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842 Le vicende narrate in questo romanzo sono opera di fantasia, eccetto che per le parti che non lo sono. Titolo originale: The Atlantis Gene. A Thriller Copyright © 2013 A.G. Riddle Published in agreement with the author, c/o BAROR INTERNATIONAL, INC., Armonk, New York, U.S.A. All rights reserved. Traduzione dall’inglese di Tullio Dobner Prima edizione ebook: febbraio 2015 © 2015 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-7915-8 www.newtoncompton.com Realizzazione a cura di Il Paragrafo, www.paragrafo.it A.G. Riddle Atlantis Genesi (The Revelation Saga 1) Newton Compton editori Ad Anna Prologo Nave da ricerca Icefall Oceano Atlantico 88 miglia dalla costa dell’Antartide Karl Selig si appoggiò meglio al parapetto per osservare bene l’enorme iceberg attraverso le lenti del binocolo. Si staccò un nuovo pezzo di ghiaccio e cadde in mare, mostrando un’altra sezione del lungo oggetto nero. Sembrava… un sottomarino. Ma non poteva essere. «Ehi, Steve, vieni un po’ a vedere». Steve Cooper, l’amico d’infanzia di Karl, finì di legare una boa e raggiunse il compagno sull’altro lato della nave. Prese il binocolo, diede una rapida occhiata e si fermò su un punto. «Cavoli! Che roba è? Un sottomarino?» «Forse». «Cosa c’è sotto?». Karl riprese il binocolo. «Sotto…». Esaminò la zona sotto l’oggetto. C’era qualcos’altro. Il sottomarino, se era un sottomarino, sporgeva da un secondo oggetto metallico, grigio e molto più grande. A differenza dell’altro, l’oggetto grigio non rifletteva la luce, e ricordava quelle specie di onde che si scorgono tremolare all’orizzonte di un’autostrada surriscaldata o di una vasta distesa di deserto. Ma non era caldo, quantomeno non stava sciogliendo il ghiaccio che lo circondava. Subito sopra la struttura Karl notò i resti di una scritta sulla fiancata del natante: “U-977” e “Kriegsmarine”. Un sommergibile nazista. Che sporgeva da… una struttura non meglio definita. Karl abbassò il binocolo. «Sveglia Naomi e preparati all’attracco. Andiamo a controllare». Steve corse di sotto e Karl lo sentì chiamare Naomi da una delle due cabine della piccola imbarcazione. La società che aveva sponsorizzato il suo viaggio aveva insistito perché prendesse con sé anche lei. Alla riunione Karl aveva accettato e in cuor suo si era augurato che non gli fosse d’impiccio. Gli era andata bene. Quando, cinque settimane prima, erano partiti da Città del Capo, in Sudafrica, Naomi era salita a bordo con due cambi d’abito, tre romanzi d’amore e abbastanza vodka da ammazzare un esercito di russi. Da allora non l’avevano praticamente più vista. “Questo viaggio dev’essere una noia mortale per lei”, pensava Karl. Per lui era l’occasione di una vita. Alzò il microfono e osservò ancora una volta la montagna di ghiaccio che circa un mese prima si era staccata dall’Antartide. Quasi il novanta percento dell’iceberg era sott’acqua, ma la parte emersa misurava comunque più di 120 chilometri quadrati: una volta e mezzo le dimensioni di Manhattan. La tesi di laurea di Karl trattava l’influenza dello scioglimento di iceberg di recente formazione sulle correnti marine planetarie. Da quattro settimane lui e Steve collocavano intorno all’iceberg boe high-tech che misuravano la temperatura del mare e il rapporto acqua salata/acqua dolce, oltre a effettuare periodici rilevamenti sonar della forma in perenne mutamento della montagna di ghiaccio. Lo scopo era di conoscere più a fondo il modo in cui gli iceberg si disintegravano dopo aver lasciato l’Antartide. L’Antartide contiene il novanta percento del ghiaccio del mondo e, quando si fosse sciolto nei secoli a venire, avrebbe travolto completamente il mondo intero. Karl sperava che la sua ricerca aiutasse a prevedere meglio in che modo. Appena saputo di aver trovato i fondi necessari, aveva chiamato Steve. «Devi venire con me… No, fidati». Lui aveva accettato di malavoglia ma poi, per la gioia di Karl, man mano che raccoglievano dati durante il giorno e discutevano ogni sera dei primi risultati ottenuti, il vecchio amico aveva iniziato a entusiasmarsi. Prima del viaggio, la carriera accademica di Steve era progredita con la stessa svogliatezza con cui procedeva l’iceberg che stavano seguendo, al punto che Karl e i suoi altri amici, guardandolo vagare da un argomento all’altro nella scelta di una tesi, si erano chiesti se alla fine non avrebbe abbandonato definitivamente gli studi. I dati che avevano raccolto fino a quel momento nella loro ricerca erano interessanti, ma adesso avevano trovato qualcos’altro, un oggetto davvero straordinario. Da titoli a caratteri cubitali sulla stampa. Ma che cosa avrebbero detto? Sommergibile nazista trovato in Antartide? Non era plausibile. Karl sapeva che per i nazisti l’Antartide era stato un’autentica ossessione. Nel 1938 e 1939 vi avevano inviato delle spedizioni arrivando a rivendicare una parte del continente come nuova provincia tedesca con il nome di Neuschwabenland. Durante la seconda guerra mondiale, alcuni sommergibili nazisti non erano mai stati recuperati e non risultava che fossero stati affondati. Secondo i teorici del complotto, un sommergibile nazista aveva lasciato la Germania poco prima della caduta del Terzo Reich, portando in salvo i più alti gerarchi e tutto il loro tesoro, compresi gli inestimabili capolavori sequestrati in Europa e tecnologia top-secret. Nella mente di Karl prese forma una nuova idea: la ricompensa. Se a bordo di quel sommergibile c’era un tesoro nazista, doveva avere un valore straordinario. Non avrebbe mai più dovuto preoccuparsi di trovare fondi per le sue ricerche. Ma prima di tutto c’era il problema di attraccare all’iceberg. Il mare era agitato e solo al quarto tentativo riuscirono finalmente a ormeggiarsi a pochi chilometri dal sommergibile e dalla strana struttura dalla quale sporgeva. Karl e Steve si vestirono e presero l’attrezzatura da arrampicata. Il primo impartì a Naomi alcune istruzioni elementari, che si potrebbero riassumere in un «non toccare niente», quindi si calò con Steve sulla sporgenza di ghiaccio sotto il parapetto. Per i quarantacinque minuti successivi camminarono sul ghiaccio deserto dell’iceberg senza scambiarsi una sola parola. All’interno il fondo era più accidentato e furono costretti a rallentare, Steve più di Karl. «Non possiamo tirarla troppo per le lunghe, Steve». Lui si sforzò di non restare indietro. «Scusa. Un mese di navigazione mi ha messo fuori forma». Karl lanciò un’occhiata al sole. Quando fosse tramontato, la temperatura sarebbe precipitata e con tutta probabilità sarebbero morti assiderati tutti e due. Lì le giornate erano lunghe. Il sole spuntava alle due e mezzo del mattino e tramontava dopo le ventidue, ma ormai restavano poche ore. Karl allungò un po’ più il passo. Dietro di sé sentì Steve arrancare sui suoi ramponi nel disperato tentativo di stargli dietro. Dal ghiaccio salirono rumori strani, prima un mugolio basso, poi un rapido martellare, come se l’iceberg fosse stato assalito dai becchi di mille picchi. Karl si fermò ad ascoltare. Si girò e il suo sguardo incrociò quello dell’amico nell’istante in cui sotto i suoi piedi si apriva una ragnatela di crepe sottili. Steve guardò giù con orrore e un attimo dopo partì di corsa verso Karl e il ghiaccio solido. Per Karl fu come assistere a una scena surreale che si svolgeva quasi al rallentatore. Sentì se stesso correre verso l’amico e lanciargli la corda che si era staccato dalla cintura. Steve l’afferrò una frazione di secondo prima che l’aria fosse scossa da un crepitio assordante e il ghiaccio sotto di lui si aprisse in una voragine gigantesca. La fune si tese immediatamente, sollevò Karl in aria e lo fece piombare bocconi sul ghiaccio. Sarebbe precipitato con Steve nel crepaccio. Tentò di impuntarsi con i piedi, ma la trazione della corda era troppo forte. Allentò la presa delle mani e lasciò che la corda gli scivolasse tra le dita rallentando il trascinamento. Piantò con forza i ramponi nel ghiaccio davanti a sé e finalmente riuscì a fermarsi mentre veniva investito dalle scaglie di ghiaccio scalzate dalle punte d’acciaio. Strinse di nuovo la fune che si tese sul bordo della voragine, emettendo una strana vibrazione, quasi come la corda di un violino. «Steve! Tieni duro! Ti tiro su…». «Non farlo!», gridò l’amico. «Cosa? Sei impazzito?» «C’è qualcos’altro qua sotto. Calami giù, adagio». Karl rifletté per un momento. «Cos’è?» «Sembra una galleria o una grotta. C’è del metallo grigio. Non si vede bene». «Va bene, tieniti. Ti faccio scendere un po’ di più». Karl sfilò tre metri di corda e, quando non ricevette ulteriori istruzioni da Steve, altri tre. «Ferma», gridò l’amico. Karl sentì uno strattone. Forse Steve si era messo a dondolare? Ma la fune si allentò all’improvviso. «Ci sono», disse l’amico. «Cos’è?» «Non sono sicuro». Ora la voce di Steve gli giungeva ovattata. Karl strisciò fino al ciglio per guardare giù. L’amico mise la testa fuori della grotta. «Sembra una specie di cattedrale. È enorme. Ci sono delle scritte sui muri. Simboli che non ho mai visto prima. Vado a vedere». «Steve, non…». Quello scomparve di nuovo. Passò qualche minuto. Un’altra lieve vibrazione? Karl tese l’orecchio. Non la udiva, ma l’avvertiva. Ora il ghiaccio vibrava sempre più velocemente. Si alzò in piedi e si allontanò di un passo dalla voragine. Il ghiaccio sotto di lui si crepò e alla prima spaccatura se ne aggiunsero altre, a velocità sempre maggiore. Corse più forte che poté verso la fessura che si andava allargando. Saltò… e quasi atterrò dall’altra parte, ma non del tutto. Si aggrappò con le mani al bordo di ghiaccio e rimase appeso così per un lungo istante. Le vibrazioni diventavano sempre più violente. Karl vide il ghiaccio intorno a sé che si sgranava e cascava a pezzi, poi il tratto a cui era agganciato si staccò e precipitò nell’abisso. A bordo della nave di ricerca, Naomi guardò il sole scomparire dietro l’iceberg. Accese il telefono satellitare e compose il numero che le era stato dato. «Mi aveva detto di chiamare se avessimo trovato qualcosa di interessante». «Non dire niente. Resta in linea. Ti localizzeremo entro due minuti. Ci rifacciamo vivi noi». Naomi posò il telefono sul banco, tornò ai fornelli e riprese a mescolare i fagioli. Quando sullo schermo lampeggiarono le coordinate del GPS, l’uomo all’altro capo del telefono registrò i dati e cercò rilevamenti in tempo reale nel database della sorveglianza satellitare. Un risultato. Aprì lo stream e inquadrò il centro dell’iceberg, dove si vedevano le macchioline nere. Zoomò ripetutamente e, quando l’immagine andò a fuoco, lasciò cadere il caffè per terra, uscì di corsa dalla stanza e si precipitò nell’ufficio del direttore in fondo al corridoio. Irruppe interrompendo un uomo dai capelli grigi che, in piedi, stava parlando con entrambe le mani alzate. «L’abbiamo trovato». PARTE PRIMA Giacarta a ferro e fuoco 1 Centro di ricerca sull’autismo (ARC) Giacarta, Indonesia Oggi La dottoressa Kate Warner si svegliò in preda a una sensazione orribile: c’era qualcuno nella stanza. Cercò di aprire gli occhi ma non ci riuscì. Si sentiva stordita, come se fosse stata drogata. L’aria era umida e pesante… sotterranea. Quando si mosse, provò dolore in tutto il corpo. Il letto era scomodo, un divano forse, certamente non era il letto del suo appartamento al diciannovesimo piano nel centro di Giacarta. “Dove sono?”. Sentì un altro passo ovattato, come di una scarpa da tennis sulla moquette. «Kate», mormorò una voce maschile in tono interrogativo, come per accertarsi che fosse sveglia. Riuscì ad aprire un po’ gli occhi. Sopra di lei deboli raggi di luce solare filtravano tra le stecche delle veneziane che coprivano ampie finestre orizzontali. In un angolo lampeggiava a intervalli di pochi secondi una luce stroboscopica simile al flash di una fotocamera, che scattava foto a ripetizione. Trasse un respiro profondo e si alzò in fretta, riuscendo a inquadrare finalmente l’uomo che le aveva parlato. Questi indietreggiò di colpo lasciando cadere qualcosa che fece rumore e versò un liquido scuro sul pavimento. Era Ben Adelson, il suo assistente di laboratorio. «Gesù, Kate, scusa. Pensavo… se eri sveglia, magari ti andava un caffè». Si chinò a raccogliere i cocci della tazza rotta e, quando si rialzò, la osservò meglio. «Senza offesa», disse, «ma hai un aspetto tremendo». La fissò per un momento. «Ti prego, dimmi cosa sta succedendo». Kate si sfregò gli occhi e, ritrovato un minimo di lucidità, ricordò dove si trovava. In quegli ultimi cinque giorni aveva lavorato in laboratorio praticamente senza interruzione, anche di notte, da quando aveva ricevuto la chiamata del finanziatore del progetto: voglio risultati ora, qualunque risultato, altrimenti i cordoni della borsa si chiudono. Niente più scuse. Kate non ne aveva parlato a nessuno di quelli che lavoravano con lei alla ricerca sull’autismo. Non c’era motivo di allarmarli. Se avesse ottenuto dei risultati avrebbero continuato, in caso contrario sarebbero andati tutti a casa. «Un caffè, sì, Ben. Grazie». L’uomo scese dal furgone e si calò il passamontagna nero sulla faccia. «Usa il coltello quando siamo dentro. Non facciamoci sentire». La sua compagna annuì, mascherandosi a sua volta. Con la mano inguantata già protesa verso la porta, l’uomo esitò. «Sicura che l’allarme sia staccato?» «Sì. Be’, io ho tagliato la linea esterna, ma probabilmente dentro funziona». «Cosa?». L’uomo scosse la testa. «Gesù, potrebbero essere già al telefono a chiamare qualcuno. Sbrighiamoci». Aprì la porta ed entrò a passi decisi. La targa sopra la porta diceva: “Centro di ricerca sull’autismo. Ingresso riservato al personale”. Ben tornò con un’altra tazza di caffè. Kate lo ringraziò e si accomodò davanti alla sua scrivania. «Finirai per restarci secca se continui a lavorare in questo modo. So che sono già quattro notti che dormi qui. E tutta questa segretezza, la gente che non può più entrare in laboratorio, il fatto di togliere di mezzo tutti gli appunti, il silenzio sull’ARC-247. Non sono l’unico a essere preoccupato». Kate bevve un sorso. Giacarta era un posto difficile dove dirigere una ricerca sperimentale, ma lavorare sull’isola di Giava presentava anche i suoi vantaggi. Uno era il caffè. Non poteva rivelare a Ben cosa stava facendo in laboratorio, almeno non ancora. Forse sarebbe finito in un nulla di fatto ed era molto probabile che fossero ormai tutti con un piede fuori della porta. Coinvolgerlo sarebbe servito solo a renderlo complice in un possibile atto criminoso. Con un cenno della testa indicò la luce lampeggiante nell’angolo. «Quella cos’è?». Ben diede un’occhiata dietro di sé. «Non so bene. Un allarme, credo…». «Un incendio?» «No. Ho fatto un giro venendo qui, e non ci sono focolai d’incendio. Stavo per fare un’ispezione più approfondita quando ho visto che la tua porta era socchiusa». Infilò una mano in uno della decina di scatoloni che ingombravano l’ufficio di Kate. Esaminò alcuni diplomi già incorniciati. «Perché non li appendi?» «Non ne vedo lo scopo». Appendere i diplomi non era nello stile di Kate, e anche se lo fosse stato, su chi avrebbe dovuto far colpo? Lei era la sola ricercatrice qualificata, laureata in medicina, e tutti i suoi collaboratori conoscevano il suo curriculum. Non ricevevano visite e le poche persone che entravano nel suo ufficio erano non più di una ventina, quelle che si occupavano dei bambini autistici oggetto dello studio. Avrebbero pensato che Stanford e Johns Hopkins fossero persone in carne e ossa, forse vecchi parenti deceduti, e magari avrebbero scambiato i diplomi per i loro certificati di nascita. «Se ce l’avessi io, una laurea alla Johns Hopkins, ti assicuro che l’appenderei». Ben ripose con cura il diploma nello scatolone e si mise a rovistare distrattamente. Kate finì il caffè. «Ti do il mio titolo in cambio di un altro caffè», gli disse porgendogli la tazza. «Vuol dire che da adesso posso darti degli ordini?» «Non t’allargare», lo ammonì lei, mentre Ben usciva dall’ufficio. Si alzò e ruotò il cilindretto di plastica dura che controllava le veneziane, attraverso le cui stecche apparvero la rete di recinzione che racchiudeva l’edificio e, al di là di essa, le strade affollate di Giacarta. Era l’ora di punta e autobus e automobili procedevano a passo d’uomo tra le moto che zigzagavano nei pochi spazi liberi. I marciapiedi erano affollati di pedoni e ciclisti. E lei che pensava che il traffico di San Francisco fosse insopportabile! Ma non era solo il traffico: per lei Giacarta continuava a essere un luogo alieno. Non era casa sua. Forse non lo sarebbe mai diventata. Quattro anni prima era stata pronta a trasferirsi in qualsiasi angolo del mondo, qualunque posto che non fosse San Francisco. «Giacarta sarebbe un ottimo luogo dove continuare la tua ricerca», le aveva detto Martin Grey, suo padre adottivo. «Un buon posto dove… ricominciare». Aveva aggiunto qualcosa sul tempo che guarisce tutte le ferite. Ma ormai di tempo gliene restava poco. Cominciò a raccogliere dalla scrivania le foto che Ben aveva tolto dallo scatolone. Si fermò davanti all’immagine sbiadita di una sala da ballo con un pavimento in parquet. Come diavolo era finita in mezzo alle sue cose di lavoro? Era la sola foto rimastale dei tempi della sua infanzia a Berlino Ovest, quando viveva in una casa di Tiergartenstrasse. A stento ricordava quel massiccio edificio di tre piani. Nella sua memoria sembrava piuttosto un’ambasciata straniera, o uno di quei palazzi sontuosi di un tempo lontano. Un castello. Un castello vuoto. Sua madre era morta quando lei era ancora piccola e suo padre, per quanto affettuoso, era stato poco presente. Cercò di richiamarlo alla mente, ma non ci riuscì. Trovò solo il vago ricordo di una fredda giornata di dicembre, quando l’aveva portata a fare una passeggiata. Ricordava quanto minuscola le era sembrata la propria mano in quella di lui, quanto sicura si era sentita al suo fianco. Erano scesi fino in fondo a Tiergartenstrasse, dove si ergeva il Muro. La scena era malinconica: famiglie che posavano ghirlande e foto nella speranza che il Muro crollasse e che potessero riunirsi ai loro cari. Gli altri ricordi che serbava di lui erano piccoli frammenti delle sue sporadiche apparizioni, partenze e ritorni, sempre con qualche regalino comprato in posti lontani. Il personale della casa aveva supplito come meglio poteva. Erano stati tutti premurosi con lei, ma forse un tantino freddi. Come si chiamava la governante? O l’insegnante che viveva da lei e le altre persone che occupavano l’ultimo piano? Era stata la professoressa che abitava lì a insegnarle il tedesco. Kate lo parlava ancora, ma non rammentava più il nome della donna. Forse l’unico ricordo veramente chiaro che conservava dei suoi primi sei anni di vita era quello della sera in cui Martin era entrato nella sua sala da ballo, aveva spento la musica e le aveva detto che suo padre non sarebbe tornato a casa, mai più, e che lei sarebbe andata a vivere con lui. Cosa non avrebbe dato per cancellare quel ricordo, e con esso anche i tredici anni che erano seguiti. Si era trasferita in America con Martin, ma le città in cui era vissuta si confondevano nella sua mente l’una con l’altra, in una corsa costante da un incarico all’altro, mentre lei veniva trasferita come un pacco postale da una scuola a un’altra. Impossibile mettere radici. Il suo laboratorio di ricerca era il luogo che per lei più si avvicinava al concetto di casa. Vi trascorreva ogni momento della sua esistenza. Dopo San Francisco, si era tuffata nel lavoro e quello che all’inizio era stato un meccanismo di difesa, di sopravvivenza, era diventato la sua routine quotidiana, il suo stile di vita. La sua équipe era diventata la sua famiglia e i soggetti della sua ricerca i suoi figli. E tutto questo stava per finire. Aveva bisogno di concentrarsi. E aveva bisogno di altro caffè. Spinse le foto oltre il bordo della scrivania facendole cadere nello scatolone. Che fine aveva fatto Ben? Uscì in corridoio e si diresse verso la cucina riservata al personale. Vuota. Controllò la macchina del caffè. Vuota. Anche lì c’erano luci lampeggianti. Qualcosa non andava. «Ben?», chiamò a voce alta. Tutti gli altri sarebbero arrivati solo di lì a qualche ora. Avevano orari strani, ma lavoravano bene e a Kate importava solo quello. Si spinse fino all’ala scientifica, costituita da una serie di celle di stoccaggio e uffici intorno a una grande camera bianca, il laboratorio ad atmosfera controllata dove Kate e i suoi collaboratori creavano retrovirus da impiegare in terapia genica, nella speranza di guarire l’autismo. Guardò attraverso la vetrata, ma Ben non era in laboratorio. A quell’ora del mattino l’ambiente era inquietante, vuoto, silenzioso, non esattamente al buio, ma nemmeno illuminato. Le lame di luce solare che entravano nei corridoi dalle finestre dei locali su entrambi i lati sembravano torce elettriche a caccia di segnali di vita. I grandi spazi vuoti dell’ala scientifica vibrarono dell’eco dei passi di Kate, che cominciò a controllare tutte le stanze, uffici e annessi, strizzando gli occhi nel riverbero del forte sole indonesiano. Non c’era nessuno. Le rimaneva l’area residenziale, dove si trovavano gli alloggi, le cucine e i locali tecnici necessari al soggiorno dei circa cento bambini autistici oggetto della ricerca. Sentì altri passi in lontananza, più spediti dei suoi. Una corsa. Accelerò l’andatura nella loro direzione e nel momento in cui svoltò un angolo fu afferrata per un braccio da Ben. «Kate! Presto, seguimi». 2 Stazione ferroviaria di Manggarai Giacarta, Indonesia David Vale si ritrasse nell’ombra della biglietteria della stazione. Osservava l’uomo che stava comprando una copia del «New York Times» dal giornalaio. Lo vide pagare e allontanarsi passando davanti al cestino senza gettar via il giornale. Non era il contatto. Dietro la rivendita, entrò lentamente in stazione un treno pendolare. Era stipato di lavoratori indonesiani che giungevano tutti i giorni nella capitale dalla provincia. C’erano passeggeri appesi all’esterno delle porte scorrevoli, soprattutto uomini di mezza età. I ragazzi e i giovani che affollavano i tetti delle carrozze – chi seduto, chi accovacciato o disteso – leggevano il giornale, maneggiavano smartphone o chiacchieravano tra loro. Quel treno era in sé un simbolo di Giacarta, una città soffocata da una popolazione crescente all’affannosa ricerca di modernità. I trasferimenti di massa erano solo il segno più visibile dello sforzo che faceva la metropoli per contenere ventotto milioni di persone. Intanto i pendolari abbandonavano il convoglio disperdendosi per la stazione come le orde di americani nel primo giorno di shopping natalizio. Era il caos. Sgomitando, spingendo e gridando, i pendolari si affrettavano verso le porte della stazione, scontrandosi con quelli che lottavano per entrare. Era una scena che aveva luogo ogni sacrosanto giorno, lì e in tutte le altre stazioni ferroviarie della città. La stazione era un luogo perfetto per un abboccamento. David continuò a sorvegliare la rivendita di giornali. «Collector, Watch Shop», gracchiò una voce nel suo auricolare. «Allerta, siamo a ore zero più venti». Il contatto era in ritardo. La squadra si stava innervosendo. Era forse il caso di abortire la missione? David si avvicinò il telefonino alla bocca. «Ricevuto, Watch Shop. Trader, Broker, a rapporto». Da dove si trovava, riusciva a vedere gli altri due. Uno sedeva su una panca, in mezzo al concitato andirivieni. L’altro stava fingendo di riparare una lampada vicino ai servizi igienici. Entrambi riferirono di non aver colto alcun segno della presenza del loro anonimo informatore, un uomo che sosteneva di sapere qualcosa di un imminente attacco terroristico chiamato “Protocollo Toba”. Erano due operativi in gamba, tra i migliori della cellula di Giacarta, e perfino David faticava a individuarli in mezzo alla folla. Spaziò con lo sguardo nel salone, cominciando a sentirsi sulle spine. Un’altra voce mise in funzione l’auricolare. Era quella di Howard Keegan, il direttore della Clocktower, l’organizzazione antiterroristica per la quale lavorava David. «Collector, Appraiser, sembra che oggi al venditore il mercato non piaccia». David era il capo della cellula di Giacarta e Keegan era il suo capo e mentore. Era evidente che il suo superiore non voleva interferire con decisioni che spettavano a David, ordinando la fine dell’operazione, ma il suo messaggio era chiarissimo. Keegan era arrivato appositamente da Londra nella speranza di una svolta importante nelle indagini correndo un grosso rischio, considerata l’altra operazione della Clocktower attualmente in corso. «Sono d’accordo», rispose David. «Chiudiamola qui». I due operativi abbandonarono senza dare nell’occhio le loro posizioni, confondendosi nella marea di indonesiani. David osservò per un’ultima volta la rivendita di giornali. Un uomo alto in giacca a vento rossa stava pagando il giornalaio. Aveva comprato un quotidiano. Il «New York Times». «Un attimo, Trader e Broker. Abbiamo un acquirente che esamina la merce», disse David. L’uomo in giacca a vento rossa si allontanò di un passo, si fermò per qualche secondo a leggere la prima pagina, poi, senza guardarsi intorno, ripiegò il quotidiano e lo lasciò cadere nel cestino, incamminandosi a passi veloci verso il treno che ripartiva dalla stazione. «Contatto. Vado». Mentre usciva dall’ombra infilandosi nella folla, David si chiedeva febbrilmente perché si fosse presentato così tardi. E poi il suo aspetto… non era quello giusto. Quella giacca a vento rossa così vistosa, il portamento da militare o agente dei servizi segreti, il modo in cui camminava. L’individuo salì in carrozza e cominciò a procedere lentamente nella ressa di uomini in piedi e donne sedute. Era il più alto e David riusciva facilmente a non perderlo di vista perché svettava sopra le teste degli altri passeggeri. Salì a sua volta spingendo quelli davanti a sé e si fermò appena arrivato alla carrozza. Perché il contatto cercava di defilarsi? Aveva visto qualcosa? Si era spaventato? E poi accadde. L’uomo si girò, guardò nella direzione di David e l’espressione dei suoi occhi gli disse tutto quello che c’era da sapere. David ruotò su se stesso e respinse i quattro uomini dietro di sé, costringendoli a ridiscendere sul marciapiede. Balzò giù facendosi largo fra di loro e aprendosi un varco tra altri pendolari che si avventavano nello spazio che aveva appena creato. Stava per gridare, quando il treno saltò in aria investendo la stazione di frammenti di vetro e metallo. L’onda d’urto proiettò David sul cemento della banchina, incastrato tra i corpi di persone morte o ferite. Urla di orrore e dolore riempirono l’aria, mentre cenere e detriti scendevano come neve attraverso il fumo. David non riusciva a muovere né braccia né gambe. Rovesciò la testa all’indietro e perse quasi conoscenza. Per un momento fu di nuovo a New York. Scappava da un edificio che stava crollando, poi vi si trovava intrappolato sotto le macerie, in attesa. Le mani di braccia invisibili lo afferrarono e lo trascinarono fuori. «Ce l’hai fatta», disse qualcuno. La luce del sole lo colpì al volto nell’ululato delle sirene di veicoli con le scritte FDNY e NYPD. Ma non era un’ambulanza, questa volta. Era un furgone nero davanti alla stazione. E gli uomini non erano i pompieri di New York. Erano due agenti operativi, Trader e Broker. Caricarono David sul furgone e partirono di gran carriera prima che le strade fossero invase dalle squadre della polizia e dei vigili del fuoco di Giacarta. 