministravano i sacramenti con timore […]. Cosa dobbiamo fare? Fuggire è impossibile; nascondersi è inutile
[…]. Pensavate che la prosperità vi desse sicurezza, ora la
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stessa fossa vi copre tutti, abbienti e non […]. Il passato ci ha
divorato, il presente ci rode le viscere, il futuro minaccia perigli ancora più grandi. Ci eravamo dati da fare per accumulare freneticamente; nel giro di un’ora abbiamo perso tutto…”
Gabriel De Mussis, Historia de morbo sive mortalitate
quae fuit Anno Domini MCCCXLII
oro, fuoco, forca
“Ignis, furca, aurum sunt medicina mali.”
Giovan Filippo Ingrassia, Informatione del pestifero, et
contagioso morbo: il quale affligge et have afflitto questa città
di Palermo, & molte altre città, e terre di questo Regno di Sicilia, nell’anno 1575 et 1576
distanziaMento obbLigatorio di 2 braccia
“[…] quando conversi, stia discosto dal compagno die
braccia al meno, & al luogo aperto, & quando è di sospetto
stia etiam più lungi almeno sei braccia, & allo scoperto, & fa
che il vento non venga da lui inverso a te.”
Marsilio Ficino, Contro la peste, 1576
vietato uscir di casa, Pena La Morte
“Vietato a chiunque l’uscir dalle case infette quali sono
chiuse et interdette, posse essere ammazzato impunemente.”
“Proibito l’approssimarsi alle case serrate, permesso il
parlare con le persone in esse rinchiuse, ma nella distanza di
due braccia; fuggitivi dalle stesse siano banditi, retenuti in
contraffazion di bando, siano impiccat.i”
“Padovani esercenti lanificio et arrivati in questa città già
un mese, partano tosto in pena di forca […].”
Le leggi di Sanità della Repubblica di Venezia, 1511 e 1528
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La Mascherina aLMeno rassicura
“Estrasse da uno sterilizzatore due maschere di garza
idrofila, ne porse una a Rambert e lo invitò a indossarla. Il
giornalista domandò se serviva a qualcosa e Tarrou rispose di
no, ma che rassicurava gli altri.
…
So con certezza […] che ciascuno la porta in sé la peste,
perché nessuno, no, nessuno al mondo ne è indenne. E che
bisogna sorvegliarsi senza cessa per non essere portati, in un
istante di distrazione, a respirare in faccia a qualcuno e appiccicargli l’infezione […].
L’uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che si distrae il meno possibile. E ce ne vuole di volontà e
di tensione per non essere mai distratti! Sì, Rieux, essere appestati è molto faticoso; ma è ancora più faticoso non volerlo
essere. È per questo che tutti appaiono stanchi: tutti, oggi, si
ritrovano un po’ appestati […].”
Camus, La peste
un ordine assurdo o ProvvidenziaLe?
“Gli archivi della piccola città di Cagliari, in Sardegna,
contengono la relazione di uno straordinario fatto storico.
Una notte, alla fine d’aprile o all’inizio di maggio del
1720, venti giorni prima dell’arrivo a Marsiglia del
Grand-Saint-Antoine, il cui approdo coincise con la più stupefacente esplosione di peste che mai sia germogliata nella
storia di questa città, Saint-Rémy, viceré di Sardegna, reso
forse sensibile ai virus più perniciosi dalle sue ridotte responsabilità di monarca, fece un sogno particolarmente sgradevole: vide se stesso appestato e la peste devastare il suo
minuscolo Stato.
Sotto l’azione del flagello, le strutture della società si disgregano. L’ordine crolla. Egli assiste al totale sconvolgimento della morale, a tutte le disfatte della psicologia, sente il mormorio dei propri umori, straziati e in piena rovina,
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che in un vertiginoso disfacimento della materia si appesantiscono e si trasformano a poco a poco in carbone. È
dunque troppo tardi per scongiurare il flagello? Ma, benché distrutto, annichilito, organicamente polverizzato e arso nelle midolla, egli sa che nei sogni non si muore, che la
volontà vi agisce sino all’assurdo, sino alla negazione del
possibile, sino a una sorta di trasmutazione della menzogna
da cui si riproduce la verità.
Si sveglia. Tutte le voci di peste, i miasmi di un virus venuto dall’Oriente, ora sarà in grado di allontanarli.
Una nave salpata da Beirut un mese prima, il
Grand-Saint-Antoine, chiede l’autorizzazione ad approdare.
Ed è a questo punto che gli dà l’ordine pazzesco, l’ordine
che il popolo e tutte le persone che gli sono vicine giudicano
farneticante, assurdo, sciocco e dispotico. In tutta fretta invia alla nave che presume contaminata la barca del pilota con
alcuni uomini, incaricati di imporre al Grand-Saint-Antoine
di virare immediatamente di bordo e di spiegare le Vele lontano dalla città, pena l’affondamento a colpi di cannone. La
guerra contro la peste. L’autocrate andava per le spicce.”
Antonin Artaud, Il teatro e la peste
asPettare, o non asPettare? Questo è iL ProbLeMa
Sì, bisognava ricominciare e la peste non dimenticava
mai qualcuno troppo a lungo: durante il mese di dicembre
fiammeggiò nei petti dei nostri concittadini, accese il forno,
popolò i campi d’ombre con le mani vuote, insomma non
cessò di progredire con la sua andatura paziente e a scatti. Le
autorità avevano contato sui giorni freddi per bloccare il
cammino della peste, ma questa passava traverso i primi rigori della stagione senza disarmare. Bisognava aspettare ancora; ma non si aspetta più a forza di aspettare, e la nostra
città intera viveva senza futuro.
Camus, La peste
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Nell’ottobre 1347, Genova chiuse il porto alle proprie
galee che rientravano dalla Crimea. Erano precedute da voci
tremende. Si diceva che portavano la peste. Avrebbero scatenato violente epidemie in tutti i porti in cui avevano fatto
scalo: a Trebisonda, Costantinopoli, a Messina in Sicilia.
Marsiglia, con una bella e spregiudicata operazione commerciale, decise invece di accoglierle: così pensavano di soffiare
gli affari alla rivale Genova. Invece si presero la peste anche
loro, e quindi la diffusero in tutta Europa. Le città italiane
avrebbero potuto vantarsi di aver inventato per prime la
quarantena, le zone rosse, i cordoni e controlli sanitari, i lazzaretti in cui isolare i contagiati. Anche quella volta avrebbero potuto essere un modello per tutti. Se solo non fossero
state troppo occupate in ben altro: a farsi la guerra le une
con le altre, e anche a scannarsi al loro interno. La scuola di
medicina a Bologna era la più avanzata al mondo. Lì aveva
studiato il celebre medico che Clemente VI si era portato ad
Avignone, Guy de Chauliac (Cauliaco). Riuscì a convincere il
papa a evitare gli assembramenti (in particolare le processioni) e a far isolare i malati. Gli salvò probabilmente la vita ordinando di accendere grandi fuochi all’interno degli appartamenti papali. Se peste era, i fuochi probabilmente tennero
lontani topi e pulci, che trasmettono la malattia, anche se
all’epoca ancora nessuno poteva saperlo. Se era un qualche
virus dell’influenza, servirono a evitare malattie da raffred-
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damento. Non riuscì a salvare la vita della Laura di Petrarca,
il che gli attirò l’odio eterno del poeta, esteso a tutti i medici.
Il notaio piacentino Gabriel De Mussis è il primo a narrare di come arrivò la peste nera. Sua è la famosa descrizione di
come i Tartari, decimati dalla peste che imperversava tra le
fila dei propri soldati, prima di levare l’assedio alla colonia
genovese di Caffa sul Mar Nero, catapultassero i cadaveri
dei propri soldati morti di peste all’interno della fortezza. È
uno che avrebbe potuto fare il giornalista. Sa raccontare. È
generoso nel dare i particolari. Sembra che lui fosse lì, presente agli avvenimenti, sia fuggito da Caffa su quelle navi che
portavano il contagio, sia arrivato in porto con i superstiti…
E invece non si mosse mai da Piacenza. La sua è una versione romanzata. E pure improbabile. Anche se gli assedianti
avessero voluto praticare la guerra batteriologica, non gli sarebbe servito a nulla catapultare cadaveri. A meno che avessero avuto l’accortezza di catapultare cadaveri freschissimi, o
addirittura moribondi ma ancora in vita. La peste bubbonica
si trasmette – come si sarebbe scoperto solo a fine Ottocento
– dai topi alle pulci, e poi dalle pulci che abbandonano i topi
morti, all’uomo. Le pulci hanno bisogno di un ospite vivo,
non abitano i cadaveri. Questi li abbandonano non appena
la temperatura corporea scende al di sotto dei tredici gradi.
E anche nel caso gli fossero rimasti addosso o attaccati ai vestiti, dovrebbero trovare un ratto su cui traslocare.
La peste bubbonica non si trasmette direttamente da uomo a uomo. Lo fa solo nella variante polmonare, coi colpi di
tosse, via aerosol. Ma i cadaveri non tossiscono. A meno che
non si tratti affatto di peste, ma di un’altra diavoleria, tipo
tifo, o di un virus. In realtà l’epidemia si era presentata già
l’anno prima a Costantinopoli, porto obbligato di passaggio
dal Mar Nero al Mediterraneo. Che abbia avuto origine nelle
steppe, o dalle parti della Cina, e si sia mossa con i cavalieri
tartari è plausibile. Che in Europa sia arrivata via nave, e magari di navi genovesi, con il loro carico di merci, topi, pulci, e
compagnia bella è ben possibile. Ma cercare il paziente zero
(o l’untore zero se si vuole) della pandemia che a metà 1300
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sterminò due terzi della popolazione europea è assai più difficile che nella Lombardia di inizi 2020.
L’Italia prima della classe
Se fu infettata Piacenza, e a ruota furono investite altre
grandi città in Europa, perché invece furono risparmiate, in
quella prima esplosione della peste, negli anni 1348-49, Milano e altre città della Lombardia, a nord del Po? Una possibile risposta è quella suggerita nella Cronica di Matteo Villani, e poi accettata da diversi storici: che i Visconti, già allora
“tiranni” di Milano, presero misure aggressive, persino crudeli. Alle prime avvisaglie, l’arcivescovo Giovanni Visconti,
fratello di Luchino, designato dallo stesso come Signore Generale alla sua morte, decise che le prime tre case infettate nelle immediate vicinanze della città venissero immediatamente murate con dentro gli ammalati, che vennero lasciati
morire al loro interno. Contestualmente impose un lockdown totale della città, bloccando ogni tipo di ingresso se
non quello di merci che venivano debitamente controllate.
Milano aveva anticipato la linea della fermezza. Altri la
imitarono, senza pietà. Per i contravventori c’era la forca.
Divenne politica standard in tutta Europa. Ma l’isolamento
sociale imposto con tanta durezza non veniva accettato alla
leggera, suscitava rabbia, risentimento nei confronti delle
autorità, oltre che terrore. Ambroise Paré, il celebre barbiere
chirurgo dei re di Francia, nota nel suo Traicté de la peste: de
la petite verolle & rougeolle: avec vne brefe description de la
lepre (1568): “Questa malattia rende dappertutto l’uomo
così miserabile che, non appena viene sospettato, la sua casa
(che sino a quel momento era per lui il luogo più libero e sicuro) gli serve da crudele prigione: infatti lo si chiude dentro
senza che ne possa uscire, né può alcuno entrare per soccorrerlo”.
La prima reazione delle autorità in genere è negare che ci
sia la peste, minimizzare, attribuire i decessi a “febbri” non
bene specificate. Poi, una volta “pubblicato” che proprio di
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peste si tratta, spesso quando è già troppo tardi, si tende ad
applicare quello che uno studioso ha definito “terrore sanitario”. I sospetti ammalati vengono “inchiavardati” dentro le
rispettive abitazioni, o dovunque malauguratamente si trovino in quel momento, vengono appostate per strada guardie
perché nessuno sfugga. I ricchi e i potenti, gli istruiti, quelli
che hanno seconde case e possono comprare le guardie fuggono lo stesso, applicano la massima attribuita a Galeno: Cito, longe fugeas et tarde redeas, fuggi presto e lontano, torna
tardi. Portano spesso con sé i propri servitori. Interi quartieri della Londra del Seicento finiscono abitati solo da poveri.
Non hanno comunque altra scelta. Mugugnano, protestano,
talvolta si ribellano. C’è un’intera branca di letteratura e di
pamphlettistica popolare che lamenta “tempi in cui viene
considerato un crimine imperdonabile far visita a un amico
malato, è colpa l’amore e peccato la carità”, dà voce alla rabbia contro la “crudeltà” del governo.
Il quale governo, spesso e volentieri, incolpa della diffusione del contagio i poveri e gli ignoranti che non obbediscono alle regole. Si dà anche, bisogna dirlo, parecchio da fare
per assistere chi fa più fatica a campare, e per allestire pesthouses, ricoveri in cui alloggiare chi si è ammalato e chi ha
avuto contatti con gli ammalati e quindi si ritiene possa ammalarsi, facendo anche attenzione a tenere separate le due
categorie. Ma poi una direttiva riservata, non pubblica, del
Privy Council, ovvero del gabinetto di Sua Maestà, in pratica
il Consiglio dei ministri, decide che chi non rispetta le regole
vada punito col mandarli a stare assieme agli appestati. Altra
curiosità, tra i verbali del Privy Council setacciati dalla studiosa di Yale Kira Newman: “nel 1636 erano preoccupati sì
della peste, dell’andamento dei contagi e delle misure sanitarie, ma dedicavano un tempo assai maggiore a discutere di
altro: dai sussidi all’industria del sapone ai negoziati sul commercio con la Francia”.
Succede a Venezia e Padova. Succede a Firenze. Succede
in Francia. Succede nella Londra del 1636 poi in quella del
1665. Ma è facile corrompere le guardie e far sì che si voltino
dall’altra parte. Qualche guardia viene impiccata per questo.
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I “marcatori” appongono gran croci a vernice bianca in
Francia, rossa in Inghilterra, e aggiunta la scritta “Lord, Have Mercy Upon Us, Dio abbia pietà di noi”. Croce anche sulle case dove tutti erano già morti, ma senza iscrizioni. Porte e
finestre vengono sigillate con sbarre di ferro. Nel Sud della
Francia lo chiamano asper, gli archivi dell’un tempo fiorente
città mercato di Agen conservano il contratto di un fabbro
che riceveva la somma di 25 lire al mese per “asper” le case
in tempo di epidemia. Un altro documento rivela che un certo Gabriel Faure, fabbro di serramenta, mise 6.012 “aspes”
nell’agosto 1653. In Bretagna la chiamano serrade.
Le prime misure drastiche e impopolari imposte dal Visconti nel 1348 non impedirono comunque che la peste arrivasse anche a Milano un decennio dopo, negli anni 1361-63.
È una cosa notata da tutti i cronisti: non basta scamparla nel
momento in cui più infuria. Non perdona le disattenzioni.
Può tornare, ripassare dai luoghi che aveva risparmiato,
quando meno la si aspetta. Nella primavera del 1361 Petrarca si trovava a Milano. Se ne fuggì via. Lasciando in città il
figlio, che non voleva seguirlo. Questi morì il 10 luglio 1361,
che aveva trentasei anni. La notizia fu comunicata qualche
giorno dopo al padre che si trovava a Padova. Il dolore e forse il rimorso Petrarca li ha affidati a una nota manoscritta a
margine della sua copia di Virgilio, oggi custodita all’Ambrosiana: “Il nostro Giovanni, nato per il mio tormento e il
mio dolore, da vivo mi ha afflitto con gravi e continue preoccupazioni e da morto mi ha colpito con un acuto dolore, lui
che ha trascorso pochi giorni lieti in vita sua […]. Morì a
Milano nella strage inaudita provocata dalla peste che fino
ad ora aveva lasciato quella città indenne da questo male, ma
ora l’ha trovata e l’ha invasa”.
Altre città italiane presero, chi presto, chi più tardi, misure sanitarie. Che poi furono imitate nel resto dell’Europa.
Boccaccio cita, per la peste del 1348, tra i “molti consigli dati
a conservazione della sanità”, che “fu da molte immondizie
purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati” e che fu “vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo”. Insomma igiene e
isolamento da contagi dall’esterno. In effetti dovevano esse129
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re piuttosto sozze le città italiane di quei tempi. Petrarca in
una delle Senili (Libro XIV,1) scrive a Francesco Carrara, signore di Padova, per attirare la sua attenzione su una cosa
che lui stesso si rende conto essere “per se stessa veramente
ridicola”: maiali che razzolano per le vie, la città “così splendida e gloriosa” ridotta a porcile, imbrattata dagli escrementi, deturpata in modo “ributtante e schifoso”, coi cittadini
ormai assuefatti che sopportano con indifferenza la “turpe
vista”, mentre “i forestieri ne prendono scandalo e meraviglia”. Non vale che ci siano regolamenti municipali, nessuno
più osserva nemmeno le antiche leggi romane, figurarsi i regolamenti municipali. Per cui bisogna assolutamente che chi
governa la città ne procuri l’osservanza, di modo che “imparino a loro spese questi porcai cittadini, che chi possiede
quegli immondi animali deve pascerli nei campi, e se campi
non ne ha, li tenga chiusi dentro casa…”. Mi sembra di sentire mia moglie, quando pesta una cacca di cane per le vie di
Roma.
Lo sforzo continuava, secolo dopo secolo. Eppure il contagio ritornava. “Essendo la schifezza madre della corruzione, e questa della peste, le strade continuamente si spazzavano per tener la città pulita,” scrive Francesco Rondinelli,
nella sua Relazione del contagio stato in Firenze l’anno 1630 e
1633. Come per altre pesti antiche, anche in quella occasione
medici e autorità sanitarie non erano sicuri se si trattasse di
peste, di tifo, o di qualcos’altro. Arrivarono alla conclusione
che si trattava di un mix tra le diverse malattie. C’erano diverse scuole, i “contagionisti”, per i quali bisognava soprattutto impedire che la pestilenza si diffondesse, e gli “ambientalisti”, per i quali la priorità era igienizzare e sanificare. In
qualche modo avevano ragione entrambi. Si potrebbe dire
che le due scuole di pensiero rispuntarono in modo simile
anche quando si scoprirono i batteri, i virus e i meccanismi
di diffusione del contagio. A ben vedere questa divisione tra
gli esperti torna, ovviamente in forme nuove, anche oggi.
Comunque sia, ci si diede da fare per liberarsi dalla “schifezza”.
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Dalli ai poveracci: infastidiscono
La “schifezza” includeva i soliti “brutti, sporchi e cattivi”, cioè i poveracci. Durante l’epidemia del 1630 a Firenze
le autorità di Sanità attribuivano la colpa del crescente numero di malati alla “mala vita fatta da alcuni poveri mendichi
[…] che hanno messo la città in bisbiglio”. Per cui “ordinorno a birri che terranno purgata la città de’ poveri”. “Si nettò
la Città de i poveri, i quali vanno accattando, col metterli tutti in luogo separato fuor di porta,” riferisce il Rondinelli.
Anche questo sa di déjà vu. Così come sembrano scene
viste ieri, o lette su un giornale o un blog della Padania, quelle narrate dal cancelliere e titolare dell’ufficio di Sanità di
Bergamo, l’anno prima che arrivasse la peste, ma che c’era
stata una tremenda carestia per cui torme di questuanti provenienti dalle valli (non stranieri né migranti) si riversarono
in città:
“Indicibile era la mestizia e inesplicabile la molestia che
l’importunità di costoro recava: i negotî venivano interrotti, le devozioni traviate e disturbati i domestici riposi. Le
strade, le logge, i fori, i tempî ed ogni pubblico loco era da
sozzi questuanti occupato: nulla valeva lo star rinchiuso in
casa per lo sfuggimento di cotanta importunità, poiché a
tutte l’hore di giorno ed anco di notte, entro i più secreti
gabinetti penetravano querele, voci e s’udiva in ogni parte
un continuo picchiar di porte; dar un passo non si poteva
né dappresso né da lontano entro il recinto della fortezza
che di subito non si urtasse in qualche torma di questi importuni che, importunamente, senza alcun minimo riguardo, assalivano chi loro veniva avanti addimandando elemosina”. (L. Ghirardelli, Il memorando contagio seguito in
Bergamo l’anno 1630. Historia scritta d’ordine pubblico, in
Bergamo 1681, per i fratelli Rossi. L’autore, cancelliere della città e dell’ufficio di Sanità, non riuscì a vedere pubblicata in vita quest’opera che è la più vasta tra quelle relative
allo Stato veneto).
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I primi commissari straordinari
A Venezia, importante porto mercantile, quindi particolarmente esposta al contagio che arriva via mare dall’oriente,
la peste arriva nell’autunno del 1347, quindi prima ancora
che a Firenze. La morìa è spaventosa, periscono non solo i
poveracci che si erano ammassati in città provenienti dall’entroterra devastato quell’anno dai terremoti e dalla carestia,
ma anche i nobili. Dei 1250 patrizi che compongono il Maggior Consiglio, ne sopravvivono solo duecentonovantuno, e
cinquanta famiglie addirittura si estinguono. Si corre ai ripari. La medicina è impotente. Già il 30 marzo 1348 il Maggior
Consiglio istituisce una nuova magistratura plenipotenziaria
per il tempo di pandemia, composta da tre “sapientes” che
hanno il compito di mettere in opera tutte le misure che ritengano necessarie per la tutela della salute pubblica (diligenter super omni modo et via quod videretur eis pro conservatione salutis). Sono i primi commissari speciali. Chiudono le
locande, sospendono le processioni, rimpiazzano i funzionari deceduti, liberano i prigionieri perché vengano utilizzati a
portar via i cadaveri insepolti. Non sono medici, sono burocrati. Il Senato decide una serie di provvedimenti per la ripresa: liberare i prigionieri per debiti, abolire certe tasse
sull’iscrizione alle corporazioni, bandire le manifestazioni di
lutto, considerate inopportune in quanto deprimono il morale e incoraggiano l’inattività e, per ripristinare i ranghi lasciati vuoti nella manodopera e nell’amministrazione, decide
pure di incoraggiare l’immigrazione, e facilitare l’accesso alla
cittadinanza veneziana.
Un secolo dopo, nel 1440, con l’epidemia che va e viene
in continuazione, viene istituita un’altra commissione, sempre di tre saggi, incaricata di prendere anche provvedimenti
specificamente sanitari, individuare ciò che corrompe l’aria a
Venezia (omnia quae habent corrumpere aeres) e di affidarsi
all’esperienza dei medici dell’Università di Padova (illos medicos qui intelligentes eis videantur). Nel 1459 la troika diventa permanente, ma dipende finanziariamente dal Magistrato del Sale e, quanto al computo dei decessi, spetta ai
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Signori della Notte, una magistratura di polizia notturna che
si occupa anche delle prostitute. Il contagio continua, a intermittenza. Finché vengono istituiti dei nuovi plenipotenziari, i Provveditori alla Sanità. “Niuno è il qual non intendi
quanti incomodi jacture et danni habi sostenuto questa nostra cità, si per privato come per publico rispeto per la peste,
la qual nella passata estate così crudelmente in quella regnò
et al presente regnar non cessa”, questa la motivazione del
provvedimento. Sono sempre tre. Senza stipendio, come tutte le magistrature veneziane, appannaggio dei nobili, “ricchi
di famiglia” che non dovrebbero lasciarsi corrompere.
Che cuccagna!
Nel 1423 era stato istituito il primo Lazzaretto. Così chiamato non si sa se perché sull’isolotto che ospitava il convento di Santa Maria di Nazareth (a Nazarethum), o perché ci finivano i poveri lazaros, in spagnolo (da cui anche lazzarone,
in napoletano). Di come si stava nei Lazzaretti abbiamo testimonianze discordanti. Ad esempio, Francesco Sansovino,
figlio dell’architetto, il quale ringrazia e dipinge un quadro
quasi idilliaco della quarantena al Lazzaretto nuovo: ai nuovi
arrivati gli si diceva che stessero allegri, che si mangiava gratis e non si doveva lavorare, come al paese di Cuccagna; ma
era ben in vista anche una forca, a monito di coloro che avessero l’idea di svignarsela, violando l’isolamento forzoso:
[…] Fu fatto l’anno 1468, un altro Lazzareto chiamato nuovo, per
esser posteriore in fabbrica al vecchio, con 100 camere […] ma vi
vanno solamente i sani essendosi mescolati con gli infermi, dubitando di qualche contagio, si ritirano a quello luogo & vi fanno contumacia di 22 giorni. La qualcosa havendo io conosciuta per prova con
mio gravissimo danno per la morte di Aurora mia figlioletta di 11
anni, et per lo disturbo di Benedetta Misocca mia consorte, allora
che fu la peste, l’anno 1576, mi piace di raccontar […], qual sia la
singolar carità dei nostri padri e signori verso il popolo […]. Erano
adunque da 8 in 10 mila persone in 3 mila o più barche. A tutti quelli per la maggior parte poveri (perciocché vi erano ancora diversi
Nobili & cittadini, che vivevano a spese proprie) & spogliati dei loro
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beni infetti, lasciati A Venezia, si dava la spesa del pubblico per 22
giorni […]. Il numero di tanti legni così piccioli come […] avea sembianza d’armata che assediava la città di mare. Si vedeva in alto una
bandiera, oltre alla quale non era lecito di passare, & poco presso
era la forca, per castigo di coloro che non avessero obbedito a comandamenti […].
La mattina a hora competente comparivano i visitatori, i quali andando a barca per barca, intendevano se vi era alcuno ammalato: &
trovandogli mandavano al Lazzaretto Vecchio. Non molto dopo apparivano altri barchi di pane, di carne cotta, di pesce & di vino [… e
ai nuovi arrivati gli dicevano] che stessero di buon animo, perché
non vi si lavorava ed erano nel paese di Cucagna […]. Francesco
Sansovino, Venetia, città nobilissima, et singolare, 1663.
Il notaio veneziano Rocco Benedetti, testimone della stessa peste del
1576, dice invece del Lazzaretto dove venivano inviati gli appestati
accertati che “Rassembrava ad un inferno”:
“Si vedevano da tutte le hore, nuvoli di fumo stendersi in aere per
l’abrusciar de corpi. Ne stavan tre o quattro per letto. Non facevasi
altro che levar morti dai letti e gettarli nelle fosse che di quei che si
trovavano in agonia o a star intronati senza parlar né muoversi veniano come spediti da pizigamorti [becchini], levati e slanciati sopra il
monte dei cadaveri”. (Novi avisi di Venetia, ne’ quali si contengono
tutti i casi miserabili, ecc. ,1577)”.
Analoga l’immagine da girone infernale riferita da un altro cronista
contemporaneo, il veronese Alessandro Canobbio per Padova:
“Dillo smorbare, & dal bruciare de mobili infetti si vedeva per
tutta la Città una caligine di fumo molto spiacevole, & una puzza
insopportabile, la quale continuò per più di quattro mesi; & a
punto non vi mancava altro per fare complete le miserie; poscia
che da i pianti, & da sospiri, & dal vedere gettare i morti a guisa
di bestie sopra i carri, & dal vedere quei Smorbatori tutti neri con
fiaccole accese in mano, le quali perché ardessero ben spesso erano coperte di pece, si che questa infelice Città più rassembrava
luogo de dannati & luogo di pene in altra vita, che a Città di questo mondo”. II successo della peste occorsa in Padova nell’anno
MDLXXVI.
Sempre al Canobbio piange il cuore a vedere abbruciare tanto ben di
dio, ma la pena per chi raccoglie o distribuisce la roba infetta è la
morte: “E ben vero che di principio del male si ritrovavano di bellissimi mobili per la strada, che tutti furono giudicati infetti, & per ciò
che per la maggior parte si abbrucciarono & fu fatta legge con pena
capitale à chi ciò andasse seminando & altre pure à chi trovate le pigliasse.
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Distanza 2 braccia e lavarsi spesso le mani
Venezia, prima a istituire la quarantena e il distanziamento, è anche la prima a imporre regole e punizioni severissime
ai trasgressori. Le leggi di Sanità della Repubblica di Venezia
elencate nella monumentale raccolta in più volumi da Nelli-Elena Vanzan Marchini vietano, pena la morte, di uscire
dalle case infette e messe in quarantena: “Vietato a chiunque
l’uscir dalle case infette quali sono chiuse et interdette, posse
essere ammazzato impunemente” (1511). Ma concedono
che alle persone ivi rinchiuse si possa parlare, purché si rispetti un distanziamento di almeno due braccia, grosso modo quello consigliato per il Covid: “Proibito l’approssimarsi
alle case serrate, permesso il parlare con le persone in esse
rinchiuse, ma nella distanza di due braccia; fuggitivi dalle
stesse siano banditi, retenuti in contraffazion di bando, siano
impiccati” (1528). Espulsione forzata, sotto pena di morte,
anche per i mercanti di panni giunti dalla vicina Padova,
benché sia territorio della Serenissima: “Padovani esercenti
lanificio et arrivati in questa città già un mese, partano tosto
in pena di forca […]” (1528).
La prescritta distanza di sicurezza di due braccia è canonica. Torna ad esempio in Marsilio Ficino, il quale distingue
tra distanza necessaria in luogo aperto, 2 braccia, e maggiore
distanza necessaria in altre circostanze, “quando è di sospetto”, o quando, anche all’aperto, soffi vento contrario: “[…]
quando conversi, stia discosto dal compagno due braccia al
meno, & al luogo aperto, & quando è di sospetto stia etiam
più lungi almeno sei braccia, & allo scoperto, & fa che il vento non venga da lui inverso a te”.
(Marsilio Ficino), Contro la peste, 1576. Non abbiamo
proprio inventato nulla.
Quanto alla mascherina, allora non era obbligatoria, ma
caldamente consigliata. In una tavola del Fasciculo de Medicina attribuito a Johannes de Ketham (Venezia 1493) si vede
un medico che visita un ammalato, presumibilmente appestato, tastandogli con la destra il polso e schiacciandosi con
la sinistra sul proprio naso una spugna imbevuta di aceto,
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mentre un fante regge con una mano un cero acceso contro i
cattivi odori, e con l’altra un turibolo di profumi odorosi. La
concezione dominante era che il contagio provenisse dai
miasmi, dall’aria infetta, e che gli appestati divenivano una
specie di serbatoio di effluvi velenosi esalati con la traspirazione e la respirazione. Da cui la necessità di turarsi il naso.
L’aceto era un preservativo che andava a ruba, manco fosse
amuchina o gel disinfettante. I negozi esponevano ciotole
piene di aceto in cui depositare i soldi, e magari immergere le
dita. Giovanni Dondi dell’Orologio, uno dei pochi medici di
cui il Petrarca si dice “amico”, nel manoscritto nel codice di
fine 1400 Modus vivendi tempore pestilentiali, raccomanda
di lavarsi spesso mani, polsi e tempie con aceto, oltre che di
aggiungerlo a ogni piatto. Il siciliano Ingrassia, nel 1576, raccomanda di lavarsi “tutti bene, con acqua calda, over liscia,
nella quale siano state cotte viole, rosmarino, lauro, cipresso,
foglie, & scorse di cedri, o almen di narancio, o di limoni,
maggiorana, mortella, basilico, scorse di pomi, o tutte queste
cose, o la maggior parte, aggiungendovi ancor vino & aceto”.
C’è una globalizzazione dei consigli e dei rimedi da un
capo all’altro d’Europa. “Ciascuno deve fare attenzione a
non frequentare luoghi o persone infette, né consentire che
questi gli respirino addosso […],” raccomanda Thomas Lodge, medico e scrittore di drammi contemporaneo di Shakespeare, nel suo popolarissimo Treatise of the Plague pubblicato a Londra nel 1603. Ma dichiaratamente i consigli sono
copiati di sana pianta da un trattato del medico francese
François Vallériole, che a sua volta è una compilazione di testi spagnoli e italiani. Oltre alla solita profumeria (“profumare giorno e notte casa e stanze con fumi di rosmarino, ginepro, rose secche, lavanda e simili”), Lodge raccomanda in
modo particolare di “lavarsi le mani, la fronte e le narici”,
ovviamente con acqua profumata. E invita tutti a non prendere sottogamba le norme decise dalle autorità cittadine:
“Le regole e la diligente osservanza di esse sono necessarie
oltre che profittevoli, perché la malattia, la peste e il contagio
sono la rovina delle città che invadono”.
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La misura di prevenzione principale (e più semplice) restava comunque il distanziamento. Nel Ragionamento sopra
le infermità che vengono dall’aere pestilenziale del presente
anno MDLV (Venezia 1555) Niccolò Massa consiglia di segnalare i sospetti appestati con fazzoletti bianchi al collo, in
modo da non essere avvicinati dai sani. Perché no, già segnalavano gli ebrei con un contrassegno giallo. Ma non sappiamo se il consiglio abbia mai funzionato, così come non sappiamo che efficacia abbia avuto l’App Sicuri, di cui non si è
più sentito quasi più parlare. Comunque non era scaricabile
su metà dei telefonini in uso, quelli con sistemi operativi un
pochino più vecchi.
Le minacce di pene ai trasgressori non erano retoriche e
solo iperboliche come quelle del governatore della Campania ai giorni nostri. La Repubblica aveva un armamentario
straordinario di strumenti di tortura e di esecuzioni capitali.
Che veniva anche usato e non si limitava a fungere da deterrente. Lo documenta efficacemente la mostra «Venice Secrets. Crime & Justice», su cinque piani e trentasei sale di
Palazzo Zaguri, in campo San Maurizio, inaugurata giusto
alla vigilia del lockdown per Covid. La violazione degli ordini di restare tappati in casa e di rispettare il distanziamento si
accompagnò alla repressione degli “untori”, accusati di
spandere deliberatamente il contagio. La peste non se ne andava, dava qualche tempo di tregua, poi tornava, in ondate
successive, distanziate anche decenni. La ferocia pubblica
nel reprimere le trasgressioni, vere o immaginate che fossero,
suscitava risentimenti, ma godeva probabilmente di un forte
sostegno popolare, specie quando si rivelava di qualche efficacia.
Il paziente zero non veniva dall’Oriente
C’è chi ritiene di aver individuato i pazienti zero della peste che fece cinquantamila morti, su una popolazione di centottantamila, nella Venezia del 1575 e anni successivi. Hanno
nome e cognome. Lui si chiamava Matteo Farcinatore, lei
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Lucia Cadorina. Erano due valligiani, provenienti da un paesino vicino a Trento. Erano venuti, assieme al figlio, a trovare
il signor Vincenzo Franceschi, che abitava nei pressi di Campo San Marziale. Qui lui si ammalò, infettò la propria famiglia, poi contagiò la famiglia che li ospitava. Di lì la peste si
propagò per tutta Venezia. Come avevano fatto a beccarsi la
peste in un paesino di montagna? Probabilmente a una fiera.
Alessandro Canobbio ritiene probabile che il focolaio originario della peste che colpì Venezia, e poi, secondo lui, da
Venezia passò a Padova, si fosse sviluppato nella fiera annuale che si teneva a giugno a Trento, e che probabilmente fu
frequentata dai due valligiani che portarono l’infezione nella
città lagunare. Era tradizione tenere ogni anno quattro grandi fiere, che duravano tra gli otto e i dieci giorni: quella di
San Giovanni Battista, che si teneva appunto a giugno, poi
quella di San Matteo, a settembre, di San Gallo in ottobre e
di San Vigilio in novembre.
Se poi la peste fosse già presente in focolai dormienti alimentati da roditori selvatici locali, come si può ipotizzare
per molte epidemie che colpirono o passarono, se non addirittura originarono da vallate alpine, oppure fosse stata portata per le vie commerciali provenienti da Est (da Costantinopoli o dai Balcani), oppure da Nord (dalla Germania),
non si può sapere. Così come non si è mai riusciti ad appurare se il paziente zero del contagio che ha decimato Alzano
Lombardo, la Val Seriana e la Bergamasca, fosse qualcuno
che era stato in Cina, o avesse avuto contatti con persone
provenienti dalla Cina, oppure il virus sia invece arrivato
dalla Germania. L’unica cosa sicura è che gli affollamenti,
quali si verificano ad esempio a una fiera, in cui per giorni e
giorni affluiscono mercanti, artigiani, facchini, osti, clienti,
curiosi, che si stringono addosso gli uni agli altri, si scambiano strette di mano e denaro contante, mangiano a contatto di
gomito, e magari sputano dove mangeranno altri, sono il modo migliore per diffondere il contagio.
Scoppiata la peste, il Senato veneziano aveva proibito la
successiva grande fiera annuale d’agosto a Bergamo, punto
di incontro di mercanti veneti, lombardi, svizzeri e tedeschi.
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Ma deputati e anziani della città convinsero i rettori a far annullare il decreto governativo: il denaro maneggiato negli affari – dicevano nella supplica – era di oltre un milione in oro
e i suoi benefici si spandevano ovunque. Il decreto avrebbe
rovinato gli imprenditori e i commercianti locali “le quali
tutte si fabbricano nelle montagne e valli di questo territorio,
che si sostentano appunto con la loro industria”. Vi ricorda
le argomentazioni di qualche pressione più recente per non
far chiudere le industrie nella Bergamasca, o gli stabilimenti
della movida danzante?
Fu forse una ragione di Stato diplomatica a causare la
successiva Gran peste a Venezia del 1630. Le rigide, ormai
ben collaudate regole di prevenzione vennero violate per il
marchese De Strigis, ambasciatore del Ducato di Mantova,
che non voleva stare al Lazzaretto e ottenne invece di essere
confinato in quarantena nell’isola di San Clemente. Il falegname che andò a sistemare i suoi alloggiamenti portò la peste a Venezia, causando la morte di un abitante su quattro.
Così racconta Nelli-Elena Vanzan Marchini, grande esperta
degli archivi veneziani, nonché eccellente affabulatrice. Da
allora in poi le autorità veneziane (cui poi subentrarono
quelle austriache) furono inflessibili. Il cordone sanitario attorno alla città lagunare fu rafforzato. Gli accesi da terra e da
mare erano un numero limitato e facilmente sorvegliabili.
Venivano presidiati da ufficiali di sanità che avevano ai loro
comandi guardie armate e anche i capitani di tutte le altre
magistrature, che pattugliavano per riscuotere i dazi, controllare eventuali andirivieni di banditi e fuorusciti, contrastare il contrabbando. Avvistata una nave, le veniva inviata
una scialuppa armata per prelevare il capitano e condurlo
all’Ufficio di Sanità, presso la Zecca, dove, in un’apposita
stanza, veniva interrogato a debita distanza dal segretario affacciato a una finestrella. Venivano esaminati i libri di carico
delle merci e le Fedi di Sanità di tutti i viaggiatori. Il capitano
poteva mentire e falsificare i documenti. Ma a suo rischio
perché notoriamente la Serenissima possedeva in tutti i porti
del Mediterraneo la più formidabile rete di spionaggio che ci
sia mai stata.
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In caso di problemi equipaggi, merci e passeggeri venivano inviati per la “quarantena” al Lazzaretto. L’espurgo delle
navi e del loro contenuto era un business importante, ma regolamentato da norme severe. Le merci venivano espurgate
da bastazzi, cioè da facchini esperti nel trattamento delle
mercanzie, che venivano estratti a sorte. Ad esempio, i tappeti venivano stesi e coperti di sabbia, le balle di lana e cotone aperte ed esposte al sole, le cere immerse in acqua salata,
gli animali pennuti e lanuti trattati con acqua e aceto, le lettere fumigate. I priori, cioè i direttori responsabili dei diversi
settori di contumacia, non potevano avere rapporti di parentela con altri dipendenti del Magistrato di Sanità, né alcun
interesse in attività mercantili o commerciali, avevano l’obbligo di risiedere nel Lazzaretto, erano stipendiati annualmente, e all’inizio del loro mandato dovevano addirittura
versare una caparra di 1000 ducati a garanzia della propria
onestà.
Va da sé che, malgrado regole e precauzioni, c’era tra i
guardiani chi chiudeva un occhio in cambio di danaro. Nel
1719 ad esempio furono condannati al bando perpetuo, alla
confisca dei beni e all’esecuzione capitale tre guardiani di Sanità che sottraevano balle di tabacco per rivenderle. Se la cavarono con la fuga. Il 21 marzo 1751 fu invece pubblicamente giustiziato il marangon (falegname, marangoz in turco)
Francesco Lorenzoni. Incaricato di eseguire lavori di restauro, aveva cercato di sottrarre quaranta masse di seta provenienti da Costantinopoli. Pesci piccoli. La cosa strana è che
non risultano processi a carico di personalità e alti funzionari. Comunque questo avveniva dopo il caso di Marsiglia, dove nel 1720 erano state le ragioni del commercio, e ancora
una volta una grande fiera, quella di Beaucaire, in Provenza,
e la fregola di mandarvi merci che erano state sbarcate clandestinamente in barba alle misure sanitarie e di quarantena,
a produrre l’ultima grande epidemia assassina di peste in Europa.
A metà del Cinquecento tutte le principali città del Nord
Italia avevano le loro Magistrature della Sanità pubblica.
“Sulla scorta dell’esempio italiano, si ebbero sviluppi analo140
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ghi a nord delle Alpi, ma fuori d’Italia le organizzazioni sanitarie rimasero a un livello più primitivo per tutto il Cinquecento e il Seicento. All’interno della stessa penisola italiana, a
sud di Firenze gli sviluppi furono tardivi e le organizzazioni
per la sanità rimasero relativamente rudimentali,” riassume
Carlo M. Cipolla, che ha studiato l’argomento documentandosi minuziosamente negli Archivi ed esponendo i risultati
della sua ricerca con piglio da grande scrittore, direi anzi romanziere. Cita ad esempio l’ambasciatore fiorentino il quale
riferiva nel 1628 che a Roma “tali ufficiali [i magistrati della
Sanità] non vi sono e che li Conservatori di Roma, ch’è il magistrato della città, soglion deputare questi uficiali sopra la
sanità in tempo solamente di sospetto di contagio”. Ci sono
molte ragioni per cui l’Italia è ancora sostanzialmente divisa
in due, tra Nord e Sud. Che il diverso atteggiamento sulla
Sanità (e la prevenzione delle epidemie) sia una di queste? O
dobbiamo compiacerci che l’esperienza del Covid abbia mostrato una sorta di accorciamento delle distanze, nel senso
che l’incuria, l’insipienza, il prevalere delle pressioni economiche, dell’ansia di non far perdere guadagni hanno pesato
più della preoccupazione per la salute e la vita della gente?
Altre cose, come il rimpallarsi delle responsabilità da Regione a Regione, da autorità centrale ad autorità locale e viceversa, non paiono essere cambiate. Un capitolo molto documentato e divertente de Il pestifero e contagioso morbo di
Carlo M. Cipolla è dedicato alle defatiganti discussioni che si
svolsero nel 1652 tra l’ambasciatore inviato dalla Magistratura suprema della Sanità del Granducato di Toscana, con sede
a Firenze e la Città di Genova, su quali delle due potenze
dovesse per prima levare il bando alle merci provenienti
dall’altra o dai rispettivi domini in Sardegna e in Corsica.
Erano sul punto di farsi la guerra, poi raggiunsero un accordo. Ma non riuscirono a convincere Napoli spagnola e Roma
del papa a concertare anche loro le misure preventive. Più
poteva la concorrenza commerciale.
“Bando e sospensione erano termini tecnici usati comunemente per indicare l›interruzione del commercio delle comunicazioni regolari. Né persone, né imbarcazioni, né mer141
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canzie, né lettere provenienti da un’area bandita o sospesa
potevano entrare nel territorio dello Stato che aveva pronunciato il bando, tranne che in alcuni porti o varchi di ingresso
ben specificati, dove erano state istituite delle stazioni di
quarantena. Presso tali stazioni persone, imbarcazioni e mercanzie in arrivo erano sottoposte alla quarantena nella disinfezione, anche quando recassero certificazioni sanitarie rilasciate dai luoghi di partenza. Nei casi di pericolo eccezionale
le autorità si riservavano il diritto di rifiutare di ammettere
persone, imbarcazioni e mercanzie persino alle stazioni di
quarantena. Coloro che violavano il bando o la sospensione,
che stessero tentando di entrare surrettiziamente nel territorio che aveva pronunciato il bando, o di introdurvi surrettiziamente delle merci, venivano considerati ‘banditi’ ed erano
soggetti per questo alla pena capitale,»”, spiega Carlo. M.
Cipolla ne Il pestifero e contagioso morbo.
La prima quarantena fu messa in atto sull’Adriatico, a
Ragusa, nel 1377. Seguì Venezia, che, come d’abitudine, volle accaparrarsi il primato dell’invenzione. Le merci erano anch’esse sballate e sottoposte alla purificazione all’aria e al sole. Ma non appena si ha a che fare con un provvedimento
che non garba si trova il modo di aggirarlo. Le Bollette di
sanità, l’equivalente antico delle “autocertificazioni” di fresca memoria, venivano spesso e volentieri falsificate. Talvolta
a fin di bene. Ne Chi ruppe i rastelli (attenzione: rastelli, no
rastrelli) a Monte Lupo Cipolla racconta come padre Antonio Dragoni, il prete locale che faceva funzioni di commissario alla Sanità, pur essendo ligissimo alle leggi, avesse chiesto
e ottenuto sbirri per far applicare le disposizioni, supplicasse
le autorità superiori di essere un pochino più elastici sui lasciapassare perché la povertà del luogo era giunta a un limite
insopportabile. Tra gli argomenti, la constatazione che se
non gli si dà tregua se la prenderanno comunque: “A ogni
modo entrano [in Firenze] una gran parte con bullette false
procacciate da questi preti del contorno che hanno l’autorità
di farle”. E avanti tira e molla. Finché successe il “pasticcio”
grosso della processione non autorizzata, della forzatura dei
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sigilli e della resistenza ai pubblici ufficiali che volevano far
rispettare il divieto di assembramento.
“Le guardie [prese a male parole dalla folla] fecero finta
di non sentire e non vedere. Loro compito era quello di ‘non
lasciare entrare in chiesa donne e ragazzi che non havevano
voluto obbedire al bando’. Non si riusciva a tenerli in casa:
che almen non si pigiassero nella chiesa. Il prete però s’andava via via più riscaldando e visto che le guardie non si partivano a un certo punto […testimonierà l’ufficiale] Li dissi
che ero mandato dalli Ministri della Sanità per levare il concorso di donne e ragazzi. Allora rispose il reverendo suddetto che ci levassimo di quivi e lasciassimo andare ogni persona; che il suo popolo ce lo voleva tutto e che non voleva
mandar via persona e se non ci partivamo che ci harebbono
fatto partire con l’archibusate.” “‘Che il suo popolo ce lo voleva tutto’. I demagoghi, quando vogliono fare i loro comodi
[e come vedremo in seguito, sulla base di una lettera del
commissario Sacchetti, don Antonio voleva fare il suo comodo] – i demagoghi, dico, quando vogliono fare i loro comodi
tirano sempre in ballo il popolo, strumentalizzandolo, come
s’usa dire oggi.”
Oro, fuoco, forca
“Ignis, furca, aurum sunt medicina mali”, fuoco, forca,
oro, sono i rimedi alla pandemia, scriveva il medico siciliano
Giovanni Filippo Ingrassia, nel riassumere il modo in cui fu
affrontata la peste del 1575-1576 a Palermo. Il fuoco sono le
misure igieniche e sanitarie, la forca è la determinazione a
farle prendere sul serio e rispettare, l’oro sono le risorse finanziarie, senza le quali non si riuscirebbe a fare nulla, nemmeno le prime due cose. Un secolo dopo il medico napoletano Geronimo Gatta precisa: “Tocca servirsi del fuoco primo,
senza mirar a interesse di questo e di quell’altro mercante
che sogliono col loro tragitto di merci da contaggiati luoghi
entrodur il contaggio […] e dar quelle alle fiamme non
ostante di valute e pretiose […]. Dell’oro deve servirsi chi
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governa, con stipendio di spie e guardie acciò con il maggior
rigore e fedeltà possibile si proceda in casi di sospetto […].
Servitosi chi governa dei due primi instromenti fuoco e oro,
dee anco ricorrere al terzo, cioè alle forche e con supplicii di
morte castigar transgressori, occulti nemici de’ popoli e de’
medesimi principi” (Di una gravissima peste che nella passata
Primavera, e Estate dell’anno 1656 depopulò la città di Napoli
[…], 1659).
Le misure adottate dalle città italiane contro il contagio
non erano solo un modello per il resto dell’Europa. Erano
anche, a giudizio di molti storici, un primo abbozzo di Sanità
pubblica. Con in embrione tutti i pregi e i difetti. L’amministrazione e la contabilità degli enti ospedalieri passò progressivamente alle autorità cittadine, anche se carità e assistenza
restavano affidate soprattutto alleopere religiose e di categoria. Un corollario era che i medici, dipendenti dalle autorità
politiche, tendevano ad assecondare il potere, a seguire piuttosto che a sollecitare. A sud di Firenze rimasero in genere
più arretrati che nel Nord Italia. Con qualche eccezione
però. Ad esempio il modo in cui fu gestita l’emergenza peste
a Palermo nel 1576. A volte la differenza la fanno anche gli
uomini. L’uomo che godeva della fiducia del Luogotenente
del Regno, anche perché era il suo medico di famiglia, si
chiamava Giovanni Filippo Ingrassia, aveva studiato a Padova. Anche se di fronte ai primi casi fece come fan tutti, negò
che si trattasse di “vera peste”, poi si corresse, adottando misure drastiche. Non si fece distrarre né dalle teorie per cui
dipendeva dalle congiunzioni, “influenze” astrali, né dalla
teorica dei “miasmi”, né dai suggerimenti che si trattasse di
“peste manufatta”, di mano umano o demoniaca. Andò subito al dunque. Concluse che la peste era arrivata a bordo di
una galeotta infetta proveniente dalla Barberia, e si era diffusa con il suo cargo. Ordinò di bruciare le merci e quant’altro
avesse avuto contatto con gli appestati. Minacciò e comminò
pene severissime per i contravventori. L’aiutava certo l’esperienza acquisita come membro dell’Inquisizione. Il libro in
cui raccoglie le sue esperienze, la Informatione del pestifero
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et contagioso morbo, divenne il testo di riferimento per la gestione delle pandemie in tutta Europa.
Ignis, furca, aurum: il fuoco serviva a purificare e disinfettare, la forca a far rispettare le misure di quarantena e di prevenzione, per quanto impopolari, l’oro a coprire le spese a
carico dell’erario pubblico. Ma le spese, che sono coperte
dalle tasse, vanno giustificate, pena il sospetto che vadano in
tasca ai soliti profittatori e il rischio che ingenerino una protesta e una reazione ancora più violenta delle misure di prevenzione.
