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Annamaria Iacuzzi La voce della linea chiarisce lo spirito del luogo Via via che procede, la vita consente alcune cose. E c’è un momento in cui le cose che vengono in mente sono fra le più belle, perché sono come improvvisate. Si prende un foglio di carta e mentre si parla si fa un segno; quel segno è vivo. Alla mia età, c’è una sapienza che non avevo, posso fare un ragionamento sull’architettura che prima non sapevo fare. Ma quella felicità, mentre corri con il lapis incosciente non esiste più, non è poco ciò che viene a mancare. G. Michelucci, Elogio dello scarabocchio, in Dove si incontrano gli angeli Nel tempo, studi rivolti alla grafica degli artisti pistoiesi del Novecento sembrano aver messo in evidenza una sorta di ‘predisposizione’ o ‘attitudine’ naturale verso la pratica del disegno, quasi a voler indicare in esso un elemento identificativo del ‘genius loci’ locale. Probabilmente non si tratta proprio di una ‘vocazione’ al disegno quanto piuttosto di una ‘cultura’ del disegno, che a Pistoia ha dato frutti copiosi con straordinarie aperture di originalità in termini di invenzione e di ricerca. Troppo pochi e lacunari gli elementi a disposizione, dunque, per poter generalizzare all’assunto di ‘Pistoia terra generatrice di disegnatori’ (siano essi pure calcografi o xilografi), quella che appare una sorta di ‘predilezione’ culturale. Eppure basterebbero personalità come Francesco Chiappelli (1890-1947), Alberto Caligiani (18941973), Giulio Innocenti (1897-1968), Andrea Lippi (1888-1916), Mario Nannini (1895-1918), Giovanni Michelucci (18911990) o Marino Marini (1901-1980), per citarne solo alcuni nella prima metà del Novecento, a farci pensare il contrario. Esiste tuttavia una tradizione ‘mitografica’ del disegno pistoiese. Nelle testimonianze degli artisti raccolte durante gli anni di ricerca per il Centro di Documentazione sull’Arte Moderna e Contemporanea pistoiese, molti ricordi avevano ad argomento la bravura disegnativa di Lippi, di Nannini, di Caligiani, di Chiappelli, di Marini e di altri ancora che l’accalorata e ammirata memoria narratrice contribuiva a innalzare alla fama di eroi. In Aldo Frosini o in Valerio Gelli l’emozione del ricordo si saldava all’esperienza vissuta in prima persona: nel secondo dopoguerra la lezione del disegno, impartita da Bugiani, Cappellini, Mariotti e Zanzotto alla Scuola d’Arte e nella campagna aveva la valenza di un recupero in linea diretta con quanto aveva, a sua volta, insegnato loro Giovanni Michelucci (ma anche Giovanni Costetti) nei primi anni Venti. Lezione per altro riaffermata, lungo gli anni Trenta, anche dall’altro ineludibile mentore culturale, Ardengo Soffici. A partire dagli anni Cinquanta, poi, un vero e proprio recupero della memoria disegnativa, era stato favorito dalle mostre della Saletta Masaccio e della Sala Ghibellina che 67 Pagina a fronte Marino Marini, Ritratto maschile, 1925, lapis su carta, cm 24,8x19,8, Pistoia, Fondazione Marino Marini spicchi 1. Mostre furono dedicate anche al disegno e alla grafica di autori contemporanei (cfr. D’Afflitto, 2007). scoperto ‘genio’, mentre disegna la pecora su un sasso, da Cimabue a passeggio per la campagna toscana (tutti noi abbiamo negli occhi l’immagine rappresentata sulle scatole di una nota marca fiorentina di pastelli, fondata – manco a dirlo – a Firenze nel 1920, in un momento di pieno recupero delle italiche tradizioni). In una linea di ‘voracità’ o ‘compulsività’ disegnativa vanno lette le testimonianze di Giulio Innocenti che si dichiara autore di “migliaia di disegni”, o di Egle Marini (1901-1983) che riferendosi all’indocile fratello adolescente, Marino, lo dice appagato e acquietato dal disegnare. E vale su tutte la memoria del noto incisore Francesco Chiappelli, conclamato accademico del disegno, che proprio al disegnare affida indelebili ricordi di ragazzino: “Fin da bambino pur facendo le scuole classiche, io ebbi passione grandissima per le arti figurative e i miei quaderni di latino erano ricchi di spropositi e di disegni. […] Alle scuole ho fatto sempre una pessima figura. Ma tutto il tempo che potevo rubare allo studio del greco e del latino, lo spendevo nel disegnare e nello scorrere con sete e curiosità le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti – del Vasari – o qualunque altro libro di storia dell’arte” (Pogliaghi-Chiappelli 1965, p. 10). Leggere l’operare artistico nella sua interezza, senza scindere pittura e scultura dal disegno è compito arduo ed esula i confini di questo testo che si prefigge piuttosto lo scopo di mettere in luce nuclei d’interesse per chi voglia approfondire una tecnica spesso considerata minore o accessoria; interessante al più come studio preparatorio di prove artistiche maggiori. Nel suo insieme invece il repertorio delle metodologie disegnative messe in campo dagli artisti pistoiesi del Novecento, fino anche alla contemporaneità, risulta estremamente variegato. Com’è plausibile, infatti, spesso i disegni rispecchiano umori e sollecitazioni culturali con- avevano animato la città con l’azione propulsiva di Vasco Melani, il quale appunto al disegno aveva dedicato specifiche attenzioni, proponendo, per esempio, l’esposizione di carattere antologico dei disegni di Andrea Lippi (Iacuzzi 2007, p. 269 e nota 14).1 Certo il disegno è la porta prima del fare artistico e su questo si basava l’insegnamento accademico ottocentesco, trapassato nel Novecento; tuttavia dei veri e propri ‘primati’ del disegno e dell’incisione a Pistoia ci sono stati: pittori e scultori che del disegno hanno fatto una pratica costante nell’elaborazione della propria poetica, affidando a esso anche un valore autoreferenziale di opera conclusa. Nella scelta specifica di seguire la linea del disegno, abbiamo sorvolato le specifiche esperienze dedicate alla xilografia e all’incisione, rimandando per esse all’imprescindibile lavoro di Edoardo Salvi, pubblicato nel 2013 nel numero sette di “Spicchi di Storia” proprio a memoria del centenario della mostra del Bianco e Nero, primo vero evento artistico di livello nazionale a Pistoia agli inizi del secolo. In primo luogo, dunque, fu il segno. Spesso questa ricerca lungo il Novecento, si tramuta in un’operazione quasi ‘archeologica’, uno scavo a ritroso che inevitabilmente sembra indicare nel disegno l’innesco generativo dell’opera: sorprendente l’elenco di coloro per i quali esso costituisce una pratica non accessoria, luogo di un’autentica prassi di ricerca tout court. Per di più, il disegno non sembra essere stato nemmeno esclusivo appannaggio di pittori e scultori, come attestano le esperienze dell’architetto Giovanni Michelucci o dello scrittore Arturo Stanghellini (1887-1948). Per alcuni la maestria grafica è anticipata da una sorta di premonizione infantile: frequente il topos poetico dell’artista bambino che si rivela tale proprio nella precoce predisposizione al disegno, secondo quello che è il mito vasariano del piccolo Giotto 68 Annamaria Iacuzzi temporanei, ma le metodologie con cui gli artisti si avvicinano a questa pratica sono molteplici e ci propongono interessanti direttrici d’indagine nell’ottica della ricerca e della sperimentazione. I fondi consultati per questa occasione di studio propongono una certa varietà di tipologie e modalità disegnative: i disegni di studio finalizzati all’elaborazione finale dell’opera; gli schizzi affidati alla sfera privata del taccuino o del quaderno – di diverso esito formale –; i disegni come opera conclusa; il segno grafico come frontiera di ricerca estetica autogenerativa ed autoreferenziale.2 Lungi dal poter essere minimamente esaustivo, questo contributo si scontra con la difficoltà del reperimento dei materiali, per loro stessa natura, deperibili e fragili, la cui conservazione si deve spesso all’accorata cura dei familiari o alla passione dei collezionisti. Si devono certamente segnalare i fondi di disegni conservati presso istituzioni pubbliche e private, come la Biblioteca Comunale Forteguerriana di Pistoia, il Centro Michelucci all’interno del Museo Civico di Pistoia e la Fondazione Michelucci a Fiesole, la Fondazione Marino Marini, la Casastudio Fernando Melani, la Fondazione Pistoiese Jorio Vivarelli, l’Archivio Sigfrido Bartolini e gli archivi degli artisti laddove ci sono pervenuti (e dove siamo riusciti a rintracciarli!). Da segnalare, inoltre, i nuclei dei disegni acquisiti dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia S.p.A. e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, a seguito anche della strenua opera di valorizzazione della Scuola artistica pistoiese profusa da Sigfrido Bartolini. Non vanno poi dimenticati i disegni dei pistoiesi conservati presso le collezioni del Gabinetto dei Disegni e Stampe degli Uffizi, dell’Accademia del Disegno di Firenze, della Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti. Un viaggio entusiasmante, dunque, che evidenzia anche – o meglio ‘soprattutto’ – la necessità di una catalogazione sistematica, la creazione di una banca dati del disegno, che a Pistoia, forse più che in altre città, po69 Andrea Lippi, Ghiaccia, 1914-15, penna su carta velina, cm 14x11, Pistoia, Biblioteca Comunale Forteguerriana Andrea Lippi, Studio per Scioperanti, 1913 ca, china su carta, cm 14x17,5, Pistoia, collezione V. Gelli 2. Per una disamina sul valore del disegno nel XX secolo, imprescindibili i volumi: Disegno italiano del Novecento, Milano, Electa, 1993; Disegno italiano fra le due guerre, a cura di P.G. Castagnoli, Paolo Fossati, Modena, Edizioni Panini, 1983; L’arte del disegno nel Novecento italiano, a cura di Enrico Crispolti, Mauro Pratesi, Bari, Laterza, 1990. spicchi di moderno e di propulsivo: un processo di svecchiamento cui vuole prender parte programmaticamente “La Tempra” che alla sua prima uscita nel 1914 abbina una tavola fuori testo con la riproduzione di un disegno di Giovanni Costetti, raffigurante il volto di un’anziana. La tavola, come si enuncia nel secondo numero del quindicinale («La Tempra» 1914, n. 2), avrebbe costituito un regalo prestigioso e d’eccezione per ogni nuovo abbonato. Tornando alla Mostra del Bianco e Nero: in questa esposizione, come ben messo in luce da Edoardo Salvi (Salvi 2013) sono le acquaforti e le xilografie a farla da padrone, ma alcuni autori si presentano anche con disegni di cui per lo più non viene riportato il titolo. Giulio Cesare Giachetti espone due disegni; Giovanni Costetti presenta una decina di disegni di cui due a penna; mentre Gigiotti Zannini si propone solo con disegni, ben sei. L’artista Emilio Notte, pugliese di nascita, ma pratese di adozione, e legato per vie d’amicizia ai pistoiesi Nannini e Caligiani (Il cerchio magico 2002; Salvi 2013, pp. 54-58), è presente con tre disegni. L’esiguo catalogo senza riproduzioni consente di spingerci poco oltre il mero elenco di nomi e titoli, lasciandoci solo immaginare, magari per via comparativa con opere coeve, i lavori dei pochi artisti pistoiesi presenti: mentre Raffaello Mazzei e Alberta Macciò espongono ciascuno un ‘tocco a penna’; Francesco Chiappelli, presente con molte incisioni, propone anche due disegni, tra cui uno, registrato col titolo Magister calcographus-Aquaefortis, suona tautologico. Alberto Caligiani, di cui è nota l’attività xilografica a partire dal 1914 (Salvi 2013, p. 54 e passim), si presenta con due studi di testa di cui non è menzionata la tecnica, e che per il termine ‘studio’ saremmo portati a immaginare come bozzetti o disegni. La consuetudine a esporre disegni non gli fu comunque estranea, dato che alla prima trebbe rivelarsi utile a comprendere la straordinaria temperie culturale – fitta di snodi, intrecci, interferenze non solo cittadine – che anima il secolo lungo del Novecento. 3. Qualche interesse per il disegno, nell’ultimo quarto dell’Ottocento, si evince dai Rapporti sulle esposizioni ‘degli oggetti di belle arti e manifatture’ organizzate dall’Accademia di Scienze Lettere ed Arti, in cui accanto al fior fiore delle attività produttive del territorio pistoiese, si esponevano i lavori delle classi di pittura, scultura e disegno. Nei pressi della Mostra del Bianco e Nero (1913) Se nel ripercorrere l’operato delle generazioni artistiche pistoiesi del primo Novecento ci si fanno incontro veri e propri campioni delle arti grafiche, ciò si deve probabilmente a una fortunata combinazione di tempi, di persone e di interessi. Ci riferiamo ovviamente a quella benedetta congiuntura geografica e biografica di personaggi del calibro di Giovanni Costetti (1874-1949) e Renato Fondi (1887-1929), avvicinati dal più giovane Michelucci e da altri tra musicisti, pittori, scultori, architetti (la Famiglia Artistica); mentre giovanotti di belle speranze come Lippi, Nannini, Innocenti, Caligiani avevano già cominciato a muovere i loro passi in città. La nascita di questa Famiglia Artistica (1912), impegnata, da un lato, nell’organizzazione di un evento di ampio respiro della portata della Mostra del Bianco e Nero (1913) e dall’altra nella pubblicazione del foglio a stampa “La Tempra”, si pone a snodo di uno dei momenti più fecondi della storia cittadina. Nella dannunziana ‘città del silenzio’ la modernità aveva già cominciato a bussare alle porte grazie alle fonderie Lippi e Michelucci che, con la loro attività, non solo avevano contribuito allo sviluppo economico del territorio ma avevano anche favorito la presenza di artisti di risonanza internazionale. Ai primi del Novecento, dunque, la passione per il disegno di un manipolo di artisti, non ha niente a che fare con l’ardore collezionistico che poteva aver appassionato i notabili, seppur progressisti, della Pistoia ottocentesca.3 C’è uno spirito nuovo, diverso e, per certi versi, rivoluzionario che sa 70 Annamaria Iacuzzi Pagina a fronte Mario Nannini, I consigli dell’ava, 1914, carboncino e biacca su cartone, cm 91x51,5, Pistoia, coll. M. Lucarelli Mario Nannini, Il bacio alla croce, 1914, carboncino e biacca su cartone, cm 91x51, Serravalle Pistoiese, coll. privata A sinistra Mario Nannini, Figure e città, 1915 ca, matita e colore su cartone, cm 38,5x65,5, Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini mostra personale alla Locanda Maggiore di Montecatini Terme nel 1915, figurano alcuni ‘carboni su cartone’, opere che, per un’associazione di idee legata alla tecnica, ci rimandano a certi grandi cartoni dell’amico Mario Nannini, riferibili agli stessi anni, e a opere analoghe di Lorenzo Viani, anche lui gravitante a Pistoia. Tra i protagonisti non pistoiesi, possiamo tentare di immaginare i disegni di Emilio Notte: a quanto è dato di capire dai titoli – Cieca, Civettina e Nudo di donna – dovette esporre lavori che facevano riferimento a un cupo realismo, che già si esprimeva nel dipinto Vecchi alla Galleria d’Arte Moderna di Firenze. Qui, come in una processione, una moltitudine di vecchi steccoluti e cadenti, avanza quasi immobile: i contorni sono tracciati – per non dire scavati – con un segno scuro e frammentato. Proprio la visione di quest’opera o di altre analoghe, a quanto sappiamo da una corrispondenza (Il cerchio magico 2002), avrebbe potuto indicare la via da intraprendere anche a Nannini, a giudicare dai grandi cartoni che, proprio in un parallelismo di tempi, il pistoiese produceva con modi e intenzioni che ce li fanno percepire come opera conclusa: Il bacio della croce, I consigli dell’ava, Il suono dell’organo; Le esequie funerarie. Si tratta degli unici disegni esposti dal pittore in vita, tra il 1914 e il 1915; l’occasione, accanto a Emilio Notte, è la Prima Esposizione Invernale Toscana a Firenze (Iacuzzi 2006). In questi lavori l’assillo disegnativo, peculiare della prassi creativa del giovane, approda a esiti dal carattere pienamente compiuto attraverso una serie di ‘messe a fuoco’ susseguenti, come si evince da alcuni studi dedicati alle singole parti anatomiche dei personaggi in cui analizzare, oltre alle posture, l’affastellamento rugato dei segni di un volto o di una mano.4 A questi cartoni deve essere avvicinato anche il foglio Figure e città, singolare per l’impaginato delle mura urbane di una città (Pistoia?) dinanzi alla quale si staglia, in un variegato consorzio umano, un barbuto contadino in veste di pellegrino. In tutti questi lavori il tratto del segno di contorno sembra letteralmente ‘incidere’ il cartone 71 4. Si tratta dei cartoni adesso esposti nell’atrio di Palazzo Azzolini e facenti parte del fondo dei disegni di Nannini custodito dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia S.p.A. spicchi Sopra Mario Nannini, Figura di donna, 1917 ca, carboncino e collage su carta, cm 34,5x23,5, Pistoia, coll. Cassa Risparmio Pistoia e Lucchesia S.p.A. Mario Nannini, Secondo studio per Scomposizione di figura, 1916-17, carboncino su carta, cm 50,5x35, Pistoia, coll. Cassa Risparmio Pistoia e Lucchesia S.p.A. A destra Mario Nannini, Doppia scomposizione di figura, 1916-17, carboncino su carta, cm 26,5x35,5, Pistoia, coll. Cassa Risparmio Pistoia e Lucchesia S.p.A. del supporto: una via che avrebbe potuto portare all’incisione? Non lo sappiamo. Tuttavia, almeno in un caso, sembra evidente che il giovane potesse avere sott’occhio la xilografia: è il caso di una serie di tre/quattro disegni in cui una donna (con le mani in grembo) è seduta appoggiata allo stipite di una porta. Qui il segno, aggrovigliato e filamentoso come in ‘odor’ di simbolismo, suggerisce un avvicinamento, stilistico e tematico con la xilografia di Giulio Innocenti Figura con lo scaldino del 1915, già pubblicato nella monografia curata da Sigfrido Bartolini (Iacuzzi 2006). Data l’amicizia che legava i due giovani, non sorprende l’affinità formale e poetica; spesso tra i fogli dei due amici sovvengono immagini di una campagna che fu ispirazione di entrambi quale incantato scenario di posa nelle sedute di disegno all’aperto. Se l’assenza di Innocenti nella mostra del Bianco e Nero sta a riprova della sua non ancora avvenuta conversione alla xilografia, le assenze di Nannini e Lippi spiccano soprattutto in considerazione di quanto per essi la pratica del disegno costituisse il nodo centrale di ricerca nell’elaborazione della propria poetica. In essi, e per primi, precedendo la generazione di Bugiani, Agostini, Mariotti, Cappellini, sembravano risuonare incessantemente le parole che Costetti aveva pronunciato nel discorso inaugurale della Mostra del Bianco e Nero, quando, riandando alle origini della pittura, affermava che “il nostro divino antenato, il primitivo, ebbe, prima di aver coscienza del colore, coscienza del disegno”, definendo dunque il segno inciso, il ‘bianco e nero’, “la forma d’arte più schietta e più sincera, più ingenua e più intensiva”, dichiarandolo “indicatissimo per l’artista che voglia fissare il carattere schietto inconfondibile delle cose: che non vedendo separate le forme dello spirito, vuol trasportare il mondo nel suo interno e 72 Annamaria Iacuzzi definirlo” (L’inaugurazione della Prima Mostra di “Bianco e Nero” 1913; Salvi 2004a, p. 45; Bardazzi 1997, p. 39). L’indicazione valida per l’incisione, certo può essere estesa al disegno come generativo l’uno dell’altro. Come non riconoscere in queste parole quel continuo strenuo lavorio che, dagli opposti stimoli culturali di Simbolismo e Futurismo, logorava lo spirito e l’animo dei due giovani, Lippi e Nannini, nell’esercizio instancabile del disegno? Accomunati da una morte prematura (tra il 1916 e il 1918) che con la guerra, al contempo, segnò a Pistoia anche la fine di ogni avanguardismo, Andrea Lippi e Mario Nannini furono consacrati all’oblio. Affidata la memoria a quel poco che rimaneva (disegni, poche tra pitture e sculture), di essi sentiremo parlare solo saltuariamente, in occasione di esposizioni volte a ricordare i giovani pistoiesi morti durante la prima guerra mondiale, fino al recupero attuato da Parronchi in studi degli anni Cinquanta. Per Andrea Lippi, il disegno aveva costituito un capitolo importante – per non dire centrale – della propria esperienza artistica: i ‘ro- toli di magnifici’ disegni, affidati al fratello, rimarranno a perpetrarne la memoria nelle fumose stanze della fonderia paterna.5 Nel suo lavoro tutto è linea, tutto è segno: “In quella guerra, su quel campo di battaglia, Andrea Lippi dominava la strategia e la tattica, sul filo del suo discorso artistico, che era, non importa dirlo, il filo conduttore del “disegno”: sta il fatto che Andrea credeva profondamente al disegno figurativo, quale unica ed onesta essenza delle arti plastiche” (Innocenti 1964). Ed infatti, la scultura nasce tra le sue mani come un volume che appena s’increspa, generato dalla mobile ‘melodia infinita della linea’ – felice allocuzione di Giulio Innocenti – sotto la superficie duttile del gesso. La metamorfosi del segno accompagna la gestazione delle sue opere che si prefiggono lo scopo programmatico di una sinestesia totale tra musica, scultura, poesia, pittura: una linea serpentina e contorta, attorcigliata come in un vortice magmatico dà vita a sogni e chimere; visioni oniriche di dantesca ispirazione; cupe premonizioni di disastri 73 Andrea Lippi, Uomo-AmbienteMetodicità, D107, penna a china su carta da pacchi, cm 29x23, Pistoia, Archivio Corti Lippi Andrea Lippi, Tre teste (studio per Ghiaccia infernale), D48, matita su carta di taccuino a quadretti, cm 13,2x8,5, Pistoia, Archivio Corti Lippi Andrea Lippi, Perseo, D42, penna a china e sanguigna su carta, cm 33,5x20, Pistoia, coll. M. Lucarelli 5. Un album di disegni fu depositato alla Biblioteca Comunale Forteguerriana di Pistoia dallo stesso fratello Ulisse, cfr. Iacuzzi, 2012. spicchi 6. Pistoia, Archivio Corti Lippi, foglio 10d. sieme e particolari che si rintracciano nei fogli di recupero o di carta lucida da ricalco e nei taccuini del giovane: in essi è evidente l’urgenza espressiva da cui essi scaturiscono ora come appunto veloce o abbozzo, ora come analisi di un insieme e delle singole parti. Così ricordava Lorenzo Viani: “ogni gesto, che qui è tagliato dai colpi maestri della stecca, era già stato fermato, in una maniera assoluta, in una moltitudine di disegni, che variano dalla nitida anatomica, al sottile segno lineare a penna su carta lucida” (Viani 1925). Lontano dall’afflato simbolista e dalla potenza evocativo-misterica del segno, ma tutto centrato ‘sulla realtà delle cose’ che lo circondano è invece il lavoro di Nannini, per il quale il disegno è, al pari che in Andrea, il vero e proprio ‘laboratorio’ dell’opera. Il duro mondo dei contadini si trasforma nei suoi disegni in una smagata visione, intima e lieve, traballante sotto un segno che indaga con mille sintetiche varianti i soggetti: i contadini di Buriano, la zia Ester, gli animali, l’aia, i covoni, la strada, la casa, la chiesa. Scorrendo le carte nel fondo dei suoi trecentosessantanove disegni, tutti su carta gialla, conservato presso la Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia S.p.A., ripercorriamo l’esercizio strenuo del giovane dinanzi alla natura. Quando l’avventura futurista lo porterà a produrre veri e propri capolavori di sintesi formale, come il Ritratto della zia Ester, è ancora in pochi disegni, cinque/sei in tutto, che possiamo cogliere la sperimentazione dinamica del segno. La ricerca è affidata a un tema domestico caro all’artista: una donna che cuce (o ricama). Nel foglio Doppia scomposizione di figura, la sequenza sperimentale ci mostra lo studio delle linee di forza e di compenetrazione dei piani dell’ambiente con la figura umana attraverso diverse prospettive di visione. Gli angoli di scomposizione futurista e la geometrizzazione bellici; animali ctoni; esseri ibridi dai corpi ossessivamente deformati. Il disegno sembra essere il mezzo espressivo a lui più congeniale: nel groviglio dei segni da cui si dipanano visioni liquide, mutevoli, mai ben definite, sta un vagheggiamento tutto romantico che sottende una sottile pulsione psicologica, un anelito verso un imponderabile mistero visto dalla soglia di un caos interiore. Proprio in un’inquieta visione onirica, affidata alle pagine di In uno stagno verde, Lippi penetrando il mistero di un palazzo popolato di spiriti, in cui è contemplata l’intuizione divina delle cose tutte, scorge armadi dai reconditi segreti: in uno di essi sono custoditi ‘disegni d’ogni genere’: “[…]In questo palazzo vi sono molti corridoi che separano un piano dall’altro e sono ornati da statue e da cariatidi strane quasi ispirate da certe mitologie romantiche […] Vi sono altri sotterranei infine e certe stanze che io non ò [sic] ancora potuto visitare, ma un giorno non dispero di conoscerlo tutto. E tutto nasconde un incommensurabile segreto, una riposta intuizione divina. […] L’incanto regna ovunque e tutta l’aria è pregna di mistero. – Ogni pianerottolo conduce a una porta di cui io solo tengo le chiavi e le porte sono tutte piene di sculture. E al di dentro certi armadi dormono libri e disegni d’ogni genere che ancora non ho ben visto tutte oggetti che forse [h]anno delle proprietà rivelatrici e balsami fatti con le erbe misteriose del giardino” (Lippi 1992, pp. 3-4). Che tra gli oggetti con ‘proprietà rivelatrici’ si debbano forse includere anche i disegni? Sicuramente per Andrea, essi sono rivelatori dell’idea verso cui tende la forma: nel disegno egli rintraccia il mezzo per “far comprendere di pari passo la creazione e la gestazione il parto – e le diverse forme che deve assumere l’idea metamorfosi prima di giungere a quel risultato previsto e voluto dall’artista”.6 Ecco dunque quella miriade di disegni, copie, schizzi, bozzetti, studi d’in74 Annamaria Iacuzzi dei profili umani richiamano la linea fratta dei cartoni del 1915, ma tutto è proteso in avanti verso il futuro, lontano anni luce! Tra i più felici esiti del momento è il disegno con inserti a collage Figura di donna: una delle più alte e originali elaborazioni del disegno futurista italiano, capace di far impallidire i ‘santi futuristi’ fiorentini e degna di essere pubblicata su “L’Italia futurista”.7 Quella di Nannini è una finestra aperta sulla modernità futurista dall’angolo recondito della campagna di Buriano; ma in città non è l’unico a sentire questo richiamo. Si potrebbe infatti accostare a questi fogli futuristi, il disegno Uomo-ambiente-metodicità di Andrea Lippi in cui un uomo è compenetrato con l’orologio che ne identifica il mestiere: il portiere di una fabbrica. Un disegno meccanicistico di un uomo-macchina che presagisce la spersonalizzazione del lavoro industriale e dei tempi moderni, in una incredibile sintesi di idea-oggetto-simbolo (Iacuzzi 2012). In anni limitrofi, un’eco delle sollecitazioni futuriste in termini di una attenzione iconografica alla velocità e al movimento così come ai mezzi di locomozione, si rispecchia anche in fogli di altri autori: in alcune pagine di taccuino di Stanghellini, così come in alcuni disegni di Innocenti centrati su strane e sghembe prospettive, che a detta dello stesso Giulio, costituiscono uno dei nodi centrali della propria ricerca artistica (Innocenti 1955). Arturo Stanghellini (1887-1948), critico d’arte, letterato e scrittore, fu un indefesso disegnatore. Appartenente anche lui alla generazione di Michelucci, di Nannini e di Lippi, si trovò con la guerra a dover lasciare al di là di quella linea di confine la passione per l’arte e per gli studi (Bartolini 1987, p. 13). Le sue attività di disegnatore e di scrittore procedono di pari passo e, alla facilità dello scrivere, si affianca spesso la facilità del disegnare, affidata a fogli sciolti e più spesso a 75 Arturo Stanghellini, Coro delle pentole abbandonate, anni Dieci, china su carta, cm 21,5x29, Pistoia, Biblioteca Comunale Forteguerriana Arturo Stanghellini, Prof. Alessandro Chiappelli (1911), china su carta, 16,3x15,5, Pistoia, Biblioteca Comunale Forteguerriana Arturo Stanghellini, Pattinatori, 1922, matita blu su carta, cm 25x16, coll. M. Lucarelli 7. Sappiamo che l’inclusione di Nannini nel gruppo futurista fiorentino non avvenne, per la vicenda che lo vide in contrasto con Primo Conti cfr. Morozzi 1995; Iacuzzi 2006. 8. Si tratta di alcune pagine pubblicate nel catalogo Il cerchio magico 2002, pp. 170-172. spicchi 9. Se ne registra la presenza anche alla mostra del Bianco e Nero alla Saletta Masaccio nel 1947. 10. Alla testata dovette collaborare per le tavole mondane da Viareggio anche il caricaturista Alberto Manetti con lo pseudonimo ‘Brivido’, poi redattore del «Brivido sportivo». Tra gli altri collaboratori anche Ripo Ripaoni (Salvi 2007; Salvi 2004b). 11. Non accessibili al momento di questo studio alcuni fondi di disegni sia di Mazzei che di Stanghellini in collezione privata e oggetto di futura pubblicazione. più grandi dimensioni, Alessandro è colto in una domestica scenetta in cui alle capacità caricaturali di Arturo si affianca la facilità della parola scritta con un Coro delle pentole abbandonate che in sottofondo gorgoglia così: “Profittiam della tenzon con pronta ebullizion/ con pronta ebullizion/ tosto il brodo se ne vada/ e sul fuoco tutto cada/ la frittata affumicata/ resti al fondo appiccicata/ Puffete, piffete/ ciffate/ cioffete/ sciu/ sciu/ giù/ giù/ schup/ schip/ pisc/ posc/ pi/ pi/ pi…”. Mentre all’altro zio, Alberto Chiappelli, è dedicato un disegno a matita in cui è messa in berlina la società pistoiese a teatro, durante una rappresentazione nel 1921 dell’operetta Lodoletta di Mascagni. Sempre nel giro dei caricaturisti pistoiesi, è doveroso rammentare Luigi Mazzei (18821968), i cui legami di amicizia con Viani, ci riconducono alla stagione de «Il Giornalissimo», rivista mondana delle stazioni balneari e termali, pubblicata a partire dal 1919 e sino al 1928. Sulla testata apparvero caricature e disegni di entrambi, nonché tavole pubblicitarie a firma di Luigi Ciani, come quella dedicata al cioccolato al latte ‘Abetone’ della Ditta Corsini. Mazzei, oltre a prestare le sgorbie per riquadri pubblicitari, tiene la rubrica di profili caricaturali destinata a immortalare le eminenti personalità in visita negli alberghi e alle Terme di Montecatini e alla stazione balneare di Viareggio.10 Tutta la mondanità del momento passa dal vaglio di Mazzei: personaggi dello spettacolo, dell’arte, della cultura e della politica, restituiti col segno fresco e immediato del caricaturista più navigato: a questo clima appartiene il foglio con la caricatura del pittore Giulio Innocenti attorniato da una galleria delle proprie opere, riferibile agli anni Venti e custodito presso l’Archivio Bartolini. Mentre è ancora tutto da studiare il disegno di Mazzei di questa stagione,11 cogliamo tratti della sua poliedrica attività in alcuni bozzetti di costumi per il melodram- taccuini. Sono proprio i taccuini a costituire, per Stanghellini, un orizzonte d’interesse mai sopito: “Non so se sia stata ancora ben capita la mia sviscerata simpatia per il taccuino; ad ogni modo per qualche ritardatario voglio dichiararla ufficialmente. Io lo considero come uno dei più freschi e sinceri tra i […] tesori sia che da quelle squallide paginette parta la scintilla del capolavoro, sia che rimangano un ammasso informe ed incoerente di appunti […] (Stanghellini, 1936). Nei taccuini Stanghellini disegna e compone testi in un processo osmotico, spesso facendo commistioni tra testo e immagini. Il suo è un segno sintetico, nitido e veloce che volentieri si presta all’illustrazione di vignette e caricature: nel disegnare a memoria mostra l’estrema capacità, che lo contraddistingue tra gli altri, di cogliere i tratti salienti dei personaggi senza mai venir meno a somiglianza e senza scadere nella caricatura bozzettistica e chiassosa, mantenendosi sempre su un orizzonte di sprezzante eleganza. Un’attività disegnativa, la sua, destinata all’uso personale o al circolo chiuso degli amici cui sovente regala i suoi fogli. A parte alcuni disegni satirici pubblicati su giornali locali, segnalati da Bartolini nell’ancora imprescindibile volume sull’artista (Bartolini 1987), o gli schizzi pubblicati su «La Costa azzurra», non si ricordano iniziative dello scrittore volte a far conoscere i propri disegni: se si eccettua un’apparizione alla mostra sindacale del 1932, l’unica mostra personale dedicata a disegni e caricature, fu, a quanto pare, postuma e organizzata nel 1949-1950 nelle sale del palazzo Ganucci Cancellieri (Bartolini 1987, p. 341).9 Alcuni fogli sciolti, conservati nel fondo Chiappelli presso la Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, ben ne illustrano le capacità caricaturali, indirizzate ai notabili pistoiesi e allo zio Alessandro Chiappelli, più e più volte ritratto con il gesto ‘distintivo’ della mano librata nell’aria in atteggiamento declamatorio. In un foglio di 76 Annamaria Iacuzzi Giulio Innocenti, Interno, 1916, china su cartoncino, cm 37x52, Pistoia, Fondazione Cassa Risparmio Pistoia e Pescia Giulio Innocenti, s.t., Dalla carrozza, 1916-1920 ca, penna su carta, cm 7x13, Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini Pagina a fronte Luigi Mazzei, Cartolina del prestito di guerra, 1915-20, Pistoia, coll. M. Lucarelli Luigi