3 Centro di ricerca sull’autismo (ARC) Giacarta, Indonesia La Stanza Giochi Quattro era in piena attività. La scena era quella di sempre: giocattoli dappertutto e una decina di bambini, intenti a giocherellare ciascuno per conto proprio. In un angolo Adi, un maschietto di otto anni, costruiva un puzzle dondolandosi avanti e indietro. Nell’infilare l’ultimo pezzo, alzò gli occhi su Ben con un sorriso orgoglioso sulle labbra. Kate era incredula. Il bambino aveva appena risolto un gioco che la sua squadra usava per identificare i savants, individui affetti da autismo con speciali capacità cognitive. Il puzzle richiedeva un QI tra 140 e 180. Kate non era in grado di risolverlo e l’unico altro bambino capace di farlo era Satya. Guardò Adi che disfaceva il gioco e lo ricostruiva in un baleno. Adi si alzò e andò a sedersi accanto a Surya, un altro bambino di un anno più piccolo. Surya prese il puzzle e completò gli incastri con la stessa facilità. «Hai visto?», disse Ben a Kate. «Credi che lo facciano a memoria? O che Adi l’abbia imparato guardando Satya?» «No», rispose Kate. «O forse sì. Non lo so». Aveva bisogno di tempo per pensarci. Doveva esserne sicura. «È quello su cui stiamo lavorando, no?», ribatté Ben. «Sì», mormorò Kate distratta. Era impossibile. Non poteva aver funzionato così velocemente. Solo il giorno prima quei bambini manifestavano classici sintomi da autismo, ammesso e non concesso che quella disfunzione esistesse davvero. Erano sempre più numerosi i ricercatori e i medici che avevano cominciato a riconoscere nell’autismo uno spettro di disordini con un’ampia gamma di sintomi. Al centro dell’autismo c’era una disfunzione nelle comunicazioni e nelle interazioni sociali. I bambini più colpiti evitavano i contatti visivi e i comportamenti socializzanti, alcuni non rispondevano al proprio nome e, nei casi più gravi, non sopportavano nessun genere di contatto. Il giorno prima né Adi, né Surya sarebbero stati capaci di completare il gioco, di guardare il prossimo negli occhi o anche solo di scambiarsi di posto. Doveva dirlo a Martin. Avrebbe certamente ottenuto un rinnovo dei finanziamenti. «Cosa vuoi fare?», chiese Ben, evidentemente emozionato. «Portarli all’Osservatorio Due. Devo fare una telefonata». Kate era dibattuta tra incredulità, stanchezza e gioia. «E poi, ehm, meglio fare un esame diagnostico. ADI-R. No, ADOS 2, faremo più in fretta. E filmiamolo». Sorrise e afferrò Ben per una spalla. Avrebbe voluto dire qualcosa di importante, qualcosa che segnasse quel momento, le parole che immaginava pronunciassero gli scienziati brillanti e in procinto di diventare famosi nei momenti delle grandi scoperte, ma non le venne in mente niente, riuscì solo a rivolgere all’amico un sorriso stanco. Ben annuì e andò a prendere i bambini per mano. Kate aprì la porta e uscirono tutti e quattro in corridoio, dove c’erano due persone ad attenderli. No, non persone. Erano mostri in tenuta militare nera da capo a piedi: un elmetto sopra un passamontagna nero, occhiali scuri simili a quelli da sci, giubbotto antiproiettile e guanti neri di gomma. Kate e Ben si fermarono, si scambiarono un’occhiata sbalordita e fecero scudo ai bambini. «Questo è un laboratorio di ricerca», disse lei schiarendosi la voce. «Non abbiamo contanti, ma potete prendere l’attrezzatura, tutto quello che volete. Non…». «Silenzio». La voce dell’uomo che le aveva parlato era rauca, come di qualcuno che aveva fumato e bevuto alcolici per tutta la vita. «Prendili», ordinò alla persona che era con lui. Era più bassa e chiaramente era una donna. Quando fece per avvicinarsi, senza pensarci Kate le sbarrò la strada. «No. Prendete qualunque altra cosa. Prendete me piuttosto…». L’uomo estrasse una pistola e gliela puntò contro. «Si tolga di mezzo, dottoressa Warner. Non voglio farle del male, ma non ci penserò due volte». “Sa come mi chiamo”. Con la coda dell’occhio vide Ben avvicinarsi con l’intenzione di mettersi tra lei e il mostro armato di pistola. Adi cercò di scappare, ma l’altra donna lo acchiappò per la maglietta. Ben passò davanti a Kate e insieme si gettarono tutti e due sull’uomo armato. Durante il corpo a corpo, dalla pistola partì un colpo. Kate vide Ben accasciarsi. C’era sangue dappertutto. Cercò di alzarsi, ma l’uomo la trattenne. Era troppo forte. La inchiodò al pavimento e lei sentì un colpo violento… 4 Covo segreto Clocktower Giacarta, Indonesia Mezz’ora dopo l’esplosione del treno, seduto a un tavolino pieghevole nel covo segreto, David si faceva medicare da un infermiere tentando di dare un senso a quanto era avvenuto. «Ahi», si lamentò. Con una smorfia si ritrasse dal batuffolo inzuppato d’alcol con cui l’infermiere gli stava disinfettando il viso. «Grazie, ma rimandiamo a dopo. Sto bene. Sono ferite superficiali». Dall’altra parte della stanza, Howard Keegan abbandonò la sua postazione davanti a una serie di monitor e gli si avvicinò. «Era una trappola, David». «Ma perché? Non ha senso…». «Ce l’ha. Devi vedere questo. L’ho ricevuto subito prima dell’esplosione». Keegan gli porse un foglio. RISERVATO CLOCKTOWER CENT. COMM. Clocktower sotto attacco. Stazioni di Città del Capo e Mar del Plata distrutte. Gravi danni a Karachi, Delhi, Dacca e Lahore. Si consiglia iniziare Firewall. Prego informare. FINE TRASMISSIONE Keegan ripiegò il foglio e se lo infilò nella tasca interna della giacca. «Ha mentito sul nostro problema di sicurezza». David si premette le tempie. Era un incubo. La testa gli pulsava ancora per l’urto ricevuto nell’esplosione. Aveva bisogno di pensare. «Non aveva mentito…». «Come minimo ha sbagliato a sottovalutare, o più probabilmente omesso qualcosa, con lo scopo di distrarci dall’attacco principale alla Clocktower». «L’attacco alla Clocktower non significa che la minaccia terroristica non sia reale. Potrebbe essere il preludio…». «Forse. Ma la sola cosa che sappiamo è che adesso la Clocktower è con le spalle al muro. Il tuo primo dovere è di mettere al sicuro la tua stazione. La tua è l’operazione più vasta di tutto il Sudest asiatico. È possibile che il tuo quartier generale sia sotto attacco proprio ora». Keegan recuperò la sua borsa. «Io torno a Londra a cercare di dirigere la situazione da lì. Buona fortuna, David». Si scambiarono una stretta di mano e David lo accompagnò alla porta. In strada un ragazzino con un pacco di giornali gli corse incontro agitandone uno e gridando: «Avete sentito? Hanno attaccato Giacarta». David lo spinse via, ma il ragazzino gli piazzò un giornale arrotolato nella mano e sparì dietro l’angolo. Quando stava per buttarlo via, David si accorse che… era troppo pesante. C’era dentro qualcosa. Srotolò il quotidiano e sul marciapiede cadde un tubo nero lungo una trentina di centimetri. Un tubo-bomba. 5 Centro di ricerca sull’autismo (ARC) Giacarta, Indonesia Asciugandosi il sudore dalla fronte, il capo della polizia di Giacarta ovest, Eddi Kusnadi, entrò sulla scena del crimine, un laboratorio scientifico nella zona occidentale della città. Un vicino aveva riferito d’aver sentito uno sparo. Era un quartiere di un certo prestigio, di quelli dove gli abitanti hanno conoscenze negli ambienti politici, così era stato costretto ad andare a vedere. Nonostante la struttura nel complesso facesse pensare a una clinica di qualche genere, c’erano delle stanze che sembravano piuttosto quelle di un asilo nido. Paku, uno dei suoi migliori funzionari in abiti civili, lo chiamò in una stanza in fondo, dove trovò una donna priva di sensi riversa sul pavimento, un uomo morto in una pozza di sangue e alcuni poliziotti. «Un litigio tra amanti?» «A noi non sembra», rispose Paku. Intorno, c’erano dei bambini che piangevano. Entrò un’indonesiana che, appena vide i corpi, si mise subito a strillare. «Portate via questa donna», ordinò il capo. Due poliziotti la scortarono fuori. «Chi sono questi due?», chiese poi a Paku quando furono soli. «La donna è la dottoressa Katherine Warner». «Dottoressa? Cos’è questa, una clinica?» «No, è un centro di ricerca. La Warner è la direttrice. La donna che ha appena visto è una delle assistenti che si occupano dei bambini. Fanno ricerche su minori disabili». «Non mi sembra un’attività molto proficua. E lui?», chiese Kusnadi. «Uno dei tecnici. L’assistente sostiene che un altro dei tecnici si era offerto di badare ai bambini, così lei è andata a casa. Dice che ne mancano due». «Scappati?» «Dice di no, sostiene che ci siano dei sistemi di sorveglianza», rispose Paku. «Telecamere all’esterno?» «No, telecamere nelle stanze dei bambini. Stiamo controllando le registrazioni». Il capo si chinò a esaminare la donna. Era magra, ma non troppo. Meglio così. Le controllò il polso e le ruotò la testa da una parte e dall’altra per vedere se ci fossero segni di trauma cranico. Notò piccoli lividi ai polsi, ma per il resto era incolume. «Che pasticcio. Scopri se ha dei soldi. Se ne ha, falla portare alla stazione. Se no, mollala all’ospedale». 6 Centro ricerche Immari Corp. Burang, Cina Regione autonoma del Tibet Il direttore del progetto entrò con decisione nell’ufficio del dottor Shen Chang e gli lasciò cadere un fascicolo sulla scrivania. «Abbiamo una nuova terapia». Il dottor Chang prese la documentazione e cominciò a sfogliarne le pagine. Il direttore parlò camminando per tutta la lunghezza della stanza. «È molto promettente. Stiamo stringendo i tempi. Voglio la macchina pronta e i soggetti sotto trattamento con la nuova terapia entro quattro ore». Chang posò il fascicolo e alzò gli occhi. Aprì la bocca per parlare, ma il direttore lo fermò con un gesto della mano. «Non voglio sentirlo. L’eccezionalità può presentarsi in qualsiasi momento, oggi, domani, per quel che ne sappiamo potrebbe essere già successo. Non c’è tempo per essere prudenti». Chang fece di nuovo per parlare e ancora una volta il direttore glielo impedì. «E non mi venga a dire che le serve altro tempo. Ne ha avuto a sufficienza. Dobbiamo avere dei risultati. E adesso mi dica di cosa ha bisogno». Chang si accasciò contro lo schienale della sua poltrona. «L’ultimo test ha messo a rischio la rete elettrica locale. Abbiamo superato i nostri limiti di consumo. Pensiamo di aver risolto il problema, ma è facile che il fornitore regionale di energia elettrica si sia insospettito su quello che stiamo facendo qui dentro. Il problema principale, però, è che non abbiamo abbastanza primati…». «Non sperimenteremo la terapia sui primati. Voglio un campione di cinquanta esseri umani». Chang si raddrizzò. «Mettendo da parte la questione morale», ribatté con maggior vigore, «cosa che la esorto a non fare, per cominciare a sperimentare sugli esseri umani abbiamo semplicemente bisogno di un quantitativo di dati accertati molto superiore, e per questo ci serve…». «Ce li ha, dottore. È tutto in quel fascicolo. E stiamo raccogliendo ancora altri dati in questo momento. E non è tutto. Abbiamo due soggetti con un’elevata attivazione del Gene di Atlantide». Chang strabuzzò gli occhi. «Avete… due… ma come…». Il direttore gli indicò il fascicolo con un gesto fulmineo da cobra. «È tutto là dentro, dottore. E presto saranno qui. Meglio che si faccia trovare pronto. Lei non dovrà fare altro che replicare la terapia genica». Mentre lo ascoltava, Chang aveva ripreso a sfogliare le pagine e leggeva velocemente mormorando tra sé. Rialzò la testa. «I soggetti sono bambini?» «Sì. È un problema?» «Ah, no. Be’, forse. O forse no». «Forse no è la risposta giusta. Mi chiami se ha bisogno di me, dottore. Quattro ore. Non c’è bisogno che le spieghi che cosa c’è in palio». Ma il dottor Chang non poteva sentirlo. Era assorto nello studio degli appunti della dottoressa Katherine Warner. 7 Quartier generale Clocktower Giacarta, Indonesia David osservava il tubo nero attraverso la stretta feritoia dello scudo da artificiere. Ci aveva messo un secolo a svitare il cappuccio del tubo con il braccio meccanico guidato manualmente. Ma doveva assolutamente vedere cosa c’era dentro. Era per via del peso. Il tubo era troppo leggero per essere una bomba. Esplosivo, chiodi e pallettoni sarebbero pesati molto di più. Finalmente il tubo si aprì e David lo inclinò. Ne scivolò fuori un foglio arrotolato. Un foglio di carta spessa, lucida. Una fotografia. David la srotolò. Era l’immagine satellitare di un iceberg che galleggiava in un tratto di mare di un intenso blu. Al centro dell’iceberg c’era un oggetto oblungo, di colore nero. Un sottomarino che spuntava dal ghiaccio. Sul retro della foto c’era un messaggio: Il Protocollo Toba è reale. 4+12+47=4/5; Jones 7+22+47=3/8; Anderson 10+4+47=5/4; Ames David infilò la foto in una cartelletta e tornò in sala di controllo. Uno dei due tecnici al banco dei monitor si girò. «Ancora nessuna traccia». «Gli aeroporti?», chiese David. Il tecnico digitò qualcosa sulla sua tastiera e si voltò di nuovo. «Sì, è atterrato pochi minuti fa a Soekarno-Hatta. Vuole che lo facciamo bloccare lì?» «No. Mi serve qui. Voi fate solo in modo che di sopra non lo vedano. D’ora in poi ci penso io». 8 BBC World News – Dispaccio d’agenzia Presunti attacchi terroristici in quartieri residenziali di Mar del Plata, Argentina, e Città del Capo, Sudafrica ***Ultim’ora: altre esplosioni sentite a Karachi, Pakistan, e Giacarta, Indonesia. Daremo aggiornamenti in tempo reale.*** Città del Capo, Sudafrica // Oggi la quiete delle prime ore del mattino a Città del Capo è stata squarciata dal rumore delle armi automatiche e dalle esplosioni delle granate di un commando – si stima di una ventina di aggressori – che ha fatto irruzione in un condominio e ha ucciso quattordici persone. La polizia non ha dato informazioni ufficiali sull’attacco. I testimoni oculari lo hanno descritto come una tipica azione dei corpi speciali. Un giornalista della BBC ha raccolto questa testimonianza: «Sì, l’ho visto, sembrava un blindato, sa, uno di quei veicoli corazzati per il trasporto delle truppe, è salito sul marciapiede e sono saltati fuori questi tizi come ninja o robot, si muovevano come macchine. E poi è stato come se saltasse in aria tutta la casa, vetri dappertutto, e io me la sono data a gambe. Certo, questo è un quartieraccio, ma di sicuro non avevo mai visto niente di simile. Lì per lì ho pensato, sa, che fosse un’operazione antidroga. Ora non ne sono più sicuro, ma di certo è andato tutto maledettamente storto». Un altro testimone, che ha voluto mantenere l’anonimato, ha confermato che sul veicolo da trasporto non c’erano segni di riconoscimento e che gli aggressori non erano in uniforme. Un inviato della Reuters, che per qualche minuto è potuto rimanere sul luogo dell’assalto prima di essere allontanato dalla polizia, ha descritto la scena così: «A me è sembrato che potesse essere un covo segreto, forse della CIA o dell’MI6. E doveva essere un’agenzia di quelle piene di soldi per potersi permettere tecnologie di tale livello: una sala operativa con una fila di video che occupava una parete intera e un locale server da fantascienza. C’erano cadaveri dappertutto. Metà era in abiti civili, gli altri in tenuta nera con giubbotti antiproiettile, simili a quelli che i testimoni dicono di aver visto addosso agli aggressori». Resta ancora da chiarire se gli aggressori hanno subìto delle perdite e sono stati costretti a lasciare indietro qualcuno dei loro, o se i corpi appartengono a individui che difendevano l’area sotto attacco. La BBC ha interpellato CIA e MI6 per avere una dichiarazione da riportare in questo servizio, ma entrambe le agenzie hanno rifiutato di parlare. Non è dato sapere se questo episodio sia in qualche modo collegato a un fatto analogo avvenuto oggi stesso, poche ore prima, a Mar del Plata, in Argentina, dove una potente esplosione ha provocato dodici vittime in un quartiere povero della città alle due del mattino circa, ora locale. Alcuni presenti hanno riferito che l’esplosione ha fatto seguito a un raid condotto da un gruppo armato che nessuno ha saputo identificare. Come per l’attacco a Città del Capo, nessuno ha rivendicato la responsabilità di quello che è avvenuto a Mar del Plata. «È molto preoccupante che non si abbia idea di chi sia coinvolto», ha dichiarato Richard Bookmeyer, professore alla American University. «A giudicare dalle prime indicazioni, se le vittime o gli autori degli attacchi fanno parte di una rete terroristica… dovremmo constatare un livello di efficienza tecnologica finora ritenuto impossibile da raggiungere per le strutture terroristiche note. Entrambe le ipotesi esigono un riesame di quello che crediamo di sapere del panorama terroristico globale». Daremo nuovi aggiornamenti appena si avranno ulteriori particolari. 9 Quartier generale Clocktower Giacarta, Indonesia David stava studiando una carta topografica di Giacarta con le posizioni dei covi della Clocktower quando entrò un tecnico della sorveglianza. «È qui». David ripiegò la mappa. «Bene». Josh Cohen si fermò per un attimo davanti all’anonimo stabile che ospitava il quartier generale della stazione di Giacarta della Clocktower. Gli edifici circostanti erano per lo più abbandonati, progetti immobiliari falliti e magazzini decrepiti. La targa all’esterno diceva “Clocktower Security, Inc.” e per il mondo esterno la Clocktower Security era una fra le sempre più numerose agenzie private specializzate in sistemi di sicurezza. Ufficialmente la Clocktower Security offriva protezione personale e servizi di guardia del corpo a dirigenti di multinazionali e personalità politiche straniere in visita a Giacarta, oltre a servizi di investigazione privata nei casi in cui le forze dell’ordine locali si dimostrassero “meno che collaborative”. Era la copertura perfetta. Josh entrò, arrivò in fondo a un lungo corridoio, schiuse una pesante porta d’acciaio e si fermò davanti ai battenti lucidi dell’ascensore. Accanto alla porta si aprì un pannello esponendo una superficie riflettente sulla quale posò la mano. «Josh Cohen», si identificò, «verifica vocale». Si aprì un secondo pannello al livello del volto e un raggio rosso scannerizzò la sua fisionomia mentre Josh teneva la testa immobile e gli occhi sbarrati. Dall’ascensore arrivò un segnale sonoro e i battenti si spalancarono. Josh salì in silenzio, ben sapendo che in una stanza di quello stesso edificio un tecnico della sorveglianza lo stava sottoponendo a uno scan completo, verificando che non avesse addosso cimici, ordigni o altri oggetti pericolosi. Se avesse trovato qualcosa, la cabina si sarebbe riempita di un gas inodore e incolore e si sarebbe svegliato in un locale di detenzione. Sarebbe stata l’ultima stanza che avrebbe visto. Se avesse superato l’esame, l’ascensore lo avrebbe portato al quarto piano, quello che era da tre anni la sua abitazione personale ed era anche il quartier generale della Clocktower di Giacarta. La Clocktower era la risposta segreta del mondo al terrorismo apolide: un’apolide agenzia di antiterrorismo. Niente burocrazia. Niente di scritto. Solo i buoni che uccidevano i cattivi. Non era proprio così semplice, ma la Clocktower era quanto di meglio il mondo potesse sperare di offrire in questo campo. Era indipendente, apolitica, antidogmatica e soprattutto estremamente efficiente. Erano queste le ragioni per cui, pur non sapendone quasi nulla, i servizi di intelligence di tutto il mondo la sostenevano. Nessuno sapeva dove fosse nata, chi la dirigesse e come fosse finanziata, o dove fosse il suo quartier generale. Quando, tre anni prima, Josh era entrato alla Clocktower, aveva creduto di acquisire il privilegio di avere una risposta a tutti quegli interrogativi. Si sbagliava. Aveva scalato rapidamente la gerarchia interna diventando capo della Sezione di analisi d’intelligence della stazione di Giacarta, ma della Clocktower ancora non sapeva più di quando era stato reclutato dall’Ufficio di analisi del terrorismo della CIA. E sembrava che nessuno avesse l’intenzione di dargli delucidazioni. All’interno dell’organizzazione, le informazioni erano rigorosamente compartimentate tra diverse cellule indipendenti. Tutti condividevano i dati in loro possesso con Central, tutti ottenevano informazioni da Central, ma nessuna delle cellule aveva il quadro generale delle attività in corso. Per questo motivo, quando sei giorni prima aveva ricevuto l’invito a una specie di “summit” dei capi analisti di tutte le cellule, Josh aveva reagito con incredulità. Aveva interpellato David Vale, il direttore della stazione di Giacarta, chiedendogli se fosse uno scherzo. Si era sentito rispondere che non lo era e che tutti i capi erano stati avvertiti della riunione. La sorpresa di Josh per l’invito era stata velocemente superata da quella per le rivelazioni sentite nel corso della conferenza. Il primo choc era stato il numero dei presenti: 238. Josh aveva sempre pensato che la Clocktower fosse un’organizzazione relativamente piccola, con una cinquantina di cellule sparse nei punti caldi del mondo, e invece era rappresentato l’intero pianeta. Supponendo che ogni cellula fosse delle dimensioni di quella di Giacarta – forte di cinquanta agenti – era possibile che il numero totale degli operativi fosse nell’ordine dei diecimila, a cui andava aggiunto l’organismo centrale, che doveva occupare almeno mille persone solo per analizzare e correlare le informazioni, oltre a coordinare le cellule. Erano dimensioni incredibili, pari forse a quelle della CIA, che ai tempi in cui vi lavorava lui impiegava ventimila persone. E molte di quelle ventimila erano analisti impiegati a Langley, in Virginia, non sul campo. La Clocktower, viceversa, era un’organizzazione snella, priva del peso burocratico e organizzativo della CIA. Le capacità sul campo della Clocktower superavano probabilmente di gran lunga quelle di qualunque governo. Ogni cellula aveva tre sottinsiemi. Un terzo dello staff era composto da agenti operativi, in analogia con il National Clandestine della CIA; erano persone che agivano sotto copertura all’interno di organizzazioni terroristiche, cartelli della criminalità organizzata e altri gruppi fuorilegge, o in luoghi dove poter trovare fonti di informazione: governi locali, istituti di credito e dipartimenti di polizia. Il loro scopo era quella che viene chiamata “Human Intelligence” (HUMINT): informazioni di prima mano. Un altro terzo di ciascuna cellula si occupava di analisi. I ricercatori dedicavano la maggior parte del loro tempo a due attività: pirateria informatica e formulazione di ipotesi. Entravano dappertutto, nelle identità di chiunque: telefonate, e-mail, messaggi. Combinavano la loro “Signals Intelligence”, ovvero SIGINT, con la HUMINT, la collegavano a ogni altra informazione raccolta a livello locale e trasmettevano i loro rapporti a Central. La responsabilità principale di Josh era di assicurarsi che la stazione di Giacarta ottimizzasse la sua raccolta di informazioni e ne traesse le dovute conclusioni. Trarre conclusioni suonava come una pratica più professionale che affidarsi alle intuizioni, ma il suo lavoro era invece essenzialmente proprio quello di formulare ipotesi probabilistiche e dare consigli al capo della cellula. Era quest’ultimo che, dopo essersi consultato con Central, autorizzava le operazioni locali, condotte dal gruppo delle operazioni sotto copertura, l’ultimo terzo del personale. Il gruppo degli operativi sotto copertura di Giacarta si era guadagnato la reputazione di una delle migliori squadre della Clocktower. Alla conferenza, i loro risultati avevano conferito a Josh lo status di celebrità. La sua cellula era di fatto quella principale dell’area dell’Asia Pacifica e tutti volevano conoscere quali fossero i suoi trucchi del mestiere. Non tutti, però, manifestarono per lui la soggezione che si ha nei confronti di una star: Josh fu felice di ritrovare alla conferenza molti dei suoi vecchi amici, persone con cui aveva lavorato alla CIA o che aveva conosciuto quando era entrato in contatto con altri governi. Era incredibile: aveva comunicato per così tanto tempo con persone che conosceva da anni. Una rigorosa politica adottata dalla Clocktower era che ogni nuovo membro acquisisse un nome diverso, cancellasse il proprio passato e non rivelasse la propria identità a nessuno, al di fuori della propria cellula. Anche la voce trasmessa dalle telefonate veniva alterata dal computer. I contatti diretti erano severamente proibiti. Quella riunione eccezionale a cui avevano partecipato tutti i capi analisti di ogni cellula aveva stracciato il velo della segretezza. Andava contro ogni protocollo della Clocktower. Josh sapeva che doveva esserci un motivo, qualcosa di estremamente urgente, perché si decidesse di correre un rischio simile, ma mai avrebbe immaginato il segreto che Central aveva rivelato in quell’occasione. Ne era ancora sconcertato. E doveva riferirlo a David Vale. Immediatamente. Si avvicinò alla porta dell’ascensore, pronto a precipitarsi nella stanza del capo della cellula. Erano le nove del mattino e gli uffici dovevano essere in piena attività. La “fossa degli analisti” sarebbe stata illuminata come il salone della Borsa di New York, con gli agenti pronti ad affollare le postazioni davanti ai monitor e a confrontare e discutere le segnalazioni in arrivo. Dall’altra parte, attraverso la porta spalancata della sala operativa, li avrebbe visti prepararsi alle azioni della giornata. Gli ultimi arrivati sarebbero stati davanti ai rispettivi armadietti a indossare velocemente la tenuta antisommossa e a caricarsi di munizioni. Di solito, i più mattinieri erano già pronti e seduti sulle panche di legno a chiacchierare di sport e di armi prima del briefing mattutino, interrotti solo di tanto in tanto da un estemporaneo scherzo da spogliatoio. Era come essere a casa, e Josh doveva ammettere di averne avuto nostalgia, anche se l’imprevista riunione lo aveva gratificato in un modo che di sicuro non aveva previsto. Sapere di far parte di una vasta comunità di analisti del suo livello, persone che avevano condiviso le sue stesse esperienze, persone che avevano gli stessi problemi e le stesse ansie, sorprendentemente gli era di grande conforto. A Giacarta aveva una squadra che lavorava per lui e rispondeva solo al capo della cellula, ma non aveva nessuno al suo stesso livello, nessuno con cui potersi confidare davvero. Il lavoro di intelligence era una professione solitaria, specialmente per i dirigenti. Ne aveva visto il prezzo su alcuni dei vecchi amici: tanti apparivano ben più vecchi della loro età anagrafica. Altri si erano induriti nello spirito ed erano molto meno socievoli. Vedendoli, Josh si era chiesto fino a che punto correva il pericolo di fare la stessa fine. Ogni cosa aveva un prezzo, ma lui credeva nel lavoro che stavano facendo. Non esistevano lavori perfetti. Ora che non pensava più alla conferenza, si rese conto che ormai l’ascensore si sarebbe dovuto aprire. Quando si voltò per guardarsi intorno, le luci della cabina divennero sfocate come in un video al rallentatore. Si sentì pesante. Cominciò ad avere difficoltà a respirare. Allungò il braccio per afferrare il corrimano, ma le sue dita non riuscirono a flettersi, scivolarono via, e il pavimento d’acciaio gli piombò addosso. 10 Stanza degli interrogatori C Centro di detenzione della polizia di Giacarta ovest Giacarta, Indonesia Kate si sentiva spaccare la testa dal dolore. Gli faceva male tutto il corpo. E la polizia non le era di alcun aiuto. Si era svegliata sul sedile posteriore di un’auto di pattuglia e l’autista aveva rifiutato di dirle alcunché. Poi, alla stazione di polizia, era andata anche peggio. «Perché non mi volete ascoltare? Perché non siete in giro a cercare quei due bambini?». Kate Warner era in piedi, con le mani appoggiate al tavolo di metallo, e fissava con astio il poliziotto basso e dall’aria sorniona che le aveva già fatto sprecare venti minuti del suo tempo. «Li stiamo cercando. Ecco perché le stiamo facendo queste domande, signorina Warner». «Ve l’ho già detto, io non so niente». «Forse sì, forse no». L’ometto pronunciò le parole dondolando la testa come un pendolo. «Forse un corno! Li troverò da me». Fece un passo in direzione della porta metallica. «È chiusa a chiave, signorina Warner». «Allora la apra». «Non è possibile. Durante l’interrogatorio di un indiziato deve rimanere chiusa a chiave». «Indiziato? Voglio un avvocato. Subito». «È a Giacarta, signorina Warner. Niente avvocati, niente telefonate all’ambasciata americana». Le parlava guardandosi gli stivali da cui staccava grumi di terra. «Abbiamo molti stranieri qui, molti visitatori, molta gente che viene quaggiù e che non rispetta il nostro Paese, il nostro popolo. Prima avevamo paura del consolato americano, gli davamo l’avvocato, finiva che ne uscivano puliti. Abbiamo imparato. Gli indonesiani non sono stupidi come pensate, signorina Warner, è per questo che è venuta a fare il suo lavoro qui, non è vero? Pensa che siamo troppo stupidi per capire cosa state combinando?» «Io non sto combinando proprio niente. Sto cercando una cura per l’autismo». «E perché non lo fa a casa sua, signorina Warner?». Nemmeno in un milione di anni Kate avrebbe detto a quell’uomo perché aveva lasciato gli Stati Uniti. «L’America è il posto più costoso al mondo nel quale condurre una sperimentazione medica», rispose invece. «Ah, allora è una questione di costi, giusto? Qui in Indonesia si possono comprare bambini per farci esperimenti?» «Non ho comprato nessun bambino!». «Ma la sua ricerca scientifica possiede questi bambini, vero?». Rigirò il fascicolo che aveva sul tavolo e lo indicò con un dito. Kate abbassò gli occhi sul suo indice. «Signorina Warner, la sua ricerca è il custode legale di entrambi questi bambini… di tutti e centotre, vero?» «La custodia legale non è il possesso». «È lo stesso concetto detto con parole diverse. Come faceva la Compagnia olandese delle Indie orientali. Lo sapeva? Sono sicuro di sì. Loro usavano la parola colonia, ma per duecento anni sono stati proprietari dell’Indonesia. Una società possedeva il mio Paese e il suo popolo e ci trattava come una sua proprietà, prendendoci quello che voleva. Solo nel 1947 abbiamo finalmente ottenuto la nostra indipendenza. Ma quel ricordo è ancora vivo e doloroso per la mia gente. Una giuria vedrebbe la sua situazione con gli stessi occhi. Avete preso questi bambini, non è vero? Lo ha detto lei stessa che non ha pagato per averli. E io non vedo nessun documento firmato dai genitori. Nessuno le ha dato il consenso all’adozione. Ma i genitori sanno che i loro figli ce li avete voi?». Kate lo fissava con odio. «È quel che pensavo. Adesso cominciamo a ragionare. Meglio che sia sincera con me. Un’ultima cosa, signorina Warner. Vedo che la sua ricerca è finanziata dalla Divisione sperimentale della Immari. Probabilmente è solo una coincidenza… ma molto sfortunata… Quando gli olandesi furono scacciati, sessantacinque anni fa, fu l’Immari Holdings ad acquistare molti dei loro beni, dunque possiamo dire che i soldi per il suo lavoro vengono da…». Riordinò i fogli del fascicolo, lo chiuse e si alzò, come un Perry Mason indonesiano che concludeva la sua arringa. «Capisce anche lei come potrebbe vedere questa situazione una giuria, signorina Warner. La sua gente se ne va, ma torna con un altro nome e continua a sfruttarci. Invece di canne da zucchero e chicchi di caffè, come nel Novecento, adesso volete farmaci nuovi, avete bisogno di nuove cavie su cui sperimentarli. Prendete i nostri bambini, fate esperimenti che a casa vostra non potreste condurre perché non vorreste mai fare le stesse cose ai vostri bambini, e quando qualcosa va storto, magari un minore si ammala o pensate che le autorità stiano per scoprirvi, vi sbarazzate di loro. Ma qualcosa è andato storto. Forse uno dei vostri tecnici non ha il coraggio di uccidere questi bambini. Sa che è sbagliato. Si ribella e ci rimette la vita. Lei sa che sta per arrivare la polizia, così s’inventa questa storia del rapimento. È così? Le conviene ammetterlo, sarà meglio. L’Indonesia è un Paese dove sappiamo essere indulgenti». «Non è andata così». «È la ricostruzione più logica, signorina Warner. Non ci dà alternative. Lei chiede un avvocato. Insiste perché la rilasciamo. Pensi che effetto fa». Kate continuò a fissarlo. L’inquirente si avviò alla porta. «Molto bene, signorina Warner. Devo avvertirla che quello che seguirà non sarà piacevole. È meglio collaborare, ma naturalmente voi americani siete troppo furbi». 