Un documento veneziano, ritrovato da Nelli-Elena Vanzan Marchini, e riportato nel suo delizioso La follia, una nave, una città. Storia di pazzi e pazzie a Venezia nel ‹700 (Brenctani Editrice 1981) riassume efficacemente il problema.
Potrebbe essere intitolato: “Statuto dell›infermo”. (È datato
Venezia 1º settembre 1797:
“Il governo deve garantire la vita, la proprietà, il lavoro a
chi non ha proprietà, la sussistenza a chi non ha né proprietà,
né è capace al lavoro. Se manca la prima garanzia il governo
è tirannico, se la seconda è ingiusto, se la terza è improvvido,
se la quarta è inumano […].
L›invalido deve essere assicurato della sua sussistenza
dalla Patria. Questa è la condizione con cui gli uomini sono
uniti in società. La patria che li soccorre paga un debito. I
soli tiranni ammettevano il nome di ‘soccorso’ il titolo di ‘carità’ […].
[Per rendere realizzabile un equo soccorso a tutti i cittadini
si stabilisce di creare:] un dipartimento per gli infermi di ogni
genere di malattia, come siano raccolte le partorienti, gli infanti per l›inoculazione del vaiuolo, gli affetti dal celtico, i
malconci da croniche affezioni, i febbricitanti, i feriti, gli invalidi, i pazzi […].
Allora non proveremo più il dolore di vedere i nostri cittadini infermi abbandonati sulle strade, mentre i ministri degli ospitali vivono in un lusso voluttuoso.
Certi che qualora cominceremo a realizzare alcune di
queste opere avremo le benedizioni dei nostri cittadini; che
non si potrà più allarmare il popolo sopra i cambiamenti che
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dovremmo fare nelle scuole, nelle fraterne, nelle commissari
e, negli altri luoghi, allorché si vedrà che ogni cambiamento,
ogni risparmio, viene convertito a benefizio dei poveri […].
Archivio di Stato di Venezia, Miscellanea legislativa, 17221797
Come farla finita con la movida
Uno degli aspetti più difficili del distanziamento, in ogni
tempo e luogo, è il rapporto tra uomini e donne. Il Dondi,
per esempio, consigliava caldamente di evitare gli “abraciamenti di femine”. I trattati medici sostenevano, chissà perché, che le donne erano maggiormente predisposte a contrarre il male, e a trasmetterlo. Ce l’avevano in particolare
con le meretrici, non solo per ragioni di ordine sanitario, ma
per ragioni di ordine morale.
Il “coito” perturberebbe “gli umori” e quindi sarebbe tra
le cause della malattia. Alcuni, come il Savonarola medico
ferrarese (zio del più celebre castigacostumi fiorentino), usavano questa teoria come spauracchio per i ricchi: “Aprite le
orecchie, voy nobili […]: i nobili in tal tempo per lo esercitio
grande nel paysare, cazare et cetera morti sono”. Altri, al
contrario, sostenevano che sarebbero stati i poveri i più predisposti a contrarre il male, perché immoderati negli atti sessuali, il che li rendeva “pieni di mali umori”.
Il Mercuriale, l’autorevolissimo docente di medicina pratica nello Studio di Padova che nel 1576, alla vigilia della peste a Venezia, consultato dal governo della Serenissima, aveva commesso l’errore madornale di sostenere che “non era
peste”, insisteva nel 1577, migliaia di vittime dopo, sulla necessità di espellere dalla città le meretrici. La professione più
antica del mondo era nel Cinquecento, accanto ai commerci,
una delle risorse economiche più importanti, molto più di
quanto lo siano oggi il turismo o le discoteche. Il padovano
Canobbio ha una curiosa accusa riguardo questa terribile
pestilenza del 1576: che la peste sarebbe arrivata a Padova
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perché avevano chiuso le porte a nobili e mercanti provenienti dall’esterno, ma non alle “meretrici”.
A Firenze nel 1630 il lockdown è totale. Non solo non si
entra e non si esce dalla città, non solo si chiudono le case dei
sospetti appestati, ma diventa proibito frequentare i vicini, e
anche solo parlarsi alla finestra. Una prostituta, Lucrezia di
Francesco Bianchi, viene arrestata non perché sta esercitando il suo mestiere in contravvenzione alle ordinanze sanitarie, ma perché è andata a chiacchierare con un’amica, la moglie del mugnaio, che abita nella “casa dirimpetto”. La sua
giustificazione dinanzi al giudice: “Non volevo stare sola in
casa”. La solitudine fa più paura del contagio, più paura delle possibili punizioni. Il cancelliere annota pure che le due
donne avevano concordato di vedersi dopo essersi parlate
dalle rispettive finestre. Tale Antonio di Francesco Traballesi
viene arrestato e trascinato dinanzi al giudice. Gli dice:
“Mercoledì passato andavo verso la porta della Croce, quando fui vicino alla Porta, una donna chiamata Monna Maria
vedova, che era serrata in casa dalla Sanità, da una finestra
mi domandò come stavo. Io le dissi che stavo bene, e mentre
ragionavo così vennero i birri e mi menava a prigione”. Poi
aggiunge un dettaglio che risulterà decisivo per l’assoluzione: “La finestra era a [piano] terreno, ma io li stavo […]
dall’altro parte della strada”. Se no rischiava, minimo, “la fune”, ovvero la lussazione dei giunti.
Proibito giocare, a qualsiasi gioco, al pallone o a carte,
proibite le riunioni conviviali, chiusi ovviamente i locali e i teatri. Proibito farlo per strada, ma proibito anche farlo in casa.
Le pene vengono inasprite quando la Sanità nota che “nonostante si sia fatto prohibizione [che] non si faccino radunate di
giuochi, si sente che per la città in molte botteghe di barbieri,
et in altri luoghi, concorrono molte persone a giuochare a diverse sorte di giuochi”. Il divieto vale anche per le case private. In una casa alla Porta della Croce vengono arrestati Francesco di Michelagnolo, detto “Diavolini”, Francesco di Ceseri
Fantasti e Ugolino Bastiano il Rosso “quali tutti sono stati trovati in fragranti crimine a giocare alle pallottole”. Le autorità
sanitarie sono giustamente preoccupate delle conseguenze di
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assembramenti. Allora non potevano sapere che la peste si
propaga tramite le pulci, e che stare in casa era altrettanto, anzi più pericoloso che andar per strada. Proibitissima comunque la danza. Due adolescenti, Maria d’Andrea e Cammilla
d’Antonio in Via Gora, alle quali “gl’era ammalato la madre
d’una di esse et andata al Lazzeretto di San Miniato”, vengono
denunciate da un vicino di casa perché scendono all’appartamento di sotto, dove abitano una vedova e il suo compagno
muratore. I birri li sorprendono “in conversazione”, anzi, peggio ancora, “che ballavano”. Li portano in prigione “perché
non infettino altra gente”.
Fra Paolo Bellintani da Salò, nel suo Dialogo della peste,
ha poi un rimedio decisivo al pericolo di diffusione del contagio rappresentato dalla Movida. Era il cappuccino responsabile del Lazzaretto di Milano nei giorni della peste di San
Carlo. Questo il suo racconto:
E forza che narri un caso che forse farà ridere e piangere insieme.
Una notte si faceva un festino ballando sì per stare allegri in una camera del Lazzaretto, quantunque io avessi ciò proibito sotto gravissime pene. Il giorno avanti ricordandosi questo frate Andrea fra gli altri morti avere scaricata da un carro una donna vecchissima, si risolse
di andare a pigliare e con essa guastare la festa e di mettere terrore a
quelli che ballavano. Per il che andatosene la notte senza lume alla
grande fossa in mezzo al Lazzaretto ove si gettavano i corpi morti, e
cercato con gran diligenza finalmente trovò la detta vecchia; nel levarsela in ispalla gli venne a stringere il ventre per il che il vento che
era nel ventre gli uscì dalla bocca con grande strepito. Chi non si sarebbe spaventato? Ma egli animoso disse in lingua nostra: Tas, tas,
Meda, che te voi portà a balà; et andato alla porta della stanza ove
ballavano e bussato, gli fu risposto: chi é là? Et egli rispose, non come diciamo noi: Deo gratias ma: Gente che vuol ballare, et aperto
che gli fu, gettò la vecchia in mezzo al ballo dicendo: fate ballare anche questa. Poi soggiunse: è possibile che avendo poi la morte in
bocca vogliate stare qui a far bagordi et offendere Iddio? ed altre
parole disse a questo proposito e poi partissi et così disfece il ballo…
Ballarono una sola estate
Effettivamente, convincere che si ha a che fare con malat148
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tie contagiose e pericolose è sempre stato difficile. Specie
quando si ha a che fare con i giovani, specie quando sono
convinti che il contagio non esista, sia un’invenzione per fargli paura, e comunque anche se c’è non li tocchi. L’ultima
epidemia di peste in Italia, una delle ultime in Europa, scoppiò a Noja, nel Barese, nel 1815. Ecco cosa ne dice un testimone diretto, il medico pugliese Vitangelo Morea nella sua
Storia della peste di Noja:
Intanto i Nojani non credevano nella peste […]. Uno degli spettacoli cui non si poteva assistere senza fremere, era di vedere i Nojani in
faccia alla barriera stare affollati, e in perfetto contatto, anche con gli
agenti sanitari: a nulla giovarono né le insinuazioni, né le minacce:
sarebbe stato necessario di punire col fatto per essere intesi. […]
Dopo seria discussione fu conchiuso di trattarsi di febbre pestilenziale, e se ne pose inscritto il parere, scusandosi li medici di non averla chiamata tale nel precedente rapporto, per non confermare l›allarme prima di assicurarsene all›evenienza […].
In seguito di ciò tenendosi presenti le istruzioni del magistrato si
propose la immediata fissazione del cordone […] non vi era altro
scampo che quello di mettere la provincia nello stato di guerra, e
obbligare chiunque a prestarsi per la salute pubblica: non si agiva di
trovare semplicemente convenevole il cordone, ma bisognava formarlo, alimentare la truppa, e con essa i Nojani, che dovevano restare chiusi; impedirsi il commercio […] isolare i suoi malati e sospetti,
[…]: avvertirsi Nojani, sotto pena di morte a non uscire dal loro paese, e gli abitanti della provincia di non riceverli, e denunciarli alle
autorità, laddove li vedessero raminghi.
E fin qui è, ancora una volta, la solita storia: gli “esperti”
e le autorità che prima esitano, per non allarmare, poi impongono misure drastiche, che vengono accolte con incredulità e con ostilità dalla popolazione. E poi ci sono anche
quelli che “senza riflettere”, cioè per pura stupidità, o riflettendoci, pensando di coltivare il consenso a poco prezzo,
sgarrano. Tra questi anche chi, per il ruolo che ricopre, dovrebbe agire in modo un pochino più responsabile:
Il Rione detto di Pagano, abitato da gente bisognosa, stava barricato
per la generalità del contagio che vi regnava, ed era economicamente
affidato, per il buon ordine, alla direzione di un tale Pietro Contessa,
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che figurava da comandante della piazza […]. Contessa dimenticandosi dell’espresso divieto del magistrato, e ricordandosi che tra gli
specifici preservativi contro la peste raccomandati vi era l›allegria,
dopo di aver fatto mangiare bere i suoi amministrati, invitò quelli a
ballare in sua casa; senza riflettere […]. Con le loro sgambate, saltando la tarantella, di 50 che vollero spazzare il loro Calcagno, 45 tra cui
tutta la famiglia di Contessa, in 8 giorni, per essersi a vicenda contagiati nel ballo, andarono a giacere loro malgrado nel comune cimiterio.
Dispositivi di protezione individuale
Una delle più note maschere del Carnevale veneziano è
quella del “Medico della peste”. Ma all’inizio non era una
maschera, era parte dell’uniforme degli operatori sanitari.
Un lungo becco da uccello da preda, che veniva riempito di
spezie e odori, per far fronte alla puzza e al “pestifero miasma”, occhiali con spesse lenti di cristallo per proteggere gli
occhi, un bastone per poter toccare (o tenere) gli appestati a
debita distanza. Figura in tutte le illustrazioni. Persino nella
vignetta incisa della famosissima pagina di titolo del Leviatano di Hobbes, quella in cui si vede il re composto da molteplici figure umane, due di queste indossano questa maschera. Ma pare che non siano stati i veneziani a inventarla. Pare
che a inventare il primo scafandro anticontagio fosse stato
un medico alla corte di Luigi XIII, durante la peste del 1619
a Parigi. Consisteva in una tunica stagna di pelle di capretto,
con una maschera anch’essa di pelle, imbottita di aglio e dotata di occhiali protettori. Conferma il di solito attendibile
Cipolla che primi furono i francesi:
Cominciarono a indossare una palandrana di toile-cirée, vale a dire
di una sottile tela di lino rivestita di una pasta fatta di cera mescolata
a sostanze aromatiche”. Poi questo sinistro vestito divenne molto
popolare, soprattutto in Italia, e durante l’epidemia del 1630-31 venne spesso impiegato non solo in città come Bologna, Lucca, e Firenze, ma anche in piccoli paesi della Toscana come Montecarlo, Pescia
e Poppi. Allorché una nuova epidemia di peste devastò parte dell’Italia nel 1656-57, il costume tornò a essere di uso comune a Roma e a
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Genova. (A Roma i dottori della peste non erano obbligati soltanto a
indossare un ‘habito di tela cerata’ ma dovevano anche andare in una
carrozza di tela incerata”). L’idea che stava dietro alla confezione e
all’utilizzo dell’abito cerato era che gli atomi velenosi dei miasmi non
si ‘attaccavano’ alla superficie liscia e scivolosa. E dal momento che il
suo impiego sembrava funzionare e rispondere allo scopo, i medici
del tempo trovarono in ciò una conferma alle loro teorie sul contagio
e sul ruolo dei miasmi” (Carlo M. Cipolla, Il pestifero e contagioso
morbo).
Non tutti a dire il vero. C’era anche chi non aveva molta
fiducia nel dispositivo. “La tonica incerata in un Lazaretto
non ha buon effetto, solo le pulci non si facilmente vi s’annidano,” osservava ad esempio padre Antero Maria da San Bonaventura, il frate incaricato della gestione del lazzaretto di
Genova durante l’epidemia del 1657. Non sappiamo se intendesse dire anche che quelle maschere allarmano e demoralizzano i ricoverati, come dissero e sciaguratamente fecero
i responsabili al Pio Albergo Triulzio. Il frate non si era reso
conto di quanto, pur protestando l’inutilità del dispositivo,
ci avesse visto giusto: sono le pulci a trasmettere lo Yersinia
pestis dai ratti all’uomo, se la tonaca cerata riusciva a tenerle
lontano poteva bastare e avanzare.
Le maschere a Venezia erano nel Settecento un accessorio obbligatorio. Non per ragioni di sanità pubblica ma per
ragioni di ordine morale. Nella magnifica antologia di relazioni degli Agenti segreti di Venezia 1705-1797 curata da quel
grande scrittore che è Giovanni Comisso, abbondano le
“soffiate” in cui si informano le autorità di polizia che la taluna o tal altra dama sono state viste in teatro “senza portare la
maschera”. Nella prefazione alla nuova edizione del 1962,
Comisso ci informa che la prima edizione, uscita in pieno fascismo da Bompiani, ebbe un gran successo, ma poi l’editore
ricevette nel 1941 comunicazione dal Ministero della Cultura popolare, noto anche come Minculpop, che l’edizione andava ritirata. Comisso aveva incluso una comunicazione
dell’agente segreto G.B. Manuzzi che denunciava un certo
“Moisé Mussolin ebreo, partitante per i Prussiani durante la
guerra dei Sette anni, il quale in Piazza San Marco suscitava
discussioni”. Pensò di rimediare sostituendo il nome Musso151
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lin con Massarin, e togliendo la parola ebreo. Ai censori non
bastava. Allora inventò di sana pianta un rapporto di informatore ignoto il quale riferiva che orecchiando nelle taverne
la gente non parlava di nulla, se non di cose allegre. “Questo
mio scherzo non fu avvertito da alcuno, perché non era tanto
facile comprendere l’ironia in un tempo in cui si sentiva soprastare il terrore e la strage,” scrive Comisso.
A proposito di Mussolini, un’altra curiosità: a differenza
dei leader populisti e di destra di oggi, allergici alla mascherina e istintivamente negazionisti sulla pericolosità del virus,
non era contrario al ricorso ai più elementari accorgimenti di
igiene e, si presume, all’uso dei dispositivi di protezione individuale. C’era anche una motivazione di propaganda spicciola: durante l’epidemia di spagnola i fascisti lodavano la
superiorità igienica del saluto romano rispetto alla stratta di
mano. “Che si impedisca a ogni italiano la sudicia abitudine
di stringere la mano e la pandemia scomparirà nel corso della notte,” si legge sul “Popolo d’Italia”, il giornale da lui diretto, nell’ottobre 1918.
Obey the laws / And wear the gauze. / Protect your Jaws /
From Septic Paws (Rispetta le leggi / E metti la garza / Proteggiti la bocca / Dalle manacce infette), recita una filastrocca diffusa in California. Negli stessi giorni una pubblicità sul
“Corriere della Sera” offre al prezzo di 4,50 lire una mascherina “raccomandata da celebrità Medico-Sanitarie, a coloro
che assistono malati di influenza o di polmonite e loro famigliari”. “Subito dopo che è stato reso obbligatorio l’uso della
mascherina, il comune ha invitato i cittadini ad andare nel
distretto commerciale a fare il loro shopping. Assicurando
che la mascherina avrebbe dato una protezione completa. Le
vendite hanno avuto un picco immediato per tutti gli operatori coinvolti, con l’eccezione, probabilmente, di quelli che
trattano abiti da uomo. Noi crediamo che nelle comunità in
cui l’epidemia è in corso e il commercio è crollato, non ci sia
nulla che possa stimolare il business, e rianimarlo rapidamente, quanto l’uso universale delle mascherine.” Queste e
altre chicche in 1918. La grande epidemia. Quindici storie
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della febbre spagnola, il libro di Riccardo Chiaberge dove un
intero divertente capitolo è dedicato alle mascherine.
Alla Cina spetta, se non proprio il primato, una certa visibilità nell’uso contemporaneo delle mascherine protettive.
Ma è pure una priorità antica. E non solo in campo medico.
Già Marco Polo nota e riferisce che ai banchetti alla corte
del Gran Khan coloro che servono alla sua tavola “hanno fasciata la bocca e il naso con bei tovaglioli di seta e di oro, affinché il loro fiato non vada sui cibi e sulle bevande del Gran
Signore”.
Nel secolo scorso maschere quasi identiche a quelle chirurgiche di oggi tornarono a essere usate diffusamente durante l’epidemia di peste del 1911 in Manciuria e l’epidemia
di influenza spagnola del 1918 negli Stati Uniti. C’è un’infinità di foto in cui le si vede indossate da tutti, medici, infermieri, portantini, altri operatori sanitari, poliziotti, autisti di
taxi. A inventarle e renderle obbligatorie a Harbin era stato
il commissario incaricato da Pechino, il dottor Wu Tien-lieh.
Nella sua autobiografia il dottor Wu racconta, in terza persona, un episodio in cui il collega francese Gérald Mesny, che
di mascherine non voleva sentir parlare, contesta le sue disposizioni: “Il dottor Wu sedeva su una grande poltrona imbottita, cercando di appianare col sorriso le loro divergenze.
Il francese era agitato, continuava ad andar avanti e indietro
nella stanza surriscaldata. All’improvviso non riuscì più a
contenersi. Si piantò di fronte al dottor Wu, e con gli occhi
quasi fuori dalle orbite si mise a urlare: ‘Cinese di merda,
come osi prenderti gioco di me e contraddire un tuo superiore?’. Mesny continuò a esercitare negli ospedali, tra i malati
di peste, senza maschera. Contrasse la malattia e morì qualche giorno dopo. Il decesso del negazionista contribuì a far
passare la linea del dottor Wu, e la mascherina poco dopo fu
adottata universalmente. “Anche per strada la indossavano
tutti, di un tipo o di un altro che fosse”, la sua testimonianza,
pubblicata molti anni dopo. A provarlo c’è un album fotografico di Views of Harbin (Fuchiatien) Taken During the Plague Epidemic, December 1910-March 1911, che lo stesso
dottor Wu fece stampare per farne omaggio ai delegati inter153
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nazionali alla Conferenza sulla peste tenutasi a Mukden
nell’aprile di quell’anno. Delle sessantuno foto a piena pagina, quarantasette sono ritratti, trentadue mostrano persone
che indossano la mascherina, in totale si possono contare
duecentocinquanta figure umane che la indossano. In moltissime foto del 1918-19, gli anni della Spagnola, si vedono
mascherine chirurgiche. Le indossano tutti. Soprattutto in
America, coast to coast: i polizotti di New York, gli infermieri
di San Francisco, i pompieri, gli spazzini, i passanti. Li indossano nelle corsie, negli ospedali improvvisati, sui luoghi
di lavoro, e anche per strada.
A chi malgrado tutto continua ad avere a noia le mascherine, continua a sostenere che tanto non servono a niente,
danno solo fastidio, si fa fatica a respirare, e via protestando,
a tutti gli ostinati, noncuranti, menefreghisti, bastian contrari, scellerati o solo cretini che siano, a quelli che non sanno, o
pensano di saperne una più degli altri, dedicherei la risposta
che nella Peste di Camus il dottor Tarrou dà, nella citazione
in esergo a questo capitolo, al giornalista che gli chiede se le
mascherine servono a qualcosa: «Rispose di no, ma che rassicurava gli altri”.
Marsiglia 1720: il costo di piccole disavvertenze
Marsiglia era ormai abituata alle quarantene. Il meccanismo, sperimentato per decenni, anzi secoli, era collaudato,
funzionava ormai in automatico, come un orologio. Finché
di navi gliene sfuggì una, una soltanto, quasi per caso si potrebbe dire, per un cumulo di disgraziate circostanze, di piccole insignificanti disattenzioni, minime infrazioni. Piccolezze, sciocchezzuole, che finirono per scatenare una strage, le
più violenta dei ritorni di epidemia dopo la Morte nera di
metà 1300 e la Peste del 1630.
Ogni anno a Marsiglia arrivavano millecinquecento velieri mercantili. Un terzo di questi proveniva dagli “Scali del
Levante”, da Costantinopoli, Smirne, Algeri e dagli altri porti del Nord Africa, dove la peste continuava a essere endemi154
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ca. Le autorità portuali prestavano particolare attenzione a
questi arrivi, specie alle navi che facevano la spola con gli
“Scali di Barberia”. La regolare applicazione delle misure
cautelari era affidata a una Commissione di Sanità composta
da sedici eletti, in rappresentanza dei mercanti, commercianti e uomini d’affari della città. All’arrivo in porto ogni capitano doveva presentarsi negli uffici di Sanità presso il forte di
Saint-Jean, mostrare i certificati forniti dalle autorità dei porti mediterranei in cui aveva fatto scalo, dichiarare merci e
passeggeri. Nel caso ci fossero stati casi di peste, o morti o
febbri sospette a bordo, dovevano ancorare e far la loro brava quarantena nell’isola di Jarre, a una ventina di miglia da
Marsiglia. Se proprio avevano fretta, potevano accorciare la
quarantena esibendo i certificati sanitari ottenuti nei porti da
dove erano passati, mettiamo quelli italiani. Ma anche in
questo caso, siccome di quei certificati le autorità di Marsiglia si fidavano poco, una quarantena, sia pure dimezzata,
dovevano farla lo stesso. Navi ed equipaggi la facevano nell’isola di Pomègues, passeggeri e merci venivano trattenuti al
Lazzaretto nuovo di Arenc, distante poche centinaia di metri
dalla porta La Joliette.
La Grand-Saint-Antoine era un tre alberi che arrivò in vista di Marsiglia il 25 maggio 1720. L’aveva lasciata l’anno prima in luglio. Era passata da Smirne, Cipro, Seita, infine da
Tripoli. A Tripoli il 18 aprile 1720 aveva imbarcato quindici
passeggeri. Un passeggero turco era morto qualche giorno
dopo, e, come usanza, la salma gettata a mare. Nei giorni
successivi erano morti sette marinai. Sulla via del ritorno il
veliero aveva fatto tappa a Livorno, dove le autorità avevano
dovutamente segnalato la cosa nei documenti rilasciati al capitano, e da mostrare negli scali successivi. In Sardegna – se
prendiamo per buona la versione di Artaud –– la nave non
l’avevano lasciata neanche avvicinare. Ma può anche darsi
che l’episodio sia di pura fantasia, Artaud se lo sia sognato,
così come fa sognare la peste al viceré. Nel suo enciclopedico
e ormai classico Les hommes et la peste en France et dans les
pays méditerranéens (1975) Jean-Noël Biraben fornisce un
resoconto dettagliato, giorno per giorno, del viaggio della
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Grand-Saint-Antoine, ma non c’è menzione della Sardegna.
Un altro grande scrittore francese, Balzac, era stato finanziariamente rovinato da una quarantena forzata al largo di Alghero. Nel 1837 era diretto in Sardegna nella speranza di fare soldi: aveva sentito dire che c’erano miniere inutilizzate di
argento e piombo. Ma la nave fu costretta a stare all’ancora.
Trascorsa la quarantena, lo fecero sbarcare, ma le concessioni delle miniere erano già andate ad altri. Dovette tornare a
Parigi, e mettersi a scrivere come un forsennato, per rimediare alla mancanza di fondi.
All’arrivo a Marsiglia, secondo le norme, la
Grand-Saint-Antoine avrebbe dovuto essere immediatamente dirottata all’isola di Jarre, davanti alle Calanques marsigliesi, ed essere bruciata con tutto il suo carico. Il capitano
richiese, e ottenne, di fare solo una quarantena “ordinaria” a
Pomégues, lo scalo destinato ai “sospetti”, ma off limits agli
appestati accertati. Pare che avesse pure falsificato il registro
di bordo, facendo risultare che i decessi di marinai verificatisi durante la traversata erano dovuti a intossicazioni alimentari, e non a “febbri pestilenziali”, come pure aveva dichiarato a Livorno. Nottetempo fece trasbordare sulle scialuppe il
carico e lo depositò in città, a La Joliette, prima di tornare a
fare la quarantena nell’isola di Jarre. La Joliette era stata originariamente un lazzaretto per lebbrosi, avrebbe continuato
a fungere da lazzaretto fino al 1850, ai tempi del colera. Aveva del personale dedicato, che alloggiava chiuso dentro.
Come mai glielo lasciarono fare? Perché le autorità chiusero un occhio, o forse due? L’armatore della nave, e principale destinatario del carico, Jean-Baptiste Estelle, era un
personaggio influente, niente meno che premier échevin,
“primo assessore”, praticamente il sindaco di Marsiglia. Tra
l’altro faceva pure parte della Commissione di Sanità. Si può
presumere che avessero fretta di vendere il prezioso carico di
tessili. Se si rispettava la quarantena rischiavano di perdere
le fiere di stagione, in particolare quella di Beaucaire, un
enorme bazar a cielo aperto, grosso modo a metà strada tra
Marsiglia e Tolone. Si teneva il 22 luglio, durava un’intera
settimana, attirava grossisti, clienti e curiosi da tutta la Fran156
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cia, anzi da tutta Europa. Per il proprietario di un veliero da
carico era impensabile perdere l’occasione. E per cosa avrebbero dovuto rischiare di rimetterci tutti quei soldi? Per qualche marinaio morto di malattia, che non era stata neanche
accertata come peste? E diamine, erano vent’anni almeno
che non c’era stata la peste in Francia. Qualcosa forse fu
sballato e venduto già in città, pulci, batteri e compagnia bella inclusi. Il resto fu forse avviato verso Beaucaire. Ma quelle
sete e broccati non riuscirono mai a venderle. A luglio già
imperversava la peste, e la fiera fu annullata.
Bisogna anche tener conto che pesava la concorrenza
spietata tra i porti europei, che si facevano tra loro una vera e
propria guerra a colpi di false notizie. Si nascondevano nella
misura del possibile le proprie magagne sanitarie, e si ingigantivano quelle dei concorrenti. Nel 1722, due anni dopo la
peste di Marsiglia, il console di Francia a Livorno spiegava
come i genovesi facevano correre voci false sul rischio di
contagio nel porto toscano. Nel 1730 i responsabili della Sanità a Marsiglia temono che la “cattiva pubblicità” fatta al
loro porto dalle relazioni dei consoli stranieri possa “interrompere il commercio, indebolirlo, restringerlo”. C’è da tenere presente quella che pochi anni dopo David Hume
avrebbe definito “gelosia del commercio”, cioè “l’abitudine
di trattare come rivali tutti gli stati commercianti, con il pretesto che è impossibile che uno di loro prosperi se non a spese degli altri”. Risuonano le orecchie?
Finì che la Grand-Saint-Antoine fu effettivamente data alle fiamme, e fu fatta affondare nei pressi dell’isola di Jarre. Il
relitto è stato scoperto e recuperato nel 1978. Nel 2013 fu
restaurato e oggi è accessibile al pubblico. Ci fu un processo.
Il capitano Jean-Baptiste Chataud finì in prigione al Chteau
d’If, la Alcatraz della baia di Marsiglia, la fortezza in cui Dumas immagina venga recluso il suo conte di Montecristo. Vi
scontò tre anni. Si era difeso sostenendo che nei porti da cui
era passato, in Siria, a Cipro, aveva ottenuto i necessari certificati sanitari, e che aveva dovutamente informato le autorità
sanitarie di Marsiglia di quanto era successo durante il viaggio. Il sindaco Estelle morì senza che si riuscisse a dimostrare
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che aveva esercitato pressioni per far sbarcare la mercanzia.
L’ufficiale sanitario della nave era morto prima ancora che
terminasse la quarantena imposta all’equipaggio, il referto
del chirurgo del porto dichiarò che era morto di “vecchiaia”.
Il primo caso si manifestò a Marsiglia il 20 giugno: si
ammalò una donna che viveva in una via chiamata “Escale”, lo scalo. Poi il 28 giugno si ammalò e morì, infettando
tutta la famiglia, un sarto che lavorava nella piazza chiamata “Place du Palais”. Il primo luglio si ammalò e morì un’altra donna che abitava nella via de l’Escale, e poi pure una
sua vicina. Il 21 luglio decedette uno dei passeggeri del
Grand-Saint-Antoine che era in quarantena. Da qui la peste
si diffuse a macchia d’olio, no, sarebbe più preciso dire a
macchia di leopardo, in tutta Marsiglia. Furono prese le
prime, tardive, misure di contenimento. Già il 2 luglio il
Parlamento di Aix aveva emanato un decreto che proibiva i
contatti tra gli abitanti di Marsiglia e il resto della Provenza. Suscitò immediatamente rivolte: “Così moriamo di fame, non di peste,” diceva il popolo. Marsiglia era nel caos
tra rivolte e saccheggi, le vittime aumentavano in progressione geometrica, gli ospedali erano soverchiati, morirono
anche venticinque medici, si accumulavano cadaveri e infermi in strada. Dovette intervenire l’esercito. Ci sono diverse rappresentazioni dell’epidemia di Marsiglia in pittura. La più famosa è una grande tela di Michel Serre,
conservata al museo di Montpellier, che raffigura il comandante militare, il Chevalier Nicolas de Roze che, a cavallo, e
impeccabilmente vestito con un’elegante redingote azzurra, dà istruzioni sulla rimozione dei cadaveri grazie a un bastone che gli consente di tenersi a debita distanza dalla plebaglia e dagli appestati. Conto di tornarci, su questo
dipinto, e altre rappresentazioni del contagio in pittura, nel
capitolo che segue. La manovalanza addetta all’ingrato
compito sono galeotti precettati. Molti di loro si infettarono e morirono a loro volta, la flotta di galee reali, privata
dei forzati rematori, dovette essere di lì a poco dopo smantellata.
Per isolare Marsiglia dal resto della Provenza si costruì
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addirittura una specie di grande muraglia, lunga trentasei
chilometri, poi una seconda muraglia, concentrica, lunga oltre un centinaio di chilometri. Per lasciare Marsiglia bisognava avere un certificato sanitario. Ma la gente scappava lo
stesso, verso Avignone, e gli altri centri del Sud della Francia,
e inevitabilmente portava con sé il contagio. A quel primo
Cordon sanitaire furono assegnate guardie armate, con l’ordine di sparare a vista su chi cercasse di superare gli sbarramenti. E ancora la città non voleva sentir parlare di peste. È
forse una delle ragioni per cui lo stato di emergenza era stato
proclamato con grande ritardo. Anche i medici erano divisi.
Alcuni ritenevano che si trattasse di malattia contagiosa trasmessa per via aerea. Altri dicevano che assolutamente no,
non era contagiosa. Era stata nominata una commissione
composta da medici provenzali, che rispondevano nientemeno che al medico personale del Reggente di Francia, il dottor
Pierre Chirac. Il primo rapporto del dottor Chirac sosteneva
trattarsi di “una febbre maligna, abbastanza comune […]
dovuta all’alimentazione una del popolino […] nient’affatto
di peste venuta dal Levante”. Studi di paleo-epidemiologia
molecolare, condotti nel 2011 sulla polpa dentaria di scheletri ritrovati in una fossa comune a Marsiglia, e che si ritiene
risalga a quel fatidico 1720, sembrerebbero confermare tracce di Yersinia pestis.
In ottobre le misure drastiche cominciarono ad avere effetto. Il contagio calò, anche se non scomparve del tutto.
L’articolo di Christian Devaux a cui sto attingendo, Small
Oversights that Led to the Great Plague of Marseille (172023): Lessons From the Past (da “Infection, Genetics and Evolution», n. 14, 2013) riporta tra le illustrazioni anche un grafico che mi ha colpito: la “curva” del contagio sale
precipitosamente tra luglio e settembre, poi si abbassa altrettanto precipitosamente, tra settembre e ottobre, ma non si
azzera, continua, sia pure a bassa intensità, in novembre e
dicembre. Mi ha fatto venire in mente, facendo le corna, la
curva del Covid, che cala, risale e poi cala di nuovo, ma rifiuta ostinatamente di azzerarsi.
Il peggio sembrava passato. Cominciarono a moltipli159
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carsi pressioni perché le misure di contenimento venissero
allentate, si tornasse a lavorare, riaprissero il porto e i commerci. Intervennero le corporazioni dei mercanti, degli armatori, degli scaricatori. Era una pressione a cui il governo
non riusciva a resistere. La città era effettivamente in ginocchio, avevano chiuso le fabbriche, i cantieri e quasi tutte le
attività, le finanze erano in rovina, al punto che il Sovrano
dovette concedere una dilazione di quindici anni per il pagamento delle imposte. Gli altri porti europei, non solo gli
italiani e gli spagnoli, ma anche inglesi e olandesi, non volevano avere più nulla a che fare con Marsiglia, avevano chiuso al commercio con i francesi. A Marsiglia riaprirono, tolsero i blocchi e il divieto di circolazione. E tornò la peste.
Peggio che prima, perché si estese a tutta la Provenza. Parigi, allarmata, fece richiudere, dichiarò zona rossa tutto il
Sud della Francia. L’epidemia andò avanti per altri due anni, fino al 1722 inoltrato. Fece, si calcola, centoventimila
morti su quattrocentomila abitanti della regione. A Tolone,
dei ventiseimila abitanti ne erano sopravvissuti tredicimila
(settemila non erano stati infettati, tremila erano guariti).
Ci sarebbero voluti quarant›anni prima che tornasse ad
avere la popolazione di prima della peste. Solo a Marsiglia
ci furono più di cinquantamila morti. La lezione servì. Da
allora fecero più attenzione. La peste, con poche eccezioni
(Malta 1813, Noja, nel Barese, 1815, Corfù 1816, Majorca
1820), scomparve dall’Europa occidentale. Lasciando il
posto ad altre pandemie, altrettanto letali, per giunta capaci di superare anche le quarantene tradizionali. Al punto
che si ricominciò a sostenere che le quarantene non servono a nulla.
Il 1720 è comunque un caso da manuale di come piccole,
forse in sé trascurabili negligenze, sottovalutazioni apparentemente innocenti (ma che sarà mai chiudere un occhio una
volta tanto?), una dopo l’altra, possano portare a immani catastrofi. Errare può essere umano. Ma il ripetere l’errore, riaprendo troppo presto, solo perché c’è chi scalpita e preme,
sa di diabolico.
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Gli asintomatici di Mr. Robinson Crusoe
La peste a Marsiglia aveva impressionato molto il resto
d’Europa, specie l’Inghilterra. Suscitava il terrore di un ripetersi delle grandi epidemie, della Morte nera di metà 1300,
della peste del 1600. Londra era nel panico. A quanto pare la
gente non parlava e non leggeva d’altro. Attorno al 1720 si
pubblicarono una quantità enorme di libri, opuscoli, memoriali, articoli di giornale sull’argomento. Divenne una questione politica. Il governo Walpole traballava. A complicare
le cose era da poco scoppiata la crisi della Bolla dei Mari del
Sud, la madre di tutte le Bolle e imbrogli finanziari. Il governo da una parte cercava di arginare le apprensioni predisponendo severe misure di quarantena per le navi e le merci in
arrivo, dall’altra era sotto pressione e costretto a fronteggiare
le critiche di chi temeva che le quarantene minacciassero l’economia. Fu emanato un Quarantine Act. Ma poco dopo, di
fronte alla levata di scudi, furono costretti a ritirare il decreto
e sostituirlo con una versione più leggera. Nel pieno delle
polemiche, nel 1721, Daniel Defoe pubblicò Due Preparations for the Plague (Preparazioni necessarie per la peste), un
instant book che difendeva a spada tratta le scelte del governo, utilizzando materiali relativi alla peste di sessant’anni
prima. Sì alla quarantena commerciale, che avvantaggia tutti,
sia i mercanti che i poveretti. No alla chiusura delle case degli appestati che “imprigiona”, e però “nell’insieme serve a
poco o a nulla”. E comunque tranquilli, sereni, che ci pensa
il governo. Se poi qualcosa non va per il verso giusto, è inutile recriminare e dare la colpa al governo. È sempre e comunque colpa della gente. “Fossero state dovutamente e scrupolosamente osservate le ingiunzioni imposte [dal governo] sul
nostro popolo, avremmo forse avuto qualche ragione in più
di sperare di esserne salvi [dalla peste].” Defoe ha un’idea
fissa, e non è nemmeno sbagliata: “L’intero impianto del mio
ragionamento ha lo scopo di separare, quanto più possibile,
la gente gli uni dagli altri”.
Defoe non era esattamente un giornalista indipendente e
obiettivo. Era uno scrittore, bravissimo, ma prezzolato, al
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servizio dei governi. Di qualsiasi governo, di destra o di sinistra (per così dire), per i tory o per i whig, per Robert Harley
o per Robert Walpole. È documentato, faceva anche la spia,
c’è una sua lettera in cui riferisce al Parlamento conservatore
di una missione di spionaggio in Scozia. Addison, il fondatore dello “Spectator”, lo definì “farabutto”, Swift scrisse i
suoi Viaggi di Gulliver anche per prendere in giro il suo Robinson. Aveva continuamente bisogno di denaro. Morì mentre cercava di nascondersi dai creditori. Sapeva bene quanto
vale l’informazione. E come le notizie si possono manipolare
e “abbellire” (o rendere più allarmanti, il che è la stessa cosa). Sapeva bene cosa siano le fake news e quanto possano far
male. “All’epoca non c’erano giornali che diffondessero voci
e notizie sugli avvenimenti, e che le ingigantissero con la fantasia degli uomini, come in seguito vidi fare,” dice nelle prime righe di A Journal of the Plague Year, il Diario dell’anno
della peste, il romanzo vero e proprio che seguì di poco il solo apparentemente più fattuale Due Preparations. Nell’insistere sul tema c’erano certamente anche considerazioni commerciali. I libri sulla pandemia a quanto pare si vendevano
come il pane. E più facevano venire i brividi, più erano “marketable”.
Per diverse pagine del suo Diario dell’anno della peste
Daniel Defoe elenca, una dopo l’altra, in dettaglio, paragrafo
dopo paragrafo, categoria interessata dopo categorie interessata di cittadini e operatori, le ordinanze emanate dalla città
di Londra per far fronte al contagio della peste del 1665.
Vengono trattati i doveri di ispettori, custodi, chirurghi, infermiere. Si affrontano per filo e per segno le norme sulla
denuncia dei malati, sull’isolamento dei malati, sulla disinfezione delle suppellettili, sulla chiusura delle abitazioni, sul
divieto di trasferire persone dalle case infette, sulla sepoltura
dei cadaveri, sul divieto di far circolare oggetti infetti, sul divieto di trasferire persone da case infette, sull’obbligo di segnalare ogni casa infetta, sull’obbligo di vigilare ogni casa
infetta, sui coinquilini, sulle vetture a noleggio, sull’obbligo
di tenere pulite le strade, sull’obbligo degli spazzini di portar
via l’immondizia dalle case, sull’obbligo di trasferire i rifiuti
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lontano dalla City, sul pericolo di carni e cibi guasti e di granaglie ammuffite, sul che fare degli accattoni, sugli spettacoli, sul divieto di organizzare banchetti, sulle osterie… Sembra ed è avvincente quanto può essere una lista della spesa.
Defoe è un pignolo, un grande compilatore di elenchi.
Gli piacciono da morire i libri contabili, le partite doppie, i
bilanci, le conte dei morti riga per riga, giorno per giorno,
come vengono registrati dalle parrocchie, gli inventari, gli
elenchi di oggetti comuni o desueti che siano. È un espediente letterario non privo di efficacia. Se ne servirà parecchio
anche nel Robinson Crusoe. Consente di inventare facendo
finta di attenersi ai crudi fatti. La sua non è una testimonianza, non è un reportage, è un romanzo. Camus appone in
esergo, all’inizio della sua Peste, una citazione da Defoe: “È
ragionevole rappresentare un tipo di prigionia con un altro,
quanto rappresentare qualcosa che esiste realmente con
qualcosa che non esiste”. Non è una citazione dal Diario
dell’anno della peste, bensì dal Robinson Crusoe. Camus sa di
cosa parla. Fingendo di scrivere di peste, lui scrive dell’occupazione nazista della Francia. Scrivendo della peste nella
Londra del 1665, Defoe tratta della paura della peste nella
Londra dei suoi tempi.
O piuttosto di tutti i tempi? Defoe si dice convinto che le
sue osservazioni “potranno servire in futuro a coloro nelle
cui mani capiterà questo scritto, se mai si troveranno nel
mezzo di un’epidemia altrettanto terrificante”. Fa una certa
impressione leggere degli asintomatici, “molte persone che,
anche se non si sapeva che erano malate – e non lo erano ancor palesemente –,–, tuttavia avevano già la peste addosso; e
godendo di una illimitata libertà di andare in giro, pur essendo costrette a tener nascoste le loro condizioni di salute (e
forse ignorandole loro stessi), trasmettevano la malattia agli
altri, e diffondevano il contagio in modo spaventoso”. Peggio ancora nella “Fase 2”, “quando si diffuse la notizia che la
peste non era più maligna come prima, e che chi ne era colpito non era condannato a morte sicura, e poiché si constatava
che ogni giorno guariva molta gente malata, la popolazione
divenne così imprudente e così incurante di sé e dell’infezio163
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ne, che considerò la peste poco più di una normale febbre, e
forse nemmeno quello”. “È molto doloroso pensare che persone come queste furono altrettanti assassini ambulanti, forse anche per una settimana o due, che rovinarono coloro per
i quali avrebbero messo a repentaglio la vita, diffondendo
morte con il respiro. E magari baciando e abbracciando affettuosamente i propri bambini.” Assoluzione piena naturalmente, per il governo: “A cosa potevano servire tutti i piani
di distanziamento o trasferimento degli ammalati […] se vi
sono migliaia di persone che sembrano sane e portano invece
la morte in tutti i gruppi con cui vengono in contatto”?. La
colpa è nella “folle condotta del popolo”: “Non solo frequentò incoscientemente chi aveva addosso tumori e pustole
aperti, ma cominciò anche a mangiare e a bere con degli ammalati, ad andare a casa loro, a visitarli e – mi è stato riferito
– a entrare nelle stanze in cui giacevano allettati”; “la gente
correva ormai incautamente in mezzo al pericolo, rinunciando a tutte le precedenti cautele e attenzioni, e alla condotta
accorta che aveva adottato in precedenza”. È duro con le fake news. Anche quelle messe in giro, sia pure a fin di bene,
dal governo. Ma soprattutto quelle messe in giro dai concorrenti del commercio inglese.
Erano sufficienti i numeri registrati dai bollettini settimanali ed era
sufficiente il fatto che ogni settimana morissero due, tre, quattromila
persone per mettere in allarme tutti i porti del mondo […]. D’altra
parte le voci erano enormemente esagerate, e non dobbiamo meravigliarci se ai nostri amici all’estero – come ad esempio ai corrispondenti […] in Italia e in Portogallo, paesi con cui intratteneva[mo]
molte relazioni commerciali – giungeva la notizia che a Londra morivano ventimila persone a settimana, che sorgevano ovunque cataste
di morti insepolti, che non bastavano i vivi per seppellire i morti, né i
sani per assistere i malati […] e loro non credevano alle nostre parole quando li informavamo di come stavano realmente le cose […]
che la gente stava ricominciando a camminare per le strade, che chi
era fuggito stava tornando, che in giro c’era comunque la solita folla,
anche se era vero che ogni famiglia aveva perso qualche parente o
qualche conoscente, e così via. Vi garantisco che non ci credevano; e
se ora si andasse a fare qualche domanda a Napoli o altre città italiane, vi direbbero che molti anni fa a Londra ci fu una peste spaventosa e che morivano ventimila persone a settimana, esattamente come
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noi a Londra dicevamo che nella città di Napoli, nel 1656, c’era stata
un’epidemia in cui perivano ventimila persone al giorno […].”
Defoe non nasconde quale sia la cosa che gli sta più a
cuore: “Queste dicerie erano non solo molto dannose per il
nostro commercio, ma anche ingiuste e offensive […] dovette passare molto tempo prima che i nostri scambi commerciali con quei paesi potessero risollevarsi. I fiamminghi e gli
olandesi, soprattutto questi ultimi, ricavarono enormi vantaggi dall’avere tutto il mercato a loro completa disposizione, e arrivarono addirittura ad acquistare prodotti nelle regioni dell’Inghilterra che erano state risparmiate dalla peste,
e ricondurli da loro, per poi trasportarli in Spagna e in Italia
come fossero stati di loro fabbricazione”. Nihil novi sotto il
cielo dei conflitti di interessi commerciali.
Governo bugiardo, panico assicurato
Defoe dedica molte pagine, tra le più divertenti del suo
Diario, alle voci incontrollate, le superstizioni, le leggende
metropolitane, le allucinazioni collettive, la credulità incorreggibile del “popolo”, e anche a chi prontamente ne approfitta per trarne profitto:
I timori della gente venivano ulteriormente accresciuti dalle idee
sbagliate che circolavano in un tempo in cui il popolo era più portato
a credere alle profezie, agli scongiuri degli astrologhi, ai sogni e alle
storie delle anziani comari […] e appena si resero conto che si stava
avvicinando un’epidemia, tutte le loro profezie parlarono di una peste spaventosa che avrebbe devastato l’intera città e il regno, e avrebbe distrutto quasi tutta la nazione, sia gli animali che gli esseri umani
[…] queste paure indussero il popolo a infinite debolezze, idiozie e
perversità […] Questa insensatezza fece pullulare la città di una perfida schiera di presunti esperti […].
È nella sua natura lodare e giustificare il governo. Quindi
approva che siano stati fatti “numerosi sforzi per sopprimere
la stampa di quei libri che terrorizzavano la gente, e per inti165
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midire coloro che li propagandavano, alcuni dei quali furono
tratti in arresto; ma poi, per quanto ne so, non se ne fece
nulla; perché il governo non voleva esasperare il popolo, che
era, se mi è consentito dire così, già fuori di testa per conto
suo”. Una vera e propria apologia della menzogna di Stato e
della censura, sia pure mitigata dall’humour sulla moderazione persecutoria, dettata dalla necessità di non esasperare ulteriormente gli animi.
Ma abbiamo visto che persino lui, così pronto a difendere a spada tratta il potere del momento, è costretto ad ammettere che se si fossero mossi un tantino prima, avessero
preso i provvedimenti necessari al momento giusto, senza
curarsi solo degli effetti negativi sull’economia e il commercio, si sarebbero salvate più vite. I governi, tutti i governi, in
ogni epoca e a qualsiasi latitudine, hanno la tendenza a negare, sopire, minimizzare, nascondere, dire e non dire, o almeno non dirla tutta, o addirittura censurare. La giustificazione
è in genere evitare di creare panico. Quando nell’anno 1500
ricompare la peste a Parigi, il prévôt, vale a dire il prefetto, il
funzionario che comanda in nome del re, rifiuta di rendere
pubblica la notizia, anzi proibisce sotto pene severissime che
se ne parli anche in conversazioni private: “per evitare che
tra la folla si diffonda la paura”. È l’argomento che ha usato
anche Donald Trump nell’intervista a Bob Woodward: lui
sapeva sin dall’inizio, ma avrebbe continuato a negare, minimizzare, dire che si trattava di una banale influenza, che non
c’era niente di cui preoccuparsi, perché – così sostiene – non
voleva creare panico.
Così fan tutti, potremmo dire con Mozart. Ma nascondere le informazioni. O, peggio ancora, mentire spesso è il miglior modo per diffondere il panico, renderlo incontrollato.
Le voci girano, e le false voci girano più di quelle vere.
Di ritorno all’hotel [Aschenbach, il protagonista di La Morte a Venezia, al quale sono giunte all’orecchio voci su casi di colera in città] si
recò nella lobby e si mise a sfogliare i numerosi giornali sul tavolo.
Non riuscì a trovare niente [nessuna notizia sul colera] sulla stampa
straniera”. Thomas Mann è sempre scrupoloso nel ricavare la sua
fiction da fatti di cronaca autentici. I coniugi Mann, in viaggio di tu166
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rismo sull’Adriatico, erano arrivati a Venezia a fine maggio 1911. La
nave viene come d’abitudine sottoposta all’ispezione delle autorità
sanitarie. Già c’erano stati i primi casi, era stata identificata dalle autorità la prima vittima accertata, una lavandaia. Erano state prese immediatamente misure di disinfezione dei locali interessati (con la
scusa di lavori urgenti di ristrutturazione). A metà maggio si era verificata la presenza del vibrione sui cadaveri anneriti di un barcaiolo e
di una fruttivendola. La notizia corre di bocca in bocca. Ma da Roma
arriva l’ordine preciso e tassativo alla stampa di non parlare di colera. Viene direttamente dal Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, che in quel momento ha anche l’interim di ministro dell’Interno e
di massimo responsabile dea Sanità. Una circolare che porta la sua
firma chiede al prefetto di convocare la stampa e avvertirla delle pene cui vanno incontro nel caso si azzardino a contravvenire e solo far
cenno al colera. Vanno da una multa salata a pene detentive. Sono
avvertiti, tramite il Prefetto, anche i medici: “Deploro vivamente inconsulta criminosa agitazione medici ospedalieri – Chiami subito a
sé capi movimento e faccia loro presente responsabilità che si assumerebbero persistendo in una agitazione che è un vero delitto verso
la loro città e il loro paese.