Mazzei, Caricatura di Giulio Innocenti, 1925 ca, penna, colore e lapis su cartoncino, cm 45,5x31, Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini 77 spicchi Giulio Innocenti, Il morto, 1916, disegno colorato, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi Testa di bimbo), che già aveva esposto alla mostra del Bianco e nero, e il carboncino Ritratto della sorella dello scultore Mario Parri. Se conosciamo la xilografia di Giulio (18971968) a quest’altezza poco documentato è il segno non inciso. Due disegni a lapis, riferiti al 1915, sono pubblicati nella monografia a lui dedicata da Sigfrido Bartolini. Si tratta di due terse vedute di Pistoia: Largo Santa Maria e Piazza d’Armi con la Fortezza, isolate nella pagina da una cornice di linee concentriche che potrebbe far pensare a una futura traduzione xilografica. Altri fogli coevi, pochi per la verità, li incontriamo sparsi tra collezioni pubbliche e private e costituiscono una vera e propria scoperta. Dei disegni e incisioni esposti alle Regie Stanze fa memoria lo stesso artista in un’autopresentazione: “Più tardi espone alcuni disegni e xilografie discretamente lodati, alle Regie Stanze di Pistoia” (Bartolini 1978, p. 21). Al disegno Innocenti è naturalmente portato, egli stesso lo identifica come linea costitutiva della propria esperienza: “e disegnai, per quarant’anni di seguito, prima con gli studenti di medicina, l’anatomia direttamente dai cadaveri, poi per la strada, e nei campi e dovunque: disegnai sempre, centinaia e centinaia di disegni, anzi migliaia” e tra quelli memorabili, lo stesso elencando i soggetti a cui si era dedicato, cita un incunabolo che ci riporta al 1913: “Ritratto, da quello di Manlio Mazzoncini – disegno del 1913 – a quello di Bartoletti Danilo – 1934 –” (Innocenti 1955). Nei disegni ben si colgono gli svariati interessi dell’artista, specchio, a detta di chi lo conobbe, della sua proverbiale ‘indolenza’ che lo portava a intraprendere progetti che difficilmente poi vedevano la luce: tra essi, a riprova dell’amore per il segno, una ricognizione sul disegno degli artisti pistoiesi agli Uffizi che, dilatata a dismisura comprendendo le grandi personalità del passato, non vide mai la luce (Bartolini 1978). Ipnotiz- ma in due atti, Mara di Virgilio Gozzoli, del 1919. Si tratta di disegni, poi passati con il colore, che già fanno intravedere quelli che saranno gli esiti pittorici di Mazzei negli anni Venti. Procedendo a lunghi passi verso la prima guerra mondiale, almeno un’altra occasione espositiva a Pistoia si rivela interessante per seguire le tracce del disegno: la Mostra d’arte fra gli artisti pistoiesi per le famiglie dei richiamati organizzata alle Regie Stanze nel 1915. In questa mostra il valore espositivo dei disegni si lega soprattutto a un fattore di necessità: le carte avrebbero potuto costituire un più facile e meno oneroso oggetto di collezionismo in un momento di guerra? L’esiguo catalogo di corredo, senza fotografie, lascia margini ancora aperti per future ricerche. Da esso evinciamo la presenza di non specificati disegni di Andrea Lippi (quattro), di Giulio Innocenti (uno, esposto insieme a due xilografie), e di tre disegni a carboncino di Giovanni Michelucci (Impressione simbolica, La cieca, Impressione), di due ritratti di Elena de’ Rossi (Testa di giovinetta; 78 Annamaria Iacuzzi muro, uno siede sul pavimento, mentre nella stanza accanto si dispiega la visione parziale di una croce davanti a un altare. Forse un tentativo sulla china dell’avanguardia poi ripudiata? Di sicuro c’è in Innocenti una vena noir: un segno minimale e pulito, condotto con penna a china che produce grottesche visioni in cui son messi in scena delitti e morti ammazzati, abbandonati ai bordi della strada o sul letto di morte. Ve ne sono varie elaborazioni, datate tra il 1915 e il 1920, anche nel nucleo dei disegni donato dalle sorelle dell’artista al Gabinetto di Disegni e Stampe degli Uffizi: opere importanti e rappresentative della sua intera produzione artistica. Altri fogli ci mostrano la campagna in cui fu a disegnare in compagnia di Nannini: in alcuni casi la consentimentalità tra i soggetti è patente, come nella visione di un contadino che si trascina con un cane al guinzaglio sull’erta di una strada lastricata di campagna che pare far eco a certi contadini di Nannini. In elaborazioni più tarde spesso il segno è terso e affidato a una linea continua che si rincorre disegnando personaggi e natura sui vari piani senza mai dare l’impressione di staccare la mano dal foglio; mentre in altre la presa diretta dal vero, tradotta in un segno veloce e sintetico, è rafforzata dalla notazione dei colori per una successiva traduzione pittorica. E infine un Autoritratto ‘ipnotico’ condotto con segno deciso a carbone e ripassato a colore, dinanzi a una finestra da cui appare una casa contadina: il rosso del paltò avvampa il pittore che lancia sguardi di fuoco. Tra i pistoiesi assenti alla Mostra del 1913, malgrado la sua militanza nella Famiglia Artistica e i suoi rapporti con Renato Fondi, ma presente come disegnatore alla Mostra alle Regie Stanze nel 1915, troviamo Giovanni Michelucci, la cui prima attività grafica, nota anche per ‘incunaboli’ come la xilografia pubblicata sul numero sesto de zatore in erba, scrittore, pittore, ragioniere, una fede totale Innocenti la ripone probabilmente nella xilografia: “Fui xilografo, e credo che morirò xilografo: quindi, prima cosa, il nero sul bianco”. Di essa l’artista riconosce due stagioni: l’una quella degli esordi tra il 1914 e il 1916 a scaturigine del contatto con Caligiani; l’altra tra il 1939 e il 1942 in cui tenta un’autonoma ricerca – secondo quanto afferma – per fare dell’incisione “un quadro artistico a se stante e non come arte sussidiaria o illustrativa” (Innocenti 1955). Alla luce di queste dichiarazioni si intende il lavoro di ricerca affidato al disegno che possiamo leggere attraverso i fogli a noi pervenuti. Di estremo interesse il fondo conservato presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, acquisito da Sigfrido Bartolini, che a sua volta lo aveva avuto in eredità dalle sorelle dell’artista. Questo cospicuo nucleo di opere su carta offre la possibilità di cogliere la varietà dei motivi di interesse poetico tra i quali seppe muoversi il Giulio pistoiese, assecondando sia la proverbiale ‘indolenza’, certo, sia un’innata curiosità culturale. L’arco temporale documentato va dal primo decennio del Novecento agli anni Cinquanta/Sessanta, con un’ampia e variegata gamma di tecniche e supporti che comprendono il disegno a china su carta o cartoncino spesso successivamente acquarellato; disegni a tempera in punta di pennello; molti fogli di taccuino di piccole e medie dimensioni con figurazioni a pennarello dai colori sgargianti, come per esempio il taccuino dedicato al ciclismo. In uno dei fogli sparsi più interessanti, datato 1916, una linea pulita e continua descrive una strampalata e incongrua prospettiva d’interno in cui si muovono silhouettes di enigmatici personaggi, senza alcun legame apparente, come elementi di un rebus insolvibile: un uccello vola lontano al di là di una finestra, un altro è in gabbia, un tipo passa in bicicletta, un altro cammina radente a un 79 Giulio Innocenti, Autoritratto, lapis e colore su carta gialla riportata su cartone, cm 47,5x34, Pistoia, Fondazione Cassa Risparmio Pistoia e Pescia spicchi Giovanni Michelucci, Nel torrente, anni Dieci, matita grassa su carta gialla applicata su cartoncino, cm 22,2x21, Pistoia, coll. L. Tronci Giovanni Costetti, Ritratto di Giovanni Michelucci, 1913 ca, lapis su carta, cm 25,5x19,4, Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini 12. Si inaugura proprio in questi giorni la bella serie di iniziative dedicate al disegno di Michelucci “Il rinnovamento del Centro di documentazione Giovanni Michelucci. Mostre temporanee, incontri e visite guidate”, Pistoia, Museo Civico, 29 ottobre 2014-18 gennaio 2015. “La Tempra” nel 1914 («La Tempra» 1914, n. 6), è stata ben rintracciata da Salvi (Salvi 2013). A questa mostra, dove figura tra le fronde di una gioventù d’avanguardia, presenta tre disegni a carboncino: Impressione simbolica, La cieca, Impressione. Da quello che si può dedurre da alcune incisioni e xilografie, il ‘segno’ del poco più che ventenne Michelucci si svolge tra accenti liricamente incantati di una personale declinazione di ‘primitivismo’, nel cui solco potevano porsi anche i disegni dello stesso periodo. Non dovettero essergli assenti però afflati di simbolismo visionario con attrazioni ‘pauperistico-sociali’ (Salvi 2004a) da quanto possiamo intuire dal disegno La cieca pubblicato da Sigfrido Bartolini nella monografia di Giulio Innocenti (Bartolini 1997, p. 19), ma a oggi non rintracciabile. Noto invece il disegno Nel torrente, già pubblicato ne Il cerchio magico (2002) adesso in collezione privata, in cui sembra di poter leggere affinità linguistiche e tematiche sia con le xilografie degli anni d’anteguerra sia con altre riferite al 1919-’20. La via del disegno rappresenta per Michelucci, e secondo una sua stessa indicazione, una sorta di ‘mancata’ carriera (Bartolini 1978, p. 167): ancor prima che architetto, Giovanni, per la sua stessa formazione nell’azienda familiare e all’Accademia, nasce disegnatore e incisore. Questa sorta di ‘imprinting’ gli rimarrà addosso anche quando, molto più tardi, nel ‘pensare’ edifici, il suo immaginario architettonico lo conduce a disegnare reticoli di segni che si snodano in radici, tronchi, strade, tracciati umani, pilastri, città. Tutta l’opera di Michelucci potrebbe – o dovrebbe? – essere riletta attraverso i suoi disegni, che sono, anche laddove si configurano come elaborazioni progettuali, la parte portante del suo ‘fare’ architettura. In questo senso, giustamente sono stati interpretati da Corrado Marcetti (Marcetti 2002) come una sorta di ‘diario grafico’ e indicati come la ‘rappresentazione più autentica del pensiero di Michelucci’.12 A quest’altezza c’è da pensare che per Michelucci il disegno fosse la linea attraverso cui perseguire un’idea di purezza che, per mezzo di un esercizio di chiarificazione e pulizia, ponesse l’animo dell’artista in quella condizione di compartecipazione che consente di comprendere le cose tutte della natura e del mondo. 80 Annamaria Iacuzzi Pietro Bugiani, Ritratto di Corrado Zanzotto, lapis su carta, cm 24,5x20, Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini Pietro Bugiani, Ritratto di Renzo Agostini, 1927, carboncino su carta, cm 69x50, Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini Pietro Bugiani, Ritratto di Alfiero Cappellini, 1928 ca, sanguigna su carta da spolvero, cm 33,2x23,1, Montecatini Terme, coll. privata Renzo Agostini, Ritratto di Umberto Mariotti, 1930, lapis su carta, cm 42,5x27, Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini 81 spicchi Renzo Agostini, Ritratto di ragazzo, 1924, matita su carta, cm 36,3x22,3, Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini al suo fianco, anche Giovanni Costetti coltivava da tempo il disegno e, a diverso titolo e con diverso ascendente, invitava i giovani, con l’esempio e la frequentazione, a farne una pratica giornaliera. In questo momento il disegno è sicuramente l’esercizio degli animi che si cercano: per Renzo Agostini (1906-1989), Pietro Bugiani (1905-1992), Umberto Mariotti (1905-1971), Alfiero Cappellini (1905-1969) e Corrado Zanzotto (19031980) esso è il viatico quotidiano verso la formazione di un’identità, e non solo artistica. Una crescita che suona come un riscatto nei confronti del mondo intero in una città di provincia che ancora provincia non è. Con le indicazioni di Michelucci e sotto lo sguardo ‘critico’ di Costetti, questi giovani vanno cercando ciascuno la propria strada attraverso l’elaborazione di un segno che, al tempo stesso, possa condurli in sintonia con la maestria dei primitivi e catapultarli verso la modernità del Novecento. Il resoconto giornaliero del lavoro è passato al vaglio in occasioni comuni, spesso nell’aia o nella cucina di Agostini a Sant’Alessio presso Candeglia, dove si ritrova il Cenacolo ‘alla buona’ di questi artisti: non di rado i risultati si declinano in una incredibile comunanza poetica modulata però secondo sottili ma ben definite inclinazioni personali. In un’ottica di convergenza d’interessi si dispongono sicuramente i ritratti, bellissimi, condotti graficamente con la perfezione dei grandi maestri del passato ma con quell’aura d’incantato stupore che fa di essi la testimonianza più fragrante del Novecento meno retrivo e strapaesano. Sono gli apici del disegno pistoiese tra le due guerre: il ritratto a disegno di Michelucci eseguito da Costetti che dipingerà anche i ritratti di Agostini e di Marino, il ritratto scultoreo di Marino a Lanza del Vasto, il ritratto di Mariotti eseguito da Agostini, i ritratti di Agostini Pietro Bugiani, Ritratto di ragazzo, 1926, sanguigna su carta marrone, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi Umberto Mariotti, Bambino che dorme, 1927ca, lapis su carta, cm 39x35, Pistoia, coll. Elsa Mariotti Dagli anni Venti. La lezione del disegno al vaglio delle generazioni Passata la prima guerra mondiale, l’idea di un valore spirituale legato proprio alla pratica del disegno costituirà la scaturigine di una poetica novecentesca del tutto originale nell’ambito delle province artistiche del Fascismo, e farà dei due Giovanni, Costetti e Michelucci, i mentori delle nuove generazioni attive tra le due guerre. È credenza comune – e non solo tra gli artisti delle generazioni successive – che, stroncati i virgulti avanguardistici di Lippi e Nannini, al passaggio di testimone tra una generazione e l’altra, sia ancora Michelucci a indicare la strada del ‘da farsi’ ai giovani frequentatori della neonata scuola d’arte di Casanova: uscire, andare per i campi e disegnare la natura il cui mistero incantato si rivela nello stupore che si fa segno. In realtà 82 Annamaria Iacuzzi e Cappellini eseguiti da Bugiani, quelli intensissimi dei contadini eseguiti sia da Agostini che da Bugiani. Sono tutti ritratti che, nel solco ideale dell’ispirazione da Costetti, già affascinato da Holbein, cercano la rarefazione del segno verso una linea limpida e sintetica, incisa come una punta secca. I soggetti dei giovani pistoiesi sono tuttavia da cercarsi nel circolo degli amici pittori o nella campagna che li circonda. È difficile considerare questi disegni come fogli di studio: non sembrano averne l’immediatezza ‘dal vero’. La tensione disegnativa è tale da farceli percepire come estremo atto di sintesi formale; un’opera conclusa in cui la linea pare decantata e sublimata da un processo tutto mentale. Che il disegno condotto dal vero venisse poi ripreso e distillato in studio? C’è da pensarlo. Di tutt’altra sentimentalità è invece il ritratto del Ragazzo che ride! del 1929 di Corrado Zanzotto, in collezione presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia. Il pittore originario di Pieve di Soligo, che, pur frequentando il gruppo, alternava periodi a Milano e nel Veneto, si mostra qui aperto anche ad altre sollecitazioni culturali, seppure, almeno in un caso, sia documentata per via di disegno, la sua vicinanza alla ritrattistica dalla linea tersa e sintetica del gruppo, in un ritratto già pubblicato in occasione della mostra La città e gli artisti (La città e gli artisti 1980, p. 275). Anche per lui il disegno costituisce l’origine della riflessione creativa, in cui, soprattutto in questo momento si coglie il punto di passaggio dalla pittura alla scultura, che avviene appunto a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta. Il suo tratto spesso risulta forte e petrigno, il chiaroscuro robusto e l’impianto solido come si conviene a un disegnare che già lascia intuire la massa della scultura: “certe figure bloccate sono già di pietra: lo denunciano le lisce e dure masse del capo […]. Una condizione di assorta fissità […] Corrado Zanzotto, Uomo che ride!, 1929, lapis su carta, cm 39,5x31, Pistoia, Fondazione Cassa Risparmio Pistoia e Pescia Renzo Agostini, Contadino, lapis su carta, cm 31x22, Pistoia, coll. Anna Agostini Pietro Bugiani, Il mugnaio, lapis su carta riportato su cartoncino, cm 35x26, Pistoia, Fondazione Cassa Risparmio Pistoia e Pescia fa sentire le ossa sotto la pelle tesa degli zigomi” (Da Via 1974, pp. 5-7). Non di rado nei vari fondi archivistici di disegni consultati, tra le metodologie riscontrate, si trovano schizzi condotti su taccuini o quaderni, in cui è evidente la traccia