Annamaria Iacuzzi
La voce della linea chiarisce
lo spirito del luogo
Via via che procede, la vita consente alcune cose. E c’è un momento in cui le cose che vengono
in mente sono fra le più belle, perché sono come improvvisate. Si prende un foglio di carta e
mentre si parla si fa un segno; quel segno è vivo. Alla mia età, c’è una sapienza che non avevo,
posso fare un ragionamento sull’architettura che prima non sapevo fare.
Ma quella felicità, mentre corri con il lapis incosciente non esiste più,
non è poco ciò che viene a mancare.
G. Michelucci, Elogio dello scarabocchio, in Dove si incontrano gli angeli
Nel tempo, studi rivolti alla grafica degli artisti pistoiesi del Novecento sembrano aver
messo in evidenza una sorta di ‘predisposizione’ o ‘attitudine’ naturale verso la pratica
del disegno, quasi a voler indicare in esso
un elemento identificativo del ‘genius loci’
locale. Probabilmente non si tratta proprio
di una ‘vocazione’ al disegno quanto piuttosto di una ‘cultura’ del disegno, che a Pistoia ha dato frutti copiosi con straordinarie
aperture di originalità in termini di invenzione e di ricerca.
Troppo pochi e lacunari gli elementi a disposizione, dunque, per poter generalizzare all’assunto di ‘Pistoia terra generatrice
di disegnatori’ (siano essi pure calcografi
o xilografi), quella che appare una sorta di
‘predilezione’ culturale. Eppure basterebbero personalità come Francesco Chiappelli
(1890-1947), Alberto Caligiani (18941973), Giulio Innocenti (1897-1968), Andrea Lippi (1888-1916), Mario Nannini
(1895-1918), Giovanni Michelucci (18911990) o Marino Marini (1901-1980), per
citarne solo alcuni nella prima metà del Novecento, a farci pensare il contrario.
Esiste tuttavia una tradizione ‘mitografica’
del disegno pistoiese. Nelle testimonianze
degli artisti raccolte durante gli anni di ricerca per il Centro di Documentazione sull’Arte
Moderna e Contemporanea pistoiese, molti
ricordi avevano ad argomento la bravura disegnativa di Lippi, di Nannini, di Caligiani,
di Chiappelli, di Marini e di altri ancora che
l’accalorata e ammirata memoria narratrice
contribuiva a innalzare alla fama di eroi. In
Aldo Frosini o in Valerio Gelli l’emozione
del ricordo si saldava all’esperienza vissuta
in prima persona: nel secondo dopoguerra
la lezione del disegno, impartita da Bugiani,
Cappellini, Mariotti e Zanzotto alla Scuola d’Arte e nella campagna aveva la valenza
di un recupero in linea diretta con quanto
aveva, a sua volta, insegnato loro Giovanni
Michelucci (ma anche Giovanni Costetti) nei
primi anni Venti. Lezione per altro riaffermata, lungo gli anni Trenta, anche dall’altro ineludibile mentore culturale, Ardengo Soffici.
A partire dagli anni Cinquanta, poi, un vero
e proprio recupero della memoria disegnativa, era stato favorito dalle mostre della
Saletta Masaccio e della Sala Ghibellina che
67
Pagina a fronte
Marino Marini, Ritratto maschile,
1925, lapis su carta, cm 24,8x19,8,
Pistoia, Fondazione Marino Marini
spicchi
1. Mostre furono dedicate
anche al disegno e alla grafica di autori contemporanei (cfr. D’Afflitto, 2007).
scoperto ‘genio’, mentre disegna la pecora
su un sasso, da Cimabue a passeggio per la
campagna toscana (tutti noi abbiamo negli
occhi l’immagine rappresentata sulle scatole
di una nota marca fiorentina di pastelli, fondata – manco a dirlo – a Firenze nel 1920,
in un momento di pieno recupero delle italiche tradizioni). In una linea di ‘voracità’
o ‘compulsività’ disegnativa vanno lette le
testimonianze di Giulio Innocenti che si dichiara autore di “migliaia di disegni”, o di
Egle Marini (1901-1983) che riferendosi
all’indocile fratello adolescente, Marino, lo
dice appagato e acquietato dal disegnare. E
vale su tutte la memoria del noto incisore
Francesco Chiappelli, conclamato accademico del disegno, che proprio al disegnare
affida indelebili ricordi di ragazzino: “Fin da
bambino pur facendo le scuole classiche, io
ebbi passione grandissima per le arti figurative e i miei quaderni di latino erano ricchi
di spropositi e di disegni. […] Alle scuole
ho fatto sempre una pessima figura. Ma tutto il tempo che potevo rubare allo studio
del greco e del latino, lo spendevo nel disegnare e nello scorrere con sete e curiosità le
Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti – del Vasari – o qualunque altro libro di
storia dell’arte” (Pogliaghi-Chiappelli 1965,
p. 10).
Leggere l’operare artistico nella sua interezza, senza scindere pittura e scultura dal disegno è compito arduo ed esula i confini di
questo testo che si prefigge piuttosto lo scopo di mettere in luce nuclei d’interesse per
chi voglia approfondire una tecnica spesso
considerata minore o accessoria; interessante al più come studio preparatorio di prove
artistiche maggiori. Nel suo insieme invece
il repertorio delle metodologie disegnative
messe in campo dagli artisti pistoiesi del
Novecento, fino anche alla contemporaneità, risulta estremamente variegato. Com’è
plausibile, infatti, spesso i disegni rispecchiano umori e sollecitazioni culturali con-
avevano animato la città con l’azione propulsiva di Vasco Melani, il quale appunto al
disegno aveva dedicato specifiche attenzioni, proponendo, per esempio, l’esposizione
di carattere antologico dei disegni di Andrea
Lippi (Iacuzzi 2007, p. 269 e nota 14).1
Certo il disegno è la porta prima del fare
artistico e su questo si basava l’insegnamento accademico ottocentesco, trapassato nel
Novecento; tuttavia dei veri e propri ‘primati’ del disegno e dell’incisione a Pistoia ci
sono stati: pittori e scultori che del disegno
hanno fatto una pratica costante nell’elaborazione della propria poetica, affidando
a esso anche un valore autoreferenziale di
opera conclusa. Nella scelta specifica di
seguire la linea del disegno, abbiamo sorvolato le specifiche esperienze dedicate alla
xilografia e all’incisione, rimandando per
esse all’imprescindibile lavoro di Edoardo
Salvi, pubblicato nel 2013 nel numero sette
di “Spicchi di Storia” proprio a memoria del
centenario della mostra del Bianco e Nero,
primo vero evento artistico di livello nazionale a Pistoia agli inizi del secolo.
In primo luogo, dunque, fu il segno. Spesso
questa ricerca lungo il Novecento, si tramuta in un’operazione quasi ‘archeologica’, uno
scavo a ritroso che inevitabilmente sembra
indicare nel disegno l’innesco generativo
dell’opera: sorprendente l’elenco di coloro
per i quali esso costituisce una pratica non
accessoria, luogo di un’autentica prassi di
ricerca tout court.
Per di più, il disegno non sembra essere stato nemmeno esclusivo appannaggio di pittori e scultori, come attestano le esperienze
dell’architetto Giovanni Michelucci o dello
scrittore Arturo Stanghellini (1887-1948).
Per alcuni la maestria grafica è anticipata da una sorta di premonizione infantile:
frequente il topos poetico dell’artista bambino che si rivela tale proprio nella precoce
predisposizione al disegno, secondo quello
che è il mito vasariano del piccolo Giotto
68
Annamaria Iacuzzi
temporanei, ma le metodologie con cui gli
artisti si avvicinano a questa pratica sono
molteplici e ci propongono interessanti direttrici d’indagine nell’ottica della ricerca
e della sperimentazione. I fondi consultati
per questa occasione di studio propongono una certa varietà di tipologie e modalità
disegnative: i disegni di studio finalizzati
all’elaborazione finale dell’opera; gli schizzi
affidati alla sfera privata del taccuino o del
quaderno – di diverso esito formale –; i disegni come opera conclusa; il segno grafico
come frontiera di ricerca estetica autogenerativa ed autoreferenziale.2
Lungi dal poter essere minimamente esaustivo, questo contributo si scontra con la
difficoltà del reperimento dei materiali, per
loro stessa natura, deperibili e fragili, la cui
conservazione si deve spesso all’accorata
cura dei familiari o alla passione dei collezionisti. Si devono certamente segnalare i
fondi di disegni conservati presso istituzioni
pubbliche e private, come la Biblioteca Comunale Forteguerriana di Pistoia, il Centro
Michelucci all’interno del Museo Civico di
Pistoia e la Fondazione Michelucci a Fiesole, la Fondazione Marino Marini, la Casastudio Fernando Melani, la Fondazione
Pistoiese Jorio Vivarelli, l’Archivio Sigfrido
Bartolini e gli archivi degli artisti laddove ci
sono pervenuti (e dove siamo riusciti a rintracciarli!). Da segnalare, inoltre, i nuclei dei
disegni acquisiti dalla Cassa di Risparmio di
Pistoia e della Lucchesia S.p.A. e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, a seguito anche della strenua opera di
valorizzazione della Scuola artistica pistoiese
profusa da Sigfrido Bartolini. Non vanno poi
dimenticati i disegni dei pistoiesi conservati
presso le collezioni del Gabinetto dei Disegni e Stampe degli Uffizi, dell’Accademia del
Disegno di Firenze, della Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti.
Un viaggio entusiasmante, dunque, che evidenzia anche – o meglio ‘soprattutto’ – la
necessità di una catalogazione sistematica,
la creazione di una banca dati del disegno,
che a Pistoia, forse più che in altre città, po69
Andrea Lippi, Ghiaccia, 1914-15,
penna su carta velina, cm 14x11,
Pistoia, Biblioteca Comunale
Forteguerriana
Andrea Lippi, Studio per Scioperanti,
1913 ca, china su carta, cm 14x17,5,
Pistoia, collezione V. Gelli
2. Per una disamina sul
valore del disegno nel XX
secolo, imprescindibili i
volumi: Disegno italiano del
Novecento, Milano, Electa,
1993; Disegno italiano fra
le due guerre, a cura di P.G.
Castagnoli, Paolo Fossati,
Modena, Edizioni Panini,
1983; L’arte del disegno nel
Novecento italiano, a cura
di Enrico Crispolti, Mauro
Pratesi, Bari, Laterza, 1990.
spicchi
di moderno e di propulsivo: un processo
di svecchiamento cui vuole prender parte
programmaticamente “La Tempra” che alla
sua prima uscita nel 1914 abbina una tavola fuori testo con la riproduzione di un
disegno di Giovanni Costetti, raffigurante
il volto di un’anziana. La tavola, come si
enuncia nel secondo numero del quindicinale («La Tempra» 1914, n. 2), avrebbe costituito un regalo prestigioso e d’eccezione
per ogni nuovo abbonato.
Tornando alla Mostra del Bianco e Nero:
in questa esposizione, come ben messo in
luce da Edoardo Salvi (Salvi 2013) sono le
acquaforti e le xilografie a farla da padrone,
ma alcuni autori si presentano anche con
disegni di cui per lo più non viene riportato
il titolo. Giulio Cesare Giachetti espone due
disegni; Giovanni Costetti presenta una decina di disegni di cui due a penna; mentre
Gigiotti Zannini si propone solo con disegni, ben sei. L’artista Emilio Notte, pugliese
di nascita, ma pratese di adozione, e legato
per vie d’amicizia ai pistoiesi Nannini e Caligiani (Il cerchio magico 2002; Salvi 2013,
pp. 54-58), è presente con tre disegni.
L’esiguo catalogo senza riproduzioni consente di spingerci poco oltre il mero elenco
di nomi e titoli, lasciandoci solo immaginare, magari per via comparativa con opere coeve, i lavori dei pochi artisti pistoiesi
presenti: mentre Raffaello Mazzei e Alberta Macciò espongono ciascuno un ‘tocco a
penna’; Francesco Chiappelli, presente con
molte incisioni, propone anche due disegni,
tra cui uno, registrato col titolo Magister
calcographus-Aquaefortis, suona tautologico. Alberto Caligiani, di cui è nota l’attività
xilografica a partire dal 1914 (Salvi 2013,
p. 54 e passim), si presenta con due studi
di testa di cui non è menzionata la tecnica,
e che per il termine ‘studio’ saremmo portati a immaginare come bozzetti o disegni.
La consuetudine a esporre disegni non gli
fu comunque estranea, dato che alla prima
trebbe rivelarsi utile a comprendere la straordinaria temperie culturale – fitta di snodi, intrecci, interferenze non solo cittadine
– che anima il secolo lungo del Novecento.
3. Qualche interesse per il
disegno, nell’ultimo quarto
dell’Ottocento, si evince dai
Rapporti sulle esposizioni
‘degli oggetti di belle arti
e manifatture’ organizzate
dall’Accademia di Scienze Lettere ed Arti, in cui
accanto al fior fiore delle
attività produttive del territorio pistoiese, si esponevano i lavori delle classi di
pittura, scultura e disegno.
Nei pressi della Mostra del Bianco e Nero
(1913)
Se nel ripercorrere l’operato delle generazioni artistiche pistoiesi del primo Novecento
ci si fanno incontro veri e propri campioni
delle arti grafiche, ciò si deve probabilmente a una fortunata combinazione di tempi,
di persone e di interessi. Ci riferiamo ovviamente a quella benedetta congiuntura geografica e biografica di personaggi del calibro
di Giovanni Costetti (1874-1949) e Renato Fondi (1887-1929), avvicinati dal più
giovane Michelucci e da altri tra musicisti,
pittori, scultori, architetti (la Famiglia Artistica); mentre giovanotti di belle speranze
come Lippi, Nannini, Innocenti, Caligiani
avevano già cominciato a muovere i loro
passi in città.
La nascita di questa Famiglia Artistica
(1912), impegnata, da un lato, nell’organizzazione di un evento di ampio respiro della portata della Mostra del Bianco e Nero
(1913) e dall’altra nella pubblicazione del
foglio a stampa “La Tempra”, si pone a snodo di uno dei momenti più fecondi della
storia cittadina. Nella dannunziana ‘città del
silenzio’ la modernità aveva già cominciato a bussare alle porte grazie alle fonderie
Lippi e Michelucci che, con la loro attività,
non solo avevano contribuito allo sviluppo
economico del territorio ma avevano anche
favorito la presenza di artisti di risonanza
internazionale.
Ai primi del Novecento, dunque, la passione per il disegno di un manipolo di artisti,
non ha niente a che fare con l’ardore collezionistico che poteva aver appassionato i
notabili, seppur progressisti, della Pistoia
ottocentesca.3 C’è uno spirito nuovo, diverso e, per certi versi, rivoluzionario che sa
70
Annamaria Iacuzzi
Pagina a fronte
Mario Nannini, I consigli dell’ava,
1914, carboncino e biacca su cartone,
cm 91x51,5, Pistoia, coll. M. Lucarelli
Mario Nannini, Il bacio alla croce,
1914, carboncino e biacca su cartone,
cm 91x51, Serravalle Pistoiese, coll.
privata
A sinistra
Mario Nannini, Figure e città, 1915
ca, matita e colore su cartone, cm
38,5x65,5, Pistoia, Centro Studi
Sigfrido Bartolini
mostra personale alla Locanda Maggiore
di Montecatini Terme nel 1915, figurano
alcuni ‘carboni su cartone’, opere che, per
un’associazione di idee legata alla tecnica, ci
rimandano a certi grandi cartoni dell’amico
Mario Nannini, riferibili agli stessi anni, e a
opere analoghe di Lorenzo Viani, anche lui
gravitante a Pistoia.
Tra i protagonisti non pistoiesi, possiamo
tentare di immaginare i disegni di Emilio
Notte: a quanto è dato di capire dai titoli
– Cieca, Civettina e Nudo di donna – dovette
esporre lavori che facevano riferimento a un
cupo realismo, che già si esprimeva nel dipinto Vecchi alla Galleria d’Arte Moderna di
Firenze. Qui, come in una processione, una
moltitudine di vecchi steccoluti e cadenti, avanza quasi immobile: i contorni sono
tracciati – per non dire scavati – con un segno scuro e frammentato. Proprio la visione
di quest’opera o di altre analoghe, a quanto
sappiamo da una corrispondenza (Il cerchio
magico 2002), avrebbe potuto indicare la via
da intraprendere anche a Nannini, a giudicare dai grandi cartoni che, proprio in un
parallelismo di tempi, il pistoiese produceva con modi e intenzioni che ce li fanno
percepire come opera conclusa: Il bacio della
croce, I consigli dell’ava, Il suono dell’organo;
Le esequie funerarie. Si tratta degli unici disegni esposti dal pittore in vita, tra il 1914 e
il 1915; l’occasione, accanto a Emilio Notte,
è la Prima Esposizione Invernale Toscana
a Firenze (Iacuzzi 2006). In questi lavori
l’assillo disegnativo, peculiare della prassi
creativa del giovane, approda a esiti dal carattere pienamente compiuto attraverso una
serie di ‘messe a fuoco’ susseguenti, come si
evince da alcuni studi dedicati alle singole
parti anatomiche dei personaggi in cui analizzare, oltre alle posture, l’affastellamento
rugato dei segni di un volto o di una mano.4
A questi cartoni deve essere avvicinato
anche il foglio Figure e città, singolare per
l’impaginato delle mura urbane di una città (Pistoia?) dinanzi alla quale si staglia, in
un variegato consorzio umano, un barbuto contadino in veste di pellegrino. In tutti
questi lavori il tratto del segno di contorno
sembra letteralmente ‘incidere’ il cartone
71
4. Si tratta dei cartoni
adesso esposti nell’atrio di
Palazzo Azzolini e facenti
parte del fondo dei disegni
di Nannini custodito dalla
Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia S.p.A.
spicchi
Sopra
Mario Nannini, Figura di donna, 1917
ca, carboncino e collage su carta,
cm 34,5x23,5, Pistoia, coll. Cassa
Risparmio Pistoia e Lucchesia S.p.A.