Il timore del governo è che un’ammissione riguardo il colera rovini la stagione turistica, mini la posizione dell’Italia
impegnata in importanti iniziative diplomatiche, susciti allarmi sulla stampa estera, magari moti popolari contro medici, infermieri e pubblica sicurezza, come ormai avveniva regolarmente, anno dopo anno, in Calabria e in Sicilia. Eppure
Giolitti, che potremmo considerare “di sinistra”, non è il
peggiore dei primi ministri che l’Italia abbia avuto. È vero
che Gaetano Salvemini lo definì “Il ministro della malavita”,
ma Togliatti poi l’avrebbe storicamente rivalutato, fosse stato ancora in giro avrebbe potuto magari anche sostenerlo come Presidente del Consiglio nell’Italia repubblicana.
L’occhio attento di Mann nota nel romanzo l’affissione
“ad ogni angolo di strada, di manifesti proclamanti che, a
causa di certe affezioni gastro-intestinali, niente di straordinario in questo periodo dell’anno, le autorità municipali vietano il consumo di ostriche e cozze”. In effetti, già nella prima metà di maggio c’era stata la prima vittima straniera, il
turista austriaco Anton Franzky, deceduto di sospetto colera
al suo ritorno a Graz. Le autorità veneziane preferirono at167
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tribuire il decesso a un’intossicazione da molluschi. In effetti
non c’è brodo di cultura migliore del vibrione dei canali di
Venezia dove si scaricavano allora (e si scaricano in gran parte ancora oggi) le feci. Venezia non ha mai avuto fognature.
Quando nascosero il contagio del premier
Il Primo ministro conservatore, Lord Salisbury, si era
sentito male poco dopo aver lasciato Downing street ed essersi ritirato nella sua casa di campagna a Hatfield, dove
avrebbe trascorso il Natale del 1889 con la famiglia. Il 27
avevano chiamato al suo capezzale il suo medico, fatto venire
da Londra. Avevano informato la Regina Vittoria. Ma tennero deliberatamente nascosta la malattia ai giornali per diversi
giorni. Si può supporre che non volessero allarmare la pubblica opinione, già sulle spine per le voci che correvano
sull’arrivo di una micidiale, e misteriosa nuova influenza che
stava mietendo migliaia di vittime. La notizia comparve sul
“Times” solo il 1 gennaio, e in forma edulcorata, come si
trattasse di un normale raffreddore. Diceva che il Primo ministro “è rimasto a letto per due giorni” e che nel pomeriggio
del terzo c’era stato “un notevole miglioramento”. Avrebbero detto quasi la stessa identica cosa quando si prese il Covid
Boris Johnson. Continuavano a tranquillizzare sulle sue condizioni di salute anche quando lo si dovette ricoverare. A
quel punto la Gran Bretagna tremava all’idea che potesse
contagiarsi (e magari morirne, dato l’età avanzata), anche la
Sovrana. Victoria nel 1890 era ottantenne, Elisabetta nel
2020 era novantaquattrenne.
Lord Salisbury si riprese. Anche se dovette trascorrere
un mese intero prima che fosse in grado di riprendere la corrispondenza con la Regina. I premier britannici sono evidentemente di costituzione robusta e hanno buoni medici, specie quelli conservatori. L’influenza, che era originata in
Russia (ma secondo alcuni giornali dell’epoca veniva invece
dalla Cina, dal bacino del Fiume Giallo, dove c’erano state
terribili inondazioni) passò, ma solo dopo aver infuriato per
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ben tre ondate successive (nell’89, nel 91 e nel 92), e dopo
che, nella sola prima ondata, si erano ammalati 4 milioni di
britannici e ne erano morti 27.000 (125.000 se si tiene conto
delle ondate successive). L’influenza “Russa” aveva fatto,
nelle maggiori aree urbane dell’Inghilterra, più morti delle
terribili epidemie di colera e vaiolo che avevano imperversato per tutto l’Ottocento. Il Times avrebbe notato che erano
stati colpiti dall’influenza il doppio di britannici rispetto a
quelli che avevano votato alle elezioni politiche.
Era stata la prima pandemia virale davvero globale. Una
prova generale per la Spagnola che avrebbe colpito una ventina d’anni dopo. Avrebbero potuto magari trarne qualche
lezione, far tesoro di qualche esperienza. E invece, appena
passata, la “Russa” fu quasi del tutto dimenticata. L’ho trovata in un articolo giovanile, di un decennio fa, di Mark
Hongisbaum, diventato frattanto uno dei più autorevoli
esperti britannici di storia delle pandemie. Ma mi pare che
nessuno l’abbia ripresa al tempo del Covid, nemmeno lui a
dire il vero. La Russa aveva con la Spagnola in comune parecchi sintomi, a cominciare dalle difficoltà a carico dell’apparato respiratorio. Ma anche stranezze, come le estese conseguenze neurologiche. Londra conobbe un’esplosione di
“conseguenze nervose”, esaurimenti, psicosi, persino un aumento significativo dei suicidi. Le fonti dell’epoca riferiscono che la gente dava di matto, un po’ come scrivevano Tucidide della “peste” di Atene e Procopio di quella di
Giustiniano. Non si sa che tipo di virus fosse, così come si sa
poco della di poco successiva Spagnola. C’è chi ha ipotizzato
che potesse trattarsi di uno dei rari virus che in qualche modo riescono a infilarsi nel sistema nervoso e vago, o addirittura superare la “barriera” che impedisce a batteri e virus di
arrivare al cervello. Era una pandemia “moderna” ed egualitaria, non di quelle che si accanivano – come il tifo o il colera
- quasi solo sulle classi subalterne, sugli operai e la feccia della società che abitava con scarsa igiene nei quartieri dissestati
o malfamati. Questa mieteva vittime anche in alto luogo.
Non risparmiava le celebrità, i ricchi, i nobili e i politici. Ne
era morto l’arcivescovo di York. Si erano ammalati anche l’e169
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rede al trono, il Principe di Galles, diversi esponenti del governo conservatore, e anche il leader dell’opposizione, Gladstone. Pare che il contagio privilegiasse e gli adulti in età
produttiva, e i maschi, risparmiando le donne. Alcune occupazioni furono decimate: i medici, i postini, i guidatori di
omnibus e tram, i primi ad essere infettati erano stati i controllori dei treni. Ne risentirono i servizi pubblici. Forse
semplicemente il virus colpiva chi aveva più contatti. Ci furono anche pesanti conseguenze economiche: alcune delle
banche più antiche e rispettate della City rischiavano di fallire, le salvò solo un’iniezione di aiuti governativi. Il panico
che si voleva evitare censurando le notizie ci fu lo stesso. La
gente era così allarmata che correva in ospedale ai primi sintomi. Naturalmente intasandoli. Dicevano, ricorda un medico: “Stamane sono andato al lavoro che stavo bene, ma poi
verso le 11 mi sono sentito poco bene e ho dovuto staccare”.
Sembra quel che racconta Boccaccio quando scrive che durante la peste di Firenze facevano colazione coi famigliari vivi, e cenavano con quelli defunti.
Zitti per non danneggiare le vendite di Natale
It’s the epidemics, stupid?
Prima ancora che a Londra l’influenza russa era arrivata a
Parigi. E non l’avevano presa sul serio. Era esplosa, già agli
inizi di dicembre del 1889, tra i commessi e i clienti dei
Grands Magasins du Louvre. La parola d’ordine iniziale è
rassicurare, minimizzare (“si tratta di una normale grippe stagionale”, è benigna, passerà come sono passae tutte le altre
influenze. La preoccupazione prevalente è non danneggiare
le vendite natalizie.
Sin dall’inizio la stampa parigina si divide. “Le Petit Journal” deride i toni allarmistici di alcune pubblicazioni concorrenti. “L’influenza… della stampa” ironizza un titolo del
13 dicembre. L’articolo deride la moda di chiamare con un
termine esotico, l’italiano “influenza” un semplice malanno
stagionale. Rassicura i lettori che, “malgrado l’agitazione
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creata da giornali pronti a seminare panico”, non c’è nulla di
cui preoccuparsi. Il giorno dopo pubblicano la lettera del direttore dei Grands Magasins du Louvre. Lamenta un calo
della clientela dovuta all’impropria associazione “da parte di
certa stampa, della nostra insegna con l’epidemia”. Ancora il
23 dicembre un editoriale si erge a difesa delle “3.000 vere
vittime dell’influenza”, che sarebbero gli impiegati dei
Grands Magasins, ingiustamente additati come “appestati”,
i quali rischiano di perdere il posto di lavoro. Le Matin e La
Presse invece sostengono che pubblico e responsabili dovrebbero preoccuparsi di più di quella che si sta trasformando in un’emergenza sanitaria. “I pericoli dell’influenza. L’epidemia si aggrava”, titola La Presse il 27 dicembre;
“L’epidemia aumenta” ribadisce il 28, “Sempre l’influenza.
Colpevole indifferenza dei Poteri”, rincara il 29. La Presse
denuncia esperti e scienziati che trattano con leggerezza
un’epidemia che in poche settimane “ha già fatto 200.000
vittime a San Pietroburgo”.
Si intervistano gli esperti. Il 13 dicembre L’Echo de Paris
riesce a intervistare Louis Pasteur. L’intervista è breve, pare
che Pasteur fosse anche lui influenzato. Il celebre scienziato
non si espone. Alle domande su quale tipo di germe ritiene
sia responsabile della nuova epidemia risponde: “Ve l’ho già
detto, non si sa… bisogna cercare…”. Il dottor Adrien
Proust, ispettore generale dei Servizi d’Igiene (sì, è il padre
di Marcel, dell’autore della Recherche) intervistato da L’Eclair, sostiene di aver appreso dell’epidemia in Russia solo
dai giornali, non dalle autorità governative, e invita a prestare la stessa vigilanza che per il colera, la peste o la febbre
gialla. Gli contrappongono altri esperti i quali sostengono
che invece non ci sarebbe nulla per cui allarmarsi. Le statistiche, sostengono, dimostrerebbero che tassi di contagio e
mortalità sarebbero bassi.
A fine anno le Pompe le funebri parigine non riescono
più a smaltire i decessi. Sono colpite le scuole e le caserme.
Nella sola Parigi si registrano oltre 3.000 contagi al giorno.
Muoiono i vecchi. Il dottor Proust presenta al governo un
rapporto in cui conferma l’aggravarsi della situazione, attira
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l’attenzione sull’eccezionalità del nuovo contagio, fa notare
che, se anche si trattasse di un normale influenza, presenta
gravi complicazioni, speso mortali, per i soggetti più fragili.
Quasi lo linciano, con argomenti che ricordano quelli usati
dai negazionisti contro Fauci, Ferguson e gli esperti che invitavano a non prendere sottogamba il Covid. Qualche giornale pubblica vignette in cui si insinua che l’epidemia sia un’invenzione di medici e farmacisti, desiderosi di incrementare
le proprie entrate.
La Francia attraversa un momento politico delicato. È
appena fuggito in Belgio, inseguito da accuse di golpismo e
malversazioni finanziarie, il generale Georges Boulanger,
fondatore di un movimento populista che vorrebbe cambiare la Repubblica fondata sul “parlamentarismo corrotto”. Si
dicono né di sinistra né di destra. La loro parola d’ordine è
“pane e popolo”. Tuonano contro la grande finanza. Vogliono un “governo forte”, il loro. Hanno avuto un notevole successo alle ultime elezioni. I loro deputati sono stati eletti
metà con l’appoggio degli elettori monarchici, l’altra metà
con l’appoggio degli elettori che prima votavano per la sinistra. Guarda caso, i giornali più scatenati nel negare l’epidemia, e criticare i provvedimenti per arginarla, sono quelli di
destra, o legati al movimento boulangista, in quel frangente
all’opposizione. Salvo ricredersi, e accusare il governo di
non aver fatto nulla quando l’epidemia non si può più negare. “La Presse” è addirittura diretto da un deputato ex fedelissimo di Boulanger.
Qualcosa del genere si sarebbe verificato, un ventennio
dopo, attorno all’epidemia di spagnola.
Prima negavano, anche perché si era in guerra e le notizie
di epidemia avrebbero minato i morale delle truppe e della
nazione. Poi attribuivano la colpa della diffusione del morbo
ai nemici, e ai loro agenti all’interno. Secondo lo storico Zeev
Sternhell, il boulangismo francese, aveva anticipato quel mix
di nazionalismo, antiparlamentarismo, autoritarismo e populismo che nel secolo successivo avrebbe dato vita al fascismo. Il ruolo avuto dalla Grande influenza del 1918 sarebbe
ancora tutto da studiare ed accertare. La sinistra di allora a
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dire il vero non prestò attenzione a questo aspetto. Non aveva voglia o tempo di occuparsi di epidemie.
Mi ha incuriosito uno Staff report della Federal Reserve
Bank di New York a firma Kristian Blickle pubblicato il 20
maggio 2020, in piena pandemia Covid. Si intitola Pandemics Change Cities: Municipal Spending and Voter Extremism in
Germany, 1918-1933. Suggerisce, con una profusione di dati
alla mano, che la spagnola, con le sofferenze inflitte alla popolazione, e a causa delle difficoltà finanziarie che avevano
impedito alle amministrazioni locali di svolgere appieno il
loro ruolo di assistenza, ebbe conseguenze rilevanti nell’ allontanare nei primi anni trenta l’elettorato tedesco dalla democrazia di Weimar e spingerlo verso i partiti estremisti, in
particolare quello nazionalsocialista di Hitler. It’s the epidemics, stupid?
Una breccia nella Muraglia cinese
Il caso più clamoroso di iniziale censura, e di gravi ritardi
nel darne notizia e prendere le misure necessarie, è Wuhan.
L’oftalmologo Ki Wenliang, il medico che aveva rotto il silenzio imposto dalle autorità, e pubblicato già il 20 dicembre
2019 online sulla piattaforma cinese WeChat un messaggio
in cui avvertiva della presenza di un nuovo virus che produceva gravi e mortali insufficienze respiratorie era stato arrestato per “diffusione di informazioni false via internet”, assieme ad altri otto colleghi che avevano inoltrato i suoi
messaggi. Liberato dopo che era diventato insostenibile che
le sue informazioni fossero false, e tornato a lavorare all’Ospedale centrale di Wuhan, era stato infettato ed era deceduto di Covid il 7 febbraio 2020.
In questo caso la novità non è che in Cina si censurino le
notizie. Questo succede da sempre, da millenni
Succede per le notizie che hanno valenza politica, ma anche per le notizie notizie. La Cina fu l’unico paese al mondo
in cui non venne data notizia dell’atterraggio di un volo umano sulla luna. Si rimediava (e si rimedia ancora) con il passa173
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parola. La figlia di Deng Xiaoping ha raccontato di quando
l’intera famiglia era detenuta in un campo di rieducazione
attraverso il lavoro e suo padre infoIl sogno del villaggio dei
Dingrmò silenziosamente sua madre tracciandole col dito
dei caratteri sul palmo della mano: “Lin Piao è morto”. Segreto di Stato è tutto quello che non è confermato dalle fonti
ufficiali: credo che sia questa la definizione a cui ancora si
ispira il codice penale. La violazione una volta poteva essere
punita con la pena di morte. Vale anche per le catastrofi naturali. Un’amica, allora studentessa in Cina, ricorda che
quando ci fu il terremoto a Tangshan, nel Nord-est (250 mila
morti) si trovano a Wuhan, fu sorpresa che dall’Italia la chiamassero per sapere se stava bene. A Wuhan nessuno diceva
niente, non sapevano nemmeno che ci fosse stato un terremoto. A differenza che a Pechino, dove le scosse erano state
avvertite, nel resto della Cina non erano stati informati, i
giornali tacevano, non c’erano ancora internet e cellulari. La
Banda dei quattro pagò la censura, e la spaventosa inefficienza dei soccorsi con la rimozione, resa possibile dal fatto che
poche settimane dopo era morto il loro protettore Mao. Xi
Jinping rischiava (e forse rischia ancora grosso, la faccenda
ha e continuerà probabilmente ad avere pesanti ripercussioni internazionali). Se l’è cavata addossando ogni responsabilità sulle autorità locali.
È stato raccolto in volume, e tradotto anche in italiano il
blog quotidiano che la scrittrice Fang Fang ha tenuto nei
giorni del Covid. Si intitola Wuhan: Diari da una città chiusa.
Si presterebbe ad una lettura comparata con a fronte i diari
di Daniel Defoe e di Samuel Pepys sulla peste di Londra di
quatto secoli prima. Registra l’altalena quotidiana di paure e
speranze, disperazione e sollievo nei settantasei giorni di
lockdown totale. Nel pieno della crisi il blog aveva raggiunto
380 milioni di visualizzazioni su Weibo, il google cinese. Come Defoe e come Pepys l’autrice non è irrimediabilmente
critica nei confronti del governo. Come lo è invece il suo collega e maggiore sostenitore, il pechinese Yan Lianke, il quale
è giunto a sostenere che la propaganda e la disinformazione
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sono peggio del virus. Yan dice di temere che ci si dimentichi
di Wuhan e del Covid, come ci si è presto dimenticati del
Sars e di altre mille storie atroci, come quella che lui racconta nel suo romanzo più noto, Il sogno del villaggio dei Ding,
dove tutti si sono ammalati di Aids, a causa dell’avidità e
noncuranza dei trafficanti di sangue e delle autorità che li
hanno lascati fare chiudendo entrambi gli occhi. Come Defoe e Pepys, Fang Fang racconta invece del quotidiano, anche delle piccole cose ad esempio del come procurarsi vettovaglie e mascherine, insomma anche della lista della spesa.
Ma almeno non hanno chiuso i tabaccai
Un testimone vero, non immaginario come Defoe, è Samuel Pepys, che tenne un Diario stenografato dal 1660 al
1669. Nella versione “abbreviata” pubblicata nei Penguin
Classics occupa milleseicento pagine in caratteri piccoli. Durante la Grande peste del 1665, Defoe aveva appena cinque
anni. Pepys, che aveva sfollato in campagna la famiglia ma
era rimasto a Londra a causa dei suoi impegni all’Ammiragliato (l’Inghilterra era in guerra con l’Olanda, e lui era anche un membro del Parlamento), e forse anche a curare i
suoi affari privati, trovò ugualmente il tempo di annotare
tutto e di tutto, giorno e notte. C’è chi ha osservato: era un
blogger instancabile. È oggetto di controversia, tra gli addetti
ai lavori, se tra le fonti di Defoe ci fossero anche i Diari di
Pepys. Pare di no, furono decifrati e pubblicati assai più tardi. Ma qualcuno ha scoperto che Defoe conosceva e frequentava la persona che li aveva in custodia.
Le avvisaglie del contagio si hanno sin dalla primavera.
Ma ancora in aprile, benché senta il diffondersi di “una gran
paura nella City”, può compiacersi di come gli stanno andando bene gli affari: “Finisco il mese molto soddisfatto di
come stanno andando le cose per il mio patrimonio”. Poi comincia ad accorgersi che le cose si stanno mettendo male,
quando trova che due dei suoi pub preferiti sono stati chiusi
all’improvviso, con le finestre inchiodate. Altri pub rimane175
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vano aperti, ma furono bloccate le licenze per nuovi locali.
Pepys nota la chiusura delle scuole, e anche delle Università
di Oxford e Cambridge (tra gli studenti rimandati a casa, nel
suo caso non in città manella residenza di campagna della
famiglia, c’era un tale Isaac Newton; l’insegnamento a distanza si rivelò estremamente produttivo, gli consentì di concentrarsi sul calcolo infinitesimale). Certo Pepys è dispiaciuto nell’apprendere che il cameriere che lo serviva “ha dovuto
seppellire il suo bambino e sta morendo lui stesso”, che uno
dei lacchè che aveva mandato in campagna, ad avere notizie
dei suoi, è morto di peste, che il suo acquaiolo, che gli portava l’acqua fresca tutti i giorni, “si è sentito male appena fatta
la consegna venerdì scorso”, e poi è morto. Certo gli fa impressione sentire che il cocchiere (di vetture a noleggio, in
pratica il suo tassista) che “guidava così bene” sta male, e a
malincuore decide di noleggiare un’altra vettura, “col cuore
pesante per il poveretto”. Aggiungendo immediatamente
(Pepys è onesto, scrive per se stesso, non per un pubblico):
“E anche per me stesso, a pensare che [proprio il suo cocchiere] poteva avere la peste”. Ma è più interessato al suo
abito nuovo. Lo irrita che non piaccia alla moglie. La spedisce in quarantena da un amico fuori città (trova l’occasione
di togliersela di torno “molto opportuna”). Quindi esce,
“per sfoggiare il mio nuovo abito”.
In giugno è chiaro che non c’è da stare granché allegri, gli
secca, ma non più di tanto che siano chiusi tutti i teatri (riapriranno solo l’anno successivo), ma soprattutto gli fa gran
pena andare in Borsa e vedere che in giro non c’è più nessuno, anche se per sua fortuna, come avvenne anche da noi durante l’intero lockdown, i tabaccai restano aperti:
7 giugno 1665. Oggi controvoglia sono passato da Drury Lane e ho
visto molte case con la scritta ‘Signore abbi pietà di noi’ sotto una
croce rossa. È uno spettacolo triste, è il primo di questo tipo in cui
mi sono imbattuto! Mi sentivo soffocare e non avevo neanche il coraggio di respirare a pieni polmoni. Perciò ho acquistato tabacco da
masticare e così le mie paure si sono un po’ calmate...
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Poi, tra luglio e agosto, la situazione precipita, in rapida
progressione. Immancabilmente, la cosa che gli fa più impressione sono i funerali, le bare, il crescere percepibile del
numero dei morti. È la prima cosa che notano tutti: da Tucidide, a Boccaccio, a chiunque abbia scritto di una pandemia
letale. Anche da noi il punto psicologico di svolta si è verificato quando al telegiornale si sono visti per le vie di Bergamo
i cortei di autocarri militari che trasportavano nottetempo le
bare che non trovavano più posto nei cimiteri locali. Io invece a Roma potevo stare tranquillo: giusto sotto casa, tra i cipressi di viale Mazzini, avevano messo un enorme tabellone
pubblicitario con la scritta cubitale: “C’è chi bara e chi non
bara”. Più sotto si spiegava che la ditta Tal dei Tali offriva ai
propri clienti il feretro gratis, o, per dire più correttamente,
compreso nel prezzo. Dopo un po’ l’hanno tolto. Non so se
le bare andassero a ruba.
Ma torniamo a Pepys. Anche a lui fa impressione il crescere delle sepolture. Non è che i morti li stia a contare, come avrebbe poi fatto Defoe, e come facevano ogni sera alla
televisione. Pepys lo deduce da quando si seppelliscono: se
lo si fa alla luce del giorno, non significa certo che hanno
smesso di nascondere la reale portata della morìa, vuol dire
che ormai i decessi sono tanti e che non c’è verso di nasconderli: “Il tasso di mortalità è così alto che i morti non vengono più seppelliti di notte, come avveniva in precedenza ma
anche durante il giorno. Mylord [il sindaco di Londra] ha
disposto che tutte le persone sane devono ritirarsi in casa entro le 9 per consentire ai malati di uscire a prendere aria”.
E poi ancora:
16 agosto 1665. Oh mio Dio, che tristezza vedere le strade della città
diventate deserte! Ogni casa, Ogni porta chiusa induce a sospettare.
Sono chiusi due negozi su tre.
[…]
30 agosto 1665. Ho incontrato il nostro commesso: gli ho chiesto
aggiornamenti e mi ha fatto sapere che l›epidemia si diffonde sempre più anche nella nostra zona dove sono morte 9 persone benché
solo 6 siano state dichiarate ufficialmente: un fatto, questo, assoluta177
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mente deprecabile perché la gente non realizzerà la gravità dell›infezione se si continua a tenere nascoste le cifre reali.
[…]
14 settembre 1665. Ho attraversato un ponte perché l›epidemia ha
fatto molte vittime nei dintorni, e sono giunto alla Borsa. Era stranamente affollata. Ho fatto fatica a mantenermi celato e a cercare di
parlare con meno persone possibili. Ormai le prescrizioni sulla chiusura delle case infette non vengono più rispettate. E così c’è il rischio
di fermarsi a parlare con persone già ammalate […].[...]”
A settembre il numero dei morti sale a settemila la settimana. Nel giro di sette mesi perisce un quarto della popolazione. Qualcuno ha osservato: come se nell’anno del Covid
morissero a New York quattro milioni di persone. Ma, se
può consolare, nel giro di un paio d’anni si erano ripresi.
Pepys non è un sentimentale. È un uomo pratico. Non
smette nemmeno un istante di pensare ai propri affari. Che
continuano, malgrado tutto, ad andare sorprendentemente
bene:
31 dicembre 1665. L›anno termina in maniera molto positiva da
questo punto di vista: in questo anno ho aumentato il mio capitale da
1400 sterline a 4400 […] abbiamo avuto un periodo tremendo a causa dell›epidemia che mi ha anche cagionato grosse perdite di denaro
per aver dovuto mantenere la famiglia fuori Londra […]. Ma mi auguro che il re vorrà prendere la cosa in considerazione [accordando
una facilitazione fiscale]. Ora l›epidemia pare completamente eliminata. Io spero di ritornare definitivamente a Londra al più presto
[…] la città con nostra grande soddisfazione si sta di giorno in giorno ripopolando, e i negozi riaprono […].
Ma non è mai il caso di festeggiare troppo presto, soprattutto non porta bene. La seconda ondata è sempre in agguato. E in genere bussa sempre una seconda volta. Nel Diario
di Pepys arriva già prima che finisca l’inverno, la doccia fredda è già nella entry del 13 febbraio 1666: “Nel pomeriggio mi
sono recato all’Exchange [la Borsa], poi a pranzo dallo sceriffo […] pare che la pestilenza si stia rinfocolando e che ne
siano colpite molte zone della città […]”. Niente di peggio
che ricominciare tutto da capo.
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Il postino suona sempre due volte
La seconda ondata si rivela anche peggio della prima.
Nel 1666 re Carlo II è costretto a emanare un’ordinanza che
proibisce ogni genere di assembramento, compresi i funerali. Il postino suona sempre due volte. E la seconda, talvolta,
più forte della prima. Tutte le grandi pandemie, dalla peste
di Atene di cui scrive Tucidide in poi, bussano almeno due
volte, o anche più. L’influenza di “spagnola” del 1918 ebbe
almeno tre picchi. Il contagio torna quasi subito, non appena
si festeggia lo scampato pericolo, si riformano assembramenti e riprende la vita di sempre, oppure molto più in là, magari
a anni di distanza. Cosa dovevamo aspettarci per il Covid?
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5.
Untori e negazionisti
incredibiLe indifferenza
“Ma […] ciò che fa nascere un›altra e più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All’arrivo di quelle nuove de› paesi che
n›erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città quasi un semicircolo, in alcuni punti distante
da essa non più di diciotto o venti miglia; chi non crederebbe
che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di
precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo
vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla. La penuria dell’anno antecedente, le angherie della soldatesca, le
afflizioni d’animo, parvero più che bastanti a render ragione
della mortalità: sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi
buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La
medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e
fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de’ decurioni,
in ogni magistrato.”
Alessandro Manzoni, I promessi sposi, capitolo XXI
(1840)
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L’è un’invenzione deL governo
“El popol, che l’è popol in eterno,
el comenza a negà, ch’el maa el ghe sia:
disen: L’è on borridon del nost Governo
per srarì on poo i pitoch de Lombardia!”
Libera traduzione: il popolo, che sempre popolo è, comincia a negare che il colera esista: dice che è un’invenzione
del nostro governo per sfoltire un po’ di poveri.
Giovanni Rajberti, El cholera e i medegh de Milan, 1836
sosPetti gLi itaLiani deL continente
“Per colmo di sventura si propagava ogni di più e metteva radici profonde nel popolo l’antica superstizione che il
colèra fosse effetto di veleni sparsi per ordine del governo
[…] ogni provvedimento aveva il colore d’un attentato, in
ogni ordine si sospettava una mira scellerata, da ogni menomo indizio si traeva argomento a conferma del veneficio, in
ogni nonnulla se ne vedeva una prova. Gli ospedali, le disinfezioni, le visite dei pubblici officiali, tutto era oggetto di diffidenza, di paura, di abborrimento. I poveri non si risolvevano a lasciarsi trasportare negli spedali che nei momenti
estremi, quando ogni cura riusciva inefficace. Morivano la
più parte, e per ciò appunto si credeva più fermamente dal
volgo che le medicine fossero veleni, e i medici assassini. Preferivano morire abbandonati, senza soccorsi, senza conforti.
Non credevano al contagio […] e però abitavano insieme alla rinfusa sani ed infermi, famiglie numerose in angusti e immondi abituri.
Eran sospetti di veneficio tutti gli agenti della forza pubblica, i carabinieri, i soldati, i percettori delle dogane, gli officiali governativi. In alcuni paesi della Sicilia era sospetto di
avvelenamento qualunque italiano del continente; in qualche luogo tutti indistintamente gli stranieri erano sospetti. Si
spargevano e si affiggevano per le vie proclami sediziosi, eccitanti alla vendetta ed al sangue. Tratto tratto le popolazioni
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armate di falci, di picche, di fucili, si assembravano, percorrevano tumultuosamente le vie del paese cercando a morte
gli avvelenatori; minacciavano o assalivano le caserme dei
carabinieri e dei soldati; irrompevano nelle case dei medici, e
le mettevano a sacco; si gettavano nelle farmacie e vi distruggevano e disperdevano ogni cosa; invadevano l’ufficio del
comune, laceravano la bandiera nazionale, abbruciavano i
registri e le carte; costringevano le guardie nazionali a batter
con loro la campagna in traccia degli avvelenatori; andavano
a cercarli nelle case; credevano d’averli rinvenuti, li costringevano coi pugnali alla gola a immaginare e confessare dei
complici, li trucidavano, ne straziavano i cadaveri e li abbruciavano nelle vie e nelle piazze del paese. Intere famiglie, accusate di veneficio, venivano improvvisamente aggredite di
notte da turbe di popolani, e vecchi, donne, bambini cadevano sgozzati gli uni ai piedi degli altri senza aver tempo di
scolparsi o di supplicare; si ardevano le case e se ne disperdevano le rovine. A Via Grande, a Bel passo, a Gangi, a Menfi,
a Monreale, a Rossano, a Morano, a Frassineto, a Porcile, nel
Potentino, nell’Avellinese, in cento altri luoghi, continui assembramenti e ribellioni e delitti orrendi di sangue.”
Edmondo de Amicis, La vita militare, capitolo “Durante
il colèra del 1867”
cQua da noi nun ce viè, siPPuro è vvera
“Bbasta, o sse1 chiami còllera o ccollèra,
io sce ggiuco la testa s’un baiocco
che sta pidemeria sarvo me tocco,
cqua da noi nun ce viè, sippuro è vvera.
Nun zentite l’editto? che cchi spera
ne la Madon de mezz’agosto è un sciocco
si nn’ha ppavura? E cce vò ddunque un gnocco,
sor Marchionne, a accorasse in sta maggnera.
Disce: ma a Nninza fa ppiazza pulita.
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Seggno che cqueli matti mmaledetti
nun ze sanno avé ccura de la vita.
S’invesce de cordoni e llazzaretti
se sfrustassino er culo ar Caravita,
poteríano bbruscià ppuro li letti.
Giuseppe Gioacchino Belli , Er còllera mòribbus, Convezzazzione a l’osteria de la ggènzola indisposta e ariccontata co
ttrentaquattro sonetti, e tutti de grinza (4 agosto 1835)
L’asino esPiatorio
Un male
terribile, fatale,
che il Ciel forse inventò
per castigar le colpe della terra,
un mal pien di spavento
capace, se va bene,
d’empire i cimiteri in un momento,
la Peste insomma - dirla pur conviene faceva agli animali tanta guerra,
che morivan colpiti a cento a cento.
Nessuno ormai voleva
curarsi d’una vita orrida troppo;
ogni cibo faceva fastidio e groppo,
e lupi e volpi ciaschedun viveva
le mani e i piedi in mano;
fuggian le tortorelle per dispetto,
fuggia l’Amor lontano
e fuggia coll’Amor ogni diletto.
Allor tenne il Leone un gran consiglio,
e disse: – Amici miei,
poiché davanti al Ciel tutti siam rei
di colpe, ed è perciò che ne castiga,
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per toglierci di briga, ecco, direi
che quei che ha più peccato
nella sua vita, sia sacrificato.
Il suo sangue (e la storia ci dimostra
che più volte giovò l’espediente)
forse otterrà la guarigione nostra.
Facciamo orsù l’esame di coscienza
fratelli, e confessiam senza indulgenza
i fatti nostri. Già per parte mia
confesso che provai ghiottoneria
di molti agnelli, poveri innocenti,
e che mi venne fatto per errore
di mangiar qualche volta anche il pastore.
Io son pronto a scontar colle mie vene
le colpe mie, se farlo oggi conviene,
ma prima ciaschedun con altrettanta
sincerità confessi, onde il più reo
colla sua vita paghi il giubileo.
– Sire, – disse la Volpe, – un sì buon re
al mondo come voi forse non c’è.
Che scrupoli son questi, Maestà,
per quattro canagliucce di montoni?
Non vedo che vi possa esser peccato
a mangiar questa razza di minchioni.
No, no, signor, anzi fu un grande onore
a ognun d’essi il sentirsi rosicchiato
dai vostri denti. In quanto a quel pastore,
meritava di peggio in verità,
visto ch’egli osa il titolo di re
vantar sopra le bestie, e non gli va –.
A questo dir scoppiar grandi gli applausi
tra i cortigiani. In quanto ai Tigri, agli Orsi
e agli altri illustri poi non si cercò
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il pel nell’ovo e i minimi trascorsi,
dal più ringhioso all’ultimo dei cani
per poco non sembrarono al capitolo
dei santi a cui si può baciar le mani.
S’avanza in fine a confessarsi l’Asino
contrito in cor, e confessando il vero,
narra che un giorno, andando
nel fresco praticel d’un monistero,
o fosse tentazione del demonio,
o fame o gola di quell’erba tenera,
brucò dell’erba (e fu cosa rubata
per essere sincero),
ma ne prese soltanto una boccata.
Udito ciò, gridarono anatèma
quei santi padri al povero Asinello.
Un Lupo, intinto di teologia,
sorto a parlar sul tema,
mostrò che la cagion della moria
venìa da questo tristo spelacchiato,
che per il suo malfare
bisognava che almen fosse impiccato.
Mangiar dell’erba altrui…! ma si può dare
azione più nefanda?
La morte era una pena troppo blanda
per espiar sì orribile misfatto.
E come disse il giudice fu fatto.
Della giustizia quando siede al banco,
sempre il potente come giglio è bianco,
ma se a seder si pone
il poveraccio, è un sacco di carbone.”
Jean de la Fontaine, Fables: “Les animaux malades de la
peste”, nella traduzione ottocentesca di Emilio De Marchi.
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La prima reazione è negare che la pandemia ci sia. Negano le autorità. Nega la gente, nega quel che chiamano “il popolo”. Negano per convinzione, o perché qualcuno ha interesse a convincerli. Negano perché non sanno. O negano
appunto perché sanno. Negano per incoscienza, negano per
comodità (o piuttosto per non essere scomodati), negano per
viltà, o negano per calcolo. Quando il contagio ormai già imperversa, non si può più negare, si cerca e si inventa il colpevole, si passa ai pogrom, alla caccia alle streghe e all’untore.
Manzoni è tra quelli che raccontano bene il meccanismo.
All’inizio l’indifferenza delle autorità, che hanno ben altro a
cui pensare in quel momento (la guerra, l’economia, le nomine, le lotte interne alla nomenclatura, la necessità di ingraziarsi il potere centrale). Non vogliono essere distratti da un
altro grattacapo. Poi l’insipienza dei medici e degli esperti
che si guardano bene dall’indisporre le autorità. E, peggio
ancora, “ragion di più forte maraviglia” l’indifferenza, più
ancora dell’incredulità, della gente comune, di coloro che
non sono stati ancora toccati dal contagio ma avrebbero più
ragione di temerlo.
Le autorità sanitarie milanesi mandano a informare il governatore, la più alta autorità in loco, che risponde direttamente a Madrid. “V›andarono, e riportarono: aver lui di tali
nuove provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser più pressanti: sed belli graviores esse curas. […] Due o tre giorni dopo, il 18 di
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novembre, emanò il governatore una grida, in cui ordinava
pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d›un gran concorso, in tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato parlato di nulla”.
Povero marchese Ambrogio Spinola, così maltrattato dal
Manzoni e (forse appena un po’ meno) dalla storia! Provate
a mettervi nei panni di chi aveva l’ingrato compito di riferire
del coronavirus a Xi Jinping a Pechino, a Trump alla Casa
Bianca, a Putin al Cremlino, all’Ak Saray di Erdogan ad Ankara, a Bolsonaro al Palácio da Alvorada e al 10 di Downing
Street occupato da Boris Johnson.
Se non se ne curano in alto loco, figurarsi che glie ne può
importare a quelli su cui ricade l’incomodità (e il costo) delle
misure che andrebbero adottate. Senza contare che (meraviglia un po’ la maraviglia di Manzoni su questo) chi non ha
avuto ancora la peste (o il Covid o qualsiasi altra diavoleria)
tende a ritenere che la cosa non lo riguardi, è istintivamente
portato a ritenersi immune (se non mi è capitato sinora perché dovrebbe capitarmi ora), a considerarlo un problema altrui, di quelli che, sfortunati loro, ci sono cascati. Salvo prendersi una strizza pazzesca quando gli tocca, viene il loro
turno.
La pima reazione quindi non è la paura. È l’incredulità.
Un’incredulità dal basso, che si accompagna, anzi viene incoraggiata da un’incredulità dall’alto (come succede per
un’infinità di malanni storici, il “sovversivismo” ad esempio,
per dirla con Gramsci, o il disprezzo delle legge o delle tasse). La peste non esiste. Se esiste non mi tocca. Se la sono inventati per farci paura, per spillarci soldi, e così via…
Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s›attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de› casi
allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci
fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco
alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de› pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di pe187
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ste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con
qualunque segno fosse comparso.
Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci
pervenivano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia e
del lazzeretto aguzzava tutti gl›ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri,
s›ebbero, con danari, falsi attestati.
Guai a chi dice che c’è un problema
L’immunologo Anthony Fauci, che è a capo della Task
force Usa contro il Covid e il professor Neill Ferguson, che
ha diretto il rapporto dell’Imperial College di Londra che
avvertiva di non prendere sottogamba il Covid hanno un
predecessore nei Promessi Sposi: il Protofisico (Medico capo) Lodovico Settala. Per poco lo linciavano, benché fosse
già quasi ottuagenario. Ecco come la, racconta Manzoni:
Un giorno che andava in bussola [portantina] a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo
di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva
in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia:
tutto per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in
una casa d›amici, che per sorte era vicina. Questo gli toccò per aver
veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte
migliaia di persone.
Salvo poi rifarsi in popolarità quando liscia il pelo al populismo peggiore, agli istinti peggiori: quando sposa la teoria
che i responsabili della peste siano gli untori, o “[…] quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far torturare,
tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco,
e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato
di lei, allora ne avrà avuta presso il pubblico nuova lode di
sapiente e, ciò che è intollerabile a pensare, nuovo titolo di
benemerito”.
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La gente era infastidita che per far fronte alla peste il tribunale “ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case,
mandava famiglie al Lazzaretto”, che gli si proibissero assembramenti, chiudessero le osterie, gli si limitasse la libertà
di movimento. Infastidita non è la parola giusta, bisognerebbe dire piuttosto inferocita, “persuasi, com’eran tutti, che
fossero vessazioni senza motivo, senza costrutto”.
C’è, come vedremo meglio nel capitolo seguente, una
strana maledizione che pesa sui medici. Anche durante la peste di Milano, se dobbiamo credere al Manzoni, “l›odio principale cadeva sui medici”:
[…] a tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza
essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello, d›affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d›incontrare
ostacoli dove cercavano aiuti, e d›essere insieme bersaglio delle grida, avere il nome di nemici della patria: pro patriae hostibus, dice il
Ripamonti. Di quell›odio ne toccava una parte anche agli altri medici
che, convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I
più discreti li tacciavano di credulità e d›ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento.
Finché anche i più caparbi negazionisti sono costretti ad
ammettere che la peste esiste davvero e non è cosa da prendersi alla leggera.
Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si
diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra› poveri, cominciò a toccar persone più conosciute. E tra queste, come
allora fu il più notato, così merita anche adesso un›espressa menzione il protofisico Settala. Avranno almen confessato che il povero vecchio aveva ragione? 704 Chi lo sa? Caddero infermi di peste, lui, la
moglie, due figliuoli, sette persone di servizio. Lui e uno de› figliuoli
n›usciron salvi; il resto morì.
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Certo cambiano le percezioni quanto capita a te, a qualcuno della tua famiglia, “a persone più conosciute”. Boris
Johnson ha cambiato atteggiamento da quando è finito in terapia intensiva. Non si fida più dell’”immunità di gregge”,
non liquiderebbe più la faccenda con un cinico: “Dobbiamo
abituarci a perdere qualcuno dei nostri cari (sottinteso: qualche vecchietto). Forse ha cambiato idea Silvio Berlusconi. La
cambierebbe forse anche Matteo Salvini, così allergico alla
mascherina (lo si è sentito dire persino: mia figlia a scuola
non la mando se la obbligano a mettere la mascherina”). Ma
torniamo al Manzoni: “Questi casi […], occorsi nella Città
in case Nobili, disposero la Nobiltà, et la plebe a pensare, et
gli increduli Medici, et la plebe ignorante et temeraria cominciò stringere le labra, chiudere li denti, et inarcare le ciglia”.
Il guaio è però che a quel punto si fa strada un’altra favola, quella della “peste manufatta”, del contagio diffuso ad
arte da perfidi e diabolici nemici. “Coloro i quali avevano
impugnato così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi
naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a
que› mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un
grand›inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a
trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne
venisse messa in campo. Per disgrazia, ce n›era una in pronto
nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto,
ma in ogni parte d›Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni
contagiosi, di malìe”.
È la favola degli untori. Antica quanto sono antiche le
epidemie e i racconti sulle epidemie. La si è rivoltata nel corso dei secoli, anzi dei millenni, in tutte le maniere. La caccia
ai colpevoli è permanente. Qualcuno è accusato più frequentemente di altri. Si va dalle interpretazioni a rovescio delle
piaghe d’Egitto, che sono antiche quasi quanto lo è la Bibbia
(altro che fuga e liberazione dalla schiavitù, gli Ebrei furono
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cacciati dal Faraone perché infettavano gli Egiziani!), ai massacri di ebrei durante la Peste nera perché li si accusava di
avvelenare i pozzi, alla parabola nazista che giustificò l’Olocausto: sono loro, gli Ebrei, la Peste in persona. Ben che andasse gli davano dei “gufi”. Judenfieber, febbre giudaica veniva chiamato il tifo, e forse non è un caso che per
sterminarli poi usarono il Zyklon B, ritrovato che originariamente doveva servire ad eliminare i pidocchi, portatori di tifo. Anche gli Armeni erano stati indicati, durante i massacri
del 1915-19, come portatori di tifo.
Ma almeno in un caso lo stigma di infetti, portatori di
contagio, fu salvifico. E non si tratta nemmeno di una favola.
Quando nell’ottobre 1943 i nazisti occupavano Roma ed erano già in corso le retate nel Ghetto, un medico dell’Ospedale
Fatebenefratelli, sull’antistante Isola Tiberina, Adriano Ossicini, e il suo primario Giovanni Borromeo, con la complicità anche di altri operatori sanitari, inventarono il reparto per
gli ammalati del “morbo di K”. K stava per l’iniziale di Kesselring, il comandante supremo delle armate tedesche in Italia, o forse per Kappler, il responsabile della Gestapo a Roma. I ricoverati erano ebrei e altri ricercati in fuga. Funzionò.
I tedeschi si guardarono bene dall’ispezionare il reparto dove erano ricoverati i degenti che le false cartelle cliniche indicavano come colpiti da quella malattia “contagiosissima”.
La favola dell’untore continua ad essere propagata anche
ai giorni nostri, e ovviamente non solo contro gli Ebrei. Il
Covid si è accompagnato, almeno all’inizio, alla caccia ai Cinesi un po’ ovunque nel mondo, e ci sono stati episodi di
caccia agli Africani in Cina. Gli Indù hanno dato la caccia ai
musulmani in India, mentre in Pakistan se la prendevano
con i non musulmani. Ogni volta che si diffonde una nuova
epidemia scatta la caccia agli “stregoni” in Africa (o ai bianchi, non fa una così grande differenza, il principio è lo stesso,
tranne che viene notato di più). È aperta quasi ovunque la
caccia all’untore straniero, specie all’untore immigrato, e il
Cielo ce ne guardi, dall’immigrato clandestino. Anche in Italia, come se il virus non si diffondesse altrettanto, anzi peg-
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gio, da italiano ad italiano. Salvo offendersi se sono gli altri
ad applicare restrizioni a noi.
Tre gattoni sul comò
Manzoni, che è un grande narratore, non resiste a riferire
un paio delle favole che circolavano. Ecco la prima:
Tra le storie che quel delirio dell’unzioni fece immaginare, una merita che se ne faccia menzione, per il credito che acquistò, e per il giro
che fece. Si raccontava, non da tutti nell’istessa maniera (che sarebbe
un troppo singolar privilegio delle favole), ma a un di presso, che un
tale, il tal giorno, aveva visto arrivar sulla piazza del duomo un tiro a
sei, e dentro, con altri, un gran personaggio, con una faccia fosca e
infocata, con gli occhi accesi, coi capelli ritti, e il labbro atteggiato di
minaccia. Mentre quel tale stava intento a guardare, la carrozza s›era
fermata; e il cocchiere l›aveva invitato a salirvi; e lui non aveva saputo dir di no. Dopo diversi rigiri, erano smontati alla porta d›un tal
palazzo, dove entrato anche lui, con la compagnia, aveva trovato
amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale; e in esse, fantasime
sedute a consiglio. Finalmente, gli erano state fatte vedere gran casse
di danaro, e detto che ne prendesse quanto gli fosse piaciuto, con
questo però, che accettasse un vasetto d›unguento, e andasse con
esso ungendo per la città. Ma, non avendo voluto acconsentire, s›era
trovato, in un batter d›occhio, nel medesimo luogo dove era stato
preso.
Gli serve probabilmente, nell’economia del romanzo,
per alleggerire uno capitolo un po’ arido. Ma anche per dir
bene di un personaggio dell’epoca cui lui tiene: il cardinale
Federigo Borromeo. Eccola:
Questa storia, creduta qui generalmente dal popolo, e, al dir del Ripamonti, non abbastanza derisa da qualche uomo di peso (Apud prudentium plerosque, non sicuti debuerat irrisa), girò per tutta Italia e
fuori. In Germania se ne fece una stampa: l›elettore arcivescovo di
Magonza scrisse al cardinal Federigo, per domandargli cosa si dovesse credere de› fatti maravigliosi che si raccontavan di Milano; e
n›ebbe in risposta ch›eran sogni.
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Ed ecco la seconda favola, o secondo sogno che dir si voglia:
Ma ciò che reca maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che fin da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino, il quale l›aveva pronosticata, vista entrare, tenuta d›occhio, per
dir così, nel suo progresso, il quale aveva detto e predicato che l›era
peste, e s›attaccava col contatto, che non mettendovi riparo, ne sarebbe infettato tutto il paese, vederlo poi, da questi effetti medesimi
cavare argomento certo dell›unzioni venefiche e malefiche; lui che in
quel Carlo Colonna, il secondo che morì di peste in Milano, aveva
notato il delirio come un accidente della malattia, vederlo poi addurre in prova dell›unzioni e della congiura diabolica, un fatto di questa
sorte: che due testimoni deponevano d›aver sentito raccontare da un
loro amico infermo, come, una notte, gli eran venute persone in camera, a esibirgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le case
del contorno; e come al suo rifiuto quelli se n›erano andati, e in loro
vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra, «che sino
al far del giorno vi dimororno.
Negazione e terrore, paura e immaginazione sono le due
facce della stessa medaglia. Anche chi non crede alle favole o
ai sogni, come non ci crede il cardinale Federigo Borromeo,
non può non credere all’evidenza, alle prove, alle confessioni. Perché sì, gli untori i loro misfatti li confessano, così come le streghe confessavano i loro commerci con il Diavolo.
Gli uni e le altre con dovizia di dettagli immaginifici, grandi
voli di fantasia. Confessavano, è vero sotto tortura, ma così si
usava allora. Si sarebbe continuato ad usarla come metodo
inquisitorio anche molto, ma molto dopo Cesare Beccaria e
Pietro Verri.
Giudici che sbagliano o burocrati del Male?
Sul processo agli untori della peste di Milano si è scritto
l’ira di Dio. I commentatori si sono divisi in manzoniani e
anti-manzoniani, hanno fatto a pezzi o esaltato La storia della
colonna infame, il saggio storico che Manzoni aveva voluto
separare dai Promessi sposi. Hanno riscartabellato fonti e do193
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cumenti. Si sono dilaniati per partito preso, come si trattasse
di una controversia tra garantisti e giustizialisti. Nel suo Peste e untori del 1937 Fausto Nicolini, in polemica con Manzoni, aveva ricordato che in quel processo che si concluse
con la confessione, la condanna e l’atroce esecuzione dei
presunti untori l’istruttoria era stata affidata “a un Monti e a
un Visconti, ch’è quanto dire a uomini di cui tutta Milano
venerava l’integrità, l’illibatezza, l’ingegno, l’amore pel bene
pubblico, lo spirito di sacrificio e il grande coraggio civile”.
Leonardo Sciascia, nella sua Introduzione alla Storia della colonna infame, in polemica con Fausto Nicolini, gli risponde
che, come gli aguzzini nazisti “buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica e rispettosi degli a animali”,
“quei giudici furono ‘Burocrati del Male’: e sapendo di farlo”. Torna invece a spezzare una lancia dalla parte dei giudici
Franco Cordero nella sua Fabbrica della peste.