di riflessioni successive a un primo momento di ‘ripresa dal vero’. In altri casi il disegno costituisce solo un appunto compositivo per future stesure pittoriche, e quindi i nomi dei colori e i valori dei toni vengono puntualmente annotati sul foglio, in corrispondenza delle relative campiture. Una prassi, questa, comune a molti artisti, da Bugiani a Innocenti, da Bartolini a Lucarelli. Altra metodologia interessante, riscontrata su alcuni fogli di Bugiani degli anni Trenta, è quella di disegnare su una carta impressa con matrice calcografica non incisa: l’effetto conferisce una sorta di invecchiamento raffinato all’immagine. Se volessimo seguire le linee d’indagine del disegno sperimentate dagli artisti attivi tra le due guerre, potremmo scandagliare le sezioni del Bianco e Nero che, secondo la con83 spicchi Pietro Bugiani, Il ponte del Paoli, 1925, lapis su carta, cm 19,8x27,07, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi Renzo Agostini, Paesaggio con albero spoglio, matita su carta, cm 15x12, Pistoia, coll. Anna Agostini suetudine registrata dalle mostre del Sindacato Fascista di Belle Arti, erano proposte a ogni occasione espositiva. A partire dalla Prima Mostra Provinciale d’arte del 1928 la decisione dei pistoiesi di affiancare alle opere esposte una scelta, anche numericamente nutrita, di disegni, appare non casuale, ma come presa di coscienza di un dibattito che andava animando l’ambiente artistico contemporaneo a livello nazionale. Già nel 1919 De Chirico sulle pagine di «Valori Plastici» aveva attuato un recupero sistematico del disegno, individuando in esso la prassi fondante della pittura in un ritorno alla tradizione – e all’ordine – che vedeva contemporaneamente anche la frequentazione e lo studio delle opere dal vivo nel museo. D’altro canto, lo stesso Soffici che si richiamava alla tradizione del ‘3-4-500’, dichiarandosi ‘toscanamente realista’, indicava strade in cui andare a cercare spunti di nuova ispirazione, contemplando tra esse certamente la lezione del disegno degli antichi. Contemporaneamente anche riviste fiorentine come «Solaria», «Il Frontespizio» e «Il Selvaggio» rivolgono la propria attenzione al disegno con un’importante azione di rivalutazione. Il 1° ottobre del 1926 «Il Sel- vaggio» inaugurava la Mostra permanente del Disegno Italiano, aprendo la strada a una messe di collaborazioni tra cui figurerà, oltre a Maccari, Lega, Rosai e lo stesso Soffici, anche Bugiani. In questo clima anche per i giovani artisti pistoiesi motivo di incitamento alla pratica del disegno dovette essere l’azione del ‘solariano’ Felice Carena che, intorno al 1935, in qualità di direttore, cominciava a costituire una collezione di disegni dell’Accademia di Belle Arti. Da quanto evinciamo dal catalogo della mostra sindacale del 1928, l’esposizione non proponeva una sezione di Bianco e Nero, tuttavia molti dei pistoiesi si presentarono con una nutrita serie di disegni, ritenuti quindi opera conclusa e finalizzata alla comprensione dello stile e della personalità artistica. Bugiani esponeva sei disegni in cui aveva ritratto i personaggi del proprio universo disteso tra la Bure e Sant’Alessio. Nel fondo conservato al Gabinetto di Disegni e Stampe degli Uffizi, donato dallo stesso artista nel 1984, alcuni intensi disegni del 1923 ci restituiscono il clima di quello che doveva essere un esercizio quotidiano, rintracciabile dalla progressione delle date poste in calce al foglio. Bugiani sembra perdersi 84 Annamaria Iacuzzi Marino Marini, Rissa, 1929, lapis e inchiostro diluito su carta, cm 22,3x24,3, Pistoia, Fondazione Marino Marini Marino Marini, Scena orientale, 1923, matita su carta incollata su carta, cm 17,2x13,2, Pistoia, Fondazione Marino Marini La mostra pistoiese si pone anche tra le prime apparizioni di Marino Marini come scultore, qui presente con una serie di ritratti. A distanza di pochi mesi, nello stesso anno, alla Galleria Bellenghi, insieme a Caligiani, la scultura di Marino è ancora affiancata a disegni, tra cui si trovano alcuni studi di teste, un Ricordo di Carnevale e il Cristo deriso. Come ricorda Pirovano (Pirovano 1986), la maestria grafica di Marini era stata tramandata dalla memoria della sorella Egle, che riferiva di un suo esordio al disegno già dall’età di dodici anni. Il bel nucleo di carte conservate presso la Fondazione Marino Marini consente di ripercorrere gli anni di formazione, dalle grafiche precocissime (Salvi 2013) ai disegni che la stampa in occasione della Provinciale pistoiese definisce ‘piraneseggianti’ e che “parvero a tutti notevoli come il primo svasamento di un temperamento fantastico e originale a malgrado dell’antico maestro cui facilmente si potevano ricondurre” (Franchi 1928). Di questo afflato visionario alla Piranesi sono certamente permeate alcune carte in cui sotto architetture si dispongono affollamenti di persone in scene da caravanserraglio orientale. La capacità di Marino di destreggiarsi tra sollecitazioni e rimandi culturali è nota, e si intuisce l’estrema facilità con cui il giova- e ritrovarsi nella pratica del disegno della natura, appena può scappa in campagna a lavorare: ne scaturiscono esempi di lirismo poetico ancora insuperato. Tra i nove disegni di Agostini spiccava una serie di studi di teste e ritratti “pieni di lodevole discrezione”, condotti con mano ferma e occhio acuto, in cui “quel che di una figura è linea, profilo, è colto con una sorta d’instancabile e crudele ingenuità vittoriosa che ricorda, senza imitarli, certi astratti resultati della disegnativa incisione di Picasso” (Franchi 1928, p. 23): il Ritratto di ragazzo, riprodotto in catalogo certo è tra i maggiori raggiungimenti del gruppo alla mostra. Angiolo Lorenzi (1908-1945) espose sette disegni definiti ‘amorevoli’ tra i quali probabilmente figuravano fogli simili a quelli donati poco dopo all’amico Bugiani e adesso rintracciati in collezione privata: alcune sanguigne dal fare corsivo e aneddotico in cui sono colti momenti della semplice vita della montagna con una ingenuità sconvolgente (Iacuzzi 1999). 85 spicchi Alberto Caligiani, Ritratto di bimbo, 1927, sanguigna su carta, cm 29x23, Pistoia, Fondazione Cassa Risparmio Pistoia e Pescia Alberto Caligiani, La portatrice, 1927, lapis e carboncino su carta, cm 46,5x31,5, Pistoia, coll. M. Lucarelli pagina a fronte Pietro Bugiani, Appuntapali, 1933 ca, carboncino e pastello su carta da scena, cm 114x91,5 Pistoia, Fondazione Cassa Risparmio Pistoia e Pescia Pietro Bugiani, Ritratto di contadina, lapis su stampa calcografica non incisa, Pistoia, Fondazione Cassa Risparmio Pistoia e Pescia Angiolo Lorenzi, Paesaggio con panni tesi, anni Venti, lapis su carta, cm 17,2x22,4, Montecatini Terme, coll. privata Giulio Pierucci, Sull'aia, 6-81925, lapis su carta, cm 15x18,5, Montecatini Terme, coll. privata Silvano Palandri, Case e alberi, 1930, cm 24x19, lapis su carta, Pistoia, coll. M. Lucarelli Marcello Lucarelli, Casore del Monte, 1943, inchiostro seppia e acquarello su carta, cm 17,4x24,4, Montecatini Terme, coll. privata ne riesce a trovare una strada di originalità malgrado gli esempi guardati. Pian piano la visionarietà cede il passo a una nota di ‘novecentesca’ introspezione che puntualmente cogliamo nei ritratti. È proprio nel Ritratto del 1925 che si coglie anche in Marino la vicinanza con il milieu culturale gravitante attorno a Costetti e Lanza del Vasto, tra Pistoia e Firenze (Ragionieri 2007). Nel foglio citato sembra chiaro il passaggio che di lì a poco Marino avrebbe fatto verso la scultura: la postura del personaggio che guarda con una leggera torsione della testa e la velatura sul volto rendono effetti tattili e atmosferici propri di certe scabrose superfici scultoree delle opere degli anni successivi, quando sapientemente l’artista sceglieva di accostarsi all’arte etrusca come fonte autentica di ispirazione. Sempre alla mostra del 1928 spicca la scelta estrema di Caligiani, il quale decide di esporre diciannove sanguigne, contraddistintive, secondo Raffaello Franchi, della “facilità di mano di questo pittore che i disegni dimostrerebbero a tutta prima destinato a un’arte di grandi sviluppi se codesta medesima facilità, e i gradevoli effetti ottenibili con la matita grassa e quella visione leggermente deformante che mette in ogni disegno del Caligiani un’impressione eccessiva d’originalità e di buon respiro, non lo circoscrivessero nei limiti di coloro ai quali la fortuna dei begli effetti è troppo liberale per invitarli a prove di più duro impegno” (Franchi 1928, p. 24). La scelta di esporre disegni, dunque, dovette sembrare al critico di poco impegno, se in essi intravide solo ‘il sospetto’ di una più alta pittura. I disegni in questione, oggi sparpagliati tra una serie di collezioni pubbliche e private, testimoniano sicuramente della svolta stilistica che Caligiani intraprende negli anni Venti, entrando nella sfera culturale del Novecento e rivolgendo il proprio sguardo verso il museo e i maestri del Cinquecento da cui trae un segno grasso e sfrangiato che niente di comune sembra avere con la linea tersa di Bugiani o di Agostini. Ecco dunque: La portatrice, del 1927, una seppia, e un’altra serie di disegni di umili soggetti, tutti da collocare tra le pendici della montagna pistoiese. Fanciulli, contadini, animali, donne che fanno 86 Annamaria Iacuzzi la treccia di paglia o la calza, pochi paesaggi: con un tratto pastoso, ma nitido, Caligiani è capace di risolvere un’intero disegno. Tra gli altri artisti presenti alla Provinciale del 1928 con opere su carta, si segnalano anche Giuseppe Bertolli, con nove disegni, il pratese Giulio Pierucci con undici e anche Cesare Gonfiantini, maestro di Bugiani, autore di amabili vedute cittadine. Non più come disegnatore o incisore, Michelucci – già romano dal 1925 – espone nella sezione architettura progetti riprodotti anche in catalogo, volti a documentare la nuova strada professionale appena intrapresa (Vannucci 2009). Il disegno dovette però continuare a interessarlo, come si evince dai fogli romani pervenutici, dedicati all’architettura barocca. La Prima mostra provinciale pistoiese, come sappiamo, con l’intento di celebrare la scuola pittorica locale nel momento della nascita della provincia (1927), fu piuttosto il punto di arrivo delle ricerche in atto almeno da un quinquennio, e il gruppo, di lì a poco, avrebbe intrapreso strade personali a fronte di uno sfaldarsi di coesione che segna la fine di un momento d’incanto. La rottura, come ben sappiamo, fu determinata e segnata dall’avvicinamento di Marini, Caligiani, Bugiani al Gruppo Novecentesco fiorentino prima e al Novecento Italiano poi, e dal subentrare di Soffici nell’orbita dei riferimenti culturali dei pistoiesi. L’intima convinzione che la pittura dei giovani pistoiesi costituisse un unicum poetico permeato di stupore e spiritualismo al tempo stesso, convinse Lanza del Vasto a includere i giovani nelle sue conferenze sull’arte in America e a organizzare una mostra a Berlino nel 1931, denominata L’Arco, per la quale a Bugiani chiedeva, oltre a opere pittoriche, proprio alcuni disegni. Anche alla Mostra del 1929, Arte pura, i pistoiesi si presentano con una nutrita schiera di opere a disegno. Accanto a Bugiani, Cappellini, Caligiani, Agostini ormai francese, Lorenzi e Pierucci che sembrano confermare le proprie scelte poetiche del 1928, si registrano le presenze di Mauro Fondi con alcune opere xilografiche, di Chiappelli e di Andreina Nuti con alcune acqueforti. Così lungo gli anni Trenta e i primi Quaranta, nelle esposizioni sindacali provincia87 spicchi Giulio Innocenti, Studio di Composizione, 1927, penna su carta, cm 22x31,2, Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini Giulio Innocenti, Studio di Composizione-Al mare, 1927, penna su carta, cm 20x27,6, Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini Giulio Innocenti, Studio di Composizione-Al pascolo, 1927, penna su carta, cm 20,5x29,4, Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini Giulio Innocenti, Studio di Composizione-Vita campestre, 1927, penna su carta, cm 20x28,4, Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini pagina a fronte Giulio Innocenti, Via Crucis, Gesù davanti a Pilato, 1944, china su carta da lucido, cm 51,5x71,5, Pistoia, Fondazione Cassa Risparmio Pistoia e Pescia Giulio Innocenti, Bambino con coniglio, 1931, tempera su carta, cm 33x49, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi Francesco Chiappelli, Mosè con le tavole della legge, china e tecnica mista su carta, cm 31x24,5, illustrazione per il volume Storia Sacra di Tito Casini, 1939, Pistoia, Fondazione Cassa Risparmio Pistoia e Pescia Francesco Chiappelli, L’arca di Noè, china e tecnica mista su carta, cm 31x24,5, illustrazione per il volume Storia Sacra di Tito Casini, 1939, Pistoia, Fondazione Cassa Risparmio Pistoia e Pescia li pistoiesi – ma la ricerca dovrebbe essere estesa anche alle occasioni regionali e nazionali come la Triennale, la Quadriennale e la Biennale (Toti 2007) – la scelta di esporre disegni appare per gli artisti cittadini una scelta connaturata ai tempi e alla propria indole. Tra i più attivi nell’ambito del disegno in questi anni è sicuramente Bugiani, impegnato adesso in grandi fogli che spesso traduce in affresco e che evidenziano il suo avvicinamento al maestro del Poggio, Soffici, verso cui si indirizzano contemporaneamente anche altri del gruppo pistoiese, come Cappellini. L’intero nucleo di questi disegni su carta da scena, alcune volte marcati dai segni della quadrettatura per il riporto, sono adesso conservati presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e costituiscono un campo interessante per lo studio del disegno sia in riferimento all’enucleazione dell’idea compositiva che precede la stesura dell’affresco, sia in termini di opera finita. Il disegno per Bugiani è, in questo momento e ancora una volta, al centro delle proprie riflessioni: “Nell’arte tutto è disegno. Quando una cosa è disegnata, è dipinta” – si leggeva sul suo quaderno di pensieri nel 1927 echeggiando chissà cosa –: quanto questa affermazione risulta calzante per il nostro pittore! In merito al disegno Bugiani prende posizione dalle colonne della testata cittadina «Il Ferruccio» che di tanto in tanto mostra un vago interesse per questa produzione. Infatti nel 1933 pubblica L’Ombrone di Bugiani, Paesaggio di Umberto Mariotti, Ritratto di giovane di Cappellini, Ritratto di Danilo Bartoletti di Innocenti, un paese di Giuseppe Bertolli e, nel 1943, alcuni disegni acquarellati con vedute di Casore del Monte di Marcello Lucarelli. Su questa rivista, nel 1932, Bugiani scende in campo a distinguere le false strade del disegno dalle giuste, indicando tra le prime quelle del disegno illu88 Annamaria Iacuzzi strativo e infantile, del disegno professionale e dell’accademia, e indicando invece quella corretta nell’esempio dei maestri del passato rintracciati in Masaccio, Leonardo, Raffaello, Michelangelo e Tiziano. D’altra parte al disegno, come alla pittura – verrebbe da dire – spetta un altro compito: “Rendere con forza tutta la verità poetica di una cosa conferendole vastità e stile fu il segreto di tutti i grandi ai quali fu concesso di penetrare il mistero dell’universo mediante l’amore, la saggezza, il Genio” (Salvi 2004b). In questi anni è anche da segnalare la collaborazione di Bugiani con «Il Selvaggio» sul quale è pubblicato nel 1933 il disegno Casolare («Il Selvaggio» 15 dicembre 1933). Già nel 1935 invece Cappellini aveva pubblicato su «Il Frontespizio» il disegno Il villone; mentre nel giugno del 1939 la stessa rivista dedicò sia a Pietro che ad Alfiero approfondimenti biografici corredati da disegni («Il Frontespizio» 1939, n. 6). Questa pubblicazione ci consente di verificare lo stato del disegno nei due pittori. Bugiani presenta paesaggi e figure intonate al corso della sua pittura in questi anni, permeata da atmosfere cupe e solenni, e ancora una volta ripropone la litografia de L’Attesa. Cappellini pubblica paesaggi in cui il tratteggio crea una tassellatura cromatica che, caratteristica della sua pittura, sarà destinata a fare scuola negli anni a venire. Di questo periodo sono anche alcuni fogli con figure colte in momenti di profonda sofferenza: una sorta di crudo realismo che ormai segna il passo verso un disincantato sguardo sulla realtà della vita. Al disegno per l’illustrazione si dedica nel decennio Francesco Chiappelli con le tavole a inchiostro acquarellato per l’Aminta del Tasso e per il volume Storia Sacra di Tito Casini (ambedue del 