11 Centro ricerche Immari Corp. Burang, Cina Regione autonoma del Tibet «Sveglia, Jin, stanno chiamando il tuo numero». Jin cercò di aprire gli occhi, ma la luce era accecante. Il suo compagno di stanza si chinò e gli bisbigliò qualcosa all’orecchio, ma lui non capì che cosa diceva. Una voce rimbombò dall’altoparlante: «Due zero quattro tre nove quattro, immediatamente a rapporto. Due zero quattro tre nove quattro, immediatamente a rapporto. Due zero quattro tre nove quattro. Due zero quattro tre nove quattro. A rapporto». Jin saltò fuori dal letto. Da quanto tempo lo stavano chiamando? I suoi occhi saettarono a destra e a sinistra perlustrando la cella di tre metri per tre che divideva con Wei. Dov’erano i calzoni e la maglia? No, per piacere… Se fosse stato in ritardo e non si fosse presentato vestito a modo, lo avrebbero senz’altro sbattuto fuori. Dov’erano? Dove diavolo?… Il suo compagno di stanza, seduto sul proprio letto, gli mostrò i calzoni e la maglia di cotone bianchi che teneva in mano. Jin glieli strappò dalle dita e li indossò in fretta e furia, rischiando di sgualcirli. Wei abbassò gli occhi. «Scusami, Jin, stavo dormendo anch’io. Non ho sentito». Jin avrebbe voluto dire qualcosa, ma non c’era tempo. Uscì di corsa. Molte delle stanzette erano vuote e per la maggior parte erano occupate da una sola persona. Alla porta in fondo al corridoio fu fermato dall’inserviente. «Braccio». Jin glielo mostrò. «Due zero quattro tre nove quattro». «Zitto», disse l’inserviente. Gli passò sopra l’arto uno strumento con un piccolo display. Il rilevatore mandò un segnale acustico, l’uomo girò la testa e gridò: «A posto». Aprì la porta. «Vai». Jin si unì ad altri cinquanta “residenti”. Tre inservienti li scortarono in una grande sala con lunghe file di sedie. Le file erano separate da alti tramezzi. Le sedie erano reclinabili, somigliavano a sdraio da spiaggia. Accanto a ciascuna c’era un paletto metallico a cui erano appesi tre sacchetti pieni di un liquido trasparente. Da ciascun sacchetto pendeva un tubo. Dall’altra parte di ciascuna sedia c’era una macchina con una serie di riquadri più numerosi che sul cruscotto di un’automobile. Da sotto la macchina usciva un fascio di cavi, la cui altra estremità era legata al bracciolo destro. Jin non aveva mai visto niente di simile. Non era mai stato così. Da quando era arrivato, sei mesi prima, i giorni si erano ripetuti quasi sempre uguali: prima colazione, pranzo e cena alla stessa ora, gli stessi pasti; dopo ogni pasto un prelievo di sangue dalla valvola che gli avevano inserito nel braccio destro; e qualche volta un po’ di ginnastica nel pomeriggio, monitorata dagli elettrodi applicati al torace. Per il resto del tempo erano confinati nelle celle di tre metri per tre con due letti e un gabinetto. Ogni due o tre giorni gli scattavano una foto con un macchinone che emetteva un ronzio cupo. Gli dicevano sempre di stare immobile. Facevano la doccia una volta alla settimana in un grande locale collettivo. Quella era certamente la parte peggiore, cercare di controllare le tentazioni sotto la doccia. Nel primo mese avevano sorpreso una coppia a scambiarsi effusioni. Nessuno li aveva più visti. Il mese precedente aveva tentato di rimanere nella sua cella all’ora della doccia, ma se ne erano accorti. Era arrivato il supervisore, furioso. «Se disubbidisci di nuovo ti sbattiamo fuori a calci», gli aveva detto. Lo aveva spaventato a morte. Lo pagavano a peso d’oro. E non aveva alternative. L’anno prima la sua famiglia aveva perso la fattoria. Nessuno riusciva a pagare più le tasse con un’attività così piccola. Ce la poteva fare forse una fattoria più grande. I prezzi della terra erano andati alle stelle, in una Cina in cui la popolazione aumentava a vista d’occhio. Alla fine la sua famiglia aveva fatto quello che avevano già fatto molte altre famiglie di contadini: aveva mandato il loro figlio maggiore a lavorare in città, mentre genitori e figli minori tentavano di resistere. Suo fratello maggiore aveva ottenuto un lavoro in una fabbrica di componenti elettronici. Jin era andato con i genitori a trovarlo un mese dopo l’assunzione. Le condizioni erano molto peggiori di dove si trovava lui e la fatica del lavoro aveva già cominciato a lasciare il segno: il giovane ventunenne, forte e scattante, che era partito dalla fattoria di famiglia sembrava invecchiato di vent’anni. Era pallido, stava perdendo i capelli e camminava un po’ ingobbito. Tossiva in continuazione. Aveva detto che c’era stato un virus e che si erano ammalati tutti quelli del suo dormitorio, ma Jin non gli aveva creduto. Suo fratello aveva dato ai genitori i pochi soldi che aveva risparmiato dal suo salario. «Pensate, tra cinque o dieci anni avrò abbastanza da comprarci un’altra fattoria. Tornerò a casa e ricominceremo da zero». Tutti avevano reagito con entusiasmo e i suoi genitori avevano detto di essere molto fieri di lui. Mentre tornavano a casa, il padre di Jin aveva annunciato che l’indomani sarebbe andato a cercarsi un lavoro migliore. Con le sue capacità era sicuro di poter andare a fare il supervisore da qualche parte. Avrebbe guadagnato bene. Jin e sua madre si erano limitati ad annuire. Quella notte Jin aveva sentito sua madre piangere e poco dopo suo padre alzare la voce. Non litigavano mai. L’indomani sera Jin era uscito di nascosto dalla sua stanza, aveva lasciato loro un messaggio ed era partito per Chongqing, la città più vicina. Lì c’erano molti altri come lui in cerca di lavoro. Nei primi sette posti dove si era presentato lo avevano respinto, ma all’ottavo era andata diversamente. Non gli avevano fatto domande. Gli avevano infilato in bocca un tampone di cotone e lo avevano fatto aspettare per un’ora in una grande stanza. Quasi tutti quelli che erano lì con lui erano stati mandati via. Dopo un’altra ora avevano chiamato il suo numero, il 204394, e gli avevano detto che potevano assumerlo in un centro di ricerca medica. Poi gli avevano detto quanto lo avrebbero pagato. Aveva firmato i fogli del contratto così velocemente che la mano gli doleva. Non gli sembrava possibile d’aver avuto un simile colpo di fortuna. Aveva previsto condizioni di lavoro estreme, invece si era completamente sbagliato: il posto in cui si era ritrovato era praticamente un albergo. E adesso aveva mandato tutto all’aria. Lo avrebbero buttato fuori. Avevano chiamato il suo numero. Forse aveva guadagnato abbastanza da comprare una nuova fattoria. O magari avrebbe trovato un altro centro di ricerca. Aveva sentito dire che in Cina le fabbriche più grandi si scambiavano liste di lavoratori scartati. Quelli non avrebbero trovato un impiego in nessun altro posto. Sarebbe stata una condanna a morte. «Cosa state aspettando!», gridò l’uomo. «Trovatevi da sedere». Jin e gli altri cinquanta “operai”, come lui scalzi e vestiti di bianco, si gettarono verso le sedie. Volarono gomiti, ci furono spintoni, alcuni inciamparono e caddero. Sembrava che tutti trovassero un posto a sedere, eccetto lui. Ogni volta che arrivava vicino a una delle sedie, qualcuno la occupava all’ultimo secondo. E se non ne avesse trovata una libera? Forse era un test. Forse avrebbe dovuto… «Calma, calma», disse l’uomo. «Attenti ai macchinari. Mettetevi sulla sedia più vicina a voi». Jin sospirò e provò nella fila successiva. Piena. Trovò un posto nell’ultima. Entrarono altri inservienti. Indossavano lunghi camici bianchi ed erano muniti di tablet. Una donna dall’aspetto giovanile gli collegò i sacchetti alla valvola che aveva nel braccio e gli applicò al corpo i dischi dei sensori. Batté due o tre volte il dito sul suo tablet e passò alla sedia successiva. Forse è solo un nuovo test, pensò Jin. All’improvviso aveva sonno. Reclinò la testa all’indietro e… Si svegliò sulla stessa sedia. Il tubo che scendeva dalle sacche era staccato, ma aveva ancora i sensori addosso. Si sentiva intontito e irrigidito, come se avesse l’influenza. Cercò di sollevare la testa. Era pesantissima. Arrivò un camice bianco, gli passò il fascio di una torcia sugli occhi, gli tolse i sensori e gli ordinò di andare a mettersi con gli altri davanti alla porta. Quando si alzò in piedi, per poco non gli cedettero le gambe. Si sorresse appoggiandosi al bracciolo della sua sedia, poi raggiunse il gruppo barcollando. Sembravano tutti mezzo addormentati. Erano forse venticinque, una metà di quelli che erano entrati. E gli altri? Aveva dormito troppo… di nuovo? Era una punizione? Gli avrebbero spiegato perché? Dopo qualche minuto furono raggiunti da un individuo che sembrava in condizioni ancora peggiori delle sue e di quelli che lo avevano preceduto. Gli inservienti fecero loro percorrere un altro lungo corridoio, dal quale entrarono in una sala enorme che Jin non aveva mai visto prima. Era completamente vuota, con pareti molto lisce. Gli sembrava di essere in un caveau. Passarono alcuni minuti. Dominò la voglia di sedersi per terra. Nessuno gli aveva detto che poteva farlo. Rimase in piedi con la testa ciondoloni. La porta si aprì ed entrarono due bambini accompagnati dagli inservienti. Non potevano avere più di sei o otto anni. Gli uomini li lasciarono con il gruppo e la porta si richiuse con un tonfo sordo. I bambini non erano drogati, o almeno così parve a Jin. Gli sembravano ben svegli. S’infilarono velocemente in mezzo al gruppo. Avevano la pelle scura, non erano cinesi. Passarono da uno all’altro in cerca di un volto familiare. Jin pensò che fossero sul punto di mettersi a piangere. Sentì un rumore meccanico giungere dal fondo dello stanzone, come lo sferragliare di un argano. E dopo qualche secondo capì che in effetti qualcosa veniva abbassato. La sua testa era così pesante. Dovette sforzarsi per sollevarla. Faticò a mettere a fuoco l’oggetto che scendeva da sopra. Gli fece pensare alla versione gigantesca di un pedone da scacchi di ferro con la testa piatta, o a una campana a forma di cilindro. Poteva essere alto quattro metri e doveva essere pesante, perché i quattro cavi che lo stavano calando erano molto grossi, forse venticinque centimetri di diametro. Quando fu a circa sei metri dal pavimento si fermò e due dei cavi scesero lungo il muro in una traccia che Jin non aveva notato. Si fermarono a livello dell’enorme macchina e gli parve che si tendessero, ancorandola su entrambi i lati. A quel punto si accorse di un altro cavo che partiva dal centro della testa della macchina. Era ancora più grosso dei quattro laterali e non era di metallo e nemmeno solido, sembrava composto da un fascio di cavi elettrici, come una sorta di cordone ombelicale elettronico. I bambini si erano fermati al centro del gruppo. Tutti gli adulti cercavano di guardare all’insù. Jin mise finalmente bene a fuoco e allora vide un segno inciso sul fianco della macchina. Gli sembrava un simbolo nazista, quello della… no, non ricordava il nome. Aveva tanto sonno… La macchina era scura, ma lui ebbe l’impressione di sentire una debole pulsazione, come se qualcuno bussasse a una porta, bum-bum-bum. O forse era il rumore della macchina fotografica. Era anche quella una specie di macchina fotografica ma diversa? Per le foto di gruppo? Con il passare dei secondi il bum-bum-bum diventava più forte e dalla testa del pedone gigante apparve una luce: adesso si vedeva che nella testa si aprivano delle finestrelle. La luce giallo-arancio balenava a ritmo con le pulsazioni, creando un effetto simile a quello di un faro. Jin era così rapito dalle pulsazioni sonore e luminose della macchina che non si accorse delle persone che intorno a lui cominciavano a cascare. Stava succedendo qualcosa. E succedeva anche a lui. Si sentì le gambe appesantite. Udì un suono metallico: la macchina sfregava i cavi che la ancoravano cercando di risollevarsi. La trazione del pavimento cresceva a ogni istante. Jin si guardò intorno ma non vide più i bambini. Sentì qualcuno che lo afferrava per una spalla. Si girò e trovò che gli si era aggrappato uno degli altri. Aveva la faccia solcata da rughe profonde e gli colava sangue dal naso. Vide che gli stava lasciando incollati ai vestiti la pelle delle mani. No, non era solo pelle. L’uomo cominciò a inzuppargli la maglia del proprio sangue. Gli piombò addosso e crollarono entrambi sul pavimento. Jin sentì il bum-bum-bum della macchina fondersi in un rumore costante e la luce smise di pulsare, mentre anche a lui usciva sangue dal naso. Poi luce e rumore cessarono all’improvviso. Nella sala di controllo il dottor Chang e la sua squadra osservarono i soggetti del loro test che stramazzavano sul pavimento in una catasta di cadaveri avvizziti e sanguinolenti. Chang piombò a sedere nella sua poltrona. «Va bene, basta così, spegnete tutto». Si tolse gli occhiali e li gettò sul tavolo. Si pizzicò il setto nasale e sospirò. «Dovrò riferire al direttore». E non lo avrebbe reso felice. Si alzò e andò alla porta. «Cominciate a ripulire», ordinò. «Lasciate perdere le autopsie». Il risultato sarebbe stato lo stesso degli ultimi venticinque test. I due addetti alle pulizie fecero dondolare il cadavere avanti e indietro e lo lanciarono nel carrello. Lì dentro c’era posto per una decina di corpi. Quel giorno avrebbero probabilmente dovuto fare tre viaggi fino all’inceneritore, forse due se fossero riusciti a sistemare bene i cadaveri accatastati. Avevano affrontato situazioni peggiori, questa volta almeno i corpi erano tutti interi. Quando erano a pezzi ci voleva un secolo per ripulire. Era dura lavorare con quella tuta protettiva addosso, ma era sempre meglio dell’alternativa. Sollevarono un altro cadavere, lo fecero dondolare e… Qualcosa si muoveva in mezzo alla catasta. Sotto i corpi c’erano due bambini che tentavano di venire fuori. Erano coperti di sangue. Uno dei due inservienti cominciò a spostare i cadaveri. L’altro si girò verso le telecamere, sbracciandosi. «Ehi! Qui ne abbiamo due vivi!». 12 Area detentiva Quartier generale Clocktower Giacarta, Indonesia «Mi senti, Josh?». Josh Cohen cercò di aprire gli occhi, ma la luce era troppo violenta. Sentiva martellate nella testa. «Dammene dell’altra». Scorgeva non più di un’ombra seduta accanto a lui su un letto duro. Dov’era? Sembrava una delle celle della stazione. L’uomo di fianco a lui gli avvicinò una capsula al naso e la spezzò. Josh inalò il peggior odore che avesse mai sentito, una fitta travolgente di ammoniaca che gli risalì per le vie respiratorie, gli gonfiò i polmoni e lo catapultò all’indietro. Cozzò con la testa contro il muro e le martellate dentro il cranio si trasformarono in un’esplosione di dolore. Chiuse con forza gli occhi e si massaggiò le tempie. «Ok, ok, fai piano». Era David Vale, il capo della cellula. «Cosa sta succedendo?», chiese Josh. Finalmente poté aprire gli occhi e vide che David era in completa tenuta da combattimento e che alla porta della cella c’erano altri due operativi. Si mise a sedere. «Qualcuno deve aver piazzato una cimice…». «Calma, le cimici non c’entrano. Ce la fai a stare in piedi?», domandò David. «Credo di sì». Josh si alzò con qualche difficoltà. Era ancora stordito dal gas che gli aveva fatto perdere i sensi nella cabina dell’ascensore. «Bene, seguimi». Josh andò dietro a David e agli altri due agenti, fuori dall’area delle celle di detenzione fino alla stanza dei server in fondo a un lungo corridoio. Davanti alla porta David fermò i due operativi. «Aspettate qui. Avvertitemi via radio se qualcuno entra in corridoio». Dentro la sala, riprese il passo spedito di poco prima e Josh fu quasi costretto a correre per riuscire a seguirlo. Il capo della stazione di Giacarta era alto poco meno di un metro e novanta ed era ben piantato, non quanto i massicci agenti operativi, ma grosso abbastanza da dare il fatto suo a qualunque ubriacone lo avesse affrontato in una rissa da bar. Procedettero tortuosamente nella stanza, girando intorno ai server sui quali lampeggiavano spie verdi, rosse e gialle. La stanza era climatizzata e il ronzio costante dei computer dava un vago senso di disorientamento. Una squadra di tre persone era impegnata in incessanti operazioni di manutenzione, cosicché il locale si trasformava in una specie di percorso di guerra per il gran numero di componenti sparsi sul pavimento. Josh inciampò in un cavo ma, prima che cascasse, David si voltò di scatto e lo sorresse, aiutandolo a raddrizzarsi. «Tutto bene?». Josh annuì. «Sì, ma qui è proprio un casino». David tacque, però rallentò l’andatura fino a fermarsi davanti a un armadietto metallico accostato alla parete di fondo. David lo spostò scoprendo una porta d’acciaio. La luce rossa di un quadrante, accanto alla porta, gli scannerizzò il palmo della mano e subito dopo si aprì un altro pannello che rilevò la sua fisionomia e la sua impronta retinica. Terminata l’operazione di controllo, una parte della parete scivolò via, mostrando una porta di metallo scura che somigliava al portellone di una nave da guerra. David l’aprì con un secondo scan del palmo ed entrò con Josh in una stanza grande più o meno quanto la metà della palestra di un liceo. Le pareti erano di cemento e i loro passi riecheggiarono vibrando nel vasto spazio vuoto, fino a quando non si fermarono al centro della stanza, dove una teca di vetro di circa quattro metri per quattro pendeva appesa a resistenti cavi d’acciaio intrecciati. Era illuminata da una luce soffusa e Josh non poteva vedere cosa ci fosse dentro, ma già sapeva che aveva davanti a sé. Aveva sempre sospettato che ci fosse un posto come quello, eppure non l’aveva mai visitato. Era un locale insonorizzato. Tutto quanto il quartier generale della Clocktower era una specie di stanza insonorizzata, schermato com’era contro qualunque sistema di intercettazione. Non c’era bisogno di prendere ulteriori precauzioni quando si era all’interno, a meno di non volere che qualche altro membro del personale ti sentisse. Certi protocolli richiedevano quel grado di sicurezza. Era presumibile che da dentro quella scatola di vetro il capo parlasse via telefono o video con gli altri capicellula. Forse persino con Central. Quando vi arrivarono davanti, una scaletta si calò automaticamente dalla teca di vetro e si ritrasse una volta entrati. Alle loro spalle si richiuse una porta di vetro. A parte alcuni monitor, l’ambiente era più che spartano: un semplice tavolino pieghevole con quattro seggiole, due telefoni, un vivavoce e un vecchio schedario di metallo. Tutta mobilia più che economica e abbastanza improbabile: sembrava di essere nella roulotte di qualche cantiere edile. «Accomodati», disse David mentre andava a prendere alcuni fascicoli dallo schedario. «Ho un rapporto da fare. È importante…». «Credo che sia meglio se lasci cominciare me». David si sedette con lui e posò sul tavolo i fascicoli. «Con il dovuto rispetto, quello che ho da riferire potrebbe cambiare completamente il tuo punto di vista. Potrebbe portare a una rivalutazione complessiva. Una ristrutturazione di tutte le attività della stazione di Giacarta e persino delle tecniche con cui analizziamo tutte le…». David alzò una mano. «So già che cosa stai per dirmi». «Sì?» «Sì. Stai per dirmi che la grande maggioranza delle minacce terroristiche di cui ci occupiamo, comprese operazioni in nazioni sviluppate che ancora non ci sono chiare, non sono l’opera di una decina di diversi gruppi di terroristi e fondamentalisti, come avevamo sospettato». Quando Josh non commentò, David riprese: «Stai per dirmi che adesso la Clocktower crede che questi gruppi siano semplicemente tutti facce diverse di un solo supergruppo globale, un’organizzazione di dimensioni straordinarie, ben al di là delle più fantasiose proiezioni ipotizzate finora». «Te l’avevano già detto?» «Sì, ma non di recente. Io avevo già cominciato a rimettere insieme i tasselli prima di entrare alla Clocktower. Quando sono stato nominato capo di filiale, ne sono stato informato in via ufficiale». Josh distolse lo sguardo. Non era un vero tradimento, eppure venire a sapere di essere stato tenuto all’oscuro di un’informazione così importante – per lui che era capo degli analisti – era un colpo basso. Allo stesso tempo si chiedeva se non avesse dovuto averlo intuito, se David non fosse deluso nel constatare che non lo aveva fatto. Il capo parve rendersi conto del disagio di Josh. «Per quel che vale, era da un po’ che intendevo dirtelo, ma finora non è stato necessario che ne fossi messo al corrente. C’è però qualcos’altro che devi sapere. Dei 240 circa analisti che hanno partecipato alla conferenza, 142 non sono mai tornati a casa». «Cosa? Non capisco. Non c’era…». «Non hanno passato il test». «Il test…». «Il test era la conferenza. Dall’istante in cui sei arrivato fino a quando sei uscito, sei stato sotto osservazione video e audio. Come gli indiziati che interroghiamo qui, gli organizzatori della riunione hanno misurato stress vocale, dilatazione della pupilla, movimenti degli occhi e una decina di altri elementi rivelatori. In breve, hanno esaminato le reazioni degli analisti durante tutta la conferenza». «Per vedere se nascondevamo delle informazioni?» «Sì, ma soprattutto per vedere chi era già al corrente di quello che veniva illustrato. In particolare, quali degli analisti sapevano già che dietro gli attacchi c’è un solo supergruppo terroristico. La conferenza è stata una caccia alla talpa in tutta la Clocktower». In quel momento fu come se le pareti di vetro intorno a Josh scomparissero. Sentiva parlare David in sottofondo, ma era perso nei propri pensieri. La conferenza era una copertura perfetta per un’operazione di controllo come quella. Tutti gli agenti della Clocktower, analisti compresi, erano addestrati a metodi standard di controspionaggio. Ingannare una macchina della verità faceva parte del tirocinio. Ma dire una bugia con assoluta disinvoltura era molto più facile che fingere una risposta emotiva a una sorpresa, e sostenere quella reazione con una biometrica credibile per tre giorni di fila… quello era impossibile. Però se si era deciso di controllare tutti i capi analisti, voleva dire che… «Josh, mi hai sentito?». Lui alzò la testa. «No, scusa, è abbastanza sconcertante… La Clocktower è stata compromessa». «Sì, e adesso ho bisogno della tua attenzione. Tutto sta succedendo molto velocemente e mi serve il tuo aiuto. Il test a cui sono stati sottoposti gli analisti è stato il primo passo nel protocollo firewall della Clocktower. In questo momento i capi analisti di tutte le sedi rientrati dalla conferenza sono a colloquio con i rispettivi direttori in stanze come questa a organizzare contromisure di sicurezza». «Tu credi che la stazione di Giacarta sia stata compromessa?» «Mi stupirei se non lo fosse. C’è di più. L’epurazione degli analisti ha avuto delle conseguenze. Il piano previsto dal protocollo firewall doveva individuare eventuali talpe e coordinare i capi analisti restanti e i rispettivi direttori perché lavorassero insieme per identificare chiunque potesse fare il doppio gioco». «Logico». «Lo sarebbe stato, se non avessimo sottovalutato l’entità del danno. È necessario che ti spieghi qualcosa di più di come è organizzata la Clocktower. Tu sai quante succursali ci sono: tra le duecento e le duecentocinquanta. Dovresti anche sapere che abbiamo già identificato alcuni dei capi analisti che ci hanno tradito. Sono una sessantina. Non sono mai arrivati alla conferenza». «Allora chi erano…». «Attori. Soprattutto agenti operativi che in precedenza avevano lavorato come analisti, chiunque fosse in grado di interpretare la parte. Siamo stati costretti. Alcuni degli analisti già conoscevano il numero approssimativo delle sedi della Clocktower, e gli attori tornavano anche utili allo scopo dell’operazione, contribuendo a facilitare il lavoro di verifica con domande mirate, grazie alle quali ottenere reazioni interessanti». «Incredibile… Com’è possibile che siamo stati infettati così in profondità?» «È uno degli interrogativi a cui dobbiamo dare una risposta. C’è dell’altro. Non tutte le sedi sono come la stazione di Giacarta. La grande maggioranza è composta da semplici punti d’ascolto. Hanno personale ridotto che raccoglie informazioni da inviare a Central. Se viene infettato uno di questi punti d’ascolto è una grana, perché significa che – chiunque sia questo nemico globale – se ne serve per raccogliere informazioni riservate e magari per inviarci dati falsi». «Sarebbe praticamente come accecarci», commentò Josh. «Infatti. Pensavamo che nella migliore delle ipotesi il nostro nemico ci avesse carpito informazioni per preparare un attacco su larga scala. Ora sappiamo che siamo stati ottimisti. Sono state compromesse anche alcune delle sedi maggiori. Sono quelle più simili alla stazione di Giacarta, con un centro di intelligence e anche una squadra consistente di agenti sotto copertura. Noi siamo una delle venti succursali più importanti. Queste stazioni sono l’ultima linea di difesa, la sottile linea rossa che separa il mondo da ciò che sta preparando questo nemico». «Quante sono quelle compromesse?» «Non lo sappiamo. Ma tre di quelle principali sono già cadute. Karachi, Città del Capo e Mar del Plata hanno riferito che le forze speciali di stanza presso ciascuna cellula hanno assalito il proprio quartier generale uccidendo quasi tutti gli analisti e i direttori. Da ore non riceviamo più comunicazioni da loro. La sorveglianza satellitare sopra l’Argentina conferma la distruzione del quartier generale di Mar del Plata. I ribelli di Città del Capo sono stati assistiti da forze esterne. Mentre noi parliamo, ci sono combattimenti in corso a Seul, a Delhi, a Dacca e a Lahore. Può darsi che quelle stazioni resistano, ma dobbiamo lavorare partendo dal presupposto che cadano tutte quante. È possibile che in questo momento le nostre forze speciali si stiano preparando ad attaccare la stazione di Giacarta. O magari sta succedendo anche adesso, in questo istante, fuori da questa stanza, ma ne dubito». «Perché?» «Penso che aspetteranno che tu rientri. Dato quello che sai, per loro rappresenti un pericolo. Quando dovessero attaccare, tu saresti in cima alla loro lista. Il briefing della mattina sarebbe il momento ideale per un attacco e probabilmente è quello che stanno aspettando». Josh si sentì seccare il palato. «È per questo che mi avete rapito nell’ascensore». Rifletté per un momento. «E adesso? Vuoi che identifichi i possibili aggressori prima del briefing? Organizziamo un attacco preventivo?» «No», rispose David scuotendo la testa. «Era il piano originale, ma ormai è superato. Dobbiamo dare per scontato che Giacarta cadrà. Se siamo stati infiltrati al livello delle altre stazioni principali, è solo questione di tempo. Dobbiamo guardare al quadro generale e cercare di capire quale sia lo scopo finale del nostro nemico. È presumibile che una o più delle altre succursali sopravvivano, e tutto quello che riusciremo a scoprire noi sarà utile a loro. Altrimenti potrà servire a una delle nostre agenzie nazionali. Ma c’è ancora una domanda che non mi hai fatto ed è molto importante». Josh pensò per qualche istante. «Perché ora? E perché cominciare dagli analisti? Perché non hanno spazzato via per prima cosa gli operativi?» «Molto bene». David aprì un fascicolo. «Dodici giorni fa sono stato contattato da una fonte anonima che ha detto due cose. La prima è che era imminente un attacco terroristico su una scala mai vista prima. La seconda era che la Clocktower era stata compromessa». Cambiò posizione ad alcuni dei fogli del fascicolo. «Ha accluso una lista di sessanta analisti che secondo lui erano corrotti. Noi li abbiamo sorvegliati per qualche giorno e abbiamo constatato con i nostri occhi che facevano consegne e comunicazioni non autorizzate. L’informazione era corretta. La fonte ha detto che potrebbero essercene degli altri. Il resto lo sai. Io e gli altri capicellula abbiamo organizzato la conferenza degli analisti. Abbiamo interrogato e messo in quarantena quelli compromessi sostituendoli con degli attori. Qualunque sia la fonte, o non sapeva degli agenti operativi o non ci ha avvertiti per ragioni che noi ignoriamo. La fonte ha rifiutato un incontro e io non ho ricevuto altre comunicazioni. Noi abbiamo organizzato la nostra conferenza e dopo di essa… l’epurazione. Per tutto questo tempo la fonte ha mantenuto il silenzio radio. Poi, ieri sera tardi, mi ha contattato di nuovo. Ha detto di volermi riferire l’altra metà dell’informazione che mi aveva promesso, i particolari di un attacco su larga scala con il nome in codice di “Protocollo Toba”. Dovevamo vederci questa mattina alla stazione di Manggarai, ma non si è fatta viva. È venuto invece un tizio con una bomba. Ma io credo che la fonte volesse esserci. Subito dopo l’attentato un ragazzino mi ha consegnato un giornale con un messaggio». David spinse verso di lui un foglio preso dal fascicolo. Il Protocollo Toba è reale. 