Ecco il modo in cui Paolo Preto, nel suo Epidemia, paura
e politica nell›Italia moderna riassume, credo non senza un
pizzico di ironia, la posizione di Cordero:
Con La fabbrica della peste di Franco Cordero il processo degli untori incontra finalmente uno storico del diritto armato di robusta e
puntuale conoscenza della teoria e della prassi giudiziaria milanese
nel 600: ’stavolta avviene tutto legalmente’, ‘non constano abusi’
nell’uso della tortura, i giudici restano quasi sempre ‘nei limiti della
perversione connaturata al sistema inquisitorio, dove regole confuse
e flessibili permettono quasi tutto’, ‘i diritti della difesa sono salvi’[…] I giudici sono onesti e davvero convinti del complotto, operano con ‘accanimento analitico’ e scrupolo garantistico ignoti nella
prassi europea contemporanea […]
E poi quei giudici hanno a che fare con delinquenti patentati, dei noti malavitosi, i quali sotto interrogatorio si contraddicono e si accusano l’un l’altro:
Gli interrogatori degli imputati, riletti secondo la prassi giudiziaria,
la mentalità, le circostanze culturali e politiche di quel momento storico, indicano precisi indizi di reità: Mora, ‘servizievole, untuoso, integratissimo, vigliacco, moderatamente imbroglione’ […] Piazza è
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un ‘manigoldo dallo sguardo duro’ classificato nella malavita dall’opinione pubblica […]
“Quanto alle unzioni poi, il reato contestato agli imputati, ci sono state: sono autentiche ‘le fatture nella pentola e
quelle manovre nell’osteria, intese alla disseminazione benefica’, […] ‘Milano impestata sta diventando un enorme affare economico’, la peste è una ‘grossa occasione criminosa’ e,
‘a parte Mora e Piazza, non sembra contestabile che a Milano abbiano unto’, Milano è città adatta a ‘maleficia su vasta
scala’, ‘chiunque voglia se lo fabbrica un unto benefico, pescando in massime comuni o specialistiche, su secrezioni cadaveriche, veleni animali e roba simile’.
Le motivazioni delle unzioni sono agevoli da individuare: ‘attese
apocalittiche’, ‘rabbia sovversiva’ che ‘ripete jaqueries urbane esplose nei secoli prima’ […] un ‘impulso eversivo classistico’ […] ‘insomma sarebbe un miracolo se nessuno avesse unto’ […]
“In una Milano avvolta da credenze stregoniche e demoniache, fresca di processi alle streghe meno garantisti di questo, i crimini atrocissimi imputati a Mora e Piazza appaiono probabili a magistrati
onesti.
Insomma l’errore giudiziario c’era stato, questo nessuno
lo può negare. Gli untori, non erano untori. Ma non erano
neanche stinchi di santo. Guazzavano nella palude della criminalità diffusa di una grande metropoli. Si erano contraddetti e accusati a vicenda (ma questo succede nelle migliori
famiglie: l’avevano fatto anche i vecchi Bolscevichi nei processi di Mosca degli anni ’30). «Vedete quello che volete che
dica che lo dirò», continua a ripetere sotto tortura il barbiere
Mora. Nella Milano della peste fiorivano gli affari loschi, c’era da guadagnare parecchio col traffico di rimedi ciarlataneschi, e anche dalla diffusione della peste, magari per conservare il posto di lavoro, come succede coi pompieri che
appiccano incendi. Forse erano loro stessi convinti di aver
fatto gli untori, come probabilmente erano davvero convinte
di avere poteri di fattura molte delle streghe mandate al rogo.
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Poi c’erano i precedenti, la pietra di paragone (o, secondo i punti di vista, la corda al collo di ogni giurisprudenza).
Era già da un secolo che si facevano processi e roghi di untori, engraisseurs, a Ginevra e nelle vallate alpine. Ce l’ha con i
protestanti Il lionese Claude Rubys, che nel suo Discours sur
la contagion de peste qui a esté ceste presente annee en la ville
de Lyon, contenant les causes d›icelle, l›ordre, moyen et police
tenue pour en purger, nettoyer et deliurer la ville, del 1577, fa
risalire l’abitudine delle unzioni appestatrici addirittura
all’imperatore Commodo. I protestanti attribuiscono le unzioni ai cattolici. A Tolosa nel 1530 “alcuni italiani” furono
accusati di “seminare” la peste nelle città ugonotte del Sud
della Francia. Prontamente processati, attanagliati e sottoposti ad altre torture, furono poi decapitati.
Volevano distruggere l’Italia
C’era poi la guerra. Niente di più plausibile che a diffondere la peste fossero i nemici. Nel processo agli untori spuntano ad ogni piè sospinto accuse ai “forastieri”, agli stranieri.
Uno dei baristi della malfamata Osteria dei Sei ladri, frequentata dagli accusati, testimonia che “si diceva” che le unzioni venissero dai Francesi: “Volevano distruggere l’Italia”.
Altri tiravano in ballo i Tedeschi, il che non sarebbe così peregrino, visto che, a quanto sembra, il Paziente Zero fu, già
nell’ottobre 1629, un soldato milanese, tale Pietro Antonio
Lovato, il quale aveva comprato panni razziati per le valli
bergamasche da un lanzichenecco. La prova? Gli untori erano quasi sempre “vestiti alla francese”. Ne La peste di Milano
del 1630, una tragedia quasi contemporanea agli avvenimenti attribuita a padre Benedetto Cinquanta, che alcuni ritengono sia una delle fonti dei Promessi sposi, il protagonista,
Casimiro, ritiene che lo abbiano preso per untore dai milanesi perché la sua foggia di vestire lo tradisce come “straniero”: infatti non è milanese, viene da Bologna.
Correvano le voci più disparate: che a capo della grande
cospirazione ci fosse il Principe di Condé, no il cardinale Ri196
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chelieu, no il Wallenstein, comandante supremo delle forze
imperiali, no gli eretici ginevrini, no il Duca di Savoia che
avrebbe pagato e sguinzagliato almeno una settantina di
“untori piemontesi”, attentatori suicidi di quei tempi. Non
manca il “grande vecchio”, un’altrimenti innominata “persona grande” che reggerebbe le fila di tutto. Ci fu addirittura
chi sosteneva che i francesi si fossero messi d’accordo con i
loro nemici spagnoli, allora padroni di Milano, per “annientare tutta l’Italia”. Come si vede, le conspiracy theories più
bizzarre non sono nate con l’11 settembre, e nemmeno le più
recenti campagne tipo quelle contro Soros o Bill Gates, accusato di voler profittare del Covid, anzi di averlo addirittura inventato, per promuovere i suoi vaccini. Non mancano
nella peste di Milano accuse contro alcuni banchieri, che finanzierebbero gli untori per fare confusione, evitare la bancarotta e arricchirsi. Vengono perquisiti i loro uffici, loro
stessi accusati, ma se la cavano versando ingenti cauzioni.
Uno di questi, Girolamo Turconi, viene accusato di essere in
combutta con Venezia. A Madrid il conte-duca Olivares accredita ufficialmente l’accusa e convoca l’ambasciatore di
Venezia. Minaccia che “se consterà tanta sceleraggine... i Venetiani saranno fatti cenere”.
Non avete l’impressione di aver sentito qualcosa del genere detto di recente dal capo di un’altra Superpotenza planetaria? La Serenissima naturalmente è sdegnata per le accuse infamanti. Ma invita il proprio ambasciatore a lasciar
cadere, ché “è tanto insussistente il motivo, che non merita
se ne reflette, né se ne parli” e ribadisce che è evidente a tutti
quanti che la peste è nata invece dalla “discesa degli alemanni”, cioè dell’esercito imperiale, in Italia. Comunque la cosa
finì lì e non se ne parlò più. A me ricorda lo scambio di accuse tra Washington e Pechino su da dove sia originato il Coronavirus, se sia scappato dal laboratorio militare di Wuhan o
sia arrivato invece dall’America. Ma forse i Veneziani qualche idea del genere, di guerra chimica o batteriologica, l’avevano avuta se, appena qualche anno dopo, nel 1646, il provveditore generale in Dalmazia, Lunardi Foscolo, sollecita gli
Inquisitori di Stato a inviargli veleni “che saranno le più si197
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cure armi co quali per aventura potrà offendersi nemico potente, iniquo e vicino” e poi nuovamente, il 5 febbraio 1650
invia a Venezia un progetto ancora più ambizioso, quello di
“approfittare dell’occasione opportunissima di questa pestilentia” [l’epidemia che ha colpito Candia nel 1646] per utilizzare contro i Turchi il ritrovato di un medico “valoroso”,
Michelangelo Salomone di Zara, “un liquore scatturito da
fieli, bubone et carboni d’appestati con altri ingredienti, che
averà forza et virtù, dove sarà sparso, essendo la quinta essenza della peste, di privar di vita nel spatio di poco tempo
qualsivoglia numero di persone” (Archivio di Stato Venezia,
Consiglio dei Dieci, Misto, reg. 19, c 75, citato in Paolo Preto,
Epidemia, paura e politica nell›Italia moderna.
C’è la pandemia, governo untore!
La fenomenologia dell’untore è sterminata. Prima e dopo
la peste manzoniana. Mi chiedo se il Manzoni, nello scrivere
di peste, untori, sommosse per il pane, folle ostili nel 1600,
avesse in mente le caccie agli untori e le sommosse per il colera dei suoi tempi. Arrivato in Europa dall’India, forse dalla
Russia, il colera aveva raggiunto anche l’Italia nel 1835. Aveva imperversato a ondate successive, di decrescente virulenza, (nel 1849, 1854-55, 1863, 1865-67, 1873, 1884-86, 1893 e
1910-11. Ma tutte accompagnate da rivolte popolari contro i
governi del momento, linciaggi di presunti avvelenatori, attacchi a medici, ospedali e farmacie, oltre che alle forze
dell’ordine. Il popolo crede, fortissimamente crede agli untori e ai veleni. E crede, fortissimamente crede che l’epidemia sia un’espediente dei ricchi per eliminare i poveracci e
del governo – qualsiasi sia il governo, di qualsiasi tipo e colore – per spremere più tasse alla gente. È impressionante la
documentazione fornita da Paolo Preto su ciò che succede,
decennio dopo decennio, tra Ottocento e inizi del Novecento nell’Italia meridionale, e sulla ricaduta che voci, dicerie
dell’untore, hanno nella cronaca e nella letteratura.
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Un personaggio dei Malavoglia di Verga si becca il colera
da un untore, o così almeno sono tutti convinti:
“La Longa una volta, mentre tornava da Aci Castello, col
paniere al braccio, si sentì così stanca che le gambe le tremavano, e sembrava fossero di piombo. Allora si lasciò vincere
dalla tentazione di riposare due minuti su quelle quattro pietre liscie messe in fila all›ombra del caprifico che c›è accanto
alla cappelletta, prima d›entrare nel paese; e non si accorse,
ma ci pensò dopo, che uno sconosciuto, il quale pareva stanco anche lui, poveraccio, c›era stato seduto pochi momenti
prima, e aveva lasciato sui sassi delle gocce di certa sudiceria
che sembrava olio. Insomma ci cascò anche lei; prese il colera e tornò a casa che non ne poteva più, gialla come un voto
della Madonna, e colle occhiaie nere”.
I Malavoglia restano soli, il paese intero li evita, che “ciascuno pensava alla pelle”, prete compreso. Tranne il farmacista, che
Lui invece, se gli avessero portato la ricetta del medico per qualche
medicina, avrebbe aperto la spezieria anche di notte, che non aveva
paura del colèra; e diceva pure che era una minchioneria di credere
che il colera lo buttassero per le strade e dietro gli usci. — Segno che
è lui che sparge il colèra! — andava soffiando don Giammaria.
“La povera gente se la prendeva con gli “Assassini del
governo!...” racconta De Roberto ne I Viceré
Scambiava commenti sulle notizie del colera, sull›origine della pestilenza, sulla fuga universale che spopolava la città. I più credevano al
malefizio, al veleno sparso per ordine delle autorità; e si scagliavano
contro gl’’italiani’, untori quanto i Borboni. Al Sessanta, i patriotti
avevano dato a intendere che non ci sarebbe stato più colera, perché
Vittorio non era nemico dei popoli come Ferdinando; e adesso, invece, si tornava da capo! Allora, perché s›era fatta la rivoluzione? Per
veder circolare pezzi di carta sporca, invece delle belle monete d›oro
e d›argento […]? O per pagar la ricchezza mobile e la tassa di successione, inaudite invenzioni diaboliche dei nuovi ladri del Parlamento? […] Eran questi tutti i vantaggi dell’Italia una?...
Luigi Capuana fa esperienza di persona del colera del
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1887 come sindaco di Mineo, dove il popolino non glie n’é
per niente grato, perché “crede che sia il sindaco quello incaricato di spargere il veleno del governo”. Tutti lo sanno chi
sta ordendo scientificamente il massacro, hanno persino una
macchina fatta apposta per ammazzare la gente nel modo
più rapido possibile:
Arrivavano brutte notizie da Palermo, da Catania, da Messina: la
gente moriva come mosche. Si sapeva di certa scienza che la macchina per buttare il veleno era già arrivata al Pretore e al Maresciallo dei
carabinieri. Solamente il Parroco non s›era ancor messo d›accordo
col Maresciallo, col Pretore […].
Il piemontese Edmondo de Amicis, l’autore di Cuore, nei
suoi Ricordi della Vita militare, aggiunge, per esperienza diretta, che erano “sospetti di veneficio tutti gli agenti della
forza pubblica, i carabinieri, i soldati, i percettori delle dogane, gli officiali governativi”. E che, anzi, “in alcuni paesi della Sicilia era sospetto di avvelenamento qualunque italiano
del continente”.
Altro che “Piove governo ladro!”, il modo di dire nazionale su cui Gramsci rifletteva in carcere. È un coro senza fine
di “Porco governo untore!”.
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6.
Maledetti medici e infermieri
non era iL san raffaeLe
“Dopo un giorno di viaggio, in treno, Giuseppe Conte
arrivò, una mattina di marzo, alla città dove c’era la famosa
casa di cura. Aveva un po’ di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi la strada tra la stazione e l’ospedale, portandosi la
sua valigetta. Benché avesse soltanto una leggerissima forma
incipiente, Giuseppe Conte era stato consigliato di rivolgersi
al celebre sanatorio, dove non si curava che quell’unica malattia.”
Dino Buzzati, Sette piani, in Sessanta racconti
Perché ci si infetta negLi osPedaLi
“Languebam: sed tu comitatus protinus ad me
Venisti centum, Symmache, discipulis.
Centum me tetigere manus aquilone gelatae:
non habui febrem, Symmachae, nunc habeo.”
“Stavo poco bene, Simmaco. E tu sei venuto subito
Con i tuoi assistenti – un centinaio almeno.
E cento mani mi hanno toccato,
Gelate come il vento di tramontana:
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Non avevo la febbre, Simmaco, adesso ce l’ho.”
Marziale, Epigrammi, V, 9
MANCA TITOLO
Chirurgus fuerat, nunc est vispillus Diaulus
Quod vispillus facit, fecerat et medicus
Era chirurgo, ora fa il becchino
Da becchino fa quel che faceva da medico
Marziale Epigrammi, I, 47
Prognosi discutibiLi
“Poiché agli otto di maggio repentinamente mi assalse la
solita violentissima febbre, convennero subito attorno al mio
letto in folla i medici, parte inviati dal signore della città, parte spontaneamente mossi dall›amore che mi portano, e dopo
avere secondo il loro costume lungamente disputato in contrarie sentenze, pronunciarono che alla metà di quella notte
io dovevo morir.
Era della notte passata già la quarta parte: vedi dunque
quanto poco mi restava da vivere se fossero state vere le ciance di quegli Ippocrati. Ma io di giorno in giorno sempre più
mi confermo nella mia opinione intorno a loro. Sentenziarono che unico mezzo a prolungarmi un poco la vita erano lo
stringermi con non so quali funicelle per impedire che mi
addormentassi. E così si poteva sperare di farmi vivere fino
all›aurora. Mercato incomodo per sì magro acquisto. E io
credo che il togliermi il sonno in quelle condizioni sarebbe
stato tutt›uno che darmi la morte.
Ma non vi fu chi badasse alle loro prescrizioni. Poiché io
avevo già con preghiera chiesto agli amici, e con comando ingiunto ai miei servi, che nulla mai di quanto i medici ordinassero essi eseguissero sulla persona mia: o se alcunché far si volesse, fosse sempre il contrario di quel che si diceva da loro.
Dunque quella notte io passai assorto in sonno profondissimo, e come Virgilio dice, simile a placida morte. Certi che io
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dovessi a mezzanotte aver dato l›estremo sospiro, tornarono i
medici la mattina con animo forse di assistere alle esequie, e
mi trovarono occupato a scrivere. Sbalorditi a quella vista, e
non sapendo che dire, esclamarono essere io un uomo meraviglioso; e dopo essersi tante volte ingannati sul conto mio, non
si vergognano di ripetere sempre lo stesso, non sapendo quel
che si dicono, né trovano altro schermo alla loro ignoranza.
Affé che se meraviglioso son io, essi sono meravigliosissimi; e
non meravigliosi soltanto, ma portentosi al tutto son da dire
coloro che prestan fede alle loro ciance.
Eccoti dunque detto […] in qual stato io mi trovo. Sono
fatto vero zimbello alla fortuna, e se pure talvolta mostri di
star bene, in verità sto sempre male: ché, se fosse altrimenti,
non si saprebbe spiegare donde improvvisamente nascano e
ripullilino queste violentissime febbri. Ma anche se fossi
morto a metà di quella notte, o se morissi in questo istante,
che vi sarebbe di male? Non è questa la meta a cui sono molti miei passi? E che importa se cada adesso chi ogni modo
deve cadere; o che giova il rialzarsi per ricadere tra breve?
Petrarca, Senili, 9 XIII, 8 [9], a Pandolfo Malatesta: gli
dà notizie delle sue condizioni di salute. È datata Colli Euganei. Arquà fu l›ultimo rifugio del Petrarca, che morì l›anno
seguente.”
Portar Pazienza, ci vuoLe iL suo teMPo
“Un morbo nato non credere di guarirlo in un istante,
che lo esacerberai, vole fare il suo corso, et ha il suo tempo
statuito per venire alla crise, dove nell’acuti si attende, né il
medico ha che fare, se non in giudicare se sii buona o no”
Paolo Sarpi, Pensieri naturali, metafisici e matematici
secreto sicurissiMo Per non Mai Morire
“Quando la morte verrà per pigliarti, subito le soffiarai in
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faccia, ma averti bene non mai ti fermare, perché se ti fermi
subito sei morto.”
Da un’incisione ironica di Giuseppe Maria Mitelli, in cui
si vede un paziente allettato che continua a soffiare in faccia
alla morte, uno scheletro con falce e cappa, visibilmente seccato.
a Meno di non Preferire La cLorochina
“Comprate il mio specifico,
per poco io ve lo do.
Ei move i paralitici, spedisce gli apopletici
Gli asmatici, gli asfitici,
gl’isterici, i diabetici,
guarisce timpanitidi,
e scrofole e rachitidi,
e fino il mal di fegato
che in moda diventò.”
Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore, libretto di Felice Romani
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Ero in un letto d’ospedale, appena trasferito in corsia dal
reparto rianimazione, quando mia figlia mi portò un volume
con i Sessanta racconti di Dino Buzzati, consigliandomi di
cominciare col leggere quello intitolato “Sette piani”. Racconta di un signore che va in un celebre sanatorio, specializzato in un’unica malattia, la sua. Non si precisa quale sia la
malattia, tranne che i sintomi iniziali sono leggerissimi, appena un po’ di febbre, tanto che lui l’ospedale lo raggiunge a
piedi, non in ambulanza, e neanche in taxi. Dopo una prima
sommaria visita, il paziente viene messo “in una gaia camera
del settimo e ultimo piano”:
I mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria, le poltrone erano di
legno, i cuscini rivestiti di policrome stoffe. La vista spaziava su uno
dei più bei quartieri della città. Tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante”.
Conversando con una giovane infermiera, che si presume fosse anche carina, viene a sapere della “strana caratteristica” di quell’ospedale:
I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il
settimo, cioè l’ultimo, era per forme leggerissime, Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile
sperare […].
Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette progressive caste.
Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari
regole, con le sue speciali tradizioni. E siccome ogni settore era affi-
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dato a un medico diverso, si erano formate, sia pure minime, ma precise differenze nei metodi di cura […].
Lo rassicurano, le sue condizioni sono stazionarie, il ricovero è più che altro una precauzione. Finché un giorno il capo-infermiere gli chiede una cortesia: “Deve entrare in ospedale una signora con due bambini; due camere erano libere,
proprio a fianco della sua, ma mancava la terza; non avrebbe
acconsentito a trasferirsi in un’altra camera, altrettanto confortevole?”. Nessuna difficoltà: “una camera o un’altra per
lui erano lo stesso; gli sarebbe anzi toccata forse una nuova e
più graziosa infermiera”. Così inizia una serie di trasferimenti, di piano in piano, finché il malcapitato finisce al piano degli agonizzanti. “In quanti anni, sì bisognava pensare proprio
ad anni, egli sarebbe riuscito a risalire fino all’orlo di quel
precipizio?” Un grande Buzzati, col piglio di Kafka. Avevo
appena finito di leggere questo racconto che arrivò un medico a dirmi che mi stavo riprendendo in modo promettente,
suggerì il trasferimento in una clinica specializzata in riabilitazione. Risposi di no, che volevo andare a casa.
Contro i medici
Uno che ce l’aveva coi medici era Francesco Petrarca.
Abbiamo già visto, in esergo a questo capitolo, in che conto
tenesse i medici che lo curavano. L’iroso e acrimonioso poeta
scrisse anche una lunga Invective contra medicum in cui leva
la pelle di dosso alla odiata e disprezzata professione. Per
essere più precisi se la prende in modo specifico con un
esponente della professione. Non lo nomina. Ma ci sono parecchi indizi per ritenere che ce l’abbia con Guy de Chauliac, il celebre chirurgo che papa Clemente VI si era portato
dietro ad Avignone e che poi fu archiatra anche di altri due
papi. A differenza di altri medici, che all’arrivo della grande
pestilenza del 1348 avevano lasciato la città, rimase al suo
posto e fu lui a organizzare la difesa, isolare la residenza papale, dare assistenza agli ammalati. Sua l’idea di far accende206
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re grandi fuochi, che bruciavano notte e giorno nella camera
da letto e nelle altre sale della residenza papale. “Per purificare l’aria col fuoco” era la giustificazione, in base alle teorie
allora correnti, per cui la peste era prodotta dai miasmi,
dall’aria infetta. La teoria era sbagliata, ma il rimedio servì:
l’intenso calore certamente disturbava pulci e topi, i veri ma
allora ancora sconosciuti responsabili della peste. Era convinto, come tutti, che la causa delle peste fosse l’influenza dei
“corpi celesti”. Ma almeno non prendeva per buone, anzi,
peggio ancora, per certe altre cause, che pure cita per completezza: “Da alcuni si credeva che il mondo fosse stato avvelenato dagli ebrei, e li si uccideva; da altri che fosse colpa dei
poveri o degli storpi, e li si cacciava; altri ancora ritenevano
che fosse colpa dei nobili, ai quali veniva impedito di lasciare
la città, o degli stranieri, ai quali si impediva l’ingresso in città appostando delle guardie”.
Lui era un chirurgo. Ed è questa la ragione per cui Petrarca nella Invettiva contro i medici gli dà del “meccanico”,
dell’ignorante che sa solo tagliare e cucire. Per indagare le
cause della peste, da bravo chirurgo Chauliac si mise a fare
autopsie. Forse talvolta faceva anche vivisezioni. “Gli ascessi
venivano fatti maturare con fichi e cipolle cotte, mescolate a
lievito e burro e poi incisi e trattati col medicamento con cui
si curano le ulcerazioni. I carbonchi venivano aspirati, poi
cicatrizzati e cauterizzati…,” scrive. Osserva e racconta. Lo
colpisce la repulsione che i malati suscitano anche nei loro
cari, nelle persone che gli sono più vicine: “Il Padre non visitava il figlio, né il figlio il padre, le persone morivano da sole
e venivano seppellite senza prete: la carità era morte e la speranza abbattuta”. Osservazione diretta? O ripresa di un tema letterario onnipresente nei racconti delle pesti? La cosa
certa è che gli ammalati lui li ha visti davvero. E da vicino. Sa
benissimo che la sua medicina è insufficiente, impotente di
fronte a questa malattia. Cerca di osservarne e ne descrive i
sintomi, il decorso, l’esito. Non nasconde la paura, ma non
scappa come hanno fatto molti suoi colleghi. “E io, per evitare l’infamia, non osavo assentarmi, ma continuavo [a fare il
mio lavoro] e, con grande paura, continuavo a provare tutti i
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rimedi…” Malgrado le cautele si ammalò anche lui, ma guarì
in sei settimane.
Curò anche, si dice, Laura de Noves, la Laura di Petrarca, ma non riuscì a salvarla. E sarebbe questa la ragione principale dell’astio di Petrarca nei suoi confronti. Qui Petrarca
qualche ragione potrebbe avercela. I rimedi prescritti da
Chauliac erano gli unici conosciuti all’epoca e raccomandati
anche da tutti gli altri medici, cioè purghe, salassi, farmaci
come la teriaca per “sostenere il cuore”. Facevano più male
che bene, ma di questo non si può fargliene colpa. Nessun
medico dell’epoca conosceva cure per la peste, solo palliativi. Si era fatto così per secoli e si continuava a farlo. Ma non è
affatto sicuro che abbia avuto in cura Laura, né che lui e Petrarca si siano mai incontrati di persona.
Secondo alcuni studiosi le ragioni per cui Petrarca ce l’aveva con lui sono di altra natura, sono politiche, questioni di
potere. Petrarca era stato mandato due volte ad Avignone in
missione diplomatica, col compito di persuadere il papa a
tornare a Roma. Si scontrò con l’ostilità della corte papale e
in particolare quella dei suoi medici, i quali lo sconsigliavano
(e forse non a torto). Probabilmente considerava come una
propria sconfitta personale che il papa avesse scelto di portare ad Avignone come suo medico personale un chirurgo, cioè
agli occhi di un fine letterato poco più di un barbiere, e per
giunta francese, anziché il candidato che lui gli aveva suggerito, l’italiano Teodorico de’ Borgognoni. Anche ai giorni
nostri si scatenano guerre sulle nomine dei primari. Di certo
c’è che scrisse a Clemente VI una lettera in cui gli raccomandava di stare alla larga da medici avidi e incapaci o “temerari
e pazzi” e ricordandogli che l’imperatore Adriano morente
avrebbe esclamato “Turba medicorum occidit”, i medici ammazzano, e l’epitaffio del tale che sulla propria tomba aveva
fatto scrivere: “Sono morto per troppi medici”. Praticamente era come denunciare il Chauliac come incapace, corrotto
e assassino. Poco ci mancava che denunciasse un complotto
dei medici, magari eretici o ebrei, come quello da cui era ossessionato Stalin poco prima di morire. Il tono è quello di
Marco Porcio Catone (sì, quello che continuava a tuonare
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che bisognava distruggere Cartagine, così come qualcuno
nell’amministrazione Trump tuona che bisogna cambiare il
regime in Iran e ricacciare indietro la Cina) il quale, a quanto
riferisce Plinio, ce l’aveva con i medici greci, accusati di voler
sterminare i romani. Nell’Invective contra medicum Petrarca
ci va ancora più pesante.
Nei suoi classici Petrarca poteva reperire ad abundantiam
esempi di vilipendio dei medici, additati come incapaci, avidi, affaristi, crudeli. Negli Apophthegmata, la sua collezione
di aneddoti e detti, Plutarco ha una trentina di facezie che
riguardano i medici. I medici li prendeva già in giro Aristofane, specie nell’attribuire loro l’abitudine di trarre vantaggio
(far soldi) sui mali del prossimo. Plinio è feroce nel denunciare il connubio tra medicina e “affarismo”. Idem Giovenale e Marziale, anche se con molto humour, e non senza un
certo garbo. L’uno e l’altro ci offrono siparietti di straordinaria comicità senza tempo. Marziale gioca sull’accoppiata medico-becchino, un tantino logora, visto che morire si muore
tutti, che si sia in cura dai medici o meno, e il fatto che un
paziente defunga non è necessariamente colpa del medico.
Ma trovo irresistibile la gag in cui insinua che sia stato il medico, col suo codazzo di assistenti a fargli venire la febbre
che prima non aveva, a forza di toccarlo. Non si lavavano
abbastanza le mani? Ci sarà pure un motivo per cui le infezioni da Covid si sono impennate inizialmente soprattutto
negli ospedali e nelle case di cura per anziani. Chi mi spiega
come mai a un certo punto, in piena emergenza Covid, la
mortalità nella città dove abito, Roma, si era dimezzata rispetto allo stesso periodo dell’anno prima? Perché i reparti
erano chiusi, non si facevano più operazioni chirurgiche, si
rinviavano esami e cure, pure per i malati di cuore e di cancro?
Ancora più fantasticamente proiettato sul nostro presente il populista Giovenale, che era riuscito a immaginare, in
un colpo solo, con una punta di antisemitismo, la psicanalisi
e Hollywood. Deliziosa, quasi alla Woody Allen, la scenetta i
cui, nella Satira VI, “un’ebrea tutta tremiti” si guadagna da
vivere interpretando sogni per la facoltosa matrona romana:
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“Per due soldi, i giudei vendono tutti i sogni che vuoi, aere
minuto quaiacumque voles Iudaei somnia vendunt” (VI, 544547). Fa venire in mente la battuta che Sigmund Freud
avrebbe fatto al compagno di viaggio Jung quando la nave su
cui si recavano in America fu in vista di New York: “Non
sanno che gli portiamo la peste”. Lacan sostenne di averla
appresa per bocca di Jung. Anche Lacan aveva molta fantasia. Ma non è così campata in aria come potrebbe sembrare.
Allo spuntare del Novecento, la stampa di New York era
convinta che gli immigrati ebrei dall’Europa dell’Est gli stessero portando il colera e tutte le altre epidemie possibili.
Forse il tenere i medici in poca considerazione aveva
nell’antica Roma qualcosa a che fare con il fatto che nessuno
di quelli che praticavano l’arte del guarire era “italiano”, erano i tutti “stranieri” o schiavi. Neanche Seneca, il quale nei
confronti dei medici sembra nutrire un minimo di rispetto,
anzi li considera “amici”, resiste alla tentazione di accostare
medicina e guadagni eccessivi: scrive di “medicis gravis annus in questu est”, in cui “si fanno buoni affari quanti ne fanno i medici durante una pestilenza” (tantum negotii habes
quantum in pestilentia medicus), di quanto sia infame che i
medici vadano sollecitando occasioni di guadagno, “gravissima infamia est medici opus querere”, di “multi, quos auxerant
morbos et irritaverant, ut gloria maiore sanarent, non potuerunt discutere aut cum magna miserorum vexatione vicerunt”,
di molti (medici) che anziché giovare ai loro pazienti, avevano aggravato ed esasperato le loro malattie, per poterle sanare a loro maggiore gloria, e invece non riuscirono a estirparle
(discutere), oppure le vinsero, ma dopo aver torturato a lungo i pazienti.
Ben che gli vada, il medico viene preso in giro, è oggetto
di lazzi. Non risparmia battute sui medici e la medicina Rabelais, che pure è medico. Studente di medicina alla Sorbona
è stato anche quel simpatico mascalzone della sua creatura,
quel “birboncello” di Panurge, compagno inseparabile di
Pantagruele, il cui motto è: “Mancanza di denari malattia
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senza pari”. Tra i brutti scherzi di quest’ultimo, una “Tartina
alla Borbonese” (per sapere com’è fatta il lettore dovrà andare al capitolo XVI del Libro II del Gargantua e Pantagruele,
qui certo non glielo dico), dopo di che “tutta quella brava
gente si mise a vomitare in pubblico, come se fosse in punto
di morte, e ne morì forse una dozzina per l’infezione, quattordici ne ebbero la lebbra, diciotto la rogna, e più di ventisette la sifilide”. Mi fermo qui per la medicina del sedicesimo
secolo, mentre per quella del diciassettesimo basta vedere
come tratta i medici Molière. Le malade imaginaire è la sua
ultima commedia. Soffriva di tossi convulse, forse aveva la
tubercolosi, forse si trattava di polmoniti virali. Riuscì a morire in scena nel 1673, durante la quarta rappresentazione.
Non si sa se successe proprio durante la scena in cui il dottor
Purgon, dal nome che è tutto un programma, minaccia il malato immaginario di farlo morire in meno di quattro giorni,
visto che non vuole ascoltare i suoi consigli. Ecco il dialogo
tra i due, infarcito di termini difficili:
– E voglio che entro quattro giorni vi ritroviate in uno stato incurabile
– Ah! Misericordia!
– E che cadiate nella bradipepsia.
– Monsieur Purgon!
– E dalla bradipepsia alla dispepsia
– Monsieur Purgon!
– Dalla dispepsia all’apepsia
– Monsieur Purgon!
– Dall’apepsia alla dissenteria
– Monsieur Purgon!
– Dalla dissenteria all’idropisia...
– Monsieur Purgon!
– E dall’idropisia alla privazione della vita, dove vi avrà condotto la
vostra follia.
Al dottor Purgone subentra la serva Tonina, travestita da medico, la
quale si presenta così:
– Sono un medico viaggiatore, che va di città in città, di provincia in
provincia, di regione in regione, in cerca di epidemie rilevanti, per
trovare malati degni di essere presi in cura, che abbiano gravi malattie capaci di mettere alla prova i grandi e meravigliosi rimedi che ho
scoperto nella medicina. Io non spreco il mio tempo a giocherellare
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con delle malattie comuni, come reumatismi, febbriciattole, mal di
testa… Io voglio malattie importanti: delle belle febbri continue con
irritazioni al cervello, delle forti febbri virali, una bella pestilenza,
una importante idropisia, delle buone pleuriti con infiammazione
polmonare: questo è quello che mi piace, qui io trionfo; e vorrei, signore, che voi aveste tutte le malattie che ho nominato e che vi trovaste abbandonato da tutti i medici, disperato, agonizzante, per mostrarvi la pregevolezza dei miei rimedi e il grande desiderio che ho di
rendervi un servizio.
Niente applausi per le infermiere
Se scarseggiano gli applausi per i medici, non va meglio
per gli infermieri. Abbondano le punzecchiature, le voci, le
accuse, le calunnie. Si può pescare a caso. Per esempio nel
Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe:
Circolavano anche innumerevoli storie sullo spietato comportamento delle infermiere che assistevano i malati, le quali si diceva che affrettavano la fine di coloro che curavano […] infermiere, che assoldate per badare ai malati, li trattavano barbaramente, li lasciavano
morire di fame, li soffocavano, o ne affrettavano la fine con altri crudeli sistemi, insomma li assassinavano […]. Bisogna notare in realtà
che le donne, in quella catastrofe, erano le creature più violente, ostinate e disperate, e le numerose infermiere che giravano nelle case per
assistere i malati commettevano molti piccoli furti nelle case dove
lavoravano. Alcune furono pubblicamente fustigate per questo motivo, quando forse avrebbero dovuto piuttosto essere impiccate, affinché servissero da esempio […]. Questi furti riguardavano soprattutto vestiti, tessuti, gioielli e denaro, su cui le donne riuscivano a
mettere le mani quando moriva la persona che era stata loro affidata,
ma non si trasformavano in un saccheggio generale della casa e io
potrei riferire la storia di una di queste, che diversi anni dopo, sul
letto di morte, confessò con estremo orrore i furti che aveva commesso quando faceva l’infermiera e grazie a cui si era arricchita.
Quanto agli omicidi, non mi risulta che vi siano mai state le prove dei
fatti che venivano riportati, eccetto per i casi che ho esposto […]. Mi
è stato raccontato, in effetti, di una infermiera che, in una casa, aveva
messo un panno bagnato sulla faccia di un paziente in agonia, assistito da lei, e che in questo modo aveva ucciso l’uomo, già in fin di vita
di suo. E mi è stato detto di un’altra che soffocò una ragazzina affidata alle sue cure, mentre era in deliquio, e che sarebbe potuta tornare
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in sé. E ancora ho udito di donne che uccisero gli infermi dando loro
chi una cosa, chi un’altra; e di alcune che li fecero morire di fame.
Meno male che Defoe, che pure è un affabulatore non da
niente, uno che, per dirla con i miei antenati sefarditi, potrebbe far “enforcar la gente”, aggiunge una nota di cautela
sull’attendibilità di tutte queste voci, e un’osservazione che
vale per il modo in cui girano e si riproducono tutte le fake
news virali:
Tuttavia queste storie avevano due particolari alquanto sospetti che
le accompagnavano sempre, che mi indussero spesso a non prenderle sul serio o a considerarle semplici frottole con cui la gente si metteva continuamente paura a vicenda. Innanzitutto dovunque sentissimo raccontare fatti del genere, la gente collocava sempre la scena
all’estremo opposto della città […]. In secondo luogo, dovunque si
sentisse la storia, i particolari erano sempre gli stessi, soprattutto
quello del panno doppio messo sulla faccia del moribondo […]. E
perciò era evidente – a mio giudizio, almeno – che nella storia c’era
più fantasia che realtà. Tuttavia non posso dire che questi racconti
non abbiano in qualche misura influito sul popolo […].
Gli operatori sanitari non hanno mai goduto di buona fama. Le antiche cronache e i trattati pullulano di storie di “infedeltà” degli infermieri, degli incaricati dell’assistenza ai
malati, della sorveglianza, della disinfezione. Di storie di precari che infettano a bella posta case e ospedali per conservare il posto e trarne vantaggio, che “alimentano la peste affinché, disfacendo gli altri, sostenti loro stessi”. Non una parola,
in genere, sul fatto che lo fanno a loro proprio rischio, che il
loro mestiere non è grato né ambito, che pochi lo vogliono
fare, tanto che il reclutamento è spesso forzoso e si ricorre a
chi la peste l’ha già avuta, e quindi si ritiene immune. “Tanto
vale rischiare la peste, che morire certamente di fame” è il
motto dei candidati becchini, infermieri, disinfestatori, custodi delle case sigillate in quarantena all’epoca della peste di
Londra del 1665.
Sono vecchie storie, ricorrenti, dall’antichità ai giorni
della peste, poi a quelli del colera. Le leggende metropolita213
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ne non hanno età. Si intrecciano alle horror stories, al tema
senza tempo degli “untori”, degli avvelenatori di pozzi e diffusori del contagio, al tema eterno dell’»uomo nero” che appesta le favole per i piccini. Sono il filo conduttore di tutte le
“grandi paure”, dell’avversione al povero e al vagabondo, al
forestiero, al diverso e al migrante, che si diffonderanno per
tutto il Medioevo, e poi ritorneranno a invadere le campagne
francesi nel 1789 della Rivoluzione, fino al terrore che incutevano nella popolazione le bande di orfani ragazzini che infestavano la Russia negli anni di Stalin.
Abbiamo tutti visto, sentito, partecipato al modo in cui
una nazione intera ha applaudito le infermiere, gli infermieri, e i medici che si prodigavano sino allo sfinimento per i
pazienti nei giorni del Covid. Ben fatto, ben meritato. Una
volta tanto l’Italia si univa nell’apprezzare e ringraziare quelli che si curano degli altri, che pensano al prossimo e non
solo al proprio tornaconto spicciolo, apprezzava chi fa semplicemente, senza troppe storie, il proprio dovere, anche se
scomodo, faticoso o pericoloso. Il bello era anche che l’applauso era rivolto a persone normali, non a campioni. Diffido per istinto della retorica, di qualsiasi retorica. Anche, mi
verrebbe da dire soprattutto, di quella attorno ai santi e agli
eroi. Diffido degli eroi troppo buoni, troppo santi, troppo
fanatici, troppo convinti, troppo zelanti. Sì, sono sospettoso:
so che quasi sempre il mito mente, ha un secondo fine, non è
mai innocente anche se lo sembra, che talvolta può coprire o
incoraggiare cose ignobili. Non ci sono cascato nemmeno
quando i “buoni” apparentemente erano dalla parte giusta.
Non mi piacciono i superumani. Preferisco di gran lunga gli
umani con le loro pecche, i loro difetti, le loro mediocrità.
Tendo a essere scettico, e forse – sarà causa l’età, causa l’averne viste troppe, causa un eccesso di illusioni, causa troppo realismo, causa un pessimismo scaramantico, vedete voi
– anche a essere forse un pochino cinico. Ma mi sono dovuto
ricredere quando ho visto la risposta che c’e stata all’appello
per medici e infermieri volontari.
A proposito di infermiere, durante una lunga degenza in
ospedale mi è capitato di fare una riflessione. No, tranquilli,
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non vi voglio raccontare delle mie malattie o degenze. Non
mi permetterei mai. Né imbarcarmi in una di quelle menate
tipo Viaggio intorno alla mia camera (François-Xavier De
Maistre, fratello dell’ultrà reazionario Joseph. Lo scrisse a
San Pietroburgo nel 1790, che era confinato in casa, non in
quarantena ma agli arresti domiciliari, per aver infranto le
norme che proibivano i duelli agli ufficiali dello zar). Voglio
solo sottoporvi un dilemma, a cui tuttora non sono riuscito a
darmi risposta. In corsia avevo avuto occasione di osservare
come le infermiere trattavano gli ammalati, e individuato
grosso modo due tipologie: le affettuose, prodighe di parole
gentili, gesti di attenzione, sorrisi; le dure, mai un sorriso,
una domanda o una battuta non professionali, mai un chiacchiericcio sul più o il meno. Le affettuose, le caciarone ogni
tanto facevano venire ai loro assistiti il braccio blu causa l’ago infilato male, dimenticavano di dargli qualche farmaco,
magari si distraevano nel compilare la cartella…: le altre, le
fredde, apparentemente non sbagliavano mai, non gli consentivano il minimo sgarro, applicavano alla lettera, con rigidità teutonica, le disposizioni dei medici. Non c’è bisogno
che vi dica quale dei due tipi rendeva più felici i pazienti. Ma
non saprei quale dei due tipi augurarmi.
Ciarlatani di tutti i tempi
Nella Francia del Seicento, per far fronte alla mancanza e
alla riluttanza, nonché alle pretese economiche eccessive degli operatori sanitari, avevano avuto un’idea originale: far fare la “prova” dell’avvenuta disinfezione di una casa dove c’è
stata la peste a una famiglia povera che ci vada ad abitare
provvisoriamente. Gli si fornisce vitto e alloggio. Se le cavie
sopravvivono, l’abitazione potrà tornare ai proprietari. Se
no, amen. Particolarmente accette sono le vedove con bambini. Forniscono la “prova” migliore della presenza o meno
del contagio, perché “la tenera natura (dei bambini) non è in
grado di resistere alla qualità contagiosa dell’aria,” spiega il
Traité de la peste di César Morin (Parigi, 1602). Ci sono tanto
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di contratti che specificano nel dettaglio oneri e onori: per
esempio una vedova si impegna a trasferirsi immediatamente
(s’oblnige de deans ce présent jourd’hui) assieme ai suoi due
bambini per servire da “prova” (epreuves) durante sei settimane. Ha compiti definiti con precisione: abitare nell’edificio, spolverare i locali e i mobili, lavare e fare il bucato, tutte
le volte che sarà necessario. In cambio, oltre al cibo, le regaleranno qualche capo di vestiario della vecchia padrona morta di peste. Un magistrato settecentesco commenta con disapprovazione: “Passato il maggior furore del contagio, era
comune vedere, tra la gente del popolo, padri che esponevano i loro bambini a una morte crudele in cambio di pochi
soldi, affittando i poveri innocenti come prove (epreuves)”.
Naturalmente colpa dei poveracci che vendono i loro piccini, mica dei datori di lavoro che gli offrono un mezzo insperato di sussistenza. Così la mettevano anche nell’avanzatissima Inghilterra della rivoluzione industriale, per giustificare il
lavoro minorile.
Gli assaggiatori per verificare la presenza o meno di veleni alla tavola dei ricchi e potenti del resto c’erano sempre
stati. Ed era molto comune che i ciarlatani facessero ingurgitare sulla pubblica piazza i loro intrugli miracolosi a giovanissimi assistenti, per provare che non facevano male, o addirittura li facessero mordere da vipere per provare l’efficacia
del loro antidoto a base di carne di vipera, la teriaca, a lungo
considerata come unico rimedio infallibile contro la peste.
Quella del farmacista ciarlatano, che offre il rimedio per tutti
i mali, il toccasana miracoloso, è una figura senza tempo. E
non sempre è simpatico come il Dulcamara de L’Elisir d’amore. C’è chi ha sostenuto che la nostra sarebbe la Società
dello spettacolo, che viviamo nell’era degli imbonitori da fiera. Abbiamo visto capi di stato che consultavano maghi e
astrologhi, da Brežnev a Ronald Reagan. Ma non si era visto
ancora un presidente degli Stati Uniti che spaccia come prevenzione e rimedio infallibile contro il Covid un antimalarico, quale la clorochina o, forse peggio, che dice in conferenza stampa che si potrebbe combattere il virus con qualche
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disinfettante ingerito per via orale (“scherzavo”, si è poi corretto).
Si suole dire che la colpa non è mai degli imbroglioni, ma
di chi si lascia imbrogliare, di chi gli va dietro, magari li elegge. Sì e no, forse è troppo facile come scusa. Già Fedro usa
questo argomento nella favola del “Ciabattino che fa il medico”:
Un ciabattino male in arnese, in miseria nera, si faceva passare per
medico offrendo un antidoto fasullo (falso) anche nel nome. Si era
fatto una gran fama con furbe ciance (strophis verbosis). Il re della
città frattanto giaceva afflitto da grave morbo, e volle metterlo alla
prova: fingendo di miscelare in una coppa di acqua pura l’antidoto e
del veleno, gli chiese di bere, promettendogli mercede. Quello [il
ciabattino] allora per timore della morte confessò che non aveva alcuna competenza medica, ma era diventato celebre solo per la stupidità (stupore) del popolo. Al che il re, convocata un’assemblea (advocata contione), così disse: ‘Non vi pare da dementi (dementiae)
affidare le vostre teste a uno che non riesce neanche a trovare clienti
per le sue scarpe?”
(Fedro, Favole, I, 14).
Va da sé che il buon Fedro un pochino ciurla nel manico:
non risulta che il re si volesse affidare a libere elezioni, né che
quei cittadini avessero possibilità di scegliere davvero.
Impossibile elencare tutte le fesserie, le fregnacce, le idiozie sentite, riferite, dette, fatte in questi mesi di Covid. Bastava accendere la tv, navigare su internet, leggere i giornali per
far venire la pelle d’oca. Confesso che inizialmente avevo
pensato di dedicare un capitolo del libro che avete sottomano a questo. Poi ho rinunciato, perché ne sarebbe venuto
fuori non un altro libro ma un’enciclopedia. “Ripeti una bugia e verrà considerata verità,” la frase attribuita a Goebbels
(in realtà il ministro della Propaganda di Hitler non disse
mai qualcosa del genere; mentiva, ma i bugiardi non ammettono mai di mentire, se non altro perché si avviterebbero nel
paradosso del mentitore). La valanga di fake news e cretinate
mi ha annoiato. Non voglio trasferire la noia al lettore. Impossibile comunque che non gli sia capitato di sentire qual217
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cuna almeno di queste stupidaggini, in tv, nei talk show, nelle
“circolari” via social, nei messaggi che promettono rivelazioni strepitose, fanno le pulci ai già confusi, talvolta incomprensibili, numeri ufficiali dando numeri molto più fasulli, ci
informano di quel che “nessuno vuole dirci”, di quel che “il
governo ci tiene nascosto”. Un amico si è dato la pena di inviarmi tutti i giorni, per mesi, una sfilza di “ritagli” ricavati
da diverse fonti. È martellante. È ridicolo ma non è divertente. Talvolta è becero, puzza di propaganda ultrà a un miglio
di distanza. Talvolta si perde la bussola, si perde il confine tra
realtà e satira, comico e tragedia, non si capisce più se ti raccontano una sciocchezza con le migliori intenzioni o la sciocchezza è finta, viene attribuita a bella posta a questo o a quello per fargli fare cattiva figura. Altre volte è più sottile,
l’idiozia si presenta bene, appare argomentata, disinteressata. A un certo punto mi è venuto addirittura il dubbio che il
mio amico ci credesse, condividesse. C’è di tutto e di più:
negazionisti a oltranza (“il virus non esiste”, “è un complotto
dei governi per controllare la gente e togliergli la libertà”,
“sono in combutta con Bill Gates che vuole vendere il suo
vaccino”), e poi teorie e cifre fasulle, citazioni fuori contesto,
“ammissioni” da parte degli stessi“esperti”, che le cose non
stanno come inizialmente cercavano di farci credere, che
avevano sbagliato, truccato o cannato i calcoli, manipolato le
cifre, avevano esagerato, avevano mentito, lavoravano per il
Diavolo, esageravano, minimizzavano, sarebbero al soldo
della Cina, no di Soros, no della sinistra, no dell’Europa della Merkel, no di chi lascia sbarcare i migranti, che sono l’unica vera fonte di contagio e malattie, no delle grandi case farmaceutiche che ne vogliono approfittare per fare miliardi di
miliardi, e, ancora, insulti a quelli che osavano dire che bisogna prendere la pandemia sul serio, agli “utili idioti” che gli
credono e gli vanno dietro, il linciaggio in America del dottor Fauci che osava contraddire l’ottimismo di Donald Trump, il linciaggio dei nostri commissari accusati di non essere
abbastanza brillanti, l’irrisione di chi invita a indossare la
mascherina, e anche l’irrisione di chi la indossa, la prova provata che non serve, anzi fa male, rende più difficoltoso il re218
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spirare,la spavalderia sciagurata dei leader politici e governanti che danno il cattivo esempio, di quelli che “io la
mascherina non la indosso… e poi magari sbattendo il muso
nel contagio hanno un pentimento, cambiano idea, o non la
cambiano affatto.
Kill the doctors!
“Ma ora basta; ormai penso di lasciare te, malato, ai tuoi
malati: ti uccideranno, e tu ucciderai loro” Sed iam satis; iam
te egrum egris tuis linquere meditor: illi te conficient, tu illos
(Petrarca, Invective contra medicum, IV, 53).
La violenza dell’invettiva di Petrarca contro i medici è tale da risultare comica. Forse solo un’altra categoria professionale è stata oggetto di tante contumelie da parte degli uomini di lettere: gli avvocati. “Kill all the lawyers!”,
ammazzate tutti gli avvocati, grida il popolo in rivolta
nell’Enrico V di Shakespeare. “Via gli Ebrei e via i politici,”
gridavano nella Germania degli anni trenta. E c’è chi lo grida
anche ai giorni nostri. Qualche volta non si sono limitati a
dirlo, l’hanno fatto.