Mario Nannini, Secondo studio per
Scomposizione di figura, 1916-17,
carboncino su carta, cm 50,5x35,
Pistoia, coll. Cassa Risparmio Pistoia
e Lucchesia S.p.A.
A destra
Mario Nannini, Doppia scomposizione
di figura, 1916-17, carboncino su
carta, cm 26,5x35,5, Pistoia, coll.
Cassa Risparmio Pistoia e Lucchesia
S.p.A.
del supporto: una via che avrebbe potuto
portare all’incisione? Non lo sappiamo. Tuttavia, almeno in un caso, sembra evidente
che il giovane potesse avere sott’occhio la
xilografia: è il caso di una serie di tre/quattro disegni in cui una donna (con le mani
in grembo) è seduta appoggiata allo stipite
di una porta. Qui il segno, aggrovigliato e
filamentoso come in ‘odor’ di simbolismo,
suggerisce un avvicinamento, stilistico e tematico con la xilografia di Giulio Innocenti
Figura con lo scaldino del 1915, già pubblicato nella monografia curata da Sigfrido Bartolini (Iacuzzi 2006).
Data l’amicizia che legava i due giovani,
non sorprende l’affinità formale e poetica;
spesso tra i fogli dei due amici sovvengono
immagini di una campagna che fu ispirazione di entrambi quale incantato scenario di
posa nelle sedute di disegno all’aperto.
Se l’assenza di Innocenti nella mostra del
Bianco e Nero sta a riprova della sua non
ancora avvenuta conversione alla xilografia,
le assenze di Nannini e Lippi spiccano soprattutto in considerazione di quanto per
essi la pratica del disegno costituisse il nodo
centrale di ricerca nell’elaborazione della
propria poetica. In essi, e per primi, precedendo la generazione di Bugiani, Agostini,
Mariotti, Cappellini, sembravano risuonare incessantemente le parole che Costetti
aveva pronunciato nel discorso inaugurale
della Mostra del Bianco e Nero, quando, riandando alle origini della pittura, affermava
che “il nostro divino antenato, il primitivo,
ebbe, prima di aver coscienza del colore,
coscienza del disegno”, definendo dunque
il segno inciso, il ‘bianco e nero’, “la forma
d’arte più schietta e più sincera, più ingenua
e più intensiva”, dichiarandolo “indicatissimo per l’artista che voglia fissare il carattere schietto inconfondibile delle cose: che
non vedendo separate le forme dello spirito,
vuol trasportare il mondo nel suo interno e
72
Annamaria Iacuzzi
definirlo” (L’inaugurazione della Prima Mostra di “Bianco e Nero” 1913; Salvi 2004a,
p. 45; Bardazzi 1997, p. 39). L’indicazione
valida per l’incisione, certo può essere estesa
al disegno come generativo l’uno dell’altro.
Come non riconoscere in queste parole quel
continuo strenuo lavorio che, dagli opposti
stimoli culturali di Simbolismo e Futurismo,
logorava lo spirito e l’animo dei due giovani, Lippi e Nannini, nell’esercizio instancabile del disegno? Accomunati da una morte
prematura (tra il 1916 e il 1918) che con la
guerra, al contempo, segnò a Pistoia anche
la fine di ogni avanguardismo, Andrea Lippi
e Mario Nannini furono consacrati all’oblio.
Affidata la memoria a quel poco che rimaneva (disegni, poche tra pitture e sculture), di
essi sentiremo parlare solo saltuariamente,
in occasione di esposizioni volte a ricordare i giovani pistoiesi morti durante la prima
guerra mondiale, fino al recupero attuato da
Parronchi in studi degli anni Cinquanta.
Per Andrea Lippi, il disegno aveva costituito
un capitolo importante – per non dire centrale – della propria esperienza artistica: i ‘ro-
toli di magnifici’ disegni, affidati al fratello,
rimarranno a perpetrarne la memoria nelle
fumose stanze della fonderia paterna.5
Nel suo lavoro tutto è linea, tutto è segno:
“In quella guerra, su quel campo di battaglia, Andrea Lippi dominava la strategia e
la tattica, sul filo del suo discorso artistico,
che era, non importa dirlo, il filo conduttore
del “disegno”: sta il fatto che Andrea credeva
profondamente al disegno figurativo, quale
unica ed onesta essenza delle arti plastiche”
(Innocenti 1964). Ed infatti, la scultura nasce tra le sue mani come un volume che appena s’increspa, generato dalla mobile ‘melodia infinita della linea’ – felice allocuzione
di Giulio Innocenti – sotto la superficie duttile del gesso.
La metamorfosi del segno accompagna la
gestazione delle sue opere che si prefiggono
lo scopo programmatico di una sinestesia
totale tra musica, scultura, poesia, pittura:
una linea serpentina e contorta, attorcigliata come in un vortice magmatico dà vita a
sogni e chimere; visioni oniriche di dantesca
ispirazione; cupe premonizioni di disastri
73
Andrea Lippi, Uomo-AmbienteMetodicità, D107, penna a china su
carta da pacchi, cm 29x23, Pistoia,
Archivio Corti Lippi
Andrea Lippi, Tre teste (studio per
Ghiaccia infernale), D48, matita su
carta di taccuino a quadretti, cm
13,2x8,5, Pistoia, Archivio Corti Lippi
Andrea Lippi, Perseo, D42, penna
a china e sanguigna su carta, cm
33,5x20, Pistoia, coll. M. Lucarelli
5. Un album di disegni fu
depositato alla Biblioteca
Comunale Forteguerriana
di Pistoia dallo stesso fratello Ulisse, cfr. Iacuzzi, 2012.
spicchi
6. Pistoia, Archivio Corti
Lippi, foglio 10d.
sieme e particolari che si rintracciano nei
fogli di recupero o di carta lucida da ricalco
e nei taccuini del giovane: in essi è evidente
l’urgenza espressiva da cui essi scaturiscono ora come appunto veloce o abbozzo, ora
come analisi di un insieme e delle singole
parti. Così ricordava Lorenzo Viani: “ogni
gesto, che qui è tagliato dai colpi maestri
della stecca, era già stato fermato, in una
maniera assoluta, in una moltitudine di disegni, che variano dalla nitida anatomica, al
sottile segno lineare a penna su carta lucida”
(Viani 1925).
Lontano dall’afflato simbolista e dalla potenza evocativo-misterica del segno, ma tutto centrato ‘sulla realtà delle cose’ che lo circondano è invece il lavoro di Nannini, per
il quale il disegno è, al pari che in Andrea,
il vero e proprio ‘laboratorio’ dell’opera. Il
duro mondo dei contadini si trasforma nei
suoi disegni in una smagata visione, intima
e lieve, traballante sotto un segno che indaga con mille sintetiche varianti i soggetti: i contadini di Buriano, la zia Ester, gli
animali, l’aia, i covoni, la strada, la casa, la
chiesa. Scorrendo le carte nel fondo dei suoi
trecentosessantanove disegni, tutti su carta
gialla, conservato presso la Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia S.p.A., ripercorriamo l’esercizio strenuo del giovane
dinanzi alla natura.
Quando l’avventura futurista lo porterà a
produrre veri e propri capolavori di sintesi formale, come il Ritratto della zia Ester, è
ancora in pochi disegni, cinque/sei in tutto,
che possiamo cogliere la sperimentazione
dinamica del segno. La ricerca è affidata a un
tema domestico caro all’artista: una donna
che cuce (o ricama). Nel foglio Doppia scomposizione di figura, la sequenza sperimentale ci mostra lo studio delle linee di forza e
di compenetrazione dei piani dell’ambiente con la figura umana attraverso diverse
prospettive di visione. Gli angoli di scomposizione futurista e la geometrizzazione
bellici; animali ctoni; esseri ibridi dai corpi
ossessivamente deformati. Il disegno sembra
essere il mezzo espressivo a lui più congeniale: nel groviglio dei segni da cui si dipanano
visioni liquide, mutevoli, mai ben definite,
sta un vagheggiamento tutto romantico che
sottende una sottile pulsione psicologica, un
anelito verso un imponderabile mistero visto dalla soglia di un caos interiore.
Proprio in un’inquieta visione onirica, affidata alle pagine di In uno stagno verde, Lippi
penetrando il mistero di un palazzo popolato di spiriti, in cui è contemplata l’intuizione divina delle cose tutte, scorge armadi dai
reconditi segreti: in uno di essi sono custoditi ‘disegni d’ogni genere’: “[…]In questo
palazzo vi sono molti corridoi che separano
un piano dall’altro e sono ornati da statue
e da cariatidi strane quasi ispirate da certe mitologie romantiche […] Vi sono altri
sotterranei infine e certe stanze che io non
ò [sic] ancora potuto visitare, ma un giorno
non dispero di conoscerlo tutto. E tutto nasconde un incommensurabile segreto, una
riposta intuizione divina. […] L’incanto regna ovunque e tutta l’aria è pregna di mistero. – Ogni pianerottolo conduce a una porta
di cui io solo tengo le chiavi e le porte sono
tutte piene di sculture. E al di dentro certi
armadi dormono libri e disegni d’ogni genere che ancora non ho ben visto tutte oggetti
che forse [h]anno delle proprietà rivelatrici e balsami fatti con le erbe misteriose del
giardino” (Lippi 1992, pp. 3-4).
Che tra gli oggetti con ‘proprietà rivelatrici’ si debbano forse includere anche i disegni? Sicuramente per Andrea, essi sono rivelatori dell’idea verso cui tende la forma:
nel disegno egli rintraccia il mezzo per “far
comprendere di pari passo la creazione e la
gestazione il parto – e le diverse forme che
deve assumere l’idea metamorfosi prima di
giungere a quel risultato previsto e voluto
dall’artista”.6 Ecco dunque quella miriade di
disegni, copie, schizzi, bozzetti, studi d’in74
Annamaria Iacuzzi
dei profili umani richiamano la linea fratta
dei cartoni del 1915, ma tutto è proteso in
avanti verso il futuro, lontano anni luce! Tra
i più felici esiti del momento è il disegno con
inserti a collage Figura di donna: una delle
più alte e originali elaborazioni del disegno
futurista italiano, capace di far impallidire i
‘santi futuristi’ fiorentini e degna di essere
pubblicata su “L’Italia futurista”.7
Quella di Nannini è una finestra aperta sulla modernità futurista dall’angolo recondito
della campagna di Buriano; ma in città non è
l’unico a sentire questo richiamo. Si potrebbe infatti accostare a questi fogli futuristi, il
disegno Uomo-ambiente-metodicità di Andrea
Lippi in cui un uomo è compenetrato con
l’orologio che ne identifica il mestiere: il portiere di una fabbrica. Un disegno meccanicistico di un uomo-macchina che presagisce
la spersonalizzazione del lavoro industriale e
dei tempi moderni, in una incredibile sintesi
di idea-oggetto-simbolo (Iacuzzi 2012).
In anni limitrofi, un’eco delle sollecitazioni
futuriste in termini di una attenzione iconografica alla velocità e al movimento così
come ai mezzi di locomozione, si rispecchia
anche in fogli di altri autori: in alcune pagine di taccuino di Stanghellini, così come
in alcuni disegni di Innocenti centrati su
strane e sghembe prospettive, che a detta
dello stesso Giulio, costituiscono uno dei
nodi centrali della propria ricerca artistica
(Innocenti 1955).
Arturo Stanghellini (1887-1948), critico
d’arte, letterato e scrittore, fu un indefesso
disegnatore. Appartenente anche lui alla generazione di Michelucci, di Nannini e di Lippi, si trovò con la guerra a dover lasciare al
di là di quella linea di confine la passione per
l’arte e per gli studi (Bartolini 1987, p. 13).
Le sue attività di disegnatore e di scrittore
procedono di pari passo e, alla facilità dello
scrivere, si affianca spesso la facilità del disegnare, affidata a fogli sciolti e più spesso a
75
Arturo Stanghellini, Coro delle pentole
abbandonate, anni Dieci, china su
carta, cm 21,5x29, Pistoia, Biblioteca
Comunale Forteguerriana
Arturo Stanghellini, Prof. Alessandro
Chiappelli (1911), china su carta,
16,3x15,5, Pistoia, Biblioteca
Comunale Forteguerriana
Arturo Stanghellini, Pattinatori, 1922,
matita blu su carta, cm 25x16, coll.
M. Lucarelli
7. Sappiamo che l’inclusione di Nannini nel gruppo
futurista fiorentino non avvenne, per la vicenda che lo
vide in contrasto con Primo
Conti cfr. Morozzi 1995;
Iacuzzi 2006.
8. Si tratta di alcune pagine pubblicate nel catalogo
Il cerchio magico 2002, pp.
170-172.
spicchi
9. Se ne registra la presenza
anche alla mostra del Bianco e Nero alla Saletta Masaccio nel 1947.
10. Alla testata dovette
collaborare per le tavole
mondane da Viareggio anche il caricaturista Alberto
Manetti con lo pseudonimo ‘Brivido’, poi redattore
del «Brivido sportivo». Tra
gli altri collaboratori anche
Ripo Ripaoni (Salvi 2007;
Salvi 2004b).
11. Non accessibili al momento di questo studio
alcuni fondi di disegni sia
di Mazzei che di Stanghellini in collezione privata e
oggetto di futura pubblicazione.
più grandi dimensioni, Alessandro è colto in
una domestica scenetta in cui alle capacità
caricaturali di Arturo si affianca la facilità
della parola scritta con un Coro delle pentole abbandonate che in sottofondo gorgoglia
così: “Profittiam della tenzon con pronta
ebullizion/ con pronta ebullizion/ tosto il
brodo se ne vada/ e sul fuoco tutto cada/ la
frittata affumicata/ resti al fondo appiccicata/
Puffete, piffete/ ciffate/ cioffete/ sciu/ sciu/
giù/ giù/ schup/ schip/ pisc/ posc/ pi/ pi/
pi…”. Mentre all’altro zio, Alberto Chiappelli, è dedicato un disegno a matita in cui
è messa in berlina la società pistoiese a teatro, durante una rappresentazione nel 1921
dell’operetta Lodoletta di Mascagni.
Sempre nel giro dei caricaturisti pistoiesi, è
doveroso rammentare Luigi Mazzei (18821968), i cui legami di amicizia con Viani,
ci riconducono alla stagione de «Il Giornalissimo», rivista mondana delle stazioni
balneari e termali, pubblicata a partire dal
1919 e sino al 1928. Sulla testata apparvero caricature e disegni di entrambi, nonché
tavole pubblicitarie a firma di Luigi Ciani,
come quella dedicata al cioccolato al latte
‘Abetone’ della Ditta Corsini. Mazzei, oltre
a prestare le sgorbie per riquadri pubblicitari, tiene la rubrica di profili caricaturali
destinata a immortalare le eminenti personalità in visita negli alberghi e alle Terme di
Montecatini e alla stazione balneare di Viareggio.10 Tutta la mondanità del momento
passa dal vaglio di Mazzei: personaggi dello
spettacolo, dell’arte, della cultura e della
politica, restituiti col segno fresco e immediato del caricaturista più navigato: a questo
clima appartiene il foglio con la caricatura
del pittore Giulio Innocenti attorniato da
una galleria delle proprie opere, riferibile
agli anni Venti e custodito presso l’Archivio
Bartolini. Mentre è ancora tutto da studiare
il disegno di Mazzei di questa stagione,11 cogliamo tratti della sua poliedrica attività in
alcuni bozzetti di costumi per il melodram-
taccuini. Sono proprio i taccuini a costituire, per Stanghellini, un orizzonte d’interesse
mai sopito: “Non so se sia stata ancora ben
capita la mia sviscerata simpatia per il taccuino; ad ogni modo per qualche ritardatario
voglio dichiararla ufficialmente. Io lo considero come uno dei più freschi e sinceri tra i
[…] tesori sia che da quelle squallide paginette parta la scintilla del capolavoro, sia che
rimangano un ammasso informe ed incoerente di appunti […] (Stanghellini, 1936).
Nei taccuini Stanghellini disegna e compone
testi in un processo osmotico, spesso facendo commistioni tra testo e immagini.
Il suo è un segno sintetico, nitido e veloce
che volentieri si presta all’illustrazione di vignette e caricature: nel disegnare a memoria
mostra l’estrema capacità, che lo contraddistingue tra gli altri, di cogliere i tratti salienti dei personaggi senza mai venir meno
a somiglianza e senza scadere nella caricatura bozzettistica e chiassosa, mantenendosi
sempre su un orizzonte di sprezzante eleganza. Un’attività disegnativa, la sua, destinata
all’uso personale o al circolo chiuso degli
amici cui sovente regala i suoi fogli. A parte
alcuni disegni satirici pubblicati su giornali
locali, segnalati da Bartolini nell’ancora imprescindibile volume sull’artista (Bartolini
1987), o gli schizzi pubblicati su «La Costa
azzurra», non si ricordano iniziative dello
scrittore volte a far conoscere i propri disegni: se si eccettua un’apparizione alla mostra
sindacale del 1932, l’unica mostra personale
dedicata a disegni e caricature, fu, a quanto
pare, postuma e organizzata nel 1949-1950
nelle sale del palazzo Ganucci Cancellieri
(Bartolini 1987, p. 341).9 Alcuni fogli sciolti, conservati nel fondo Chiappelli presso la
Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, ben ne
illustrano le capacità caricaturali, indirizzate ai notabili pistoiesi e allo zio Alessandro
Chiappelli, più e più volte ritratto con il gesto ‘distintivo’ della mano librata nell’aria in
atteggiamento declamatorio. In un foglio di
76
Annamaria Iacuzzi
Giulio Innocenti, Interno, 1916, china
su cartoncino, cm 37x52, Pistoia,
Fondazione Cassa Risparmio Pistoia
e Pescia
Giulio Innocenti, s.t., Dalla carrozza,
1916-1920 ca, penna su carta, cm
7x13, Pistoia, Centro Studi Sigfrido
Bartolini
Pagina a fronte
Luigi Mazzei, Cartolina del prestito
di guerra, 1915-20, Pistoia, coll. M.