4+12+47=4/5; Jones 7+22+47=3/8; Anderson 10+4+47=5/4; Ames «Un codice, direi», commentò Josh. «Sì, ed è strano. Perché gli altri messaggi erano in chiaro. Ora però ha senso». «Non capisco». «Qualunque sia il codice usato, il messaggio è autentico, spiega tutto il preambolo. La fonte voleva che ripulissimo la nostra organizzazione in maniera da poter mandare il suo messaggio in codice al momento giusto, nella certezza che sarebbe stato decodificato da qualcuno che non faceva il doppio gioco. Vale a dire te. Voleva essere certo che facessimo pulizia degli analisti e ritardassimo i fuochi d’artificio per permettergli di inviare il suo messaggio. Se avessimo saputo fino a che punto eravamo stati compromessi, avremmo messo subito in quarantena gli agenti operativi e avremmo sigillato completamente la Clocktower. E adesso noi non staremmo avendo questa conversazione». «Sì, ma perché mandare un messaggio in codice? Perché non mandarlo in chiaro come aveva fatto prima?» «È una buona domanda. Evidentemente anche lui viene spiato, e comunicare in chiaro quello che sta cercando di dirci avrebbe delle ripercussioni, forse potrebbe provocare la sua morte o accelerare l’attacco terroristico. Dunque, chiunque lo stia sorvegliando presume che noi non sappiamo ancora cosa significhi il messaggio. Può essere questo il motivo per cui non hanno neutralizzato altre nostre sedi. Sono convinti di poter ancora controllare la Clocktower». «È plausibile». «D’accordo, però c’è ancora una domanda che mi lascia perplesso: perché me?». Josh rifletté. «Giusto, perché non il direttore della Clocktower, tutti gli altri direttori delle sedi della Clocktower, o avvertire semplicemente tutte le agenzie di intelligence del mondo? Avrebbero avuto risorse ben maggiori delle nostre con cui arginare l’attacco. Forse dare la soffiata a loro avrebbe fatto partire l’attacco in anticipo, proprio come inviare il messaggio in chiaro. Oppure… tu sei in una posizione particolare che ti mette nelle migliori condizioni per fronteggiare l’attacco…». Josh guardò improvvisamente David negli occhi. «Oppure tu sai qualcosa». «Molto bene», disse l’altro, alzandosi per andare a prendere due ulteriori fascicoli dallo schedario. «Ti ho detto che avevo cominciato a investigare su questo supergruppo terroristico prima di entrare alla Clocktower. Ora ti mostrerò qualcosa su cui lavoro da più di dieci anni, qualcosa che non ho mai mostrato a nessuno, nemmeno ai nostri agenti». 13 Stanza degli interrogatori C Centro di detenzione della polizia di Giacarta ovest Giacarta, Indonesia Kate si appoggiò allo schienale della sua seggiola spingendola all’indietro. Aveva concluso di non potersi esimere dal rivelare all’inquirente com’era cominciato il progetto. Anche se non le avesse creduto, era necessario che, se fosse finita sotto processo, le sue dichiarazioni fossero a verbale. «Aspetti», disse. L’uomo si fermò davanti alla porta. Kate riabbassò sul pavimento le gambe anteriori della sedia e posò le braccia sul tavolo. «Se il mio progetto ha adottato quei bambini c’è un’ottima ragione. C’è una cosa che deve capire. Quando sono venuta a Giacarta, mi aspettavo di svolgere il mio lavoro come lo avrei fatto normalmente in America. Quello è stato il mio primo errore. Abbiamo fallito… e allora… abbiamo cambiato sistema». L’ometto si girò, tornò indietro, si sedette e ascoltò come Kate aveva trascorso settimane a preparare il reclutamento dei suoi pazienti. Per condurre la loro fase sperimentale, l’équipe di Kate si era affidata a una Contract Research Organization (CRO), come avrebbero fatto negli Stati Uniti. In America le compagnie farmaceutiche studiano in continuazione la produzione di nuovi medicinali o nuove terapie e, quando hanno qualcosa di promettente, spesso appaltano la sperimentazione alle CRO. Sono le CRO a trovare i dottori interessati al progetto. Le strutture mediche dei professionisti che aderiscono si occupano quindi di individuare pazienti disposti a partecipare, somministrare il nuovo farmaco o sottoporli alla nuova terapia e controllarli periodicamente registrando effetti positivi, o eventualmente negativi. La CRO segue passo per passo ogni fase della sperimentazione, riferendone i risultati all’organizzazione che la sponsorizza, la quale a sua volta riferisce all’FDA1 o altre analoghe autorità nelle diverse nazioni di tutto il mondo. L’obiettivo è quello di ottenere il risultato terapeutico desiderato senza alcun effetto negativo o contrario. Era un percorso molto lungo e solo meno dell’un percento dei farmaci sperimentati in laboratorio arrivava alla fine negli scaffali delle farmacie. C’era un solo problema: a Giacarta, e in generale in tutta l’Indonesia, non esistevano cliniche specializzate in autismo e c’erano solo pochi istituti che si occupavano di disturbi dello sviluppo. Questi ultimi non avevano alcuna esperienza in ricerca medica, una situazione che costituiva un pericolo reale per i pazienti. In Indonesia l’industria farmaceutica era di dimensioni irrilevanti, soprattutto perché non c’era mercato (l’Indonesia importava soprattutto farmaci generici), perciò erano molto pochi i medici che fossero entrati in qualche modo in contatto con il settore della ricerca. La CRO tentò una via innovativa: ingaggiare direttamente i pazienti e dirigere una clinica in cui somministrare la terapia. Kate si era incontrata varie volte con i dirigenti della CRO, assistita dal ricercatore capo del suo progetto, il dottor John Helms. Insieme avevano studiato ogni possibile alternativa, ma non ne avevano trovate di praticabili, così alla fine, dietro la sua stessa insistenza, il dottor Helms aveva accettato. Avevano compilato una lista di famiglie con un bambino autistico nel raggio di 150 chilometri da Giacarta. Kate aveva affittato un auditorium in uno dei più eleganti alberghi della città e aveva invitato le famiglie a una presentazione. Per giorni aveva scritto, riscritto e revisionato l’opuscolo del progetto, finché Ben non l’aveva presa di petto dichiarando che, se non ne avesse redatto immediatamente una versione definitiva, lui avrebbe abbandonato il progetto. Kate aveva ceduto e il suo opuscolo, dopo il via libera di una commissione etica, era andato in tipografia. Quando era venuto il suo gran giorno, appostata all’ingresso pronta ad accogliere le famiglie, era in preda a un’ansia incontenibile. Non faceva che asciugarsi le mani sudate sui pantaloni. Sapeva che la prima impressione è quella che conta. Sicurezza, fiducia, esperienza. Aspettava. Chissà se avevano abbastanza opuscoli. Ne avevano fatti stampare mille e anche se avevano inviato solo seicento inviti, era possibile che si presentassero entrambi i genitori. E magari famiglie che non erano state contattate, perché in Indonesia non aveva trovato nessun database affidabile sui casi di autismo. Che cosa avrebbero potuto fare? Aveva detto a Ben di stare pronto a usare la fotocopiatrice dell’albergo per fare delle copie aggiuntive mentre lei teneva la sua conferenza. L’ora prestabilita era passata da quindici minuti quando erano apparse le prime due madri. Kate si era asciugata per l’ennesima volta le mani prima di stringere vigorosamente quelle delle convenute, parlando con un tono di voce un po’ stridulo. «È un vero piacere avervi qui, grazie per essere venute, no, è da questa parte, accomodatevi, cominceremo a momenti…». Ma era trascorsa un’ora intera e si erano aggiunte poche altre donne. Kate si era profusa in convenevoli con le sei madri che fino a quel momento si erano sedute nell’auditorium. «Non so che cosa possa essere successo… Quando avete ricevuto l’invito? No, abbiamo invitato altre famiglie… Dev’esserci stato qualche problema con la posta…». Alla fine si era trasferita con le sei donne in una saletta più piccola per togliere tutte dall’imbarazzo. E la presentazione si era ridotta ai minimi termini quando le donne, una dopo l’altra, si erano congedate perché dovevano tornare al lavoro, perché avevano un figlio da andare a prendere o cose simili. Al bar dell’albergo il dottor Helms si era ubriacato. «Te l’avevo detto che non avrebbe funzionato», aveva biascicato quando Kate lo aveva raggiunto. «Non recluteremo mai nessun autistico in questa città, Kate. Perché mai… Ehi, ehi, barista, da questa parte, sì, un altro per favore, lo stesso, certo, bravo… Cosa stavo dicendo? Ah, già, guarda che è meglio che chiudiamo questa storia velocemente, Kate. Ho ricevuto un’offerta da Oxford. Dio, come mi manca Oxford, qui c’è un’umidità tremenda, sembra di essere sempre in una sauna. E devo ammettere che ho fatto tutto quanto mi era possibile. A proposito di…». Le si era avvicinato un po’ di più. «Non voglio portarmi sfortuna da solo pronunciando le parole Premio. No. Bel. Però… ho sentito che si è fatto il mio nome come candidato. Kate, questa potrebbe essere la volta buona. Non vedo l’ora di dimenticarmi questa débâcle. Quando imparerò? Il guaio è che, di fronte a una buona causa, mi si scioglie il cuore». Kate avrebbe voluto ricordargli che il suo cuore tenero aveva certamente spuntato condizioni ottime, visto che l’onorario del dottor Helms era tre volte il suo e che il suo nome sarebbe apparso prima di quello di lei su qualunque pubblicazione o brevetto, nonostante l’intero progetto si basasse sulla sua ricerca, ma si era morsa la lingua mandando giù l’ultimo sorso del suo Chardonnay. Quella sera aveva chiamato Martin. «Non posso…». «Fermati qui, Kate. Tu puoi realizzare tutto quello che ti metti in testa di fare. Come sempre, finora. In Indonesia ci sono duecento milioni di persone e su questo piccolo mondo ce ne sono quasi sette miliardi. Circa lo 0,5 percento presenta presumibilmente comportamenti che rientrano nello spettro dell’autismo, e dunque stiamo parlando di qualcosa come trentacinque milioni di persone, la popolazione del Texas. Tu hai mandato lettere a seicento famiglie. Non mollare. Non te lo permetterò. Domattina chiamerò il capo dell’Ufficio dei finanziamenti della Immari Research. Continueranno ad appoggiarti, con o senza quel ciarlatano di John Helms». Quella telefonata le aveva ricordato la sera in cui lo aveva chiamato da San Francisco e Martin le aveva giurato che Giacarta sarebbe stato il posto giusto dove ricominciare e riprendere a lavorare sulla sua ricerca. Chissà, forse alla fine si sarebbe capito che lui ci aveva visto giusto. L’indomani mattina, in laboratorio, aveva detto a Ben di ordinare un altro quantitativo di opuscoli. E di trovare degli interpreti. Avrebbero fatto un giro dei centri abitati della provincia. Avrebbero ampliato l’arco dei loro contatti e non avrebbero aspettato che fossero le famiglie a venire da loro. Aveva chiuso il contratto con la CRO. Aveva ignorato le proteste del dottor Helms. Due settimane dopo avevano caricato su tre minivan quattro ricercatori, otto interpreti e un buon numero di casse piene di opuscoli in cinque lingue: indonesiano/malese, giavanese, sudanese, madurese e betawi. Anche quella delle lingue era stata una scelta difficile. In tutta l’Indonesia si parlano settecento idiomi diversi, ma alla fine Kate aveva scelto i cinque più comunemente diffusi a Giacarta e sull’isola di Giava. A scanso di equivoci, non avrebbe visto fallire la sua sperimentazione sull’autismo per colpa di problemi di comunicazione. Come per l’episodio dell’albergo a Giacarta, tutti i suoi preparativi si erano dimostrati inutili. Già nel primo villaggio dove si erano fermati erano rimasti stupiti nel constatare che non c’erano bambini autistici. Gli abitanti non erano interessati ai suoi opuscoli. Gli interpreti le avevano detto che nessuno aveva mai visto un bambino con quel tipo di problemi. Non aveva senso. Dovevano esserci almeno due o tre possibili candidati per la sua ricerca in tutti i villaggi, forse anche di più. Nel centro abitato successivo si era accorta che uno degli interpreti, un uomo anziano, era rimasto appoggiato al minivan mentre gli altri bussavano alle porte delle case. «Ehi, perché lei non lavora?», gli aveva chiesto. Lui si era stretto nelle spalle. «Perché non servirebbe a niente». «Ma neanche per idea. Veda di…». Lui aveva alzato le mani. «Non intendevo offendere, signora. Dico solo che state facendo le domande sbagliate. E le fate alle persone sbagliate». «Va bene», gli aveva concesso lei. «A chi chiederebbe? E cosa chiederebbe?». L’anziano interprete si era staccato dalla portiera, le aveva fatto segno di seguirlo e si era inoltrato nel villaggio passando oltre le abitazioni più belle. Arrivato nei sobborghi, aveva bussato alla prima porta e quando gli aveva aperto una donna di bassa statura, le aveva parlato velocemente, in tono autorevole, indicando ogni tanto Kate. Era una situazione che l’aveva molto imbarazzata. Intimidita, aveva stretto insieme i lembi del camice bianco che indossava. Era stato un dramma anche scegliere come vestirsi, ma alla fine aveva deciso che la cosa migliore era trasmettere un’idea credibile di operatrice sanitaria. Non immaginava come potesse apparire agli occhi di quella gente, che si vestiva in abiti confezionati da loro stessi con stracci portati a casa dai loro luoghi di lavoro per salari da fame, o riadattando vecchi indumenti dismessi e semidistrutti. La donnina era sparita e Kate aveva fatto un passo in avanti per interrogare l’interprete, che l’aveva trattenuta con un gesto della mano. Un attimo dopo la donna era riapparsa spingendo davanti a sé tre bambini, immobili come statue a guardarsi i piedi. L’interprete li aveva osservati con attenzione uno a uno, mentre Kate, sempre più a disagio, cominciava ad agitarsi non sapendo che cosa fare. I bambini erano sani, nessuno mostrava il minimo sintomo di autismo. Davanti al terzo, il vecchio si era chinato e gli aveva parlato alzando la voce. Era intervenuta subito la madre, ma lui l’aveva zittita in malo modo. Il bambino, spaventato, aveva pronunciato tre parole. L’interprete aveva detto qualcosa e lui le aveva ripetute. Kate pensò che potessero essere dei nomi. Di persone o di luoghi? L’interprete si era rialzato e aveva ripreso a parlare alla madre in tono aggressivo. Lei aveva scosso con forza la testa, ripetendo in continuazione la stessa frase. Dopo qualche minuto di insistenze da parte dell’interprete, la donna aveva abbassato la testa e aveva cominciato a parlare sottovoce. Aveva indicato un’altra baracca, allora, per la prima volta, l’interprete aveva assunto un tono benevolo e la donna era sembrata sollevata da quello che le aveva detto. Aveva riportato in casa i bambini e per poco non aveva schiacciato l’ultimo dei tre per la fretta di richiudere la porta. Davanti alla seconda baracca si era svolta una scena analoga, con l’interprete che alzava la voce e gesticolava, Kate che ascoltava imbarazzata e un’altra madre che presentava i suoi quattro figli e poi aspettava trepidante la conclusione dell’interrogatorio. Questa volta, quando l’interprete aveva rivolto le sue domande a uno dei figli, il bambino aveva pronunciato cinque parole, che Kate aveva pensato fossero nomi. La madre aveva protestato, ma il vecchio l’aveva ignorata continuando a far pressione sul piccolo. A un certo punto, sentita un’ulteriore risposta, aveva spinto via madre e figli ed era entrato senza tanti complimenti. Kate era stata colta alla sprovvista, ma quando la madre e i bambini avevano seguito l’interprete dentro casa, aveva fatto altrettanto. L’abitazione era un tugurio, tre stanze in cui si faticava a muoversi. Era stato un miracolo se non era inciampata. In fondo alla casa aveva trovato l’interprete e la donna che litigavano ancor più concitatamente di prima. Ai loro piedi, un bambino pelle e ossa era legato a un montante di legno che reggeva il tetto. Era imbavagliato, ma Kate aveva sentito i mugolii ritmici che emetteva dondolandosi avanti e indietro e battendo la testa contro la trave. Kate aveva afferrato l’interprete per un braccio. «Cos’è questo? Mi dica cosa sta succedendo qui dentro». Lui era sembrato un attimo smarrito, guardando prima lei e poi la madre, come preso tra la propria datrice di lavoro e un animale in gabbia le cui rimostranze stavano diventando sempre più isteriche. Kate lo aveva tirato verso di sé e l’interprete si era deciso a dare qualche spiegazione. «Dice che non è colpa sua. Dice che il bambino è disubbidiente. Non vuole mangiare il cibo che gli dà. Non fa come gli dice lei. Non gioca con gli altri. Dice che non risponde neppure al proprio nome». Erano tutti segni classici di autismo, sintomi di un caso grave. Kate aveva osservato il bimbo. «La madre continua a ripetere che non è colpa sua», aveva ripreso l’interprete. «Dice che lo ha tenuto con sé più a lungo degli altri, ma che non può…». «Quali altri?». L’interprete aveva parlato di nuovo con la donna, a un volume più normale. «Fuori del villaggio», aveva riferito. «C’è un posto dove portano i bambini che non rispettano i loro genitori, quelli che disubbidiscono in continuazione, che non vogliono far parte della loro famiglia». «Mi ci porti». Lui aveva strappato alla donna qualche altra indicazione, poi si era diretto alla porta. Lei lo aveva richiamato. L’interprete si era rivolto a Kate. «Vuole sapere se lo porteremo via». «Le risponda di sì. Le dica di slegarlo e che torneremo qui». L’interprete aveva condotto Kate a una foresta che si trovava subito a sud del villaggio. Dopo un’ora di ricerche ancora non avevano trovato niente, ma non si erano dati per vinti. Ogni tanto Kate sentiva il fruscio di foglie e arbusti mossi da animali selvatici. Mancava poco al tramonto e si domandava come fosse quel posto di notte. L’Indonesia si trova interamente dentro la fascia tropicale, con una temperatura quasi costante tutti i giorni e in tutte le stagioni. Le giungle giavanesi sono pericolose, zone selvatiche, habitat di ogni genere di serpenti, grandi felini e insetti. Non certo un posto adatto a dei bambini. All’improvviso aveva sentito gridare. «Dottoressa Warner, presto!», l’aveva chiamata l’interprete. Era corsa dalla sua parte, inciampando una volta e litigando con il denso sottobosco. Aveva trovato l’interprete che tratteneva un bambino ancor più emaciato di quello della baracca, con la faccia sudicia di sporcizia e terra. Lottava tra le braccia dell’uomo come un indemoniato. «Ce ne sono altri?», aveva chiesto. A qualche decina di metri da loro aveva intravisto un ricovero rudimentale. Ma non c’era un altro bambino là dentro? Si era avviata da quella parte. «Non vada laggiù, dottoressa», l’aveva richiamata l’interprete aumentando la presa sulle braccia del piccolo. «Non ce ne sono altri… da portare indietro. Piuttosto mi dia una mano, per piacere». Kate aveva preso il bambino per un braccio e insieme lo avevano portato ai minivan. Avevano riunito l’intera squadra e recuperato anche il ragazzino che avevano trovato legato al montante, venendo a sapere che si chiamava Adi. Quello che avevano trovato nella giungla non aveva nome, ma sapevano che non avrebbero mai trovato i genitori o qualcuno disposto a confessare ciò che gli era stato fatto. Kate lo aveva chiamato Surya. Quando furono tutti riuniti e pronti a partire, aveva affrontato l’interprete. «Adesso voglio che mi dica di preciso cosa ha fatto. Tutto quello che ha detto, parola per parola». «Forse preferirebbe non saperlo, dottoressa». «Io penso di volerlo assolutamente sapere. Avanti, sentiamo». Lui aveva sospirato. «Ho detto loro che siete un’organizzazione umanitaria che si occupa del benessere dei bambini…». «Cosa?» «È quello che pensano comunque, perciò non fa differenza», si era giustificato l’interprete. «Non sanno che cos’è questa sperimentazione. Non hanno mai sentito di una cosa simile. Si guardi intorno, questa gente vive come mille anni fa. Io racconto che dovete vedere i loro bambini e che aiuterete quelli che ne hanno bisogno. Ancora non si fidano di noi. Ci sono quelli che credono che finiranno nei guai, ma per lo più hanno semplicemente paura che si venga a sapere della loro situazione. Qui avere un bambino con dei problemi è pericoloso, e le famiglie li nascondono. Se si spargesse la voce, gli altri loro figli un domani non potrebbero sposarsi. Dicono che magari avrebbero un figlio problematico come il fratello del padre. Dicono che il problema è nel sangue. Ma quando chiedo ai bambini come si chiamano i loro fratelli e le loro sorelle, mi rispondono con sincerità. Loro ancora non sanno mentire su una cosa così». Kate aveva valutato le spiegazioni dell’interprete, dovendo ammettere che il suo stratagemma aveva comunque dato risultati apprezzabili. «Ok», aveva detto, quindi agli altri della sua squadra aveva spiegato: «D’ora in poi questa è la strategia che adotteremo». «Io non ci sto», aveva dichiarato il dottor Helms. «Mentire a un genitore per inserire un bambino in una sperimentazione medica vìola i fondamenti dell’etica professionale ed è moralmente sbagliato». Aveva fatto una pausa a effetto. «A prescindere dalla situazione in cui si trovano o dalle regole sociali che governano la comunità». Poi, a braccia conserte, aveva sfidato con lo sguardo Kate e gli altri della squadra. «Come preferisci», aveva ribattuto lei. «Puoi aspettare in macchina. Lo stesso può fare chiunque di voi desideri che questi bambini restino qui a morire da reietti». Il medico era stato sul punto di sparare un’altra bordata, ma Ben lo aveva preceduto. «Io ci sto. Non sopporto di stare in macchina ad aspettare. E di ammazzare bambini, se è per questo». Si era messo subito a caricare i suoi pochi bagagli. Dopo qualche titubanza, gli altri tre assistenti lo avevano imitato e solo allora Kate si era resa conto di quanto vicini erano stati a mandare tutto all’aria. Si era ripromessa di ringraziare Ben, ma il lavoro di quella giornata aveva preso un ritmo pressante e se ne era dimenticata. Arrivati al villaggio successivo, gli uomini della squadra avevano buttato via gli opuscoli, ma quando gli abitanti avevano cominciato a raccoglierli, avevano cambiato idea e si erano messi a distribuirli. Sarebbero serviti come isolante per le pareti delle loro baracche. Quell’atto di generosità aveva contribuito a rendere più veritiera la loro pretesa di essere degli operatori umanitari, e Kate aveva avuto il piacere di vedere gli opuscoli su cui tanto aveva sudato utilizzati per una buona causa. Il dottor Helms aveva continuato a protestare, ignorato dal resto del gruppo. Ma poi, quando i veicoli avevano cominciato a riempirsi di bambini, le sue proteste erano diventate meno convinte e sul finire della giornata era chiaro a tutti che rimpiangeva d’aver assunto quella posizione. Tornati a Giacarta, dopo che gli altri se n’erano andati, si era presentato nell’ufficio di Kate. «Senti, volevo parlarti un attimo. Dopo, ehm, qualche considerazione… e francamente dopo aver visto alcuni degli effetti di questo lavoro su, ehm, i bambini… ti devo dire che ho concluso che rientriamo senz’altro nei limiti dell’etica professionale e che non vedo nulla che vada contro i miei princìpi morali, e perciò sono, ehm, tranquillamente disposto a condurre questa sperimentazione». Aveva fatto per sedersi. Kate non aveva alzato gli occhi dai documenti che aveva sul tavolo. «Non ti sedere, John. Anch’io avevo qualcosa da dirti. Durante il nostro giro, oggi, tu hai anteposto i tuoi interessi, la tua reputazione personale, alla vita di quei bambini. Non è accettabile. Sappiamo entrambi che non ti posso licenziare. Ma io semplicemente non posso lavorare con te a un progetto in cui è in gioco la loro vita. Se dovesse succedere qualcosa, se tu li mettessi in pericolo, non me lo perdonerei. Ho informato la Immari Research che avrei dato le dimissioni ed è successa una cosa davvero bizzarra». Solo a quel punto aveva alzato gli occhi. «Mi hanno detto che se non ci fossi stata io non avrebbero più sponsorizzato la sperimentazione. Perciò o te ne vai tu o me ne vado io, nel qual caso tu perderai il finanziamento e io ricomincerò semplicemente dall’inizio con un nome diverso. Ah, a proposito, domani verranno i traslocatori a sgombrare il tuo ufficio. Perciò, qualunque cosa tu decida, dovrai trovarti un altro posto dove stare». Dopodiché si era alzata e lo aveva lasciato lì. Il giorno dopo Helms era ripartito per sempre da Giacarta e Kate era diventata la sola direttrice del progetto. Aveva chiesto a Martin di fare qualche telefonata, qualche favore era stato restituito e lo studio aveva preso legalmente in custodia tutti i bambini inseriti nel progetto. Quando Kate ebbe finito il suo racconto, l’inquirente si alzò in piedi. «Si aspetta che ci creda?», l’apostrofò. «Non siamo dei selvaggi, signorina. Buona fortuna per quando racconterà questa storia a una giuria del tribunale di Giacarta». Lasciò la stanzetta prima che Kate potesse rispondere. Fuori della stanza per gli interrogatori, l’ometto raggiunse il corpulento capo della polizia, che gli passò intorno alle spalle il pesante braccio sudato e chiese: «Com’è andata, Paku?» «Credo che sia pronta, capo». 1 Acronimo di Food and Drug Administration, ente governativo statunitense che sovrintende alla commercializzazione di prodotti alimentari e medicinali sul mercato americano. (n.d.t.) 14 Camera blindata Comms Quartier generale Clocktower Giacarta, Indonesia Josh osservò le pareti di cemento al di là del vetro mentre cercava di rassegnarsi a quanto gli aveva rivelato David. La Clocktower era compromessa. Già alcune delle sedi principali erano in lotta per la sopravvivenza. Presto sarebbe stata attaccata anche la stazione di Giacarta e come se non bastasse era imminente anche un attentato terroristico su scala globale. E David aveva bisogno di lui per decriptare il codice con cui fermarlo. Quando si diceva “agire sotto pressione”! David tornò a sedersi al tavolo. «Ho lavorato a una teoria che avevo formulato dieci anni fa, subito dopo l’11 settembre». «Tu pensi che questo attacco sia collegato all’11 settembre?», chiese Josh. «Sì». «Pensi che sia un’operazione di Al Qaeda?» «Non necessariamente. Secondo me Al Qaeda si è limitata agli attacchi dell’11 settembre. Credo che sia un altro gruppo, una multinazionale che si chiama Immari International, ad aver tratto benefici economici e pratici da quell’attentato. Credo fosse una copertura per vari scavi archeologici che l’Immari ha condotto in Afghanistan e in Iraq, e penso sia stato un colpo architettato in maniera geniale». Josh abbassò lo sguardo sul tavolo. A David aveva dato di volta il cervello? Quelle teorie sul complotto dell’11 settembre erano foraggio per i forum del web, non serie elaborazioni di un esperto di antiterrorismo. David vide la diffidenza sul volto di Josh. «Senti, so che sembra fantasioso, ma ti prego di ascoltarmi. Dopo l’11 settembre ho passato quasi un anno in ospedale e poi in convalescenza. Ho avuto molto tempo per pensare. Ci sono parecchi aspetti di quegli attacchi che secondo me non avevano senso. Innanzitutto, perché New York? Perché non la Casa bianca, il Congresso, la CIA e la Sicurezza nazionale, tutti assieme? Quei quattro aerei avrebbero messo in ginocchio il paese, in particolare le nostre strutture difensive. Avrebbero scatenato il caos totale. E perché usare solo quattro aerei? Non vedo perché non avrebbero potuto addestrare un numero maggiore di piloti. Quella mattina avrebbero potuto dirottare trenta aerei, bastava semplicemente che li avessero scelti da Dulles e dagli aeroporti nazionali di Washington-Baltimore, o magari Richmond. E c’è Atlanta a due passi. L’aeroporto di Hartsfield-Jackson è quello con il traffico più intenso al mondo. Non so, quel giorno avrebbero potuto far schiantare anche cento aerei prima che i passeggeri cominciassero a reagire. E non potevano non sapere che far schiantare degli aerei era una tattica che poteva funzionare una volta sola, dunque avevano tutto l’interesse a massimizzare l’operazione». Sempre scettico, Josh annuì. «È un interrogativo interessante». «E non è il solo. Perché colpire in un giorno quando sai che il presidente è fuori città a visitare una scuola elementare in Florida? È evidente che lo scopo non era quello di bloccare la nostra capacità di reazione. Certo, è stato attaccato il Pentagono e sono morti molti coraggiosi americani, ma l’effetto nel suo complesso è stato quello di far incazzare veramente il Pentagono e le forze armate. Il Paese intero, potremmo dire tranquillamente. Dopo l’11 settembre all’America è venuta voglia di far guerra come mai prima d’ora. E c’è stato un altro effetto importante, cioè il crollo del mercato azionario, una catastrofe di portata storica. New York è la capitale finanziaria del mondo e prenderla di mira può avere senso solo se il proposito è quello di far crollare la Borsa. In sintesi, sono due le conseguenze veramente chiare che hanno avuto gli attentati: assicurarsi che ci fosse una guerra, e che fosse di grandi dimensioni, e far crollare il mercato azionario». «Non l’avevo mai analizzata da questo punto di vista», commentò Josh. «Quando si passa quasi un anno in ospedale imparando di nuovo a camminare di giorno e stando sveglio di notte a chiederti perché, si vede tutto sotto una luce diversa. Da un letto d’ospedale non potevo fare molte ricerche sui terroristi, così mi sono occupato dell’aspetto finanziario. Ho cominciato a indagare su chi fossero quelli che si erano avvantaggiati di più dal crollo in Borsa. Chi stava scommettendo contro le società quotate nella Borsa americana. Chi aveva venduto allo scoperto, chi era in possesso di opzioni put, chi aveva guadagnato una fortuna. La lista era lunga. Allora ho cominciato a vedere chi avesse beneficiato delle guerre, in particolare agenzie private nel settore della sicurezza e interessi in petrolio e gas. La lista si è accorciata. E c’era un’altra cosa che mi solleticava. Gli attentati avevano praticamente garantito che l’America portasse la guerra in Afghanistan. Allora forse il gruppo che stavo cercando aveva qualche interesse in quella regione e aveva bisogno di una copertura per andare a recuperare qualcosa. O magari era in Iraq. Magari in entrambi i Paesi. A quel punto era ovvio che, se avessi voluto delle risposte concrete, ci sarei dovuto andare di persona». David prese fiato prima di continuare. «Nel 2004 ero finalmente di nuovo autosufficiente. Quell’anno feci domanda per entrare nella CIA ma non l’accettarono. Ho continuato il mio addestramento per un altro anno e sono stato respinto di nuovo nel 2005. E ho tenuto duro lo stesso. Ho pensato anche di entrare nelle forze armate, ma sapevo che se avessi voluto trovare le risposte che mi servivano dovevo prendere parte alle operazioni sotto copertura». Mentre lo ascoltava parlare, Josh cominciava a vederlo