È subito, agli inizi della peste nera in Europa, che si comincia ad ammazzare gli ebrei. Prima una quarantina a Tolone. Poi si moltiplicano i pogrom in tutto il Sud della Francia,
a Manosque, ad Aix, a Narbona, a Carcassonne, e in Catalogna e in Aragona. Ma perché proprio da lì? Azzardo una
possibile spiegazione: perché agli inizi ce l’hanno con l’impotenza dei medici, non gli perdonano che non abbiano rimedi funzionanti contro l’epidemia. E in medicina eccellono
gli ebrei, che conoscono e traducono gli arabi. La penisola
iberica, dove ancora sta fiorendo al Andalus, e la Provenza
pullulano di medici ebrei, di università dove il sapere medico è all’avanguardia per l’epoca. Ma non abbastanza all’avanguardia da fermare la peste. Solo in seconda battuta li si
accuserà di avvelenare i pozzi, di aver in odio e voler sterminare i cristiani, di voler sfruttare i nobili prestandogli a usura
(cosa vera, nobili e regnanti erano affamati di denaro, per
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sostenere le proprie guerre e i propri lussi) e rovinare i poveri (cosa non vera, ai poveri nessuno prestava denari, nemmeno gli ebrei). C’è una sola importante eccezione alla nuova
moda di accusare per la peste gli ebrei: l’Italia. Papa Clemente VI li difende. Nell’enciclica Sicut Judeis del 26 ottobre
1348 spazza via le accuse loro rivolte, fa notare che non è vero che gli ebrei siano immuni dalla peste, ne sono colpiti
esattamente come gli altri, quindi è assurdo ritenere che siano loro a diffonderla. Fa di più: minaccia la scomunica a coloro che osino promuovere, condonare o unirsi alle persecuzioni. Evidentemente ci teneva ai suoi medici.
Il pesce puzza sempre dalla testa. Sono sempre le élite, è
chi governa, chi detiene il potere, chi vuole avvicendarsi a
qualcun altro al potere a dare il la alla caccia ai presunti colpevoli. Si comincia quindi con tante piccole sommosse e
massacri, al di qua e al di là dei Pirenei, fino agli eccidi su
grande scala più a nord, a Strasburgo (dove viene sterminata
l’intera comunità, duemila persone, ebrei, vecchi, donne e
bambini) e poi in altre città tedesche. In Inghilterra non succede nulla, perché gli ebrei erano già stati espulsi in precedenza. Anche allora i tedeschi erano all’avanguardia, facevano le cose metodicamente. Bruciarono gli ebrei in tutta la
Teutonia a furore di popolo, “tumulto furente populari et in
seditionem concitato”, dirà un monaco che scrive un secolo
dopo i fatti (Die Weltchronik des Mönchs Albert). Ma non è
vero. Non è per niente spontaneo furore popolare. È studiato, premeditato. A Strasburgo il massacro ha luogo a freddo,
prima ancora che arrivi il contagio. La città era governata
dalle corporazioni degli artigiani. Nell’autunno del 1348 un
vescovo aristocratico e fanatico, Berthold von Bucheck, fa
campagna contro gli ebrei, li accusa di voler diffondere la
peste, chiede che vengano puniti. Il consiglio della città respinge la richiesta, ma per far fronte alle pressioni del vescovo decide di inviare lettere ai sindaci delle altre città, ai signori dei principali castelli, a feudatari importanti, al duca
Albrecht di Austria, al conte di Savoia Amedeo IV, e altri
ancora, insomma a mezza Europa, per chiedere cosa ne pensino della responsabilità degli ebrei. Son pervenute sino ai
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giorni nostri solo diciannove fra le risposte. Danno conto del
risultato delle indagini. È una specie di sondaggio d’opinione, a colpi di arresti, interrogatori, torture. Vengono nominati una cinquantina di ebrei ritenuti colpevoli. Nessuno dei
cinquanta accusati fa l’usuraio, la maggior parte sono medici, studenti, donne, cantori, spesso rabbini. Il consiglio degli
artigiani che governa Strasburgo nicchia. Non vede ragioni
di procedere. Allora il vescovo chiama a raccolta un’assemblea dei nobili di tutta l’Alsazia, rovescia il governo che continua a non voler prendere misure adeguate contro gli ebrei,
lo sostituisce con una junta militare di aristocratici armati.
Fanno una retata di tutti gli ebrei, una delle più antiche comunità d’Europa, li concentrano su un’isoletta in mezzo al
Reno, e li bruciano vivi, tutti quanti.
Ma il secolo in cui l’aggressione ai medici diventa globale
è l’Ottocento. La peste in Occidente non c’è più da tempo.
Ma è arrivato il colera, seguiranno a ruota tifo e vaiolo. Samuel K. Cohn jr. in Epidemics: Hate and Compassion from
the Plague of Athens to Aids (Oxford University Press, 2018)
fornisce una documentazione impressionante, sulla base di
cronache dai giornali dell’epoca, di sommosse contro medici
e infermieri, da un capo all’altro del mondo, dalla Sicilia
all’Inghilterra, dall’America alla Russia. In Gran Bretagna,
tra il novembre 1831 e il gennaio 1833, i medici vengono ripetutamente minacciati e “persino assaliti” perché accusati
di sfruttare l’epidemia, o addirittura di averla inventata a
bella posta per “assassinare i poveracci”. Folle inferocite
danno l’assalto a ospedali e obitori per impedire che i cadaveri dei defunti vengano sottoposti ad autopsia, formano
picchetti per evitare che gli ammalati vengano rimossi dalle
loro abitazioni e portati in ospedale. Accusano i medici di
uccidere i pazienti per esercitarsi nei loro studi, o per vendere i cadaveri, di speculare sulla pelle della povera gente. A
Londra un dottore evita di misura che lo gettino giù da una
finestra del secondo piano; un cane feroce viene aizzato contro un chirurgo; un irlandese accoltella un infermiere; a Liverpool ottanta operatori sanitari firmano una circolare in
cui denunciano “vergognose aggressioni” malgrado si siano
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offerti di esercitare gratis. A Exeter, in Scozia, una folla di
millecinquecento persone tenta di linciare un dottore accusato di “avvelenare” i suoi pazienti ammalati di colera con
farmaci che li fanno dormire, cosicché siano sepolti vivi. Nel
sobborgo londinese di Camden Town, la folla blocca il trasferimento di un calzolaio all’ospedale dei colerosi. Fanno a
pezzi la sedia su cui lo trasportavano e caricano il poveretto
seminudo, più morto che vivo, sulle spalle di uno che lo riporti a casa. A Dublino assaltano le ambulanze. Non c’è verso: sono convinti che i medici uccidano la gente per procurarsi materiale per le scuole di anatomia. La protesta violenta
contro i medici (occasionalmente accomunati in quanto oggetti di odio ad altre categorie tipo ebrei, bottegai, gendarmi,
ecc.) si estende, ondata dopo ondata, alla Francia, all’Europa dell’Est, alla Russia, al Caucaso, all’Italia meridionale, attraversa l’Atlantico, raggiunge New York, poi San Francisco,
contagia il Québec, dove vengono attaccati gli ospedali che
accolgono i vaiolosi, raggiunge l’India, poi la Cina.
L’odio nei confronti dei medici assume spesso connotazioni politiche. O etniche. Nel 1830 la caduta della monarchia in Francia coincideva con l’epidemia di colera. La destra monarchica e reazionaria ne approfittò per accusare il
nuovo governo repubblicano e progressista di aver avvelenato l’acqua potabile, i barili di vino e i banchi nei mercati alimentari. Chiamarono alle barricate contro i provvedimenti
sanitari, e per rovesciare un “governo di assassini, che sparge
il sangue dei cittadini, massacra i prigionieri e fa morire di
fame i poveri”. La corrispondenza da Parigi su una rivista
medica americana nel 1832 dice che i rivoltosi erano convinti
che i medici negli ospedali avvelenassero i pazienti perché
“ben pochi ne uscivano vivi”. Poco meno di un secolo dopo,
nel 1910, il corrispondente del «The “Lancet»” da Pechino
scrive che i cinesi si ribellano alle disposizioni sanitarie e a
che i loro cari vengano portati in ospedale perché “non ne
escono mai vivi”. Sono convinti che ai bambini cinesi si
asportino occhi e cuore per curare gli occidentali, o vengano
uccisi per la produzione di vaccini. Si è detto che nelle sommosse per il colera del 1821 a San Pietroburgo, i rivoltosi ce
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l’avevano con i medici perché “li identificavano come agenti
polacchi”. Riproducevano l’antipatia verso il personale sanitario che si era manifestata durante la peste di Mosca del
1771. Il popolo ce l’aveva con loro e con le autorità perché
gli impedivano di radunarsi ad adorare l’icona della “madre
di Dio”, che si riteneva proteggesse dalla peste. Attaccarono
ance il Cremlino. Tra le vittime ci fu l’arcivescovo Amvrosij,
accusato di tradimento del suo popolo di fedeli, perché non
si era opposto alle misure di quarantena, ovverosia di distanziamento sociale. Gli cavarono gli occhi, gli strapparono la
barba, lo mutilarono, gli ruppero le ossa fino a ridurne il cadavere a un ammasso di carne sanguinolenta.
Nel Regno delle due Sicilie il colera è “borbonico”. Nel
Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga c’è il terrore dei veleni, contenuti in “bottiglie che mandano da Napoli per fare
morire i cristiani”. Il governo, ritiene il popolino, usa medici,
preti, speziali per i suoi fini funesti. Qualche anno dopo diffondono, sempre per ordine del re, che così vorrebbe diminuire il peso della povertà, il tifo. Qualche anno dopo ancora, lo strumento della cospirazione assassina cui si prestano i
medici è un micidiale “torcicollo”. Finché ci sono i Borboni
“è proprio lu Re che fa menare lu tuossico”, la fake news serve alla propaganda risorgimentale. Poi, arrivati gli italiani, la
stessa identica favola si rivolge contro di loro. Comunque
sia, di mezzo ci vanno medici e farmacisti. Idem con polenta
al Nord. A Brescia nel 1836 lasciano che gli ammalati muoiano di sete, piuttosto di consentire che inghiottano i farmaci
prescritti dai medici. Fantasticamente documentati i diversi
capitoli che Paolo Preto dedica al “colera politico” nel suo
Epidemia, paura e politica nell›Italia moderna, mentre il tema
viene esteso e arricchito su scala planetaria nel più recente e
ponderoso Epidemics di Samuel K. Cohn jr.
Sempre la stessa storia, le stesse voci, la stessa diffidenza
nei confronti del governo, lo stesso odio nei confronti dei
medici. Continua così, quasi allo stesso modo, decennio dopo decennio, epidemia dopo epidemia, paranoia dopo paranoia, fin dentro Novecento, poi ancora fino ai giorni nostri.
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A ogni latitudine, in ogni regime, di fronte a ogni malattia,
dalla peste e dal colera, passando per la Spagnola, fino al Covid-19. I no vax e quelli del “dalli al medico, all’epidemiologo, e a chi li manovra!” ci sono sempre stati. Altro che applausi.. Un medico ironizza su «“La Gazzetta medica della
Lombardia»” del novembre 1854: “E allora i medici perché
muoiono, come gli altri e più degli altri? Non lo sapete? –
Muoiono per isbaglio secondo gli uni; muoiono per meglio
colorire la trama, secondo li altri; non è vero che muoiano,
secondo i più. – Scompaiono, –– ma ritorneranno quando
meno ci si pensa”.
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7.
I colori (le immagini) del contagio
Entertainment contagioso con brivido spavento
inciaMPare nei cadaveri
“La prima scoperta dell’uomo è la morte. Non la morte
astratta del Medioevo, passaggio verso l’aldilà. Ma la morte
incarnata: il Medioevo volgendo al suo termine inciampa nel
cadavere.”
Jacques Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale
esercizi di horror
“Inorridirà per la gagliarda rappresentazione del sepolcro pieno di fetore, dove il corpo, cacciato fuori di casa dai
più cari, sarà rinchiuso per essere cibo dei vermi, acciocché,
con la sua putredine e corruzione, non infetti il mondo.”
Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali
iL rosso, iL nero, iL vioLa, iL cianotico
“La persona colpita dalla peste si sente immediatamente
venir meno le forze, il polso in disordine, il cuore che sobbalza, lo stomaco che si contorce; vomita e rimette di continuo,
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una strana mancanza di appetito, febbre estremamente alta;
le viscere, e persino la testa, sembrano bruciare dolorosamente; mentre le membra sono gelate, la pancia è tutta gonfia, lo stomaco contratto. È in preda all’ansia, non riesce a
dormire, ha continua sonnolenza. La sua faccia cambia del
tutto, gli occhi diventano rossi e feroci, le tempie sono in tensione, le narici si allargano, il naso si affila, la bocca, la quale
emana un fetore cadaverico, cade mezza aperta, la lingua diventa secca e nera, le labbra diventano cianotiche. Soffre di
una grande sete, ha difficoltà a respirare, la pelle diventa ricoperta di pustole e macchie rosse, viola e nere, il corpo si
ricopre di bubboni, escrescenze dolorose e altri sintomi orrendi.”
Roland, Jacques, Antiloiminie, ou Contre-peste, oeuvre
chirurgicale qui traite des moyens de préserver et de guarir chacun de la maladie pestilentieuse, Rouen, 1630
si aLLontanano Per iL ribrezzo
“My face is ash-color’d, my sinews gnarl, away from me
people retreat.”
“La faccia è color di cenere, i nervi sono contratti, la gente si ritrae da me.”
Walt Withman, “Song of Myself”, in Leaves of Grass
Macabro, entertainMent dei PoPoLi
“Fra questi [carri di carnevale], che assai furono et ingegnosi, mi piace toccare brevemente di uno che fu principale
invenzione di Piero già maturo di anni, […] una strana e orribile et inaspettata invenzione di non piccola satisfazione
a’popoli; ché come ne’ cibi talvolta le cose agre, così in quelli
passatempi le cose orribili […] dilettano maravigliosamente
il gusto umano: cosa che apparasche [è evidente] nel recitare
le tragedie.”
Vasari, Vite dei pittori
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Nei grandi dipinti barocchi la pandemia si presenta come
un’immane ammucchiata di cadaveri. Raramente si vedono
segni specifici della malattia. Quando ci sono, sono simbolici, stereotipati. I san Sebastiano, protettori dalla peste, sono
colpiti da frecce. Talvolta le ferite sembrano bubboni o pustole arrossate. I san Rocco, inventati tardi, a dar man forte ai
san Sebastiano, mostrano il bubbone, che però in genere
non è nemmeno un bubbone, è una piaga stilizzata e poi si
trova sempre sulla coscia, non nell’ascella o vicino all’inguine (ed è comprensibile: non si mostra l’inguine di un santo,
specie non in piena Controriforma). Quanto a santa Rosalia,
era stata inventata come protettrice dalla peste da Van Dyck,
al quale era capitato di trovarsi a Palermo, invitato a fare ritratti al viceré Emanuele Filiberto di Savoia e a facoltosi mercanti genovesi, e lì sorpreso dalla peste nel 1624. Ma in nessuna delle cinque sante Rosalie del pittore fiammingo si
vedono appestati, al massimo rosei angioletti che si librano
sulla città con un teschio in mano.
Una delle rappresentazioni pittoriche che mette insieme
e cataloga in un unico dipinto tutti i temi che hanno a che
fare con la peste è il dipinto votivo per la famiglia padovana
dei Papafava eseguito nel 1635 da Luca Ferrari (ora custodito dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo).
Si tratta di un vero e proprio repertorio di “motivi”. C’è l’appestato in primo piano che solleva il braccio per mostrare
l’ascella a un medico, il quale, a debita distanza, osserva col
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monocolo, affiancato da un elegante assistente. Ci sono il
“picegamorti” (becchino, monatto) scamiciato, col campanello, il quale rimuove i morti, e il membro di una confraternita di misericordia, in divisa con croce sulla schiena che
presta assistenza. Ci sono le donne sequestrate in casa che
calano un cestino da un balcone e la carrozza del nobile che
abbandona la città. C’è un uomo che porta sottobraccio un
involto, si presume il corpo di un neonato, e c’è, esattamente
al centro del dipinto, il bambino steso nudo per strada, coi
segni neri del carbonchio. Ci sono i santi e gli angeli in cielo,
e la Madonna, cui si rivolge l’enfatica gestualità della preghiera di san Domenico. Ci sono la rassegnazione, l’assuefazione e l’indifferenza in terra, rappresentati nella donna in
centro a braccia conserte. Mentre un’altra donna cerca inutilmente di attirare la sua attenzione tirandole un lembo della gonna. In apparenza non manca proprio nulla. Nulla tranne che, come ha osservato qualcuno, “la protagonista [la
peste stessa], con le sue componenti primarie, la paura, la ripugnanza della malattia, la morte”. Riserbo? Censura?
Eppure ancor prima c’era stato chi i segni clinici della
peste li aveva dipinti con straordinaria precisione, li aveva
visti bene e da vicino: ad esempio il quattrocentesco “piccardo” Josse Lieferinxe, detto anche “il maestro di san Sebastiano”, il quale dipinge quasi solo immagini del santo della peste, e in uno di questi dipinti, il San Sebastiano intercede per
gli appestati (ora al Walters Art Museum di Baltimora) mostra con estrema precisione un bubbone sul collo. Il dipinto
non mostra un’ammucchiata di cadaveri, ma, a parte quell’unico moribondo che si contorce sul selciato, sepolture ordinate, di salme avvolte in lenzuoli candidi di bucato, accompagnati da preghiere. Una scena ben diversa da quella
“classica” descritta da Boccaccio e da tanti altri. Che l’assistenza e i dovuti ossequi funzionassero meglio nel Nord Europa, nella ricca Borgogna? Comunque, trattandosi di metà
Quattrocento, non manca un diavoletto volante, con le canoniche ali da pipistrello che nel cielo della città si scontra con
un angioletto vestito da chierichetto.
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Mano a mano che ci si addentra nel Seicento diminuiscono gli scheletri danzanti, i diavoletti e gli altri mostriciattoli
che avevano infestato le rappresentazioni visuali tipo Danse
macabre (che pure continuavano a essere prodotte in serie
nel Nord riformato), e non ci sono più nemmeno i magnifici
cavalieri dell’Apocalisse tipo quelli incisi da Dürer. Sono rimasti i simboli, le rappresentazioni allegoriche, il continuo
richiamo al memento mori, ricordati che devi morire. È rimasta la rappresentazione simbolica della morte in nero, con o
senza maschera, con o senza falce, a cavallo o volante. Lo
scheletro alato che domina il celebre “Humana Fragilitas” di
Salvator Rosa è pure spiritoso, si atteggia a maestro di scuola, regge servizievole il cartiglio, aiuta il paffuto e roseo bambino seduto in grembo alla giovane mamma a scriverci sopra
le parole di una canzone dedicata al pittore dall’amico filosofo Ricciardi: “Rosa, il nascere è pena, il vivere è fatica, et il
morir necessità fatale”. Monito filosofico, erga omnes, non
legato a una particolare minaccia. A rappresentare l’epidemia si devono far vedere invece caterve di vittime, i morti e
gli infermi, ammucchiati, stesi alla rinfusa, per strada o in ricoveri improvvisati, rappresentati, come dire, in carne e ossa, e ci sono, accanto a loro, coloro che li evitano inorriditi,
schifati dalla puzza, ma anche coloro che li assistono caritatevolmente, i medici, gli infermieri, i santi in terra e quelli
che intervengono dal cielo, con o senza l’aiuto di angeli e
cherubini. La Scuola grande di San Rocco, con la sua profusione di Tintoretto e Tiziano, e altre rappresentazioni del
contagio, è il più splendido e maestoso omaggio privato che
si possa immaginare all’azione pubblica della Serenissima
contro la peste.
Molti grandissimi artisti avevano conosciuto di persona,
a volte sulla propria pelle, la malattia e il contagio. Buonarroto, il fratello di Michelangelo Buonarroti, gli era morto tra le
braccia, di peste. A Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, erano morti di peste il padre, il nonno, lo zio. Lui, da
poco arrivato a Roma, era stato ricoverato in fin di vita in
uno stanzone d’ospedale quasi completamente buio. Non è
detto fosse peste, poteva essere qualsiasi cosa: quel che ai
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suoi tempi veniva chiamata “febbre romana”, malaria, influenza, colera o un’altra infezione intestinale. Secondo qualcuno fu in quella corsia buia che concepì lo scuro “caravaggesco”. Parecchi anni dopo morì dopo che gli era venuta la
febbre alta mentre viaggiava in mare, come passeggero, su
una feluca, portandosi appresso alcuni dei capolavori cui più
teneva. L’avevano sbarcato a Porto Ercole. Aveva trentotto
anni. Sulle cause della morte si sono sbizzarriti e hanno romanzato in molti. Anche in questo caso potrebbe trattarsi di
qualunque cosa. Giorgione morì, a quanto racconta il Vasari,
poco più che trentenne, in uno dei Lazzaretti di Venezia, dopo aver voluto dare un ultimo bacio alla sua amante che stava morendo di peste. Di peste morì, non molti anni dopo,
anche il suo amico Tiziano, che aveva voluto rendergli un’ultima visita. Si dice che un quadro di Tiziano completato l’anno dopo la morte di Giorgione, il Miracolo del piede risanato,
ritragga proprio Giorgione morente, o comunque un giovane che sta morendo di peste. C’è anche chi ha notato, ai piedi del moribondo (che in questo caso viene risanato grazie
all’intervento di sant’Antonio), strani animaletti, mostriciattoli, non altrimenti identificabili diavoletti, che potrebbero
essere simboli della peste. Raffaello stava per compiere trentasette anni quando, il 6 aprile 1520, “il giorno medesimo
ch’e’ nacque”, morì a causa di una “grandissima febbre”. La
mostra in occasione del cinquecentesimo anniversario della
morte, presentata alle Scuderie del Quirinale a Roma, e subito chiusa per Covid, si apre con un grande dipinto ottocentesco che raffigura il tout le monde accorso al suo capezzale. Se
è vero, non si temeva molto il contagio. Il solito pettegolo
Vasari attribuisce la sua malattia agli “eccessi amorosi”, cioè
alla Fornarina, che non sappiamo se fosse la figlia di un fornaio di Trastevere o una celebre prostituta. Ma poteva essere
una banale influenza, un virus qualsiasi. Il Cinquecento è il
secolo in cui la peste (o cos’altro diavolo fosse) va e viene di
continuo, anche se non con la violenza di metà Trecento.
Spesso si alterna ad altre malattie, contagiose o meno. Non è,
e non può più essere, un fatto individuale. Anche in pittura
si manifesta con grandiose scene corali, collettive, e più tardi
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addirittura di folla. Assolutamente corale è per esempio il
San Rocco risana gli appestati che Tintoretto dipinse per la
chiesa adiacente la Scuola Grande, dove si vede uno stuolo
di ammalati che mostrano ascelle, inguini e cosce, i luoghi
classicamente deputati alla comparsa dei bubboni.
Tutti i colori della peste
“Gli occhi diventano rossi […] la lingua diventa secca e
nera, le labbra diventano cianotiche. […] La pelle diventa
ricoperte di pustole e macchie rosse, viola e nere […]”: così
un trattato medico del 1630 descrive l’apparenza degli appestati. Roland Jacques, chirurgo alla corte dei re di Francia, è
un testimone oculare. Ma non si può escludere che, come
succede a moltissimi altri autori, la sua descrizione, così particolareggiata riguardo i colori degli appestati, sia indebitata
anche a fonti letterarie. Analogo dubbio si ha guardando come peste e pandemie vengono dipinte.
Certo se n’è scritto, e l’hanno dipinta, di tutti i colori. È
“atra”, scura e fosca la malattia, come scrivono gli autori
classici. È “Morte nera” come nel Trecento, “livida” come
un cadavere nelle tele di Tintoretto o Poussin, è morte “rossa” come nei morbi emorragici, “morte bianca”, come veniva definita la tubercolosi dal pallore delle vittime, oppure
l’influenza nei racconti della Porter. Le polmoniti atipiche
prodotte dalla Spagnola venivano anche chiamate “la morte
blu”, causa il tipico colore cianotico di labbra e viso dei pazienti morti perché non riuscivano più a respirare. Le malattie veneree sono verdastre, dal colore che assumeva l’ossidazione degli orinali pubblici di un tempo. Un verdastro
malaticcio è il colore dominante ne La peste di Arnold
Böcklin (1898), rappresentata, falce in mano, a cavalcioni di
un orrido drago-insetto (mentre rispettivamente di rosso e
bianco brillante sono vestite le figure femminili che ha già
falciato). La “febbre gialla”, malattia virale trasmessa dalle
zanzare, è così chiamata per l’ittero, la colorazione giallastra
della pelle che produce. La malattia contagiosa in Schiele è
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invece multicolore. Così come multicolore è il disfacimento
nei dipinti di Lucian Freud. La immagini del virus del Covid
lo mostrano di un bel rosa lubrico e brillante. Una pasticceria napoletana ne ha tratto ispirazione, nei giorni pre-lockdown, per un dolce che pare tale quale. Non so quanto abbia
avuto successo. In una splendida conferenza alla Milanesiana a Pavia, in riapertura post-Covid, Claudio Magris ha ricordato, tra molte altre cose, la teoria di un geniale e truffaldino gesuita del Seicento, Athanasius Kircher, per cui il
colore nasce non dalla luce ma dall’ombra. Teoria certo sbagliata, ma suggestiva nel secolo della peste e, soprattutto, di
Caravaggio. Erudito, poliglotta in diciotto lingue, sinologo,
tuttologo, erudito con notevole fantasia (a Borges piaceva citare le sue bizzarrie), autore di libri sulla peste, presunto inventore dell’analisi del sangue al microscopio, Kircher sostenne, tra molte altre cose impossibili con la tecnologia di
cui disponeva, di aver visto bacilli nel sangue degli appestati.
C’era un codice di colore per i diversi servizi legati all’epidemia nella Venezia del 1500. Dipinte di bianco erano le barche con cui si trasportavano malati e convalescenti. Nere
quelle con cui si trasportavano i cadaveri.
Col colore ha anche a che fare l’etimologia della nozione
di contagio in cinese. Chuanran, contagio, letteralmente significa trasmissione mediante tintura, dalla radice ran, tingere. È il verbo con cui si designava una funzione molto importante e delicata, affidata esclusivamente a specialisti alla corte
degli Zhou occidentali, dall’XI all’VIII secolo avanti Cristo:
la tintura in diversi colori della seta grezza. La tintura “contamina” le fibre della seta. Chao Yunfang, autore del gran
classico della medicina cinese del VII secolo, Zhu bing yuan
hou lun (Sull’origine e i sintomi di tutte le malattie), distingue tra jianran, tintura per immersione, cioè contagio da
contatto prolungato con una fonte di inquinamento, e xiangran, contaminazione da scambio ambientale. Infine una terza forma, in diverse varianti, ranyi (scambio mediante tintura) o zhuyi (scambio a pioggia), indica specificamente il
contagio da persona a persona. Il Qi, il soffio attraverso cui
avviene il contagio, ha qualche corrispondenza col miasma
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degli autori medievali. Wu Youxing, autore di un classico
della medicina cinese di metà Settecento, distingue sei diverse patologie da Qi, e in modo particolare fa una distinzione
tra generiche “malattie da raffreddamento” e pandemie vere
e proprie. A questo testo si sarebbero ispirati gli esperti di
medicina tradizionale cinese nell’individuazione e nel trattamento dell’epidemia di Sars nel 2003, e anche le prescrizioni
di medicina tradizionale contro il Sars-Covid 19.
I ratti biblici di Poussin
È difficile rappresentare visualmente qualcosa che non si
vede. Per esempio quegli agenti invisibili del contagio che
già nel 1546, nel suo De contagione et de contagiosis morbis et
eorum curatione, Girolamo Fracastoro definiva virus (dal latino veleno). Oppure “far vedere” i miasmi pestiferi che, secondo le teorie allora prevalenti, alternative a questa intuizione del Fracastoro, sarebbero state all’origine delle
epidemie. Come si “dipingono” la puzza, i cattivi odori? Ci
provavano: dipingendo persone che si turano il naso. Ancora
più difficile è rappresentare visivamente le emozioni: la paura del contagio, il ribrezzo per le sue conseguenze.
Uno che ci provò a rappresentare puzza, panico, emozioni, paura, compassione e indifferenza in pittura è Nicolas
Poussin. La sua Peste di Azoth è una delle più note, ammirate e studiate rappresentazioni dell’epidemia. Mostra tutto
l’orrore dei morenti e dei cadaveri per strada. Mostra personaggi che si turano il naso per l’insopportabile fetore, tutti in
preda al terrore, qualcuno all’indifferenza (come il personaggio che, in secondo piano, si guarda bene dal prestare
aiuto al morente sulla scalinata del tempio), altri che non ricusano un gesto di umanità (come l’uomo in primo piano al
centro che, pur turandosi il naso, volge un gesto di affetto al
bambino sopravvissuto alla mamma e al fratellino gemello,
entrambi morti; oppure l’altro personaggio, in primo piano a
destra, che con una mano si tura il naso e con l’altra trattiene
un ragazzino dall’avvicinarsi ai cadaveri). La grande tela di
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Poussin è un capolavoro. Ma non è una testimonianza diretta, malgrado sia stato dipinto nel 1630, l’anno della peste. È
una citazione letteraria, e, al tempo stesso, una straordinaria
rielaborazione di citazioni pittoriche. Poussin la peste non
l’ha vista coi propri occhi. Quell’anno viveva e lavorava a
Roma, dove erano riusciti a (o avevano avuto la fortuna di)
tenerla lontano.
Eppure, come altri grandi narratori che lavoravano con
la penna anziché col pennello, Poussin riesce a raccontarla
molto meglio di chi l’ha vista.
Non racconta la peste del suo tempo, ma un episodio della Bibbia, nel libro di Samuele, la peste che colpì i Filistei
quando questi trafugarono agli Israeliti l’Arca dell’alleanza.
“Leggete la storia e il dipinto, allo scopo di sapere se ogni
cosa è appropriata al soggetto” è il consiglio che lo stesso
pittore avrebbe dato a uno dei suoi mecenati, Paul Fréart
Chantelou. Anche se si riferiva non a questo ma a un altro
dipinto di soggetto biblico, Gli israeliti raccolgono la manna.
Ma si può applicare alla Peste di Azoth, che Poussin a dire il
vero preferiva intitolare Il miracolo dell’Arca nel tempio di
Dagon. Citazione biblica è l’Arca, in secondo piano, sulla
spianata del tempio a sinistra. Così come citazione biblica
sono, giusto di fronte all’Arca, i resti dell’idolo di Dagon,
“caduto a faccia in giù, persa la testa e le mani, gli era rimasto
solo il tronco”. Citazione biblica sono anche i topi (nel dipinto ratti), che secondo la Vulgata avevano invaso la terra
dei Filistei, all’interno e sulla costa, e anche le loro navi. Gli
viene dalla lettura del Libro di Samuele. È una delle non frequenti rappresentazioni di topi o ratti nei dipinti con argomento la peste, e la cosa ha giustamente attirato attenzione.
Ma non significa che Poussin abbia intuito il ruolo che hanno i ratti e le loro pulci nella trasmissione della peste bubbonica. E sono ratti vispissimi, non morti o moribondi come
dovrebbero essere se contagiati dallo Yersinia pestis. Ce ne
sono altre, di rappresentazioni di cadaveri e topi. Ammucchiati uno sull’altro, per esempio in un manoscritto illuminato del 1250, cioè di un secolo prima della grande peste di
metà Trecento (Pierpoint Morgan Library, MS 638, folio 21,
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verso). Ma anche in quel caso si tratta di citazione biblica,
riguardo la Peste di Azoth. Numerosissime sono anche le citazioni pittoriche, visuali individuabili nel dipinto di Poussin, a cominciare dalla figura femminile di cadavere a seno
nudo, con a fianco i bambini che allattava prima di ammalarsi. In molti hanno individuato tra i modelli di Poussin il Morbetto, l’incisione di Marcantonio Raimondi su disegno di
Raffello. Il quale ha a sua volta un riferimento letterario: il
passo dell’Eneide di Virgilio in cui i profughi troiani, approdati a Creta, credono di aver finalmente trovato una nuova
casa, “senza nemici”, dove rifarsi una vita, dove costruirsi
nuovi focolari che possano “amare”, e avere “nuove leggi”,
ed ecco che “d’improvviso scoppia, corrottosi il cielo, un
contagio (lues) distruttore di corpi, e di alberi, e di seminati,
una misera stagione di morte”, per cui “abbandonavano la
dolce vita o trascinavano malati i corpi ”(linquebant dulces
animas aut aegra trahebant corpora)” (Eneide, III, 136-141).
Non si capisce bene, c’è una discussione infinita su quale
fosse il flagello che secondo la Bibbia colpì i Palestinesi (e se
è per quello anche gli Ebrei ai quali riconsegnarono l’Arca
dopo aver deciso di disfarsene, conferma se non altro che si
trattava di malattia contagiosa). Solo abbastanza di recente il
punto del corpo nel quale si manifestava la malattia, cui il
testo si riferisce semplicemente come “parti nascoste”, viene
tradotto “bubboni” o “rigonfiamenti”, in passato c’era chi
traduceva “emorroidi”. Nel dipinto di Poussin non si vedono bubboni, il segno caratteristico della peste, né, come in
altre opere d’arte, il gesto del sollevare il braccio o mostrare
la coscia, tipico di chi vuole mostrare il bubbone cresciuto
sotto le ascelle o all’inguine, parti normalmente appunto
“nascoste”.
Ma si “vedono” cose altrimenti impercettibili: si “vede”
la paura, si “vede” il contagio, si vedono i colori della morte,
il livore, il pallore, l’annerimento. Un saggio magistrale di
Sheila Barker pubblicato nel 2004 su «“Art Bulletin»” ha dimostrato con dovizia di argomentazione che Poussin era familiare con le concezioni mediche del suo tempo (in cui si
affacciava l’idea del contagio) e con i provvedimenti e le pau235
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re diffuse riguardo la peste. Due dei suoi più importanti
committenti e mecenati a Roma, Cassiano dal Pozzo e il cardinale Francesco Barberini, erano ben addentro l’argomento, corrispondevano con i massimi esperti d’Europa in fatto
di medicina e di provvedimenti per arginare la peste. Barberini era stato messo alla testa della Congregazione di Sanità
ed ebbe un ruolo nell’evitare che arrivasse a Roma la peste
del 1630, quella del Manzoni, che devastò Milano, Venezia e
mezza Europa. Avevano ordinato il blocco delle vie di terra e
per fiume da Bologna in giù. Misero ronde che pattugliavano
gli accessi per mare fino a Civitavecchia. Fu proibito il commercio del pesce, istituito il controllo di tutte le merci e persone che entrassero in città, specie gli stranieri. Furono disinfettati con aceto e fumigazioni tutti i locali pubblici, si
procedette alla pulizia sistematica di mercati, strade, immondizie, fogne, e luoghi affollati come carceri e ospedali. A
qualcosa servì. L’epidemia a Roma fu bloccata, per il momento (alle prime disattenzioni sarebbe tornata, qualche anno dopo). O fu solo fortuna? Certo che ci vuole anche quella. Cassiano, uomo di corte, e soprattutto raffinato
intenditore e collezionista d’arte (si dice che fu lui, in occasione di un viaggio diplomatico in Francia, a dare il nome di
Gioconda alla Monna Lisa di Leonardo, ma per altri era stato diversi decenni prima Giovanni Paolo Lomazzo). Era stato Cassiano a presentare Poussin al suo più importante cliente a Roma, il cardinale Barberini; era stato lui a chiedere
consulenze in tutta Europa per il morbo gallico (sifilide) con
cui si era infettato Poussin.
C’è un mistero a latere: come mai Poussin abbia venduto
questo capolavoro – e anche un altro dipinto, un pendant,
forse un gemello di questo, o una copia, di cui s’è persa traccia, ma di cui c’è un suo disegno – non a uno di cotanti suoi
patroni, bensì a un avventuriero siciliano, Fabritio Valguarnera. Il Valguarnera, di antica nobiltà di origine catalana
(specialisti in pirateria nel secolo in cui, fingendo una Crociata, saccheggiarono Costantinopoli, diversi catalani si erano stabiliti in Sicilia e, arricchiti, si erano acquisiti titoli nobiliari), era ricercato da Madrid per ricettazione di diamanti
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grezzi, giunti dalla Indie e poi rubati. Il sospetto era che riciclasse la refurtiva comprando opere d’arte. In effetti fu trovata in suo possesso una collezione degna di un re, anzi di un
imperatore: dei Poussin, tra i quali appunto la Peste di Azoth,
che allora aveva come titolo Il miracolo dell’Arca nel tempio
di Dagon, dei Pietro da Cortona, Guercino, un Domenichino, un Guido Reni…: al punto che nacque la leggenda che
stesse comprando dipinti per conto di Vélasquez e di Filippo
di Spagna. Molti anni dopo il Poussin sulla peste cercò di
comprarlo il cardinale Mazzarino, senza riuscirci. Ci riuscì
invece il duca di Richelieu, nipote del cardinale, e da questi
passò a Luigi XIV. È la ragione per cui il dipinto si trova oggi
al Louvre.
Essere ricercati dalla Spagna, nella Roma del Seicento era
come essere inseguiti da un mandato dell’Interpol. Valguarnera fu arrestato, rinchiuso nel carcere di Tordinona e portato in giudizio. Al processo, tra gli altri, venne a testimoniare
anche Poussin, disse che sì gli aveva venduto due grandi dipinti, e quello glieli aveva pagati in contanti. Il processo non
si riuscì a concluderlo. Il 7 settembre 1631 si erano sospese le
udienze perché l’imputato era malato. “Ha la febbre e vomita,” dice il certificato del medico del carcere. L’annotazione
successiva è del 2 gennaio 1632, e dice che il prigioniero è
deceduto dopo essere stato “per diversi giorni con la febbre”. Non era probabilmente peste, la malattia non sarebbe
durata tanto. Poteva essere qualsiasi cosa.
La Napoli di Micco o’ Spadaro
Gustaw Herling, il raffinato intellettuale polacco che
scrisse e testimoniò dei campi di Hitler e di Stalin, rievoca
spesso gli orrori della peste. La sua opera più nota, Un mondo a parte, è dichiaratamente modellata sul Diario dell’anno
della peste di Daniel Defoe. “La lezione (del Diario di Defoe)
consisteva nel fatto che certi capitoli ‘della nera storia dell’umanità’ (cataclismi, epidemie, stermini, invasioni barbariche, genocidi) potevano venir ricreati dalla penna di un cro237
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nista il più possibile impersonale”: questa la sua spiegazione.
Dalla penna, o dal pennello. Ecco la pagina in cui nel Diario
scritto di notte (1971) racconta l’impressione in lui suscitata
dal vedere al Museo storico di Napoli Episodi della peste del
maggio 1656 al Largo Mercatello, l’opera del pittore barocco
Micco o’ Spadaro (Domenico Gargiulo):
Sulla tela di Spadaro il Largo del Mercatello, oggi Piazza Dante, dà
l›impressione di un enorme pozzo prosciugato. Il pittore ha ottenuto
questo effetto stirando verso il cielo le cupole, le case e le torri visibili al di là delle nude mura della piazza. Perché sono davvero nude,
prive di qualsiasi costruzione, il che aumenta il senso di chiusura.
Guardando il quadro da una certa distanza si è colpiti dalla sua somiglianza con le stampe illustranti l›inferno nelle vecchie edizioni di
Dante. Sul fondo di un abisso tenebroso, un intrico di insignificanti
corpiciattoli tormentati, condannati, presi nell›oscura rete della
morte.
Avvicinandosi alla tela ne emerge il vero soggetto: due
episodi della peste napoletana visti nel maggio del 1656 in
varie parti della città e poi trasportati sull›unica scena di largo del Mercatello. Per quanto sia facile individuare ogni episodio per osservarlo separato dagli altri, l›impressione è sempre quella di una massa che ,soffoca, risultato che
probabilmente più premeva all›artista: fissando a lungo la
scena alla fine, come attraverso una botola aperta all›improvviso, raggiungiamo il fondo di un mondo costruito sul disperante nulla della vita. Cumuli di cadaveri lungo i muri, sui
carri, su barelle abbandonate, sulla nuda terra; tra di essi degli spettri umani più morti che vivi che trascinano per le
braccia o per i piedi quelli appena morti; ecco un uomo, bocca e naso tappati da un fazzoletto, che porta una piccola bara; eccone un altro che, in ginocchio, solleva al cielo le braccia in un grido non di preghiera ma di maledizione; ecco due
corpi stretti in ultimo abbraccio; ecco un bambino che succhia il seno di una donna morta. E di nuovo, senza neanche
doversi scostare dalla tela, l›informe massa la cui unica
espressione è la mancanza di ogni espressione. Senza darsi
troppo pensiero delle condizioni imposte dalla realtà, l’Or238
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cagna, non intralciato da un’esigenza di realismo, aveva dipinto in ben altra maniera il suo Trionfo della morte. Il suo
era un monito, questa è una sentenza.
ll nucleo del quadro si trova esattamente al centro di largo del Mercatello. Non so che aspetto avesse Spadaro, ma
giurerei che si sia ritratto nel giovane vestito di scuro, gli occhi consumati dal pianto come quelli di un cieco, che tiene in
mano una brocca inclinata: accanto a lui un uomo ricurvo ne
beve l›acqua. È una simbolica sintesi della sete. Sete di che?
È impressionante come nei dipinti sulla peste, eanche nei
commenti dei dipinti sulla peste, esattamente come nelle
narrazioni scritte, tornino più o meno le stesse cose. Si citano
l’un l’altro, o più semplicemente raccontano la stessa cosa, le
stesse umane reazioni ed emozioni? Anche la caccia agli untori sulla quale si sofferma subito dopo Herling sembra identica in ogni tempo e latitudine: nella Milano del 1630 di cui
scrive il Manzoni, nella Napoli del 1656, nella Germania di
Hitler, nella Russia di Stalin… e quando e dove ancora? Il
popolo va a caccia dei colpevoli, di chi sparge “‘polveri velenose’ sparse dai ‘nemici di Napoli’, non necessariamente
stranieri”. “In realtà le cronache presentano il quadro di due
pesti, una reale e l’altra psicologica,” sostiene Herling, che la
caccia alle streghe, con tanto di consenso popolare, l’ha provata sulla propria pelle. “Stavano per morire […] e si saltavano alla gola l’uno contro l’altro”, la notazione attribuita da
Herling a un non precisato cronista.
Segue un racconto:
Negli atti di una confraternita religiosa ho trovato per caso la storia
di un robivecchi di 25 anni: Agostino Lanzuolo. Il 29 maggio fu arrestato dalle guardie come uno della ‘pericolosa folla’ che aveva fatto a
pezzi una vecchia venditrice sospetta di seminazione delle polveri velenose. L›indomani mattina fu portato in piazza del Mercato dove si
trovava la forca. Dopo aver rifiutato di confessarsi, non volle inginocchiarsi davanti all›altare per respingere il crocifisso tesogli dal
cappellano della confraternita. Tracotante, incalzava il boia ripetendo con ‘diabolica ostinazione’: Voglio morire, andiamo presto alla
morte. Ottenuto un rinvio dell›esecuzione, il cappellano corse a cercare aiuto dai confratelli. Ne vennero quattro: lo scongiurarono, pregarono, piansero, accesero addirittura un fuoco ‘per rendergli più
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sensibili i tormenti dell›inferno’. Invano. Verso sera, quando non fu
più possibile rimandare l›esecuzione, il funzionario dette il segnale.
Agostino scoppiò in una sonora risata, salì baldanzoso sul patibolo e
appena gli furono sciolte le mani afferrò il cappio ‘per metterselo al
collo da solo’. A un tratto avvenne qualcosa che la relazione dei fraticelli definisce ‹‘un evidente intervento del Cielo’: Agostino guardò la
folla silenziosa in piazza del Mercato, la esaminò con una tale concentrazione e una ‘tale sofferenza sul volto sbiancato che tutti ne restarono come impietriti. Poi chiese di confessarsi. Il tempo stringeva,
per cui si confessò velocemente, ma piangendo abbondantemente e
battendosi ripetutamente il petto’. Piangevano e si battevano il petto
anche i presenti e ben presto salutarono l›impiccato con grida di gaudio universale.
La cosa più interessante è che negli atti della confraternita la relazione termina con la frase: “e fu come se un recipiente d’acqua fosse stato accostato alle labbra riarse e indurite della città appesa sulla croce, più assetata di verità che
d’essere salvata dalla peste”.
Le chevalier Roze precetta i galeotti
Le Il Chevalier Roze devant la Tourette di Jean Francois
de Troy e Le chevalier Roze faisant inhumer les pestiférés di
Paul Guérin sono le più celebri rappresentazioni della peste
di Marsiglia. Entrambe sono opere fortemente propagandistiche. Esaltano l’intervento della monarchia amministrativa,
dello stato unitario, che in Francia c’è da molti secoli (e invece in Italia non c’è stato per molti secoli). Ed esaltano il personaggio che in quel momento rappresentava lo stato a Marsiglia, il plenipotenziario Nicolas Roze. Era un aristocratico,
un militare, e pure un armatore. All’inizio dell’agosto 1720 la
mortalità superava le quattrocento vittime al giorno. Poi la
curva si impennò in modo spaventoso: mille, poi duemila
morti al giorno. Ecco come riferisce, nel suo rapporto indirizzato a Parigi, il dottor Deydier, inviato dal Reggente Filippo d’Orléans:
Non saprei come dipingervi il disordine spaventoso in cui ho trovato
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questa città desolata: entrando dalla porta d’Aix assieme ai signori
Verny e Chicoyneau, il colpo d’occhio verso la porta di Roma era la
cosa più tremenda al mondo; porte e finestre chiuse, il selciato ricoperto, su entrambi i lati, dai malati e moribondi stesi su materassi
senza alcun soccorso; in mezzo alla strada, e specialmente lungo il
Corso, non si vedevano che cadaveri ammucchiati e mezzo decomposti, stracci sporchi e carri trascinati da forzati […] ammalati e
morti erano talmente stretti che non si poteva fare un passo senza
camminargli sopra. È lungo questa strada che, non saprei dire perché, vedemmo un gran numero di donne appestate morte, con ancora attaccati al seno i loro piccoli.
L’appestata con attaccato al seno il lattante è una rappresentazione canonica, comune a un gran numero di scritti letterari e dipinti, di diverse epoche, e verrebbe da considerarla
di maniera, non fosse di mano di uno mandato apposta a vedere con i propri occhi e riferire. La novità nelle descrizioni
e nelle rappresentazioni della peste di Marsiglia è semmai la
figura dell’eroe che risolve la situazione (in nome beninteso
dello stato). Eroico è il medico inviato dal Reggente. Il dottor Chicoyneau “[…] arriva in città ed entra in tutte le infermerie. I letti delle vittime della peste non lo spaventano. Li
esamina come se esaminasse una qualsiasi febbre terzana;
respira l’aria che esce dalla bocca di questi sfortunati. Li
consola, li nutre con del brodo. Poggia la mano sui bubboni,
fa l’autopsia dei cadaveri che portano i segni della peste, ne
scruta i visceri, li tocca […]”. È convinto che la peste non sia
contagiosa, lo sostiene a spada tratta nei suoi scritti. Incosciente? Può darsi, ma non aveva del tutto torto: la peste
bubbonica, a differenza di quella polmonare, è poco contagiosa, quel che bisogna evitare sono le pulci.
Altrettanto eroico, noncurante del pericolo, deciso, deve
essere per forza anche il funzionario responsabile per le misure di sicurezza sanitaria e la rimozione dei cadaveri. Avevano precettato i forzati delle galere reali e poveracci reclutati
nelle campagne circostanti. Non bastando più le fosse, il cavaliere Roze aveva avuto “la geniale idea di trasformare in
immensi sepolcri le due casematte de la Tourette, presso il
porto, le cui volte, a livello terra, erano facili da scavare”.
Duecento forzati delle galere furono accompagnati sul luogo
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scortati da una compagnia del reggimento di Brie, al suono
dei pifferi e dotati di un fazzoletto imbevuto di aceto da premersi sul naso. Per persuaderli gli puntarono addosso i fucili. Ma alla vista di quello spettacolo orrendo, di fronte a
quell’ammasso di liquami e alla puzza insopportabile (si era
d’agosto, quei cadaveri erano rimasti a marcire per settimane), anche i soldati esitavano. Allora, si racconta, il cavaliere
de Roze scende da cavallo, afferra per una gamba il primo
cadavere che gli capita a tiro, comincia a trascinarlo verso la
breccia aperta sulla copertura del bastione, lo scaraventa
nell’apertura. È la scena su cui si sono esercitati i pittori. Nel
quadro di Troy si vede il cavaliere ancora a cavallo, dar ordini con il suo bastone a uno dei forzati. In quello di Guérin è
smontato, e addirittura solleva per la vita uno dei cadaveri.
In entrambe le rappresentazioni il suo abbigliamento, di
un’eleganza impeccabile, lo distingue dai pezzenti al suo comando. Tunica, camicia, cravatta impeccabili, neanche fosse
James Bond, Si ammalò anche lui, ma sopravvisse. Dei milleduecento forzati e altri poveracci che furono complessivamente mobilitati per la rimozione de cadaveri ne sopravvissero pare solo tre.
Naturalmente la scelta dell’eroe dipende dalla sensibilità
politica del narratore. Per il cattolico Chateaubriand l’eroe
assoluto della Peste di Marsiglia non è né il medico mominato dal Re, né il funzionario laico, è l’arcivescovo Monsignor
De Belsunce, così come per Manzoni è il cardinale Borromeo.
Il rimedio di Napoleone
Un’opera di pura, teatrale propaganda, in confronto alla
quale impallidisce l’eroismo del cavaliere Roze, sono Gli appestati di Jaffa di Antoine-Jean Gros, entusiasticamente acclamato al Salon parigino del 1804. È la versione ufficiale,
gradita a Napoleone Bonaparte, di un episodio della altrimenti disastrosa Campagna d’Egitto e di Siria del 1798-1801.
In Egitto era andato bene solo il saccheggio, che consentì a
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Vivant-Denon di gettare le basi della collezione del Louvre.
Quella per la conquista della Siria non era neanche cominciata, perché si era diffusa la peste tra le truppe francesi al
comando del generale Bonaparte. La peste aveva accompagnato l’Armée durante tutta la campagna, assieme alla dissenteria e altre malattie. Ma era esplosa dopo la presa di Acri
e poi Jaffa. All’inizio non la chiamavano nemmeno peste.