Lucarelli
Luigi Mazzei, Caricatura di Giulio
Innocenti, 1925 ca, penna, colore
e lapis su cartoncino, cm 45,5x31,
Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini
77
spicchi
Giulio Innocenti, Il morto, 1916,
disegno colorato, Firenze, Gabinetto
Disegni e Stampe degli Uffizi
Testa di bimbo), che già aveva esposto alla
mostra del Bianco e nero, e il carboncino Ritratto della sorella dello scultore Mario Parri.
Se conosciamo la xilografia di Giulio (18971968) a quest’altezza poco documentato è il
segno non inciso.
Due disegni a lapis, riferiti al 1915, sono
pubblicati nella monografia a lui dedicata da
Sigfrido Bartolini. Si tratta di due terse vedute di Pistoia: Largo Santa Maria e Piazza d’Armi con la Fortezza, isolate nella pagina da una
cornice di linee concentriche che potrebbe
far pensare a una futura traduzione xilografica. Altri fogli coevi, pochi per la verità, li
incontriamo sparsi tra collezioni pubbliche
e private e costituiscono una vera e propria
scoperta. Dei disegni e incisioni esposti alle
Regie Stanze fa memoria lo stesso artista in
un’autopresentazione: “Più tardi espone alcuni disegni e xilografie discretamente lodati, alle Regie Stanze di Pistoia” (Bartolini
1978, p. 21). Al disegno Innocenti è naturalmente portato, egli stesso lo identifica come
linea costitutiva della propria esperienza: “e
disegnai, per quarant’anni di seguito, prima
con gli studenti di medicina, l’anatomia direttamente dai cadaveri, poi per la strada,
e nei campi e dovunque: disegnai sempre,
centinaia e centinaia di disegni, anzi migliaia” e tra quelli memorabili, lo stesso elencando i soggetti a cui si era dedicato, cita un
incunabolo che ci riporta al 1913: “Ritratto,
da quello di Manlio Mazzoncini – disegno
del 1913 – a quello di Bartoletti Danilo –
1934 –” (Innocenti 1955).
Nei disegni ben si colgono gli svariati interessi dell’artista, specchio, a detta di chi lo
conobbe, della sua proverbiale ‘indolenza’
che lo portava a intraprendere progetti che
difficilmente poi vedevano la luce: tra essi, a
riprova dell’amore per il segno, una ricognizione sul disegno degli artisti pistoiesi agli
Uffizi che, dilatata a dismisura comprendendo le grandi personalità del passato, non
vide mai la luce (Bartolini 1978). Ipnotiz-
ma in due atti, Mara di Virgilio Gozzoli, del
1919. Si tratta di disegni, poi passati con
il colore, che già fanno intravedere quelli
che saranno gli esiti pittorici di Mazzei negli
anni Venti.
Procedendo a lunghi passi verso la prima
guerra mondiale, almeno un’altra occasione
espositiva a Pistoia si rivela interessante per
seguire le tracce del disegno: la Mostra d’arte fra gli artisti pistoiesi per le famiglie dei
richiamati organizzata alle Regie Stanze nel
1915. In questa mostra il valore espositivo
dei disegni si lega soprattutto a un fattore
di necessità: le carte avrebbero potuto costituire un più facile e meno oneroso oggetto
di collezionismo in un momento di guerra?
L’esiguo catalogo di corredo, senza fotografie, lascia margini ancora aperti per future
ricerche. Da esso evinciamo la presenza
di non specificati disegni di Andrea Lippi
(quattro), di Giulio Innocenti (uno, esposto
insieme a due xilografie), e di tre disegni a
carboncino di Giovanni Michelucci (Impressione simbolica, La cieca, Impressione), di due
ritratti di Elena de’ Rossi (Testa di giovinetta;
78
Annamaria Iacuzzi
muro, uno siede sul pavimento, mentre nella stanza accanto si dispiega la visione parziale di una croce davanti a un altare. Forse
un tentativo sulla china dell’avanguardia
poi ripudiata?
Di sicuro c’è in Innocenti una vena noir: un
segno minimale e pulito, condotto con penna a china che produce grottesche visioni
in cui son messi in scena delitti e morti ammazzati, abbandonati ai bordi della strada o
sul letto di morte. Ve ne sono varie elaborazioni, datate tra il 1915 e il 1920, anche
nel nucleo dei disegni donato dalle sorelle
dell’artista al Gabinetto di Disegni e Stampe
degli Uffizi: opere importanti e rappresentative della sua intera produzione artistica.
Altri fogli ci mostrano la campagna in cui
fu a disegnare in compagnia di Nannini: in
alcuni casi la consentimentalità tra i soggetti
è patente, come nella visione di un contadino che si trascina con un cane al guinzaglio
sull’erta di una strada lastricata di campagna
che pare far eco a certi contadini di Nannini.
In elaborazioni più tarde spesso il segno è
terso e affidato a una linea continua che si
rincorre disegnando personaggi e natura sui
vari piani senza mai dare l’impressione di
staccare la mano dal foglio; mentre in altre la presa diretta dal vero, tradotta in un
segno veloce e sintetico, è rafforzata dalla
notazione dei colori per una successiva traduzione pittorica. E infine un Autoritratto
‘ipnotico’ condotto con segno deciso a carbone e ripassato a colore, dinanzi a una finestra da cui appare una casa contadina: il
rosso del paltò avvampa il pittore che lancia
sguardi di fuoco.
Tra i pistoiesi assenti alla Mostra del 1913,
malgrado la sua militanza nella Famiglia Artistica e i suoi rapporti con Renato Fondi,
ma presente come disegnatore alla Mostra
alle Regie Stanze nel 1915, troviamo Giovanni Michelucci, la cui prima attività grafica, nota anche per ‘incunaboli’ come la
xilografia pubblicata sul numero sesto de
zatore in erba, scrittore, pittore, ragioniere,
una fede totale Innocenti la ripone probabilmente nella xilografia: “Fui xilografo, e credo che morirò xilografo: quindi, prima cosa,
il nero sul bianco”. Di essa l’artista riconosce
due stagioni: l’una quella degli esordi tra il
1914 e il 1916 a scaturigine del contatto con
Caligiani; l’altra tra il 1939 e il 1942 in cui
tenta un’autonoma ricerca – secondo quanto
afferma – per fare dell’incisione “un quadro
artistico a se stante e non come arte sussidiaria o illustrativa” (Innocenti 1955).
Alla luce di queste dichiarazioni si intende il
lavoro di ricerca affidato al disegno che possiamo leggere attraverso i fogli a noi pervenuti. Di estremo interesse il fondo conservato presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, acquisito da Sigfrido
Bartolini, che a sua volta lo aveva avuto
in eredità dalle sorelle dell’artista. Questo
cospicuo nucleo di opere su carta offre la
possibilità di cogliere la varietà dei motivi
di interesse poetico tra i quali seppe muoversi il Giulio pistoiese, assecondando sia la
proverbiale ‘indolenza’, certo, sia un’innata
curiosità culturale. L’arco temporale documentato va dal primo decennio del Novecento agli anni Cinquanta/Sessanta, con
un’ampia e variegata gamma di tecniche
e supporti che comprendono il disegno a
china su carta o cartoncino spesso successivamente acquarellato; disegni a tempera in
punta di pennello; molti fogli di taccuino di
piccole e medie dimensioni con figurazioni
a pennarello dai colori sgargianti, come per
esempio il taccuino dedicato al ciclismo.
In uno dei fogli sparsi più interessanti, datato 1916, una linea pulita e continua descrive una strampalata e incongrua prospettiva
d’interno in cui si muovono silhouettes di
enigmatici personaggi, senza alcun legame
apparente, come elementi di un rebus insolvibile: un uccello vola lontano al di là di una
finestra, un altro è in gabbia, un tipo passa
in bicicletta, un altro cammina radente a un
79
Giulio Innocenti, Autoritratto, lapis
e colore su carta gialla riportata
su cartone, cm 47,5x34, Pistoia,
Fondazione Cassa Risparmio Pistoia
e Pescia
spicchi
Giovanni Michelucci, Nel torrente,
anni Dieci, matita grassa su carta
gialla applicata su cartoncino, cm
22,2x21, Pistoia, coll. L. Tronci
Giovanni Costetti, Ritratto di Giovanni
Michelucci, 1913 ca, lapis su carta,
cm 25,5x19,4, Pistoia, Centro Studi
Sigfrido Bartolini
12. Si inaugura proprio in
questi giorni la bella serie di iniziative dedicate al
disegno di Michelucci “Il
rinnovamento del Centro
di documentazione Giovanni Michelucci. Mostre
temporanee, incontri e visite guidate”, Pistoia, Museo
Civico, 29 ottobre 2014-18
gennaio 2015.
“La Tempra” nel 1914 («La Tempra» 1914,
n. 6), è stata ben rintracciata da Salvi (Salvi 2013). A questa mostra, dove figura tra
le fronde di una gioventù d’avanguardia,
presenta tre disegni a carboncino: Impressione simbolica, La cieca, Impressione. Da
quello che si può dedurre da alcune incisioni e xilografie, il ‘segno’ del poco più che
ventenne Michelucci si svolge tra accenti
liricamente incantati di una personale declinazione di ‘primitivismo’, nel cui solco
potevano porsi anche i disegni dello stesso periodo. Non dovettero essergli assenti
però afflati di simbolismo visionario con attrazioni ‘pauperistico-sociali’ (Salvi 2004a)
da quanto possiamo intuire dal disegno La
cieca pubblicato da Sigfrido Bartolini nella
monografia di Giulio Innocenti (Bartolini
1997, p. 19), ma a oggi non rintracciabile.
Noto invece il disegno Nel torrente, già pubblicato ne Il cerchio magico (2002) adesso in
collezione privata, in cui sembra di poter
leggere affinità linguistiche e tematiche sia
con le xilografie degli anni d’anteguerra sia
con altre riferite al 1919-’20.
La via del disegno rappresenta per Michelucci, e secondo una sua stessa indicazione,
una sorta di ‘mancata’ carriera (Bartolini
1978, p. 167): ancor prima che architetto, Giovanni, per la sua stessa formazione nell’azienda familiare e all’Accademia,
nasce disegnatore e incisore. Questa sorta
di ‘imprinting’ gli rimarrà addosso anche
quando, molto più tardi, nel ‘pensare’ edifici, il suo immaginario architettonico lo
conduce a disegnare reticoli di segni che si
snodano in radici, tronchi, strade, tracciati
umani, pilastri, città. Tutta l’opera di Michelucci potrebbe – o dovrebbe? – essere
riletta attraverso i suoi disegni, che sono,
anche laddove si configurano come elaborazioni progettuali, la parte portante del
suo ‘fare’ architettura. In questo senso, giustamente sono stati interpretati da Corrado
Marcetti (Marcetti 2002) come una sorta
di ‘diario grafico’ e indicati come la ‘rappresentazione più autentica del pensiero di
Michelucci’.12
A quest’altezza c’è da pensare che per Michelucci il disegno fosse la linea attraverso
cui perseguire un’idea di purezza che, per
mezzo di un esercizio di chiarificazione e
pulizia, ponesse l’animo dell’artista in quella condizione di compartecipazione che
consente di comprendere le cose tutte della
natura e del mondo.
80
Annamaria Iacuzzi
Pietro Bugiani, Ritratto di Corrado
Zanzotto, lapis su carta, cm 24,5x20,
Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini
Pietro Bugiani, Ritratto di Renzo
Agostini, 1927, carboncino su carta,
cm 69x50, Pistoia, Centro Studi
Sigfrido Bartolini
Pietro Bugiani, Ritratto di Alfiero
Cappellini, 1928 ca, sanguigna su
carta da spolvero, cm 33,2x23,1,
Montecatini Terme, coll. privata
Renzo Agostini, Ritratto di Umberto
Mariotti, 1930, lapis su carta, cm
42,5x27, Pistoia, Centro Studi Sigfrido
Bartolini
81
spicchi
Renzo Agostini, Ritratto di ragazzo,
1924, matita su carta, cm 36,3x22,3,
Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini
al suo fianco, anche Giovanni Costetti coltivava da tempo il disegno e, a diverso titolo
e con diverso ascendente, invitava i giovani,
con l’esempio e la frequentazione, a farne
una pratica giornaliera.
In questo momento il disegno è sicuramente l’esercizio degli animi che si cercano: per Renzo Agostini (1906-1989),
Pietro Bugiani (1905-1992), Umberto
Mariotti (1905-1971), Alfiero Cappellini
(1905-1969) e Corrado Zanzotto (19031980) esso è il viatico quotidiano verso la
formazione di un’identità, e non solo artistica. Una crescita che suona come un
riscatto nei confronti del mondo intero in
una città di provincia che ancora provincia
non è. Con le indicazioni di Michelucci e
sotto lo sguardo ‘critico’ di Costetti, questi
giovani vanno cercando ciascuno la propria strada attraverso l’elaborazione di un
segno che, al tempo stesso, possa condurli
in sintonia con la maestria dei primitivi e
catapultarli verso la modernità del Novecento. Il resoconto giornaliero del lavoro
è passato al vaglio in occasioni comuni,
spesso nell’aia o nella cucina di Agostini
a Sant’Alessio presso Candeglia, dove si
ritrova il Cenacolo ‘alla buona’ di questi
artisti: non di rado i risultati si declinano
in una incredibile comunanza poetica modulata però secondo sottili ma ben definite
inclinazioni personali. In un’ottica di convergenza d’interessi si dispongono sicuramente i ritratti, bellissimi, condotti graficamente con la perfezione dei grandi maestri
del passato ma con quell’aura d’incantato stupore che fa di essi la testimonianza
più fragrante del Novecento meno retrivo
e strapaesano. Sono gli apici del disegno
pistoiese tra le due guerre: il ritratto a disegno di Michelucci eseguito da Costetti
che dipingerà anche i ritratti di Agostini
e di Marino, il ritratto scultoreo di Marino a Lanza del Vasto, il ritratto di Mariotti
eseguito da Agostini, i ritratti di Agostini
Pietro Bugiani, Ritratto di ragazzo,
1926, sanguigna su carta marrone,
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe
degli Uffizi
Umberto Mariotti, Bambino che
dorme, 1927ca, lapis su carta, cm
39x35, Pistoia, coll. Elsa Mariotti
Dagli anni Venti. La lezione del disegno
al vaglio delle generazioni
Passata la prima guerra mondiale, l’idea di
un valore spirituale legato proprio alla pratica del disegno costituirà la scaturigine di
una poetica novecentesca del tutto originale nell’ambito delle province artistiche del
Fascismo, e farà dei due Giovanni, Costetti
e Michelucci, i mentori delle nuove generazioni attive tra le due guerre.
È credenza comune – e non solo tra gli
artisti delle generazioni successive – che,
stroncati i virgulti avanguardistici di Lippi
e Nannini, al passaggio di testimone tra una
generazione e l’altra, sia ancora Michelucci
a indicare la strada del ‘da farsi’ ai giovani
frequentatori della neonata scuola d’arte di
Casanova: uscire, andare per i campi e disegnare la natura il cui mistero incantato si
rivela nello stupore che si fa segno. In realtà
82
Annamaria Iacuzzi
e Cappellini eseguiti da Bugiani, quelli
intensissimi dei contadini eseguiti sia da
Agostini che da Bugiani. Sono tutti ritratti
che, nel solco ideale dell’ispirazione da Costetti, già affascinato da Holbein, cercano la
rarefazione del segno verso una linea limpida e sintetica, incisa come una punta secca.
I soggetti dei giovani pistoiesi sono tuttavia
da cercarsi nel circolo degli amici pittori o
nella campagna che li circonda. È difficile
considerare questi disegni come fogli di studio: non sembrano averne l’immediatezza
‘dal vero’. La tensione disegnativa è tale da
farceli percepire come estremo atto di sintesi formale; un’opera conclusa in cui la linea
pare decantata e sublimata da un processo
tutto mentale. Che il disegno condotto dal
vero venisse poi ripreso e distillato in studio? C’è da pensarlo.
Di tutt’altra sentimentalità è invece il ritratto del Ragazzo che ride! del 1929 di Corrado
Zanzotto, in collezione presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia.
Il pittore originario di Pieve di Soligo, che,
pur frequentando il gruppo, alternava periodi a Milano e nel Veneto, si mostra qui
aperto anche ad altre sollecitazioni culturali, seppure, almeno in un caso, sia documentata per via di disegno, la sua vicinanza
alla ritrattistica dalla linea tersa e sintetica
del gruppo, in un ritratto già pubblicato in
occasione della mostra La città e gli artisti
(La città e gli artisti 1980, p. 275). Anche per
lui il disegno costituisce l’origine della riflessione creativa, in cui, soprattutto in questo momento si coglie il punto di passaggio
dalla pittura alla scultura, che avviene appunto a cavallo tra gli anni Venti e gli anni
Trenta. Il suo tratto spesso risulta forte e
petrigno, il chiaroscuro robusto e l’impianto solido come si conviene a un disegnare
che già lascia intuire la massa della scultura:
“certe figure bloccate sono già di pietra: lo
denunciano le lisce e dure masse del capo
[…]. Una condizione di assorta fissità […]
Corrado Zanzotto, Uomo che ride!,
1929, lapis su carta, cm 39,5x31,
Pistoia, Fondazione Cassa Risparmio
Pistoia e Pescia
Renzo Agostini, Contadino, lapis su
carta, cm 31x22, Pistoia, coll. Anna
Agostini
Pietro Bugiani, Il mugnaio, lapis su
carta riportato su cartoncino, cm
35x26, Pistoia, Fondazione Cassa
Risparmio Pistoia e Pescia
fa sentire le ossa sotto la pelle tesa degli zigomi” (Da Via 1974, pp. 5-7).