sotto una luce completamente diversa. Aveva sempre considerato il capo della cellula di Giacarta come un supersoldato invincibile, non aveva mai pensato che potesse essere stato qualcosa di diverso. L’immagine di David costretto in un letto d’ospedale per un anno, di David che veniva respinto come agente operativo della CIA, e per ben due volte, era un po’ destabilizzante. «Cosa c’è?», chiese lui, vedendolo turbato. «Niente. Solo che… avevo dato per scontato che tu fossi un operativo di carriera. Che tu fossi già all’agenzia nel settembre di quell’anno». Un sorriso divertito affiorò alle labbra di David. «No, non ci ero nemmeno vicino. Ero uno studente. Alla Columbia, se ci credi. Può darsi che sia la ragione per cui la CIA continuava a respingermi, non volevano che tra gli operativi ci fosse qualcuno che pensava troppo. Comunque il miracolo è avvenuto alla terza volta e nel 2006 mi hanno preso. Forse avevano perso troppi agenti sul campo o erano stati troppi quelli che avevano preferito andarsene per lavorare per i contractor privati. Fatto sta che io sono felicemente arrivato in Afghanistan. E ho trovato le mie risposte. La lista corta che avevo estratto dalle mie ricerche era composta da tre società, tutte sussidiarie di una in particolare, l’Immari International. La loro divisione addetta alla sicurezza, l’Immari Security, coordinava le loro operazioni, ma i fondi provenienti dall’11 settembre erano finiti in alcune delle loro società di facciata. E ho scoperto qualcos’altro. Un piano per un nuovo attacco con il nome in codice di “Protocollo Toba”». David indicò il fascicolo. «Lì c’è tutto quello che ho su quell’attacco. Non è molto». Josh aprì il dossier. «È per questo che sei entrato alla Clocktower? Per indagare sull’Immari e il Protocollo Toba?» «In parte. La Clocktower era il trampolino di lancio perfetto. Già sapevo che dietro l’11 settembre c’era l’Immari, che avevano guadagnato una fortuna dagli attentati e che stavano cercando attivamente qualcosa nelle montagne dell’Afghanistan orientale e del Pakistan. Ma loro sono arrivati a me prima che io riuscissi a ricostruire il quadro completo. In Pakistan per poco non mi hanno fatto fuori. Ufficialmente sono stato dichiarato ucciso in azione. Era l’occasione perfetta per uscire. Avevo bisogno di un’identità nuova e un posto dove continuare il mio lavoro. Della Clocktower non avevo mai sentito parlare prima di arrivare in Afghanistan, ma poi mi ha fatto comodo rifugiarmi qui. Era il posto migliore. Tutti noi entriamo alla Clocktower per motivi personali. In quel momento era la chiave giusta per la porta della mia sopravvivenza e lo strumento che mi serviva per scoprire finalmente tutto sull’Immari e Toba. Non ho mai rivelato a nessuno quali fossero le mie vere motivazioni, eccetto che al direttore. Quattro anni fa mi ha tirato dentro e mi ha aiutato ad avviare la cellula di Giacarta. Ma non avevo fatto progressi consistenti sull’Immari fino alla settimana scorsa, quando sono stato contattato dalla fonte anonima». «Ed è per questo che la fonte ha scelto te». «Così sembra. Sa della mia indagine. Sapeva che questa segnalazione sarebbe arrivata a me. Potrebbe contenere la chiave con cui decriptare il codice. Quello che so io è che l’Immari Corporation è coinvolta in qualche modo negli attentati dell’11 settembre, forse anche in altre trame terroristiche precedenti e successive, e che stanno lavorando a qualcosa di molto, molto più clamoroso, quello che hanno chiamato “Protocollo Toba”. Per questo ho scelto Giacarta, la metropoli più vicina al Monte Toba. Io credo che sia un riferimento al luogo in cui avrà inizio l’attacco». «Una deduzione logica. Cosa sappiamo del Protocollo?», domandò Josh. «Non molto. Tolte sporadiche citazioni, esiste solo un documento che ne parla. È un rapporto su urbanizzazione, infrastrutture di trasporto e la possibilità di ridurre il totale della popolazione umana. Qualunque cosa sia questo Toba, credo che in ogni caso lo scopo sia principalmente quello di diminuire drasticamente la popolazione del pianeta». «Questo limita in certa misura le possibili alternative. Un attacco terroristico che possa ridurre la popolazione globale deve essere biologico. Forse un radicale cambiamento dell’ambiente o iniziative che spingano a una nuova guerra mondiale. Qui non stiamo più parlando di kamikaze. È qualcosa di più grosso». David annuì. «Molto più grosso e probabilmente qualcosa che non potremmo mai aspettarci. Giacarta è il luogo perfetto da dove dare inizio a un attacco. C’è un’alta densità di popolazione e ci sono tantissimi forestieri. L’inizio di un attacco spingerebbe gli stranieri facoltosi di Giacarta a correre all’aeroporto e trasferirsi da lì in praticamente tutti gli altri Paesi del mondo». David indicò i monitor alle spalle di Josh. «I computer che ci sono dietro di te sono collegati a Central, ai nostri server e alle cellule ancora operative. Possiedono tutto quello che sappiamo di ciò che sta avvenendo nel mondo, ci sono i dati dei vari gruppi terroristici che ora sappiamo agiscono per conto dell’Immari International. Non è molto. Comincia da lì, risali velocemente attraverso le informazioni raccolte e confrontale con i dati più recenti di intelligence. Se c’è qualcosa in atto qui a Giacarta, è nostra responsabilità indagare per primi. Se questa stazione dovesse cadere, dovremo trasmettere ad altri le nostre informazioni. Pensa fuori dalle righe. Di qualunque cosa si tratti, potrebbe non rientrare nei canoni della normalità. Cerca qualcosa che non sospetteremmo, come dei sauditi che prendono lezioni di volo in Germania e poi si trasferiscono negli Stati Uniti, o come qualcuno che in Oklahoma compra tonnellate di fertilizzante ma non è un agricoltore». «Cos’altro c’è in quel dossier?», chiese Josh. David spinse verso di lui uno dei fascicoli. «Questo contiene il resto delle informazioni sull’Immari che avevo raccolto prima di entrare alla Clocktower». «Non sono nel computer?» «No. Non le ho mai nemmeno passate alla Clocktower. Capirai il perché. C’è anche una busta che contiene una lettera che ho scritto per te. La devi aprire quando morirò. Troverai delle istruzioni». Josh fece per parlare, ma David non glielo permise. «C’è un’ultima cosa». Si alzò e andò a prendere un astuccio in fondo alla stanza. Lo posò sul tavolo. «Questa camera e quella esterna ti garantiranno una certa protezione e, spero, il tempo che ti servirà per trovare qualcosa e decodificare il messaggio. Il quartier generale è l’ultimo posto dove verranno a cercarti. Ciononostante, dubito che ci resti molto tempo. Spedisci tutto quello che scopri al mio comando mobile. Il monitor in alto a destra mostra la registrazione di una telecamera. È quella che c’è sopra la porta d’ingresso, rivolta alla stanza dei server. Da lì potrai scoprire se c’è qualcuno che sta cercando di entrare qui dentro. Come sai, non ci sono telecamere nel quartier generale principale per ragioni di sicurezza, quindi potresti avere poco preavviso». Aprì l’astuccio e ne estrasse una pistola. Infilò il caricatore nel manico e posò la pistola davanti a Josh. «La sai usare questa?». Josh si appoggiò allo schienale con gli occhi fissi sull’arma. «Be’, sì. Nel senso che quando sono entrato nell’agenzia dodici anni fa ho fatto l’addestramento previsto, ma da allora non ne ho più usata una. Dunque… no, per la verità no». La domanda che era affiorata alla sua mente era: “Se in questa stanza entrano le forze operative speciali, in che modo potrei cavarmela, comunque?”, ma tenne la bocca chiusa. Sapeva che David gli mostrava la pistola per farlo sentire più sicuro. Non essere spaventato a morte gli sarebbe stato utile per mantenere la mente lucida e fare il suo lavoro, ma Josh aveva il sospetto che il suo capo avesse in mente qualcos’altro ancora. «Se hai bisogno di usarla, tira indietro la slitta. Questo fa entrare un colpo in canna. Quando l’hai svuotata, schiacci qui e il caricatore scivola fuori. Ne infili un altro e premi questo bottone, la slitta torna indietro e inserisce il primo proiettile del nuovo caricatore. Ma se entrano da quella porta, c’è qualcos’altro che devi fare prima di usare la pistola». «Ripulire i computer?» «Esattamente. E bruciare questo incartamento e la lettera». David gli indicò un piccolo cestino di metallo ed estrasse dall’astuccio della pistola una torcia da saldatore a gas. «Cos’altro c’è lì dentro?». Josh pensava di saperlo, ma glielo chiese lo stesso. Il capo della stazione di Giacarta indugiò per qualche secondo, poi tolse dall’astuccio una piccola capsula. «Devo ingoiarla?» «No. Se dovesse presentarsi la situazione che lo richiede, la mordi. Il cianuro agisce molto velocemente, in tre o quattro secondi». David gliela porse. «Tienila con te. Mi auguro che tu non ne abbia bisogno. È molto difficile entrare qui dentro». Ripose la pistola nell’astuccio e l’astuccio in fondo alla stanza. «Avvertimi appena hai qualcosa». Andò verso la porta. Josh si alzò. «Adesso che cosa farai?», domandò. «Guadagno un po’ di tempo per te». 15 Stanza degli interrogatori C Centro di detenzione della polizia di Giacarta ovest Giacarta, Indonesia Kate rialzò la testa quando sentì la porta che si apriva. Entrò un uomo grasso e sudato con una cartelletta in mano. Le porse l’altra. «Dottoressa Warner, sono il capo della polizia Eddi Kusnadi. Spe…». «Aspetto qui da ore. I suoi uomini mi hanno interrogata su particolari inutili del mio progetto, minacciando di sbattermi in prigione. Voglio sapere che cosa state facendo per ritrovare i bambini rapiti». «Dottoressa, lei non capisce la situazione in cui ci troviamo. Noi siamo un piccolo dipartimento». «Allora chiamate la polizia nazionale. Oppure…». «La polizia nazionale ha i suoi problemi, dottoressa, che non includono il ritrovamento di bambini ritardati». «Non li chiami ritardati». «Non sono ritardati?». Aprì la cartelletta. «Le nostre informazioni dicono che la sua clinica sta sperimentando un nuovo farmaco per bambini ritardati…». «Non sono ritardati. Il loro cervello funziona semplicemente in maniera diversa da quello delle altre persone. Esattamente come il mio metabolismo funziona diversamente dal suo». Il corpulento capo della polizia si guardò come se cercasse di trovare il suo metabolismo, esaminarlo e confrontarlo con quello di Kate. «O cominciate a cercare quei bambini, o mi lasciate andare così li cerco da sola». «Non possiamo lasciarla andare», rispose Kusnadi. «Perché?» «Perché per noi lei resta un’indiziata». «Ma è assurdo…». «Lo so, dottoressa, lo so, mi creda. Cosa vuole che faccia? Non posso essere io a dire ai miei investigatori chi è un indiziato e chi no. Non sarebbe corretto. Li ho comunque convinti a ospitarla in questa cella, mentre loro volevano che la trasferissi nel reparto comune. Lì sono detenuti indifferentemente uomini e donne e temo che quell’area non sia ben monitorata». Fece una breve pausa, poi aprì di nuovo la cartelletta. «Ma credo di poter rimandare il suo trasferimento, almeno per un po’. Nel frattempo avrei qualche domanda da farle anch’io. Qui si dice che ha acquistato un appartamento a Giacarta. Ha pagato in contanti l’equivalente di 700.000 dollari». Alzò gli occhi su di lei e, quando Kate tacque, continuò. «Il nostro contatto in banca dice che lei ha un conto corrente sul quale possiede una media di 300.000 dollari in valuta statunitense. E che il suo conto riceve versamenti periodici da una banca nelle Cayman». «I miei movimenti bancari non hanno niente a che vedere con tutto questo». «Ne sono sicuro. Ma capisce anche lei che effetto fa sui miei investigatori. Come si è procurata tutti questi soldi, se posso chiedere?» «Li ho ereditati». Il poliziotto inarcò le sopracciglia e sembrò illuminarsi in viso. «Ah, dai nonni?» «No, da mio padre. Senta, qui stiamo perdendo tempo». «Cosa faceva?» «Chi?» «Suo padre». «Era banchiere, credo. O un investitore. Non lo so, ero molto giovane». «Capisco». Il poliziotto annuì. «Io credo che potremmo aiutarci a vicenda, dottoressa. Potremmo convincere i miei investigatori che lei non è coinvolta nel rapimento e dare al mio dipartimento le risorse di cui ha disperatamente bisogno per trovare questi bambini ritar… cioè, in difficoltà». Kate lo fissò con durezza. Adesso aveva mangiato la foglia. «L’ascolto». «Io le credo, dottoressa Warner. Ma come le ho detto, i miei investigatori vedono che prove abbiamo contro di lei e sanno come la penserà una giuria e, che resti tra noi, dottoressa, ho l’impressione che non abbiano in gran simpatia gli stranieri, forse in particolare gli americani. Io credo che il solo modo perché lei esca da questa storia pulita ed entrambi otteniamo quanto desideriamo sia ritrovando quei bambini. In questo modo lei verrebbe scagionata». «E allora cosa aspettiamo?» «Come le ho spiegato, dottoressa, il nostro è un dipartimento con poche risorse. Per trovare questi bambini… ebbene, avrei bisogno di far venire personale da fuori. Tuttavia mi spiace dover dire che un’indagine come questa verrebbe a costare parecchio, nell’ordine dei 2 milioni di dollari. Ah, dollari americani. C’è di buono che potrei incassare qualche favore che mi è dovuto e scendere sul milioncino e mezzo. C’è comunque il fattore tempo, mia cara dottoressa. Ormai quei bambini potrebbero essere chissà dove. Spero solo che siano ancora vivi». «Un milioncino e mezzo». Il capo della polizia annuì. «Li avrà. Ma prima mi deve rilasciare». «Ne sarei veramente felice, dottoressa, mi creda. Però le promesse fatte da degli indiziati in stanze per interrogatori…». Spalancò le braccia. «Benissimo», disse Kate. «Mi dia un numero di telefono e i dati del suo… conto corrente. E mi procuri una macchina». «Detto fatto, dottoressa». Il grassone si alzò e lasciò la stanza. Rimasta sola, Kate alzò una gamba, posò il piede sulla seggiola che occupava e si passò una mano fra i capelli biondi. La donna che vedeva nello specchio non somigliava per niente alla scienziata che quattro anni prima, carica di ottimismo, era andata a vivere a Giacarta. Appena fuori della stanza, il capo della polizia si fermò. Un milione e mezzo! Avrebbe potuto lasciare il lavoro. Avrebbe potuto ritirarsi insieme a tutta la sua famiglia. Un milione e mezzo di dollari… Avrebbe potuto ottenere di più? Forse due milioni o due e mezzo? Tre? Forse quella donna aveva di più. Molto di più. Aveva accettato un milione e mezzo senza pensarci due volte. Forse gli conveniva tornare dentro e dire che doveva assumere altra gente ancora. Che costava quattro milioni. E pensare che si sarebbe accontentato di duecentocinquantamila! Si era aspettato di ottenere molto meno. Indugiò davanti alla porta chiedendosi cosa fare. Non sarebbe tornato dentro subito. L’avrebbe lasciata a decantare per un po’. Qualche ora nella gabbia degli ubriaconi con le telecamere spente. Avrebbe dovuto agire con prudenza, non voleva certo che subito dopo corresse all’ambasciata. Ma se avesse agito con attenzione, quel giorno sarebbe diventato ricco. 16 Camera blindata Comms Quartier generale Clocktower Giacarta, Indonesia Josh osservò i puntini rossi sulla mappa di posizionamento. Durante l’ora trascorsa da quando David lo aveva lasciato, i ventiquattro puntini rossi, che rappresentavano tutti gli operativi della stazione di Giacarta, si erano spostati dal quartier generale in diversi luoghi all’interno del perimetro cittadino. Ora si vedevano quattro gruppi di sei puntini ciascuno. Josh conosceva bene tre di quelle località, tutti covi della stazione di Giacarta. I diciotto agenti riuniti in quelle tre case dovevano essere sulla lista dei sospettati di David. Si muovevano lentamente, camminando avanti e indietro da una parete all’altra, come imputati chiusi in una cella, in ansiosa attesa di conoscere il proprio destino. Era una strategia ineccepibile: David aveva diviso le possibili forze nemiche creando le condizioni giuste per poter essere preavvertito quando avessero attaccato. Vedere quei punti rossi sulla mappa aveva fatto provare a Josh un brivido, aveva dato concretezza alla minaccia. Stava accadendo davvero. La battaglia per la stazione di Giacarta era solo questione di tempo. Prima o poi i punti rossi sarebbero usciti dai loro covi, avrebbero neutralizzato il gruppo dei sei operativi di David e sarebbero venuti a occuparsi di lui al quartier generale. Aveva solo guadagnato un po’ di tempo. Tempo perché Josh esaminasse le informazioni raccolte quel giorno e lavorasse al codice, tempo perché trovasse qualcosa. E non era sicuro di esserci riuscito. Guardò di nuovo il monitor satellitare. Era tutto quello che aveva. E se si sbagliava? Si passò la mano sui capelli. Era sicuramente fuori dalle righe. Ma se non avesse avuto alcuna attinenza… Spesso il lavoro di intelligence si basa sull’istinto. Il furgone, l’operazione… a Josh non sembrava spiegabile. Chiamò David e disse: «Credo di avere qualcosa». «Sentiamo», rispose l’altro. «Un rapimento. Due bambini da una clinica. Segnalato qualche ora fa alla polizia di Giacarta. La Clocktower lo ha classificato come un episodio locale a bassa priorità. Ma il furgone è un veicolo commerciale intestato a una società fittizia con sede a Hong Kong che fa da copertura all’Immari. E francamente a me non sembra un caso di delinquenza ordinaria: questo è un rapimento professionale. Sembra un semplice sequestro a scopo di riscatto, ma non è il genere di azione che farebbe l’Immari. Sto ancora cercando, ma sono sicuro al novantanove percento che l’Immari è il mandante e che hanno considerato l’operazione ad alta priorità, visto che hanno agito in pieno giorno e con un veicolo da cui sanno che saremmo risaliti fino a loro. Significa che non potevano aspettare». «Dunque?» «Ancora non ho niente di sicuro. La cosa strana è che sembra che a sponsorizzare la clinica sia un’altra società del gruppo, la Immari Research. I soldi per la clinica e le spese mensili arrivano da una holding di qui, l’Immari Giacarta. Ho trovato parecchi riferimenti a questa società nella tua documentazione. La storia dell’azienda risale a quasi duecento anni fa. Era una sussidiaria della Compagnia olandese delle Indie orientali in epoca coloniale. Potrebbe essere il centro operativo principale dell’Immari nel Sudest asiatico». «Non ne capisco la logica. Perché una società dell’Immari dovrebbe portar via bambini da un’altra dello stesso gruppo? Che sia una faida interna? Cosa sappiamo del personale che lavora alla clinica?» «Non molto. Sono in pochi. Una manciata di tecnici di laboratorio, uno dei quali è rimasto ucciso durante il rapimento. Un personale a rotazione di assistenti per i bambini. Quasi tutte donne del luogo, senza relazioni tra loro. E poi c’è lo scienziato che dirige la clinica», aggiunse avvicinando a sé il dossier della dottoressa Katherine Warner. «Era presente all’aggressione, probabilmente non è stata in grado di intervenire. Nessuno ha lasciato la clinica per più di un’ora. Attualmente la dottoressa è in una sottostazione della polizia di Giacarta». «Hanno diramato qualche allerta interagenziale per i bambini?» «No». «Nessun avviso pubblico?» «No. Ma ho una teoria: abbiamo un informatore alla polizia di Giacarta ovest. Quindici minuti fa ha inviato un rapporto. Dice che il capo della polizia sta estorcendo denaro a una cittadina americana. Suppongo che sia la dottoressa Warner». «Strano. Di che cosa si occupa la clinica?» «Si tratta di un centro di ricerca. Genetica. Studiano nuove terapie per bambini affetti da autismo, fondamentalmente per chiunque soffra di disordini nello sviluppo». «Non siamo esattamente nel giro del terrorismo internazionale». «Già». «Dunque, quale sarebbe la teoria? Dove sarebbe il legame?» «Sinceramente non ne ho idea. Non ho ancora esaminato a fondo la questione, ma c’è un aspetto che balza agli occhi: non hanno registrato nessun brevetto». «E cosa ci sarebbe di significativo? Pensi che non stiano veramente facendo ricerche?» «No, di questo sono abbastanza sicuro, a giudicare dal tipo di attrezzatura che hanno importato e da come è strutturato il laboratorio. Ma non lo fanno per i soldi. Se avessero voluto commercializzare quello che stanno studiando, per prima cosa lo avrebbero brevettato. Questa è la procedura standard. Crei un nuovo composto chimico in laboratorio e lo brevetti subito, prima ancora di averlo testato. Il brevetto impedisce alla concorrenza di rubare un campione da un progetto sperimentale e registrarlo prima di te, tagliandoti fuori dal mercato. Si potrebbe sperimentare qualcosa senza brevetto solo nel caso in cui non si volesse che il mondo ne fosse a conoscenza. E allora si capisce il perché di Giacarta. Negli Stati Uniti una sperimentazione senza brevetto richiederebbe una domanda ufficiale di autorizzazione all’FDA, con allegata la documentazione della terapia oggetto del test». «Dunque stanno sviluppando un’arma biologica?» «Può darsi. Ma prima di oggi alla clinica non c’erano stati incidenti. Non hanno registrato decessi, dunque se lo stanno sperimentando su dei bambini, sarebbe l’arma biologica meno efficace di tutti i tempi. Da quel che ho visto, la ricerca è reale e legittima. E per uno scopo lodevole. Se ottenessero il risultato desiderato, sarebbe una grande conquista sanitaria». «E sarebbe contemporaneamente anche una grande copertura. Resta la domanda iniziale: perché rubare a se stessi? Se è l’Immari a finanziare la clinica e a dirigerla, perché dovrebbero usare i propri uomini per rapire i bambini? Forse la ricercatrice si è accorta che c’era qualcosa di losco, qualche ombra nei propositi del suo sponsor?» «Può darsi», ammise Josh. «L’informatore che abbiamo nella polizia ha l’autorità di far liberare la dottoressa?» «No, sembra che sia a un livello troppo basso nell’ordine di beccata». «Abbiamo qualcosa sul capo?» «Aspetta». Josh cercò nel database della Clocktower e, quando comparvero le note sul direttore della sottostazione, fece schioccare le labbra. «Oh, sì che abbiamo qualcosa». «Mandamelo al mio centro di comando mobile. Hai già finito di esaminare tutte le informazioni locali?» «Sì, e questa è l’unica nota veramente stonata. Però qualcos’altro c’è». Josh si era domandato a lungo se valesse la pena accennarne, ma come il video sul rapimento, era qualcosa che non gli suonava giusto. «Nessuno delle altre cellule ha riportato di essere stata attaccata e Central non ha diramato nessun avviso. E non c’è nemmeno niente nei notiziari, niente dopo i fatti di Karachi, Città del Capo e Mar del Plata. Tutte le stazioni sono tranquille e mandano rapporti di routine come se non stesse succedendo nulla». «Ipotesi?», chiese David. «Due possibilità. O stanno aspettando qualcosa, forse la nostra prossima mossa, oppure…». «Oppure il resto delle cellule è caduto senza combattere». «Sì. È possibile che siamo rimasti solo noi», disse Josh. «Voglio che lavori al codice. Il più velocemente possibile». 17 Centro ricerche Immari Corp. Burang, Cina Regione autonoma del Tibet Entrando in videoconferenza il dottor Shen Chang cercò di restare calmo. Quando vide apparire il volto sul video, deglutì prima di parlare. «Il direttore del progetto mi ha ordinato di contattarla, dottor Grey», esordì. «Abbiamo seguito il protocollo e il piano che ci è stato fornito, alla lettera. Non so cosa…». «Ne sono certo, dottor Chang. Ma il risultato è stato del tutto inatteso. Come mai i bambini sono sopravvissuti e gli adulti no?» «Stiamo cercando di capirlo. Li abbiamo analizzati e abbiamo riscontrato un’elevata attivazione del Gene di Atlantide». «È possibile che la terapia non funzioni sugli adulti?» «Sì, forse. La terapia è un retrovirus che inserisce un gene nel codice genetico del soggetto. Non è un mutamento rilevante, ma ha effetti secondari a livello epigenetico, attivando e disattivando una serie di altri geni preesistenti. Non ci sono conseguenze fisiologiche, noi almeno non ne abbiamo riscontrate, ma si verifica un cambiamento massiccio nel cervello. Fondamentalmente il gene ricrea i circuiti nel cervello del soggetto. La neuroplasticità, cioè la capacità del cervello di modificare i circuiti o adattarsi alle circostanze, decresce con l’aumento dell’età. È per questo che diventando vecchi ci risulta più difficile imparare cose nuove. Abbiamo considerato l’eventualità che gli adulti non rispondano alla terapia perché l’attivazione genica non riesce a innescare i cambiamenti nel cervello. In parole povere, il virus tenta di ricreare i collegamenti nel cervello, ma i circuiti sono già blindati. Lo sono da poco dopo la fase infantile». «È possibile che i soggetti adulti non avessero i geni precursori alla base dei mutamenti?» «No, tutti i soggetti adulti avevano i geni sensibili all’effetto del retrovirus. Come sa, è da tempo che conosciamo e controlliamo tutti i soggetti presso il nostro centro di reclutamento in Cina. Gli adulti dovevano sopravvivere». «È possibile che la terapia funzioni solo su cervelli affetti da autismo?». Era una possibilità che Chang non aveva considerato. Il dottor Grey era specializzato in biologia evolutiva con un interesse in paleobiologia ed era il capo del capo di Chang, in cima alla gerarchia dell’Immari. Chang non aveva pensato che la conversazione si sarebbe concentrata su argomenti scientifici. Si era aspettato una lavata di testa per il fallimento del suo programma. Rifletté sull’ipotesi avanzata da Grey. «Sì, in effetti è possibile. Fondamentalmente l’autismo è un disordine nella connettività cerebrale, specie nelle aree che controllano la comunicazione e la comprensione dei rapporti sociali. E sono influenzate anche altre aree. Alcuni individui affetti da questo disturbo hanno un’intelligenza superiore e attitudini speciali; altri sono all’estremità opposta dello spettro, al punto da non essere nemmeno autosufficienti. L’autismo è in realtà una sorta di categoria contenitore che include una grande varietà di differenze nelle connessioni cerebrali. Dovremmo esaminare a fondo questa ipotesi e potrebbe volerci del tempo. È probabile che avremo bisogno di altri soggetti». «Tempo non ne abbiamo, ma possiamo forse procurarle altri bambini. Anche se questi sono gli unici per i quali è stata accertata la presenza del Gene di Atlantide attivo. Me ne occupo io. C’è niente che non mi ha detto? Nessun’altra teoria? In questo momento non ci sono idee da scartare a priori, dottor Chang». E lui un’altra idea ce l’aveva. Qualcosa che non aveva rivelato ai suoi collaboratori. «Personalmente, mi sono chiesto se adulti e bambini siano stati sottoposti alla medesima terapia». «Un problema nel replicare la sperimentazione della dottoressa Warner?» «No. Come ho detto, abbiamo seguito alla lettera il suo protocollo e non modificherò questa affermazione. Mi chiedo se la dottoressa Warner… non abbia sottoposto questi bambini a qualcosa di diverso, qualcosa che non è presente nei suoi appunti ufficiali o nel protocollo della sperimentazione». Grey non rispose subito. «Molto interessante», commentò dopo aver riflettuto. «Sarebbe possibile parlare con la dottoressa Warner?» «Non ne sono sicuro… Vedo come siamo messi e la richiamo. Questa sua preoccupazione è condivisa da qualcun altro della sua squadra?» «Che io sappia, no». «Per ora preferirei che tenesse per sé questo sospetto sulla dottoressa Warner e che mi contattasse direttamente per i suoi eventuali aggiornamenti. Manteniamo la questione in un ambito di totale riservatezza. Informerò il direttore del progetto che lei e io stiamo lavorando insieme. Sosterrà i suoi sforzi, su questo non c’è dubbio». «Capisco», disse il dottor Chang, anche se in realtà si sentiva abbastanza disorientato. La telefonata aveva fatto scaturire nuovi interrogativi e ormai di una cosa si era convinto: avevano usato la terapia sbagliata. 18 Centro di detenzione della polizia di Giacarta ovest Giacarta, Indonesia Il capo Kusnadi stava per aprire la porta della stanza per gli interrogatori quando fu fermato da un uomo che gli si piazzò davanti. Un americano, o forse un europeo, in ogni caso un militare. Ne aveva la struttura fisica… e gli occhi. «Chi è lei?», chiese Kusnadi. «Non è importante. Sono qui per prendere la dottoressa Katherine Warner». «Ah, molto spiritoso. Mi dica chi è prima che la sbatta in una cella». Lo sconosciuto gli porse una busta. «Dia un’occhiata qui. Niente che non abbia già visto». Il poliziotto aprì la busta e guardò le prime foto. Sgranò gli occhi. Com’era possibile? Come avevano fatto? «Se non la rilascia immediatamente, non sarà l’ultima persona a vedere queste foto». «Voglio gli originali». «Le ho dato forse l’impressione che siamo in trattativa? Faccia uscire la dottoressa o la mia organizzazione rivelerà il contenuto di quella busta». Kusnadi abbassò gli occhi, poi guardò velocemente da una parte e dall’altra, come un animale messo alle strette che cerca di decidere da che parte scappare. «E giusto nel caso abbia in mente di chiudermi in gabbia, se certe persone non riceveranno una mia telefonata entro tre minuti, le foto che ha visto verranno diffuse comunque. In questo momento lei lavora per me. Vuole diventare capo della polizia o no?». Kusnadi era confuso. Si guardò di nuovo intorno. Com’era potuto succedere? «Il tempo è scaduto». Lo sconosciuto si girò per andarsene. «Aspetti». Il poliziotto aprì la porta e fece cenno alla donna di uscire. «Quest’uomo l’accompagnerà fuori». Sulla soglia Kate si fermò a guardare prima Kusnadi e poi lo sconosciuto, squadrandolo dall’alto in basso. «È tutto in regola, ora sarà quest’uomo a occuparsi di lei». Lo sconosciuto le passò una mano intorno alla schiena. «Mi segua, dottoressa. Usciamo da questo posto». Kusnadi li guardò lasciare la stazione di polizia. In strada Kate si fermò e si girò verso l’uomo che l’aveva liberata. Indossava un’uniforme nera, simile in modo sinistro a quella dell’individuo che aveva portato via i bambini dalla sua clinica. Erano vestiti allo stesso modo anche i suoi soldati, della cui presenza si accorse solo in un secondo tempo. Erano in cinque, schierati davanti a un grosso furgone nero e a un SUV altrettanto nero e con i vetri oscurati. «Chi siete? Voglio sapere…». «Un momento, prego», rispose lui. Lo vide andare a parlare con il piccolo inquirente che l’aveva accusata di comprare bambini. Lo vide consegnargli una busta. «Mi dicono che è in lista per una promozione», disse lo sconosciuto al poliziotto. L’ometto si strinse nelle spalle. «Io faccio solo quello che mi chiedono», mormorò. «Il suo ufficiale di riferimento mi dice che è una fonte efficiente. Se è tanto furbo da sapere che cosa fare di questa, forse potrà diventare un capo di sottostazione migliore». L’ometto annuì. «Come vuole lei». Lo sconosciuto tornò da Kate e le indicò il furgone. «Ho bisogno che salga su quello». «Io non vado da nessuna parte se non mi dice chi è lei e cosa sta succedendo». «Le darò le spiegazioni del caso, ma prima dobbiamo andare in un posto sicuro». «No, lei non…». «Le do una dritta. I buoni le chiedono di salire su quel furgone. I cattivi le mettono un cappuccio nero in testa e la sbattono dentro. Io sono qui che glielo sto chiedendo. In conclusione, lei può restare qui o venire con me. Sta a lei decidere». Andò al furgone e aprì i battenti del portello posteriore. «Va bene, vengo». 