1939): i disegni da cui prendono origine le illustrazioni sono adesso rintracciate presso collezioni pubbliche e private e forniscono occasione di riflessione circa tecniche e modalità di traduzione dal disegno alla stampa. Assente alla mostra del 1928, Giulio Innocenti ritorna a esporre tra i pistoiesi alla IV Sindacale nel 1933. Malgrado la lontananza dalle esposizioni dovuta alla guerra e al compimento degli studi, Giulio negli anni Venti ha continuato a disegnare: una traccia lieve, emersa tra i fondi consultati, ci mostra belle prove di studio per composizioni datate 1927, dove si intuisce il passaggio in atto dal segno inciso alla pittura. Si muove dalle sponde di una sorta di primitivismo che ricorda Van Gogh e Gauguin, a cui assomma l’amore per le piatte superfici decorative di Matisse. In altre elaborazioni la 89 spicchi Umberto Mariotti, Paesaggio, anni Quaranta, fotografia d’archivio Alberto Caligiani, Casa nel bosco, 1930 ca, seppia su carta, cm 24,3x33, Montecatini Terme, coll. privata Alfiero Cappellini, Malato nel letto, 1937, matita grassa su carta, 37,2x48,4, Pistoia, coll. M. Tuci Alfiero Cappellini, Paesaggio, 1937, lapis su carta, cm 37x48, Montecatini Terme, coll. privata visione della campagna ha ancora il sapore ingenuo degli anni Dieci e il paesaggio con la stalla e il pagliaio ha quinte di ‘alberini a cavoletto’ che puntuali ritroviamo all’orizzonte nel dipinto Bigonciai del 1932. Nel 1934 si presenta alla XIX Biennale di Venezia con disegni a tempera in cui il segno campisce con grande tratto l’intero foglio per il resto lasciato bianco o leggermente acquarellato: il taglio prospettico, secondo le predilezioni dell’artista, è spesso ribaltato o incongruo, mentre i soggetti sono di affezione popolare, con visioni di interni, soprattutto di stazioni o di mezzi di locomozione. Negli anni Quaranta, come dice lo stesso artista, si avvicina nuovamente alla xilografia; al 1944 si riferisce il progetto ambizioso di una Via Crucis che non vide mai la luce, malgrado nel tempo altre occasione gli aves- sero fornito il pretesto di utilizzarne le tavole già preparate. I disegni preparatori, eseguiti su grandi carte da lucido, sono adesso conservati presso la Fondazione Cassa di Risparmio; di quest’opera, nota per la pubblicazione di Bartolini (Bartolini 1978, pp. 102-107) ci parla Parronchi come di alcune tra le sue cose più belle: “Qui vedo non soltanto capacità d’invenzione compositiva inusuale, ma anche, in assoluta compostezza di spirito religioso, un modo di sceneggiare nel nostro tempo la tragedia di Gesù, in uno spazio di campagna toscana appena incorniciato da quinte di costruzioni classiche in una continuità dall’antico al moderno resa sensibile da attitudini ferme e quasi statuarie che il tratto della penna sensibilizza drammaticamente” (Bartolini 1997). Ancora estrapolando dai cataloghi delle mostre sindacali degli anni Trenta annotia90 Annamaria Iacuzzi manifesti per molte iniziative pubbliche del tempo come la Festa dei fiori a Montecatini, o le mostre sindacali pistoiesi. Il pittore Giuseppe Bertolli, attivo anche come critico d’arte sulle colonne de «Il Ferruccio», propone, in alcuni disegni rintracciati degli anni Trenta, nudi femminili o studi per composizioni più ampie, probabilmente dedicate a decorazioni pubbliche o alla cartellonistica, in cui mostra un fare monumentale, certo a conoscenza delle teorie inerenti portate avanti da Sironi. E mentre Pistoia, grazie a Uberto Bonetti, trovava una sua iconografia aerofuturista proprio in alcune belle tavole a disegno, alle mostre sindacali incontriamo una giovane leva del movimento Silvano Palandri (19131976), a noi noto solo dalla riproduzione di alcuni dipinti e disegni del periodo pubblicati sul catalogo della mostra La città e gli artisti (La città e gli artisti 1980, pp. 263265). Parallelamente alcuni suoi disegni di mo i nomi di coloro che espongono nelle sezioni del Bianco e Nero: nel 1932 alla III Sindacale pistoiese rintracciamo Cleto Lapi e una quanto mai fugace apparizione di Arturo Stanghellini, presente con alcune sanguigne satiriche che incontrarono la lode della stampa: “Ho detto originalità: questa si riscontra nelle sanguigne di Arturo Stanghellini (non è giovane… ma è pistoiese). Vi noto polso sicuro, una costruzione eccellente e una meravigliosa presa di giro per tutta la nostra consuetudine di vivere” (Gianrenato 1932). Nel 1935, alla V Mostra Sindacale pistoiese, Bertolli, Cappellini, Innocenti e Zanzotto espongono disegni di cui non conosciamo il titolo, mentre Bugiani espone incisioni e Mazzei alcune impressioni. Per Mazzei, fiduciario del Sindacato Fascista di Belle Arti a Pistoia, l’impegno più preponderante in questo momento è certamente quello del pubblicista e del cartellonista, ideando i 91 Giuseppe Bertolli, Festa dell’uva a. XIX, bozzetto, 1941, lapis su carta, cm 32x22, Pistoia, coll. M. Lucarelli Silvano Palandri, s.t., 1932, fotografia, Pistoia, Archivio Museo Civico Luigi Mazzei, Festa del fiore estivo, manifesto, 1937, Pistoia, coll. M. Lucarelli Giuseppe Bertolli, Alla fonte, 1930/1933, lapis su carta, cm 50x57, Pistoia, coll. M. Lucarelli spicchi Sigfrido Bartolini, Casolare romano, 1957, disegno a pennello, olio su cartoncino, cm 25,7x35,7, Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini Sigfrido Bartolini, Una casa come un tempio; Un cipresso come un obelisco, 1968-69, pagina del quaderno dedicato ai casolari toscani, cm 28,5x27,5, Pistoia, Centro Studi Sigfrido Bartolini Alla ripresa dei lavori nel dopoguerra, come accennato in apertura, sarà Vasco Melani a ritirare le fila della memoria di una stagione di disegno a Pistoia: nel 1947, infatti, alla Saletta Masaccio una mostra di Bianco e Nero ricuciva i rapporti tra vecchie e nuove generazioni in nome del disegno, mentre nel 1954 si proponeva il recupero della memoria di Andrea Lippi proprio con un’esposizione dei suoi fogli. Estremo esempio della lezione del disegno come fondamento della pratica artigiana della pittura, è in Sigfrido Bartolini (1932-2007): in lui, più che in altri, è forte il senso di una tradizione da recuperare, di una memoria da mantenere. Nel disegno si muove fissando su taccuini gli elementi della campagna che più e più volte ha visto nelle uscite con gli artisti suoi maestri: dedicato alle case toscane, una sorta di bell’esemplare di ‘libro d’artista’ in cui Sigfrido ritrae le case e i casolari della tradizione con annotazioni poetiche a margine. Il disegno è una pratica strenua che sembra non approdare mai a una fine: come se la mano non potesse saziarsi dell’esercizio stesso del disegnare. Quindi, se da un lato, in lui la linea si sposa alla xilografia, dall’altro tutta una serie di sperimentazioni sono riservate paesaggio degli anni Trenta segnano la svolta nel solco di un naturalistico ritorno all’ordine. La stagione del secondo Futurismo a Pistoia è breve, ma, a onor di cronaca, registriamo la presenza di Victor De Sanctis, sottoscrittore del manifesto futurista della moda e autore di alcuni bozzetti per abiti, nonché di sintetici disegni (Colucci 2011). Al volgere degli anni Trenta alla VI e VII Sindacale di Belle Arti, le esposizioni e i cataloghi, prevedono una ben definita sezione di disegno in cui ancora una volta incontriamo Bugiani, Cappellini, Innocenti, Ulisse Lippi, Lorenzi, Palandri, Agostini e Zanzotto a cui si aggiungono anche Renato Arcangioli, Anselmo Lorenzini, Alfredo Maccanti, Athos Ponziani. Da segnalare, tra una miriade di studi e altri disegni di difficile identificazione, le litografie e il cartone da affresco esposti da Bugiani a cavallo tra il 1937 e il 1938 alla VI Esposizione Sindacale pistoiese. Quasi impossibile seguire le tracce del disegno negli anni Quaranta, tra lo sfaldarsi del gruppo pistoiese in un dilagare di esperienze espositive personali che guardano verso l’esterno piuttosto che alle scarse occasioni cittadine, e la guerra imminente. 92 Annamaria Iacuzzi Valerio Gelli, La mamma, 1948, matita blu su carta, cm 33x25, Pistoia, coll. M. Lucarelli Jorio Vivarelli, Testa virile, sanguigna su carta gialla, cm 34x24, Pistoia, coll. M. Tuci Aldo Frosini, Ritratto di vecchia, 1948, cm 32x22, matita su carta, Pistoia, coll. M. Lucarelli Corrado Zanzotto, Profilo di vecchio, 1949, matita su carta, cm 21x25, Pistoia, coll. Saracini 93 spicchi 13. Si vedano al riguardo le pagine dedicate al disegno nei cataloghi delle mostre antologiche dedicate a questa generazione dalla Circoscrizione 2 del Comune di Pistoia tra il 1988 e il 2001. Doveroso ricordare il volume di Mario Luigi Bianchi, Moccichino, 1971, illustrato con venti disegni di Mirando Iacomelli. imputare al cambiato contesto in cui si pone la loro stagione artistica. Per questi ragazzi, infatti, la lezione del figurativo si gioca costantemente sul filo di una tensione che scaturisce dalla necessità di immaginare una nuova forma in un momento di profondo cambiamento politico e culturale. Nel tempo e lungo i decenni del dopoguerra, ciascuno di loro si muoverà ricavandosi, non senza sacrifici, una strada personale, che contempla a più riprese anche il disegno, che diviene tuttavia, per alcuni di loro, più occasionale. Per altri invece, come Valerio Gelli, o Lando Landini, o Mirando Iacomelli, il disegno è un esercizio quasi frenetico, che li accompagnerà per il resto della loro attività.13 Gelli e Iacomelli frequenteranno di tanto in tanto anche l’incisione con risultati di pregio (Salvi 2013). Nei primi anni del secondo dopoguerra i disegni di Zanzotto dedicati ai vecchi del Villone Puccini e anche al paesaggio, caratterizzati da un tratto obliquo e volumetrico, evidenziano punti di contatto con i disegni di altri futuri scultori. Una linea ideale, infatti, unisce questi fogli ai ritratti intensi eseguiti a matita da Valerio Gelli e da Jorio Vivarelli in questi stessi anni. Sono i vecchi di casa, la madre, il padre, la zia: uomini e donne di un’umanità sopravvissuta, il cui volto, segnato dalla fatica e dal dolore, è esempio di forza e resistenza. In questi disegni il tratteggio indugia sul volto fortemente chiaroscurato, conferendogli una massività scultorea, mentre il resto della testa è spesso tralasciato: un modo di disegnare e di scolpire che più volte riscontreremo in Zanzotto (Corrado Zanzotto 2004). Altri vecchi li vediamo agli esordi di Aldo Frosini, che al disegno e all’incisione dedicò successivamente anche molte prove con nudi femminili e alcune vedute romaniche, spesso acquarellate. E ancora troviamo i disegni di Landini dedicati alle ricamatrici di casa, a Bonelle, o alcuni autoritratti in cui alle tecniche del disegno. In certe prove su carta colorata degli anni 1956-1957, come già anni prima aveva fatto Innocenti, disegna in punta di pennello con la tempera, affidando a queste prove un valore di trait d’union tra i monotipi e la pittura degli anni successivi. “Nulla dies sine linea (Apelle). Stupendo e giustissimo consiglio che non sono riuscito a osservare” si legge come incipit di un quaderno di Bartolini del 1991. La frase faceva forse da eco al consiglio che Soffici gli aveva rivolto in occasione di una visita al Poggio insieme al più anziano amico Bugiani: “Disegni a chili!”. La lezione del disegno impartita alla Scuola d’arte negli anni Quaranta e nel secondo dopoguerra, attraverso la testimonianza di Bugiani, Mariotti, Cappellini, Zanzotto adesso professori, ancora faceva i conti con la tradizione che si nutriva degli insegnamenti di Michelucci e di Costetti sì, ma anche dell’esempio di Soffici, Carrà e Rosai. Il disegno è la pratica su cui si fonda l’insegnamento alle nuove generazioni e nel solco di questa tradizione muovono i passi i ragazzi della ‘generazione di mezzo’: Aldo Frosini (1924-2013), Valerio Gelli (1932), Mirando Iacomelli (1929-2007), Marcello Lucarelli (1923-2010), Francesco Melani (1907-2002), Alfredo Fabbri (19262010), Lando Landini (1925), Jorio Vivarelli (1922-2008), Remo Gordigiani (19261991), L. Bruno Bartolini (1926-1976). Un disegno di Marta Magni (1904-1987), delizioso nella sua annotazione di colore, ci mostra Del Serra e Iacomelli intenti a lavorare in una seduta di ritratto e ci riconduce all’atmosfera di cordiale condivisione che si instaurava tra allievi e maestri, non solo nelle aule di scuola ma soprattutto nelle uscite in campagna per disegnare e dipingere. Tutti praticano il disegno con raggiungimenti originali che, se da un lato si pongono nel solco dei maestri, dall’altro registrano nuove ansie e nuovi struggimenti tutti da 94 Annamaria Iacuzzi Mirando Iacomelli, Fortezza di Santa Barbara, 1948 ca, lapis su carta, cm 14x19, Pistoia, coll. M. Lucarelli Mirando Iacomelli, Campagna dell’Ombrone, 1975, lapis su carta, cm 35x50, Pistoia, coll. M. Tuci Lando Landini, La fornace, 1952, lapis su carta, cm 30x48, Pistoia, coll. M. Lucarelli Alfredo Fabbri, Gli stradini, 1955, matita su carta, Pistoia, coll. privata si percepisce uno studio sul sintetismo della linea e della forma, tra adesione al realismo e aneliti di astrazione, secondo un andirivieni formale che contraddistingue la ricerca di questo artista nelle stagioni a venire. Il paesaggio di Pistoia dalla Bure all’Ombrone torna in molti disegni del periodo; Alfredo Fabbri diviene un lirico disegnatore del paesaggio del Barba, più e più volte disegnato dalla finestra della sua soffitta. I luoghi della Pistoia del dopoguerra tornano in bei disegni di Mirando Iacomelli degli anni Quaranta, o di Egle Marini, o di Sigfrido Bartolini, o di Remo Gordigiani: penso alle case coloniche, ai nebbiari desolati nella campagna, alle fornaci e ai capannoni con gli operai, alla Fortezza e ai tendoni del circo in Piazza d’Armi proprio dove mio padre poco prima aveva giocato a calcio in pantaloncini corti e piedi nudi perché non si sciupassero le scarpe, mentre altri mandavano alti gli aquiloni. Spunti di contemporaneità del disegno nelle poetiche dal secondo dopoguerra Ma quale futuro si apre per il disegno nella seconda metà del Novecento? A guardare dalla soglia del terzo millennio, la strada appare costellata da esiti interessanti, tutti stilisticamente ben connotati all’interno del panorama artistico cittadino. La delimitazione locale del nostro esame non dovrà però trarre in inganno: si tratta di esperienze che devono essere ricondotte al più ampio orizzonte internazionale, specialmente adesso che l’ottica globale ci consente verifiche in presa diretta con la contemporaneità e uno sguardo meno lacunoso sul passato appena prossimo. Un futuro radioso, dunque, a considerare la variegata modulazione delle risoluzioni che, incentrate sul disegno, fanno di esso un fulcro propulsivo per la ricerca: una felice stagione grafica che produce – mi sia consentito 95 spicchi Lando Landini, Paesaggio, anni Cinquanta, lapis su carta, cm 49x57, Pistoia, coll. M. Lucarelli Giovanni Michelucci, Centro termaleMassa, 19-6-1978, pennarello su carta, cm 25x35, Comune di Pistoia, Centro di Documentazione Giovanni Michelucci Egle Marini, Il leone romanico sulla chiesa di San Pietro, 1960 ca, penna nera e acquarello su carta, cm 49x33, Pistoia, coll. M. Lucarelli 14. Nel 1974 Michelucci dette alle stampe due cartelle di acqueforti per il Bisonte. affermarlo – risultati mai banali. Il fenomeno investe tutte le generazioni artistiche. Michelucci, per esempio, seppur lontano dalla città, proprio negli anni Ottanta, ma già con antecedenti nel dopoguerra, affida a disegni e schizzi alcune delle sue più visionarie elaborazioni segniche: in esse sembra ritrovare il caos magmatico della creazione primigenia da cui scaturiscono cellule architettoniche primordiali (Le visioni dell’architetto 2003). “Cos’altro aggiunge il disegno nell’attività di un architetto? Rappresenta sicuramente il diario più attendibile di una disponibilità alla ricerca [...]”, ebbe a dire al riguardo del disegno e del progetto. Per Michelucci architetto, nel disegno si mantiene dunque quel ‘coefficiente di irrealizzabilità’ che rende ‘il senso di un’attesa laboriosa di qualcosa che può anche non concretizzarsi in un progetto’ e come tale costituisce il punto di riferimento più suggestivo tra l’opera e l’uomo’ (Marcetti 2002). In molti fogli, che percepiamo liberi da un assillo di corrispondenza costruttiva, il dato naturale la fa da padrone: vi si trovano radici che divengono reticoli di strade, alberi che aprendosi a ombrello, secondo il processo di ramificazione, definiscono nervature di soffitti o elementi strutturali portanti; bucrani che si deformano in calotte abitabili. Anche quando, ogni tanto, torna all’incisione, la