Non di rado nei vari fondi archivistici di disegni consultati, tra le metodologie riscontrate, si trovano schizzi condotti su taccuini
o quaderni, in cui è evidente la traccia di riflessioni successive a un primo momento di
‘ripresa dal vero’. In altri casi il disegno costituisce solo un appunto compositivo per
future stesure pittoriche, e quindi i nomi
dei colori e i valori dei toni vengono puntualmente annotati sul foglio, in corrispondenza delle relative campiture. Una prassi,
questa, comune a molti artisti, da Bugiani a
Innocenti, da Bartolini a Lucarelli. Altra metodologia interessante, riscontrata su alcuni
fogli di Bugiani degli anni Trenta, è quella
di disegnare su una carta impressa con matrice calcografica non incisa: l’effetto conferisce una sorta di invecchiamento raffinato
all’immagine.
Se volessimo seguire le linee d’indagine del
disegno sperimentate dagli artisti attivi tra
le due guerre, potremmo scandagliare le sezioni del Bianco e Nero che, secondo la con83
spicchi
Pietro Bugiani, Il ponte del Paoli,
1925, lapis su carta, cm 19,8x27,07,
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe
degli Uffizi
Renzo Agostini, Paesaggio con albero
spoglio, matita su carta, cm 15x12,
Pistoia, coll. Anna Agostini
suetudine registrata dalle mostre del Sindacato Fascista di Belle Arti, erano proposte
a ogni occasione espositiva. A partire dalla
Prima Mostra Provinciale d’arte del 1928 la
decisione dei pistoiesi di affiancare alle opere esposte una scelta, anche numericamente nutrita, di disegni, appare non casuale,
ma come presa di coscienza di un dibattito
che andava animando l’ambiente artistico
contemporaneo a livello nazionale. Già nel
1919 De Chirico sulle pagine di «Valori Plastici» aveva attuato un recupero sistematico
del disegno, individuando in esso la prassi
fondante della pittura in un ritorno alla tradizione – e all’ordine – che vedeva contemporaneamente anche la frequentazione e lo
studio delle opere dal vivo nel museo. D’altro canto, lo stesso Soffici che si richiamava
alla tradizione del ‘3-4-500’, dichiarandosi
‘toscanamente realista’, indicava strade in
cui andare a cercare spunti di nuova ispirazione, contemplando tra esse certamente la
lezione del disegno degli antichi.
Contemporaneamente anche riviste fiorentine come «Solaria», «Il Frontespizio» e «Il
Selvaggio» rivolgono la propria attenzione
al disegno con un’importante azione di rivalutazione. Il 1° ottobre del 1926 «Il Sel-
vaggio» inaugurava la Mostra permanente
del Disegno Italiano, aprendo la strada a
una messe di collaborazioni tra cui figurerà, oltre a Maccari, Lega, Rosai e lo stesso
Soffici, anche Bugiani. In questo clima anche per i giovani artisti pistoiesi motivo di
incitamento alla pratica del disegno dovette
essere l’azione del ‘solariano’ Felice Carena
che, intorno al 1935, in qualità di direttore,
cominciava a costituire una collezione di disegni dell’Accademia di Belle Arti.
Da quanto evinciamo dal catalogo della mostra sindacale del 1928, l’esposizione non
proponeva una sezione di Bianco e Nero,
tuttavia molti dei pistoiesi si presentarono
con una nutrita serie di disegni, ritenuti quindi opera conclusa e finalizzata alla
comprensione dello stile e della personalità
artistica. Bugiani esponeva sei disegni in cui
aveva ritratto i personaggi del proprio universo disteso tra la Bure e Sant’Alessio. Nel
fondo conservato al Gabinetto di Disegni e
Stampe degli Uffizi, donato dallo stesso artista nel 1984, alcuni intensi disegni del 1923
ci restituiscono il clima di quello che doveva essere un esercizio quotidiano, rintracciabile dalla progressione delle date poste
in calce al foglio. Bugiani sembra perdersi
84
Annamaria Iacuzzi
Marino Marini, Rissa, 1929, lapis
e inchiostro diluito su carta, cm
22,3x24,3, Pistoia, Fondazione
Marino Marini
Marino Marini, Scena orientale, 1923,
matita su carta incollata su carta,
cm 17,2x13,2, Pistoia, Fondazione
Marino Marini
La mostra pistoiese si pone anche tra le prime apparizioni di Marino Marini come scultore, qui presente con una serie di ritratti.
A distanza di pochi mesi, nello stesso anno,
alla Galleria Bellenghi, insieme a Caligiani, la
scultura di Marino è ancora affiancata a disegni, tra cui si trovano alcuni studi di teste, un
Ricordo di Carnevale e il Cristo deriso. Come
ricorda Pirovano (Pirovano 1986), la maestria grafica di Marini era stata tramandata
dalla memoria della sorella Egle, che riferiva
di un suo esordio al disegno già dall’età di
dodici anni. Il bel nucleo di carte conservate
presso la Fondazione Marino Marini consente di ripercorrere gli anni di formazione,
dalle grafiche precocissime (Salvi 2013) ai
disegni che la stampa in occasione della Provinciale pistoiese definisce ‘piraneseggianti’
e che “parvero a tutti notevoli come il primo
svasamento di un temperamento fantastico e
originale a malgrado dell’antico maestro cui
facilmente si potevano ricondurre” (Franchi
1928). Di questo afflato visionario alla Piranesi sono certamente permeate alcune carte
in cui sotto architetture si dispongono affollamenti di persone in scene da caravanserraglio orientale.
La capacità di Marino di destreggiarsi tra
sollecitazioni e rimandi culturali è nota, e
si intuisce l’estrema facilità con cui il giova-
e ritrovarsi nella pratica del disegno della
natura, appena può scappa in campagna a
lavorare: ne scaturiscono esempi di lirismo
poetico ancora insuperato.
Tra i nove disegni di Agostini spiccava una
serie di studi di teste e ritratti “pieni di lodevole discrezione”, condotti con mano
ferma e occhio acuto, in cui “quel che di
una figura è linea, profilo, è colto con una
sorta d’instancabile e crudele ingenuità
vittoriosa che ricorda, senza imitarli, certi
astratti resultati della disegnativa incisione
di Picasso” (Franchi 1928, p. 23): il Ritratto
di ragazzo, riprodotto in catalogo certo è tra
i maggiori raggiungimenti del gruppo alla
mostra.
Angiolo Lorenzi (1908-1945) espose sette
disegni definiti ‘amorevoli’ tra i quali probabilmente figuravano fogli simili a quelli
donati poco dopo all’amico Bugiani e adesso
rintracciati in collezione privata: alcune sanguigne dal fare corsivo e aneddotico in cui
sono colti momenti della semplice vita della
montagna con una ingenuità sconvolgente
(Iacuzzi 1999).
85
spicchi
Alberto Caligiani, Ritratto di bimbo,
1927, sanguigna su carta, cm 29x23,
Pistoia, Fondazione Cassa Risparmio
Pistoia e Pescia
Alberto Caligiani, La portatrice,
1927, lapis e carboncino su carta, cm
46,5x31,5, Pistoia, coll. M. Lucarelli
pagina a fronte
Pietro Bugiani, Appuntapali, 1933
ca, carboncino e pastello su carta
da scena, cm 114x91,5 Pistoia,
Fondazione Cassa Risparmio Pistoia
e Pescia
Pietro Bugiani, Ritratto di contadina,
lapis su stampa calcografica non
incisa, Pistoia, Fondazione Cassa
Risparmio Pistoia e Pescia
Angiolo Lorenzi, Paesaggio con panni
tesi, anni Venti, lapis su carta, cm
17,2x22,4, Montecatini Terme, coll.
privata
Giulio Pierucci, Sull'aia, 6-81925, lapis su carta, cm 15x18,5,
Montecatini Terme, coll. privata
Silvano Palandri, Case e alberi, 1930,
cm 24x19, lapis su carta, Pistoia, coll.
M. Lucarelli
Marcello Lucarelli, Casore del Monte,
1943, inchiostro seppia e acquarello
su carta, cm 17,4x24,4, Montecatini
Terme, coll. privata
ne riesce a trovare una strada di originalità
malgrado gli esempi guardati. Pian piano la
visionarietà cede il passo a una nota di ‘novecentesca’ introspezione che puntualmente cogliamo nei ritratti. È proprio nel Ritratto del 1925 che si coglie anche in Marino la
vicinanza con il milieu culturale gravitante
attorno a Costetti e Lanza del Vasto, tra Pistoia e Firenze (Ragionieri 2007). Nel foglio
citato sembra chiaro il passaggio che di lì a
poco Marino avrebbe fatto verso la scultura:
la postura del personaggio che guarda con
una leggera torsione della testa e la velatura
sul volto rendono effetti tattili e atmosferici
propri di certe scabrose superfici scultoree
delle opere degli anni successivi, quando
sapientemente l’artista sceglieva di accostarsi all’arte etrusca come fonte autentica di
ispirazione.
Sempre alla mostra del 1928 spicca la scelta estrema di Caligiani, il quale decide di
esporre diciannove sanguigne, contraddistintive, secondo Raffaello Franchi, della
“facilità di mano di questo pittore che i disegni dimostrerebbero a tutta prima destinato a un’arte di grandi sviluppi se codesta
medesima facilità, e i gradevoli effetti ottenibili con la matita grassa e quella visione
leggermente deformante che mette in ogni
disegno del Caligiani un’impressione eccessiva d’originalità e di buon respiro, non lo
circoscrivessero nei limiti di coloro ai quali
la fortuna dei begli effetti è troppo liberale
per invitarli a prove di più duro impegno”
(Franchi 1928, p. 24). La scelta di esporre
disegni, dunque, dovette sembrare al critico
di poco impegno, se in essi intravide solo
‘il sospetto’ di una più alta pittura. I disegni
in questione, oggi sparpagliati tra una serie
di collezioni pubbliche e private, testimoniano sicuramente della svolta stilistica che
Caligiani intraprende negli anni Venti, entrando nella sfera culturale del Novecento e
rivolgendo il proprio sguardo verso il museo e i maestri del Cinquecento da cui trae
un segno grasso e sfrangiato che niente di
comune sembra avere con la linea tersa di
Bugiani o di Agostini. Ecco dunque: La portatrice, del 1927, una seppia, e un’altra serie
di disegni di umili soggetti, tutti da collocare
tra le pendici della montagna pistoiese. Fanciulli, contadini, animali, donne che fanno
86
Annamaria Iacuzzi
la treccia di paglia o la calza, pochi paesaggi:
con un tratto pastoso, ma nitido, Caligiani è
capace di risolvere un’intero disegno.
Tra gli altri artisti presenti alla Provinciale
del 1928 con opere su carta, si segnalano
anche Giuseppe Bertolli, con nove disegni,
il pratese Giulio Pierucci con undici e anche Cesare Gonfiantini, maestro di Bugiani,
autore di amabili vedute cittadine. Non più
come disegnatore o incisore, Michelucci –
già romano dal 1925 – espone nella sezione
architettura progetti riprodotti anche in catalogo, volti a documentare la nuova strada
professionale appena intrapresa (Vannucci
2009). Il disegno dovette però continuare a
interessarlo, come si evince dai fogli romani
pervenutici, dedicati all’architettura barocca.
La Prima mostra provinciale pistoiese, come
sappiamo, con l’intento di celebrare la scuola pittorica locale nel momento della nascita
della provincia (1927), fu piuttosto il punto di arrivo delle ricerche in atto almeno da
un quinquennio, e il gruppo, di lì a poco,
avrebbe intrapreso strade personali a fronte
di uno sfaldarsi di coesione che segna la fine
di un momento d’incanto. La rottura, come
ben sappiamo, fu determinata e segnata
dall’avvicinamento di Marini, Caligiani, Bugiani al Gruppo Novecentesco fiorentino
prima e al Novecento Italiano poi, e dal subentrare di Soffici nell’orbita dei riferimenti
culturali dei pistoiesi. L’intima convinzione
che la pittura dei giovani pistoiesi costituisse un unicum poetico permeato di stupore
e spiritualismo al tempo stesso, convinse
Lanza del Vasto a includere i giovani nelle
sue conferenze sull’arte in America e a organizzare una mostra a Berlino nel 1931,
denominata L’Arco, per la quale a Bugiani
chiedeva, oltre a opere pittoriche, proprio
alcuni disegni.
Anche alla Mostra del 1929, Arte pura, i pistoiesi si presentano con una nutrita schiera
di opere a disegno. Accanto a Bugiani, Cappellini, Caligiani, Agostini ormai francese,
Lorenzi e Pierucci che sembrano confermare le proprie scelte poetiche del 1928, si
registrano le presenze di Mauro Fondi con
alcune opere xilografiche, di Chiappelli e di
Andreina Nuti con alcune acqueforti.
Così lungo gli anni Trenta e i primi Quaranta, nelle esposizioni sindacali provincia87
spicchi
Giulio Innocenti, Studio di
Composizione, 1927, penna su carta,
cm 22x31,2, Pistoia, Centro Studi
Sigfrido Bartolini
Giulio Innocenti, Studio di
Composizione-Al mare, 1927, penna
su carta, cm 20x27,6, Pistoia, Centro
Studi Sigfrido Bartolini
Giulio Innocenti, Studio di
Composizione-Al pascolo, 1927,
penna su carta, cm 20,5x29,4,
Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini
Giulio Innocenti, Studio di
Composizione-Vita campestre, 1927,
penna su carta, cm 20x28,4, Pistoia,
Centro Studi Sigfrido Bartolini
pagina a fronte
Giulio Innocenti, Via Crucis, Gesù
davanti a Pilato, 1944, china su carta
da lucido, cm 51,5x71,5, Pistoia,
Fondazione Cassa Risparmio Pistoia
e Pescia
Giulio Innocenti, Bambino con
coniglio, 1931, tempera su carta, cm
33x49, Firenze, Gabinetto Disegni e
Stampe degli Uffizi
Francesco Chiappelli, Mosè con le
tavole della legge, china e tecnica
mista su carta, cm 31x24,5,
illustrazione per il volume Storia
Sacra di Tito Casini, 1939, Pistoia,
Fondazione Cassa Risparmio Pistoia
e Pescia
Francesco Chiappelli, L’arca di Noè,
china e tecnica mista su carta, cm
31x24,5, illustrazione per il volume
Storia Sacra di Tito Casini, 1939,
Pistoia, Fondazione Cassa Risparmio
Pistoia e Pescia
li pistoiesi – ma la ricerca dovrebbe essere
estesa anche alle occasioni regionali e nazionali come la Triennale, la Quadriennale e la Biennale (Toti 2007) – la scelta di
esporre disegni appare per gli artisti cittadini una scelta connaturata ai tempi e alla
propria indole.
Tra i più attivi nell’ambito del disegno in
questi anni è sicuramente Bugiani, impegnato adesso in grandi fogli che spesso traduce
in affresco e che evidenziano il suo avvicinamento al maestro del Poggio, Soffici, verso cui si indirizzano contemporaneamente
anche altri del gruppo pistoiese, come Cappellini. L’intero nucleo di questi disegni su
carta da scena, alcune volte marcati dai segni
della quadrettatura per il riporto, sono adesso conservati presso la Fondazione Cassa di
Risparmio di Pistoia e Pescia e costituiscono un campo interessante per lo studio del
disegno sia in riferimento all’enucleazione
dell’idea compositiva che precede la stesura
dell’affresco, sia in termini di opera finita. Il
disegno per Bugiani è, in questo momento
e ancora una volta, al centro delle proprie
riflessioni: “Nell’arte tutto è disegno. Quando una cosa è disegnata, è dipinta” – si leggeva sul suo quaderno di pensieri nel 1927
echeggiando chissà cosa –: quanto questa
affermazione risulta calzante per il nostro
pittore! In merito al disegno Bugiani prende posizione dalle colonne della testata cittadina «Il Ferruccio» che di tanto in tanto
mostra un vago interesse per questa produzione. Infatti nel 1933 pubblica L’Ombrone
di Bugiani, Paesaggio di Umberto Mariotti,
Ritratto di giovane di Cappellini, Ritratto di
Danilo Bartoletti di Innocenti, un paese di
Giuseppe Bertolli e, nel 1943, alcuni disegni
acquarellati con vedute di Casore del Monte
di Marcello Lucarelli. Su questa rivista, nel
1932, Bugiani scende in campo a distinguere le false strade del disegno dalle giuste, indicando tra le prime quelle del disegno illu88
Annamaria Iacuzzi
strativo e infantile, del disegno professionale
e dell’accademia, e indicando invece quella
corretta nell’esempio dei maestri del passato
rintracciati in Masaccio, Leonardo, Raffaello,
Michelangelo e Tiziano.
D’altra parte al disegno, come alla pittura –
verrebbe da dire – spetta un altro compito:
“Rendere con forza tutta la verità poetica di
una cosa conferendole vastità e stile fu il segreto di tutti i grandi ai quali fu concesso di
penetrare il mistero dell’universo mediante
l’amore, la saggezza, il Genio” (Salvi 2004b).
In questi anni è anche da segnalare la collaborazione di Bugiani con «Il Selvaggio»
sul quale è pubblicato nel 1933 il disegno
Casolare («Il Selvaggio» 15 dicembre 1933).
Già nel 1935 invece Cappellini aveva pubblicato su «Il Frontespizio» il disegno Il villone; mentre nel giugno del 1939 la stessa
rivista dedicò sia a Pietro che ad Alfiero
approfondimenti biografici corredati da disegni («Il Frontespizio» 1939, n. 6). Questa pubblicazione ci consente di verificare
lo stato del disegno nei due pittori. Bugiani
presenta paesaggi e figure intonate al corso
della sua pittura in questi anni, permeata da
atmosfere cupe e solenni, e ancora una volta
ripropone la litografia de L’Attesa. Cappellini pubblica paesaggi in cui il tratteggio crea
una tassellatura cromatica che, caratteristica
della sua pittura, sarà destinata a fare scuola negli anni a venire. Di questo periodo
sono anche alcuni fogli con figure colte in
momenti di profonda sofferenza: una sorta
di crudo realismo che ormai segna il passo
verso un disincantato sguardo sulla realtà
della vita.