19 Quartier generale Clocktower Giacarta, Indonesia Vincent Tarea, il capo delle attività operative della Clocktower di Giacarta, si massaggiava i muscoli del braccio mentre guardava il personale della stazione entrare nella sala conferenze principale. Gli facevano ancora male braccia e gambe dall’aggressione subita in clinica da quei due deficienti e i loro piccoli selvaggi. E non che dopo le cose fossero andate meglio. Ma poteva ancora aggiustare la situazione. Gli bastava convincere alcuni del personale di Giacarta a partecipare all’attacco. Gli altri erano già sul libro paga dell’Immari. Alzò le mani per chiedere silenzio. C’erano tutti coloro che lavoravano al quartier generale, tutti gli analisti, tutti i responsabili dei vari programmi operativi e tutti gli agenti operativi. Tutti eccetto David Vale e i cinque operativi che aveva con sé. Mancava anche Josh Cohen, il capo degli analisti, ma lo avrebbero trovato in fretta. I grandi schermi sulla parete mostravano tre locali affollati di operativi, confinati in tre diverse case sicure, dislocate in vari quartieri della città. «Allora, ascoltatemi bene tutti quanti. Mi sentite sui video-link?». Molti risposero con un cenno affermativo, altri con dei «sì» e dei «forte e chiaro». «Non c’è un modo indolore per dirlo, perciò lo farò senza giri di parole: la Clocktower è stata compromessa». Si sarebbe potuto sentir cadere per terra uno spillo. «E siamo sotto attacco. Oggi mi è arrivata la notizia che alcune cellule, tra le quali Città del Capo, Mar del Plata e Karachi, sono state completamente annientate. Altre stazioni stanno combattendo mentre parliamo». I presenti in sala e quelli nei covi cominciarono a scambiarsi commenti sottovoce. Qualcuno chiese con forza ulteriori informazioni. «Calma, per favore. Le brutte notizie non sono finite. Ho paura che il nemico contro il quale dobbiamo combattere sia uno dei nostri. Ecco che cosa abbiamo appreso finora. Qualche giorno fa David Vale e altri capicellula hanno organizzato una riunione con i responsabili degli analisti. Naturalmente questo va totalmente contro le regole. Riteniamo che abbiano detto agli analisti che si è presentata una nuova minaccia. Ora sappiamo che più della metà di loro non ha mai fatto ritorno dalla conferenza. Siamo giunti alla conclusione che si è trattato di una messinscena per un’esecuzione di massa, allo scopo di pregiudicare le nostre capacità di intelligence prima di sferrare l’attacco principale. Gli analisti che hanno fatto ritorno alle rispettive cellule lavorano ora attivamente contro la Clocktower». Tarea prese nota delle espressioni dubbiose di molti di coloro che lo stavano ascoltando. «Sentite, so che è difficile crederlo e anch’io come voi vorrei che non fosse così. Per la verità non ci ho creduto nemmeno io fino a stamattina, quando David ha sparpagliato i nostri operativi in giro per tutta la città. Pensateci bene, ci sta dividendo in modo che non possiamo difenderci dall’attacco che ha in programma. Si prepara a conquistare la stazione di Giacarta. È solo questione di tempo». «Perché?», chiese uno dei presenti in sala. «Non lo farebbe mai», commentò un altro. «Mi sono posto anch’io la stessa domanda», ribatté Tarea. «E mi sono detto la stessa cosa. È stato lui a reclutarmi, abbiamo lavorato gomito a gomito, lo conosco. Ma ci sono ancora molte cose di David Vale che non sappiamo. Noi tutti siamo entrati alla Clocktower per ragioni personali. Da quel che siamo riusciti a sapere, durante gli attacchi dell’11 settembre David è rimasto gravemente ferito. È un particolare di cui sono venuto a conoscenza solo oggi. Da allora ha sviluppato una teoria complottista sull’11 settembre, un’ipotesi bizzarra di contractor militari che avrebbero istigato gli attentati a proprio uso e consumo. È possibile che sia vittima lui stesso di una bugia. È possibile che qualcuno lo stia usando. Resta il fatto che è malato, e ci si è rivoltato contro. E ha attirato nel piano molte altre persone. Io credo che Josh Cohen sia uno di quelli che sono rientrati dalla conferenza degli analisti e che ora stia lavorando con lui». Rimasero tutti in silenzio, erano notizie difficili da accettare. «Che cosa dobbiamo fare?», chiese attraverso il video uno degli operativi dislocati nei covi. «Lo arrestiamo?» «Non credo sia possibile. Combatterà fino alla fine. La priorità è ridurre al minimo gli effetti collaterali. E avremo aiuto. L’Immari Security si è offerta di metterci a disposizione dei rinforzi. Conoscono la situazione e vogliono che sia il più possibile circoscritta. A quanto pare il bersaglio della vendetta di David è proprio l’Immari. Sappiamo che lui ha catturato una scienziata che sta lavorando a un progetto sponsorizzato dall’Immari. Può darsi che sia una sua complice, ma potrebbe anche essere una vittima. Il piano è di recuperare questa donna, una certa dottoressa Katherine Warner, e neutralizzare Vale». 20 Camera blindata Comms Quartier generale Clocktower Giacarta, Indonesia Josh era sulle spine, aspettava di sapere se la sua teoria sul messaggio in codice ricevuto da David fosse corretta. Era la sua idea migliore. In verità era la sola che avesse avuto. Cercava di non tenere gli occhi fissi sul monitor principale della stanza di vetro. Da mezz’ora trasmetteva sempre lo stesso messaggio: Searching… Guardò i due monitor accanto, quello della porta all’esterno della stanza e quello della topografia cittadina con i ventiquattro punti rossi che rappresentavano gli operativi della Clocktower di Giacarta. Non sapeva quale immagine lo rendesse più nervoso. Era come avere davanti a sé i cronometri di un conto alla rovescia che scandiva i secondi restanti prima della sua morte e di qualche terribile catastrofe di proporzioni ancora sconosciute… Il computer del monitor centrale continuava a cercare… Era normale che ci mettesse tanto? Tutto tempo sprecato? C’era un’altra cosa che lo rendeva nervoso. Lanciò un’occhiata all’astuccio che gli aveva lasciato David. Si alzò per andarlo a prendere, ma quando lo sollevò, il fondo si aprì e la pistola e le capsule di cianuro cascarono per terra. Il rumore sembrò riverberare nell’aria per ore. Ripresosi, raccolse pistola e capsule con le mani tremanti. Un segnale acustico lo distrasse per un momento. Sul monitor principale era apparsa una scritta nuova: 5 risultati Cinque risultati! Si sedette e usò mouse e tastiera wireless. Tre risultati del «New York Times», uno del «Daily Mail» di Londra e uno del «Boston Globe». Forse ci aveva preso. Quando aveva visto i nomi e le date, il suo primo pensiero era stato che fossero necrologi. I necrologi e le inserzioni erano un classico strumento dello spionaggio. Dalla seconda guerra mondiale in poi era normale che gli uomini dell’intelligence se ne servissero per inviare messaggi alle reti di spie di tutto il mondo. Era vecchia scuola, ma se il messaggio fosse stato inviato nel 1947, il sistema sarebbe stato ancora in auge. Se così era, quella rete terroristica esisteva da più di sessantacinque anni. Accantonò in un angolo della mente le implicazioni di tale ipotesi. Guardò il messaggio in codice che gli aveva dato David: Il Protocollo Toba è reale. 4+12+47=4/5; Jones 7+22+47=3/8; Anderson 10+4+47=5/4; Ames Cominciò ad analizzare i risultati della ricerca. Era più probabile che i terroristi avessero usato un solo giornale, scegliendone uno che fosse venduto nelle grandi città di tutto il mondo. Il candidato principale era senz’altro il «New York Times». Già nel 1947 lo avresti trovato in vendita tutti i giorni a Parigi, a Londra, a Shanghai, a Barcellona come a Boston, compresi i necrologi a pagamento. Se erano messaggi in codice, in qualche modo dovevano essere riconoscibili. Josh lo vide subito: tutti i necrologi del «Times» contenevano le parole clock e tower. Tornò ad appoggiarsi allo schienale per riflettere. Possibile che la Clocktower fosse così vecchia? La CIA era stata ufficialmente costituita solo con il National Security Act del 1947, anche se l’organizzazione che ne era stata l’origine, l’Office of Strategic Services (OSS), era stata creata a guerra in corso, nel giugno 1942. Perché i terroristi citavano la Clocktower? Possibile che la stessero combattendo già allora, nel 1947, sessantasei anni prima? Doveva concentrarsi sui necrologi. Doveva esserci un modo per decriptarli. Il sistema di codifica ideale si sarebbe basato su un cifrario variabile, quindi non ci sarebbe stata un’unica chiave con cui decriptare il messaggio. Ciascun messaggio avrebbe incluso la propria chiave, qualcosa di semplice. Aprì il primo necrologio datato 4/12/1947: Adam Jones, orologiaio all’avanguardia, muore a 77 anni mentre lavorava a un orologio da torre che sarebbe stato il suo capolavoro. Noto orologiaio di Gibilterra, è spirato nell’Honduras britannico ieri. È stato trovato dal suo segretario. Le ossa del defunto riposeranno vicino alla moglie in un sito scelto precedentemente assieme. Pregasi inviare conferma scritta o avvertire se si vuole presenziare. Il messaggio era là dentro. Qual era la chiave? Josh aprì gli altri necrologi e li lesse velocemente sperando di individuare un indizio. In tutti c’era una località, che appariva sempre all’inizio del testo. Josh considerò varie possibilità, riordinò diversamente alcune parole, poi tornò a riflettere. I testi erano strani, come se certe parole fossero state inserite forzatamente, come se quelle fossero le parole che dovevano esserci assolutamente e tutto il testo ne conseguisse. L’ordine, gli intervalli. Lo vide. La chiave era nei nomi, nella lunghezza dei nomi. Era la seconda parte del codice. 4+12+47=4/5; Jones Il necrologio del 4/12/1947 era per Adam Jones. 4/5. Il nome di battesimo era di quattro lettere, il cognome di cinque. Se prendeva la quarta parola del necrologio, contava cinque parole dopo quella e ripeteva l’operazione, ne usciva una frase. Riesaminò il necrologio: Adam Jones, orologiaio all’avanguardia, muore a 77 anni mentre lavorava a un orologio da torre che sarebbe stato il suo capolavoro Le parole clock e tower, orologio e torre, c’erano. Noto orologiaio di Gibilterra, è spirato nell’Honduras britannico ieri. È stato trovato dal suo segretario. Le ossa del defunto riposeranno vicino alla moglie in un sito scelto precedentemente assieme. Pregasi inviare conferma scritta o avvertire se si vuole presenziare. Le parole selezionate formavano la frase seguente: Gibilterra, britannico trovato ossa vicino sito. Pregasi avvertire. Josh studiò il messaggio per un momento. Non aveva previsto niente del genere. E non aveva idea di che cosa potesse voler dire. Cercò in Internet e qualcosa riuscì a ricostruire. Negli anni Quaranta del secolo scorso gli inglesi avevano effettivamente trovato delle ossa a Gibilterra in una grotta marina naturale chiamata Gorham’s Cave. Ma non erano ossa di Homo sapiens. Erano dell’uomo di Neanderthal e avevano cambiato radicalmente quello che si credeva di sapere su di lui. I nostri cugini preistorici erano in effetti molto più che arcaici uomini delle caverne. Costruivano abitazioni. E facevano grandi fuochi accendendoli su focolai di pietra, cucinavano verdure, avevano un linguaggio, creavano arte rupestre, seppellivano i loro morti con dei fiori e costruivano attrezzi e vasellame a un livello già progredito. Le ossa rinvenute a Gibilterra avevano anche cambiato la cronologia dell’uomo di Neanderthal. Prima del ritrovamento, si pensava che la popolazione di Neanderthal si fosse estinta circa quarantamila anni fa. Ma quelli vissuti a Gibilterra risalivano a ventiduemila anni fa circa, un’epoca assai più recente di quanto si fosse pensato prima. Gibilterra era stata probabilmente l’ultima comunità dell’uomo di Neanderthal. Ma che cosa poteva avere a che fare un’antica fortezza dei Neanderthal con un attacco terroristico globale? Forse gli sarebbero stati d’aiuto gli altri messaggi. Josh aprì il secondo necrologio e lo decodificò. Antartide, U-Boot non trovato, avvisare se autorizzate ulteriori ricerche. Interessante. Josh cercò di nuovo informazioni al riguardo. Il 1947 era stato un anno importante per l’Antartide. Il 12 dicembre 1946 la Marina militare statunitense aveva spedito nell’Antartide una flotta imponente, che comprendeva tredici navi con quasi cinquemila uomini. La missione, che aveva preso il nome in codice di Operazione Highjump, doveva stabilire nell’Antartide la base di ricerca Little America IV. Fin da allora erano circolate teorie e insinuazioni secondo cui gli americani stavano cercando nell’Antartide basi segrete e tecnologie naziste. Il messaggio informava che non avevano trovato niente? Josh girò il foglio di carta lucida con il messaggio ed esaminò la foto sul retro. Un enorme pezzo di ghiaccio che galleggiava in un mare blu e al centro un sommergibile nero che spuntava dal ghiaccio. La scritta sul sottomarino era troppo piccola perché si riuscisse a decifrarla, ma non poteva non essere un sommergibile nazista. A giudicare dalle dimensioni del mezzo, l’iceberg doveva essere di almeno 15 chilometri quadrati. Abbastanza grande da poter essersi staccato dall’Antartide. Il messaggio intendeva informare che il sommergibile era stato ritrovato di recente? Era una scoperta che aveva messo in moto una serie di avvenimenti? Josh passò all’ultimo messaggio, nella speranza di trovare l’indizio che cercava. Decodificato, diceva: Roswell, pallone sonda corrisponde tecnologia Gibilterra, dobbiamo vederci. Tutti insieme i messaggi erano: Gibilterra, britannico trovato ossa vicino sito. Pregasi avvertire. Antartide, U-Boot non trovato, avvisare se autorizzate ulteriori ricerche. Roswell, pallone sonda corrisponde tecnologia Gibilterra, dobbiamo vederci. Cosa poteva voler dire? Un sito archeologico a Gibilterra, un sommergibile tedesco nell’Antartide e l’ultimo, un pallone sonda a Roswell compatibile con tecnologia presente a Gibilterra? C’era anche un interrogativo più importante: perché? Perché rivelare questi messaggi? Erano vecchi di sessantacinque anni. Cosa potevano avere a che fare con quanto stava avvenendo ora, con la battaglia per la conquista della Clocktower e un imminente attacco terroristico? Josh si mise a camminare avanti e indietro, aveva bisogno di pensare. “Se io fossi una talpa all’interno di un’organizzazione terroristica che cerca di chiedere aiuto, cosa farei?”. Tentare di chiedere aiuto… La fonte doveva aver lasciato un modo per contattarla. Un altro codice? No, forse stava indicando il metodo con cui arrivare a lui. I necrologi. No, non sarebbero stati molto efficaci, ci voleva almeno un giorno perché un necrologio venisse pubblicato, anche on-line. On-line. Quale sarebbe stato l’equivalente attuale? Dove si poteva pubblicare il mio messaggio? Considerò diverse ipotesi. Con i necrologi sui quotidiani era stato abbastanza facile, aveva dovuto controllare solo pochi giornali. Per collegare tutti i vecchi necrologi ci aveva messo un po’ di tempo, ma aveva usufruito di un vantaggio: sapeva dove cercare. Il nuovo messaggio che gli serviva poteva essere ovunque. Doveva per forza esserci un indizio con cui individuarlo. Che cosa avevano in comune i tre messaggi decodificati? Una località. Che cosa c’era di diverso tra loro? Non c’era popolazione nell’Antartide, niente annunci economici, niente… cosa? Cosa c’era di diverso tra Roswell e Gibilterra? C’erano quotidiani in entrambi. Che cosa si poteva fare in uno e non nell’altro posto? Pubblicare qualcosa… La fonte gli stava indicando un sistema di messaggistica onnipresente oggi quanto lo era il «New York Times» nel 1947. Craigslist. Senza dubbio. Josh controllò. Niente Craigslist a Gibilterra, ma… sì, c’era un portale Craigslist a Roswell/Carlsbad, New Mexico. Josh lo aprì e cominciò a leggere gli annunci. Ce n’erano migliaia, in decine di categorie: in vendita, alloggi e immobili, comunità, ricerca di lavoro, curricula. Con centinaia di annunci nuovi ogni giorno. Come trovare il messaggio della fonte… posto che ce ne fosse uno? Avrebbe potuto usare un aggregatore con cui elaborare il contenuto del sito. Un server della Clocktower avrebbe eseguito un crawling del sito, allo stesso modo in cui Google e Bing indicizzano i siti web e ne estraggono il contenuto perché possa essere consultabile tramite ricerche mirate. Poi avrebbe potuto lanciare il programma di decodifica e vedere se c’era qualche inserzione corrispondente. Gli sarebbero bastate poche ore. Non aveva poche ore. Gli serviva un punto da cui cominciare. La scelta logica erano i necrologi, ma Craigslist non ne aveva. Qual era la categoria che vi si avvicinava di più? Forse… gli annunci personali? Diede una scorsa alle sezioni: Rigorosamente platonico Donna cerca donna Donna cerca uomo Uomo cerca donna Uomo cerca uomo Appassionati romantici Incontri casuali Contatti mancati Fuoco e fiamme Da dove cominciare? Stava vagando a tentoni nel buio? Non aveva tempo da perdere. Forse qualche minuto ancora, un altro gruppo di messaggi. Contatti mancati era una categoria interessante. L’idea era che se vedevi una persona che ti interessava ma non ti si presentava l’occasione di “entrare in contatto”, di invitarla a uscire insieme, potevi postare un messaggio in questa sezione. Era popolare tra uomini che al momento non trovavano il coraggio di chiedere un appuntamento, per esempio a una cameriera molto carina. Se ne era servito lui stesso qualche volta. Se la persona vedeva il messaggio e rispondeva, allora era fatta, senza l’ansia dell’approccio. Altrimenti… non era destino. Aprì la sezione e lesse qualche annuncio. Soggetto: Vestito verde al CVS Messaggio: Mio dio eri stupenda! Sei perfetta e sono rimasto proprio senza parole. Darei qualunque cosa per parlarti. Scrivimi a questo indirizzo. Soggetto: Hampton Hotel Messaggio: Prendevamo dell’acqua insieme al banco e siamo saliti insieme in ascensore. Non sapevo se ti andava che ci vedessimo per un po’ di ginnastica extra. Dimmi a che piano sono sceso. Ho visto la tua fede. Possiamo essere discreti. Ne lesse ancora qualcuno. Se lo schema era sempre lo stesso, il messaggio sarebbe stato più lungo: un messaggio all’interno di un messaggio, decodificato dalla lunghezza del nome usata come chiave. La Craigslist era anonima. Il nome doveva essere nell’indirizzo e-mail. Il primo annuncio sulla pagina successiva era: Soggetto: Ti ho visto alla vecchia sede della Tower Records che parlavi del nuovo singolo dei Clock Opera Promettente… Nell’intestazione c’erano entrambe le parole di riferimento, Clock e Tower. Lesse velocemente il messaggio. Era più lungo degli altri. L’indirizzo e-mail era andy@gmail.com, Josh trascrisse ogni quarta parola alternata con ogni quinta. Il risultato fu: Situazione cambiata. Clocktower cadrà. Rispondi se ancora vivo. Non fidarti di nessuno. Josh rabbrividì. Rispondi se ancora vivo. Doveva rispondere. David doveva rispondere. Lo chiamò al telefono satellitare, ma non ottenne la comunicazione. Prima gli aveva parlato. Il problema non era né nella stanza né nel telefono. Cosa… Allora vide. La trasmissione sul monitor della telecamera fuori della porta. Non cambiava. Osservò con maggior attenzione. Le spie luminose dei server erano accese. Ma non funzionava così, lampeggiavano tutte le volte che si verificava un accesso ai dischi rigidi, ogni volta che venivano inviati o ricevuti dei pacchetti. Quello che vedeva sul monitor non era un flusso di immagini, era un’immagine fissa. Era l’immagine trasmessa da qualcuno che stava cercando di entrare in quella stanza. 21 Sala operativa principale Quartier generale Clocktower Giacarta, Indonesia L’attività in sala era febbrile. I tecnici erano tutti alle loro tastiere, gli analisti entravano e uscivano con le loro relazioni e Vincent Tarea misurava a lunghi passi la distanza tra una parete e l’altra con gli occhi sulla fila dei monitor. «Siamo sicuri che a Vale stia arrivando una falsa mappa?» «Sì, signore», gli rispose uno dei tecnici. «Ordinate a quelli dei covi di mettersi in moto». Tarea guardò sui monitor gli agenti operativi che nei covi andavano ad aprire le porte. Il fragore delle esplosioni fece alzare a tutti la testa in direzione dei monitor, sui quali ora si vedeva solo lo sfarfallio in bianco e nero dell’energia statica. Uno dei tecnici digitò velocemente qualcosa. «Passo alle telecamere esterne. Signore, abbiamo avuto una forte detonazione a…». «Lo so!», gridò Tarea. «Covi segreti, mantenete la posizione!». Dagli altoparlanti non giunse nessuna risposta. Le aree della mappa dove fino a poco prima i puntini rossi indicavano la presenza degli operativi nei covi erano diventate nere. Gli unici punti rimasti erano quelli del convoglio di David e del piccolo gruppo del quartier generale. Il tecnico si girò verso di lui. «Aveva minato i covi. Li ha fatti saltare». Tarea si passò un dito sul naso. «Grazie, Mr. Ovvio. Siamo entrati finalmente nella stanza insonorizzata? Abbiamo trovato Josh?» «No, stanno cominciando ora». Tarea lasciò la sala operativa, andò nel suo ufficio privato e si mise al telefono. Chiamò il suo omologo all’Immari Security. «Abbiamo un problema. Ha fatto fuori il contingente della mia stazione». Ascoltò per un momento. «No, li ho convinti, ma lui… non importa, sono tutti morti. Il succo è questo». Un’altra pausa. «No, be’, se io fossi in te, mi assicurerei di farlo fuori al primo colpo. Non so quanti uomini hai, ma anche con un esercito tenergli testa in campo aperto sarà incredibilmente difficile». Fece per posare il telefono, all’ultimo istante però se lo portò nuovamente all’orecchio con un gesto spazientito. «Cosa? No, stiamo cercando. Pensiamo che sia qui. Ti terrò informato. Cosa? Bene, verrò, ma ho solo due uomini che posso portare, e ci teniamo in seconda linea nel caso la cosa vada storta». 22 Clocktower, Centro operativo mobile Giacarta, Indonesia Kate salì dietro il militare sul furgone nero. All’interno non era affatto il veicolo da trasporto che sembrava da fuori. Era in parte un’armeria piena di fucili e attrezzature che non seppe riconoscere, in parte un ufficio con computer e monitor, e in parte un alloggiamento per passeggeri, con posti a sedere su entrambi i lati. C’erano tre grandi schermi. Su di uno si vedevano dei punti su una mappa che doveva essere la carta topografica di Giacarta. Su un altro scorrevano le immagini dell’esterno del furgone, davanti, dietro e da entrambi i lati. Nel riquadro in alto a destra si vedeva il SUV nero che precedeva il furgone nelle vie affollate della città. Sul terzo schermo si leggeva una sola parola: “Connecting…”. «Io sono David Vale». «Voglio sapere dove mi state portando», chiese con forza Kate. «In un covo segreto». David le rispose mentre maneggiava un tablet. Sembrava che da lì governasse uno degli schermi all’interno del veicolo. Alzò lo sguardo per controllarlo, come se aspettasse di veder comparire qualcosa. Quando non accadde niente, tornò a lavorare sul tablet. «Dunque lei è del governo degli Stati Uniti?», chiese Kate cercando di ottenere la sua attenzione. «Non proprio». «Ma è americano, no?» «Più o meno». «Potrebbe essere così gentile da parlarmi guardandomi in faccia?» «Sto cercando di contattare un collega». La sua espressione si era fatta apprensiva. Si guardò intorno come se cercasse di ragionare su qualcosa. «C’è un problema?» «Sì. Forse». Posò il tablet. «Devo farle qualche domanda sul rapimento». «State cercando i bambini?» «Stiamo ancora cercando di capire cosa succede». «E chi sareste?» «Nessuno di cui lei abbia mai sentito parlare». Kate si passò una mano tra i capelli. «Senta, ho avuto una giornataccia. Non è che mi importi molto di chi sia lei o da dove venga. Oggi qualcuno ha portato via due bambini dalla mia clinica e sembra che a nessuno interessi ritrovarli. Lei compreso». «Non ho mai detto che non l’avrei aiutata». «Ma nemmeno che lo avrebbe fatto». «Vero», confermò David, «ma al momento ho anch’io dei problemi, e grossi. Problemi che potrebbero portare all’uccisione di molti innocenti. Molti sono già morti e credo che la sua ricerca sia in qualche modo collegata. Anche se non ho capito ancora bene come. Senta, lei risponda a qualche domanda e io le prometto che farò tutto il possibile per aiutarla». «Va bene, ci sto». «Allora», cominciò David, «mi dica che cosa sa dell’Immari Giacarta». «Per la verità, niente. Finanziano parte della mia ricerca. Martin Grey, che è il mio padre adottivo, è il capo dell’Immari Research. Investono in un’ampia gamma di ricerche scientifiche e tecnologiche». «Sta costruendo un’arma biologica per loro?». Quella domanda la colpì come uno schiaffo in faccia. Sussultò. «Cosa? Mio Dio, no! È impazzito? Io sto solo cercando di curare l’autismo». «Perché hanno rapito quei due bambini?» «Non ne ho idea». «Non le credo. Cos’hanno di diverso quei due? C’erano più di cento bambini in quella clinica. Se i rapitori fossero trafficanti, li avrebbero presi tutti. Hanno scelto quei due per un motivo. E si sono esposti non poco per farlo. Perciò glielo chiedo di nuovo: perché quei due?». Kate rifletté per qualche istante, poi fece la prima domanda che le venne in mente. «È stata l’Immari Research a prendere i miei bambini?». Lui parve sorpreso. «Ah, no», rispose. «È stata l’Immari Security. È un’altra divisione, ma sempre la stessa combriccola di cattivi». «Impossibile». Le porse un fascicolo. Kate lo sfogliò, soffermandosi a guardare le foto satellitari del veicolo davanti alla clinica, quelle dei due aggressori vestiti di nero che vi caricavano a bordo i bambini e la fotocopia dell’atto di registrazione da cui risultava che il furgone apparteneva all’Immari International, Hong Kong Security Division. Le prove erano davanti ai suoi occhi, ma Kate non riusciva a capacitarsi. Perché mai l’Immari avrebbe dovuto sequestrare i bambini? Avrebbero potuto semplicemente rivolgersi a lei. E c’era qualcos’altro a turbarla. «Perché secondo lei starei costruendo una bomba biologica?» «È l’unica cosa che avrebbe senso, a giudicare dalle prove». «Quali prove?» «Ha mai sentito parlare del Protocollo Toba?» «No». David le consegnò un altro fascicolo. «Qui c’è più o meno tutto quello che abbiamo al riguardo. Non è molto, ma risulta in ogni caso che l’Immari International stia lavorando a un progetto di drastica riduzione della popolazione mondiale». Kate lesse il documento. «Come la Catastrofe di Toba». «Cosa? Non ne so niente». Kate chiuse il dossier. «Non mi sorprende. Non è accettata da tutti, ma è una teoria popolare tra i biologi evoluzionisti». «Di che teoria si tratta?» «Quella del “Grande balzo in avanti”». Kate lesse la confusione sul volto di David e continuò prima che lui potesse parlare. «Il Grande balzo in avanti è probabilmente uno degli aspetti più controversi della genetica evolutiva. Per la verità è ancora un mistero. Sappiamo che cinquanta o sessantamila anni fa nell’intelligenza umana c’è stato una specie di Big Bang. Siamo diventati molto più intelligenti in un lasso di tempo davvero breve. Solo che non sappiamo di preciso in che modo. Riteniamo che si sia verificato un cambiamento nella struttura cerebrale. Per la prima volta gli esseri umani hanno cominciato a usare un linguaggio complesso, a creare arte, a costruire utensili tecnicamente più efficienti, a risolvere problemi…». David l’ascoltava con gli occhi fissi nel vuoto, assimilando le informazioni. «Non vedo…». «Capisco», lo precedette Kate, «mi lasci cominciare dall’inizio. La razza umana ha circa duecentomila anni, ma siamo quelli che possiamo definire esseri umani comportamentalmente moderni, quelli veramente molto intelligenti che hanno conquistato il pianeta, da non più di cinquantamila anni. Noi sappiamo che cinquantamila anni fa erano presenti sulla Terra almeno tre altri ominidi: l’uomo di Neanderthal, l’Homo floresiensis…». «Homo Flo…». «Non sono in molti a saperlo. Li abbiamo scoperti solo di recente. Erano piccoli di statura, tanto che sono stati soprannominati “Hobbit”. Li chiameremo così anche noi, è più facile. Dunque, tornando indietro di cinquantamila anni ci siamo noi, quelli di Neanderthal, gli Hobbit e l’Homo di Denisova. C’erano probabilmente un altro paio di ominidi, ma quello che conta è che esistevano contemporaneamente cinque o sei sottospecie di umani. Poi il nostro ramo schizza intellettualmente in avanti, mentre gli altri si estinguono. Noi passiamo da poche migliaia a sette miliardi nello spazio di cinquantamila anni, mentre le altre sottospecie spariscono. Noi conquistiamo il mondo mentre gli altri muoiono nelle caverne. È il più grande mistero