sua attenzione pare sempre catturata dalla natura.14 Il ductus limpido e incisorio fa capolino anche in alcuni disegni degli anni Quaranta, dedicati alla montagna pistoiese che ancora l’architetto frequentava dal suo ritiro della Cugna, come possiamo evincere dai fogli conservati al Centro di Documentazione Giovanni Michelucci presso il Museo Civico di Pistoia. E che dire dei disegni di Valerio Gelli – eseguiti proprio in quest’ultimo decennio – in cui lo scultore con un segno pulviscolare ritrae gli alberi dietro la casa di gioventù a 96 Annamaria Iacuzzi pretesto per mettere in campo un magma segnico brulicante e tellurico che disgrega completamente la visione in una materia di luce. La sensazione è quella di una visione a volo d’uccello sulle distese degli argini e, contemporaneamente, di un inabissamento tra le zolle della terra. Ancora un segno pulviscolare è quello che contraddistingue certi disegni di Egle Marini degli anni Settanta. In famiglia il disegno è una sorta di abilità congenita, rafforzata dai legami affettivi con un uomo, Alberto Giuntoli, che fece dell’autoritratto e del ritratto della moglie una sorta d’incessante – e quasi ossessivo – campo di esercitazione. Per Egle il disegno diviene col tempo una pratica costante di censimento degli affetti fino al punto di dedicare molti schizzi ai gatti di casa. Dedica anche a se stessa una serie di ritratti sintetici, quasi caricaturali, condotti a penna con un tratto quasi unico, su fogli di carta giallina. Ma i disegni degli anni Settanta in cui con un seminare di tratti descrive la città di Pistoia sono diversi. In essi è come se Egle fosse riuscita, dall’alto dell’eremo della casa di via San Pietro, a comprendere con lo sguardo la città chiusa dentro l’abbraccio delle mura: Sant’Alessio, più e più volte fermati dal vero? Attinge, adesso, nella memoria, il ricordo del crepitio delle foglie che muovendosi al vento trascolorano dal verde all’argento. Molte volte li abbiamo ascoltati insieme, sono i nostri alberi preferiti. Proprio dove adesso la Camposampiero ha piantato un frutteto, c’è una radura con i pioppi: son convinta che, proprio lì, Valerio ha immaginato la ‘capanna dell’angelo’, di michelucciana memoria, che si scorge tra i fusti degli alberi disegnati. E ancora i nidi vuoti che con maestria di segno divengono – allegoria poetica – crogiuoli da cui far sgorgare la materia della scultura. Apici poetici che difficilmente potremmo eludere dall’annoverare tra i maggiori raggiungimenti disegnativi del XXI secolo. Al fianco di questi lavori di Gelli, accomunati da un senso pulviscolare del tratto, vorrei porre i disegni astratti di Lando Landini, anch’essi recentissimi e in linea con elaborazioni degli anni Novanta. In questi fogli, spesso di grande formato, gli argini dell’Ombrone a Bonelle divengono un 97 Valerio Gelli, La capanna dell’angelo (Omaggio a Michelucci), 2001, brace e matita su carta, cm 52x40, courtesy l’artista Lando Landini, Paesaggio, 1974, matita e carboncino su carta, cm 42,2x62,2, Pistoia, coll. privata spicchi Umberto Buscioni, Con la moto, 1967, matita su tela, cm 13,2x15, courtesy l’artista Roberto Barni, Il castello, 1990, china su carta, cm 56x59, Pistoia, coll. privata Roberto Barni, Senza titolo, fusaggine su carta, cm 61x85, Pistoia, coll. S. Simoncini il taglio prospettico è ardito e restituisce la dimensione poetica interiore da cui i fogli scaturiscono. Alcune volte sono l’angelo di San Michele in Cioncio o il leone di San Pietro a suggellare la figurazione come silenti guardiani. Tornano in mente le parole da lei stessa scritte ricordando la città dell’infanzia vissuta col fratello: “Pistoia, medievale e un po’ ferrigna, arroccata presso l’Appennino dentro un cerchio di mura sbrecciate, coi suoi marmi bianco-neri, la grinta di animali di pietra sull’alto delle lesene, le colline e il piano” (Marino Marini 1998). Già dagli anni Sessanta a Pistoia è un pullulare di esperienze di livello altissimo, spesso in linea con quanto si muove a livello internazionale, seppure con accenti autonomi che ben mostrano quanta energia propulsiva animasse luoghi lontani dalla mischia del mercato. Potremmo accennare qui all’esperienza dei ‘Pop’ della Scuola di Pistoia: splendidi disegni, per esempio, accompagnavano l’enu- cleazione formale di certi grovigli di Barni (1939) negli anni Sessanta-Settanta, mentre già Cesare Vivaldi (Vivaldi 1969) sottolineava come Buscioni (1931), il più legato alla tradizione pittorica del passato, avesse dalla sua parte una sorta di artigiana creatività del disegno che anche allora lo distingueva dagli altri del gruppo. Il felice rapporto di Umberto col disegno è infatti alla base della sua stessa pittura, ed è consustanziale all’esistenza della persona stessa. Fin dalle prime elaborazioni ‘pop’ con la motocicletta, con la scarpa da tennis o con le cravatte, la trama del segno scandisce la pittura, indicandole il proprio posto sulla tela, spartendo la superficie con una tassellatura precisa, netta, bidimensionale. Nel Glossario dell’artista, un brano dedicato all’opera Motociclet98 Annamaria Iacuzzi Umberto Buscioni, Vicino al cipresso, anni Ottanta, pagina di taccuino, china, acquarello e matita su carta, courtesy l’artista Umberto Buscioni, Stanze smemorate 10, anni Novanta, cm 12x18, penna su carta, courtesy l’artista Gianni Ruffi, Dipanare il mare, tecnica mista su tavola, cm 70x100, Pistoia, courtesy Galleria Farsetti ta sull’erba del 1968, descrive la genesi del dipinto sul filo del disegno che, nel ricordo, diviene il filo della vita intessuto di aspettative e di illusioni: “Sopra questa motocicletta dipinta si è consumata un’illusione, ero più giovane allora; il disegno lo rilevai da un depliant della Gilera. L’avevo inclinato sul tavolo e già la moto pareva stesa sull’erba, la disegnai, soltanto un filo sottile cercava di inventare il motore dell’anima mia. […] Le corse in bicicletta sono corse in bicicletta, il disegno lo spago arcuato che sosteneva gli aquiloni, la trama, il respiro del vento, l’intenzione, l’illusione colmata di sospetto, l’odore che si può perdere se il colore non è carico di nostalgia” (Buscioni 1992). “C’è un disegnatore all’opera, nel percorso di Buscioni” e la sua è una fedeltà al disegno totale, quotidiana, ininterrotta e indiscussa nel tempo (Barilli 2002; Gurrieri 2002). Lo è, fedele, sia quando col segno solcava il puzzle degli intrichi dei rifiuti urbani, sia quando, a partire dalle elaborazioni degli anni Ottanta e Novanta, sfrangia la pittura in lame di fuoco che si storcono e arricciano in linee rabescate che tanto sarebbero piaciute a Pontormo. Nei bei disegni a penna degli ultimi anni, caratterizzati da un ritorno alla figurazione completa e non più frammentaria o solo oggettuale, il chiaro scuro spesso fa a meno del colore. Altre volte, invece, la pittura nasce proprio dalle pagine di piccoli taccuini, da cui il maestro attinge per composizioni più ampie. Si tratta per lo più di figure aeree: angeli sospesi o in caduta dal cielo, figure divine affacciate a nubi squarciate da lampi improvvisi e che non sappiamo collocare né in cielo o né in terra. Ci sono poi disegni che, autonomi da una restituzione pittorica, accompagnano i componimenti poetici. Già nei taccuini si 99 spicchi Paolo Tesi, Pinocchio e il disincanto, carbone su carta, cm 104x144, courtesy l’artista Paolo Tesi, Pinocchio in processione, carbone su carta, cm 104x144, courtesy l’artista Giuseppe Gavazzi, Il sogno, 2013, particolare, carbone su carta, cm 150x250, Pistoia, coll. privata dopo la stagione oggettuale pop, torna alla figurazione in un recupero colto degli antichi sia per quanto riguarda la forma, sia per la tecnica. A partire dagli anni Ottanta infatti, il suo Viator, l’uomo spesso bendato in marcia perenne, è protagonista di molti disegni dal sapore metafisico. Questi fogli sono sia di carattere progettuale che autonomo e raggiungono risultati fortemente icastici soprattutto quando il segno si frappone alla materia pittorica della tela. Tutt’altro che accessoria anche la prassi disegnativa di Remo Gordigiani, del quale già Salvi evidenzia l’eccezionale inclinazione verso la grafica in alcune incisioni dei primi anni Cinquanta (Salvi 2013; Iacuzzi 2008). Come abbiamo avuto modo di analizzare altrove, quello che poteva essere un impedimento fisico – una dermatite degenerativa da contatto alle mani – divenne per l’artista spinta propulsiva per una sperimentazione del tutto autonoma e originale sui mezzi espressivi tradizionali. Così come per il collage, anche il disegno costituì un campo di percepisce che disegno e poesia afferiscono alla stessa sfera dell’immaginario creativo dell’artista, ne sono probabilmente i due poli fondanti e, quando la trama fitta dei segni vela e ‘annuba’ l’immagine fino a renderla evanescente, è chiaro un processo ondivago che ha per oggetto proprio la poesia: se da un lato il segno tende a manifestarla dall’altro essa si cela ineffabile proprio nel suo apparire. Intendiamoci il disegno non è estraneo nemmeno agli altri del gruppo, come Ruffi, Natalini, Barni. Basti ricordare i disegni progettuali di Gianni Ruffi (1938), paralleli all’enucleazione dell’idea scultorea, o l’esperienza dei disegni di architettura di Adolfo Natalini (1941), che dal 1954, per sua stessa dichiarazione, inizia a disegnare come un compito assegnato, e che nel tempo affida al disegno il diario giornaliero della propria progettualità (Adolfo Natalini 2002). Emblematica, all’interno di un ritorno alla tradizione che caratterizza il postmoderno, la vicenda artistica di Roberto Barni che, 100 Annamaria Iacuzzi sperimentazione, a più riprese tra gli anni Sessanta e Settanta. Nel 1974 Gordigiani si dedica alle ventiquattro tavole del progetto Il mare: disegni che costituivano la fase progettuale di altrettanti acquarelli eseguiti nel biennio successivo. Malgrado la traduzione pittorica sia ineccepibile, l’elaborazione grafica risulta, a mio avviso, entusiasmante, per il rigore con il quale tecnica e poetica riescono a combinarsi senza sbilanciare il tutto. La maestria nel giocare con inquadrature fotografiche che manipolano la luce come se la mano fosse l’otturatore di una camera oscura, restituisce con la grafite riflessi, rimbalzi, rifrazioni luminose sulla superficie del mare. L’impianto geometrico è rigoroso: le fasce lineari luminose dilatano e sintetizzano lo spazio in campiture plastiche ponderate. In alcuni casi, come nei fogli di Corre in riva mare del novembre del 1976, la sequenzialità dei disegni denuncia apertamente l’ispirazione fotografica mentre con il tratto a matita riesce a restituire il brillio degli schizzi d’acqua nel controluce: un disegno ‘impressionistico’, lo potremmo definire con le parole dell’artista, ma condotto nel rigore di un mezzo meccanico. La stagione disegnativa figurale si protende fino ai giorni nostri con una tale ricchezza di modulazioni da rendere impossibile in questo contesto un’analisi dettagliata che presupporrebbe una disamina caso per caso; ci limitiamo a sottolineare come anche per Luigi Russo Papotto (1955), Andrea Dami (1946) o Giuseppe Gavazzi (1936) il disegno non sia una frequentazione sporadica; o a ricordare in Edoardo Salvi (1949) uno strenuo disegnatore e un abile incisore di legni. Tra gli altri dobbiamo anche annoverare Paolo Tesi (1945), razza di furioso genio del segno per il quale, a ragione, è stata coniata la felice espressione di ‘compulsione disegnativa’. Non è un mistero che per Paolo il disegno sia una sorta di immersione consapevole nell’inconscio poetico e viscerale da cui trar fuori mostri metamorfici, insetti e pinocchi a dismisura. In lui l’espansione del segno pare essere proporzionale all’affondo nella zona interiore profonda: è un disegno che – in senso traslato – espone direttamente gli organi interni dell’artista, senza pelle, senza alcuna sorta di protezione o inibizione. Parallelamente a ricerche per certi versi ancora legate a un retaggio ‘classico’ del disegno, dobbiamo evidenziare come tra i Cinquanta e i Settanta uno specifico ambito di sperimentazione sia legato all’opera di Fernando Melani (1907-1985) e Gianfranco Chiavacci (1936-2011). L’avvicinamento delle due personalità, unite da un legame di amicizia e di confronto artistico praticamente quotidiano a partire dalla metà degli anni Sessanta, serve a sottolinearne la peculiare ricerca artistica all’interno di una prospettiva cittadina che risulta essere, per loro come per altri, estremamente restrittiva. 101 Remo Gordigiani, Corre in riva al mare 3, 16 novembre 1975, matita su carta, cm 42,8x40, Pistoia, coll. Famiglia Gordigiani spicchi Gianfranco Chiavacci, GF2090, 28 gennaio 2006, pennarello e inchiostro su carta, cm 33x24, Pistoia, Archivio Gianfranco Chiavacci Fernando Melani, FM735 Set 55, matita e matita a colori su carta, cm 30x21, Comune di Pistoia, Casastudio Fernando Melani stanno svolgendo ricerche analoghe nell’ottica della sperimentazione programmatica, cinetica, optical. Di sicuro la loro posizione di ‘retroguardia’ – per non usare il termine ‘di provincia’ che potrebbe avere un’accezione retriva, ma quanta ricerca artistica autentica in questi anni muove in senso propulsivo dalle province italiane? – non li rende secondi a nessuno: la loro ricerca, da una prospettiva più ampia, risulta altamente innovativa, al di là della loro assenza dai luoghi del contemporaneo dibattere artistico. In entrambi il disegno costituisce un ambito di prova in cui verificare i propri assunti, ma in nessun caso esso può intendersi come preparatorio nei confronti dell’opera finita, anche se corrispondenze linguistiche si intravedono con il resto della loro produzione artistica. Il disegno pertanto riveste un ruolo di punta nella ricerca, ma con un’autonomia che lo rende fresco campo di sperimentazione. In ambedue gli artisti la Mentre, infatti, nell’orizzonte artistico pistoiese, già a partire dal secondo dopoguerra e poi nei Sessanta, contemporaneamente coesistono una figurazione ancora ‘novecentesca’, con cui si confrontano i nati della ‘generazione di mezzo’ (Valerio Gelli, Lando Landini, Marcello Lucarelli, Jorio Vivarelli, Aldo Frosini, Mirando Iacomelli, Francesco Melani, Remo Gordigiani, Alfredo Fabbri) e una ‘nuova figurazione’, di accezione oggettuale-pop, che segna la poetica della Scuola di Pistoia (Barni, Buscioni, Ruffi, Natalini), le ricerche di Fernando Melani e Gianfranco Chiavacci muovono da presupposti che negano totalmente la pittura come rappresentazione del reale per affermare la necessità di un approccio estetico meno soggettivo e individualistico. La scaturigine da cui ambedue muovono è, dunque, quella di un assunto scientifico/ matematico che diviene generativo, creativo in senso estetico. Non sono soli in questa ‘scommessa’; altri in Italia e all’estero 102 Annamaria Iacuzzi risultante è altamente auto-generativa, seppur con finalità diverse. Occorre pertanto fare un distinguo, anche e soprattutto a fronte di esiti formali che a una visione distratta potrebbero sembrare affini. In Melani, la sperimentazione grafica nasce da una verifica di assunti e di leggi scientifico-universali: in questo ambito il segno condotto dalla mano è divenuto ‘materiale’ alla stregua del legno, del ferro e del piombo, e come tale, fatto oggetto di indagine. Nelle sue elaborazioni segniche, si ha spesso la sensazione che vi sia come ‘rappresentato’ il ‘costrutto dell’universo’, così come giungeva all’artista dagli assunti della fisica quantica. In altre parole, la risultante della sua elaborazione grafica produce qualcosa che percepiamo come ‘descrittivo’ e che ancora siamo portati a ricondurre alla sfera della ‘pittura’, seppure nel solco dell’astrazione e malgrado la ‘rappresentazione’ non costituisca affatto il fine estetico a cui Melani vuol giungere. In Chiavacci la sperimentazione segnica genera da un assunto matematico-combinatorio, e in un certo senso, pare costituire un elemento poetico/primigenio. Nella sua opera ‘grafica’ – dove il termine discende direttamente dalla radice ‘grafia’ nel senso di scrittura – il segno diviene scaturigine di senso e di ricerca al tempo stesso: inventa una vera e propria nuova scrittura. Nella sperimentazione grafica di Chiavacci a partire dalla fine degli anni Cinquanta, è racchiusa in potenza la ricerca dell’artista negli anni a venire sia per quanto riguarda la pittura binaria, sia anche le aerograforme e soprattutto la fotografia, fino agli episodi dei libri d’artista dove si coglie un abbandono al piacere estetico del segno che, ben oltre dal divenire leziosità, contraddistingue la sua opera in termini di eleganza e raffinatezza). A dimostrazione di quanto il disegno abbia trovato a Pistoia terreno fertile per sviluppi autentici nella contemporaneità, sta a pieno diritto la stagione del Graficismo che Massimo Biagi (1949) porta avanti dalla metà degli anni Settanta, quando con le Birografie, enucleava un segno “polisignificante” con il quale indagare in maniera totale la realtà, ma al di fuori della figurazione in senso stretto, riaffermando al tempo stesso l’unicità e l’irripetibilità creativa di fronte alla società massificata e consumistica. In sé, il Graficismo, attraverso una serie di manifesti (Foglio/manifesto) enucleati lungo gli anni Ottanta, si identifica come evento connotativo di una vera e propria esperienza incentrata sul segno che “aspira a una totalità assoluta pregnante, espressiva, comunicativa, simbolica e metaforica” (Brancolini 2012). Sicuramente la sua esperienza trova a Pistoia riferimenti in personalità come Fernando Melani, ma al contempo rivendica una continuità ideale con una tradizione nella linea del disegno che ha in Michelucci un amore riconosciuto (e lungamente frequentato). 