Parlavano di “febbre”, per non diffondere il panico. Il dottor René-Nicolas Desgenettes, il medico militare della spedizione, rivendica e giustifica la scelta terminologica: “Sapendo come le denominazioni influiscano spesso negativamente
sulla mente degli uomini, mi rifiutavo di pronunciare la parola peste. Pensavo che fosse mio dovere, in quelle circostanze, trattare l’esercito come un ammalato al quale è sempre
inutile e sovente pericoloso dire troppo di una malattia
quando questa è critica”. Ne era tanto convinto che, per provare che non c’era pericolo si inoculò, o fece finta di inocularsi davanti alle truppe il pus degli “appestati”. In effetti i
soldati erano terrorizzati. Ci furono diversi suicidi. “Se si
fosse detto subito la verità ci sarebbero state meno vittime,”
il commento del chirurgo capo, il dottor Larrey.
È a Jaffa che la situazione e le bugie diventano insostenibili. Napoleone ancora l’anno prima dava per iscritto a Kléber, a proposito della comparsa di sporadici casi di contagio
nella seconda brigata di fanteria, i seguenti consigli: “Fateli
spogliare nudi, fategli prendere un bagno di mare; che si
strofinino bene dalla testa ai piedi, che lavino bene le uniformi e facciano in modo di tenersi puliti…”. Ma poi la peste
iniziò a falcidiare le fila della forza di spedizione francese.
Napoleone dovette levare l’assedio ad Acri. “Se avessi preso
San Giovanni d’Acri, avrei fatto una rivoluzione in Oriente
[…] avrei raggiunto Costantinopoli e l’India, avrei cambiato
la faccia del mondo,” detterà nel Memoriale di Sant’Elena.
Ripiega su Jaffa. Gli aiutanti di campo del generale Bonaparte avevano trattato la capitolazione della guarnigione turca promettendogli salva la vita. Ma ottenuta la resa, Napoleone rinnegò la promessa e ordinò che i prigionieri venissero
uccisi. Il massacrò durò due giorni. Si cominciò con la fucila243
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zione degli arabi sulla spiaggia in riva al mare. Il giorno dopo
toccò ai milleduecento cannonieri turchi. Li passarono a filo
di baionetta, perché gli era stato ordinato di risparmiare le
munizioni. Gli restava da risolvere il problema dei soldati
francesi ammalati di peste. Se li erano portati dietro dall’assedio di Acri. Napoleone non voleva. Erano ingombranti.
Gli ostacolavano la ritirata. Rischiavano di diffondere il contagio. Erano un pericolo per i loro commilitoni. Soprattutto
li demoralizzavano, gli facevano paura. Se li avessero abbandonati sarebbero finiti in mano a un nemico “selvaggio”, che
per i prigionieri non aveva pietà. Napoleone avrebbe ordinato di sopprimerli, con una dose letale di oppio. Lo confermerebbe una nota in codice del diario intimo del generale
Jean-Baptiste Kléber, decifrata in seguito da un altro generale francese, Dams. “Non potevamo abbandonarli vivi in mano a un nemico che li avrebbe uccisi lo stesso, ma tra atroci
sofferenze, dopo averli umiliati, torturati, mutilati, magari
sodomizzati”, la scusa. Desgenettes si sarebbe opposto, questo era troppo anche per lui, o almeno così sostiene nella sua
Storia medica dell’Armata d’Oriente. Napoleone cedette, decise di portarseli dietro a Jaffa. Ma poi tornò alla decisione
originaria, dette ordine di porre fine alle loro sofferenze, farli
avvelenare con il laudano. A farsi carico dell’ordine sarebbe
stato un farmacista, di nome Royer. Qualcuno però sopravvisse, e lo raccontò agli inglesi che avevano occupato Jaffa
abbandonata da Napoleone. Sul doppio massacro, dei prigionieri e dei propri soldati avvitò una feroce campagna di
denuncia e di propaganda da parte dei britannici che erano
in guerra con i francesi. Si scatenarono la stampa e i caricaturisti. Ma se ne continuava a mormorare anche in Francia, tra
le élite, quelli addentro ai segreti, e anche nell’opinione pubblica.
È in questo contesto che Napoleone aveva bisogno di
un’iniziativa di contropropaganda. E trovò un esecutore di
straordinario talento in Gros, allievo di Jean-Luis David. Nel
dipinto, eseguito con grandissima perizia scenografica, si vede Napoleone che visita gli ammalati, li consola, addirittura
tocca con la mano nuda un gigante seminudo al quale stanno
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incidendo un bubbone. Il dottor Desgenettes tenta di dissuaderlo. Un altro ufficiale si tappa il naso con un fazzoletto,
a indicare l’insopportabile fetore che ammorba il luogo. Napoleone non se ne cura. Sarebbe uno di quelli che la mascherina non se la mettono. Il suo è il gesto dei re taumaturghi di
Francia, che guariscono gli scrofolosi con l’imposizione della
mano. È come fosse già l’Empereur. Da assassino cinico dei
suoi stessi soldati in questo dipinto si trasforma in santo guaritore. Gros non poteva aver assistito ad alcuna scena del genere. Non era neanche in Egitto, era rimasto in Italia. Pare
che a fargli da regista, a dettargli per filo e per segno la composizione della scena, a descrivergli l’edificio che a Jaffa
ospitava gli appestati, sia stato l’ineffabile Denon, discreto
romanziere, grande imprenditore delle antichità, genio della
propaganda, lo Speer e insieme il Goebbels di Napoleone.
Non per niente era assolutamente entusiasta del dipinto.
Non si sa se Napoleone sia mai andato davvero a trovare i
suoi soldati appestati. E se è per questo pare che nemmeno
Denon li abbia visti davvero. Come sempre ci furono anche
quelli che ricamarono ancora oltre con la fantasia adulatoria:
ci fu chi andava in giro a raccontare che sì, non solo Napoleone aveva toccato i bubboni, ma aveva anche sollevato uno
degli appestati. Mancava poco giurassero che li aveva guariti.
Ancora qualche anno e ci avrebbe pensato la campagna di
Russia a ridare un senso di proporzione. Oltre che dai Russi
la Grande Armée fu massacrata dal tifo. E non c’era nemmeno bisogno di fargli l’eutanasia, ci pensava il Generale inverno.
Balla con gli scheletri
Prima di Poussin, di Giorgione, di Tintoretto, di Tiziano,
l’Europa intera aveva ballato per un paio di secoli con la
morte. Da Palermo a Tallinn, da Firenze a Clusone, da Pisa a
Parigi, le pareti di cimiteri e chiese sono piene di danze macabre, rappresentazioni di scheletri che fanno la predica attraverso le scritte nei cartigli, anticipatori assoluti del fumet245
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to, e con il linguaggio dei gesti, per chi non era in grado di
leggere, l’assoluta maggioranza. Sono immagini destinate a
una fruizione collettiva, diffusa.
I cadaveri negli affreschi erano comparsi già prima della
peste nera. Si discute ancora della datazione del Trionfo della
morte negli affreschi del Camposanto di Pisa, così come non
si è mai conclusa la discussione su chi ne sia l’autore. Traini o
Buffalmacco? Prima o dopo il 1348? Pare ormai accertato:
prima. La cosa certa è che dopo la grande peste si moltiplicano, si diffondono a macchia d’olio. E i morti cominciano a
fare una cosa che prima non facevano: cominciano a ballare.
A cosa servono le danze macabre? Da memento mori, ricordati che devi morire? Ce n’era bisogno? Tutti prima o poi si
muore. E non si muore affatto solo di epidemia. È abbastanza scontato: in genere sono prediche dipinte. E spesso quel
che si vede nelle immagini corrisponde a un testo che è possibile leggere, talvolta viene addirittura riprodotto come
scritta nel dipinto. Servono a promettere l’adilà? Non sembra proprio. Non c’è ombra di paradiso o purgatorio. Servono a infondere terrore? Può darsi. Ma da un certo punto in
poi diventano puro spettacolo, che il pubblico gode e apprezza con lo stesso interesse con cui nell’Ottocento si leggeva di Frankenstein e di Dracula, oggigiorno si legge Stephen
King e si guarda un film horror. Il brivido non è solo predica:
piace, diverte.
L’orrore è anche liberazione, catarsi, come nella tragedia
greca. “Lo stesso sentimento che si prova al termine della
corsa in ottovolante”, un “momento magico di sicurezza e
reintegrazione”, quando nel finale lo spettatore ha l’impressione di aver affrontato il peggio, ma essersela cavata, almeno per il momento, dice King nel rammentare la reazione sua
e degli altri ragazzini ai film horror degli anni cinquanta:
“Credo sia questo sentmento di reintegrazione, che nasce da
un genere specializzato in morte, paura e mostruosità, a rendere la danse macabre così appagante e magica… quello e
l’abilità sconfinata dell’immaginazione umana nel creare infinite fantasticherie per poi usarle” (Danse macabre).
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“Questi affreschi credo vadano considerati uno spettacolo in senso proprio, tanto più che tornavano ad animarsi,
non solo attraverso le parole di un predicatore o di una guida, ma anche quelle sparse nei cartigli lungo tutte le cronici,
quelle che prendono posto all’interno dei temi rappresentati
o che persino escono dalle bocche dei personaggi dipinti (invenzione particolarmente disprezzata dal Vasari)”, è una delle intuizioni di Chiara Frugoni a proposito del ciclo di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa. Due secoli dopo la
funzione di spettacolo, di ricreazione popolare è molto più
esplicita. Un tema ricorrente nei Trionfi della morte, oltre al
solito scheletro travestito da morte, in diverse fasi di decomposizione, con diversi tipi di appendici che gli consentono di
volare (in genere ali di pipistrello), e diverse armi che gli consentono di colpire anche da distanza, senza che la vittima se
ne accorga (c’è una miniatura nordica in cui a scagliare freccette è il Padreterno in persona), è il carro, tirato da cavalli
altrettanto scheletrici, oppure da buoi o bufali, spesso neri.
Ebbene, nel Cinquecento a Firenze si facevano sfilare in occasione del Carnevale, che certo non è ricorrenza di mestizia,
carri allegorici di questo tipo.
Racconta ad esempio il Vasari di quello commissionato
nel 1511 a Piero di Cosimo, il quale “per essere capriccioso e
di stravagante invenzione, fu molto adoperato nelle mascherate che si fanno per carnevale”:
Fra questi [carri di carnevale], che assai furono et ingegnosi, mi piace toccare brevemente di uno che fu principale invenzione di Piero
già maturo di anni, […] una strana e orribile et inaspettata invenzione di non piccola satisfazione a’ popoli; ché come ne’ cibi talvolta le
cose agre, così in quelli passatempi le cose orribili […] dilettano maravigliosamente il gusto umano: cosa che apparasche nel recitare le
tragedie. Questo fu il carro della morte, da lui segretissimamente lavorato nella sala del Papa, che mai se ne potete spiegare cosa alcuna,
ma fu veduto e saputo in un medesimo punto.
Era il trionfo un carro grandissimo tirato da bufoli, tutto nero e dipinto di ossa di morti e di croce bianche; e sopra il carro era una
morte grandissima in cima, con la falce in mano; et aveva in giro al
carro molti sepolcri col coperchio; ed in tutti quei luoghi che il trionfo si fermava a cantare, s’aprivano e uscivano alcuni vestiti di tela
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nera, sopra la quale erano dipinte tutte le ossature di morto nelle
braccia, petto, rene e gambe, che il bianco sopra quel nero, et aparendo di lontano alcune di quelle torce con maschere che pigliavano
col teschio di morto il dinanzi e ‘l dietro e parimente la gola, oltre al
parere cosa naturalissima, era orribile e spaventosa a vedere; e questi
morti, al suono di certe trombe sorde e con suon roco e morto, uscivano mezzi di que’ sepolcri, e sedendovi sopra, cantavano in musica
piena di malenconia quella oggi nobilissima canzone:
Dolor, pianto e penitenzia, etc.
Era innanzi e adrieto al carro un gran numero di morti a cavallo, sopra certi cavalli con somma diligentia scelti de’ più secchi e più strutti che si potessino trovare, con copertine nere piene di Croci bianche; e ciascuno aveva 4 staffieri vestiti da morti con torce nere et uno
stendaro grande nero con croci et ossa e teste di morto […].
Un sacco di effetti speciali, insomma, da teatro, anzi quasi da film, comunque in funzione di entertainment. Era, ci
spiega Anton Francesco Grazzini, nel dedicare nel 1559 a
Francesco I de’ Medici la sua enciclopedica collezione di
Canti carnascialeschi, festa “della quale tutto il popolo ha
preso piacere e contento”, spettacolo per tutti, anche per “le
fanciulle in casa”, che vi assistono “facendosi [affacciandosi]
a una gelosia o una impannata” e che “senza essere vedute
da persona vedono e odono il tutto”. Un musical insomma,
del quale “si leggono le parole da ogni gente, e la notte si
cantano per ogni luogo”, un prodotto culturale che si esporta dappertutto, manco portasse il marchio Hollywood: “Si
mandano non solo in tutto Firenze e in tutte le città d’Italia;
ma nella Magna, in Spagna e in Francia, a parenti e agli amici” (Tutti i trionfi, carri, mascherate o canti carnascialeschi andati per Firenze dal tempo del Magnifico Lorenzo de› Medici è
[...] per infino a questo anno presente 1559).
Succedeva qualcosa di ancora più strano. Lo spettacolo
divenne interattivo. Nei secoli della coabitazione con la peste, dei Sabba attribuiti alle streghe, l’Europa intera si ritrovò a ballare davvero, non solo in effigie, in una lunghissima e
continua notte della Taranta. Era anche quella a quanto pare
una vera e propria epidemia. Colpiva all’improvviso. Era
contagiosa. Apparentemente senza alcun motivo, all’improvviso si mettevano a ballare, con o senza musica, e non riusci248
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vano a fermarsi, continuavano sino all’esaurimento fisico, a
volte addirittura fino a morirne. A volte colpiva contemporaneamente interi villaggi, migliaia di persone che si muovevano tutte insieme a un ritmo indiavolato. Come in un mega
concerto rock. Paracelso aveva dato alla malattia un termine
medico: coreomania. Resta a tutt’oggi misteriosa. Si sono immaginate diverse possibili cause: che si trattasse di psicosi
collettiva, di avvelenamento da ergotismo prodotto da funghi tossici nei cereali mal conservati, o da qualche altro microorganismo che provoca stati allucinatori e reazioni psicomotorie, che si trattasse di una reazione nervosa. Secondo
altri sarebbe una malattia immaginaria, esattamente come
immaginarie sono le streghe che ballano con il demonio e
cavalcano scope, immaginari gli untori che diffondono la peste o gli ebrei che a Pasqua dissanguano bambini cristiani
per condire le azzime. Ma si sa che le immaginazioni possono avere conseguenze terribili, tutt’altro che immaginarie.
L’avevano chiamata ballo di San Vito o l’avevano attribuita al
morso di un ragno velenoso, la tarantola. Si rimediava con gli
esorcismi, come per gli indemoniati. Se ne hanno innumerevoli segnalazioni, in tutta Europa. Fu diagnosticata in Puglia
come “tarantismo” da quel geniale e colto ciarlatano gesuita
che si chiamava Athanasius Kircher, in Scozia la chiamarono
Leaping Ague, la malattia che fa saltare.
Se ne ha testimonianza figurativa in molte illustrazioni e
dipinti, compresi i disegni di Bruegel. Perché mai si dovrebbe escludere che si tratti della stessa sindrome che affligge gli
scheletri che nelle Danses macabres ballano, con movimenti
frenetici e convulsi con le loro controparti ancora viventi ma
destinate a lasciare questo mondo?
Una favola raccolta dai fratelli Grimm, Il pifferaio di Hamelin, riunisce musica, danza irrefrenabile e topi. Dietro
promessa di compenso, il Pifferaio libera la ricca e troppo
prospera città dai topi (o ratti) che la stanno distruggendo, li
attira con la sua musica e li costringe a gettarsi in mare.
Quando gli negano il compenso, si vendica portando via i
bambini, che lo seguono danzando freneticamente, incapaci
di resistere e fermarsi. Un esperto di Dracula, Radu Flore249
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scu, ha enunciato in uno dei suoi numerosi libri le molte affinità tra le leggende e le favole attorno al Principe valacco
Vlad l’Impalatore, alias Dracula, e la leggenda dei bambini
rapiti dalla musica del pifferaio.
Uno dei più grandi pittori del Cinquecento, Hans Holbein, prima di trasferirsi e fare fortuna in Inghilterra alla corte di Enrico VIII, si era fatto conoscere nella sua Basilea con
una serie di incisioni in cui gli scheletri danzano con rappresentanti di ogni categoria sociale, dal papa e dall’imperatore
in giù, e di ogni professione. Sono pieni di ironia. Non terrorizzano, incuriosiscono, divertono. Si vendevano bene, andavano a ruba. Fanno venire in mente gli spassosi scheletri
animati da Walt Disney, che non hanno fatto venire gli incubi a nessuno, neanche ai bambini più paurosi (mi aveva fatto
molta più impressione la morte della mamma di Bambi). Ballavano i contadini, come nei dipinti di Bruegel. E anche i ricchi e i signori ballavano. Ballando nelle stalle e ballando con
le stelle. Nel 1521 i patrizi di Norimberga avevano collegato
le danze al proprio potere politico. Come a Monaco, il Palazzo del Comune aveva una sua sala da ballo, e un’ordinanza
stabiliva che il diritto di voto spettava solo “alle famiglie che
danzavano qui nei vecchi tempi e vi danzano tuttora”.
La fascinazione per la danza, che aveva segnato i secoli
della peste, stranamente torna nell’Ottocento, il secolo del
colera e di tutte le altre malattie contagiose che gli si affollavano attorno. A metà Ottocento “non c’era un londinese che
stesse del tutto bene in salute”, è come la mette Peter
Ackroyd nella sua biografia di Dickens. Nel 1847 un quarto
della popolazione di Londra (allora mezzo milione di abitanti) era stata colpita da una febbre tifoidea. L’anno dopo cinquantamila londinesi morirono per l’influenza, sessantaduemila di colera. Poi c’erano la scarlattina, il vaiolo, la sifilide e
la più micidiale e al tempo stesso romantica delle malattie
del secolo, la tubercolosi, la “peste bianca”.
Curioso, al susseguirsi e affastellarsi delle epidemie faceva riscontro un vero e proprio boom di nuove danze veloci e
scatenate: walzer, polka, mazurka, tarantella. È in quegli anni che viene pubblicato e tradotto, e diventa un best-seller,
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Morte nera e mania della danza di Justus Friedrich Karl
Hecker, vera e propria enciclopedia di casi clinici ed episodi
di cronaca sull’argomento. In appendice ha un capitolo sul
tarantismo nell’Italia meridionale. Tra le osservazioni, una
che segnala “la generale convinzione” che “il veleno della tarantola si distribuisse in tutto il corpo, e fosse espulso attraverso la pelle, ma che, se ne rimaneva il più piccolo vestigio
nei vasi sanguigni, questo diventasse un germe permanente
del disturbo, di modo che le crisi danzanti venivano scatenate nuovamente ed eccitate all’infinito dalla musica”. Come si
trattasse di un retrovirus, insomma.
La situazione della classe operaia in Inghilterra di Friedrich Engels (In base a osservazioni dirette e fonti autentiche,
recita il sottotitolo) descrive, per le grandi città, situazioni
abitative, igieniche e alimentari tali che meraviglia che non
sia andata anche peggio. Tra le sue fonti un dettagliato rapporto del dottor James Kay, membro della Commissione ufficiale incaricata di indagare sulla terribile epidemia di colera
del 1832 a Manchester. “All’avvicinarsi dell’epidemia,
un’ondata di terrore pervase la borghesia della città; improvvisamente la gente si ricordò delle insalubri dimore dei poveri, e rabbrividì nella certezza che ognuno di quei miseri quartieri sarebbe divenuto un focolaio di infezione, dal quale il
morbo si sarebbe diffuso rovinosamente in tutte le direzioni
verso le case della classe abbiente. Venne nominata all’istante una commissione d’igiene […].” Ma passato il pericolo, a
quanto pare si ridimenticarono del problema. Nessuno era
immune, nemmeno i Royals. La regina Vittoria, che avrebbe
dato il suo nome al secolo, rimase vedova nel 1861, quando il
principe consorte Alberto morì di tifo. I romanzi di Charles
Dickens sono pieni di miseria e di malattie contagiose. E anche di danze e balli di società. Verso la fine di La piccola Dorrit, Mr. Merdle, un personaggio che fino a quel momento
sembra a tutti baciato dalla fortuna, ha fama di “uomo illustre e onore della nazione”, si ritrova in un salotto della Londra bene e chiede in prestito un temperino. Prende congedo.
“Scendendo in strada sembrava saltellare, danzare il walzer,
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e volteggiare, come se fosse posseduto da molti demoni.” Va
a casa, e si taglia la gola.
Sarà solo coincidenza che Suspiria di Dario Argento sia
ambientato in una scuola di danza?
Al buio, al cinema
Il macabro, il truculento, l’orrido fanno venire brividi.
Ma non sempre solo di paura, anche di piacere. Sono entertaining, sono una forma di spettacolo. Le tricoteuses si mettevano, col loro lavoro a maglia, in prima fila davanti alla ghigliottina come se andassero a teatro. Le esecuzioni pubbliche
non avevano solo una funzione di intimidazione, non intendevano solo terrorizzare il pubblico, ma anche a soddisfare
la voglia di spettacolo. C’è probabilmente un filo rosso che
unisce la tragedia greca e il teatro della crudeltà teorizzato da
Artaud. Il teatro del Grand Guignol, che aprì i battenti in
una cappella sconsacrata di rue Chaptal, nel quartiere dove i
borghesi parigini mantenevano le loro cocotte, aveva dato
inizio a un genere sterminato di horror sanguinolento e sadico, ma finto, pura messa in scena ed effetti speciali, che
avrebbe avuto uno strepitoso successo fino ai giorni nostri e
a Quentin Tarantino. Era il 1897, in piena Belle époque, nello
stesso anno in cui apparve il Dracula di Bram Stoker. Il pubblico non cessò di appassionarsi nemmeno quando l’orrore
si presentò davvero, prima nelle trincee della Grande guerra,
poi, più in sordina e in modo molto più subdolo, con la grande epidemia si spagnola.
Prima ancora del Grand Guignol a Parigi faceva furore il
Cabaret du Néant (il cabaret del Nulla) aperto a partire dal
1892, al 34 di boulevard de Clichy, giusto sotto Montmartre.
Il locale accoglieva i clienti in un’atmosfera da catacomba,
tra pareti decorate con scheletri e tavoli forma di bara. A
proposito di scheletri, cripte, danses macabres, siete mai stati
alla catacomba di San Gaudioso nel sottosuolo di tufo del
Rione Sanità a Napoli? Tra le particolarità, un’invenzione
seicentesca: i crani, privati della parte anteriore tranciata di
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netto, incastrati nelle pareti di tufo, faccia in avanti, per modo di dire. La restante parte del corpo, o per meglio dire dello scheletro, è dipinta sul muro, dal cranio vuoto in giù. Le
signore hanno il privilegio di vedere la parte inferiore del
proprio scheletro pudicamente coperta da una gonna lunga
fino ai piedi. Alcune delle effigi sono accompagnate da elementi didascalici indicanti lo status sociale del defunto ischeletrito. Non fanno paura, semmai fanno sorridere, anzi ridere. Come forse succedeva – qualcuno mi contraddirà – per le
danze macabre post medievali. Altra bizzarria del luogo, anch’essa secentesca, cioè di un secolo di peste, una serie di
nicchie nel muro, definiti seditoi, o detti anche cantarelle o
scolatoi. I ragazzi della Cooperativa La Paranza (inventata
nel 2006 dal parroco don Antonio Loffredo per sottrarli alla
droga e alla camorra), che accompagnano i visitatori, spiegano che servivano a far essiccare i morti. I cadaveri si gonfiavano per la decomposizione, quindi venivano punti e fatti
scoppiare, per far scolare i liquami. Schiatt’o’muorto, in napoletano “becchino” verrebbe appunto da far scoppiare,
spremere il morto. Poe o Lovecraft ne avrebbero tratto un
racconto.
“I’ faccio ‘o schiattamuorto ‘e professione,
modestamente sono conosciuto
pe tutt› ‘e ccase ‘e dinto a stu rione,
pecchè quann›io maneo nu tavuto,
songo nu specialista ‘e qualità .
I’ tengo mode, garbo e gentilezza.
‘O muorto mmano a me pò stà sicuro,
ca nun ave nu sgarbo, na schifezza.
lo ‘o tratto come fosse nu criaturo
che dice a ‘o pate: “Me voglio jì a cuccà’”
Totò, da ‘A livella
È al cinema che si intrecciano più compiutamente e raggiungono un più vasto pubblico gli orrori della malattia e del
contagio, con i mostri creati dall’immaginazione. Hollywood
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sforna una profusione di pellicole in cui la minaccia biologica assume le forme più svariate, dall’Invasione degli ultracorpi di Don Siegel ad Alien, passando per tutti i mostri, i vampiri, i lupi mannari e invasori da altri mondi immaginabili.
Solo a elencare i titoli dei film horror, i loro autori, le opere
letterarie da cui sono tratti o ispirati, senza contare gli innumerevoli remake e i sequel e prequel ci vorrebbero diversi volumi. Ci sarebbe da perdersi, come tra i santi e gli angioletti
della pittura barocca o gli sceheltri danzanti delle danze macabre. Uno che certamente di horror spettacolo se ne intende, Stephen King, vi ha dedicato a fine anni settanta un volume di 500 pagine, intitolato appunto Danse macabre. È una
rassegna quasi esaustiva dell’horror americano dagli anni
cinquanta in poi. Offre anche una sorta di classifica e molte
osservazioni sul rapporto tra le opere menzionate e la loro
epoca, le successive generazioni a cui erano dirette. Altrettanto si potrebbe fare per i mostri inventati dal cinema o dalla fantascienza giapponese (ricordate Godzilla?), o russa, o
cinese. Hanno tutti a che fare con la paura. Spesso con la
paura del momento, cioè con la politica, e nella fattispecie
con la politica internazionale. Per esorcizzare la paura niente
è più efficace che renderla spettacolare. Qualcuno ha anche
a che fare con la scienza. O con la paura della scienza, o i
conflitti tra potere e scienza. Una grande fioritura di film di
fantascienza connessi all’argomento virus, contagi ed epidemie c’è stata negli anni in cui infuriava l’Aids, e in quelli successivi.
Ognuna di queste opere di immaginazione è legato ad
una minaccia specifica, reale, datata. Outbreak (titolo italiano Virus letale), con Dustin Hoffman in tuta scafandro arancione e casco con visiera che anticipa quelli anti-covid, è del
1995, quindi post Ebola. Contagion di Steven Soderbergh è
del 2011, quindi post SARS. Ogni volta che l’America si accorge, con orrore, di non essere immune dai mali del resto
del mondo, si rende conto che il suo splendido “eccezionalismo” non basta a proteggerla, inventa nuovi orrori di fiction
in cui affogare l’ansia e la paura.
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Ma Andromeda strain è del 1971, quindi di prima
dell’Aids, e il libro di Michael Crichton da cui il film è tratto
era del 1969. Viene a ridosso di una grande successo scientifico: l’allunaggio dell’Apollo 11. Ma precorre i tempi immaginando quel che sarebbe potuto succedere se gli atsronauti
avessero riportato con sé una minaccia invisibile e sconosciuta. Sia nel romanzo che nel film il gigantesco laboratorio
militare segreto dal quale il contagio è scappato somiglia al
Building 37 del Johnson Space Center che ospitava il Lunar
Receiving Laboratory, il centro per la quarantena di astorinauti e materiali lunari. Andromeda racconta della rapidissima invasione della terra da parte di un organismo letale per
gli esseri umani, specificamente per gli esseri umani e la paricolare acidità che conente alle loro cellule di vivere. Ad essere precisi non è neanche un organismo, non è certo si tratti di
qualcosa di vivente, non è un batterio, non è neanche un virus, non ha DNA, non è neanche un prione, non è fatto di
proteine, somiglia semmai vagamente ai cristalli. Eppure si
diffonde a velocità spaventosa, uccide all’istante, A chiunque ne venga a contatto gli si solidifica il sangue. Tranne a un
vecchio alcolizzato e un bambino malato. Saranno questi immuni contro ogni aspettativa a fornire agli scienziati la soluzione.
Ha radici profonde anche quest’idea, che i più deboli, i
più disprezzati possano essere in realtà i più forti, i più indispensabili. More than human, Più che umano, si intitola un
bellissimo racconto di Theodore Sturgeon, che risale al 1953,
in cui i dotati di superpoteri, i veri superuomini sono esseri
umani che altri chiamerebbero handicappati, esseri che i nazisti avrebbero eliminato. Da almeno un paio di secoli, forse
da sempre, convivono, talvolta scorrono una accanto all’altra
senza incontrarsi, talvolta si scontrano con violenza, altre
volte ancora si mischiano due correnti: quella che privilegia i
più forti e quella che difende i più deboli. Sarei tentato di
chiamarle destra e sinistra, ma mi rendo conto che si tratta di
una definizione imprecisa, insoddisfacente. Credo che le due
correnti, i due modi di pensarla, siano venuti fuori anche sul
covid. La prima corrente è l’idea che il nuovo coronavirus
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colpirebbe solo, o soprattutto, gli anziani e chi ha già altri
guai sanitari, per cui non varrebbe la pena di bloccare tutto
per salvare chi comunque prima o poi dovrà defungere.
Qualcuno ha fatto anche dei calcoli: ogni vita salvata costerebbe oltre mezzo milione di dollari, e chiede nei blog: sareste disposti a pagarlo con le vostre tasse? Qualcuno pensa
che una moria di anziani non sia poi così male: si risparmia
sulle pensioni. La corrente opposta è che vanno salvate le vite di tutti, anche dei più deboli, anche degli anziani. Credo
che per ora abbia prevalso quest’ultima corrente. È una delle
ragioni per cui sostengo – in fondo alla nota che lo conclude,
se mai il lettore avrà la pazienza di arrivarci – che il libro che
avete in mano avrebbe potuto anche intitolarsi: “Poteva andare peggio”. Spero di non sbagliarmi.
Un filone apparentemente in calo è il cyberpunk, l’uomo
macchina, anzi l’uomo computer, o mezzo carne mezzo elettronica e high tech. Neuromante di William Gibson è del
1984, guarda caso l’anno che Orwell aveva immaginato per
ambientare la sua distopia della dittatura totale. Ci fu subito,
tra i maîtres à penser chi gridò all’ “ordine cibernetico
neo-capitalista che punta […] al controllo totale”. Inesauribile appare invece il filone degli zombies, dei morti viventi,
stretti parenti dei vampiri, che contagiano i vivi, li trasformano in modo da riprodurre copie di sé stessi, esattamente come fanno i virus. L’antichissima paura del revenant riprende
il sopravvento sulla paura delle intelligenze artificiali che potrebbero assumere il controllo. La primogenitura del genere
zombie, se non il titolo di capolavoro indiscusso spetta a La
notte dei morti viventi di George Romero. È del 1968, anno
in cui l’America, e la mia generazione, avevano ben altro in
testa.
Il dopo 9/11 aveva visto il successo (oltre un milione e
mezzo di copie) di The Zombie Survival Guide di Max Brooks, nipote dell’attore Mel Brooks, giornalista. Era una parodia delle ansie, delle paranoie e delle ossessioni survivalist. In
una divertente successione di capitoli si presenta come un
manuale sull’ecologia, i modi per evitare gli zombi (gli undead, i non morti) e le armi per difendersi da loro. Tra i con256
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sigli fondamentali: evitare gli assembramenti, monitorare la
fauna selvatica, non disturbare troppo la natura. Cataloga
zombi di ogni g enere. Tra le sue invenzioni anche il virus
Solanum: è una creatura che non muore mai (e non è neppure vivente), non abbisogna di ossigeno, né acqua, né cibo, ci
mette anni a decomporsi, corre da un continente all’altro,
attraversa anche gli oceani. La sua ragione di esistere è divorare i viventi, né mai ne è sazia. Se lo si becca si muore nel
giro di ventiquattr›ore, ti si liquefa il cervello. Tutti gli esseri
viventi, microbi compresi, cercano di evitarlo. Ne è stata
tratta anche una graphic novel, ce n’è una app scaricabile su
iphone. Si tratta di un virus antichissimo. Se ne parla, viene
segnalato da sessantamila anni. “Immergendoci negli orrori
del passato possiamo forse ancora vincerlo quando si ripresenterà ai nostri tempi,” ci viene spiegato.
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8.
Tutte le paure del mondo
iL sogno di rasKoLniKov
“Egli rimase all’ospedale tutta la fine della Quaresima e
la Settimana santa. Già convalescente, rammentò i suoi sogni
di quando giaceva a letto con la febbre e il delirio. Aveva fantasticato durante la malattia che tutto il mondo era condannato a essere vittima di una tremenda, inaudita e mai vista
pestilenza che dal fondo dell’Asia avanzava vero l’Europa.
Tutti dovevano perire, tranne alcuni, pochissimi eletti. Erano comparse certe nuove trochine, esseri microscopici che si
annidavano nel corpo degli uomini. Ma quegli esseri erano
spiriti, dotati di intelligenza e di volere. Gli uomini che li
avevano accolti dentro di sé diventavano subito indemoniati
e pazzi. Mai, mai però degli uomini si erano stimati così intelligenti e incrollabili nella verità come si stimavano quegli
appestati. Mai avevano stimato più incrollabili le loro sentenze, le loro deduzioni scientifiche, le loro convinzioni e fedi morali. Interi villaggi, intere città e popolazioni s›infettavano e facevano pazzie. Tutti erano affannati e non si
capivano l’un l’altro, ognuno pensava che in lui solo fosse
racchiusa la verità, e si crucciava guardando gli altri, battendosi il petto, piangeva e si torceva le mani. Non sapevano chi
giudicare e come, non potevano accordarsi su ciò che fosse
da considerarsi come male o come bene. Non sapevano chi
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accusare e chi assolvere. Gli uomini si uccidevano a vicenda
in una specie di rancore insensato. Si apprestavano ad andare gli uni contro gli altri con intere armate. Ma le armate ormai in marcia, cominciavano d’un tratto a dilaniarsi per contro loro, le file si scompaginavano, i combattenti si
scagliavano l’un contro l’altro, s’infilzavano e si sgozzavano,
si mordevano e mangiavano a vicenda. Nelle città l’intera
giornata si suonava a martello: si chiamavano tutti a raccolta,
ma chi e per cosa chiamasse nessuno sapeva e tutti erano in
allarme. Avevano abbandonato i più usuali mestieri, perché
ognuno proponeva le sue idee, le sue correzioni e non potevano mettersi d’accordo. Qua e là gli uomini si assembravano a mucchi, convenivano insieme su qualche cosa… ma subito dopo imprendevano cose diverse da quelle che loro
medesimi si erano dianzi proposte, si mettevano ad accusarsi
a vicenda, rissavano e si scannavano… Cominciarono gli incendi, cominciò la fame… il contagio cresceva e avanzava…”
Dostoevskij, Dal capitolo finale di Delitto e Castigo
[1866].
un censiMento a coLori
“Yes, the dead fall upon the living […]
The meat-blood colors and massed bodies, this is a census-taking of awful ways to die.”
“Sì, i morti si gettano addosso ai vivi […]. I colori carne-sangue e i corpi ammassati, questo è un censimento di
tutti i modi atroci di morire.”
Don Delillo, Underworld, a proposito del Trionfo della
morte di Bruegel.
TITOLO
L’emozione più antica del mondo
La paura di quel che non si conosce
La più antica e più forte emozione dell’umanità è la pau259
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ra, e il tipo più antico e più forte di paura è la paura di ciò
che non si conosce.
H.P. Lovecraft, Supernatural Horror in Literature
Perché non si crede ai fLageLLi
“I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede
difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel
mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre;
e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre
impreparati. Il dottor Rieux era impreparato, come lo erano i nostri concittadini, e in tal modo vanno intese le sue
esitazioni. In tal modo va inteso anche com›egli sia stato
diviso tra l›inquietudine e la speranza. Quando scoppia
una guerra, la gente dice: «Non durerà, è cosa troppo stupida». E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare. La stupidaggine insiste sempre, ce se n›accorgerebbe se non si
pensasse sempre a se stessi. I nostri concittadini, al riguardo, erano come tutti quanti, pensavano a se stessi. In altre
parole, erano degli umanisti: non credevano ai flagelli. Il
flagello non è commisurato all›uomo, ci si dice quindi che
il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non
sempre passa, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli
uomini che passano, e gli umanisti, in primo luogo, in
quanto non hanno preso le loro precauzioni. I nostri concittadini non erano più colpevoli d›altri, dimenticavano di
essere modesti, ecco tutto, e pensavano che tutto era ancora possibile per loro, il che supponeva impossibili i flagelli.
Continuavano a concludere affari e a preparare viaggi,
avevano delle opinioni. Come avrebbero pensato alla peste, che sopprime il futuro, i mutamenti di luogo e le discussioni? Essi si credevano liberi, e nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno i flagelli.”
Camus, La peste
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un coraggio Più abbietto deLLa Paura
“Havvi, cosa strana a dirsi, un disprezzo della morte e un
coraggio più abbietto e più disprezzabile che la paura: ed è
quello de’ negozianti ed altri uomini dediti a far danari, che
spessissime volte, per guadagni anche minimi, e per sordidi
risparmi, ostinatamente ricusano cautele e provvidenze necessarie alla loro conservazione, e si mettono a pericoli estremi, dove non di rado, eroi vili, periscono con morte vituperata. Di quest’obbrobrioso coraggio si sono veduti esempi
insigni, non senza seguirne danni e stragi de’ popoli innocenti, nell’occasione della peste, chiamata più volentieri cholera morbus, che ha flagellata la specie umana in questi ultimi
anni.”
Leopardi, Pensieri, VII
una Paura abbietta e basta
“Quando si ha a che fare con un pericolo come il colera,
è evidente che gli Stati Uniti starebbero meglio se si negasse
rifugio agli Ebrei russi e ungheresi. Già ci offende – ed è dir
poco – la presenza di questa gente; me nelle attuali circostanze sono una vera minaccia alla salute di questo Paese. Anche
dovessero superare l’esame da parte dei funzionari della
quarantena, il loro modo di vita li rende una fonte di pericolo anche quando si sistemano. Il colera, bisogna ricordarlo,
nasce nelle case di questa marmaglia (riffraff)”
Dall’articolo di apertura del “New York Times”, 29 agosto 1892)
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Un febbricitante fa un sogno. Sogna la pandemia, una
pestilenza che viene dall’Oriente, dal “fondo dell’Asia”,
chissà, forse dalla Cina. “Aveva fantasticato durante la malattia che tutto il mondo era condannato a essere vittima di una
tremenda, inaudita e mai vista pestilenza che dal fondo
dell’Asia avanzava vero l’Europa”. Sogna che la pandemia
sia prodotta da “esseri microscopici che si annidavano nel
corpo degli uomini”. Non può sapere cosa siano i virus, il
suo è un sogno di due secoli fa. Ma riesce a immaginare che
queste “trochine”, questi esseri microscopici abbiano addirittura una loro “intelligenza”, una loro “volontà”. Non fanno star male, non uccidono, ma fanno impazzire la gente,
mettono tutti contro tutti. Dostoevskij non poteva avere idea
di cosa fossero i virus. Ma anticipa di oltre un secolo la fantascienza fine Novecento di Virus Clans di Michael Kanaly.
Non sappiamo da cosa dipenda la febbre di Raskolnikov,
il protagonista di Delitto e Castigo di Fëdor Dostoevskij.
Non abbiamo una diagnosi della sua malattia. Non sappiamo se la febbre abbia a che fare con le epidemie dell’Ottocento. Non sappiamo se sia il delirio a produrre la sua febbre
o la febbre a produrre il delirio di cui è preda per tutto il romanzo. “Febbre cerebrale”, “frenesia”, viene chiamata in
molti romanzi dell’Ottocento. Potrebbe essere tifo, una malattia trasmessa dai pidocchi (ma allora ancora non si sapeva), diffusa nella Russia di Dostoevskij. Può produrre uno
stato di delirio violento, col paziente che si alza e smania.
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Non per niente “tifosi” è passato nel linguaggio quotidiano a
indicare un’agitazione violenta, fanatismo sconfinato, in genere in campo sportivo. Ma la pestilenza sognata da Raskolnikov è molto più di questo. È fanatismo universale, un fanatismo che porta gli uomini alle guerre e agli stermini. Al
tempo stesso va anche oltre le guerre e i conflitti tra gruppi e
schieramenti diversi, affronta il tema del conflitto all’interno
di ciascun gruppo e comunità, o anche dentro ciascun individuo, ognuno di noi. Ma va oltre anche il “A plague on both
your houses!”, il peste colga entrambe le vostre famiglie (o
partiti) di Shakespeare. Spalanca visioni sugli abissi dello
“sdoppiamento” interiore. Volendo tirarla, si potrebbe addirittura vedervi una metafora della caotica battaglia tra agenti
patogeni e anticorpi, tra virus buoni e virus cattivi di cui tratteremo nel capitolo successivo. Anche la cosa è complicata: a
volte a ucciderci non sono i germi ma l’eccesso di reazione
immunitaria. Dostoevskij ci prospetta un mondo in cui si è
persa la distinzione tra bene e male. Ma non è solo follia o
delirio individuale, è pazzia collettiva.
Il passo è travolgente. Rileggiamolo. Ci dirà ogni volta
qualcosa di più di quel che avevamo colto nella lettura precedente:
Mai, mai però degli uomini si erano stimati così intelligenti e incrollabili nella verità come si stimavano quegli appestati. Mai avevano
stimato più incrollabili le loro sentenze, le loro deduzioni scientifiche, le loro convinzioni e fedi morali. Interi villaggi, intere città e
popolazioni s›infettavano e facevano pazzie. Tutti erano affannati e
non si capivano l’un l’altro, ognuno pensava che in lui solo fosse racchiusa la verità, e si crucciava guardando gli altri, battendosi il petto,
piangeva e si torceva le mani. Non sapevano chi giudicare e come,
non potevano accordarsi su ciò che fosse da considerarsi come male
o come bene. Non sapevano chi accusare e chi assolvere. Gli uomini
si uccidevano a vicenda in una specie di rancore insensato. Si apprestavano ad andare gli uni contro gli altri con intere armate. Ma le armate ormai in marcia, cominciavano d’un tratto a dilaniarsi per contro loro, le file si scompaginavano, i combattenti si scagliavano l’un
contro l’altro, s’infilzavano e si sgozzavano, si mordevano e mangiavano a vicenda. Nelle città l’intera giornata si suonava a martello: si
chiamavano tutti a raccolta, ma chi e per cosa chiamasse nessuno sapeva e tutti erano in allarme.
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Ci sono autori capaci di dire tutto. Di concentrare il
mondo, l’universo, e anche il modo in cui gli uomini pensano o soffrono l’universo. Talvolta riescono a farlo anche in
poche righe. Uno di questi è Dostoevskij. Un altro è Kafka.
Così come ci sono pittori capaci di raccontare il mondo, il
mondo nel senso del tutto, tutto quel che si vede e quel che
non si vede, il loro tempo, il passato e anche il futuro, il quotidiano e insieme i sogni e gli incubi dell’umanità. Uno di
questi è Bosch. Un altro è Bruegel.
C’è tutto nel Giardino delle delizie di Bosch (così come
anche negli altri suoi dipinti, e in quelli che vengono attribuiti alla sua scuola). Ci sono sogni ed incubi, speranze e disperazione, amore e violenza, mostri e mostricciattoli, metamorfosi, mitosi e citodieresi, malattie, torture e contagi, ci sono
cellule sane o cancerose, germi, batteri, virus, fagociti e provette. Si potrebbero passare giornate intere al Prado, o
all’Accademia di Venezia o al Kunsthistorisches di Vienna, a
scoprire meraviglie fantastiche, come al microscopio elettronico. Guardate meglio e vedrete anche il coronavirus. Lo
stesso nei dipinti del suo allievo Bruegel. La caduta degli angeli ribelli sembra una lotta tra macrofagi.di un sistema immunitario e microbi nocivi. I suoi Proverbi olandesi, il Carnevale e Quaresima, e persino l’apparentemente innocente
rassegna di Giochi di bambini sono racconti che possono
avere su chi guarda un effetto simile a quello che hanno i
racconti di Kafka su chi legge. Dulle Griet, Greta la matta, è
un trattato sulla follia. Il trionfo della morte potrebbe essere
un’illustrazione del sogno di Raskolnikov che abbiamo appena letto e riletto, anzi di tutto Delitto e castigo. Le torme
inesauribili di scheletri che sembrano uscire dalla porta
dell’Inferno, e si accompagnano ciascuno, nelle forme e nelle
circostanze più disparate, a un vivente, come nelle danze macabre medievali, non sono solo” un censimento di tutti i modi atroci di morire”. E nemmeno solo una denuncia delle
atrocità delle guerre di religione nelle Fiandre, che erano l’esperienza, la memoria e il vissuto immediati sia di Bosch che
Bruegel. Sono anche lo sdoppiamento, la confusione, il caos
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che c’è in ciascuno di noi, tra bene e male, tra quello che speriamo e quello che ci aspetta.
Io ci vedo anche la grande battaglia tra virus maligni e
anticorpi che si svolge ad ogni istante all’interno del nostro
corpo. Non era certo l’intenzione dell’artista, che non poteva averne la minima idea. Ma sono convinto che sia lecito.
Un “classico”, un grande libro, un grande dipinto si rivolgono a chi lo sta leggendo o lo sta guardando, nel momento in
cui questi lo sta leggendo e lo sta guardando, non nel momento in cui l’autore l’ha scritto o il pittore l’ha dipinto. Comunque non mancano la malattia e le pestilenze nel grande
“censimento” o catalogo che dir si voglia dei modi di morire
dipinto da Bruegel. C’è, in primo piano, la scena terrificante
di un cane affamato, magrissimo, che si avvicina, si può immaginare con quali intenzioni, al volto di un infante tra le
braccia della madre morta, c’è, sempre in primo piano,
un’ammalata sorretta da una figura che potrebbe essere la
malattia stessa, ci sono il morto avvolto in un sudario bianco,
con una strana bara con le ruote, che passa su un altro cadavere anch’esso in sudario bianco, come si trattasse di un incidente automobilistico… Interpretazione inverosimile? Certo. Ma mi serve per dire che ci si può aspettare di tutto dall’
humour a cui Bruegel non rinuncia mai, neanche quando
narra e dipinge il macabro.
Il contagio del terrore Il terrore viene sempre dal fondo
dell’Asia
Winston Churchill era un ragazzino, uno studente quindicenne, quando scrisse una poesia, a dire il vero un tantino
scolastica, contro “il vile, insaziabile flagello” che veniva
dall’Oriente. La poesia si intitolava “The Influenza”. Il flagello era l’epidemia di “influenza Russa” che dalla Cina e
dalle “squallide steppe della Siberia”, attraverso l’Alsazia e
la “desolata Lorena” minacciava “l’isola della Libertà”, la
sua Inghilterra. Ma non sarebbe riuscita, pensava Churchill,
ad attraversare la sottile linea, quell’esile braccio di mare, il
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“ruscello di brina” che difendeva l’isola. Il giovane Churchill
si sbagliava. Quell’ondata di influenza virale avrebbe colpito
con estrema violenza, facendo centinaia di migliaia di vittime, un Paese che non aveva conosciuto epidemie influenzali
rilevanti da quasi un quarto di secolo (il precedente, che un
quindicenne del 1890 non poteva certo ricordare era l’influenza, comunque assai più leggera, del 1847-48, anch’essa
proveniente da San Pietroburgo, e giunta a Londra via Costantinopoli, Alessandria d’Egitto e Nizza). Forse fu anche
questo errore di valutazione giovanile a ispirare al futuro Primo ministro britannico diffidenza, no una vera e propria fobia, verso tutto quello che veniva dalla Russia e dall’Oriente.
Era già ventiseienne invece Herbert George Wells, quando nel maggio del 1893 si stava avviando verso la stazione
della metropolitana di Charing Cross, trascinando una pesante borsa piena di campioni geologici. Avvertì la sensazione tanto temuta, di cui aveva letto tante volte, nei libri, sui
giornali. Aveva la bocca piena di sangue trasudato dai polmoni. Giunse a casa, dalla moglie, che il fazzoletto era già
zuppo, rosso di sangue. Da allora diventò invalido, Forse era
tisi. Forse le conseguenze della “russa”. Pochi anni dopo,
nel 1897, pubblicò La guerra dei mondi, in cui i nemici, quelli di cui si deve avere paura, sono stranieri che più stranieri di
così non si può: i marziani, gente che viene addirittura da un
altro mondo e vorrebbe migrare nel nostro. L’umanità si salva grazie ai germi del comune raffreddore che sterminano gli
altrimenti potentissimi marziani (l’anno in cui viene pubblicato La guerra dei mondi è per combinazione anche quello in
cui per la prima volta gli scienziati parlano di “virus”).
Il terrore viene sempre dal fondo dell’Asia. Tutti, ma proprio tutti, da Tucidide a Procopio, da Boccaccio a Chateubriand, a Dostoevskij, ai nostri contemporanei, danno per
scontato che le pandemie arrivino dall’Oriente. Se non sono
i tartari è “il male di Costantinopoli”, se non è l’India è la
Cina. Il colera nell’Ottocento era sempre accompagnato da
un aggettivo geografico: lo chiamavano “colera asiatico”. La
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mia generazione ricorda che una brutta influenza degli anni
cinquanta veniva chiamata l’Asiatica.
L’Oriente è sporco, oscuro e misterioso, infido, crudele,
malato per antonomasia. L’impero ottomano è “the sickman
of Europe”. L’impero cinese è il malato del mondo. L’Oriente
puzza, diffonde miasmi pestilenziali.
Puzza delle viscere che si decompongono, e tormento infinito di mosche
Pensando alle brezze di maggio che spirano sulla campagna inglese,
Colera, scorbuto, e febbre, la ferita che non si risana.
Si studiano ancora in tutte le scuole britanniche questi
versi di Alfred Tennyson, fatto Lord dalla regina Vittoria. Le
soavi “brezze di maggio” della campagna inglese, e la puzza,
lo schifo, le malattie dell’India. Solo che, pressapoco negli
stessi anni,a Londra colera e altre febbri mietevano forse più
vittime che a Lucknow. L’allora capitale dell’impero e del
mondo industrializzato era periodicamente avvolta da fittissime nebbie cariche di polveri di carbone e altre sostanze inquinanti. Nell’inverno del 1879-80 si contarono migliaia di
morti attribuite pacificamente all’aria divenuta irrespirabile,
in aggiunta a quelle dovute al colera e alle polmoniti. L’episodio spinse William Delisle Hay, scienziato e autore di
“pulp fiction di fantasie sul futuro”, un romanzo che viene
considerato l’antesignano del genere “catastrofismo ecologico”. Pubblicato nel 1880, The Doom of the Great City; Being
the Narrative of a Survivor, Written A.D. 1942, prevede che a
metà Novecento l’intera popolazioe di Londra venga sterminata dallo smog velenoso nel giro di una sola notte. Quel che
non poteva immaginare è quanto ci si sia andati vicino.