di tutti i tempi, al quale gli scienziati lavorano fin dall’alba della civiltà. Scienziati e teologi. Il centro della questione è come siamo sopravvissuti. Che cosa ci ha conferito un vantaggio evolutivo di queste proporzioni? Chiamiamo tale trasformazione il Grande balzo in avanti e la teoria della Catastrofe di Toba intende spiegare come questo salto sia avvenuto, in che modo noi siamo diventati intelligenti mentre i nostri cugini – gli altri ominidi come Neanderthal, Hobbit e via di seguito – sono rimasti fondamentalmente dei cavernicoli. Secondo la teoria, settantamila anni fa qui in Indonesia ci fu l’esplosione del supervulcano Toba, la cui caldera oggi è il lago omonimo. Le ceneri dell’eruzione coprirono il sole su gran parte della Terra, provocando un inverno vulcanico durato anni. Il rapido mutamento climatico ridusse drasticamente la popolazione umana, facendola scendere a diecimila individui o anche meno». «Un momento», intervenne David. «Mi sta dicendo che la razza umana si era ridotta a diecimila persone?» «Così sembra. Le stime non sono precise, ma sappiamo che ci fu una pesante contrazione nella popolazione mondiale e che la subì principalmente il nostro ramo. Pensiamo che gli uomini di Neanderthal e alcuni altri ominidi presenti in quell’epoca abbiano resistito meglio. Gli Hobbit erano sottovento rispetto a Toba e gli uomini di Neanderthal erano concentrati in Europa. Gli effetti dell’eruzione furono sentiti soprattutto in Africa, in Medio Oriente e nell’Asia meridionale, ed è lì che a quei tempi eravamo concentrati noi. Gli uomini di Neanderthal erano più forti di noi e avevano un cervello più grande. Questo può aver dato loro un ulteriore vantaggio nella lotta per la sopravvivenza, però sono dati ai quali si sta ancora lavorando. Sappiamo comunque che gli esseri umani furono duramente colpiti dall’esplosione del supervulcano. Arrivammo sull’orlo dell’estinzione. Si creò quella situazione che gli esperti di genetica della popolazione chiamano un “collo di bottiglia”. Alcuni ricercatori ritengono che questo collo di bottiglia abbia spinto un piccolo gruppo di umani a evolversi, a mutare per sopravvivere. Potrebbero essere state queste mutazioni a portare a uno sviluppo esponenziale dell’intelligenza. Ci sono prove genetiche a sostegno di questa tesi. Sappiamo che tutti gli esseri umani presenti sul pianeta sono diretti discendenti di un uomo vissuto in Africa circa sessantamila anni fa, una persona che noi genetisti chiamiamo Adamo cromosomiale Y. Tutti gli esseri umani fuori dell’Africa discendono in effetti da un piccolo gruppo, forse di un centinaio di individui, che lasciò quel continente circa cinquantamila anni fa. Siamo essenzialmente tutti membri di una piccola tribù che lasciò l’Africa a piedi dopo la Catastrofe di Toba, per diffondersi in tutto il pianeta. Quella tribù era decisamente più intelligente di tutti gli altri ominidi. Questo è quello che è successo, ma noi non sappiamo come sia successo. La verità è che non sappiamo come la nostra sottospecie sia sopravvissuta a Toba o come siano diventati tanto più intelligenti di tutte le altre sottospecie umane vissute nella stessa epoca. Dev’esserci stato per forza un importante mutamento nella connettività del cervello, ma nessuno sa come sia avvenuto questo Grande balzo in avanti. Può essere stato un cambiamento nella dieta o l’effetto di una mutazione spontanea. Oppure è successo gradualmente. La teoria della Catastrofe di Toba e il conseguente collo di bottiglia nell’evolversi della popolazione è solo una possibilità, che però sta conquistando nuovi sostenitori». David stava riflettendo. «Mi sorprende che questo non sia emerso nelle vostre ricerche», commentò Kate. «Allora», continuò poi dato che David non parlava, «secondo lei a che cosa si riferisce il suo “Toba”? Voglio dire, è possibile che io mi sbagli…». «No, lei ha ragione. Lo so. Ma è solo un riferimento all’effetto che ebbe la Catastrofe di Toba in passato, i cambiamenti che apportò all’umanità. È questo il loro proposito: creare un altro collo di bottiglia nella popolazione e produrre un secondo Grande balzo in avanti. Vogliono avviare una nuova fase nell’evoluzione umana. Adesso si spiega il perché, che prima non sapevamo. Pensavamo che Toba si riferisse a dove avrebbe avuto inizio l’operazione. Era plausibile che avessero scelto il Sudest asiatico, l’Indonesia in particolare. È una delle ragioni per cui ho concentrato le mie attività a Giacarta, a 100 chilometri da Toba». «Giusto. Be’, la storia può tornare utile. E lo stesso vale per i libri. Forse tanto quanto le armi». «Perché lei lo sappia, leggo molto. E la storia mi piace. Ma lei mi sta parlando di settantamila anni fa. Questa non è storia, è preistoria. E poi le armi hanno il loro posto. Il mondo non è così civile come sembra». Kate alzò le mani. «Ehi, cercavo solo di essere d’aiuto. A questo proposito, mi aveva detto che mi avrebbe aiutato a ritrovare i bambini». «E lei aveva detto che avrebbe risposto alle mie domande». «L’ho fatto». «Nossignore. Lei sa perché quei bambini sono stati portati via o ha almeno una teoria da offrirmi. Sentiamola». Kate indugiò. Poteva fidarsi di lui? «Ho bisogno di qualche rassicurazione». Attese, ma David stava fissando l’altro schermo, quello su cui c’erano tutti i puntini. «Ehi, mi sta ascoltando?». L’ansia del militare era ora più che evidente. «Cosa c’è?» «I punti non si muovono». «Dovrebbero?» «Sì. Perché è sicuro che ci stiamo muovendo noi». Indicò le cinture di sicurezza. «La allacci». Il tono in cui lo disse la spaventò. Le aveva ricordato un padre che si è appena accorto che la propria figlia è in pericolo. Era iperconcentrato. Si spostò veloce senza battere ciglio a bloccare tutto quello che non era ancorato all’interno dell’abitacolo. Poi afferrò una ricetrasmittente. «Mobile Uno, parla il comandante. Cambio percorso, nuova destinazione quartier generale della Clocktower. Ricevuto?» «Ricevuto, comandante, Mobile Uno cambia percorso». Kate sentì il furgone sterzare. David abbassò la ricetrasmittente. Lei vide il lampo sullo schermo un secondo prima di udire e percepire l’esplosione. Sullo schermo il SUV che li precedeva esplose sollevandosi da terra e ricadendo in un rogo di metallo in fiamme. Ci furono degli spari, poi il loro furgone sbandò come se al volante non ci fosse nessuno. Un altro razzo colpì la strada poco distante da loro. Per poco l’urto non fece rovesciare il veicolo, mentre l’aria veniva risucchiata tutta all’esterno. Le orecchie di Kate erano assordate da un fischio incessante. Le pulsava il ventre dove la cintura di sicurezza le era penetrata nelle carni. Era in uno stato simile a quello di privazione sensoriale. Le sembrava che tutto avvenisse al rallentatore. Sentì il veicolo ricadere sul fondo stradale e sobbalzare sulle sospensioni. Stordita dal fischio alle orecchie, cercò con lo sguardo il militare. Lo trovò steso sul fondo dell’abitacolo, immobile. 23 Camera blindata Comms Quartier generale Clocktower Giacarta, Indonesia Non c’era più molto tempo. Chiunque avesse sostituito l’immagine fissa alla trasmissione in diretta della telecamera che riprendeva la porta di accesso alla stanza insonorizzata, stava ovviamente cercando di entrare. In quel momento la stanza di vetro nella gigantesca tomba di cemento gli sembrò immensamente fragile. Era appesa nel vuoto in attesa di esplodere come fosse una pentolaccia di vetro. E lui era il trofeo da conquistare. C’era qualcosa sulla porta? Una macchiolina arancione? Josh andò alla parete per vedere meglio. Sì, era una macchiolina che diventava sempre più brillante, come una resistenza che si riscalda. Faceva sembrare il metallo bagnato… sì, il metallo colava sul pavimento. All’improvviso dall’angolo in alto a destra della porta sprizzarono scintille. Le scintille scesero lentamente lasciando dietro di sé un solco scuro. Stavano entrando… con una fiamma ossidrica. Ma certo. Se avessero fatto saltare la porta con degli esplosivi avrebbero distrutto i server. Era solo un’ulteriore precauzione, che d’altra parte concedeva a lui qualche minuto in più. Tornò di corsa al tavolo. Da dove cominciare? La fonte, il messaggio su Craigslist. Doveva rispondere. L’indirizzo e-mail, andy@gmail.com, era ovviamente fasullo. Con tutta probabilità era stato disponibile per non più di due secondi. La fonte sapeva che Josh non si sarebbe lasciato ingannare, sapeva che lo avrebbe visto per ciò che era: un altro nome della lunghezza giusta con cui decodificare il messaggio compilato secondo quel codice. Già, il codice… Avrebbe dovuto scrivere un messaggio e usare un nome con cui renderlo leggibile. Lanciò un’occhiata alla porta. Il taglio della fiamma era a metà del lato destro. Le scintille cascavano spegnendosi come una miccia che si consuma raggiungendo l’ordigno da far esplodere. Al diavolo, non c’era tempo. Cliccò il pulsante di scrittura e digitò il messaggio: Soggetto: All’uomo della Tower Records Messaggio: Vorrei che ci fossimo sentiti, ma non c’è stato tempo. Ho paura che non ce ne sarà di nuovo. Il mio amico mi ha mandato i tuoi messaggi. Ancora non capisco. Mi spiace di dover essere così franco. Non ho davvero tempo per giocare a sciarade e indovinelli. Non ho potuto contattare il mio amico per telefono, ma forse puoi farlo tu su questo board. Ti prego di rispondere con qualunque informazione gli sia d’aiuto. Grazie e buona fortuna. Josh premette “Invio”. Perché non riusciva a contattare David? Aveva ancora accesso alla rete. Doveva essere un collegamento completamente diverso, un collegamento di cui gli operativi della Clocktower non sapevano nulla. Era logico che così fosse per le videoconferenze e le telefonate in sicurezza. Per la telecamera della porta era facile: avrebbero potuto tagliare il cavo e collegarla a un’altra fonte video, o semplicemente piazzare l’immagine fissa davanti all’obiettivo. Con la coda dell’occhio vide che l’immagine con i punti rossi stava cambiando velocemente. I punti all’interno dei covi si ammassavano davanti alle porte. Erano entrati in azione. Poi scomparvero. Morti. Guardò di nuovo la porta. La fiamma procedeva alacremente. Fece un refresh della pagina di Craigslist e sperò che il contatto rispondesse. 24 Clocktower, Centro operativo mobile Giacarta, Indonesia Quando aprì gli occhi, David intravide la donna, la dottoressa Warner, in piedi su di lui. «È ferito?», gli chiese. La allontanò da sé con una mano e si alzò. Sui monitor si vedeva la scena all’esterno del veicolo: il SUV e tre dei suoi agenti erano sparsi nella via deserta, irriconoscibili pezzi di lamiera e corpi umani. Non vide i due uomini che si trovavano nella cabina del furgone. Dovevano essere stati uccisi dalla seconda esplosione. O da un cecchino. Scosse la testa per schiarirsi le idee, poi andò agli armadietti che contenevano le armi. Prese due fumogeni, ne strappò le sicure e raggiunse il portellone posteriore. Aprì lentamente un battente e lasciò cadere i fumogeni, uno subito dietro il veicolo, l’altro in maniera che rotolasse un po’ più lontano. Mentre il fumo cominciava a invadere la strada con un sibilo sommesso, richiuse velocemente il portellone impedendo che nell’abitacolo entrasse più che uno sbuffo di fumo grigiastro. Si era aspettato almeno un colpo di fucile isolato quando aveva aperto lo sportello. Evidentemente volevano la donna viva. Tornò agli armadietti e cominciò ad armarsi. Si mise in spalla un fucile d’assalto automatico e si riempì le tasche dei calzoni di caricatori per il fucile e la pistola. S’infilò in testa un elmetto nero e si riallacciò il giubbotto. «Ma cosa sta facendo? Cosa succede?» «Lei resti qui e tenga il portello chiuso. Tornerò quando fuori sarà sicuro», disse David mentre andava verso il fondo del furgone. «Cosa? Ha intenzione di uscire?» «Sì». «Ma è matto?» «Senta, qui siamo bersagli da tiro a segno. È solo questione di tempo prima che ci facciano fuori. Devo affrontarli all’aperto, trovare un riparo e un modo per uscire da questa situazione. Tornerò». «Va bene, va bene, d’accordo… però… non è che potrei avere una pistola?». David si girò verso di lei. Era impaurita. Ma doveva concederglielo: aveva fegato. «No, non può avere una pistola». «Perché?» «Perché con quella pistola riuscirebbe a farsi male. Adesso venga qui e chiuda il portello quando sarò uscito». Si calò sul volto gli occhiali dall’elmetto e in un unico movimento repentino aprì la portiera e saltò nel fumo. Correva da tre secondi quando cominciarono a piovergli addosso i proiettili. Gli spari gli diedero l’informazione che gli serviva: i cecchini erano sul tetto degli edifici alla sua sinistra. S’infilò nel primo vicolo, puntò il fucile verso l’alto e cominciò a fare fuoco. Colpì il cecchino più vicino, lo vide precipitare e lasciò partire due scariche contro gli altri due. Entrambi si ritirarono in tutta fretta oltre il ciglio del tetto del vecchio edificio. Gli sibilò un proiettile a pochi centimetri dalla testa. Un altro si conficcò nel cemento della casa accanto, tempestandogli l’elmetto e il giubbotto antiproiettile di grumi di malta e schegge di mattoni. Ruotò su se stesso nella direzione da cui arrivavano i colpi. Quattro uomini a piedi che correvano verso di lui. Immari Security. Non uomini suoi. Sparò tre rapide scariche. Gli inseguitori si dispersero. Due caddero. Nel momento in cui staccò il dito dal grilletto, sentì un fruscio. Si tuffò sull’altro lato del vicolo mentre a tre metri dal punto in cui si trovava un istante prima esplodeva la granata sparata dal lanciarazzi. Avrebbe dovuto neutralizzare per prima cosa i cecchini. O almeno mettersi al riparo. Piovvero calcinacci dal cielo. Il vicolo si riempì di fumo. David cominciò a respirare a fatica. Nella strada era sceso il silenzio. Rotolò su se stesso. Passi che venivano verso di lui. Si alzò in piedi e corse verso l’estremità del vicolo abbandonando il fucile. Doveva raggiungere una posizione difendibile. Nuovi proiettili rimbalzarono sui muri delle case. Si voltò, estrasse la pistola e lasciò partire qualche colpo, costringendo i due uomini che lo inseguivano a fermarsi e a cercare rifugio negli androni. Davanti a lui il vicolo sfociava in una vecchia strada polverosa lungo uno dei trentasette corsi d’acqua di Giacarta. C’era un mercato sul lungofiume, con bancarelle di ortaggi, venditori di vasellame e mercanzia varia. Erano tutti in fuga, correvano puntando il dito, gridando, raccogliendo in fretta e furia l’incasso della giornata. David uscì dal vicolo e fu investito da un’altra salva di proiettili. Una pallottola lo colpì in pieno petto e cadde pesantemente a terra, restando senza fiato. Altri proiettili si piantarono nel terreno intorno alla sua testa. Gli uomini che lo inseguivano nel vicolo stavano arrivando. Boccheggiando, rotolò verso il muro più vicino, allontanandosi dalla traiettoria degli spari. Era una trappola. Gli uomini che lo braccavano nel vicolo lo spingevano verso i loro compagni. Sganciò due granate. Staccò la sicura a entrambe, attese un intero secondo e lanciò la prima dietro di sé, nell’imboccatura del vicolo, l’altra oltre l’angolo, verso gli uomini appostati per l’imboscata. Poi uscì correndo a perdifiato verso il fiume, e contemporaneamente sparando verso gli uomini appostati. Sentì dietro di sé il fragore sordo dell’esplosione nel chiuso del vicolo, subito seguito da quello più vibrante nella strada dove gli avevano teso l’imboscata. Un attimo prima di arrivare sulla sponda del fiume udì un’altra esplosione, questa volta molto più vicina, non più di due o tre metri dietro di sé. Lo spostamento d’aria lo fece decollare e lo catapultò sull’acqua del fiume. A bordo del furgone corazzato, Kate tornò a sedere. Poi si alzò di nuovo. Fuori sembrava che ci fosse in corso la terza guerra mondiale: esplosioni, mitragliate, detriti che colpivano il veicolo. Andò agli armadietti. Fuori sentì sparare di nuovo. Forse avrebbe fatto bene a indossare uno di quei giubbotti antiproiettile. Ne prese uno. Era pesante, molto più di quanto avesse immaginato. Si guardò. Gli abiti che indossava erano tutti stropicciati, gli stessi con cui aveva dormito in ufficio. Che giornata assurda. Sentì bussare al portellone. «Dottoressa Warner?». Lasciò cadere il giubbotto. Non era la sua voce, quella dell’uomo che l’aveva prelevata dalla stazione di polizia. Non era David. Aveva bisogno di una pistola. «Dottoressa, stiamo entrando». Il portellone si aprì. Tre uomini vestiti di nero, come quelli che avevano portato via i bambini. Si fecero avanti. «Siamo contenti di trovarla incolume, dottoressa. Siamo qui per salvarla». «Chi siete? Dov’è lui? L’uomo che c’era qui prima?». Kate indietreggiò. Fuori non sparavano più. Poi due, anzi tre esplosioni in lontananza. Gli uomini venivano avanti. Kate indietreggiò ancora. Avrebbe potuto prendere una pistola. Sarebbe stata capace di usarla? «È tutto a posto, dottoressa. Esca. La portiamo da Martin. È stato lui a mandarci». «Cosa? Voglio parlargli. Non andrò da nessuna parte se prima non gli avrò parlato». «È tutto…». «No», ribatté lei. «Voglio che ve ne andiate immediatamente». Il terzo uomo si fece largo tra gli altri due. «Te l’avevo detto, Lars, mi devi cinquanta dollari», fece. Kate riconobbe la voce, era quella ruvida, rauca, dell’individuo che aveva preso i bambini. Era lui. Il terrore la paralizzò. Lui la raggiunse, le afferrò un braccio con forza e glielo torse dietro la schiena, facendole scivolare la propria mano fino al suo polso. Le afferrò l’altro polso e glieli tenne insieme mentre glieli bloccava con un laccio di plastica. Kate tentò di divincolarsi, ma la sottile fettuccia di plastica le incise le carni mandandole fitte di dolore su per le braccia. L’uomo la tirò indietro prendendola per i lunghi capelli biondi e le infilò un cappuccio nero sulla testa, precipitandola nel buio più totale. 25 Camera blindata Comms Quartier generale Clocktower Giacarta, Indonesia Josh vide scomparire dallo schermo gli altri punti rossi. Gli uomini nei covi. Erano andati alla porta ed erano scomparsi. Morti. Pochi minuti dopo vide il convoglio di David fermarsi in strada. Passò una manciata di secondi prima che vedesse sparire anche quello. Era rimasto solo David. Guardò il punto che corrispondeva a lui muoversi velocemente. Un ultimo scatto. Sparito anche quello. Sospirò, accasciandosi contro lo schienale. Guardò attraverso il vetro. Ora la fiamma del cannello risaliva lungo l’altro lato, la traccia di bruciato disegnava una J rovesciata. Presto sarebbe stata una U, poi una O, e allora sarebbero entrati e per lui sarebbe finita. Gli restavano due, forse tre minuti. La lettera. Si voltò, frugò tra i documenti e la ritrovò. La lettera di David da “aprire quando morirò”. Solo poche ore prima Josh aveva pensato che non avrebbe mai avuto bisogno di farlo. Quante illusioni erano svanite quel giorno: la Clocktower era inattaccabile, la Clocktower non poteva cadere, David non poteva essere ucciso, i buoni vincevano sempre. Strappò la busta. Caro Josh, non biasimarti. Era già tardi quando abbiamo cominciato. Posso solo presumere che la stazione di Giacarta sia caduta o stia per cadere. Ricorda il nostro obiettivo: dobbiamo impedire all’Immari di portare a termine il suo progetto. Inoltra quello che hai trovato al direttore della Clocktower. Si chiama Howard Keegan. Di lui ti puoi fidare. Su ClockServer1 c’è un programma, ClockConnect.exe. Apre un canale privato con Central con cui puoi trasmettere dati in sicurezza. Un’ultima cosa. In questi anni ho messo da parte un po’ di soldi, raccolti soprattutto da certa brutta gente che abbiamo tolto di mezzo. Su ClockServer1 c’è anche un altro programma, distribute.bat. Erogherà il denaro versato sui miei conti correnti. Spero che non troveranno mai questa stanza e che tu, mentre stai leggendo questa lettera, non sia in pericolo. È stato un onore servire con te. David Josh posò il foglio. Digitò velocemente sulla tastiera, caricando prima di tutto i suoi dati su Clocktower Central e poi eseguendo le transazioni bancarie. “Un po’ di soldi” era un eufemismo. Josh osservò cinque transazioni di cinque milioni ciascuna a favore di Croce rossa, UNICEF e altre tre organizzazioni umanitarie. Fin lì era anche logico. Non lo era l’ultima transazione, un deposito di cinque milioni presso la JP Morgan in America, una filiale di New York. Josh prese nota dei nomi dei correntisti e fece una ricerca. Un uomo di sessantadue anni e sua moglie di cinquantanove. I genitori di David? C’era un articolo apparso su un quotidiano di Long Island. La coppia aveva perso l’unica figlia negli attentati dell’11 settembre. Era un’analista finanziaria che all’epoca lavorava alla Cantor Fitzgerald, laureata da poco a Yale, e stava per sposare Andrew Reed, un giovane laureato che stava facendo un master alla Columbia. Josh lo sentì, o per la precisione, non lo sentì più. Il sibilo della fiamma ossidrica era cessato. Il cerchio era completo e presto avrebbero cominciato a spingere la porta per abbatterla. Raccolse le carte, corse al cestino e accese il fuoco. Tornò al tavolo e lanciò il programma che avrebbe cancellato la memoria del computer. Ci volevano più di cinque minuti. Forse non se ne sarebbero accorti. O forse avrebbe trovato il modo di guadagnare un altro po’ di tempo. Guardò l’astuccio con la pistola. Qualcos’altro, sullo schermo, sulla mappa. Josh ebbe l’impressione di aver visto un lampo, il brillio momentaneo di un punto rosso. Ma non c’era più. Continuò a guardare. Gli improvvisi, violenti colpi alla porta lo fecero quasi balzare via dalla poltroncina. I rintocchi possenti gli ricordarono un tamburo di guerra. Si accordarono al battito divenuto incontrollabile del suo cuore. Sul computer apparve l’indicazione della cancellazione in corso: completata al 12%. Il punticino si accese di nuovo e questa volta non si spense. D. Vale. Si spostava adagio, nel fiume. Gli indici vitali erano deboli, ma era vivo. I sensori erano installati nel giubbotto antiproiettile, che probabilmente era stato danneggiato. Josh doveva inviargli i dati che aveva trovato e un modo per contattare la fonte. Di solito usavano un dead-drop on-line, uno spazio pubblico in rete dove scambiarsi messaggi codificati. La Clocktower si serviva abitualmente di aste su eBay, e le foto degli oggetti messi in vendita contenevano messaggi integrati o file che un algoritmo della Clocktower era in grado di decriptare. A occhio nudo le immagini erano del tutto normali, mentre un’invisibile modifica della struttura dei pixel si trasformava in un file leggibile dalla Clocktower. Solo che lui e David non avevano stabilito quel sistema. E lui non poteva telefonare. La posta elettronica sarebbe stata una condanna a morte: la Clocktower monitorava certamente tutti gli indirizzi e-mail, e quando David avesse controllato il suo, avrebbero individuato l’IP del computer che stava usando. L’IP avrebbe indicato loro un indirizzo fisico o qualcosa di molto vicino. Le trasmissioni video della sorveglianza della zona avrebbero portato a termine la localizzazione e nel giro di pochi minuti gli sarebbero stati addosso. Un IP… Josh ebbe un’idea. Poteva funzionare? Cancellazione… completata 37% Doveva sbrigarsi, prima che il computer smettesse di funzionare. Aprì una connessione VPN a un server privato che usava soprattutto come ponte e area di rielaborazione per operazioni on-line, trasformando rapporti criptati e inviandoli in rete su percorsi tortuosi prima che arrivassero a Central. Era una misura di sicurezza supplementare per evitare che le trasmissioni della stazione di Giacarta a Central venissero intercettate. La sua esistenza non era ufficiale, nessuno ne sapeva niente. E utilizzava già alcuni protocolli di sicurezza scritti da lui. Era perfetto. Il server non aveva bisogno di indirizzo web, bastava un IP: 50.31.14.76. Gli indirizzi web come www.google.com o www.apple.com si traducevano in realtà in IP. Quando si inserisce un indirizzo nel browser, un gruppo di server che si chiamano domain name servers (DNS) riconoscono l’IP corrispondente a quell’indirizzo e presente nel loro database e ti indirizzano nel posto giusto. Digitando nella barra di ricerca l’IP invece dell’indirizzo, si arriva alla stessa identica destinazione senza il routing del server: 74.125.139.100 apre Google.com e 17.149.160.49 apre Apple.com e così di seguito. Josh finì di caricare i dati nel server. Il computer cominciava a lavorare più lentamente. Apparvero alcuni messaggi di errore. Cancellazione… completata 48% I colpi alla porta erano cessati. Stavano usando di nuovo la fiamma ossidrica. Al centro era apparsa una bolla arrotondata di metallo in rilievo. Josh doveva inviare l’IP a David. Non poteva telefonare o mandargli un messaggio. Tutte le fonti e i funzionari dell’organizzazione erano monitorati, e in ogni caso non aveva idea di dove sarebbe finito David. Aveva bisogno di un posto dove l’amico sarebbe andato di sicuro a guardare. Un modo per fargli avere i numeri dell’indirizzo IP. Qualcosa di cui fosse a conoscenza solo lui… Il suo conto corrente. Poteva funzionare. Anche Josh aveva un conto corrente privato, era presumibile che ne avessero uno quasi tutti quelli impiegati nel suo ramo. Lo stridio del metallo sotto pressione riempì la grande stanza esterna come il grido di una balena morente. Erano vicini. Josh lanciò un motore di ricerca e si collegò al suo account bancario. Inserì velocemente le coordinate bancarie di David e fece una serie di trasferimenti sul suo conto: 9,11 50,00 31,00 14,00 76,00 9,11 Il sistema avrebbe impiegato un giorno per formalizzare le transazioni e anche così David le avrebbe viste solo se avesse controllato il conto. Avrebbe capito che era un indirizzo IP? Gli agenti operativi non erano particolarmente esperti in informatica. Era uno sparo nel buio. La porta cedette. Entrarono militari in tenuta da combattimento. Cancellazione… completata 65% Non bastava. Qualcosa avrebbero trovato. L’astuccio, la capsula. Da tre a quattro secondi. Troppo poco. Josh si tuffò sull’astuccio che c’era sul tavolo e lo fece cadere sul pavimento di vetro. Si gettò a terra a sua volta. Lo aprì faticando a tener ferme le mani, afferrò la pistola. Come funzionava? Tirare la slitta, sparare, schiacciare qui? Dio. Erano nell’ingresso. In tre. Alzò la pistola. Il braccio gli tremò. Lo fermò stringendolo con l’altra mano e premette il grilletto. Il proiettile attraversò il computer. Doveva riuscire a colpire il disco rigido. Fece fuoco di nuovo. Nella stanza di vetro il fragore era assordante. Poi era tutt’intorno. Vetro dappertutto, in grani minuscoli. Josh corse verso la parete, che gli crollò addosso aprendogli piccole ferite nella pelle. Abbassò lo sguardo, vide i fori dei proiettili che aveva nel petto. Sentì il sangue sgorgargli dalla bocca e colargli lungo il mento, scendere a mescolarsi con la macchia rossa che gli si allargava sul torace. Girò la testa e vide le ultime spie luminose del computer che si spegnevano. 26 Fiume Pesanggrahan Giacarta, Indonesia I pescatori scendevano verso il Mar di Giava. Da qualche giorno la pesca era buona, così avevano portato con sé reti supplementari, tutte quelle che avevano, in realtà. Il loro peso aveva abbassato la linea di galleggiamento. Se tutto fosse andato bene, sarebbero rientrati al tramonto trascinando dietro di sé le reti piene di pesce, abbastanza per nutrire la loro piccola famiglia, avendone ancora da poter vendere al mercato. Guardando il figlio Eko che pagaiava davanti a sé, Harto si sentì pieno di orgoglio. Ancora poco e Harto si sarebbe ritirato lasciando che a pescare andasse Eko da solo. In futuro lui si sarebbe fatto accompagnare dal proprio figlio, come stava facendo Harto ora, come aveva fatto suo padre quando gli aveva insegnato a pescare. Sperava che andasse così. Ultimamente aveva cominciato a temere che il destino che li attendeva non fosse roseo come lo aveva immaginato. Ogni anno le barche aumentavano e il pesce diminuiva. Ogni giorno restavano fuori più a lungo, eppure nelle loro reti c’erano meno pesci di prima. Harto scacciò quei pensieri negativi. La buona sorte va e viene, come i mari, bisognava sapersi adattare. “Non mi devo preoccupare per cose che vanno al di là del mio controllo”. Suo figlio smise di pagaiare. La barca cominciò a ruotare. «Eko!», lo richiamò Harto. «Devi continuare a remare, se non lo facciamo tutti e due insieme la barca si gira. Sta’ attento». «C’è qualcosa nell’acqua, papà». Harto guardò dove gli indicava. Sì, c’era qualcosa che galleggiava… una forma nera. Un uomo. «Rema in fretta, Eko». Si avvicinarono e Harto afferrò l’uomo nell’acqua e cercò di issarlo nella stretta imbarcazione piena di reti. Era troppo pesante. Indossava una specie di guscio. Ma il guscio galleggiava. Un materiale speciale. Harto lo ribaltò. Elmetto e occhiali. Gli avevano coperto il naso impedendogli di annegare. «Un sub, papà?» «No, dev’essere… un poliziotto, credo». Harto tentò di nuovo di issarlo a bordo, ma per poco non finì in acqua anche lui. «Vieni qui, Eko, dammi una mano». Padre e figlio insieme caricarono l’uomo sulla barca, ma appena fu a bordo, il gozzo cominciò a imbarcare acqua. «Stiamo affondando, papà!», esclamò Eko guardandosi intorno spaventato. L’acqua entrava dal lato abbassato. Che cosa poteva buttare fuori? L’uomo? Il fiume sfociava nel mare, dove senza dubbio sarebbe morto. Né avrebbero potuto tirarselo dietro per molto tempo. Intanto l’acqua entrava più velocemente. L’unica cosa di pesante che c’era a bordo erano le reti. Ma erano l’eredità di Eko, la sola ricchezza che possedesse la famiglia, il loro unico mezzo di sostentamento con cui mettere cibo in tavola. «Butta fuori le reti, Eko». Il ragazzo ubbidì all’ordine del padre senza fiatare. Gettò fuori bordo le reti una dopo l’altra, abbandonando la sua eredità alle acque lente del fiume. Solo quando ebbe sacrificato quasi tutte le reti, l’acqua smise di entrare e Harto si sedette pesantemente mettendosi a contemplare con occhi assenti l’uomo che avevano salvato. «Cosa c’è che non va, papà?». Quando suo padre non rispose, Eko corse da lui ed esaminò più da vicino la persona che avevano soccorso. «È morto? È…». «Dobbiamo portarlo a casa. Riprendi la tua pagaia, figliolo. Quest’uomo potrebbe essere nei guai». Girarono la barca e risalirono il fiume controcorrente, diretti alla casa dove la moglie e la figlia di Harto si preparavano a pulire e riporre il pesce che avrebbero portato. Ma quel giorno di pesce non ce n’era. 27 Associated Press – Dispaccio d’agenzia – Ultim’ora Esplosioni e sparatorie scuotono la capitale indonesiana di Giacarta Giacarta, Indonesia (AP) // L’Associated Press ha ricevuto numerose segnalazioni di esplosioni e sparatorie in diversi quartieri di Giacarta. Sebbene nessun gruppo terroristico ne abbia rivendicato la responsabilità, funzionari del governo indonesiano che desiderano mantenere l’anonimato dicono di credere che gli attacchi facciano parte di un’azione coordinata. Attualmente non è ancora chiaro chi fosse o fossero i bersagli. Verso le tredici, ora locale, in alcuni quartieri residenziali fatiscenti si sono verificate tre esplosioni. Secondo la dichiarazione di alcuni osservatori, si pensava che almeno due degli edifici devastati dalle esplosioni fossero abbandonati. A esse sono seguite, pochi minuti dopo, altre esplosioni e fuoco di armi automatiche nelle strade del quartiere del mercato. Non si conosce il numero delle vittime e la polizia non ha voluto rilasciare commenti. Aggiornamenti in tempo reale quando si conosceranno altri particolari. «The Jakarta Post» Arrestato il capo della polizia di Giacarta ovest Oggi la polizia nazionale indonesiana ha confermato l’arresto del capo della polizia di Giacarta ovest Eddi Kusnadi con l’accusa di pedopornografia. Il nuovo capo della stazione, Paku Kurnia, ha rilasciato questa dichiarazione: «Questo è un giorno triste e vergognoso per la polizia metropolitana di Giacarta e la stazione di polizia di Giacarta ovest, ma la nostra determinazione a sradicare il male in seno alla nostra organizzazione alla fine ci renderà più forti e consoliderà la fiducia che l’opinione pubblica ha in noi». 