103 Massimo Biagi Miradario, Opera graficista, 1982, penna a inchiostro fluido su carta, cm 70x50, Marliana, coll. Massimo Biagi Miradario Massimo Biagi Miradario, Il nobile e la preghiera, 2014, pagina tratta dal libro d’artista Il canto/n.30, p. 1640, penna a inchiostro liquido su carta, cm 27x21, coll. Massimo Biagi Miradario Massimo Biagi Miradario, Strafigurato figurista, 2014, pagina tratta dal libro d’artista Il canto/n.30, p. 1673, penna a inchiostro liquido su carta, cm 27x21, coll. Massimo Biagi Miradario spicchi Giorgio Ulivi, Leda e il cigno, 1966, china su carta, cm 20x14,5, courtesy l’artista Giorgio Ulivi, Scrittura, 1965, inchiostro su carta, cm 37,5x50, courtesy l’artista Giorgio Ulivi, Baccano, 1965, inchiostro su carta, cm 74x100, courtesy l’artista condizionamento sociale. In questo senso il suo segno si trova costantemente a forzare i limiti dei supporti ai quali si riferisce: travalica la superficie bidimensionale e crea forme polisemantiche che debordano in pitture materiche e tattili, in sculture estroflesse, in strutture ‘eccitoplastiche’, in oggetti d’uso. Come a suo tempo il Futurismo, così il segno graficista ambisce a creare una nuova visione del mondo in un processo incessante di rideterminazione semantica. La stagione del Graficismo è prolifica e si sostanzia di corrispondenze, d’incontri poetici, di scambi epistolari, di proposizioni teoretiche che vanno spesso a generare pubblicazioni autoprodotte, riviste, testi. Il rovello poetico sembra procedere per antinomie: il frammento e il tutto; il dentro e il fuori; il movimento e la stasi. In questo continuo divenire del segno Biagi è adesso giunto a un dissidio insanabile in cui la linea è il confine di demarcazione tra figurazione e astrazione, percepite come le opposte facce di uno stesso problema. Il ritorno alla figurazione è segnato dall’epopea di Miradario, in cui Biagi torna a coniugare immagine e parola – suo antico amore – dando vita a splendidi libri d’artista. C’è in lui l’idea connaturata che immagine e parola costituiscano una sorta di monade inscindibile, e Miradario è altresì la messa in scena del segno che si fa parola. È al tempo stesso colui che chiede e che risponde senza mai arrivare a una completezza di pensiero, senza mai trovare una verità univoca: è specchio della complessità contemporanea. In questa nuova stagione, che è l’attuale, la scrittura è atto costitutivo di una nuova verità segnica che si dilata fino alla performance. Anche nell’opera di Giorgio Ulivi (1938) il segno si evidenzia come un elemento connaturato, una specie di leit motiv sotterraneo che ripetutamente emerge in una produzione artistica variegata ma resa coerente an- La sua formazione, avvenuta alla Scuola d’arte, lo porta a dover sanare il dissidio insito al confronto tra la tradizione figurativa dei maestri come Bugiani e la sponda della nuova sperimentazione. È interessante seguire la scaturigine grafica del movimento in alcuni fogli praticamente inediti del 1982 – agli albori – in cui la superficie è interamente cosparsa da tratti che procedono sul foglio seguendo il gesto controllato dell’energia segnica impressa dal braccio. Non c’è in lui automatismo gestuale, quanto piuttosto il bisogno e la volontà di riportare il segno a una naturale corporeità, perseguita secondo la propria energia fisica e mentale. La superficie risulta così cosparsa di segni in cui il momento di avvio è generato come da dei piccoli ‘occhi’ – quelli che Fernanado Melani ebbe a chiamare ‘bocchi energetici’ – che tanto ricordano i buchi neri dello spazio. L’innegabile interesse scientifico rimanda a una riflessione più ampia sul gesto che traccia il segno e la sua relazione con lo spazio circostante, anche in termini di 104 Annamaria Iacuzzi che in virtù di questo elemento fondante. La ricerca segnica contraddistingue molte fasi della sua esperienza che si svolge a partire dagli anni Sessanta, nel solco di una formazione che lo indirizza alla figurazione. Ben presto tuttavia l’incontro con l’opera del gruppo Co.Br.A lo porterà a immaginare una scrittura segnica incentrata sulla gestualità come forma liberatoria, e una sgradevolezza estetica come provocazione e rifiuto nei confronti della tradizione pittorica. In questa analisi sul disegno all’interno dell’ambiente cittadino, la ricerca di Ulivi negli anni Sessanta mette a fuoco la necessità, comune a molti della sua generazione, di ‘scappare’ dalle braccia rassicuranti dei maestri per volgere lo sguardo altrove. Il lavoro del Gruppo Co.Br.A e il riferimento all’arte ‘brutta’ di Dubuffet costituiscono in questo momento per lui una molla propulsiva per un lavoro visionario. Si pongono a questa altezza certi disegni in cui il racconto – ultimo residuato della figurazione? – è svolto con una gestualità deformante, un ‘segno acidulo e corroso’. In essi è spesso la storia di esseri ironicamente maltrattati, contorti, contrapposti in antagonismi sessuali talvolta brutalmente espliciti. Giorgio è in questo momento un disegnatore incessante e usa qualsiasi supporto: carte grandi, piccoli taccuini, foglietti di recupero, prediligendo l’inchiostro nero e la tempera dai colori cupi. Dei Racconti esegue anche alcune litografie datate 1965. Parallelamente a questa sorta di visionaria e corrosiva figurazione, che per certi versi ci richiama a una ‘infantile’ presa diretta con lo stomaco, fanno comparsa pagine in cui una costellazione di segni calligrafici ambisce “già a una libertà cancellando la materialità del foglio” (Lunardi 2003-2004, p. 10). Le origini di questi disegni sono grafie contorte o illeggibili, spesso tracciate creandosi degli impedimenti oggettivi – come il fatto di disegnare con la mano sinistra – nel chiaro intento di cercare un segno tanto più autentico quanto più spiacevole, ‘brutto’ in senso estetico. L’intento è evidentemente quello di liberarsi del retaggio accademico e della perizia tecnica come paludamento dell’ottima opera d’arte. È in sostanza la presa di coscienza di un cambiamento nel fare l’opera d’arte che mette in campo l’artista in prima persona e visceralmente, con il gesto e con il corpo. Inizia così un lavoro costante di annotazione calligrafica. Quello della calligrafia, intesa come pretesto segnico, è un elemento destinato a riapparire – per vie sotterranee e misteriose che hanno a che fare con un percorso artistico che si svolge per lunghi cicli – in opere eseguite dal 2000. In questi ultimi lavori, e anche nella nuova fase in cui Giorgio è adesso impegnato, il recupero di pagine con scritture antiche gli offre il prete105 Zoè Gruni, Malocchio II-5, Vaticano, 2011, fusaggine su stampa fotografica, cm 90x90, courtesy l’artista spicchi di interesse in termini di innovazione tecnica e di poetica. Il suo lavoro è incentrato sulla paura e sulla capacità immaginifica umana di esorcizzarla dandole forma. Nel fare questo l’artista-performer usa il corpo come elemento d’incarnazione di figure mitopoetiche che hanno spesso un richiamo alla memoria archetipica universale. Il disegno per Zoè costituisce un felice incontro sin dall’opera Metato (2004-2008), un progetto complesso in cui è inserito anche un intervento grafico su fogli di carta di grande formato. I disegni hanno una forte allusività a parti anatomiche umane in funzioni corporali e costituiscono il contro canto visivo a una installazione video. Con l’opera Malocchio (2010-2011) lo strumento disegnativo viene usato come una tecnica di ‘mascheramento pittorico’, come la definisce giustamente l’artista, che così commenta: “mi piace chiamarla così, perché […] il disegno – inserito nel processo: performance/ autoscatto fotografico/ disegno – diventa l’azione finale decisiva e sostituisce la maschera materica”. In questi casi, infatti, il disegno si pone al termine di un processo in cui l’artista, attraverso una serie di mascheramenti corporei di tipo cinematografico, è l’interprete di una sequenza di autoscatti fotografici manipolati. Il meccanismo messo in campo è giocato sul filo sottile dell’equivoco tra reale e irreale, tra finzione non reale e realtà della finzione. La fitta trama segnica che, con rigore e tecnica ineccepibile, Zoè sovrappone alla stampa fotografica, rimette in moto, in maniera decisiva e necessaria, il gioco dell’equivoco, mentre dal canto suo l’artista si riappropria dell’immagine con un intervento diretto e inimitabile che lo sostanzia come opera d’arte. In qualche modo, l’opera si troverebbe a essere mutila senza l’intervento disegnativo conclusivo. In altri casi, invece, il disegno è uno dei vari elementi costitutivi di lavori performativi Zoè Gruni, Boitatà 2, 2013, fusaggine su carta, cm 70x100, courtesy l’artista Zoè Gruni, Boitatà 6, 2013, fusaggine su carta, cm 70x100, courtesy l’artista sto per una modulazione ritmica segno/colore a cui interpone strappi di carte colorate a mano. Negli anni Sessanta, le calligrafie illeggibili seppur nel disgregarsi del segno, sembrano restituirci vaghe visoni in cui forse sono rintracciabili elementi figurali che ancora cercano di suggerirci un ‘racconto’ possibile. Nei raggiungimenti più intensi la pagina pare risucchiata dal segno che assume nuove e autonome valenze. Sono raggiungimenti di grande interesse che ci consentono, ancora una volta, di annotare con quanta originalità di modulazioni il disegno si dispiega nella contemporaneità, indicando, al tempo stesso in questo territorio di provincia che è Pistoia, una sorta di fucina e di osservatorio privilegiato. Tra gli esiti più autentici, nell’orizzonte delle più giovani generazioni cittadine, Zoè Gruni (1982) sembra indicarci una strada 106 Annamaria Iacuzzi complessi a fianco di ‘sculture’ indossabili, fotografie e contributi sonori, come accade nel progetto Boitatà (2013), in cui sette disegni ritraendo le ‘membra sparse’ del mostro di caucciù, sembrano esorcizzarne la presenza. Nella serie di disegni di Metapotere (2009) figurazioni metamorfiche del corpo umano mostrano esibite ibridazioni sessuali che sottintendono un lavoro profondo sul mito e sull’archetipo in un riflesso incessante di specchi in cui rintracciare elementi costitutivi di un’identità contemporanea. Parlando di questo lavoro, l’artista sottolinea anche un ‘risvolto’ performativo che apre a considerazioni comportamentali legate a una sorta di primigenio ‘automatismo’ insito nella pratica stessa del disegno: “Il disegno, specie nelle grandi dimensioni, è un altro strumento che utilizzo per lavorare sulle metamorfosi del corpo. Un gesto, quello che traccia segni con il carbone sul foglio, ancora di carattere performativo, in un corpo a corpo con la figurazione che emerge dalle stratificazioni della memoria, personale e collettiva. L’ambiguità anatomica delle forme si confonde con una fisionomia animale, e allude al ritorno di una primordialità, da cui scaturisce una riflessione sull’identità” (Zoè Gruni, 2014). In questo senso, dunque, Zoè sembra affermare che il disegno, come strumento performativo, produce un gesto organicogenerativo in grado di riconnettersi a strati di memoria personale e collettiva. E non è forse questa la soglia primigenia da cui operano artisti e bambini nel momento stesso in cui, disegnando, interpretano e inventano il mondo circostante? Che sia questa la strada verso un nuovo futuro del disegno? APPENDICE Teoria estetica e disegno: i casi di Fernando Melani e Gianfranco Chiavacci Immagino Fernando Melani mentre disegna: la mano segna sul foglio come se essa fosse un sismografo che registra l’energia del costrutto dell’universo, scandagliandone attraverso traiettorie della linea lo spazio interstiziale. I segni tratteggiati e disuniti si dispongono in angoli che ‘sembrano’ descrivere uno spazio curvo intriso della stessa energia che compone la materia e in cui tutto si muove per scambi energetici. Nell’Archivio di Casa-studio Fernando Melani sono conservati molti fogli che potremmo definire disegni: vari tipi di carte con interventi segnici tracciati con penna biro, matite colorate, pennarelli o pittura acrilica. Nell’osservazione risulta chiara la differenza che intercorre tra le elaborazioni segniche prodotte con l’idea di opera autonoma e quelle eseguite piuttosto come sperimentazione riconducibile a una sfera di ‘verifica’ teorica. In questo caso i disegni hanno il gusto dell’esperienza in presa diretta, raramente del progetto. Spesso il supporto è di riciclo come il retro di certi fogli di cartoncino di un calendario illustrato con opere d’arte; le carte leggere da macchina da scrivere; le carte quadrettate dei blocchi. Seguiamo la sua sperimentazione a partire dalla fine degli anni Quaranta sfogliando i lavori su carta contenuti in una cartella ricavata da un quaderno con coperta nera telata. Parallelamente allo svilupparsi della ricerca leggiamo le schede che sapientemente Donatella Giuntoli (1941-2005) – artista essa stessa, amica di Melani e curatrice dell’Archivio – ha stilato per ciascun foglio, chiarificando le intenzioni dell’artista. Da questa analisi opera per opera prende vita il testo La dimensione terza pubblicato nel volume Fernando Melani, Un’esperienza bio-artistica, scritto dalla stessa Giuntoli ma uscito postumo nel 2010. Il contributo offre una ri107 Fernando Melani, FM10B Dic 53, n. inv. 980, inchiostro e matita a colori su carta, cm 23,5x20, Comune di Pistoia, Casa-studio Fernando Melani Fernando Melani, FM19 Gen 54, n. inv. 988, inchiostro e matita a colori su carta, cm 23,5x20, Comune di Pistoia, Casa-studio Fernando Melani spicchi Fernando Melani, FM15 Gen53, n. inv. 984, inchiostro e matita a colori su carta, cm 23,5x20, Comune di Pistoia, Casa-studio Fernando Melani Fernando Melani, FM38 Feb54, n. inv. 1004, inchiostro su carta, cm 23,5x20, Pistoia, Comune di Pistoia, Casa-studio Fernando Melani 15. I fogli sono numerati da 1 a 42 ma nella sequenza mancano alcuni disegni; le carte sono in tutto 36 e corrispondono ai numeri di inventario 971-1008. 