Non importa che l’unico vero, immane sterminio batteriologico l’abbiano commesso gli europei a danno degli indigeni americani. Forse senza neanche accorgersene, come fecero i Conquistadores, o in modo deliberato, come quando
nel 1763, per domare la rivolta di Pontiac (capo degli indiani
alleati coi francesi), il comandante britannico accolse con en267
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tusiasmo la proposta di donare agli indiani coperte infette di
vaiolo. Non importa che la civiltà industriale le malattie e
l’inquinamento se la fabbrichi in casa e lo diffonda coi propri fiorenti commerci. Il contagio lo si vede venire sempre da
un’altra parte, l’orto del vicino è sempre più inquinato e contagioso del proprio. Minaccia e malattie provengono dal
cuore di tenebra dell’Asia, misteriosa, oscura, sporca, dispotica, crudele, malata, contagiosa. Oppure dal cuore di tenebra dell’Africa, dove, nell’oscurità delle foreste e nel verminaio degli slum stanno in agguato virus e malattie nuove e
terribili, ancora più terribili perché ancora sconosciute, nuove Aids ed Ebola, che magari non riusciamo ancora nemmeno ad immaginare. La paura in Occidente è sempre stata anche paura dell’Oriente, paura del diverso, paura dell’ignoto.
Sognare di sterminare i Cinesi Se la Cina fa paura, il rimedio è
sterminarli Un virus per sterminare i Cinesi Un brutto sogno:
sterminare i Cinesi
Almeno un volta ogni secolo, o giù di lì, la Cina viene a
turbare il sonno dell’Occidente. L’incubo è che la Cina li invada con torme di migranti che gli rubano il lavoro, con le
sue merci a basso costo, con le sue mafie crudeli, e con le sue
malattie, li contagi con le sue pesti, pesti e germi e virus letali. Non importa che lo facciano apposta o gli scappino di mano. L’idea è che il loro obiettivo sia dominare il mondo. Lovecraft è convinto che i cinesi inghiottiranno il mondo intero.
Agatha Christie immagina che il suo Poirot debba combattere un›organizzazione che riunisce le migliori menti criminali
del mondo. Il capo è cinese. Il nemico implacabile nei fumetti di Flash Gordon è l’Imperatore Ming. I cinesi sono la personificazione del dispotismo asiatico. La loro perfidia e crudeltà sono proverbiali. Hanno assunto, per restare solo agli
ultimi cent’anni e rotti, via via le fattezze di Fu Manciù, il
cattivissimo personaggio inventato da Sax Rohmer, dell’Orco Mao Tse-tung, dei nemici di James Bond a capo della
Spectre, magari di Xi Jinping…
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Un romanzo che contiene tutti questi elementi è The Yellow Danger, Il Pericolo Giallo, di Matthew Phipps Shiel,
pubblicato nel 1899. C’è il cinese geniale e diabolico, intento
a distruggere le potenze occidentali mettendo le une contro
le altre (c’è chi ritiene che abbia il profilo di Sun Yat Sen, il
padre della Cina repubblicana). C’è una guerra mondiale
all’orizzonte (“The Story of the World’s Greatest War” è il
sottotitolo”, inquietante se si tiene presente che il libro fu
scritto in piena bell’époque, quando ancora nessuno poteva
immaginare l’entità del Grande massacro di un ventennio
dopo). C’è una spaventosa invasione dell’Europa da parte di
orde di tibetani, mongoli e cinesi, i quali trucidano i nativi e
si insediano al loro posto. Solo 27 milioni di turchi, ungheresi e finlandesi vengono risparmiati, perché sono già mongoli.
Mentre l’inumana America rifiuta di accogliere i profughi
europei in fuga. E soprattutto c’è la pandemia, importata in
Europa dai cinesi con l’invasione, e poi restituita con gli interessi dall’eroe protagonista, il quale, dopo aver vinto una
battaglia navale nella Manica, fa ripescare 150 cinesi, per poi
inoculargli la peste e farli sbarcare, a coppie, nei porti continentali. Senza rendersene conto, Shiel aveva inventato la teoria complottistica della pandemia, le guerre mondiali, e, in
sostanza, pure il Brexit (L’Inghilterra si salva isolandosi
dall’Europa). Un tantino razzista Shiel, ma con una bella
fantasia. Il romanzo tradotto anche in italiano per cui è più
famoso è La nube purpurea, catastrofismo ecologico del primissimo Novecento.
Di meno di un decennio successivo a The Yellow Danger
è il racconto in cui Jack London immagina una soluzione ancora più radicale per far fronte al “Pericolo giallo”: sterminare tutti i Cinesi. Con un virus. Anzi, con una molteplicità
di virus, “coltivati nei laboratori batteriologici dell’Occidente”. Il racconto è intitolato The Unparalleled Invasion of China, L’invasione senza precedenti della Cina. “Colui che sfuggiva al vaiolo soccombeva alla febbre gialla. Chi non fosse
contagiato dal colera, cadeva preda della scarlattina. Chi resisteva a questa veniva falciato dalla ‘Morte nera’, cioè dalla
peste”. A trovare il modo di liberare il mondo dalla minaccia
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cinese è, guarda caso, il presidente Usa (tranquilli, si chiama
Moyer, è di pura fantasia). Il piano americano prevede l’isolamento totale della Cina ad opera degli eserciti e delle flotte
congiunte di Stati uniti, Giappone, Russia, Germania, Austria, Turchia e ovviamente Italia. E poi di bombardarli con
fialette dall’apparenza innocua. L’obiettivo dichiarato è fermare una Cina che si era risvegliata dal millenario torpore,
esportava e prosperava, non dipendeva più, né aveva bisogno di piegarsi a nessuno.
A dire il vero l’avevano già invasa davvero, non solo con
la fantasia, nel 1900, un paio di anni dopo il romanzo di Shiel
e pochi anni prima del racconto di London. Le maggiori potenze mondiali di allora, Inghilterra, Germania, Stati uniti,
Russia, Giappone, Italia e Austria (le stesse del G8, tranne
che l’impero austro-ungarico è stato ora rimpiazzato dal Canada), erano intervenute militarmente in Cina con la scusa di
difendere i propri concittadini dal terrorismo dei Boxer. Se
ne erano spartiti i porti (la nemesi è che ora è la Cina che
compra i porti europei). Si erano macchiati di atrocità più
efferate di quelle che dicevano di essere venuti a fermare.
In un altro racconto di London, del 1912, La peste scarlatta, il contagio si estende all’intero pianeta. Gli Stati uniti
tornano allo stato selvaggio. Dell’Europa non si hanno più
nemmeno notizie. A raccontare il tutto ai pronipoti è uno dei
pochissimi sopravvissuti. Lo scrittore immagina che la catastrofe abbia avuto luogo nel 2013 (suppergiù ai giorni nostri). Quando la Terra ha 8 miliardi di abitanti (pressappoco
la popolazione di oggi). Non si salvano nemmeno i più ricchi, che avevano fatto Presidente uno ricchissimo. Pagano
l’arroganza, la noncuranza per i più deboli e per l’ambiente.
Inutilmente cercavano di fuggire con i loro “aeromobili” privati verso rifugi paradisiaci. Il contagio, che non guarda in
faccia nessuno, se l’erano portato dietro, anzi li aveva preceduti. A parte il fatto che la peste è “scarlatta” e non “nera”,
non manca nessuno degli altri temi ricorrenti che hanno caratterizzato la narrazione delle pandemie, da Tucidide, a
Boccaccio, ai giorni nostri. E con le stesse identiche parole.
La “stupefacente rapidità del germe nel distruggere gli esseri
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umani e il fatto che una volta penetrato in un corpo umano
lo uccidesse senza scampo”, tale che “la morte sopraggiungeva entro un’ora dai primi sintomi”. I sintomi stessi: il cuore che “accelerava i battiti”, la febbre, “l’eruzione cutanea
scarlatta [che] si diffondeva in un battito sul viso e sul corpo”. L’elevata contagiosità, legata alla rapidità della decomposizione: “Tutti i miliardi di germi di un cadavere venivano
così liberati all’istante”. I cadaveri senza sepoltura, l’impotenza della medicina, malgrado l’abnegazione degli operatori sanitari: “come ne moriva uno, un altro si faceva avanti per
sostituirlo”, il vaccino che non si riesce a trovare, malgrado
fossero riusciti “a isolare per primi il germe a Londra”. E
ancora: il panico, la disperazione, le inutili furbizie ed egoismi, lo sgretolarsi di civiltà e convivenza. Ancora più rapidamente del virus, scrive London, si era diffusa la paura. Soprattutto la paura di non avere più notizie. Più di tutto,
quando cessarono anche le trasmissioni dei notiziari, tacquero i radio-telegrafi, “destava stupore, sgomento, la mancanza
di comunicazione con il resto del mondo”.
Porti chiusi agli italiani delinquenti e infetti
Il riferimento di London non era però il lontano futuro, e
nemmeno l’estremo Oriente, dove pure aveva fatto il reporter, ma quel che succedeva nella sua San Francisco, dove tutti ce l’avevano coi cinesi. Gli operai bianchi, specie quelli irlandesi, li odiavano perché i cinesi lavoravano di più, non
protestavano e accettavano di farsi pagare meno. Anche gli
irlandesi erano tutti quanti immigrati. Ma timorati di Dio.
Mentre i cinesi venivano schifati come sporchi, ladri, stupratori e assassini, senza religione né moralità. Non è bello a dirsi. Ma nei pogrom anti-cinesi si distinsero le donne, specie le
operaie. A fomentarli furono preti cattolici e militanti della
“sinistra”. “I cinesi se ne devono andare”, tuonava di comizio in comizio il sindacalista Denis Kearney. Incolpavano le
cinesi di diffondere la sifilide prostituendosi quasi gratis. Poi
iniziò la caccia all’untore. Diedero ai cinesi la colpa delle epi271
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demie di vaiolo. Esisteva già il vaccino, ma ai poveracci di
Chinatown non lo distribuivano. L’ultimo contagio, il peggiore, venne portato da un viaggiatore proveniente da Chicago. Fecero però una legge che bloccava tutti i nuovi arrivi via
mare dalla Cina. Un capolavoro di prevenzione epidemiologica: tenevano in ostaggio al largo i migranti cinesi, lasciando
però sbarcare e andare dove gli pareva i passeggeri bianchi.
Virus ed epidemie passano. L’idiozia a quanto pare no.
Gli Stati uniti, si sa, sono un Paese di migranti. Sono stati
gli immigrati a farne la fortuna. Malgrado questo, l’accoglienza si è mischiata a esplosioni di ostilità nei confronti dei
nuovi arrivati, in particolare gli ultimi arrivati. È la paura
delle epidemie a scatenare i primi altolà ai nuovi immigrati a
fine 1800. Monta un’agitazione perché l’America “chiuda le
porte” ai nuovi arrivati che “portano malattie” e “ci rubano i
posti di lavoro”. Chiudere le porte significa chiudere i porti.
Le nuove leggi sull’immigrazione proibiscono l’ingresso ai
pazzi, agli idioti, “alle persone che è probabile divengano un
peso sul pubblico”, e “a chi è sospetto essere portatore di
terribili malattie”. Le leggi sulla quarantena danno alle autorità portuali piena discrezione di respingere chi gli pare, e
anche di blocco totale degli sbarchi. I cinesi, gli italiani e gli
ebrei sono quelli più presi di mira.
Il Chinese Exclusion Act del 1892 sospendeva per dieci
anni l’ammissione di cinesi, a eccezione di studenti, insegnanti, e di “chi viene negli Stati Uniti per soddisfare la propria curiosità”, cioè dei turisti. Viene escluso che i cinesi, anche se arrivati legalmente, possano acquisire la cittadinanza.
I cinesi che non siano in grado di provare, “con l’aiuto di almeno un testimone credibile” di essere già residenti al momento del passaggio della legge andranno immediatamente
espulsi.
Quando nella primavera del 1891 arriva il vapore Iniziativa i giornali di New York riferiscono che è stato impedito
lo sbarco ad alcuni dei passeggeri italiani sospetti di essere
portatori di “ripugnanti malattie” (non viene specificato
quali). La settimana dopo il “New York Times” che gli italiani sospetti untori sono “scappati” mentre le autorità cerca272
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vano di riportarli a bordo. Dura settimane la caccia agli “evasi”, senza successo malgrado questo avessero fornito a Ellis
Island generalità e destinazione. Erano evidentemente fasulli, e questom secondo la campagna giornalistca, confermerebbe che erano delinquenti. La stampa si accanisce contro
gli italiani. Li definiscono “i reietti d’Europa”, dicono che si
tratta di gente“con mentalità criminale”. Il “San Francisco
Bulletin” invita i lettori a stare in guardia, segnalare alle autorità i clandestini, e in particolare gli “italiani malati” In
Texas il “Galveston Daily” titola: “Emigrati indesiderati: gli
Stati Uniti non sono una discarica per altri Paesi”. Il “Times
Picayune-New Orleans” dà la notizia che a diciannove italiani è stato impedito lo sbarco e sono stati affidati ai capitani
delle navi con cui erano arrivati perché vengano riportati indietro. Quattro – si precisa – avevano la tubercolosi, undici
una malattia della pelle dovuta a “scarsa pulizia”. Si riferisce
che il popolo di New Orleans chiede “si ponga fine all’immigrazione italiana”.
Gli ebrei che vengono dall’Europa orientale vengono anch’essi frequentemente definiti “portati alla criminalità”,
“sporchi, sozzi, una minaccia”. L’agitazione contro italiani
ed ebrei raggiunge il culmine quando giunge nel porto di
New York il Massilia un bastimento che aveva imbarcato a
Marsiglia 268 ebrei russi e poi a Napoli 470 emigranti italiani. Avevano fatto un esame medico, mi viene quasi da dire un
tampone, alla partenza. Passano la quarantena a Ellis Island.
Vengono trattenuti e rispediti solo quelli che si ritiene “saranno un peso sull’assistenza pubblica”. Quando, qualche
settimana dopo scoppia un’epidemia di tifo nel Lower East
Side a New York, si dà immediatamente la colpa , in pari
misura, agli italiani e agli immigrati ebrei dalla Russia sbarcati dal Massilia. Non c’entravano niente con l’epidemia. Semmai si erano ammalati a New York. Ma si scatena una campagna contro i nuovi arrivati e quelli che “li hanno lasciati
sbarcare”. I giornali sono inondati da lettere in cui si chiede
il blocco dell’immigrazione. “Non vogliamo e dovremmo rifiutare lo sbarco a tutti questi sporchi italiani o ebrei russi.
Ne abbiamo già abbastanza di sporcizia, miseria, crimine,
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malattie e morti. Non possiamo permettere che delle potenze straniere ce ne addossino ancora di più solo perché vorrebbero disfarsene e scaricarli su di noi”, dice una lettera
pubblicata dal New York Times nell’edizione del 21 febbraio
1892. Il giornale titola: “Porre restrizioni all’immigrazione:
non è forse ora che si mettano delle barriere?”. Sullo stesso
tema martella in continuazione anche con gli editoriali. Il
New York World dell’ex immigrato ungherese Joseph Pulitzer pubblica una vignetta che raffigura l’Europa come un gigantesco teschio da cui partono delle navi che si chiamano
“Tifo”, “Difterite”, “Febbre gialla”. Il senatore William
Chandler se la prende con il commissario per l’Immigrazione, accusandolo di non fare abbastanza per impedire che
sbarchino gli infetti. E propone il bando totale dell’immigrazione per un anno, allo scopo di tenere fuori gli indesiderabili, i portatori di tifo e colera, anarchici, nichilisti, poligami,
mafiosi, analfabeti, “ciechi e disabili” e “persone prive di
mezzi”. Ce l’ha in particolare coi “migranti degenerati (degraded) provenienti dall’Italia, dalla Turchia, dall’Ungheria,
dalla Polonia e dalla Russia”. Fischiano le orecchie?
Ma non sempre le paure vengono per nuocere
Il mondo è mosso dalla paura. Forse non esisteremmo
come specie umana se i nostri lontani antenati non avessero
avuto paure. O non avessero imparato a controllarle. Possediamo un armamentario infinito di rimedi, strategie, stratagemmi contro la paura. Abbiamo imparato a riderne, persino a divertirci con le paure. Ci hanno raccontato per secoli, e
continuano a deliziarci da bambini, favole di orchi, streghe,
mostri e altre cose da far paura. L’importante è che le paure
non si trasformino in panico, scomposto e paralizzante (ma
anche la paralisi può essere una strategia, usata da molti animali: il topo si finge morto per sfuggire alle grinfie del gatto).
Ci sono paure ataviche, paure nuove e paure nuovissime.
Talvolta ce ne scordiamo. Anche se non ammetteremmo mai
di essercene scordati. Succede alla paura della guerra, quan274
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do ci illudiamo che le guerre non ci tocchino, alla paura delle
epidemie, tra un’epidemia e l’altra, alla paura del disastro
ecologico, tra un’alluvione e l’altra. Talvolta le paure si fondono, talaltra una paura cancella o almeno fa recedere un’altra. È successo davanti ai nostri occhi, quando la paura
dell’immigrato clandestino, la paura del negher, si è sciolta,
quasi da un giorno all’altro, di fronte ad una paura più grossa, la paura del virus.
“La nostra epoca vive, di fatto, paure sopite, forme d’angoscia arginate e dimenticate. Si pensa alla bomba atomica e
poi la si dimentica. Lo stesso per la distruzione ecologica. Il
militante, il quale invece non dimentica, è talmente dedicato
alla sua lotta che non ha paura. Funzioniamo così. Siamo
condannati ad apprendere a vivere con l’incertezza […] Non
so se una grave crisi travolgerà il nostro mondo o se, al contrario, ne usciremo apprendendo che bisogna vivere con una
certa dose d’incertezza […] I capri espiatori non sono l’unico modo di sopportare l’insopportabile. Esistono anche la
convivialità, la solidarietà. I periodi di grande turbamento
generano generosità, dedizione, partecipazione alla collettività e, infine, l’amore. La riaffermazione di un legame è uno
dei grandi antidoti contro la paura: due esseri che si amano
non si dicono continuamente che moriranno, e nemmeno
che invecchieranno”. Così ragionava, a fine del secolo scorso, in un momento di ottimismo da nuovo millennio, Edgar
Morin. Trent’anni dopo, ormai quasi centenario, il sociologo
francese, figlio di ebrei sefarditi immigrati da Salonicco (si
chiamava Edgar Nahoum, aveva preso il nome di battaglia
Manin, poi deformato in Morin, nella resistenza francese) ha
pubblicato Cambiamo strada, le 15 lezioni del coronavirus
(Cortina 2020), un’iniezione di ottimismo militante. Inizia
con un ricordo personale, quello della madre, Luna Beressi,
che aveva contratto una lesione cardiaca, probabilmente dovuta all’influenza spagnola (come successe a molti, anche a
Virginia Woolf e al suo personaggio, la Signora Dalloway).
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9. Ce l’abbiamo tutti I clan dei virus La materia dei sogni e
dei virus
sandoKan non s’intende di Microbi
“– Io non ho capito gran cosa, e poi non sono un europeo
per sapere che cosa sono i microbi. – I microbi?… Che diavolo!… Ha la peste ed il colera rinchiusi dentro quelle bottiglie? – Che cosa vuoi che ne sappia io? – rispose Sandokan.
– Io non mi intendo che di prahos, di carabine, di parangs e
di kampilangs. Lui ti spiegherà meglio.”
Emilio Salgari, La rivincita di Yanez
gaLiLeo: bisogna adoPerar La fantasia
“Mi fan patir costoro il grande stento.
Che vanno il sommo bene investigando
E per ancor non v’hanno dato drento.
E mi vo col cervello immaginando
Che questa cosa solamente avviene
Perché non è dove lo van cercando.
Questi dottor non l’hanno mai intesa bene,
Mai sono entrati per la buona via
[…]
Perché, secondo l’opinion mia,
A chi vuol una cosa ritrovare,
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Bisogna adoperar la fantasia,
E giocar d’invenzione, e’ndovinare;
E se tu non puoi ire a dirittura,
Mill’altre vie ti posson aiutare.
Questo par che c’insegni la Natura,
Che quand’un non può ir per l’ordinario,
Va dret’a una strada più sicura.”
Galileo Galilei, “Capitolo contro il portar la toga” [a Pisa
1589-92], in Scritti letterari.
virus aL Lavoro da MiLiardi di anni
“All’interno dei corpi dei loro ospiti i clan dei virus lavoravano. Mutando, manipolando le strutture del DNA, utilizzando la conoscenza acquisita nel corso di miliardi di anni
[…] era vero che molti ospiti avrebbero dovuto essere sacrificati prima che si potessero trovare le sequenze chiave, ma
di ospiti ce n’era in abbondanza. Si moltiplicavano generazione dopo generazione, finché le loro specie riempirono la
terra. Era vero anche che molti ospiti soccombevano alle
aberrazioni del metodo per tentativi ed errori, che produceva uno sfortunato numero di morbi e malattie. Ma anche
questo era utile ai clan. Gli ospiti che sopravvivevano erano
più forti, i loro sistemi rafforzati di immunità erano meglio
attrezzati ad affrontare gli effetti residui delle aberrazioni nel
campo delle mutazioni.”
Michael Kanaly, Virus Clans
siaMo tutti chiMere
“[La microbiologa Lynn Margulis] sosteneva che le cellule da cui è formato ogni organismo vivente che appartiene
alle più complesse divisioni della vita – ogni essere umano,
ogni animale, ogni pianta e ogni fungo – sono creature chimeriche, composte da batteri catturati dentro ricettacoli non
batterici. Quei particolari batteri si sono tramutati, nel corso
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di estesi periodi di tempo, in organi cellulari. Immaginate
un’ostrica, trapiantata in una mucca, che diventa un rene bovino funzionante. Sembrava un’idea folle quando Margulis
la propose nel 1967. Ma in gran parte aveva ragione.”
David Quammen L’albero intricato
La Profezia di zeno
“La vita attuale è inquinata alle radici. L›uomo s›è messo
al posto degli alberi e delle bestie e ha inquinata l›aria, ha
impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e
attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. Vݏ una minaccia di questo genere in
aria. Ne seguirà una grande ricchezza… nel numero degli
uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo.
Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente
al pensarci soffoco! Ma non è questo, non è questo soltanto.
Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può
appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso,
quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c›era altra possibile vita fuori dell›emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e
che divenne la parte più considerevole del suo organismo.
La talpa s›interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s›ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non
avrà mai leso la loro salute. Ma l›occhialuto uomo, invece,
inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se cݏ stata salute e
nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli
ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l›uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la
sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e
non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma,
oramai, l›ordigno non ha più alcuna relazione con l›arto. Ed
è l›ordigno che crea la malattia con l›abbandono della legge
che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì
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e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci
vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero
di ordigni prospereranno malattie e ammalati. Forse traverso
una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo
alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno
considerati quasi innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto
anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po› più ammalato, ruberà tale esplosivo e s›arrampicherà al centro della
terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il
massimo. Ci sarà un›esplosione enorme che nessuno udrà e
la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva
di parassiti e di malattie.”
Italo Svevo, La coscienza di Zeno.
che cosa ci stanno nascondendo suL coronavirus?
“ATTENZIONE!!! Sto per rivelarvi una verità che tutti i
governi, i medici e gli scienziati del mondo tacciono da sempre!
Ci sono tantissime cose di questa epidemia che non ci
vengono dette. E sapete perché? Aprite le orecchie, ve lo
svelo io!
Governi, medici e scienziati di tutto il mondo non ci danno tutte le risposte che cerchiamo sul coronavirus perché…
…perché non ce le hanno neanche loro!
Ora andate e ditelo a tutti, il mondo deve sapere.”
Un sedicente “Ricercatore in Bioscienze Computazionali” sul sito Quora
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È colpa mia se mia figlia ha finito col laurearsi in biologia
molecolare e poi dottorarsi in neuroscienze, passando, poveraccia, gli anni migliori rinchiusa in laboratorio a impiantare
micro-chirurgicamente elettrodi nel cervello dei ratti (tranquilli: sono batteriologicamente sterili, li allevano apposta,
non hanno pulci). Quand’era piccolina disegnavamo insieme microbi, germi e virus fantastici. Non avevano granché di
mostruoso. Erano simpatici. Così come sono abbastanza
simpatici i germi e altri animaletti vettori di malattie micidiali disegnati in The Germ Lab, un albo per bambini che in
pieno lockdown Covid mi sono affrettato a ordinare online
per la nipotina/nipotino che deve ancora nascere. Ho letto
che anche Francis Crick, il padre, assieme a James Watson
del modello di DNA a “doppia elica” voleva scrivere un libro per bambini, sulle scale, dal minuscolo al più grande,
dell’universo, che però non venne mai pubblicato.
Ricordo che ai ragazzi, quando erano piccoli, e stavamo
in America, gli davo da leggere i libri illustrati del dottor
Seuss e Roald Dahl, che gli piacevano. Poi ci trasferimmo a
Parigi, e commisi l’errore di dare al piccolino, in originale e
in edizione integrale (le lingue i bambini le imparano in un
batter d’occhio), Les Miserables di Victor Hugo. Non lo finì.
Cercai di recuperare con Harry Potter. Ma forse era già troppo tardi. Si rifugiò nei numeri. Fa il matematico. Forse potrei ritentare consigliando ad entrambi qualcosa di fantascienza, che so qualche storia di Ray Bradbury.
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Ce n’è una che mi sembra particolarmente adatta ai tempi di virus, e all’argomento di questo capitolo. Si intitola Fever Dream, Sogno da febbre:
Aveva tredici anni, Charles. Era metà settembre, e il paesaggio cominciava a prendere fuoco con l’autunno. Stava a letto già da tre
giorni quando il terrore cominciò a sopraffarlo. La sua mano stava
cambiando. La mano destra. La guardò, ed era calda, e sudaticcia
[…] era come se pulsasse, cambiasse un pochino. Poi cominciò a
cambiare colore […]
Nel pomeriggio venne di nuovo il dottore e picchiettò sul suo piccolo petto come fosse un tamburo. ‘Come stai?’, gli chiese, sorridendo.
“Va bene, conosco già la risposta: Il mio raffreddore va bene, dottore, ma io mi sento malissimo!”, disse il dottore ridendo alla battuta
trita e ritrita. Ma per Charles, la vecchia battuta [il bambino] stava
diventando realtà […] ‘Dottore, sussurrò, la mia mano non mi appartiene più. Stamattina si è trasformata in qualcosa di diverso. La
voglio indietro, dottore. Dottore!’ […].
Alle quattro del pomeriggio cambiò l’altra mano[…]. Pulsava e cambiava, cellula dopo cellula. Batteva come un cuore caldo. Le unghie
diventarono blu, poi rosse. Ci mise un’ora a mutare. E alla fine sembrava una mano normale. Ma non era normale. Non era più sua. [Il
bambino] giacque affascinato dall’orrore e cadde in un sonno esausto […].
Poi sono le gambe a bruciare, ad arrossarsi, diventare calde, a “riempire la stanza col calore di questa mutazione febbrile. Il calore saliva
dalla punta dei piedi alle caviglie, poi alle ginocchia”. Infine sente
che cambiano tutti gli organi, i polmoni che “prendono fuoco” come
se fossero irrorati di alcool rosa, e poi il collo, il cervello. “Sono morto”, pensò, “sono stato ucciso eppure vivo ancora. Il mio corpo è
tutto malattia, e nessuno lo saprà. Andrò in giro e non sarò più io,
sarò qualcos’altro, qualcosa di cattivo, di maligno. Tanto maligno
che non è difficile da comprendere, o anche solo pensare…”
- La prego, la prego dottore, mi dica cos’ho.
- Un caso non grave di scarlattina, complicato da un piccolo raffreddore.
- Un germe che vive dentro di me, e ha a sua volta altri germi dentro
di lui?
[…]
- Stavo pensando una cosa, disse Charles dopo un po’. Ai germi capita di crescere? Voglio dire, a scuola ci hanno detto di animali che
hanno una cellula sola, amebe e cose del genere, e di come milioni di
anni fa si sono messi assieme e hanno formato un corpo. E di come
più tardi sempre più cellule si sono messe insieme, e sono diventate
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sempre più grandi, e allora magari hanno formato un pesce, e poi
siamo arrivati noi, che non siamo altro che un mucchio di cellule le
quali hanno deciso di mettersi insieme, e di aiutarsi l’un l’altra? È
così dottore? […] E poi hanno deciso di impadronirsi di una persona
- Impadronirsi di una persona?
- Sì dottore, diventare una persona. Diventare Me, le mie mani, i miei
piedi, E se una malattia fosse in qualche modo capace di uccidere
una persona, e continuare a vivere dopo di lui?”
Il ragazzino guarisce. Sembra del tutto normale. Non vede l’ora di
tornare a scuola:
“Mi piace andare a scuola. Con gli altri bambini. Voglio giocarci e
fare la lotta, e sputargli addosso, e giocare con i codini delle ragazze,
e stringere la mano al maestro, e strofinare la mano su tutti i cappotti
appesi, e voglio crescere e viaggiare, e stringere la mano a tutti quanti in giro per il mondo, e sposarmi, e avere dei bambini, e andare in
biblioteca, maneggiare libri e…
A parte il brivido che ci fa venire la prospettiva dell’imminente ritorno a scuola del bambino che non vede l’ora di
contagiare i propri compagni, anzi di contagiare il mondo
intero, a cominciare da chi maneggia libri, Bradbury fonda il
proprio racconto su qualcosa che succede davvero, e non solo quando ci ammaliamo: tutte le cellule del nostro corpo
cambiano continuamente, e ognuna viene sostituita più volte
nel corso della nostra vita. Siamo sempre la stessa persona,
ma siamo ogni istante anche diversi. Siamo un paradosso vivente. Come la mitica nave di Teseo, i cui singoli pezzi cambiano continuamente, di cui neanche un chiodo o una scheggia è l’originale.
Circola una storia: che tutte le nostre cellule cambino
ogni sette anni. Non è proprio così. I globuli rossi hanno uno
span di vita di circa quattro mesi, i globuli bianchi di circa
un anno, le cellule della pelle vegono sostituite ogni due-tre
settimane, quelle del colon hanno la vita difficile, durano
non più di quattro giorni, i neuroni quando muoiono non
vengono sostituiti… Il nostro corpo è composto da un 50-70
trilioni (milioni di milioni) di cellule. Solo i neuroni sono oltre 100 miliardi, e ogni neurone ha 7.000 sinapsi, cioè collegamenti con altri neuroni. L’insieme delle connessioni si avvicina all’ordine di grandezza del numero delle stelle
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nell’universo. Ogni cellula ha il suo bravo DNA, è fatta di
molecole, e aggregati specializzati di molecole, le proteine e
gli enzimi, lunghe catene che facilitano o ostacolano gli interscambi tra cellule, la “trascrizione” delle informazioni genetiche. Oltre alle cellule ci sono i batteri che vivono in noi e
con noi, il cui numero è dello stesso ordine di grandezza delle nostre cellule. I virus con cui convivono le nostre cellule e
i nostri batteri sono almeno dieci volte (secondo alcuni studiosi cento volte) più numerosi ancora. Si presume che ci
siano milioni di specie virali. Centinaia di milioni sono quelli
che possono albergare nelle cellule dei mammiferi. Una piccola parte di questi virus possono farci ammalare, altri ci sono utili, alcuni probabilmente indispensabili. Ne conosciamo pochissimo. “Io siamo miliardi” è il modo in cui la mette
Guido Silvestri, uno che ve la racconta molto meglio di
quanto saprei fare io, e con un talento da narratore, competenza e, insieme, una straordinaria semplicità che gli invidio.
Siamo fatti di sogni e virus
Il Covid ha fatto riemergere una comprensibile avversione viscerale nei confronti dei virus, tutti i virus. Il coronavirus ha assunto, e non solo nei disegni infantili, l’aspetto di
qualcosa di alieno, da bastonare, schiacciare, distruggere,
sterminare. Si sprecano le metafore militari. È il nemico,
contro cui va condotta una guerra senza quartiere. È una
guerra che dura da tempi immemorabili. Ne portiamo i segni
e le cicatrici nel nostro genoma. Il biologo dell’evoluzione
David Enard ha dimostrato che un terzo delle mutazioni del
genoma umano è avvenuta in risposta ai virus. I virus sono
antipatici. Benissimo. Tranne che questo tipo di immagine
trascura il fatto che senza batteri e virus non potremmo vivere, non esisteremmo nemmeno. Virus, batteri, funghi e altri
parassiti hanno avuto e continuano ad avere un ruolo fondamentale per la nostra sopravvivenza (si pensi solo a quello
che chiamiamo “flora intestinale”). Sono stati i virus ad addestrarci a resistere alle malattie che avrebbero potuto far
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estinguere la specie umana. E c’è chi ha argomentato che sono stati i virus a renderci “umani”. La stragrande maggioranza dei virus, compresi quelli con cui coabitiamo nel nostro
corpo, sono batteriofagi, attaccano batteri. Senza contare
che i guai più grossi possono venire non dai nemici o dagli
estranei ma dal “fuoco amico” delle nostre cellule B e T che
attaccano i microbi invasori. Un eccesso di difesa può rivelarsi più letale dell’invasione. Le reazioni autoimmuni incontrollate sono la principale causa dei decessi per Covid. Il coronavirus provoca un “cytochine storm”, una tempesta di
citochine, proteine che chiamano a raccolta le forze di difesa
immunitaria. Se incontrollata può avere conseguenze devastanti, riempire di liquido i polmoni, produrre micro-trombi
e danni cardiaci.
“We are such stuff as dreams are made on”, siamo fatti
della materia di cui sono fatti i sogni, dice Prospero nella
Tempesta di Shakespeare. Della materia di cui sono fatti i
sogni e i virus, mi verrebbe da parafrasare. Siamo fatti di
atomi, molecole, cellule, enzimi, batteri e virus. “Siamo tutti una serie allargata di codici DNA. Una specie di gigantesco complesso batterio”, fa dire ad uno dei suoi personaggi
Michael Kanaly, autore di un fortunato romanzo fanta-virale di fine Novecento. L’idea che i virus agiscano di concerto, si scambino segnali, siano guidati da una sorta di intelligenza collettiva, paragonabile a quella delle termiti e delle
formiche è suggestiva. Ma ovviamente non ha la minima
base scientifica. Gli anni in cui sono usciti romanzi come
quello di Kanaly sono gli stessi anni della fioritura dei romanzi sulle formiche, come quelli di Bernard Werber. Lo
so perché li davo da leggere ai miei figli, e gli piacevano,
così come poi gli piacque Antz, Zeta la formica della Disney con gli insetti che hanno la voce di Woody Allen e
Sharon Stone. Suggestivo è anche che i virus si raccolgano
in clan, lavorino per millenni. Ma infastidisce quella che
una critica attenta della fiction di virus, pandemie e affini,
Heather Schell, ha efficacemente definito “Germ theory of
history”. Mi verrebbe da tradurre, tradendo, “concezione
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virale della storia”, non fosse che l’espressione è indissolubilmente legata alla “teoria germanica della razza”, propugnata a cavallo tra ottocento e novecento da Hubert Howe
Bancroft, storico Far West, e da Frederick Jackson Turner,
autore di The Frontier in American History. La tesi è che
“le razze non ariane” sarebbero inadatte (unfit) a superare
le difficoltà della conquista del West. In biologia si traduce
in un’esasperazione delle idee di “selezione” naturale, di
“sopravvivenza del più forte”. Si tratta di una teoria estremamente contagiosa, endemica nella cultura e nella politica americana. Basta vedere come se n’era servito Donald
Trump.
Il nostro è il pianeta dei batteri, ha sostenuto Stephen Jay
Gould, dopo una vita passata ad occuparsi di dinosauri, evoluzione, estinzioni. Ma è anche il pianeta di qualcosa di più
piccolo e ancor più misterioso dei batteri e dei virus, gli archea: una “terza forma di vita”, anzi di “forme biologiche”,
che sta tra batteri ed eucarioti (la classe che comprende tutti
gli organismi viventi le cui cellule hanno un nucleo distinto:
piante, animali, noi stessi). Gli archea non sono né batteri né
virus. Hanno una linea evolutiva a sé, di miliardi di anni più
antica delle altre forme di vita. Fino a quache decennio fa,
coè prima che l’ostinazione del microbiologo dell’Università
dall’Ilinois Carl Woese, e della microbiologa di Chicago
Lynn Margoulis li portasse alla ribalta, non se ne sapeva nulla. Sono come presenze fossili, archeologiche all’interno di
batteri e cellule. Hanno ribosomi, gli ingranaggi basilari della vita, i “messaggeri”, c’è chi dice “l’apparato di traduzione”, di trascrizione del genoma, “le stampanti 3D” le ha definite qualcuno, che consentono la costruzione delle proteine
in ogni cellula vivente, si tratti di piante, funghi o di cellule di
organismi complessi come il nostro corpo. I ribosomi sono la
più piccola struttura identificabile all’interno di una cellula.
Una cellula di mammifero può contenere fino a 10 milioni di
ribosomi. Ogni ribosoma può sfornare proteine al ritmo di
200 amminoacidi al minuto. Un’ipotesi è che gli archea abbiano modificato e trasmesso informazioni genetiche non
“verticalmente” (da una generazione a quella successiva, co285
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me nei modelli darwiniani) ma “orizzontalmente”, per contagio. Quindi capire come hanno funzionato gli archea potrebbe forse aiutarci a capire come funzionano i virus. Alla
storia affascinante della scoperta degli archea, e delle discussioni e furibondi litigi tra chi li studia, è dedicato l’ultimo libro di David Quammen: L’albero Intricato. Una nuova e radicale storia della vita (Adelphi 2020). La vita è meravigliosa,
It’s a wonderful life suonava il titolo di un celebre film di
Frank Capra e anche di un libro di Stephen Jay Gould che
mi aveva appassionato diversi decenni fa. La vita è estremamente complicata mi verrebbe da parafrasare.
Gould era un grande narratore, oltre che zoologo, geologo
e storico della scienza. Quammen è un narratore, prima ancora che un divulgatore scientifico. Questa è una delle ragioni
del grande successo del suo precedente libro, Spillover, a metà
saggio a metà reportage, in cui anticipava la possibilità di un
nuovo virus che fa il salto di specie da un animale, forse una
scimmia, forse un uccello, forse un pipistrello, all’uomo. Ma è
inutile dare la colpa ai pipistrelli, tanto meno sterminarli (sono
utilissimi, mangiano insetti nocivi). La colpa è solo nostra:
“Siamo stati noi a generare l’epidemia di Coronavirus. Potrebbe essere iniziata da un pipistrello in una grotta, ma è stata
l’attività umana a scatenarla”, scriveva già il 28 gennaio 2020
in un intervento sul “New York Times”. Erano anni che lo
andava ripetendo in tutte le maniere, da molto prima che il
Covid-19 facesse di lui un profeta best-seller.
In difesa dei pipistrelli e del batterio fecale
A Pechino avevo fatto quasi amicizia con un pipistrello.
Aveva preso alloggio nell’interstizio tra la tapparella e il vetro
della finestra della stanza in cui svolgevo la mia attività di
corrispondente dalla Cina. Di giorno lui non si accorgeva
nemmeno della mia presenza. Se accendevo le luci perché
s’era fatto buio, lui se n’era già uscito a cacciare. Un giorno
degli operai che erano venuti ad aggiustare qualcosa lo presero, lo misero in un vasetto di vetro, fecero dei buchi nel
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tappo perché potessero respirare e lo portarono via. Mi dipiacque, ero abituato alla sua presenza discreta, mi teneva
compagnia, mi fece pena vedere quanto era spaventato: tremava, orinava nel vasetto. L’operaio mi disse che lo voleva
regalare alla figlioletta. Non mi risulta che i cinesi, che pure
mangiano di tutto – tutto quello che ha due gambe, tranne la
nonna, tutto quello che ha quattro zampe, tranne il tavolo,
suona un detto popolare – mangino pipistrelli, tantomeno
“pipistrelli vivi” come ebbe a dire il governatore del Veneto,
Zaia. Il pipistrello porta fortuna, è benefico in una civiltà
contadina. Porta felicità, non disgrazia, non lo si associa a
Dracula, a oscuri terrori “gotici” e minacce simili.
Ci sono oltre 1400 specie di pipistrelli, diffusi in tutti i
continenti, tranne l’Antartico. È vero, si ritiene che alcune
specie siano portatori sani di virus letali se passati all’uomo,
come Ebola, rabbia e il coronavirus del Covid. Ha forse a
che fare col fatto che in genere vivono in colonie numerose
appiccicati l’un l’altro (ma il mio era solitario). A differenza
dei ratti che venivano infettati di peste dalle loro pulci, i pipistrelli non si ammalano. E sono molto longevi (alcune specie
vivono anche 20-40 anni). Anziché disturbarli ed esorcizzarli
dovremmo invece imparare da loro. È quel che suggeriscono
alcuni studiosi, invitando a studiare e approfondire le ragioni per cui riescono ad avere una così elevata tolleranza ai virus di cui sono portatori, come facciano ad avere immunità,
e soprattutto tanto equilibrio nel loro sistema immunitario,
un così elevato controllo delle proprie risorse anti-infiammatorie, e a vivere così a lungo.
Primo Levi aveva invece fatto amicizia con un batterio.
Anzi l’aveva addirittura intervistato. Con il batterio più comune nel nostro intestino, 15 miliardi di esemplari scaricati
in media ogni giorno con le nostre feci, avevano parlato persino di politica. “La politica è l’arte del possibile, lo ha detto
una mia antenata 500 milioni di anni fa, e noi siamo possibiliste per natura, anzi opportuniste”, aveva risposto l’Escherichia coli al suo interlocutore, che le chiedeva di commentare
i progetti di manipolazione del DNA batterico per renderlo
utile all’uomo. Ma aveva anche lanciato un avvertimento:
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“Proprio per questo non dovete sottovalutarci. Ai vostri tubetti di vetro, ascolti il mio consiglio, fate buona guardia. Io
personalmente sono di buona indole, ma non posso rispondere delle mie colleghe a cui voi avete cambiato il centralino
[il DNA]. State attenti: se si dovesse scatenare un’epidemia,
ne andreste di mezzo voi, ma anche noi che viviamo in pace
nei vostri visceri. Non c’è dubbio che alla lunga ci sapremmo
adattare a campare anche nell’intestino di uno scarafaggio o
di un’ostrica, ma ci vorrebbero tempo e fatica e un buon numero di defunti” (Primo Levi, dalle Interviste immaginarie,
“In diretta dal nostro intestino: l’escherichia coli”).
Perché qualcuno si salva e qualcuno no?
Per Primo Levi. il chimico sopravvissuto al campo di sterminio, scherzare con i batteri, continuare a far lavorare di fantasia il proprio cervello, è un modo per riaffermare la propria
umanità. Levi è curioso di tutto. E in modo particolare delle
mutazioni evolutive, delle strategie di sopravvivenza di animali e batteri, delle specie, ma anche della natura, degli elementi
chimici. Una domanda che lo ossessiona, e a cui ha cercato risposta per tutta la vita, senza riuscire a trovarla appieno, è il
perché alcuni si salvano e altri no, perché alcuni si ammalano e
guariscono e altri soccombono. È il tema di quello che forse è
il più bello dei suoi libri: I sommersi e i salvati. È come se Primo Levi avesse un senso di colpa per essersi salvato: “I ‘salvati’
del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di
un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l›esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli
egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie. Non era una regola certa (non c›erano, né ci sono
nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi
sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla
ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi
miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i
migliori sono morti tutti”. In un caso che lo toccò in profondità, responsabile della “selezione” è lo streptoccocco della scar288
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lattina, unica malattia infettiva dell’infanzia di origine batterica anziché virale. Suo fratello Alberto, prigioniero come lui
nel campo di sterminio di Auschwitz, non si ammala e quindi
è costretto a partire come prigioniero al seguito dei Tedeschi
in fuga; Primo viene ricoverato in infermeria, proprio poco
tempo prima della fuga dei Tedeschi; quindi non parte, viene
abbandonato al suo destino e si salva. “Quanto avvenne di me
è scritto altrove [ne La tregua]. Alberto se ne partí a piedi […]
i tedeschi li fecero camminare per giorni e per notti nella neve
e nel gelo […] verso un nuovo capitolo di schiavitú, a Buchenwald ed a Mauthausen. Alberto non è tornato e di lui non
resta traccia”.
Ha qualcosa a che fare col perché qualcuno si ammala, e
magari muore, e altri invece, pur avendo il virus, non hanno
alcun sintomo, o li hanno in forma talmente leggera da quasi
non accorgersene? C’entra col fatto che certe pandemie (come ad esempio la spagnola) abbiano colpito soprattutto i
giovani nel pieno delle forze, e altre (come il Covid) abbiano
colpito, almeno nella prima ondata, gli anziani, gli indeboliti
da atre malattie? Dipende dal sistema immunitario di ciascun individuo? Da fattori ambientali? Da fattori economici? Dalle differenze sociali? Dal caso?
Il complicato gioco della Regina di cuori
C’è la descrizione di una strana partita in Alice nel Paese
delle meraviglie. Siccome l’autore, il reverendo Charles Dodgson, in arte Lewis Carroll, scrive per i lettori britannici del
suo tempo il gioco è il cricket, anzi il croquet. Questa la versione praticata nel campo da gioco della Regina di cuori:
Alice osservò che mai in sua vita non avea veduto un terreno più curioso per giuocare il Croquet; era tutto a solchi e zolle; le palle erano
ricci, i mazzapicchi erano fenicotteri vivi, e gli archi erano soldati vivi, curvati e reggentisi sulle mani e sui piedi. La prima difficoltà stava
in ciò: che Alice non sapeva come maneggiare il suo fenicottero; riuscì a tenerselo bene avviluppato sotto il braccio, con le gambe penzoloni, ma quando gli allungava il collo, e si preparava a picchiare il
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riccio con la testa, il fenicttero girava il capo e poi si metteva a guardarla in faccia con una espressione tanto stupefatta che ella non poteva far di meno di scoppiare dalle risa: e quando gli abbassava di
nuovo il collo, e si accingeva a ricominciare, ecco il riccio si era sricciato, e andava via: oltre a ciò e era sempre una zolla o un solco là
dove voleva sbalzare il riccio, e siccome i soldati si alzavano sempre e
vagavano quà e là, Alice si persuase che quello era un giuoco disperatamente difficile.
La fantasia di Lewis Carroll è stata spesso usata per illustrare le difficoltà in microbiologia e nello studio delle malattie infettive. In Alice attraverso lo specchio, che è il sequel di
Alice nel Paese delle meraviglie c’è una surreale gara di corsa
tra Alice, costretta a correre sempre più in fretta solo per rimanere allo stesso posto, e la Regina rossa. L’immagine è
stata presa in prestito da Leigh Van Valen per illustrare la sua
teoria della competizione tra specie che evolvono in contemporanea, ed è stata poi resa celebre negli anni ottanta da
Matt Ridley per illustrare le sue teorie sulla competizione
sessuale. C’è chi ha fatto ricorso all’immagine dei fenicotteri
rosa, inaffidabili come mazze da golf perché girano la testa
quando uno meno lo si aspetta, e dei ricci, inaffidabili come
palle perché si arrotolano e srotolano quando e come gli pare, per sostenere che le previsioni affidate ai modelli matematici non sempre funzionano quando ci sono di mezzo organismi viventi, e meno ancora per le epidemie, dove entrano
in gioco gli ancor meno prevedibili comportamenti umani.
È un gioco complicato quello delle interazioni tra la specie
umana e gli agenti patogeni. Va avanti da migliaia, centinaia di
migliaia di anni. Le variabili sono infinite, molte di più che nei
giochi in cui solo da poco l’intelligenza artificiale sta imparando a pareggiare le astuzie della mente umana (per il gioco che i
cinesi chiamano weiqi e i giapponesi go, non ci siamo ancora).
Le semplificazioni non aiutano. Finora la partita non è andata
troppo male. Nelle ultime migliaia di anni abbiamo superato a
più riprese quella che William McNeill aveva chiamato “confluenza dei bacini di malattie” conseguente al passaggio all’agricoltura e alla domesticazione degli animali (il suo Plagues
and Peoples è del 1976). In un altro “classico” degli anni ‘70,
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The Modern Rise of Population di Thomas Mckeown, ci si ricordava come mutamenti sociali e misure amministrative
avessero contribuito a frenare la mortalità ben prima che fossero disponibili vaccini e rimedi medici. Qua e là ci siamo fermati o siamo tornati indietro (anche in Italia, e prima che arrivasse il Covid), ma nel complesso non sta andando così male.
Gli ultimi cento anni sono stati quelli in cui le conoscenze mediche hanno fatto più progressi, la popolazione mondiale è
quasi decuplicata, l’aspettativa di vita è cresciuta da grosso
modo 50 a oltre 75 anni. C’è meno mortalità infantile che in
qualsiasi altra epoca della storia umana. Cina e India non conoscono più le spaventose carestie e decimazioni di una volta.
Insomma, malgrado tutto quello che abbiamo combinato ai
danni della nostra specie e del nostro pianeta, poteva andare
peggio. Mal che vada, possiamo continuare a dire, come quello che si era buttato dal centesimo piano, e se li vede passare
illeso uno dopo l’altro: per il momento tutto bene…
Comunque non sarà la fine del mondo
C’è un argomento ricorrente in quasi tutte le narrazioni
“classiche” della pandemia, da Tucidide a Boccaccio, dall’Apocalisse a Dostoevskij, fino ai giorni nostri: il timore che il
contagio stermini l’intera umanità. C’è chi attenua dicendo
che a un certo punto si è temuto succedesse, ma poi non è
successo, e c’è chi addirittura, come Mary Shelley o Jack
London fanno partire la narrazione da parte dell’ultimo o
degli ultimi sopravvissuti, fingendo che sia già successo. Il
paradosso della fine del mondo lo si potrebbe definire. Nel
senso che se il mondo finisce non ci sarebbe alcun senso a
raccontarlo. A meno che non si immagini un altro mondo,
naturalmente.
L’ottocento, fiducioso nella scienza o nella provvidenza,
non crede che ci sarà la fine del mondo. E comunque ci tiene
a precisare, che anche ci fosse, al resto dell’universo non glie
ne potrebbe importare di meno.