Al disegno per l’illustrazione si dedica nel
decennio Francesco Chiappelli con le tavole a inchiostro acquarellato per l’Aminta del
Tasso e per il volume Storia Sacra di Tito
Casini (ambedue del 1939): i disegni da cui
prendono origine le illustrazioni sono adesso rintracciate presso collezioni pubbliche e
private e forniscono occasione di riflessione
circa tecniche e modalità di traduzione dal
disegno alla stampa.
Assente alla mostra del 1928, Giulio Innocenti ritorna a esporre tra i pistoiesi alla IV
Sindacale nel 1933. Malgrado la lontananza dalle esposizioni dovuta alla guerra e al
compimento degli studi, Giulio negli anni
Venti ha continuato a disegnare: una traccia
lieve, emersa tra i fondi consultati, ci mostra belle prove di studio per composizioni
datate 1927, dove si intuisce il passaggio in
atto dal segno inciso alla pittura. Si muove
dalle sponde di una sorta di primitivismo
che ricorda Van Gogh e Gauguin, a cui assomma l’amore per le piatte superfici decorative di Matisse. In altre elaborazioni la
89
spicchi
Umberto Mariotti, Paesaggio, anni
Quaranta, fotografia d’archivio
Alberto Caligiani, Casa nel bosco,
1930 ca, seppia su carta, cm 24,3x33,
Montecatini Terme, coll. privata
Alfiero Cappellini, Malato nel
letto, 1937, matita grassa su carta,
37,2x48,4, Pistoia, coll. M. Tuci
Alfiero Cappellini, Paesaggio, 1937,
lapis su carta, cm 37x48, Montecatini
Terme, coll. privata
visione della campagna ha ancora il sapore
ingenuo degli anni Dieci e il paesaggio con
la stalla e il pagliaio ha quinte di ‘alberini a
cavoletto’ che puntuali ritroviamo all’orizzonte nel dipinto Bigonciai del 1932.
Nel 1934 si presenta alla XIX Biennale di
Venezia con disegni a tempera in cui il segno campisce con grande tratto l’intero
foglio per il resto lasciato bianco o leggermente acquarellato: il taglio prospettico,
secondo le predilezioni dell’artista, è spesso ribaltato o incongruo, mentre i soggetti
sono di affezione popolare, con visioni di
interni, soprattutto di stazioni o di mezzi di
locomozione.
Negli anni Quaranta, come dice lo stesso
artista, si avvicina nuovamente alla xilografia; al 1944 si riferisce il progetto ambizioso
di una Via Crucis che non vide mai la luce,
malgrado nel tempo altre occasione gli aves-
sero fornito il pretesto di utilizzarne le tavole già preparate. I disegni preparatori, eseguiti su grandi carte da lucido, sono adesso
conservati presso la Fondazione Cassa di
Risparmio; di quest’opera, nota per la pubblicazione di Bartolini (Bartolini 1978, pp.
102-107) ci parla Parronchi come di alcune tra le sue cose più belle: “Qui vedo non
soltanto capacità d’invenzione compositiva
inusuale, ma anche, in assoluta compostezza di spirito religioso, un modo di sceneggiare nel nostro tempo la tragedia di Gesù,
in uno spazio di campagna toscana appena
incorniciato da quinte di costruzioni classiche in una continuità dall’antico al moderno resa sensibile da attitudini ferme e quasi
statuarie che il tratto della penna sensibilizza drammaticamente” (Bartolini 1997).
Ancora estrapolando dai cataloghi delle
mostre sindacali degli anni Trenta annotia90
Annamaria Iacuzzi
manifesti per molte iniziative pubbliche del
tempo come la Festa dei fiori a Montecatini,
o le mostre sindacali pistoiesi.
Il pittore Giuseppe Bertolli, attivo anche
come critico d’arte sulle colonne de «Il
Ferruccio», propone, in alcuni disegni rintracciati degli anni Trenta, nudi femminili
o studi per composizioni più ampie, probabilmente dedicate a decorazioni pubbliche o
alla cartellonistica, in cui mostra un fare monumentale, certo a conoscenza delle teorie
inerenti portate avanti da Sironi.
E mentre Pistoia, grazie a Uberto Bonetti,
trovava una sua iconografia aerofuturista
proprio in alcune belle tavole a disegno, alle
mostre sindacali incontriamo una giovane
leva del movimento Silvano Palandri (19131976), a noi noto solo dalla riproduzione di
alcuni dipinti e disegni del periodo pubblicati sul catalogo della mostra La città e gli
artisti (La città e gli artisti 1980, pp. 263265). Parallelamente alcuni suoi disegni di
mo i nomi di coloro che espongono nelle
sezioni del Bianco e Nero: nel 1932 alla
III Sindacale pistoiese rintracciamo Cleto
Lapi e una quanto mai fugace apparizione
di Arturo Stanghellini, presente con alcune sanguigne satiriche che incontrarono la
lode della stampa: “Ho detto originalità:
questa si riscontra nelle sanguigne di Arturo Stanghellini (non è giovane… ma è pistoiese). Vi noto polso sicuro, una costruzione eccellente e una meravigliosa presa
di giro per tutta la nostra consuetudine di
vivere” (Gianrenato 1932).
Nel 1935, alla V Mostra Sindacale pistoiese, Bertolli, Cappellini, Innocenti e Zanzotto
espongono disegni di cui non conosciamo
il titolo, mentre Bugiani espone incisioni
e Mazzei alcune impressioni. Per Mazzei,
fiduciario del Sindacato Fascista di Belle
Arti a Pistoia, l’impegno più preponderante in questo momento è certamente quello
del pubblicista e del cartellonista, ideando i
91
Giuseppe Bertolli, Festa dell’uva a.
XIX, bozzetto, 1941, lapis su carta, cm
32x22, Pistoia, coll. M. Lucarelli
Silvano Palandri, s.t., 1932, fotografia,
Pistoia, Archivio Museo Civico
Luigi Mazzei, Festa del fiore estivo,
manifesto, 1937, Pistoia, coll. M.
Lucarelli
Giuseppe Bertolli, Alla fonte,
1930/1933, lapis su carta, cm 50x57,
Pistoia, coll. M. Lucarelli
spicchi
Sigfrido Bartolini, Casolare romano,
1957, disegno a pennello, olio su
cartoncino, cm 25,7x35,7, Pistoia,
Centro Studi Sigfrido Bartolini
Sigfrido Bartolini, Una casa come un
tempio; Un cipresso come un obelisco,
1968-69, pagina del quaderno
dedicato ai casolari toscani, cm
28,5x27,5, Pistoia, Centro Studi
Sigfrido Bartolini
Alla ripresa dei lavori nel dopoguerra, come
accennato in apertura, sarà Vasco Melani a
ritirare le fila della memoria di una stagione
di disegno a Pistoia: nel 1947, infatti, alla
Saletta Masaccio una mostra di Bianco e
Nero ricuciva i rapporti tra vecchie e nuove generazioni in nome del disegno, mentre
nel 1954 si proponeva il recupero della memoria di Andrea Lippi proprio con un’esposizione dei suoi fogli.
Estremo esempio della lezione del disegno
come fondamento della pratica artigiana della
pittura, è in Sigfrido Bartolini (1932-2007):
in lui, più che in altri, è forte il senso di una
tradizione da recuperare, di una memoria da
mantenere. Nel disegno si muove fissando su
taccuini gli elementi della campagna che più
e più volte ha visto nelle uscite con gli artisti
suoi maestri: dedicato alle case toscane, una
sorta di bell’esemplare di ‘libro d’artista’ in
cui Sigfrido ritrae le case e i casolari della tradizione con annotazioni poetiche a margine.
Il disegno è una pratica strenua che sembra
non approdare mai a una fine: come se la
mano non potesse saziarsi dell’esercizio stesso del disegnare. Quindi, se da un lato, in lui
la linea si sposa alla xilografia, dall’altro tutta
una serie di sperimentazioni sono riservate
paesaggio degli anni Trenta segnano la svolta nel solco di un naturalistico ritorno all’ordine. La stagione del secondo Futurismo a
Pistoia è breve, ma, a onor di cronaca, registriamo la presenza di Victor De Sanctis,
sottoscrittore del manifesto futurista della
moda e autore di alcuni bozzetti per abiti,
nonché di sintetici disegni (Colucci 2011).
Al volgere degli anni Trenta alla VI e VII
Sindacale di Belle Arti, le esposizioni e i cataloghi, prevedono una ben definita sezione di disegno in cui ancora una volta incontriamo Bugiani, Cappellini, Innocenti,
Ulisse Lippi, Lorenzi, Palandri, Agostini e
Zanzotto a cui si aggiungono anche Renato Arcangioli, Anselmo Lorenzini, Alfredo
Maccanti, Athos Ponziani. Da segnalare, tra
una miriade di studi e altri disegni di difficile identificazione, le litografie e il cartone
da affresco esposti da Bugiani a cavallo tra
il 1937 e il 1938 alla VI Esposizione Sindacale pistoiese. Quasi impossibile seguire
le tracce del disegno negli anni Quaranta,
tra lo sfaldarsi del gruppo pistoiese in un
dilagare di esperienze espositive personali
che guardano verso l’esterno piuttosto che
alle scarse occasioni cittadine, e la guerra
imminente.
92
Annamaria Iacuzzi
Valerio Gelli, La mamma, 1948,
matita blu su carta, cm 33x25,
Pistoia, coll. M. Lucarelli
Jorio Vivarelli, Testa virile, sanguigna
su carta gialla, cm 34x24, Pistoia, coll.
M. Tuci
Aldo Frosini, Ritratto di vecchia, 1948,
cm 32x22, matita su carta, Pistoia,
coll. M. Lucarelli
Corrado Zanzotto, Profilo di vecchio,
1949, matita su carta, cm 21x25,
Pistoia, coll. Saracini
93
spicchi
13. Si vedano al riguardo le
pagine dedicate al disegno
nei cataloghi delle mostre
antologiche dedicate a questa generazione dalla Circoscrizione 2 del Comune di
Pistoia tra il 1988 e il 2001.
Doveroso ricordare il volume di Mario Luigi Bianchi,
Moccichino, 1971, illustrato
con venti disegni di Mirando Iacomelli.
imputare al cambiato contesto in cui si pone
la loro stagione artistica. Per questi ragazzi,
infatti, la lezione del figurativo si gioca costantemente sul filo di una tensione che scaturisce dalla necessità di immaginare una
nuova forma in un momento di profondo
cambiamento politico e culturale. Nel tempo e lungo i decenni del dopoguerra, ciascuno di loro si muoverà ricavandosi, non
senza sacrifici, una strada personale, che
contempla a più riprese anche il disegno,
che diviene tuttavia, per alcuni di loro, più
occasionale. Per altri invece, come Valerio
Gelli, o Lando Landini, o Mirando Iacomelli, il disegno è un esercizio quasi frenetico,
che li accompagnerà per il resto della loro
attività.13 Gelli e Iacomelli frequenteranno
di tanto in tanto anche l’incisione con risultati di pregio (Salvi 2013).
Nei primi anni del secondo dopoguerra i
disegni di Zanzotto dedicati ai vecchi del
Villone Puccini e anche al paesaggio, caratterizzati da un tratto obliquo e volumetrico,
evidenziano punti di contatto con i disegni
di altri futuri scultori. Una linea ideale, infatti, unisce questi fogli ai ritratti intensi
eseguiti a matita da Valerio Gelli e da Jorio
Vivarelli in questi stessi anni. Sono i vecchi
di casa, la madre, il padre, la zia: uomini
e donne di un’umanità sopravvissuta, il cui
volto, segnato dalla fatica e dal dolore, è
esempio di forza e resistenza. In questi disegni il tratteggio indugia sul volto fortemente
chiaroscurato, conferendogli una massività
scultorea, mentre il resto della testa è spesso
tralasciato: un modo di disegnare e di scolpire che più volte riscontreremo in Zanzotto (Corrado Zanzotto 2004).
Altri vecchi li vediamo agli esordi di Aldo
Frosini, che al disegno e all’incisione dedicò successivamente anche molte prove con
nudi femminili e alcune vedute romaniche,
spesso acquarellate. E ancora troviamo i disegni di Landini dedicati alle ricamatrici di
casa, a Bonelle, o alcuni autoritratti in cui
alle tecniche del disegno. In certe prove su
carta colorata degli anni 1956-1957, come
già anni prima aveva fatto Innocenti, disegna
in punta di pennello con la tempera, affidando a queste prove un valore di trait d’union
tra i monotipi e la pittura degli anni successivi. “Nulla dies sine linea (Apelle). Stupendo
e giustissimo consiglio che non sono riuscito
a osservare” si legge come incipit di un quaderno di Bartolini del 1991. La frase faceva
forse da eco al consiglio che Soffici gli aveva
rivolto in occasione di una visita al Poggio
insieme al più anziano amico Bugiani: “Disegni a chili!”.
La lezione del disegno impartita alla Scuola d’arte negli anni Quaranta e nel secondo dopoguerra, attraverso la testimonianza
di Bugiani, Mariotti, Cappellini, Zanzotto adesso professori, ancora faceva i conti
con la tradizione che si nutriva degli insegnamenti di Michelucci e di Costetti sì,
ma anche dell’esempio di Soffici, Carrà e
Rosai. Il disegno è la pratica su cui si fonda l’insegnamento alle nuove generazioni
e nel solco di questa tradizione muovono
i passi i ragazzi della ‘generazione di mezzo’: Aldo Frosini (1924-2013), Valerio Gelli
(1932), Mirando Iacomelli (1929-2007),
Marcello Lucarelli (1923-2010), Francesco
Melani (1907-2002), Alfredo Fabbri (19262010), Lando Landini (1925), Jorio Vivarelli (1922-2008), Remo Gordigiani (19261991), L. Bruno Bartolini (1926-1976).
Un disegno di Marta Magni (1904-1987),
delizioso nella sua annotazione di colore, ci
mostra Del Serra e Iacomelli intenti a lavorare in una seduta di ritratto e ci riconduce
all’atmosfera di cordiale condivisione che si
instaurava tra allievi e maestri, non solo nelle aule di scuola ma soprattutto nelle uscite
in campagna per disegnare e dipingere.
Tutti praticano il disegno con raggiungimenti originali che, se da un lato si pongono nel solco dei maestri, dall’altro registrano nuove ansie e nuovi struggimenti tutti da
94
Annamaria Iacuzzi
Mirando Iacomelli, Fortezza di Santa
Barbara, 1948 ca, lapis su carta, cm
14x19, Pistoia, coll. M. Lucarelli
Mirando Iacomelli, Campagna
dell’Ombrone, 1975, lapis su carta,
cm 35x50, Pistoia, coll. M. Tuci
Lando Landini, La fornace, 1952,
lapis su carta, cm 30x48, Pistoia, coll.
M. Lucarelli
Alfredo Fabbri, Gli stradini, 1955,
matita su carta, Pistoia, coll. privata
si percepisce uno studio sul sintetismo della
linea e della forma, tra adesione al realismo
e aneliti di astrazione, secondo un andirivieni formale che contraddistingue la ricerca
di questo artista nelle stagioni a venire. Il
paesaggio di Pistoia dalla Bure all’Ombrone
torna in molti disegni del periodo; Alfredo
Fabbri diviene un lirico disegnatore del paesaggio del Barba, più e più volte disegnato
dalla finestra della sua soffitta. I luoghi della
Pistoia del dopoguerra tornano in bei disegni di Mirando Iacomelli degli anni Quaranta, o di Egle Marini, o di Sigfrido Bartolini,
o di Remo Gordigiani: penso alle case coloniche, ai nebbiari desolati nella campagna,
alle fornaci e ai capannoni con gli operai,
alla Fortezza e ai tendoni del circo in Piazza
d’Armi proprio dove mio padre poco prima
aveva giocato a calcio in pantaloncini corti e
piedi nudi perché non si sciupassero le scarpe, mentre altri mandavano alti gli aquiloni.
Spunti di contemporaneità del disegno
nelle poetiche dal secondo dopoguerra
Ma quale futuro si apre per il disegno nella
seconda metà del Novecento? A guardare
dalla soglia del terzo millennio, la strada
appare costellata da esiti interessanti, tutti
stilisticamente ben connotati all’interno del
panorama artistico cittadino. La delimitazione locale del nostro esame non dovrà
però trarre in inganno: si tratta di esperienze che devono essere ricondotte al più ampio orizzonte internazionale, specialmente
adesso che l’ottica globale ci consente verifiche in presa diretta con la contemporaneità
e uno sguardo meno lacunoso sul passato
appena prossimo.
Un futuro radioso, dunque, a considerare la
variegata modulazione delle risoluzioni che,
incentrate sul disegno, fanno di esso un fulcro propulsivo per la ricerca: una felice stagione grafica che produce – mi sia consentito
95
spicchi
Lando Landini, Paesaggio, anni
Cinquanta, lapis su carta, cm 49x57,
Pistoia, coll. M. Lucarelli
Giovanni Michelucci, Centro termaleMassa, 19-6-1978, pennarello su
carta, cm 25x35, Comune di Pistoia,
Centro di Documentazione Giovanni
Michelucci
Egle Marini, Il leone romanico sulla
chiesa di San Pietro, 1960 ca, penna
nera e acquarello su carta, cm 49x33,
Pistoia, coll. M. Lucarelli
14. Nel 1974 Michelucci
dette alle stampe due cartelle di acqueforti per il
Bisonte.
affermarlo – risultati mai banali. Il fenomeno
investe tutte le generazioni artistiche. Michelucci, per esempio, seppur lontano dalla città, proprio negli anni Ottanta, ma già con
antecedenti nel dopoguerra, affida a disegni
e schizzi alcune delle sue più visionarie elaborazioni segniche: in esse sembra ritrovare
il caos magmatico della creazione primigenia
da cui scaturiscono cellule architettoniche
primordiali (Le visioni dell’architetto 2003).