16. N. inv. 972, FM2. flessione illuminante sul valore del disegno all’interno della ricerca di Melani: un testo imprescindibile per capire la portata dell’intera opera dell’artista. All’interno di questa rassegna di carte, una sequenza di fogli, omologhi per fattura e supporto, è stata contrassegnata dall’artista con una numerazione autonoma.15 I disegni sono stati tracciati sul retro di moduli inutilizzati di carta per protocollo in un arco temporale che va dal gennaio 1953 al febbraio 1954. Cogliamo in essi alcune delle prime esperienze legate a una riflessione inerente al concetto di spazio fisico piuttosto che a quello di spazio visivo; una sorta di ‘rappresentazione’ segnico spaziale che, in senso generale, potrebbe richiamare alla mente il lavoro grafico di Fontana. Spesso la superficie è disseminata di segmenti insistiti più o meno angolati e strutturati dentro uno spazio che via via s’incurva. Questi segni per Melani “certamente significano qualcosa di molto preciso, rettilinei ma restituiti da un segno che assomma al suo interno numerose minime inclinazioni. Sono connotazioni estremamente concrete, forse fessure, linee di confine, vuoti che si insinuano fra gli elementi compatti. Pensava già al discontinuo? Certo osservava le fratture nel continuo della materia, visibili a livello microscopico”.16 Il tratteggio insistito e ripetuto si frappone negli interspazi tra i segni, distinguendo con tratti più o meno incrociati alcune forme chiuse, palesando ciò che deve essere immaginato disposto su piani – o meglio su ‘strati’ – diversi poiché il suo “è uno spazio fatto di strati, in quanto spazio concreto, denso di eventi pertinenti alla materia” (Giuntoli, 2010). Rispetto alla qualità estetica di questo tratteggio Donatella lascia intendere un’ammirazione di Melani nei confronti dei maestri della tecnica del disegno e dell’incisione: “Pensando all’uso fatto del tratteggio in genere nei disegni dove Melani si serve di quest’espediente per dare concretezza agli spazi, e alla maestria raggiunta negli ultimi disegni inventariati, non posso fare a meno di ricordare la considerazione in cui Melani teneva le tavole incise del Doré, proprio a proposito dell’uso più o meno incrociato. Se in lui più spesso emerge la tendenza eversiva dell’ex liceale mai approdato alla conclusione 108 Annamaria Iacuzzi Fernando Melani, FM30 Gen 54, n. inv. 996, inchiostro e matita a colori su carta, cm 23,5x20, Comune di Pistoia, Casa-studio Fernando Melani Fernando Melani, FM20 Gen 54, n. inv. 989, inchiostro su carta, cm 23,5x20, Comune di Pistoia, Casastudio Fernando Melani degli studi, polemico nei confronti dell’insegnamento accademico, qualche volta appariva, a prescindere, un’ammirazione della tecnica del disegno”.17 Il concetto di ‘discontinuo’, dunque, è per Melani strettamente legato all’idea di un universo materico composto di molecole e atomi e in cui un ruolo centrale è giocato dal vuoto stesso, da considerarsi certamente come una presenza di eventi e non come un’assenza di possibilità. Questa serie di carte enucleano dunque una ricerca che si lega strettamente al nocciolo teorico di Melani: l’idea che la pittura non sia una rappresentazione del reale, ma che lo spazio della realtà sia il luogo stesso dell’accadimento della pittura, ossia il suo supporto. In questo modo ciò che Melani esperimenta nel campo d’azione in cui si dispone la pittura è reale tanto quanto la realtà stessa, senza esserne una descrizione o un rifacimento analogico. In questo contesto il segno che si dispone sul foglio ha valenza di accadimento fenomenico reale. Esso si deposita a scandagliare le infinite possibilità di quella che Melani chiama ‘terza dimensione’, os- sia la dimensione di uno spessore che per quanto impalpabile esiste negli interstizi della materia e dell’universo e quindi anche sul piano su cui il segno stesso si dispone. La sperimentazione legata al segno è protratta nel tempo e diviene progressivamente più sottile. La mano-sismografo usata come strumento ‘naturale’, cioè assecondata nel suo andamento fisiologico, produce dei reticoli irregolari che si curvano come lo spazio-universo: man mano che – si percepisce – Melani penetra in profondità, lo spazio via via più curvo dell’inosservabile fisico sembra divenire immenso e incommensurabile, cioè misurabile solo per approssimazione, seppur cambiando unità di misura. “Il reticolo diviene contenitore di spazio, ed è questo che Melani riesce a far vedere, mostrando il ‘guscio’” (Giuntoli 2010). Ciò vale anche per gli intrecci di fili di ferro o reticoli tridimensionali in cui saldature evidenti non fanno altro che sottolineare lo spazio disposto tra gli strati su cui essi si trovano. Spesso nella ricerca s’introduce il concetto di ‘quantità’: le esperienze ripetute nel tempo non risultano mai uguali malgrado 109 17. Scheda inv. 1005, febbraio 1954, FM39. spicchi Gianfranco Chiavacci, GF97B-P, pennarelli su carta, cm 30x24, Pistoia, Archivio Gianfranco Chiavacci Gianfranco Chiavacci, GF97B-69, 4/1968, pennarelli su carta, cm 30x24, Pistoia, Archivio Gianfranco Chiavacci 18. L’immagine ‘archetipica’ è affidata a una confidenza/chiacchierata in occasione della prima mostra dedicata alla pittura di Gianfranco Chiavacci organizzata dal Centro di Documentazione dull’Arte moderna e contemporanea pistoiese nel 2007 a Pistoia (Iori 2007). ricordo emozionante era lo stupore della ‘forma che appare dal segno’ a costituire il fulcro del racconto. È proprio questo il mistero del lavoro combinatorio di Chiavacci: un ordine strutturale, quello della binarietà preso a prestito dalla logica del calcolatore elettronico, che diviene al tempo stesso interpretativo e generativo della realtà fenomenica dell’opera, che è, per definizione, ‘apparizione’ o manifestazione. Si potrebbe dire, dunque, che nell’universo di Chiavacci, strutturato secondo binarietà, il segno si pone come elemento ‘monosillabico’ per eccellenza, grado ‘zero’ generativo/propulsivo. Potremmo immaginare il segno, o la linea, come una sorta di filiazione diretta dal reticolo, presente in molte opere di Chiavacci a partire dal 1964. Se infatti il reticolo di fili nasce dallo scorrimento spaziale di un quadrato che diventa doppio quadrato e che si muove lungo le direttrici alto/basso, destra/ sinistra, ogni singolo frammento di esso è un segno potenzialmente altamente informato della struttura stessa da cui proviene. Esso sarà innanzi tutto un segno dinamico. Si potrebbe leggere, in questo senso, una riflessione sul concetto di reticolo: “Mi sembra molto interessante l’effetto della presa di coscienza del mio reticolo attraverso l’apparire e lo sparire continuo delle linee che lo definiscono. D’altra parte per me il reticolo non è fine a se stesso, deve suggerire la genesi dei l’identità progettuale da cui esse scaturiscono e l’identità del soggetto che le conduce. In qualche modo la quantità della ripetizione segnica – come nei fogli tracciati giorno dopo giorno nel novembre-dicembre del 1974 – fa emergere l’unicità del segno che non può risultare mai uguale a se stesso. Si tratta in questo caso di una serie di cartoncini di piccole dimensioni pressoché simili ma mai uguali, in cui Melani inserisce il gesto ‘progettuale’ di un segno che lambisce il margine esterno del foglio in un circuito continuo, abbastanza veloce per ottenerne un andamento deciso. Il segno che non si chiude mai su se stesso, lascia ben evidente il punto in alto a sinistra in cui lo spazio penetra entro il tracciato con il chiaro intento di mettere in attenzione lo spazio dentro e fuori di esso più che il tracciato stesso. Come nel Sacco di fiammiferi, qui Melani riflette sulla gestualità protratta nel tempo che produce una quantità di elementi mai identici tra loro e una riflessione, tutta contemporanea, sulla connessione tra i concetti di spazio e di tempo. All’inizio per Gianfranco Chiavacci fu il segno, potremmo affermare. Lo fu, in effetti, nel suo primo ricordo legato all’arte:18 quel segno del gesso lasciato dal padre sarto sulla stoffa da tagliare e che, come per magia, si rivelava costruttivo della forma. In quel 110 Annamaria Iacuzzi Gianfranco Chiavacci, GF97B-90, Poligrafia, 9/1968, lapis e matita rossa su carta, cm 30x24, Pistoia, Archivio Gianfranco Chiavacci Gianfranco Chiavacci, GF97B-93, Grafie con matrici, 9/1968, lapis su carta, cm 30x24, Pistoia, Archivio Gianfranco Chiavacci Gianfranco Chiavacci, GF97B-108, 1968, pennarello su carta, cm 30x24, Pistoia, Archivio Gianfranco Chiavacci Gianfranco Chiavacci, GF97B-foglio con appunto n. 9, 1968, Pistoia, Archivio Gianfranco Chiavacci fico, ancora non segnato dalla binarietà e vicino a certe formulazioni di Mattia Moreni, per esempio. In questa direttrice introduce anche materiali che in seguito diverranno costitutivi nella sua prassi artistica: nel 1959, di ritorno dalla mostra di Pollock a Roma, fanno la loro comparsa alcuni disegni non figurativi con fili di cotone sovrapposti, come per esempio l’opera n. 1661, in cui è evidente una ricerca non tanto sulla qualità materica del medium, quanto piuttosto sulla sintesi del segno come ovvia scaturigine della natura stessa del filo. Ad attirare il nostro interesse sono anche due album il CGF1 che raccoglie disegni dai numeri 0084 allo 0097 del marzo del 1967 e il CGF2 che contiene l’opera contrassegnata dal numero 97/b che copre un lasso temporale che va dal giugno 1967 al gennaio 1969. miei elementi…” (Iori 2007, p. 23). Ecco, dunque, come il reticolo diviene l’elemento strutturante/materico del lavoro di Chiavacci: mi piace pensare ad esso – forse con una forzatura poetica – come a una sorta di affioramento archetipico del ‘segno’ tracciato dal padre nell’immaginario infantile. Se esaminiamo il lavoro di Chiavacci con uno sguardo d’insieme che, in ragione di una sottesa comune ricerca, non separi pittura, scultura, fotografia, etc.., dobbiamo necessariamente riservare al disegno un ruolo fondante e non accessorio, tanto meno strumentale. Le prime sperimentazioni disegnative superstiti di Chiavacci risalgono al 1957, incunaboli ancora firmati ‘Chigia’, in cui un affastellarsi di segni che formano grovigli e groppi, rende l’idea di una ricerca nell’ambito di un informale gra111 spicchi In realtà sotto il numero 97/b, non si dispone un’unica opera ma una serie di 105 lavori grafici su carta, corredati da cinque tavole concettuali che illustrano la ricerca in corso. Il sapore privato di questo lavoro è chiarito proprio dalla sequenza A-Z e AA-AB a cui sono collegate le cinque tavole concettuali. Il senso di tali sperimentazioni grafiche è illustrato in CATOP (Catalogo delle Opere redatto dall’artista), riferitamente al CGF1: “L’aspetto che più mi ha interessato in queste ricerche: considerando due o più ritmi, ciascuno come il ripetersi di elementi segnici a distanza monotóna determinata, e quindi avendo due o più ritmi interi, ciascuno come il ripetersi di elementi segnici a distanza monotóna determinata, e quindi avendo due o più sistemi monoritmici ciascuno a cadenza determinata, e operando la sovrapposizione di essi, si ha la creazione di un ritmo complesso che, nonostante venga determinato dai precedenti, va oltre questi diventando molto più che sommatoria dei costituenti. […]”. Questa esperienza grafica dunque consiste per Chiavacci in una ricerca di tipo ritmico-combinatorio in cui sistemi segnici semplici, ‘mono-tóni’, appunto, a loro volta pretederminati, vengono a interagire. Ancora una volta, come nella parallela ricerca pittorica binaria, la combinatoria produce qualcosa che a livello di linguaggio va oltre alla semplice sommatoria degli elementi. La capacità auto-generativa dei sistemi sollecitati sembra cogliere di sorpresa Chiavacci, che appunta, per se stesso, riflessioni su metodologie ulteriori di analisi e di visualizzazione dei fenomeni. Due elementi sembrano interessanti nell’appunto pragmatico-teorico appena citato: a) l’idea ben chiara che gli elementi segnici costituiscano un grado ‘minimo’ considerato ‘mono-tóno’, ossia un ‘grafema’, all’interno di una sequenza ritmica che di lì a poco Chiavacci chiamerà ‘grafia’; b) il concetto di ‘ritmo’ sotteso all’operare combinatorio. In ambedue i casi siamo dinanzi a considerazioni destinate a creare un certo riverbero all’interno dell’intera opera di Chiavacci che parallelamente a queste sperimentazioni compone testi teorici correlati. Ci pare entusiasmante seguire la ricerca legata ai fogli A-Z leggendo il contrappunto teorico che, passo passo, chiosa alcuni dei fogli, indicando le variabili metodologiche sottese al fare: A-2/68 “mano sospesa senza appoggio, lentamente”; B-2/68: “punto di partenza esecuzione velocissima”; C-2/68: “esecuzione veloce, da punto a punto, passando per punto” etc… Alla nota 2 del foglio datato 7-2-68, si apre una riflessione sul senso estetico legato al ‘fare’: “Se il fenomeno estetico, nel suo farsi, e nella percezione a posteriori è oltre la nostra tecnica conoscitiva (probabilismo), tanto vale sperimentarlo continuamente. Dalla valutazione statistica (quindi numeri) può venire una qualche risposta.” Il fenomeno estetico è dunque ‘esperito’ alla stregua di un fenomeno matematico/statistico: il tentativo è quello di definire una combinatoria nella creazione artistica che ‘ridefinisca’ la nozione estetica di ‘stile’. E riallacciandosi al concetto di ricerca stilistica ‘fisiologica’, commentando il foglio con la lettera N, scrive: “Partire (p.es. in N) dal campo fra le due righe rosse, predeterminate, e ritraendo velocemente [la mano, n.d.r.] trascinare verso dx. ECCO. L’imprecisione nella partenza e nella fine di ogni traccia, sono segni di comportamento fisiologico”, che quindi, come tale, rende complessa la comprensione a posteriori del fare artistico. Più avanti in altri fogli, introduce una sperimentazione segnica a partire da un ‘pragma’ di base (matrice programmatica) su cui interviene secondo una variazione angolare imposta: la configurazione che ne emerge crea una interferenza con la matrice programmatica a un livello che Chiavacci definisce ‘analogico’. Questa interferenza, 112 Annamaria Iacuzzi con apici altissimi, dal carattere di autonomia estetica. In questo senso si potrebbe citare il volume d’artista DUE, un libro iniziato nel dicembre del 1992 e terminato nel 1996. Il pretesto, irresistibile agli occhi di Gianfranco, è un volume enciclopedico non stampato che l’artista utilizza usandone le pagine per elaborazioni dal carattere esclusivamente grafico, variando il fenomeno segnico secondo mezzi e metodologie operative sempre variati: lapis, inchiostro, grafite, pennarello, penna a sfera, tagli, incisioni, strappi, ritagli, traslazioni, impressioni, trasparenze, e molto altro ancora. La casistica combinatoria si dispiega all’infinito senza mai produrre risultati ripetitivi: si percepisce, ed è evidente, l’estrema gioia dello sperimentare, il gusto sottile e raffinato che porta Gianfranco a una modulazione ricchissima in termini di variazione e invenzione. Al fortunato fruitore cui sia consentito sfogliare integralmente le pagine del volume, è riservato il piacere di una sollecitazione estetica, visiva e tattile totale. Opere grafiche di carattere autonomo sono alcuni lavori eseguiti a partire dal 2005, in cui una personale riflessione esistenziale porta Gianfranco a elaborare fogli in cui una serie di reticoli si dispongono in opposizione dinamica. In essi si coglie una dualità positivo/negativo, spesso associata alla bicromia, che lascia intuire un forte dissidio interiore. La qualità tremolante del tratto, tracciato non appoggiando mai la mano al foglio, rende dinamica l’interazione tra i sistemi di reticoli, che invece d’immaginarie trame segniche, hanno adesso l’aspetto di garze fortemente plastiche; mentre, nella sua risultante di insieme, il valore segnico, sottile e scarno, è assimilabile all’incisione. Sono lavori bellissimi di cui probabilmente non si immaginava un uso pubblico, ma in cui Gianfranco, ancora una volta, incontra una risultante estetica straordinaria e inedita. proprio in quanto interferenza, è molto più interessante della ricerca stilistica ‘fisiologica’ in quanto tale: risulta generativa del ‘fenomeno’ estetico a un livello superiore che non implica la variabile umana. Giungiamo così a una serie di fogli, all’interno della stessa sequenza 97/b, – non numerati internamente – in cui una matrice di segni mono-tóni si dispone nello spazio secondo traslazioni e curve che in sé, in nuce, già contengono i germi della sperimentazione pittorica e fotografica a cavallo degli anni Sessanta e Settanta. Spesso sono indagate le curve di espansione e di traslazione in linee che si snodano anche in un binomio cromatico. Nel foglio datato 6/68, corrispondente al 97b-69 amplifica una linea con due curve (binarie?) andando a ingrandire e rimpicciolire progressivamente e parallelamente l’una e l’altra: la risultante è plastica e richiama con forza le esperienze di estroflessione che Chiavacci metterà in campo con le ‘garze’ e con le ‘aerograforme’. In specifico è chiara la comunanza tra questo tipo di attività segnica e quella che sarebbe stata, di lì a poco, la ricerca fotografica, laddove il termine ‘grafia’ si sottende ad ambedue i processi: scrittura ossia registrazione di fenomeno segnico mono-tonale spazialmente dinamico, in parallelo a una registrazione visiva di un evento luminoso in movimento. Ed ecco dunque i fogli titolati: “grafie, poligrafie e matrici”, dove l’organizzazione ‘scritturale’ dei sistemi segnici contiene al tempo stesso tutte le potenzialità della pittura, della scultura e della fotografia di Chiavacci negli anni a seguire. La sperimentazione grafica, dunque, sia nel senso di ‘scrittura’ autogenerativa e propulsiva all’interno della ricerca artistica, sia nell’ottica di un’indagine più strettamente inerente le potenzialità del segno, modulato secondo pragmatiche via via concertate più o meno espressamente, è una presenza costante all’interno dell’opera di Chiavacci 113