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Subito dopo aver raccontato di un accesso di febbre, con
“brividi e crampi alle gambe” che lo lascia “a pezzi” (brisé),
“in uno stato di malessere”, nel capitolo sul colera (naturalmente “asiatico”, “figlio maggiore di Visnù”), Chateaubriand
si pone la domanda: “Cosa succederebbe se tutti gli uomini
morissero, colpiti da un contagio generale?”. La risposta è:
“Niente. La terra, spopolata, continuerebbe il suo cammino
solitario, senza aver bisogno, per contare i propri passi, di altri
astronomi oltre a colui che glie li ha misurati per tutta l’eternità; non presenterebbe alcun mutamento agli abitanti di altri
pianeti; la vedrebbero compiere le sue solite funzioni; in superficie i nostri piccoli lavori, le nostre città, i nostri monumenti sarebbero rimpiazzati dalle foreste rese alla sovranità
dei leoni; non si manifesterebbe alcun vuoto nell’universo”.
(Mémoires d’outre-tombe, libro XXXV, capitolo 15). E d’altronde, non era stato forse un re francese a dire, pare conversando con la sua amante: “après moi le déluge!, dopo di me il
diluvio?
Assai più profondo Leopardi, nel Dialogo tra la Natura e
un islandese, del 1824:
Natura: immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per
causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle
operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi e ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità.
Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia
mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non
ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali
azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei […]
Tu mostri non aver posto mente che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione,
collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve
continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il
quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe
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parimente in dissoluzione. Per quanto risulterebbe in suo
danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento” .
Sappiamo come va a finire la favola. Arriva un leone – il
dialogo si svolge in Africa – e si pappa l’islandese. Leopardi si
trovava a Napoli quando, nel 1837 fu sorpreso da una seconda
ondata di colera. La prima l’aveva evitata lasciando la città.
L’amico Ranieri gli consigliava di tornare all’isolamento della
villa a Torre del Greco. Il padre, Monaldo, lo avrebbe voluto a
Recanati. Era un reazionario, un oscurantista spaventoso, ma
le epidemie le prendeva su serio. Era un sostenitore convinto
delle vaccinazioni (contro il vaiolo), a differenza dell’illuminista Kant che invece sui vaccini faceva il negazionista. Ma Giacomo, sofferente dei mali suoi, temeva l’isolamento sociale assai più del colera. Non voleva tornare a Recanati che, per dirla
con Piero Chiara, “per lui era peggio dei pulcinelli, dei baroni
fottuti, dei ladri e del colera di Napoli. Morì quasi da un giorno all’altro, probabilmente di colera. Il giorno prima gli avevano fatto quei dolcetti che gli piacevano tanto. Quanto all’Islanda, terra di natura selvaggia, con i suoi vulcani mille volte
più terribili del Vesuvio, e la natura incontrollabile, è l’ambientazione di uno dei romanzi più strani di Alfred Döblin,
Giganti. Era uscito nel 1932, l’anno prima della nomina a cancelliere di Hitler. Parla, con prosa che scorre impetuosa come
lava, di ogmi specie di disastri naturali, resi ancora più disastrosi dai maldestri tentativi tecnologici per imbrigliare la natura. Me l’aveva segnalato l’amico Guido Martinotti, un’estate
che il mondo andava a fuoco, bruciavano le foreste in Russia,
eruttavano vulcani e si scioglievano ghiacciai scatenando fiumi
di fango e alluvioni. L’unica catastrofe di cui Döblin in quel libro non parla sono le epidemie. Mi sarebbe piaciuto poter
chiedere a Guido, che sapeva di tutto, lumi sulle pandemie.
Perché abbiamo ancora bisogno di fantasia
Nella postfazione a una raccolta di saggi pubblicata nel
1993 dalla Oxford University Press, Emerging Viruses, il microbiologo della Mount Sinai School of Medicine Edwin D.
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Kilbourne aveva ripreso l’idea, e riprodotto l’immagine molto divertente, caricaturale, di un ipotetico virus capace di
“massima virulenza”. Il virus di pura invenzione immaginato
dallo scienziato ha una struttura poliedrica icosaedrale, per
garantirne la stabilità, e consentirgli di passare indenne attraverso ambienti ostili come l’intestino o da un vettore all’altro, è irto di punte sporgenti, spikes, per ottimizzare la sua
capacità di agganciarsi alle cellule, è pantropico, nel senso
che può attaccarsi a tessuti o mucose di tipo diverso, ha un
genoma a segmenti che gli consentono di adattarsi e mutare,
simile a quello dei virus dell’influenza, è capace di transcrittasi inversa, da RNA a DNA, cioè di copiare il proprio genoma nelle cellule che infetta, e quindi di mimetizzarsi e “ingannare” gli anticorpi. Un “puro esercizio intellettuale” lo
definiva Kilbourne. Potenzialmente letale, ma troppo letale,
troppo efficiente, troppo di troppo per avere successo. Il
nuovo Coronavirus però gli somiglia, e finora, dal suo punto
di vista, sembra aver avuto successo.
Sono diversi decenni, almeno dall’esplosione dell’epidemia
di Aids in poi, che gli addetti ai lavori insistono sulla necessità di
prepararsi ad affrontare nuovi virus sconosciuti o mutazioni
inaspettate di virus conosciuti. È stata coniata l’espressione “virus emergenti”, che ricalca quella, in voga un tempo, di “paesi
emergenti”. Poi, passata una crisi acuta, o che fa particolarmente presa, per il tipo di malattia, sulle apprensioni del pubblico, si
accantona il fervore, e l’investimento di risorse, in attesa della
crisi successiva. La fantasia, la fiction, serve anche a tenere desta
l’attenzione. Almeno fino a quando non produce assuefazione,
noia, rigetto. Ma la fantasia è indispensabile anche per dare le
riposte che ci sia aspetta dalla scienza e dalla politica. Ce l’aveva
ben presente Galileo Galilei:
A chi vuol una cosa ritrovare,
Bisogna adoperar la fantasia,
E giocar d’invenzione, e’ndovinare;
E se tu non puoi ire a dirittura,
Mill’altre vie ti posson aiutare.
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Virologia di questo libro
Stavo lavorando a tutt’altro, figuratevi, a un libro sulla
Cina e la sua cucina politica. L’avevo già una volta interrotto,
un paio di anni prima, per il viaggio a ritroso al 1933, l’anno
che fu fatto cancelliere Hitler. Mi sembrava in quel momento
più urgente. Mi ci ero rimesso di buzzo buono, quando ci è
piombato addosso il Covid. Da metà febbraio non riuscivo a
leggere, rileggere, cercare, pensare, occuparmi di altro che
pandemie, pesti e affini. È diventata un’ossessione, che mi ha
tenuto compagnia per diversi mesi. Mi sono imbattuto in
molte cose che non sapevo. Mi sono fatto un’idea disperata
della quantità infinita di cose che ancora non so, o so in modo abborracciato. Ho tirato giù dagli scaffali classici che non
avevo riaperto da molti anni, mi sono perso in numerosi sentieri che per me erano inesplorati. In qualcuno di questi sentieri, devo confessare al lettore, mi sono perso, anche perché
si biforcavano all’infinito, come quelli di Borges. Qualche
volta ho dovuto tornare indietro, che altrimenti non sarei
mai riuscito a portare a termine il viaggio. Il senso di questo
libro è condividere almeno alcuni di quei sentieri, il piacere
di letture molto note o meno note.
Sì, lo so, è ridicolo fare il verso a Marx – ma non c’è salvezza se non si ride un po’ anche delle cose più gravi. Mi
piaceva iniziare con un paradosso, una battuta per sdrammatizzare, pour encourager les autres, incoraggiare a sorridere se
non altro. Così mi sono azzardato a dire, anzi a far dire a tradimento a Marx, che quasi tutta la letteratura, tutta la storia
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finora conosciuta è storia delle epidemie e delle malattie, di
contagi, virus e agenti patogeni. Claro, è una semplificazione,
una battuta appunto. Ci sono ancora altri interi universi al di
là di quel quasi… Non è proprio così, le cose sono molto più
complicate. Era però una semplificazione anche dire, come
fanno Marx ed Engels nel Manifesto, che tutta la storia è storia di lotta di classe (poi avrebbero corretto in: “tutta la storia finora conosciuta”). Ma serviva a dare l’idea.
Le prime cose in cui mi sono imbattuto, che mi hanno
sollecitato e ho “ritagliato” erano articoli di giornale o di rivista, quasi tutti online. Non c’era ancora il lockdown e il 25
febbraio 2020 ho letto con piacere su Mediapart.fr, il quotidiano online fondato dall’ex combattivo redattore capo di
Le Monde Edwy Plenel, un articolo di Lise Wajeman dal titolo “Contagions de fiction”. Non conosco l’autrice, tranne
che insegna letteratura comparata all’Università di Aix-Marseille. Vorrei poterle fare sapere che è stata lei a sollecitarmi,
non dico al libro, che non ne avevo ancora nemmeno un’idea
remota, ma a leggere e rileggere fiction sulle pandemie. Settimane dopo ho letto Jill Lepore, “What our contagion fables
are really about” sul Newyorker (23 marzo 2020); parecchio
più tardi, il 25 maggio, “Infected by ideas” di Leo Robson
sul The New Statesman e “Lectures pour temps d’épidémies”
di Guy Berger in Commentaire 2020/2 (Numéro 170). E poi,
ancora su Mediapart, di Christian Salmon: « Que peut la littérature par temps d’épidémie? » (24 Mai 2020), che avvia
una serie di interventi sui molteplici contatti tra Coronavirus
e romanzo. Salmon sostiene che dall’inizio del Novecento ci
sono state tre grandi crisi inenarrabili, che superano qualunque cosa se ne possa raccontare, dove la fiction deve cedere il
passo alla realtà: il grande massacro della Grande guerra, dal
quale, per dirla con le parole di Walter Benjamin i sopravvissuti “tornavano muti dal fronte, non più ricchi, ma più poveri in esperienza comunicabile”; l’Olocausto, dopo il quale,
secondo l’intuizione di Theodor Adorno “la poesia diviene
impossibile”; e infine l’11 Settembre. Ebbene, l’attuale crisi
del Covid sarebbe il quarto momento di inenarrabilità. Brillante, anzi troppo brillante per i miei gusti. Mi sono comun296
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que premunito, nel caso avesse ragione, ripescando i racconti passati.
Molte idee virali sui romanzi di fantascienza mi sono venute dai saggi di Heather Schell (il riferimento è più sotto).
Da lì in poi è stata in discesa, discesa nel Maelström. Con mio
dispiacere non sono invece riuscito a piazzare nulla sui giornali italiani su questo argomento. Mi sono incaponito, ho
continuato a occuparmi di questo, dopo un po’ a occuparmi
solo di questo. Ho stampato quintali di carta scaricati online
(non riesco a leggere sullo schermo, sono un carta-dipendente), ho esaurito fiumi di toner, mi sono arrampicato sulla scala per raggiungere i ripiani impolverati della mia biblioteca,
ho cambiato la stampante inceppata, ho sperperato l’eredità
dei miei figli ordinando una caterva (altri quintali) di libri in
giro per il mondo, mi sono disperato quando folate di vento
hanno sparpagliato e mescolato i fogli con i miei appunti, e
ogni volta che non ritrovavo più qualcosa che ero sicuro di
aver letto e di essermi appuntato. Ho proposto all’editore di
posticipare il libro sulla Cina e saltare a questo. Hanno accettato.
Questo libro nasce, come quasi tutti i libri, da altri libri,
altri racconti. Non credo nella partenogenesi dei libri. Ma
non è un’antologia. Ce ne sono di eccellenti. Costanza Geddes di Filicaia, docente di letteratura presso l’Università di
Macerata, e il padre Marco, medico ed epidemiologo, hanno
pubblicato nel 2015, presso le edizioni Polistampa, per la Biblioteca di medicina & storia del Centro di documentazione
per la storia dell’assistenza e della sanità fiorentina, Peste. Il
flagello di Dio fra letteratura e Scienza, ricca di testi e di note
sui testi e sugli autori considerati. Simile, in inglese, la raccolta curata nel 1994 da Rosemary Horrox per la Serie di
Fonti medievali della Manchester University Press: The
Black Death. Più stagionato, ma ancora brillante, a cura di
Ovidio Capitani, Morire di peste: testimonianze antiche e interpretazioni moderne della “peste nera” del 1348, Patròn
1995. Ricco e denso di testi Metafisica della peste di Sergio
Givone, Einaudi 2012, “Colpa e destino” il sottotitolo “gi297
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rardiano”, anche se, curiosamente, non viene mai citato il
saggio anticipatore di René Girard, su “La peste nella letteratura e nel mito”, che risale al 1974 (The Plague in Literature and Myth, in Texas Studies in Literature and Language,
Vol. 15, No. 5, A Special Classics Issue on Myth and Interpretation). Capita. Mi accorgo ora che nelle pagine precedenti non ho menzionato Susan Sontag, né Baudrillard, né
Focault, né alcun nouveau philosophe. Dimenticanza o lapsus? Credo che il lettore, comprensivo, perdonerà.
Istruzioni per un replay senza fine?
Shakespeare andrebbe riletto tutto, assaporando verso
per verso, o almeno i drammi più “appestati”: Troilo e Cressida, Sogno di una notte di mezz’estate. Mi sono limitato a
menzionare Macbeth, Lear e Romeo e Giulietta. Ci sarebbe
da scavare ben altro dalle sue metafore pestilenziali. Il personaggio di Falstaff ogni vota che compare è accompagnato da
allusioni a contagi venerei quanto a disordini alimentari. Ma
ci vorrebbe un altro libro. Le simpatie contagiose di Shakespeare e Fracastoro: Eric Langley, Shakespeare’s Contagious
Sympathies (Oxford 2018) e Concetta Pennuto, Simpatia,
fantasia e contagio. Il pensiero medico e il pensiero filosofico di
Girolamo Fracastoro (Edizioni di Storia e Letteratura 2008).
Non solo Shakespeare, ma una profusione di idee, a tutto
campo, nella raccolta di saggi a cura di Rebecca Totaro e Ernest B. Gilman, Representing the Plague in Early Modern England (Routledge 2011). Il poscritto di Gilman, “Plague and
Metaphor” è un’ottima introduzione a questo aspetto. Solleva anche il problema di come l’universo del “virtuale”, giochi online compresi, apra prospettive illimitate alla narrativa
e all’interazione sulle epidemie reali. Mi ha fatto riflettere
l’osservazione che il Journal di Defoe potrebbe essere inteso
come una replica virtuale della peste del 1665-66, una sorta
di inoculazione di vaccino virtuale, di gaming instructions, di
manuale di istruzioni per un eventuale replay della peste. E
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se fosse più o meno così per tutte le narrazioni letterarie, tutto quello che è stato scritto sulle pandemie?
Ricco di riferimenti a fonti classiche meno conosciute,
ma non in modo specifico alle epidemie, è Letteratura e medicina nel mondo antico di Innocenzo Mazzini, in Medicina
nei secoli, arte e scienza, supplemento 2011 (Casa editrice
Università La Sapienza). Sempre di Mazzini, sul tema degli
antecedenti classici delle polemiche contra medicum: Le accuse contro i medici nella letteratura latina ed il loro fondamento in Quaderni linguistici e filologici. Ricerche svolte
presso l’Università degli studi di Macerata, 1982. Con orizzonte temporale più ampio, all’osso ma delizioso, di Mauro
di Napoli, già medico al Policlinico e al Sandro Pertini di
Roma, La malattia e la morte raccontate dai grandi della letteratura, Armando 2020. Ricco di rimandi, preciso nella terminologia, ma anche di piacevolissima lettura, degno di diventare un classico, Luca Serianni, Un Treno Di Sintomi: I
Medici e Le Parole: Percorsi Linguistici Nel Passato e Nel Presente (Garzanti 2005).
Non starò ad elencare tutti i testi letterari citati. Boccaccio, Tucidide, Ovidio, Manzoni, Defoe, Camus e gli innumerevoli altri. Il lettore li ritroverà, se glie ne viene voglia (spero
di sì, se no mea culpa), nelle edizioni di sua preferenza. Citare è sempre un po’ tradire. Le citazioni, anche se lunghe o
lunghissime, non sono che un surrogato, sanno di Bigino o
Selezione dal Reader’s digest. Qui hanno la funzione di stimolare connessioni mentali, analogie. Del resto sono in buona compagnia: sull’argomento tutti, in qualche modo, hanno
citato, in un modo o nell’altro, qualcun altro. Per i testi in
italiano ho preferito riportare l’originale, per quanto faticoso. Per gli altri, talvolta la traduzione è mia, tal altra ho integrato, modificato traduzioni altrui. Anche tradurre è spesso
tradire. Né sarò esaustivo nell’elencare gli autori di opere,
saggi, articoli, pagine web con cui sono in debito. La responsabilità, come si suol dire, è solo mia. Anche, anzi soprattut299
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to per gli svarioni. Spesso e volentieri gli errori passano di
mano in mano. Averli copiati da qualcun altro non è una scusante. Avevo inizialmente pensato ad una sezione iconografica, a delle illustrazioni. Sarebbe stato davvero esagerato, il
materiale è sterminato. Poi non è detto che le riproduzioni
sarebbero state di qualità accettabile (spesso non lo sono
neanche nei libri d’arte). In molti dei dipinti citati il diavoletto è spesso nei dettagli. Se desidera il lettore potrà andarli a
vedere online (anche in questo caso la definizione lascia
spesso a desiderare), o, meglio ancora, chiusure Covid permettendo, dal vero. Forse si penseranno, sempre a Covid finito, grandi mostre sul tema e dintorni. Ci sono istituzioni in
grado di allestirne di fantastiche. Ci sarebbe voluta una filmografia, anche qui la materia prima è enorme, forse ci penserà qualche cineteca o festival cinematografico. Si potrebbe
cominciare a farlo anche online.
Su Sofocle, ho utilizzato, di Franco Maiullari, L’interpretazione anamorfica dell’Edipo re. Una nuova lettura della tragedia Sofoclea (Ist. Editoriali e Poligrafici, Pisa - Roma,
1999). Bernard Knox in Oedipus at Thebes, del 1957, aveva
indagato lucidamente e a fondo la funzione del linguaggio
medico nell’Oedipus Tyrannos. Plague and the Athenian
Imagination: Drama, History, and the Cult of Asclepius di Robin Mitchell-Boyask (Cambridge University Press 2008) è
enciclopedico sulla ricorrenza di loimos e nosos, pestilenza e
malattia nel dramma greco. Tutto quello che uno vorrebbe
sapere sui racconti di pestilenza nell’antichità romana lo si
può trovare in Hunter H. Gardner, Pestilence and the Body
Politic in Latin Literature (Oxford University Press 2019).
Spagnola: la Pandemia che cambiò il mondo
Per il ricorso spropositato alle citazioni in esergo, e anche
per il tentativo di raccontare anche di cose serie cercando di
annoiare il meno possibile, sono in debito con Riccardo
Chiaberge: 1918. La grande epidemia. Quindici storie della
Febbre spagnola (Utet 2016). E ancora: Laura Spinney, 1918.
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L’influenza spagnola: La pandemia che cambiò il Mondo (Marsilio e Universale economica Feltrinelli, 2018); i best seller di
John M. Barry, The Great Influenza: The Story of the Deadliest Pandemic in History, (Penguin 2005, con la nuova postfazione); e, ancora fresco, dalla prestigiosa autrice di articoli scientifici del New York Time: Gina Kolata, Flu: The
Story of the Great Influenza Pandemic of 1918 and the Search
for the Virus That Caused It. Per l’Italia: Eugenia Tognotti,
La «Spagnola» in Italia. Storia dell’influenza che fece temere
la fine del mondo (1918-1919).
Un recente corposo e denso libro di Elizabeth Outka
pubblicato dalla Columbia University Press, Viral Modernism: The Influenza Pandemic and Interwar Literature dimostra in modo convincente che tutti, tutti i più grandi, anche
se non ne scrivono apertamente, anche se sembrano parlare
di tutt’altro, scrivono in realtà del trauma, delle cicatrici profonde lasciate dalla Grande influenza. Un magnifico saggio,
una miniera di classici, e di altri testi meno noti, riletti e passati al microscopio in cerca del virus, corredato anche di suggestive immagini e altre testimonianze, poco conosciute o
inedite, scovate al Collier Archive presso l’Imperial War Museum di Londra, con la sua eccezionale raccolta di inserzioni
pubblicitarie sui giornali dell’epoca e di testimonianze, oppure nel Pandemic Influenza Storybook, accessibile online
sul sito dello statunitense Centers for Disease Control and
Prevention (CDC).
Mi hanno stimolato i saggi di Barbara Fass Leavy, in To
Blight With Plague: Studies in a Literary Theme (New York
University Press 2011). Un pochino confuso, nella distribuzione degli argomenti, e soprattutto nei riferimenti dei passi
citati, Nineteenth-Century Narratives of Contagion: ‘Our Feverish Contact’, di Allan Conrad Christensen (Routledge
2005). Si concentra su otto opere ottocentesche, e i rispettivi
autori: Old Saint Paul’s di Harrison W. Ainsworth (1841), A
Strange Story di Edward Bulwer-Lytton (1862). Bleak House
di Charles Dickens (1853), Ruth (1853) di Elizabeth Gaskell,
Two Years Ago di Charles Kingsley (1857), I promesi sposi di
Alessandro Manzoni (1840), Lavinia di Giovanni Ruffini
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(1860), “Le docteur Pascal” (1893) di Èmile Zola (in Les
Rougon-Macquart),
L’avevano chiamata “Spagnola” perché in piena guerra
solo nella Spagna neutrale si poteva parlarne, Nei paesi belligeranti era un segreto di Stato. Ma è affascinante scoprire
come ne risuonino forte e chiaro gli echi non solo tra scrittori “realisti” come Katherine Ann Porter, l’autrice di, Bianco
cavallo, bianco cavaliere, o Willa Cather, ma anche in opere
che uno non direbbe abbiano immediatamente a che fare
con la Grande influenza. Unico limite: si occupa solo di letteratura anglosassone. Magari ci fossero studi altrettanto ricchi sulle altre culture letterarie. Benché l’ambito dichiarato
sia il “modernismo”, non si parla di Ibsen, Musil, Pirandello,
Döblin; A Proust c’è solo un accenno; non viene menzionato
il grande malato immaginario e narratore di malattie Italo
Svevo, alias Ettore Schmitz, alias Zeno, e si cita solo di sfuggita il suo altrettanto geniale amico James Joyce.
Sulle altre “pesti” dal Novecento ai giorni nostri, dalle
influenze polmonari degli anni ’20 alla Legionella, al SARS, a
Ebola, Zika e Morbo X: Mark Honigsbaum, Pandemie. Dalla Spagnola al Covid-19, un secolo di terrore e ignoranza (La
nave di Teseo, 2020).
Sulle complessità delle pesti
Mi sono serviti, tra molti altri: Pestilential Complexities: Understanding Medieval Plague (Medical History
Supplement No.27, Wellcome Trust for the History of Medicine at Ucl 2008). Contiene, a cura di Vivian Nutton, i
testi di un serie di interventi, tutti di specialisti di altissimo
livello, alla conferenza organizzata a Londra nel 2006. Dallo sviluppo di uno dei saggi in questa raccolta, “Epidemiology of the Black Death and Successive Waves of plague”,
Samuel K, Cohn Jr., a lungo docente di storia medievale
all’Università di Glasgow ha poi tratto The Black Death
Transformed: Disease and Culture in Early Renaissance Europe ( Hodder Arnold 2002), enciclopedica rassegna di
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cronache, diari, trattati di medicina e consigli pratici contro la peste, vite dei Santi, documenti notarili, registri parrocchiali, testamenti, ecc. dalla Sicilia alla Scozia, da Lisbona all’Uzbekistan, con puntate sin in estremo Oriente.
Tesi sostenuta quasi maniacalmente, senza tentennamenti:
la Peste nera non era peste. Ancora: Martin A. Lynn, Plague? Jesuit Accounts of Epidemic Disease in the 16th Century (Sixteenth Century Journal Publishers, 1996); e, a cura di M. Signoli, D. Chevé, A. Pascal, Peste: entre épidemies
et sociétés (Università degli studi di Firenze 2007), che raccoglie gli atti del colloquio tenuto a Marsiglia nel 2001.
Eccellente, del medico radiologo e medievalista Fabio Cavalli il saggio “Considerazioni sulla storia della peste in
Europa nel medioevo e nella prima età moderna” uscito su
“Quaderni Guarneriani”, 6 (nuova serie), 2015. Neanche
le analisi epidemiologiche sono conclusive. Robert J. Littman, autore di esaustive rassegne di ipotesi sulla paleopatologia e l’epidemiologia della “peste” descritta da Tucidide, ha elaborato suggestivi modelli matematici. In base alla
velocità del contagio, all’andamento della curva epidemica, al tasso di mortalità, alla durata della virulenza (diversi
anni), procede per esclusione di tutto ciò che non dovrebbe essere, ma non arriva a una conclusione su quel che potrebbe essere.
A conferma che gallina vecchia fa buon brodo, ho trovato ancora fresco malgrado l’età, Plagues and Peoples dello
storico dell’Università di Chicago William H. McNeill, che
risale al 1976. Il titolo della traduzione italiana, La peste nella
storia. L’impatto delle pestilenze e delle epidemie nella storia
dell’umanità non rende la vastità d’orizzonti del plurale “Pesti”.
Sulle “parole della peste”, verrebbe da definire “definitivo” lo studio del linguista della Sapienza Matteo Motolese,
Lo male rotundo. Il lessico della fisiologia e della patologia nei
trattati di peste fra Quattro e Cinquecento (Aracne 2004), accompagnato da un esteso glossario.
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Ratti, pulci e altri animali
Un’ampia bibliografia della ricerca senza fine per il ruolo
di ratti e pulci nella peste si trova in Anne Karin Hufthammer e Lars Walløe, “Rats cannot have been intermediate hosts for Yersinia pestis during medieval plague epidemics in
Northern Europe”, Journal of Archaeological Science Volume
40, Issue 4, April 2013. Documentato e di piacevole lettura
“La storia della pulce nell’arte e nella letteratura” di R. Roncalli Amici, storico dell’American Association of Veterinary
Parassitologists, in Parassitologia 46, 2004. Già nel titolo
chiama in aiuto Sherlock Holmes per individuare il colpevole delle grandi epidemie, se fu peste o cos’altro, il saggio di
Stephen Porter, ‘An historical whodunit’, Biologist , 2004, 51
(2): 109–13. Le procedure da polizia scientifica, con tecnica
Eva (ethyl vinyl acetate) praticate sui registri dei morti della
peste di Milano del 1630 sono descritte in dettaglio in “Of
mice and men: Traces of life in the death registries of the
1630 plague in Milano”, di Alfonsina D’Amato, Gleb Zilberstein, Benedetto Luigi Compagnoni, Pier Giorgio Righetti, in Journal of Proteomics (https://doi.org/10.1016/j.
jprot.2017.11.028. Su come furono eliminati, o meglio si
pensava di eliminare i topi dalle stive delle navi: Sulphuric
Utopias: A History of Maritime Fumigation, di Engelmann,
Lynteris.
Italia all’avanguardia contro il contagio
Classici impagabili, anche se purtroppo ormai difficili da
trovare, sono Paolo Preto, Epidemia, paura e politica nell’Italia moderna (Laterza 1987) e Franco Cordero, La Fabbrica
Della Peste (Laterza1984). Molto ricco di saggi di autori di
valore, nonché di illustrazioni, ancora insuperato malgrado
l’età (ha passato la quarantina) è Venezia e la peste 1348/1797,
il catalogo della mostra organizzata dal Comune di Venezia
nel dicembre 1979 (Marsilio 1980). Carlo M. Cipolla ha una
produzione sterminata sull’argomento, di affascinante e pia304
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cevolissima lettura, tal quale fossero romanzi, anche se fondata su una rigorosa, paziente e fortunata ricerca negli archivi. Il pestifero e contagioso morbo. Combattere la peste
nell’Italia del Seicento (Il Mulino 2012), riprende le lezioni
all’Università del Wisconsin-Madison tenute nel settembre
1978 e pubblicate nel 1981 negli Stati uniti, col titolo Fighting the Plague in Seventeenth-Century Italy. Contro un nemico invisibile. Epidemie e strutture sanitarie nell’Italia del
Rinascimento (Il Mulino 1986) riunisce I pidocchi e il Granduca, Cristofano e la peste e Chi ruppe i rastelli a Montelupo?.
Del 1989 è Miasmi e umori, nel quale Cipolla, “frugando e
rifrugando tra le carte” dell’Archivio di Stato di Firenze mostra quanto nel XVI secolo il Magistrato alla Sanità dello Stato fiorentina fosse all’avanguardia in Europa in fatto di prevenzione sanitaria e dell’igiene pubblica. Il burocrate e il
marinaio. La «Sanità» toscana e le tribolazioni degli inglesi a
Livorno nel XVII secolo racconta l’impatto, anch’esso senza
tempo si potrebbe dire, tra l’arroganza commerciale all’inglese e la burocrazia all’italiana.
Un altro studioso molto attento alle sue conseguenze
economiche e demografiche è lo storico dell’economia e demografo Guido Alfani, autore de Il Grand Tour dei cavalieri
dell’Apocalisse. L’Italia del «lungo Cinquecento» (1494-1629
(Marsilio 2010). Sempre di Alfani e Alessia Melegaro, anche
lei bocconiana, Pandemie d’Italia. Dalla peste nera all’influenza suina: l’impatto sulla società, (Egea 2010).
Sui provvedimenti sanitari nei singoli Stati italiani, e le
reazioni che suscitarono, anche: Paolo Ulvioni, Il gran castigo di dio: Carestia ed epidemie a Venezia e nella Terraferma,
1628-1632, Franco Angeli 1989; Giulia Calvi, Storie di un anno di Peste Comportamenti sociali e immaginario nella Firenze Barocca (Bompiani 1984), un altro classico, in cui l’autrice
analizza tra l’altro 300 processi criminali per violazione di
regolamenti sanitari; sempre di Giulia Calvi: L’oro, il fuoco,
le forche: la peste napoletana del 1656, Archivio Storico Italiano Vol. 139, No. 3 (509) (1981); e il più recente John Henderson, Florence Under Siege: Surviving Plague in an Early
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Modern City (Yale University Press 2019). Infine, per l’orrendo, seppur efficace metodo con cui mettere fine alla movida in tempo di epidemia: Paccagnini, E., (a cura di), Edizione critica di “Paolo Bellintani, Dialogo della peste”
(Scheiwiller, 2001). Per la chiusura delle case degli appestati
in Inghilterra durante l’episodio epidemico del 1636, il saggio di Kira Newman: “Shutt Up: Bubonic Plague and Quarantine in Early Modern England” in Journal of Social History 45, 3 (March 1, 2012).
Diari autentici e di fiction
Su Daniel Defoe, ovvero Mr. Robinson: Margaret Healy.
Defoe’s journal and the English plague writing tradition, in
Literature and Medicine, 2003; Nicholas Seager, Lies, Damned Lies, and Statistics: Epistemology and Fiction in Defoe’s
“A Journal of the Plague Year” , in The Modern Language Review Vol. 103, No. 3 (Jul., 2008); Stephen Brown, Making
History Novel: Defoe’s Due Preparations and a Journal of the
Plague Year
The Dalhousie Review, 1987; Benjamin Moore, Governing discourses: problems of narrative authority in “a journal
of the plague year”, The Eighteenth Century Vol. 33, No. 2
(Summer 1992).
L’idea di una lettura comparata dei diari (autentici) di
Pepys e (di fiction) di Daniel Defoe con quello (autentico,
ma non privo di fiction) della scrittrice contemporanea Fang
Fang mi è venuta appena ho avuto per le mani Wuhan. Diari
di una città chiusa, pubblicato da Mondadori e in edicola con
Repubblica.
La Fondazione Ivo de Carneri ha pubblicato nel 2016 un
libriccino (Vibrio. Il viaggio del colera verso l’Europa e il caso
inglese di metà ottocento) che raccoglie il passo di Engels sulle “Grandi città”, e scritti di Giacomo Tommasini, docente
di medicina a Parma e Bologna, autore di Ricerche Patologiche Sulla Febbre Di Livorno Del 1804, Sulla Febbre Gialla
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Americana, Arricchite Di Una Memoria Sulle Febbri Contagiose (1833), e John Snow, medico della regina Vittoria e autore di un trattato On the Mode of Communication of Cholera (1824).
Unzioni e altre fantasie diaboliche
Sugli untori e le credenze della “peste manufatta”, oltre
ovviamente alle vere e proprie miniere che si trovano in Cordero e Preto, anche: Yves-Marie Bercé, “Les semeurs de peste”, in La vie, la mort, la foi, le temps. Mélanges offerts à Pierre Chaunu. Paris, Presses Universitaires de France 1993. E,
soprattutto l’enorme quantità di materiale messa insieme da
Samuel K. Cohn Jr. in Epidemics: Hate and Compassion from
the Plague of Athens to AIDS (Oxford University Press,
2018). La cui tesi, controcorrente quanto quella sulle pesti
che non furono pesti, ma interessantissima e argomentata
con passione, e comunque di buon augurio, è che la ricerca
del capro espiatorio, l’odio, è meno diffuso di quel che si potrebbe ritenere a pima vista. Più spesso, nel corso dei secoli,
di fronte alle epidemia prevalgono ragione, compassione, solidarietà. Per le prime teorie del complotto e i primi processi
contro gli engraisseurs nella Ginevra calvinista, già un secolo
prima dei processi agli untori di Milano: Plagues, Poisons
and Potions: Plague Spreading Conspiracies in the Western
Alps C.1530-1640 di William G. Naphy (Manchester University Press 2002).
Il classico che fa le pulci a Manzoni è Peste e untori nei
“Promessi Sposi” e nella realtà storica di Fausto Nicolini (Laterza 1937), mentre l’introduzione di Leonardo Sciascia alla
Storia della colonna infame per l’edizione Sellerio del 1981 è
ripubblicata in Cruciverba (Adelphi 1998).
Contro i medici, applausi ai ciarlatani
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Contra medicos
Naturalmente Petrarca, di cui la Invective contra medicum è stata pubblicata e tradotta a cura di Francesco Bausi
da Le Lettere, per l’Edizione nazionale delle Opere di Francesco Petrarca. E anche l’attentissima disamina de “Le Senili
mediche”, di Monica Berté e Silvia Rizzo, curatrici per le Senili della Edizione Nazionale. Un gioellino concentrato di
rimandi alle fonti classiche il saggio di Giordana Pisi su Il
medico amico in Seneca (Università di Parma, 1983). Un riassunto della polemica tra Petrarca e Chauliac, senza che si
concluda se Petrarca diffamò l’archiatra dei Papi di Avignone o viceversa, in Petrarca e la Medicina di Maurizio Basile,
in Annali italiani di chirurgia, 2007.
Su Rabelais e la medicina in Gargantua e Pantagruele:
Hobart Brenton, “Les récits et les traités de la peste au début
du XVIe siècle et les deux premiers livres de François Rabelais (1532-1542)”, in La Peste à la Renaissance. L’imaginaire
d’un fléau dans la littérature au xvie siècle, (Classiques Garnier 2020). E anche, di Alison Williams: “Sick Humour,
Healthy Laughter: The Use of Medicine in Rabelais’s Jokes”
in Modern Language Review, July 2006, Volume: 101, Issue:
3. Sulla figura del medico nella letteratura spagnola dei siglos
de oro, il documentatissimo Le Personnage Du Medecin et La
Relation Medecin-Malade Dans La Litterature Iberique XVIe
et XVIIe Siecle di Yvonne David-Peyre (Ediciones hispanos
americanas, Paris. 1971)
Un testo di tutto rispetto sui falsi medici è, di Giorgio
Cosmacini, medico e filosofo, autore di numerosi libri sulla
storia della medicina: Ciarlataneria e medicina. Cure, maschere, Ciarle, pubblicato nel 1998 da Cortina, nella collana diretta da Giulio Giorello. Ma anche, trovato online, Farmacisti, ciarlatani e cerusici (appunti per una conferenza del 2014),
di Federico Mion. Sulla “prova” della peste e l’uso dei bambini come cavie: “Jean- Jacques Hémardinquer, L’ « essai de
peste » au XVIIe siècle” , in Revue d’Histoire Moderne &
Contemporaine Année 1976
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L’epidemia illustrata
The Germ Lab: The Gruesome Story of Deadly Disease, illustrato da John Kelly e scritto da Richard Platt è un libro
per bambini in cui la storia degli agenti patogeni è raccontata
dagli animaletti che li trasmettono (Kingfisher, l’edizione
2020 è aggiornata al Covid-19). Anche l’autrice dell’illustrazione del 1926 riprodotta sulla copertina di questo volume,
Kitty Shannon, ha illustrato libri per bambini.
Sulle arti figurative nella pittura italiana del Rinascimento e del Barocco: Hope and Healing: Painting in Italy in a Time of Plague, 1500-1800 (Worcester Art Museum 2005), con
una eccellente monografia di Franco Mormando, e altri saggi
importanti. Bosch and Bruegel: From Enemy Painting to
Everyday Life è il titolo del ponderoso e magnificamente illustrato saggio del critico d’arte Joseph Leo Koerner pubblicato nel 2017 dalla Princeton University Press. Raccoglie un
ventennio di ricerche su e attorno i “mondi paralleli” di Bosch e Bruegel e quel che accomuna le loro formidabili fantasie. Anche: Bruegel and the Creative Process, 1559-1563di
Margaret Sullivan (Routledge, 2018), e per meglio assaporare quanto c’è di spassoso nel pittore fiammingo: Pieter Bruegel And The Art Of Laughter (University of California Press
2006) di Walter S. Gibson.
Sul più generale tema della raffigurazione della morte:
Humana Fragilitas. I Temi Della Morte in Europa Tra Duecento e Settecento, a cura di Alberto Tenenti (Clusone, Ferrari, 2000). Il volume contiene numerosi saggi e un’amplissima
scelta di illustrazioni sulle Danze macabre in Italia, in Francia e nel Nord Europa. E ancora, a cura di Sergio Rossi:
Scienza e miracoli nell’arte del ‘600. Alle origini della medicina moderna. Catalogo della mostra a Roma, palazzo Venezia,
18 marzo-2 giugno 1998 (Electa). Il Centers for Disease Control and Prevention pubblica dal 1995 la rivista Emerging Infectious Diseases. Una selezione di 92 copertine, accompagnate ognuna da un breve saggio su una malattia contagiosa,
è stata pubblicata nel 2014 da Oxford University Press. Per
vignette e illustrazioni sulle le altre “pesti” ottocentesche:
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Patrice Bourdelais e André Dodin, Visages du cholera (Belin
1987).
Un riferimento classico, benché di oltre mezzo secolo fa,
è il denso e illustratissimo articolo di Henri Mollaret e Jacqueline Brossollet: “La peste, source méconnue d’inspiration artistique” nell’annuario 1965 del Museo di Anversa
(Jaarboek 1965 - Koninklijk Museum voor Schone Kunsten –
Antwerpen). Degli stessi autori, su Napoleone e gli appestati
in Egitto, il documentatissimo saggio “A propos des ‘Pestiférés de Jaffa’ de A.J. Gros” in Jaarboek 1968 - Koninklijk
Museum voor schone kunsten, Antwerpen. Sul tifo nella campagna di Russia: The Illustrious Dead: The Terrifying Story of
How Typhus Killed Napoleon’s Greatest Army, di Stephan
Talty (2009).
Per la nomenclatura e i colori della peste cinesi sono indebitato ad Angela Ki Che Leung, “The Evolution of Chuanruan Contagion in Imperial China”, in Health and Hygiene
in Chinese East Asia: Policies and Publics in the Long Twentieth Century (Duke University Press 2010), che contiene anche il saggio di Marta Hanson “Conceptual Blind Spots, Media Blindfolds: The Case of SARS and Traditional Chinese
Medicine,” Riguardo le mascherine e i dispositivi di protezione individuale: Christos Lynteris, Plague Masks: The Visual Emergence of Anti-Epidemic Personal Protection Equipment in Medical Anthropology 37: 6, 2018.
Le danze macabre
Uno studiosa che fa venire voglia di leggere tutto quel
che scrive, al pari di Cipolla, è Chiara Frugoni. Per citarne
uno solo dei molteplici interventi sull’argomento, a proposito del Trionfo della morte nel camposanto di Pisa: “Altri luoghi, cercando il Paradiso (il ciclo di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa e la committenza domenicana)”, in Annali della
Scuola Normale Superiore di Pisa, 1988. È del 1974, ma resta ancora un testo di riferimento Buffalmacco e il trionfo della morte di Luciano Bellosi. Il testo classico sulla danzamania
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è quello dell’ottocentesco professore berlinese Justus Friedrich Karl Hecker (ne era stata pubblicata nel 1832 anche
una traduzione italiana, col titolo Danzimania). Hecker, considerato il fondatore della “patologia storica”, è stato a lungo
il riferimento principale d’obbligo per lo studio delle epidemie nel Medioevo e dei testi attinenti. Mi sono servito anche
di “The Dancing Plague: a public health conundrum”, di L.J.
Donaldson, J. Cavanagh, J. Rankin, in Public Health Volume
111, Issue 4, July 1997 e “Seeds of Discontent: Dancing Manias and Medical Inquiry in Nineteenth-Century British Literature and Culture” di Molly Engelhardt, in Victorian Literature and Culture, Vol. 35, No. 1 (2007). Anche, a cura di
Sophie Oosterwijk e Stefanie Knöll: Mixed metaphors: the
“danse macabre” in medieval and early modern Europe (Cambridge Scholars, 2011). Sempre di Sophie Oosterwijk, studiosa attenta e molto prolifica, oltre al saggio Sensing Death:The Danse Macabre in Early Modern Europe (in Sense and
the Senses in Early Modern Art and Cultural Practice, Visual
Culture in Early Modernity, Farnham: Ashgate, 2012), sono
in libero accesso online: ‘Fro Paris to Inglond’? The danse
macabre in text and image in late-medieval England e ‘Alas,
poor Yorick.’ Death, the fool, the mirror and the danse macabre, nella raccolta a cura di S. Knöll, Narren - Masken - Karneval. Meisterwerke von Dürer bis Kubin aus der Düsseldorfer Graphiksammlung “Mensch und Tod” (Regensburg, 2009)
Dracula e compagnia
Sul folklore del Pifferaio magico di Hamelin e le diverse
ramificazioni e interpretazioni della leggenda: In search of
the Pied Piper di Radu Florescu, che è anche, anzi soprattutto un fantastico e indefesso raccoglitore di leggende e storie
su Dracula e il personaggio storico che ne sarebbe all’origine, Vlad Tepes, ovvero Vlad l’impalatore, feudatario valacco
prima alleato dei Turchi, poi loro acerrimo nemico. Sulle filiazioni e parentele di Dracula con altri grandi classici della
letteratura, impareggiabile, nonché molto divertente, Il vam311
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piro Innominato. Il ‘Caso Manzoni-Dracula’ e altri casi di
vampirismo letterario di Renato Giovannoli (Medusa 2008).
Ci sono un’infinità di studi sui rapporti tra Horror, letteratura e film. Legacies of Plague in Literature, Theory and
Film, di Jennifer Cooke (Palgrave Macmillan 2009), The Biology of Horror: Gothic Literature and Film di Jack Morgan
(Southern Illinois University Press, 2002) e Knowing Fear:
Science, Knowledge and the Development of the Horror Genre (McFarland and Company, 2008) di Jason Colavito mi
hanno dato delle idee, ma me le hanno anche confuse, affastellando un po’ troppo alla rinfusa temi e citazioni. Meglio
riferirsi direttamente alle rassegne di pugno dei grandi maestri dell’horror, che sull’argomento certamente sanno il fatto
loro. Uno più vecchio, H.P. Lovecraft, il quale nel saggio Supernatural Horror in Literature elenca tutti gli antecedenti
del genere, tutti coloro che, dai tempi dei cantastorie, dei
racconti antichi attorni al focolare hanno immaginato “streghe, vampiri, lupi mannari, e cadaveri viventi”, tutti coloro
che hanno scritto di cose che “fanno paura”. L’altro, anche
lui un maestro assoluto, ma più nostro contemporaneo, Stephen King, che in Danse macabre (a cura di Giovanni Arduino, Frassinelli 2000) copre con abbondanza di dettagli e
commenta tutto l’horror letterario e filmico americano dagli
anni cinquanta agli anni ottanta.
La paura fa novanta
Edgar Morin, intervistato da Bernard Paillard, « Les anti-peurs », Communications (Revue de l’Ecole des hautes
etudes en sciences sociales - Centre d’etudes transdisciplinaires) 57, 1993, numero monografico Peurs. Mi è servito anche Épidémies et contagions, L’imaginaire du mal di Gérard
Fabre (Presses Universitaires de France, 1998). Un classico
sulle conseguenze psicologiche di massa è l’enciclopedico La
paura in Occidente di Jean Delumeau, seguito dall’altrettanto
corposo sequel: Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XII al XVIII secolo.
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Sul terrore suscitato dalla “Russa”, di Mark Honigsbaum
(già citato sopra come autore di Pandemie): “The Great
Dread: Cultural and Psychological Impacts and Responses
to the ‘Russian’ Influenza in the United Kingdom, 18891893”, in Social History of Medicine July 2010. Sull’atteggiamento della stampa americana di fine Ottocento verso gli
immigrati, in particolare cinesi, italiani ed ebrei: “Contagion
from Abroad: U.S. Press Framing of Immigrants and Epidemics, 1891 to 189” di Harriet Moore, in The Atlanta Review
of Journalism History, September 2009. Per l’atteggiamento
della stampa parigina sull’epidemia di influenza russa del
1889-91, Frédéric Vagneron, “Une presse influenzée ? Le
traitement journalistique de la pandémie de grippe ‘russe’ à
Paris (1889-1890) », Le Temps des médias, 2014.
Quarantine!: East European Jewish Immigrants and the
New York City Epidemics of 1892 di Markel Howard (Johns
Hopkins University Press, 1997) racconta la storia di come a
fine Novecento, nell’anno in cui si ebbe il record nel numero
di immigrati negli Stati uniti, tifo e colera vennero associati
alle navi che trasportavano immigrati ebrei dall’Europa
dell’Est e portarono l’allora presidente Benjamin Harrison a
dichiarare la temporanea sospensione dell’immigrazione
ebraica.
Se non sbaglio, The Yellow Danger di M. P. Shiel non è
tradotto in italiano. Ci sono dei reprint. Ne parla diffusamente Elena Piana in “The Yellow Peril”, saggio pubblicato
in Wars, storia della Distopia militare, Quaderno 2016 della
Società Italiana di Storia Militare (Sism) e disponibile online.
Fantastici Virus
Heather Schell, “Outburst! A chilling true story about
emerging-virus narratives and pandemic social change”, in
Configurations, 1997 Winter e “The Sexist Gene: Science Fiction and the Germ Theory of History” in American Literary
History, Winter 2002;
The plague of utopias: Pestilence and the apocalyptic body
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di Elana Gomel, Twentieth Century Literature; Winter 2000;
46, 4; Suggestiva la raccolta di saggi Monstrous Geographies:
Places and Spaces of the Monstrous, a cura di Sarah Montin
(Inter-Disciplinary Press, 2013), a patto di non prenderla
troppo sul serio. Particolarmente divertenti: “Zombies in the
Colonies: Imperialism and Contestation of Ethno-Political
Space in Max Brooks’ The Zombie Survival Guide”, di Robert E. Saunders e “Enchanted Microcosm or Apocalyptic
Warzone? Human Projections into Bug World” di Petra
Rehling. Per la fantascienza e la scienza del dottor Michael
Crichton (un medico prestato alla letteratura): The Science of
Michael Crichton, a cura di Kevin R. Grazier. Dei saggi di
questa raccolta è quello del biologo molecolare e scrittore
Sergio Pistoi, su “The Andromeda Strain” ad avere attirato
la mia attenzione sulla quarantena spaziale per il ritorno di
Apollo 11 dalla luna. Tra parentesi: la supertecnologia Nasa
faceva acqua da tutte le parti, ci fossero stati davvero organismi letali tipo “Andromeda” sulla Luna, non saremmo qua,
né io che scrivo né voi che leggete.,
Ottimo, di Guido Silvestri, medico senigalliese che lavora alla Emory University ed è considerato uno dei massimi
esperti mondiali di HIV, Uomini e Virus. Storia Delle Grandi
Battaglie Del Nostro Sistema Immunitario, uscito nel 2019
col titolo Il virus buono e ripubblicato e distribuito nelle edicole con Repubblica nei giorni del Covid con un nuovo titolo, evidentemente ritenuto più confacente alla nuova situazione. Tanto valeva che, per lisciare il mood di quei giorni lo
intitolassero: “L’unico virus buono è un virus morto”. Ma
anche Ed Yong, Contengo moltitudini. I microbi dentro di
noi e una visione più grande della vita (La nave di Teseo,
2016).
Notevole talento narrativo, capacità di raccontare cose di
scienza come se fosse un romanzo, ha anche il microbiologo
e virologo dell’Università San Raffaele di Milano, Roberto
Burioni, autore di un tempestivo Virus, la grande sfida. Dal
coronavirus alla peste: come la scienza può salvare l’umanità portato nelle librerie da Rizzoli già agli inizi di marzo
2020. Sull’evoluzione delle pandemie, ambiente, mutazioni,
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salti di specie dei virus è diventato ormai imprescindibile
Spillover. L’evoluzione delle Pandemie di David Quammen.
Ma ho trovato ancora più affascinante, anche se assai più
complicato e difficile il libro successivo, L’albero Intricato,
Una nuova e radicale storia della vita, uscito in traduzione
italiana da Einaudi proprio in coincidenza con il lockdown
per Covid.
Molto bella la raccolta degli scritti animalisti di Primo
Levi curata da Ernesto Ferrero per Einaudi, Ranocchi sulla
luna e altri animali. Contiene, oltre all’intervista immaginaria
“In diretta dal nostro intestino: l’escherichia coli”, molte altre esilaranti delizie attinenti ai temi qui trattati, tra cui “L’amico dell’uomo”, su come gli assiriologi decifrano il linguaggio segreto dell’ordinamento delle cellule della tenia, “Il
salto della pulce”, sulla paura e l’ammirazione per i ragni e,
in generale, l’infinita continuità della vita. Ero stato allertato
da un articolo dello stesso Ferrero su La Stampa. Un altro
studioso di Levi, Francesco Cassata, aveva attirato con Fantascienza? (Einaudi 2016) la mia attenzione sulla sua normalmente trascurata produzione fantascientifica. I sommersi e i
salvati è fondamentale per interrogarsi sul tema, del tutto irrisolto, del come e perché malattie, epidemie e virus risparmiano qualcuno e non lasciano scampo ad altri.
Poteva andare peggio
Vorrei poter dedicare questo libro agli amici che si sono
sottratti alla lettura che gli avrei inflitto. Mi mancano. Sono
ormai molti. Ad uno di loro, Mario Pirani, avrei potuto rubare per questo saggio il titolo dell’autobiografia che scrisse
qualche anno fa: Poteva andare peggio.
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