“Cos’altro aggiunge il disegno nell’attività
di un architetto? Rappresenta sicuramente
il diario più attendibile di una disponibilità
alla ricerca [...]”, ebbe a dire al riguardo del
disegno e del progetto. Per Michelucci architetto, nel disegno si mantiene dunque quel
‘coefficiente di irrealizzabilità’ che rende ‘il
senso di un’attesa laboriosa di qualcosa che
può anche non concretizzarsi in un progetto’
e come tale costituisce il punto di riferimento più suggestivo tra l’opera e l’uomo’ (Marcetti 2002).
In molti fogli, che percepiamo liberi da un
assillo di corrispondenza costruttiva, il dato
naturale la fa da padrone: vi si trovano radici
che divengono reticoli di strade, alberi che
aprendosi a ombrello, secondo il processo
di ramificazione, definiscono nervature di
soffitti o elementi strutturali portanti; bucrani che si deformano in calotte abitabili.
Anche quando, ogni tanto, torna all’incisione, la sua attenzione pare sempre catturata
dalla natura.14 Il ductus limpido e incisorio fa
capolino anche in alcuni disegni degli anni
Quaranta, dedicati alla montagna pistoiese
che ancora l’architetto frequentava dal suo
ritiro della Cugna, come possiamo evincere
dai fogli conservati al Centro di Documentazione Giovanni Michelucci presso il Museo
Civico di Pistoia.
E che dire dei disegni di Valerio Gelli – eseguiti proprio in quest’ultimo decennio – in
cui lo scultore con un segno pulviscolare
ritrae gli alberi dietro la casa di gioventù a
96
Annamaria Iacuzzi
pretesto per mettere in campo un magma
segnico brulicante e tellurico che disgrega
completamente la visione in una materia di
luce. La sensazione è quella di una visione
a volo d’uccello sulle distese degli argini e,
contemporaneamente, di un inabissamento
tra le zolle della terra. Ancora un segno pulviscolare è quello che contraddistingue certi
disegni di Egle Marini degli anni Settanta.
In famiglia il disegno è una sorta di abilità
congenita, rafforzata dai legami affettivi con
un uomo, Alberto Giuntoli, che fece dell’autoritratto e del ritratto della moglie una sorta
d’incessante – e quasi ossessivo – campo di
esercitazione. Per Egle il disegno diviene col
tempo una pratica costante di censimento
degli affetti fino al punto di dedicare molti schizzi ai gatti di casa. Dedica anche a
se stessa una serie di ritratti sintetici, quasi
caricaturali, condotti a penna con un tratto quasi unico, su fogli di carta giallina. Ma
i disegni degli anni Settanta in cui con un
seminare di tratti descrive la città di Pistoia sono diversi. In essi è come se Egle fosse
riuscita, dall’alto dell’eremo della casa di via
San Pietro, a comprendere con lo sguardo
la città chiusa dentro l’abbraccio delle mura:
Sant’Alessio, più e più volte fermati dal vero?
Attinge, adesso, nella memoria, il ricordo
del crepitio delle foglie che muovendosi al
vento trascolorano dal verde all’argento.
Molte volte li abbiamo ascoltati insieme,
sono i nostri alberi preferiti. Proprio dove
adesso la Camposampiero ha piantato un
frutteto, c’è una radura con i pioppi: son
convinta che, proprio lì, Valerio ha immaginato la ‘capanna dell’angelo’, di michelucciana memoria, che si scorge tra i fusti degli
alberi disegnati. E ancora i nidi vuoti che
con maestria di segno divengono – allegoria poetica – crogiuoli da cui far sgorgare la
materia della scultura. Apici poetici che difficilmente potremmo eludere dall’annoverare tra i maggiori raggiungimenti disegnativi
del XXI secolo. Al fianco di questi lavori di
Gelli, accomunati da un senso pulviscolare
del tratto, vorrei porre i disegni astratti di
Lando Landini, anch’essi recentissimi e in
linea con elaborazioni degli anni Novanta.
In questi fogli, spesso di grande formato, gli
argini dell’Ombrone a Bonelle divengono un
97
Valerio Gelli, La capanna dell’angelo
(Omaggio a Michelucci), 2001, brace
e matita su carta, cm 52x40, courtesy
l’artista
Lando Landini, Paesaggio, 1974,
matita e carboncino su carta, cm
42,2x62,2, Pistoia, coll. privata
spicchi
Umberto Buscioni, Con la moto, 1967,
matita su tela, cm 13,2x15, courtesy
l’artista
Roberto Barni, Il castello, 1990, china
su carta, cm 56x59, Pistoia, coll.
privata
Roberto Barni, Senza titolo, fusaggine
su carta, cm 61x85, Pistoia, coll. S.
Simoncini
il taglio prospettico è ardito e restituisce la
dimensione poetica interiore da cui i fogli
scaturiscono. Alcune volte sono l’angelo di
San Michele in Cioncio o il leone di San Pietro a suggellare la figurazione come silenti
guardiani. Tornano in mente le parole da lei
stessa scritte ricordando la città dell’infanzia
vissuta col fratello: “Pistoia, medievale e un
po’ ferrigna, arroccata presso l’Appennino
dentro un cerchio di mura sbrecciate, coi
suoi marmi bianco-neri, la grinta di animali
di pietra sull’alto delle lesene, le colline e il
piano” (Marino Marini 1998).
Già dagli anni Sessanta a Pistoia è un pullulare di esperienze di livello altissimo, spesso
in linea con quanto si muove a livello internazionale, seppure con accenti autonomi
che ben mostrano quanta energia propulsiva animasse luoghi lontani dalla mischia
del mercato.
Potremmo accennare qui all’esperienza dei
‘Pop’ della Scuola di Pistoia: splendidi disegni, per esempio, accompagnavano l’enu-
cleazione formale di certi grovigli di Barni
(1939) negli anni Sessanta-Settanta, mentre
già Cesare Vivaldi (Vivaldi 1969) sottolineava come Buscioni (1931), il più legato alla
tradizione pittorica del passato, avesse dalla sua parte una sorta di artigiana creatività
del disegno che anche allora lo distingueva dagli altri del gruppo. Il felice rapporto
di Umberto col disegno è infatti alla base
della sua stessa pittura, ed è consustanziale
all’esistenza della persona stessa. Fin dalle
prime elaborazioni ‘pop’ con la motocicletta, con la scarpa da tennis o con le cravatte,
la trama del segno scandisce la pittura, indicandole il proprio posto sulla tela, spartendo la superficie con una tassellatura precisa,
netta, bidimensionale. Nel Glossario dell’artista, un brano dedicato all’opera Motociclet98
Annamaria Iacuzzi
Umberto Buscioni, Vicino al cipresso,
anni Ottanta, pagina di taccuino,
china, acquarello e matita su carta,
courtesy l’artista
Umberto Buscioni, Stanze smemorate
10, anni Novanta, cm 12x18, penna
su carta, courtesy l’artista
Gianni Ruffi, Dipanare il mare, tecnica
mista su tavola, cm 70x100, Pistoia,
courtesy Galleria Farsetti
ta sull’erba del 1968, descrive la genesi del
dipinto sul filo del disegno che, nel ricordo,
diviene il filo della vita intessuto di aspettative e di illusioni: “Sopra questa motocicletta dipinta si è consumata un’illusione,
ero più giovane allora; il disegno lo rilevai
da un depliant della Gilera. L’avevo inclinato sul tavolo e già la moto pareva stesa
sull’erba, la disegnai, soltanto un filo sottile cercava di inventare il motore dell’anima
mia. […] Le corse in bicicletta sono corse
in bicicletta, il disegno lo spago arcuato che
sosteneva gli aquiloni, la trama, il respiro
del vento, l’intenzione, l’illusione colmata
di sospetto, l’odore che si può perdere se
il colore non è carico di nostalgia” (Buscioni 1992). “C’è un disegnatore all’opera, nel
percorso di Buscioni” e la sua è una fedeltà
al disegno totale, quotidiana, ininterrotta e
indiscussa nel tempo (Barilli 2002; Gurrieri
2002). Lo è, fedele, sia quando col segno
solcava il puzzle degli intrichi dei rifiuti urbani, sia quando, a partire dalle elaborazioni degli anni Ottanta e Novanta, sfrangia la
pittura in lame di fuoco che si storcono e arricciano in linee rabescate che tanto sarebbero piaciute a Pontormo. Nei bei disegni
a penna degli ultimi anni, caratterizzati da
un ritorno alla figurazione completa e non
più frammentaria o solo oggettuale, il chiaro scuro spesso fa a meno del colore. Altre
volte, invece, la pittura nasce proprio dalle
pagine di piccoli taccuini, da cui il maestro
attinge per composizioni più ampie. Si tratta per lo più di figure aeree: angeli sospesi
o in caduta dal cielo, figure divine affacciate
a nubi squarciate da lampi improvvisi e che
non sappiamo collocare né in cielo o né in
terra.
Ci sono poi disegni che, autonomi da una
restituzione pittorica, accompagnano i
componimenti poetici. Già nei taccuini si
99
spicchi
Paolo Tesi, Pinocchio e il disincanto,
carbone su carta, cm 104x144,
courtesy l’artista
Paolo Tesi, Pinocchio in processione,
carbone su carta, cm 104x144,
courtesy l’artista
Giuseppe Gavazzi, Il sogno, 2013,
particolare, carbone su carta, cm
150x250, Pistoia, coll. privata
dopo la stagione oggettuale pop, torna alla
figurazione in un recupero colto degli antichi sia per quanto riguarda la forma, sia
per la tecnica. A partire dagli anni Ottanta
infatti, il suo Viator, l’uomo spesso bendato
in marcia perenne, è protagonista di molti
disegni dal sapore metafisico. Questi fogli
sono sia di carattere progettuale che autonomo e raggiungono risultati fortemente
icastici soprattutto quando il segno si frappone alla materia pittorica della tela.
Tutt’altro che accessoria anche la prassi disegnativa di Remo Gordigiani, del quale già
Salvi evidenzia l’eccezionale inclinazione
verso la grafica in alcune incisioni dei primi
anni Cinquanta (Salvi 2013; Iacuzzi 2008).
Come abbiamo avuto modo di analizzare
altrove, quello che poteva essere un impedimento fisico – una dermatite degenerativa
da contatto alle mani – divenne per l’artista
spinta propulsiva per una sperimentazione
del tutto autonoma e originale sui mezzi
espressivi tradizionali. Così come per il collage, anche il disegno costituì un campo di
percepisce che disegno e poesia afferiscono
alla stessa sfera dell’immaginario creativo
dell’artista, ne sono probabilmente i due
poli fondanti e, quando la trama fitta dei
segni vela e ‘annuba’ l’immagine fino a renderla evanescente, è chiaro un processo ondivago che ha per oggetto proprio la poesia:
se da un lato il segno tende a manifestarla
dall’altro essa si cela ineffabile proprio nel
suo apparire.
Intendiamoci il disegno non è estraneo
nemmeno agli altri del gruppo, come Ruffi, Natalini, Barni. Basti ricordare i disegni
progettuali di Gianni Ruffi (1938), paralleli
all’enucleazione dell’idea scultorea, o l’esperienza dei disegni di architettura di Adolfo
Natalini (1941), che dal 1954, per sua stessa dichiarazione, inizia a disegnare come un
compito assegnato, e che nel tempo affida
al disegno il diario giornaliero della propria
progettualità (Adolfo Natalini 2002).
Emblematica, all’interno di un ritorno alla
tradizione che caratterizza il postmoderno,
la vicenda artistica di Roberto Barni che,
100
Annamaria Iacuzzi
sperimentazione, a più riprese tra gli anni
Sessanta e Settanta.
Nel 1974 Gordigiani si dedica alle ventiquattro tavole del progetto Il mare: disegni
che costituivano la fase progettuale di altrettanti acquarelli eseguiti nel biennio successivo. Malgrado la traduzione pittorica sia
ineccepibile, l’elaborazione grafica risulta, a
mio avviso, entusiasmante, per il rigore con
il quale tecnica e poetica riescono a combinarsi senza sbilanciare il tutto. La maestria
nel giocare con inquadrature fotografiche
che manipolano la luce come se la mano
fosse l’otturatore di una camera oscura, restituisce con la grafite riflessi, rimbalzi, rifrazioni luminose sulla superficie del mare.
L’impianto geometrico è rigoroso: le fasce
lineari luminose dilatano e sintetizzano lo
spazio in campiture plastiche ponderate. In
alcuni casi, come nei fogli di Corre in riva
mare del novembre del 1976, la sequenzialità dei disegni denuncia apertamente
l’ispirazione fotografica mentre con il tratto a matita riesce a restituire il brillio degli
schizzi d’acqua nel controluce: un disegno
‘impressionistico’, lo potremmo definire
con le parole dell’artista, ma condotto nel
rigore di un mezzo meccanico.
La stagione disegnativa figurale si protende
fino ai giorni nostri con una tale ricchezza di
modulazioni da rendere impossibile in questo contesto un’analisi dettagliata che presupporrebbe una disamina caso per caso;
ci limitiamo a sottolineare come anche per
Luigi Russo Papotto (1955), Andrea Dami
(1946) o Giuseppe Gavazzi (1936) il disegno non sia una frequentazione sporadica;
o a ricordare in Edoardo Salvi (1949) uno
strenuo disegnatore e un abile incisore di
legni. Tra gli altri dobbiamo anche annoverare Paolo Tesi (1945), razza di furioso genio del segno per il quale, a ragione, è stata
coniata la felice espressione di ‘compulsione
disegnativa’. Non è un mistero che per Paolo il disegno sia una sorta di immersione
consapevole nell’inconscio poetico e viscerale da cui trar fuori mostri metamorfici, insetti e pinocchi a dismisura. In lui l’espansione del segno pare essere proporzionale
all’affondo nella zona interiore profonda: è
un disegno che – in senso traslato – espone
direttamente gli organi interni dell’artista,
senza pelle, senza alcuna sorta di protezione o inibizione.
Parallelamente a ricerche per certi versi ancora legate a un retaggio ‘classico’ del disegno, dobbiamo evidenziare come tra i Cinquanta e i Settanta uno specifico ambito di
sperimentazione sia legato all’opera di Fernando Melani (1907-1985) e Gianfranco
Chiavacci (1936-2011). L’avvicinamento
delle due personalità, unite da un legame
di amicizia e di confronto artistico praticamente quotidiano a partire dalla metà degli
anni Sessanta, serve a sottolinearne la peculiare ricerca artistica all’interno di una
prospettiva cittadina che risulta essere, per
loro come per altri, estremamente restrittiva.
101
Remo Gordigiani, Corre in riva al
mare 3, 16 novembre 1975, matita
su carta, cm 42,8x40, Pistoia, coll.
Famiglia Gordigiani
spicchi
Gianfranco Chiavacci, GF2090,
28 gennaio 2006, pennarello e
inchiostro su carta, cm 33x24, Pistoia,
Archivio Gianfranco Chiavacci
Fernando Melani, FM735 Set 55,
matita e matita a colori su carta,
cm 30x21, Comune di Pistoia, Casastudio Fernando Melani
stanno svolgendo ricerche analoghe nell’ottica della sperimentazione programmatica,
cinetica, optical. Di sicuro la loro posizione
di ‘retroguardia’ – per non usare il termine
‘di provincia’ che potrebbe avere un’accezione retriva, ma quanta ricerca artistica
autentica in questi anni muove in senso
propulsivo dalle province italiane? – non
li rende secondi a nessuno: la loro ricerca,
da una prospettiva più ampia, risulta altamente innovativa, al di là della loro assenza dai luoghi del contemporaneo dibattere
artistico.
In entrambi il disegno costituisce un ambito di prova in cui verificare i propri assunti, ma in nessun caso esso può intendersi
come preparatorio nei confronti dell’opera
finita, anche se corrispondenze linguistiche
si intravedono con il resto della loro produzione artistica. Il disegno pertanto riveste un ruolo di punta nella ricerca, ma con
un’autonomia che lo rende fresco campo di
sperimentazione. In ambedue gli artisti la
Mentre, infatti, nell’orizzonte artistico pistoiese, già a partire dal secondo dopoguerra e poi nei Sessanta, contemporaneamente
coesistono una figurazione ancora ‘novecentesca’, con cui si confrontano i nati della
‘generazione di mezzo’ (Valerio Gelli, Lando
Landini, Marcello Lucarelli, Jorio Vivarelli,
Aldo Frosini, Mirando Iacomelli, Francesco
Melani, Remo Gordigiani, Alfredo Fabbri) e
una ‘nuova figurazione’, di accezione oggettuale-pop, che segna la poetica della Scuola
di Pistoia (Barni, Buscioni, Ruffi, Natalini),
le ricerche di Fernando Melani e Gianfranco
Chiavacci muovono da presupposti che negano totalmente la pittura come rappresentazione del reale per affermare la necessità
di un approccio estetico meno soggettivo e
individualistico.
La scaturigine da cui ambedue muovono è,
dunque, quella di un assunto scientifico/
matematico che diviene generativo, creativo in senso estetico. Non sono soli in questa ‘scommessa’; altri in Italia e all’estero
102
Annamaria Iacuzzi
risultante è altamente auto-generativa, seppur con finalità diverse.
Occorre pertanto fare un distinguo, anche
e soprattutto a fronte di esiti formali che a
una visione distratta potrebbero sembrare
affini. In Melani, la sperimentazione grafica nasce da una verifica di assunti e di leggi scientifico-universali: in questo ambito
il segno condotto dalla mano è divenuto
‘materiale’ alla stregua del legno, del ferro
e del piombo, e come tale, fatto oggetto di
indagine. Nelle sue elaborazioni segniche,
si ha spesso la sensazione che vi sia come
‘rappresentato’ il ‘costrutto dell’universo’,
così come giungeva all’artista dagli assunti
della fisica quantica. In altre parole, la risultante della sua elaborazione grafica produce
qualcosa che percepiamo come ‘descrittivo’ e che ancora siamo portati a ricondurre
alla sfera della ‘pittura’, seppure nel solco
dell’astrazione e malgrado la ‘rappresentazione’ non costituisca affatto il fine estetico
a cui Melani vuol giungere.
In Chiavacci la sperimentazione segnica
genera da un assunto matematico-combinatorio, e in un certo senso, pare costituire
un elemento poetico/primigenio. Nella sua
opera ‘grafica’ – dove il termine discende
direttamente dalla radice ‘grafia’ nel senso
di scrittura – il segno diviene scaturigine
di senso e di ricerca al tempo stesso: inventa una vera e propria nuova scrittura.
Nella sperimentazione grafica di Chiavacci
a partire dalla fine degli anni Cinquanta, è
racchiusa in potenza la ricerca dell’artista
negli anni a venire sia per quanto riguarda
la pittura binaria, sia anche le aerograforme
e soprattutto la fotografia, fino agli episodi
dei libri d’artista dove si coglie un abbandono al piacere estetico del segno che, ben
oltre dal divenire leziosità, contraddistingue la sua opera in termini di eleganza e
raffinatezza).
A dimostrazione di quanto il disegno abbia
trovato a Pistoia terreno fertile per sviluppi
autentici nella contemporaneità, sta a pieno
diritto la stagione del Graficismo che Massimo Biagi (1949) porta avanti dalla metà degli anni Settanta, quando con le Birografie,
enucleava un segno “polisignificante” con
il quale indagare in maniera totale la realtà, ma al di fuori della figurazione in senso
stretto, riaffermando al tempo stesso l’unicità e l’irripetibilità creativa di fronte alla
società massificata e consumistica. In sé, il
Graficismo, attraverso una serie di manifesti
(Foglio/manifesto) enucleati lungo gli anni
Ottanta, si identifica come evento connotativo di una vera e propria esperienza incentrata sul segno che “aspira a una totalità assoluta pregnante, espressiva, comunicativa,
simbolica e metaforica” (Brancolini 2012).
Sicuramente la sua esperienza trova a Pistoia riferimenti in personalità come Fernando
Melani, ma al contempo rivendica una continuità ideale con una tradizione nella linea
del disegno che ha in Michelucci un amore
riconosciuto (e lungamente frequentato).
103
Massimo Biagi Miradario, Opera
graficista, 1982, penna a inchiostro
fluido su carta, cm 70x50, Marliana,
coll. Massimo Biagi Miradario
Massimo Biagi Miradario, Il nobile
e la preghiera, 2014, pagina tratta
dal libro d’artista Il canto/n.30, p.
1640, penna a inchiostro liquido su
carta, cm 27x21, coll. Massimo Biagi
Miradario
Massimo Biagi Miradario, Strafigurato
figurista, 2014, pagina tratta dal libro
d’artista Il canto/n.30, p. 1673, penna
a inchiostro liquido su carta, cm
27x21, coll. Massimo Biagi Miradario
spicchi
Giorgio Ulivi, Leda e il cigno, 1966,
china su carta, cm 20x14,5, courtesy
l’artista
Giorgio Ulivi, Scrittura, 1965,
inchiostro su carta, cm 37,5x50,
courtesy l’artista
Giorgio Ulivi, Baccano, 1965,
inchiostro su carta, cm 74x100,
courtesy l’artista
condizionamento sociale. In questo senso il
suo segno si trova costantemente a forzare i
limiti dei supporti ai quali si riferisce: travalica la superficie bidimensionale e crea forme polisemantiche che debordano in pitture
materiche e tattili, in sculture estroflesse, in
strutture ‘eccitoplastiche’, in oggetti d’uso.
Come a suo tempo il Futurismo, così il segno graficista ambisce a creare una nuova visione del mondo in un processo incessante
di rideterminazione semantica. La stagione
del Graficismo è prolifica e si sostanzia di
corrispondenze, d’incontri poetici, di scambi epistolari, di proposizioni teoretiche che
vanno spesso a generare pubblicazioni autoprodotte, riviste, testi.
Il rovello poetico sembra procedere per antinomie: il frammento e il tutto; il dentro e
il fuori; il movimento e la stasi. In questo
continuo divenire del segno Biagi è adesso giunto a un dissidio insanabile in cui
la linea è il confine di demarcazione tra figurazione e astrazione, percepite come le
opposte facce di uno stesso problema. Il ritorno alla figurazione è segnato dall’epopea
di Miradario, in cui Biagi torna a coniugare
immagine e parola – suo antico amore –
dando vita a splendidi libri d’artista. C’è in
lui l’idea connaturata che immagine e parola costituiscano una sorta di monade inscindibile, e Miradario è altresì la messa in
scena del segno che si fa parola. È al tempo
stesso colui che chiede e che risponde senza mai arrivare a una completezza di pensiero, senza mai trovare una verità univoca:
è specchio della complessità contemporanea. In questa nuova stagione, che è l’attuale, la scrittura è atto costitutivo di una
nuova verità segnica che si dilata fino alla
performance.
Anche nell’opera di Giorgio Ulivi (1938) il
segno si evidenzia come un elemento connaturato, una specie di leit motiv sotterraneo
che ripetutamente emerge in una produzione artistica variegata ma resa coerente an-
La sua formazione, avvenuta alla Scuola
d’arte, lo porta a dover sanare il dissidio insito al confronto tra la tradizione figurativa
dei maestri come Bugiani e la sponda della
nuova sperimentazione.
È interessante seguire la scaturigine grafica
del movimento in alcuni fogli praticamente inediti del 1982 – agli albori – in cui la
superficie è interamente cosparsa da tratti
che procedono sul foglio seguendo il gesto
controllato dell’energia segnica impressa dal
braccio. Non c’è in lui automatismo gestuale, quanto piuttosto il bisogno e la volontà di
riportare il segno a una naturale corporeità,
perseguita secondo la propria energia fisica
e mentale. La superficie risulta così cosparsa
di segni in cui il momento di avvio è generato come da dei piccoli ‘occhi’ – quelli che
Fernanado Melani ebbe a chiamare ‘bocchi
energetici’ – che tanto ricordano i buchi neri
dello spazio. L’innegabile interesse scientifico rimanda a una riflessione più ampia sul
gesto che traccia il segno e la sua relazione
con lo spazio circostante, anche in termini di
104
Annamaria Iacuzzi
che in virtù di questo elemento fondante. La
ricerca segnica contraddistingue molte fasi
della sua esperienza che si svolge a partire
dagli anni Sessanta, nel solco di una formazione che lo indirizza alla figurazione. Ben
presto tuttavia l’incontro con l’opera del
gruppo Co.Br.A lo porterà a immaginare
una scrittura segnica incentrata sulla gestualità come forma liberatoria, e una sgradevolezza estetica come provocazione e rifiuto nei confronti della tradizione pittorica.
In questa analisi sul disegno all’interno
dell’ambiente cittadino, la ricerca di Ulivi
negli anni Sessanta mette a fuoco la necessità, comune a molti della sua generazione,
di ‘scappare’ dalle braccia rassicuranti dei
maestri per volgere lo sguardo altrove. Il
lavoro del Gruppo Co.Br.A e il riferimento
all’arte ‘brutta’ di Dubuffet costituiscono in
questo momento per lui una molla propulsiva per un lavoro visionario. Si pongono a
questa altezza certi disegni in cui il racconto – ultimo residuato della figurazione? – è
svolto con una gestualità deformante, un
‘segno acidulo e corroso’. In essi è spesso
la storia di esseri ironicamente maltrattati,
contorti, contrapposti in antagonismi sessuali talvolta brutalmente espliciti. Giorgio
è in questo momento un disegnatore incessante e usa qualsiasi supporto: carte grandi,
piccoli taccuini, foglietti di recupero, prediligendo l’inchiostro nero e la tempera dai
colori cupi. Dei Racconti esegue anche alcune litografie datate 1965.
Parallelamente a questa sorta di visionaria e
corrosiva figurazione, che per certi versi ci
richiama a una ‘infantile’ presa diretta con lo
stomaco, fanno comparsa pagine in cui una
costellazione di segni calligrafici ambisce
“già a una libertà cancellando la materialità
del foglio” (Lunardi 2003-2004, p. 10). Le
origini di questi disegni sono grafie contorte
o illeggibili, spesso tracciate creandosi degli impedimenti oggettivi – come il fatto di
disegnare con la mano sinistra – nel chiaro
intento di cercare un segno tanto più autentico quanto più spiacevole, ‘brutto’ in senso
estetico. L’intento è evidentemente quello
di liberarsi del retaggio accademico e della
perizia tecnica come paludamento dell’ottima opera d’arte. È in sostanza la presa di coscienza di un cambiamento nel fare l’opera
d’arte che mette in campo l’artista in prima
persona e visceralmente, con il gesto e con
il corpo.
Inizia così un lavoro costante di annotazione calligrafica. Quello della calligrafia, intesa come pretesto segnico, è un elemento
destinato a riapparire – per vie sotterranee
e misteriose che hanno a che fare con un
percorso artistico che si svolge per lunghi
cicli – in opere eseguite dal 2000. In questi
ultimi lavori, e anche nella nuova fase in cui
Giorgio è adesso impegnato, il recupero di
pagine con scritture antiche gli offre il prete105
Zoè Gruni, Malocchio II-5, Vaticano,
2011, fusaggine su stampa
fotografica, cm 90x90, courtesy
l’artista
spicchi
di interesse in termini di innovazione tecnica e di poetica. Il suo lavoro è incentrato sulla paura e sulla capacità immaginifica
umana di esorcizzarla dandole forma. Nel
fare questo l’artista-performer usa il corpo
come elemento d’incarnazione di figure mitopoetiche che hanno spesso un richiamo
alla memoria archetipica universale. Il disegno per Zoè costituisce un felice incontro
sin dall’opera Metato (2004-2008), un progetto complesso in cui è inserito anche un
intervento grafico su fogli di carta di grande
formato. I disegni hanno una forte allusività
a parti anatomiche umane in funzioni corporali e costituiscono il contro canto visivo
a una installazione video.
Con l’opera Malocchio (2010-2011) lo strumento disegnativo viene usato come una
tecnica di ‘mascheramento pittorico’, come
la definisce giustamente l’artista, che così
commenta: “mi piace chiamarla così, perché […] il disegno – inserito nel processo:
performance/ autoscatto fotografico/ disegno – diventa l’azione finale decisiva e sostituisce la maschera materica”. In questi casi,
infatti, il disegno si pone al termine di un
processo in cui l’artista, attraverso una serie
di mascheramenti corporei di tipo cinematografico, è l’interprete di una sequenza di
autoscatti fotografici manipolati. Il meccanismo messo in campo è giocato sul filo
sottile dell’equivoco tra reale e irreale, tra
finzione non reale e realtà della finzione. La
fitta trama segnica che, con rigore e tecnica ineccepibile, Zoè sovrappone alla stampa fotografica, rimette in moto, in maniera
decisiva e necessaria, il gioco dell’equivoco,
mentre dal canto suo l’artista si riappropria
dell’immagine con un intervento diretto e
inimitabile che lo sostanzia come opera
d’arte. In qualche modo, l’opera si troverebbe a essere mutila senza l’intervento disegnativo conclusivo.
In altri casi, invece, il disegno è uno dei vari
elementi costitutivi di lavori performativi
Zoè Gruni, Boitatà 2, 2013, fusaggine
su carta, cm 70x100, courtesy l’artista
Zoè Gruni, Boitatà 6, 2013, fusaggine
su carta, cm 70x100, courtesy l’artista
sto per una modulazione ritmica segno/colore a cui interpone strappi di carte colorate
a mano. Negli anni Sessanta, le calligrafie
illeggibili seppur nel disgregarsi del segno,
sembrano restituirci vaghe visoni in cui forse sono rintracciabili elementi figurali che
ancora cercano di suggerirci un ‘racconto’
possibile. Nei raggiungimenti più intensi la
pagina pare risucchiata dal segno che assume nuove e autonome valenze. Sono raggiungimenti di grande interesse che ci consentono, ancora una volta, di annotare con
quanta originalità di modulazioni il disegno
si dispiega nella contemporaneità, indicando, al tempo stesso in questo territorio di
provincia che è Pistoia, una sorta di fucina e
di osservatorio privilegiato.
Tra gli esiti più autentici, nell’orizzonte delle più giovani generazioni cittadine, Zoè
Gruni (1982) sembra indicarci una strada
106
Annamaria Iacuzzi
complessi a fianco di ‘sculture’ indossabili,
fotografie e contributi sonori, come accade
nel progetto Boitatà (2013), in cui sette disegni ritraendo le ‘membra sparse’ del mostro di caucciù, sembrano esorcizzarne la
presenza.
Nella serie di disegni di Metapotere (2009)
figurazioni metamorfiche del corpo umano
mostrano esibite ibridazioni sessuali che
sottintendono un lavoro profondo sul mito
e sull’archetipo in un riflesso incessante di
specchi in cui rintracciare elementi costitutivi di un’identità contemporanea. Parlando
di questo lavoro, l’artista sottolinea anche
un ‘risvolto’ performativo che apre a considerazioni comportamentali legate a una sorta di primigenio ‘automatismo’ insito nella
pratica stessa del disegno: “Il disegno, specie nelle grandi dimensioni, è un altro strumento che utilizzo per lavorare sulle metamorfosi del corpo. Un gesto, quello che
traccia segni con il carbone sul foglio, ancora di carattere performativo, in un corpo
a corpo con la figurazione che emerge dalle
stratificazioni della memoria, personale e
collettiva. L’ambiguità anatomica delle forme si confonde con una fisionomia animale,
e allude al ritorno di una primordialità, da
cui scaturisce una riflessione sull’identità”
(Zoè Gruni, 2014).
In questo senso, dunque, Zoè sembra affermare che il disegno, come strumento
performativo, produce un gesto organicogenerativo in grado di riconnettersi a strati
di memoria personale e collettiva.
E non è forse questa la soglia primigenia da
cui operano artisti e bambini nel momento
stesso in cui, disegnando, interpretano e inventano il mondo circostante?
Che sia questa la strada verso un nuovo futuro del disegno?
APPENDICE
Teoria estetica e disegno: i casi di
Fernando Melani e Gianfranco Chiavacci
Immagino Fernando Melani mentre disegna: la mano segna sul foglio come se essa
fosse un sismografo che registra l’energia
del costrutto dell’universo, scandagliandone attraverso traiettorie della linea lo spazio
interstiziale. I segni tratteggiati e disuniti si
dispongono in angoli che ‘sembrano’ descrivere uno spazio curvo intriso della stessa energia che compone la materia e in cui
tutto si muove per scambi energetici.
Nell’Archivio di Casa-studio Fernando Melani sono conservati molti fogli che potremmo definire disegni: vari tipi di carte con
interventi segnici tracciati con penna biro,
matite colorate, pennarelli o pittura acrilica.
Nell’osservazione risulta chiara la differenza
che intercorre tra le elaborazioni segniche
prodotte con l’idea di opera autonoma e
quelle eseguite piuttosto come sperimentazione riconducibile a una sfera di ‘verifica’
teorica. In questo caso i disegni hanno il gusto dell’esperienza in presa diretta, raramente del progetto. Spesso il supporto è di riciclo come il retro di certi fogli di cartoncino
di un calendario illustrato con opere d’arte;
le carte leggere da macchina da scrivere; le
carte quadrettate dei blocchi.
Seguiamo la sua sperimentazione a partire
dalla fine degli anni Quaranta sfogliando i
lavori su carta contenuti in una cartella ricavata da un quaderno con coperta nera telata.
Parallelamente allo svilupparsi della ricerca
leggiamo le schede che sapientemente Donatella Giuntoli (1941-2005) – artista essa
stessa, amica di Melani e curatrice dell’Archivio – ha stilato per ciascun foglio, chiarificando le intenzioni dell’artista. Da questa
analisi opera per opera prende vita il testo
La dimensione terza pubblicato nel volume
Fernando Melani, Un’esperienza bio-artistica,
scritto dalla stessa Giuntoli ma uscito postumo nel 2010. Il contributo offre una ri107
Fernando Melani, FM10B Dic 53, n.
inv. 980, inchiostro e matita a colori
su carta, cm 23,5x20, Comune di
Pistoia, Casa-studio Fernando Melani
Fernando Melani, FM19 Gen 54, n.
inv. 988, inchiostro e matita a colori
su carta, cm 23,5x20, Comune di
Pistoia, Casa-studio Fernando Melani
spicchi
Fernando Melani, FM15 Gen53, n.
inv. 984, inchiostro e matita a colori
su carta, cm 23,5x20, Comune di
Pistoia, Casa-studio Fernando Melani
Fernando Melani, FM38 Feb54, n.
inv. 1004, inchiostro su carta, cm
23,5x20, Pistoia, Comune di Pistoia,
Casa-studio Fernando Melani
15. I fogli sono numerati
da 1 a 42 ma nella sequenza mancano alcuni disegni;
le carte sono in tutto 36 e
corrispondono ai numeri di
inventario 971-1008.
16. N. inv. 972, FM2.
flessione illuminante sul valore del disegno
all’interno della ricerca di Melani: un testo
imprescindibile per capire la portata dell’intera opera dell’artista.
All’interno di questa rassegna di carte, una
sequenza di fogli, omologhi per fattura e
supporto, è stata contrassegnata dall’artista
con una numerazione autonoma.15 I disegni
sono stati tracciati sul retro di moduli inutilizzati di carta per protocollo in un arco
temporale che va dal gennaio 1953 al febbraio 1954. Cogliamo in essi alcune delle
prime esperienze legate a una riflessione
inerente al concetto di spazio fisico piuttosto che a quello di spazio visivo; una sorta
di ‘rappresentazione’ segnico spaziale che,
in senso generale, potrebbe richiamare alla
mente il lavoro grafico di Fontana.
Spesso la superficie è disseminata di segmenti insistiti più o meno angolati e strutturati
dentro uno spazio che via via s’incurva. Questi segni per Melani “certamente significano
qualcosa di molto preciso, rettilinei ma restituiti da un segno che assomma al suo interno numerose minime inclinazioni. Sono
connotazioni estremamente concrete, forse
fessure, linee di confine, vuoti che si insinuano fra gli elementi compatti. Pensava già
al discontinuo? Certo osservava le fratture
nel continuo della materia, visibili a livello
microscopico”.16 Il tratteggio insistito e ripetuto si frappone negli interspazi tra i segni,
distinguendo con tratti più o meno incrociati
alcune forme chiuse, palesando ciò che deve
essere immaginato disposto su piani – o meglio su ‘strati’ – diversi poiché il suo “è uno
spazio fatto di strati, in quanto spazio concreto, denso di eventi pertinenti alla materia”
(Giuntoli, 2010). Rispetto alla qualità estetica di questo tratteggio Donatella lascia intendere un’ammirazione di Melani nei confronti
dei maestri della tecnica del disegno e dell’incisione: “Pensando all’uso fatto del tratteggio
in genere nei disegni dove Melani si serve di
quest’espediente per dare concretezza agli
spazi, e alla maestria raggiunta negli ultimi
disegni inventariati, non posso fare a meno
di ricordare la considerazione in cui Melani teneva le tavole incise del Doré, proprio a
proposito dell’uso più o meno incrociato. Se
in lui più spesso emerge la tendenza eversiva
dell’ex liceale mai approdato alla conclusione
108
Annamaria Iacuzzi
Fernando Melani, FM30 Gen 54, n.
inv. 996, inchiostro e matita a colori
su carta, cm 23,5x20, Comune di
Pistoia, Casa-studio Fernando Melani
Fernando Melani, FM20 Gen 54,
n. inv. 989, inchiostro su carta, cm
23,5x20, Comune di Pistoia, Casastudio Fernando Melani
degli studi, polemico nei confronti dell’insegnamento accademico, qualche volta appariva, a prescindere, un’ammirazione della
tecnica del disegno”.17
Il concetto di ‘discontinuo’, dunque, è per
Melani strettamente legato all’idea di un
universo materico composto di molecole e
atomi e in cui un ruolo centrale è giocato
dal vuoto stesso, da considerarsi certamente
come una presenza di eventi e non come
un’assenza di possibilità. Questa serie di
carte enucleano dunque una ricerca che si
lega strettamente al nocciolo teorico di Melani: l’idea che la pittura non sia una rappresentazione del reale, ma che lo spazio della
realtà sia il luogo stesso dell’accadimento
della pittura, ossia il suo supporto. In questo modo ciò che Melani esperimenta nel
campo d’azione in cui si dispone la pittura
è reale tanto quanto la realtà stessa, senza
esserne una descrizione o un rifacimento
analogico. In questo contesto il segno che
si dispone sul foglio ha valenza di accadimento fenomenico reale. Esso si deposita a
scandagliare le infinite possibilità di quella
che Melani chiama ‘terza dimensione’, os-
sia la dimensione di uno spessore che per
quanto impalpabile esiste negli interstizi
della materia e dell’universo e quindi anche
sul piano su cui il segno stesso si dispone.
La sperimentazione legata al segno è protratta nel tempo e diviene progressivamente
più sottile. La mano-sismografo usata come
strumento ‘naturale’, cioè assecondata nel
suo andamento fisiologico, produce dei reticoli irregolari che si curvano come lo spazio-universo: man mano che – si percepisce
– Melani penetra in profondità, lo spazio via
via più curvo dell’inosservabile fisico sembra divenire immenso e incommensurabile,
cioè misurabile solo per approssimazione,
seppur cambiando unità di misura. “Il reticolo diviene contenitore di spazio, ed è
questo che Melani riesce a far vedere, mostrando il ‘guscio’” (Giuntoli 2010). Ciò vale
anche per gli intrecci di fili di ferro o reticoli tridimensionali in cui saldature evidenti
non fanno altro che sottolineare lo spazio
disposto tra gli strati su cui essi si trovano.
Spesso nella ricerca s’introduce il concetto di ‘quantità’: le esperienze ripetute nel
tempo non risultano mai uguali malgrado
109
17. Scheda inv. 1005, febbraio 1954, FM39.
spicchi
Gianfranco Chiavacci, GF97B-P,
pennarelli su carta, cm 30x24, Pistoia,
Archivio Gianfranco Chiavacci
Gianfranco Chiavacci, GF97B-69,
4/1968, pennarelli su carta, cm
30x24, Pistoia, Archivio Gianfranco
Chiavacci
18. L’immagine ‘archetipica’ è affidata a una confidenza/chiacchierata
in
occasione della prima mostra dedicata alla pittura
di Gianfranco Chiavacci
organizzata dal Centro di
Documentazione dull’Arte
moderna e contemporanea
pistoiese nel 2007 a Pistoia
(Iori 2007).
ricordo emozionante era lo stupore della
‘forma che appare dal segno’ a costituire il
fulcro del racconto. È proprio questo il mistero del lavoro combinatorio di Chiavacci:
un ordine strutturale, quello della binarietà
preso a prestito dalla logica del calcolatore
elettronico, che diviene al tempo stesso interpretativo e generativo della realtà fenomenica dell’opera, che è, per definizione,
‘apparizione’ o manifestazione. Si potrebbe
dire, dunque, che nell’universo di Chiavacci, strutturato secondo binarietà, il segno si
pone come elemento ‘monosillabico’ per eccellenza, grado ‘zero’ generativo/propulsivo.
Potremmo immaginare il segno, o la linea,
come una sorta di filiazione diretta dal reticolo, presente in molte opere di Chiavacci a
partire dal 1964. Se infatti il reticolo di fili
nasce dallo scorrimento spaziale di un quadrato che diventa doppio quadrato e che si
muove lungo le direttrici alto/basso, destra/
sinistra, ogni singolo frammento di esso è un
segno potenzialmente altamente informato
della struttura stessa da cui proviene. Esso
sarà innanzi tutto un segno dinamico.
Si potrebbe leggere, in questo senso, una riflessione sul concetto di reticolo: “Mi sembra
molto interessante l’effetto della presa di coscienza del mio reticolo attraverso l’apparire
e lo sparire continuo delle linee che lo definiscono. D’altra parte per me il reticolo non
è fine a se stesso, deve suggerire la genesi dei
l’identità progettuale da cui esse scaturiscono e l’identità del soggetto che le conduce.
In qualche modo la quantità della ripetizione segnica – come nei fogli tracciati giorno
dopo giorno nel novembre-dicembre del
1974 – fa emergere l’unicità del segno che
non può risultare mai uguale a se stesso. Si
tratta in questo caso di una serie di cartoncini di piccole dimensioni pressoché simili
ma mai uguali, in cui Melani inserisce il gesto ‘progettuale’ di un segno che lambisce
il margine esterno del foglio in un circuito
continuo, abbastanza veloce per ottenerne
un andamento deciso. Il segno che non si
chiude mai su se stesso, lascia ben evidente
il punto in alto a sinistra in cui lo spazio
penetra entro il tracciato con il chiaro intento di mettere in attenzione lo spazio dentro
e fuori di esso più che il tracciato stesso.
Come nel Sacco di fiammiferi, qui Melani
riflette sulla gestualità protratta nel tempo
che produce una quantità di elementi mai
identici tra loro e una riflessione, tutta contemporanea, sulla connessione tra i concetti
di spazio e di tempo.
All’inizio per Gianfranco Chiavacci fu il segno, potremmo affermare. Lo fu, in effetti,
nel suo primo ricordo legato all’arte:18 quel
segno del gesso lasciato dal padre sarto sulla stoffa da tagliare e che, come per magia,
si rivelava costruttivo della forma. In quel
110
Annamaria Iacuzzi
Gianfranco Chiavacci, GF97B-90,
Poligrafia, 9/1968, lapis e matita
rossa su carta, cm 30x24, Pistoia,
Archivio Gianfranco Chiavacci
Gianfranco Chiavacci, GF97B-93,
Grafie con matrici, 9/1968, lapis su
carta, cm 30x24, Pistoia, Archivio
Gianfranco Chiavacci
Gianfranco Chiavacci, GF97B-108,
1968, pennarello su carta, cm 30x24,
Pistoia, Archivio Gianfranco Chiavacci
Gianfranco Chiavacci, GF97B-foglio
con appunto n. 9, 1968, Pistoia,
Archivio Gianfranco Chiavacci
fico, ancora non segnato dalla binarietà e vicino a certe formulazioni di Mattia Moreni,
per esempio. In questa direttrice introduce
anche materiali che in seguito diverranno costitutivi nella sua prassi artistica: nel
1959, di ritorno dalla mostra di Pollock a
Roma, fanno la loro comparsa alcuni disegni non figurativi con fili di cotone sovrapposti, come per esempio l’opera n. 1661, in
cui è evidente una ricerca non tanto sulla
qualità materica del medium, quanto piuttosto sulla sintesi del segno come ovvia scaturigine della natura stessa del filo.
Ad attirare il nostro interesse sono anche due
album il CGF1 che raccoglie disegni dai numeri 0084 allo 0097 del marzo del 1967 e
il CGF2 che contiene l’opera contrassegnata
dal numero 97/b che copre un lasso temporale che va dal giugno 1967 al gennaio 1969.
miei elementi…” (Iori 2007, p. 23). Ecco,
dunque, come il reticolo diviene l’elemento
strutturante/materico del lavoro di Chiavacci: mi piace pensare ad esso – forse con una
forzatura poetica – come a una sorta di affioramento archetipico del ‘segno’ tracciato dal
padre nell’immaginario infantile.
Se esaminiamo il lavoro di Chiavacci con
uno sguardo d’insieme che, in ragione di
una sottesa comune ricerca, non separi
pittura, scultura, fotografia, etc.., dobbiamo necessariamente riservare al disegno
un ruolo fondante e non accessorio, tanto
meno strumentale. Le prime sperimentazioni disegnative superstiti di Chiavacci risalgono al 1957, incunaboli ancora firmati
‘Chigia’, in cui un affastellarsi di segni che
formano grovigli e groppi, rende l’idea di
una ricerca nell’ambito di un informale gra111
spicchi
In realtà sotto il numero 97/b, non si dispone un’unica opera ma una serie di 105 lavori grafici su carta, corredati da cinque tavole
concettuali che illustrano la ricerca in corso.
Il sapore privato di questo lavoro è chiarito
proprio dalla sequenza A-Z e AA-AB a cui
sono collegate le cinque tavole concettuali. Il senso di tali sperimentazioni grafiche è
illustrato in CATOP (Catalogo delle Opere
redatto dall’artista), riferitamente al CGF1:
“L’aspetto che più mi ha interessato in queste ricerche: considerando due o più ritmi,
ciascuno come il ripetersi di elementi segnici a distanza monotóna determinata, e
quindi avendo due o più ritmi interi, ciascuno come il ripetersi di elementi segnici
a distanza monotóna determinata, e quindi
avendo due o più sistemi monoritmici ciascuno a cadenza determinata, e operando la
sovrapposizione di essi, si ha la creazione di
un ritmo complesso che, nonostante venga
determinato dai precedenti, va oltre questi
diventando molto più che sommatoria dei
costituenti. […]”. Questa esperienza grafica
dunque consiste per Chiavacci in una ricerca di tipo ritmico-combinatorio in cui sistemi segnici semplici, ‘mono-tóni’, appunto, a
loro volta pretederminati, vengono a interagire. Ancora una volta, come nella parallela ricerca pittorica binaria, la combinatoria
produce qualcosa che a livello di linguaggio va oltre alla semplice sommatoria degli
elementi. La capacità auto-generativa dei sistemi sollecitati sembra cogliere di sorpresa
Chiavacci, che appunta, per se stesso, riflessioni su metodologie ulteriori di analisi e di
visualizzazione dei fenomeni.
Due elementi sembrano interessanti nell’appunto pragmatico-teorico appena citato: a)
l’idea ben chiara che gli elementi segnici costituiscano un grado ‘minimo’ considerato
‘mono-tóno’, ossia un ‘grafema’, all’interno
di una sequenza ritmica che di lì a poco
Chiavacci chiamerà ‘grafia’; b) il concetto di
‘ritmo’ sotteso all’operare combinatorio. In
ambedue i casi siamo dinanzi a considerazioni destinate a creare un certo riverbero
all’interno dell’intera opera di Chiavacci che
parallelamente a queste sperimentazioni
compone testi teorici correlati.
Ci pare entusiasmante seguire la ricerca legata ai fogli A-Z leggendo il contrappunto
teorico che, passo passo, chiosa alcuni dei
fogli, indicando le variabili metodologiche
sottese al fare: A-2/68 “mano sospesa senza
appoggio, lentamente”; B-2/68: “punto di
partenza esecuzione velocissima”; C-2/68:
“esecuzione veloce, da punto a punto,
passando per punto” etc… Alla nota 2 del
foglio datato 7-2-68, si apre una riflessione sul senso estetico legato al ‘fare’: “Se il
fenomeno estetico, nel suo farsi, e nella
percezione a posteriori è oltre la nostra tecnica conoscitiva (probabilismo), tanto vale
sperimentarlo continuamente. Dalla valutazione statistica (quindi numeri) può venire
una qualche risposta.” Il fenomeno estetico
è dunque ‘esperito’ alla stregua di un fenomeno matematico/statistico: il tentativo è
quello di definire una combinatoria nella
creazione artistica che ‘ridefinisca’ la nozione estetica di ‘stile’.
E riallacciandosi al concetto di ricerca stilistica ‘fisiologica’, commentando il foglio con
la lettera N, scrive: “Partire (p.es. in N) dal
campo fra le due righe rosse, predeterminate, e ritraendo velocemente [la mano, n.d.r.]
trascinare verso dx. ECCO. L’imprecisione
nella partenza e nella fine di ogni traccia,
sono segni di comportamento fisiologico”,
che quindi, come tale, rende complessa la
comprensione a posteriori del fare artistico.
Più avanti in altri fogli, introduce una sperimentazione segnica a partire da un ‘pragma’ di base (matrice programmatica) su
cui interviene secondo una variazione angolare imposta: la configurazione che ne
emerge crea una interferenza con la matrice
programmatica a un livello che Chiavacci
definisce ‘analogico’. Questa interferenza,
112
Annamaria Iacuzzi
con apici altissimi, dal carattere di autonomia estetica. In questo senso si potrebbe citare il volume d’artista DUE, un libro
iniziato nel dicembre del 1992 e terminato
nel 1996. Il pretesto, irresistibile agli occhi di Gianfranco, è un volume enciclopedico non stampato che l’artista utilizza
usandone le pagine per elaborazioni dal
carattere esclusivamente grafico, variando il fenomeno segnico secondo mezzi e
metodologie operative sempre variati: lapis, inchiostro, grafite, pennarello, penna
a sfera, tagli, incisioni, strappi, ritagli, traslazioni, impressioni, trasparenze, e molto altro ancora. La casistica combinatoria
si dispiega all’infinito senza mai produrre
risultati ripetitivi: si percepisce, ed è evidente, l’estrema gioia dello sperimentare,
il gusto sottile e raffinato che porta Gianfranco a una modulazione ricchissima in
termini di variazione e invenzione. Al fortunato fruitore cui sia consentito sfogliare integralmente le pagine del volume, è
riservato il piacere di una sollecitazione
estetica, visiva e tattile totale.
Opere grafiche di carattere autonomo sono
alcuni lavori eseguiti a partire dal 2005, in
cui una personale riflessione esistenziale
porta Gianfranco a elaborare fogli in cui una
serie di reticoli si dispongono in opposizione
dinamica. In essi si coglie una dualità positivo/negativo, spesso associata alla bicromia,
che lascia intuire un forte dissidio interiore.
La qualità tremolante del tratto, tracciato
non appoggiando mai la mano al foglio,
rende dinamica l’interazione tra i sistemi
di reticoli, che invece d’immaginarie trame
segniche, hanno adesso l’aspetto di garze
fortemente plastiche; mentre, nella sua risultante di insieme, il valore segnico, sottile
e scarno, è assimilabile all’incisione. Sono
lavori bellissimi di cui probabilmente non
si immaginava un uso pubblico, ma in cui
Gianfranco, ancora una volta, incontra una
risultante estetica straordinaria e inedita.
proprio in quanto interferenza, è molto più
interessante della ricerca stilistica ‘fisiologica’ in quanto tale: risulta generativa del ‘fenomeno’ estetico a un livello superiore che
non implica la variabile umana.
Giungiamo così a una serie di fogli, all’interno della stessa sequenza 97/b, – non numerati internamente – in cui una matrice di
segni mono-tóni si dispone nello spazio secondo traslazioni e curve che in sé, in nuce,
già contengono i germi della sperimentazione pittorica e fotografica a cavallo degli anni
Sessanta e Settanta. Spesso sono indagate le
curve di espansione e di traslazione in linee
che si snodano anche in un binomio cromatico. Nel foglio datato 6/68, corrispondente
al 97b-69 amplifica una linea con due curve
(binarie?) andando a ingrandire e rimpicciolire progressivamente e parallelamente
l’una e l’altra: la risultante è plastica e richiama con forza le esperienze di estroflessione
che Chiavacci metterà in campo con le ‘garze’ e con le ‘aerograforme’.
In specifico è chiara la comunanza tra questo tipo di attività segnica e quella che sarebbe stata, di lì a poco, la ricerca fotografica, laddove il termine ‘grafia’ si sottende
ad ambedue i processi: scrittura ossia registrazione di fenomeno segnico mono-tonale
spazialmente dinamico, in parallelo a una
registrazione visiva di un evento luminoso
in movimento. Ed ecco dunque i fogli titolati: “grafie, poligrafie e matrici”, dove l’organizzazione ‘scritturale’ dei sistemi segnici
contiene al tempo stesso tutte le potenzialità
della pittura, della scultura e della fotografia
di Chiavacci negli anni a seguire.
La sperimentazione grafica, dunque, sia nel
senso di ‘scrittura’ autogenerativa e propulsiva all’interno della ricerca artistica, sia
nell’ottica di un’indagine più strettamente
inerente le potenzialità del segno, modulato secondo pragmatiche via via concertate
più o meno espressamente, è una presenza
costante all’interno dell’opera di Chiavacci
113