28 Quartier generale Immari Giacarta Giacarta, Indonesia Kate sedeva con le mani legate dietro la schiena e il cappuccio nero ancora a coprirle testa e faccia. Era stato un viaggio tutt’altro che piacevole. Per trenta minuti i militari l’avevano strapazzata come una bambola di pezza, trasferendola da un veicolo all’altro, sospingendola lungo una serie di corridoi e piazzandola infine su quella sedia. Doversi muovere nel buio assoluto le aveva fatto venire la nausea. Le facevano male le mani, imprigionate da lacci troppo stretti, e il fatto di restare nelle tenebre in cui la teneva il cappuccio nero la stava disorientando. L’ultimo rumore che aveva sentito era quello della porta richiusa con forza dai militari che l’avevano abbandonata lì. Quanto tempo era passato? Poi sentì un altro rumore, passi in un corridoio o una stanza di grandi dimensioni. L’eco aumentava di volume con il trascorrere dei secondi. «Toglietele questa cosa dalla testa!». Era Martin Grey. Udendo la voce del padre adottivo, si sentì invadere da un’ondata di sollievo. Le tenebre non le parvero più così fitte e il dolore alle mani le sembrò affievolirsi. Era salva. Martin l’avrebbe aiutata a ritrovare i suoi bambini. Quando le fu tolto il cappuccio, fu momentaneamente accecata dalle luci. Strinse gli occhi abbassando la testa con una smorfia. «E liberatele le mani! Chi è stato a trattarla in questo modo?» «Io, signore. Opponeva resistenza». Kate ancora non li vedeva, ma conosceva anche l’altra voce: era quella dell’uomo che l’aveva prelevata dal furgone, lo stesso che aveva portato via i bambini dalla clinica. L’assassino di Ben Adelson. «Deve averle fatto parecchia paura», commentò con asprezza Martin. Kate non lo aveva mai sentito rivolgersi a qualcuno in quel tono. Sentì ridacchiare altri due uomini, poi il suo rapitore rispose a Martin. «Faccia pure lo spiritoso, Grey», gli disse. «Non perderò tempo a risponderle. Del resto mi sembra che il nostro lavoro fin qui l’abbia ampiamente soddisfatto». A che cosa alludeva? Il tono della voce di Martin cambiò leggermente, Kate percepì una vena divertita. «Ho come la sensazione di un accenno di insubordinazione, signor Tarea. Allora le dimostrerò che cosa succede a chi alza la cresta». Adesso Kate riusciva a vedere il padre adottivo. La sua espressione era dura. Fissò l’uomo con cui aveva parlato, poi si girò verso gli altri due, militari che dovevano averlo accompagnato lì. «Mettetelo in una cella. Incappucciatelo e legategli le mani. Più strette possibile». I due soldati agguantarono il rapitore, gli infilarono sulla testa il cappuccio che avevano tolto a Kate e lo trascinarono via. Il padre adottivo si chinò su di lei. «Stai bene?», le chiese. Kate si massaggiò le mani. «Martin», rispose, «hanno preso due bambini al mio laboratorio. Quell’uomo era uno dei rapitori. Dobbiamo ritrovarli…». Lui la interruppe alzando una mano. «Lo so. Ti spiegherò tutto. Adesso però ho bisogno che tu mi dica che cosa hai fatto a quei bambini. È molto importante, Kate». Lei aprì la bocca per rispondere, ma non sapeva da dove cominciare. Aveva un turbinio di interrogativi nella testa. Prima che potesse parlare, entrarono altri due uomini che si rivolsero a Martin. «Signore, il direttore Sloane vorrebbe parlare con lei». Martin reagì con stizza. «Lo chiamo io dopo, ora non posso…». «È qui, signore». «A Giacarta?» «In questo edificio, signore. Ci è stato ordinato di condurla da lui. Mi spiace, signore». Kate si accorse che Martin non l’aveva presa bene, era preoccupato. «Portatela giù», ordinò agli uomini, «al ponte di osservazione dello scavo. E… sorvegliate la porta. Io arrivo subito». Gli uomini la scortarono fuori, tenendosi a distanza di sicurezza ma senza staccarle gli occhi di dosso. Kate notò che gli altri stavano trattando Martin alla stessa maniera. 29 Fiume Pesanggrahan Giacarta, Indonesia Harto osservava incuriosito le manovre dell’uomo misterioso ripescato dal fiume. Lo vide sollevarsi sui gomiti, togliersi quasi con rabbia elmetto e occhiali e guardarsi intorno confuso. Gettò in acqua gli accessori che si era levato, tornò a sdraiarsi per qualche minuto, quindi cominciò a trafficare con delle cinghie che aveva sui fianchi. Dopo qualche complicazione iniziale, riuscì a sganciarle e poté sfilarsi l’ingombrante giubbotto antiproiettile. Anche quello finì in acqua. Il largo squarcio che Harto aveva notato in corrispondenza del petto lo aveva probabilmente reso inservibile. L’uomo si massaggiò il torace respirando a fondo. Era americano, forse europeo. Harto era meravigliato. Si era accorto che aveva la pelle chiara, quando lo avevano issato a bordo aveva visto qualcosa della sua faccia, ma aveva pensato che fosse giapponese o forse cinese. Cosa ci faceva un europeo armato nel fiume? Forse non era un poliziotto. Forse era un criminale, un terrorista, un sicario di qualche cartello della droga. Aiutandolo, si era messo in qualche grosso pasticcio? Pagaiò più veloce. Eko si accorse che la barca cominciava a virare e aumentò il ritmo a sua volta. Il ragazzo imparava in fretta. Quando ebbe ripreso a respirare con una certa regolarità, l’uomo bianco si mise a parlare in inglese. Eko si girò a guardare. Harto non sapeva cosa dire. Il militare parlava lentamente. Harto usò le poche parole che conosceva: «Mia moglie parla inglese. Lei aiuterà». L’uomo tornò a sdraiarsi. Fissò il cielo e si massaggiò il petto mentre Harto ed Eko continuavano a remare. David era sicuro che il proiettile che l’aveva colpito avesse messo fuori uso il bio-monitor del giubbotto. Di certo aveva messo fuori combattimento lui. Il localizzatore nell’elmetto era sicuramente ancora in funzione, ma ormai era in fondo al fiume. Benedetti quei due pescatori indonesiani. Lo avevano salvato, ma dove lo stavano portando? Forse l’Immari aveva offerto una ricompensa per la sua cattura e quei due avevano semplicemente trovato il biglietto vincente della lotteria. Se intendevano consegnarlo, meglio sarebbe stato per lui prendere subito il largo. Peccato che non riuscisse quasi a respirare. Ci avrebbe provato quando fosse diventato indispensabile. Per ora doveva riposare. Osservò il fiume per un minuto, poi chiuse gli occhi. Sentì sotto di sé il morbido conforto di un letto. Un’indonesiana di mezza età gli aveva posato una salvietta bagnata sulla fronte. «Mi sente?». Quando lo vide aprire gli occhi, si girò e si mise a strillare in un’altra lingua. David le afferrò un braccio. Lei si spaventò. «Non le farò del male», le disse lui. «Dove sono?». Si sentiva molto meglio. Respirava di nuovo, ma il dolore al petto non era passato. Si alzò a sedere e le lasciò andare il braccio. La donna gli diede l’indirizzo della casa in cui si trovava, ma David non seppe riconoscerlo. Prima che potesse farle un’altra domanda, uscì dalla stanza con la testa girata per metà verso di lui, in modo da non perderlo di vista. David si massaggiò il livido che aveva sul torace. “Pensa”. Se avevano corso il rischio di attaccare il suo convoglio in campo aperto, allora avevano già conquistato il quartier generale della stazione di Giacarta. Josh. Un altro soldato caduto. “Se non fermo il Protocollo Toba, ce ne saranno molti altri. E i civili, come già in passato…”. “Concentrati”. La minaccia attuale. Cosa stava succedendo? Avevano preso la Warner. Avevano bisogno di lei. “È immischiata in questa storia ma non capisco in che modo”. Non riusciva a pensare però che fosse dalla parte sbagliata. Kate Warner era una donna perbene, una scienziata che amava il suo lavoro e aveva piena fiducia nella ricerca che stava portando avanti. Dunque non poteva far parte del misterioso protocollo, ma ne era piuttosto una vittima. Avevano bisogno della sua ricerca, avevano intenzione di servirsene. L’avrebbero costretta a rivelargliela. Pronti a sacrificarla pur di raggiungere il loro scopo. Dunque era su di lei che doveva concentrare i suoi sforzi, doveva liberarla per proteggerla e perché era la sua pista migliore per giungere al cuore del complotto. Si alzò dal letto e fece un giro della casa. Le stanze erano separate da pareti sottili come carta velina e ornate da disegni abbozzati, quasi tutti di pescatori. Aprì una pericolante porta a zanzariera e uscì su una terrazza. L’abitazione si trovava al terzo o quarto livello di un “edificio” costituito da molti alloggi simili, tutti con pareti bianche, zanzariere sporche e terrazze sovrapposte come i gradini di una scala che risalivano la sponda del fiume. Spaziando con lo sguardo, a perdita d’occhio non c’erano che altre case come quella, grappoli e grappoli di costruzioni elementari come una catasta di scatoloni. Tra le corde a cui erano appesi gli indumenti ad asciugare, vedeva spuntare qua e là donne intente a battere tappeti e proiettare nuvole di polvere nella luce del tramonto, come demoni che fuggono dal pianeta. Sotto di sé, nel fiume, si incrociavano le barche da pesca. Alcune erano spinte da piccoli motori, ma per la maggior parte erano i pescatori stessi a pagaiare. Scrutò con lo sguardo le altre case sopra di sé. Erano già arrivati e lo stavano cercando? Poi li vide. Erano in due, della Immari Security, stavano uscendo sulla terrazza del secondo piano. David si ritrasse nell’ombra e li guardò entrare nell’abitazione successiva. Quanto tempo aveva? Cinque, forse dieci minuti. Rientrò in casa e trovò la famiglia rannicchiata tutta assieme in quello che fungeva da soggiorno, sebbene contenesse anche due piccoli letti. I genitori nascondevano dietro di sé un ragazzo e una bambina, come temendo che lo sguardo di David potesse far loro del male. Con il suo metro e novanta di statura, lui li sovrastava come un gigante e il suo fisico massiccio occupava quasi del tutto la porta bloccando gli ultimi raggi del sole morente. Ai loro occhi poteva apparire come un mostro, un alieno, l’esemplare di una specie completamente diversa. David si rivolse alla donna: «Non ho intenzione di farvi del male. Lei parla inglese?» «Sì. Un po’. Vendo pesce al mercato». «Bene. Ho bisogno d’aiuto. È molto importante. Una donna e due bambini sono in serio pericolo. La prego, chieda a suo marito se è disposto ad aiutarmi». 30 Quartier generale Immari Giacarta Giacarta, Indonesia Martin Grey entrò nella stanza con circospezione, guardando Dorian Sloane come se fosse un’apparizione. Il direttore dell’Immari Security stava in fondo all’ufficio d’angolo di Martin, al sessantaseiesimo piano del quartier generale dell’Immari Giacarta. Contemplava il Mar di Giava e l’andirivieni delle imbarcazioni. Grey pensò che non si fosse accorto del suo arrivo, così quando parlò lo colse alla sprovvista. «Sorpreso di vedermi, Martin?». Solo allora Martin si rese conto che il vetro attraverso il quale guardava Sloane aveva riflesso la sua immagine nel momento in cui varcava la soglia. Fu su quel vetro che ora vide gli occhi del suo superiore. Erano freddi, calcolatori, penetranti, gli occhi di un predatore che osserva la sua preda, che aspetta il momento buono per colpire. Il riflesso incompleto gli nascondeva il resto del volto. Teneva le mani giunte dietro la schiena. Il suo lungo trench nero era così fuori posto in un luogo come Giacarta, dove caldo e umidità costringevano persino gli impiegati di banca a un abbigliamento meno formale. Solo le guardie del corpo o chi avesse qualcosa da nascondere si copriva così tanto. Martin cercò di mostrarsi disinvolto. Andò alla scrivania in rovere al centro del gigantesco ufficio. «Per la verità, sì. Temo che tu mi abbia preso in un momento non molto felice…». «Lascia stare. So tutto, Martin». Sloane si girò lentamente e parlò con calma senza mai staccare gli occhi da Martin mentre gli si avvicinava. «So della tua piccola battuta di pesca tra i ghiacci dell’Antartide. Dei tuoi maneggi in Tibet. Dei bambini. Del rapimento». Martin cambiò rotta con l’intenzione di girare intorno alla scrivania, mettere dello spazio tra sé e Sloane, il quale sterzò a sua volta arrivandogli di lato. Decise di accettare la sfida, non sarebbe indietreggiato, a costo di farsi tagliare la gola nel suo ufficio. Resse lo sguardo del suo superiore mentre rifletteva sul suo aspetto fisico. Quella faccia magra dai tratti forti portava i segni della vita dura che aveva condotto, era la faccia di una persona che conosceva il dolore. Sloane fermò la sua minacciosa avanzata quando fu a un metro da lui. Abbozzò un sorriso, come se sapesse qualcosa di cui Martin non era a conoscenza, come se gli avesse teso una trappola e stesse solo aspettando. «Lo avrei scoperto prima, ma sono stato parecchio occupato con questa faccenda della Clocktower. Però credo che tu lo sappia già». «Ho visto i rapporti, sì. Sfortunato e improvvido, certo. E, come ho detto, anch’io sono stato più che impegnato». A Martin cominciarono a tremare leggermente le mani. Se le nascose in tasca. «Avevo programmato di rivelare questi sviluppi recenti in Antartide e in Cina…». «Attento, Martin. La tua prossima bugia potrebbe essere l’ultima». Lui deglutì a vuoto e si diede tempo per riflettere. «Ho una sola domanda da farti, vecchio. Perché? Ho raccolto tutti questi segnali che hai lasciato in giro e ancora non riesco a vedere dove vuoi andare a parare». «Non ho tradito il mio voto. Il mio obiettivo è il nostro obiettivo. Scongiurare una guerra che entrambi sappiamo di non poter vincere». «Allora siamo d’accordo. È arrivato il momento di lanciare il Protocollo Toba». «No. C’è un altro modo, Dorian. È vero, ho tenuto per me questi… questi sviluppi, ma avevo le mie buone ragioni. Era prematuro parlarne, ancora non sapevo se avrebbero funzionato». «E infatti non hanno funzionato. Ho letto i rapporti arrivati dalla Cina, tutti gli adulti sono morti. E non c’è più tempo». «È vero, il test è fallito, ma solo perché abbiamo usato la terapia sbagliata. Kate ha usato un altro sistema, all’epoca noi ancora non lo sapevamo, ma me lo spiegherà. Domani a quest’ora potremmo essere nelle tombe. Potremmo conoscere finalmente la verità». Era un’affermazione azzardata e Martin si meravigliò quando vide Sloane distogliere lo sguardo. Passò un momento poi Sloane si girò e tornò verso le vetrate, fermandosi dove si era fatto trovare quando Martin era entrato in ufficio. «Conosciamo già la verità. E quanto a Kate e la sua nuova terapia… hai preso i suoi bambini. Non parlerà». «Con me sì». «Credo di conoscerla meglio di te». Martin si sentì salire il sangue alla testa. «Hai già aperto il sommergibile?», chiese Sloane. Il tono pacato della sua voce era infido. Martin si stupì della domanda. Lo stava mettendo alla prova? Oppure pensava… «No», rispose. «Stiamo applicando un protocollo di quarantena più esteso, giusto per non correre rischi inutili. Mi dicono che il sito è quasi sicuro». «Voglio essere presente quando lo aprono». «È rimasto sigillato per più di settant’anni, niente può essere…». «Voglio esserci». «Naturalmente. Il sito sarà informato». Martin allungò la mano verso il telefono. Stentava a credere che gli venisse offerta quella via d’uscita. La speranza fu come una boccata d’aria fresca dopo essere rimasto sott’acqua tre minuti di troppo. Compose velocemente un numero. «Glielo potrai dire quando saremo là». «Non chiedo di meglio…». Sloane si girò verso di lui. Sul suo viso era riapparsa l’espressione minacciosa di prima. I suoi occhi penetrarono come lame in quelli di Martin. «La mia non è una richiesta. Apriremo il sommergibile insieme. Non ti perderò più di vista finché non sarà tutto finito». Martin posò il ricevitore. «Molto bene. Ma prima devo parlare con Kate». Prese fiato, raddrizzò la schiena. «E questa volta sono io che non lo sto chiedendo. Tu hai bisogno di me, lo sappiamo tutti e due». Sloane, che si era di nuovo voltato verso il vetro, guardò Martin attraverso il riflesso. E lui ebbe l’impressione di vedere un sorrisetto sfiorargli le labbra. «Ti concedo dieci minuti con lei. E quando non avrai cavato un ragno dal buco, partiremo per l’Antartide e la lasceremo alle persone giuste che sapranno farla parlare». 31 Villaggio di baracche sul fiume Giacarta, Indonesia David aspettò che gli uomini dell’Immari Security si voltassero e corse nella casa in fondo alla fila. Era un’abitazione di cinque locali e l’aveva scelta specificamente per la sua disposizione interna. Gli uomini controllarono le stanze muovendosi con gesti rapidi e meccanici. Varcavano ogni soglia con la pistola spianata, voltandosi di scatto prima a sinistra e poi a destra. David li ascoltò dal suo nascondiglio. «Libero. Libero. Libero. Libero. Libero». Sentì i loro movimenti che rallentavano mentre uscivano dall’abitazione che avevano appena finito di controllare. Quando il secondo uomo gli passò accanto, lui gli scivolò silenziosamente alle spalle, gli coprì la bocca con lo straccio inumidito e aspettò che il cloroformio gli riempisse bocca e narici. L’uomo si dibatté cercando disperatamente di afferrare David mentre perdeva la sensibilità nelle membra. La pressione che David gli esercitava sulla bocca gli impedì di emettere anche il minimo suono. Pochi attimi dopo l’uomo si accasciò e David si chinò, abbandonandolo sul pavimento. Stava per occuparsi dell’altro, quando sentì entrare in funzione la ricetrasmittente del suo compagno. «Squadra ricognizione cinque, attenzione, la Clocktower riferisce che qualcuno ha usato un deposito distaccato presente nella vostra area. Si ritiene che il bersaglio sia nelle vicinanze e potrebbe essere in possesso di armi ed esplosivi prelevati dal deposito. Procedere con prudenza. Stiamo inviando unità di rinforzo». «Cole? Hai sentito?». David era accovacciato sopra l’uomo che aveva appena neutralizzato e che doveva essere Cole. «Cole?», chiamò di nuovo il suo compagno dalla stanza accanto. David sentì lo scricchiolio del sudiciume sotto i suoi stivali. Ora camminava lentamente, come se stesse attraversando un campo minato dove ogni passo poteva essere l’ultimo. Nel momento in cui David si stava rialzando, fece irruzione puntandogli la pistola al petto. David si gettò su di lui. Caddero al suolo allacciati in un corpo a corpo. David gli sbatté la mano armata sul pavimento, facendogli schizzar via la pistola che finì contro il muro. Il suo avversario lo respinse e cominciò a strisciare verso la parete per recuperarla, ma David gli fu sopra prima che potesse fare molta strada, gli passò il braccio intorno al collo e cominciò a stringergli la gola nell’incavo del gomito. Gli piazzò l’altra mano tra le scapole e, aumentando la pressione, sentì che la sua preda cominciava ad avere difficoltà a respirare. Ancora poco. Divincolandosi e annaspando con una mano per cercare di afferrargli il braccio con cui gli stringeva il collo, l’uomo dell’Immari si portò l’altro braccio verso la gamba per cercare di prendere… cosa? Poi David glielo vide in mano: un coltello sfilato dallo stivale. Un colpo vibrato alla cieca trovò casualmente il suo fianco. David sentì il tessuto strapparsi e vide il sangue sulla lama che l’altro aveva estratto per piantargliela nel corpo una seconda volta. Mancò il bersaglio e la lama gli scivolò sul fianco senza ferirlo. David staccò la mano dalla sua schiena e gli afferrò la testa. Usando come fulcro la presa con cui gli stringeva il collo, gli torse la testa con uno strattone violento. Si sentì uno schiocco e l’uomo dell’Immari si accasciò sul pavimento. David rotolò sulla schiena accanto al mercenario morto e fissò il soffitto su cui due mosche si rincorrevano. 32 Quartier generale Immari Giacarta Giacarta, Indonesia Gli uomini di Martin avevano portato Kate in un profondo sotterraneo e da lì alla fine di un lungo corridoio che dava in quello che sembrava un acquario molto grande. La vetrata era alta almeno cinque metri, per una lunghezza di venti. Sulle prime Kate non capì che cosa stava vedendo. La scena al di là del vetro era chiaramente quella del fondo della baia di Giacarta, ma a lasciarla confusa erano gli esseri che l’abitavano. Credette sulle prime che quelle che vedeva scendere verso il fondo e poi risalire verso la superficie fossero creature marine fosforescenti, come le meduse. Ma le luci erano sbagliate. Si avvicinò ancora. Sì, erano dei robot. La facevano pensare a granchi meccanici, con fari snodabili al posto degli occhi e quattro arti, ciascuno provvisto di tre dita metalliche. Si calavano nel fondo marino e ne emergevano reggendo qualcosa. Cosa diavolo recuperavano? «Le nostre tecniche di scavo sono all’avanguardia». Kate si girò. A parlare era stato il padre adottivo. L’espressione del suo viso la preoccupò. Lo trovò stanco, depresso, rassegnato. «Martin, ti prego, spiegami cosa sta succedendo. Dove sono i bambini che hanno portato via dal mio laboratorio?» «In un posto sicuro, per ora. Non abbiamo molto tempo, Kate. Devo farti qualche domanda. È molto importante che tu mi dica che terapia hai usato con quei bambini. Sappiamo che non era l’ARC-247». Come faceva a saperlo? E perché gli interessava conoscere la terapia a cui li aveva sottoposti? Kate cercò di pensare. C’era qualcosa di strano. Cosa sarebbe successo se gli avesse risposto con sincerità? Quel militare, David, aveva forse ragione? In quegli ultimi quattro anni Martin era stato l’unico di cui Kate si era concessa di fidarsi ciecamente. Era sempre stato occupato nel suo lavoro, un tutore legale più che un padre adottivo, ma tutte le volte che aveva avuto bisogno di lui, non si era fatto negare. Non era possibile che si fosse macchiato di quel rapimento. Eppure… c’era qualcosa che non andava… «Ti dirò della terapia, ma prima voglio riavere i bambini», gli rispose. Martin l’affiancò davanti al vetro. «Ho paura che non sia possibile, ma ti do la mia parola: li proteggerò. Devi fidarti di me, Kate. Ci sono in gioco molte vite». “Proteggerli da cosa?”. «Voglio sapere cosa sta succedendo qui, Martin». Lui si staccò, camminò per qualche passo come meditando. «E se, per esempio, ti dicessi che da qualche parte in questo mondo c’è un’arma di potenza inimmaginabile? Un’arma capace di cancellare l’intera razza umana dalla faccia della Terra. E che la terapia che hai adottato per quei bambini è la nostra unica speranza di sopravvivenza, il nostro unico mezzo per resistere agli effetti di quest’arma?» «Ti risponderei che è un’ipotesi del tutto inverosimile». «Ah davvero? Sei troppo esperta di evoluzione per non sapere che non è così. Il genere umano non è neppure lontanamente al sicuro quanto ci piace pensare». Indicò la parete trasparente dell’acquario e uno dei robot che stava scendendo sul fondo. «Secondo te cosa sta succedendo lì?» «Cercano un tesoro? Forse un mercantile affondato». «A te sembra una caccia al tesoro?». Quando Kate non disse niente, continuò. «E se ti dicessi che lì sotto è sprofondata un’antica città costiera? E che era solo una delle tante in tutto il mondo. Circa tredicimila anni fa quasi tutta l’Europa era sotto una crosta di ghiaccio alta tre chilometri. La città di New York era coperta di uno strato alto un chilometro e mezzo. Nel giro di poche centinaia di anni i ghiacciai si sono sciolti e il livello del mare si è alzato di quasi centocinquanta metri inghiottendo tutti gli insediamenti costieri del pianeta. Ancora oggi quasi metà della popolazione mondiale vive entro 150 chilometri dalla costa. Immagina quante fossero le persone che vivevano lungo le coste in quelle epoche in cui la fonte di cibo più affidabile erano i pesci e i mari rappresentavano le linee commerciali più agevoli. Pensa agli insediamenti e alle prime città che sono andati perduti per sempre, pensa a tutta la storia che non riusciremo mai a ricostruire. L’unico elemento superstite di questo avvenimento è la storia del diluvio universale. Gli uomini sopravvissuti allo scioglimento dei ghiacciai volevano avvertire le generazioni future. Il racconto del diluvio universale è un fatto storico, è dimostrato dai ritrovamenti geologici, e non compare solo nella Bibbia, ma anche in tutti i testi recuperati che la precedono e la seguono. Tavolette cuneiformi dell’impero di Akkad, testi lasciatici dai sumeri, reperti delle antiche civiltà indigene americane, tutti raccontano dell’inondazione, ma nessuno sa che cosa c’era prima». «È di questo che si tratta? Della ricerca delle città costiere andate perdute? Atlantide?» «Atlantide non è quello che pensi. Il mio presupposto è che c’è ancora così tanto sotto la superficie, così tanto della nostra storia che ancora non conosciamo. Pensa a cos’altro è andato perduto all’epoca. Noi sappiamo che fino al momento dell’inondazione erano ancora viventi almeno due specie di umani, forse tre, ma forse anche di più. Non molto tempo fa a Gibilterra abbiamo trovato ossa dell’uomo di Neanderthal vecchie di ventitremila anni. Potremmo trovarne di ancora più recenti. Abbiamo rinvenuto anche ossa che avevano solo dodicimila anni, risalenti quindi più o meno all’epoca dell’inondazione, a meno di 150 chilometri da dove ci troviamo noi ora, non lontano dall’isola principale di Giava, Flores. Pensiamo che questi umanoidi piccoli come Hobbit abbiano calcato il suolo della Terra per quasi trecentomila anni. Poi all’improvviso, dodicimila anni fa, sparirono. L’uomo di Neanderthal è il risultato di un’evoluzione durata seicentomila anni ed è vissuto sulla Terra per un periodo quasi tre volte più lungo del nostro prima di estinguersi. È una storia che conosci anche tu». «Sai che la conosco e non vedo cos’abbia a che fare tutto questo con il rapimento dei miei bambini». «Secondo te perché gli uomini di Neanderthal e gli Hobbit sono scomparsi? Erano presenti già da molto tempo prima che entrassero in scena gli esseri umani». «Li abbiamo uccisi». «Giusto. La razza umana è la specie più sterminatrice di tutti i tempi. Pensaci: la sopravvivenza è al primo posto nel codice genetico. Persino i nostri più antichi antenati erano governati da questo impulso, tanto forte da riconoscere negli uomini di Neanderthal e negli Hobbit dei pericolosi nemici. Possono aver decimato le altre sottospecie umane, e questa vergognosa eredità è ancora attiva dentro di noi. Aggrediamo tutto ciò che è diverso, tutto quello che non capiamo, tutto quello che potrebbe cambiare il nostro mondo, il nostro ambiente, tutto quello che potrebbe ridurre le nostre probabilità di sopravvivenza. Razzismo, lotta di classe, sessismo, Est contro Ovest, Nord contro Sud, capitalismo e comunismo, democrazia e dittatura, Islam e cristianesimo, Israele e Palestina: sono tutte facce diverse della medesima guerra, quella che ha per fine l’omogeneizzazione della razza umana, la fine della diversità. È una guerra che abbiamo cominciato molto tempo fa, una guerra che non abbiamo mai smesso di combattere. Una guerra che agisce nella mente di ogni essere umano sotto il livello della coscienza, come un programma di computer, sempre in funzione in background, e ci guida verso un esito finale che non ci è noto». Kate non sapeva cosa dire, non vedeva perché dovessero essere coinvolti la sua ricerca e i suoi bambini. «Ti aspetti che creda che quei due abbiano a che vedere con un’epocale lotta cosmica intrapresa dal genere umano?» «Sì. Pensa alla guerra tra gli ominidi di Neanderthal e gli umani. La battaglia tra gli Hobbit e gli umani. Perché abbiamo vinto noi? L’uomo di Neanderthal aveva un cervello più grande del nostro ed era sicuramente più robusto e più forte. Ma il nostro cervello era strutturato in maniera diversa. La nostra mente era costruita in modo da poter creare utensili più efficienti, risolvere problemi e anticipare il futuro. Il nostro software mentale ci avvantaggiava, ma ancora non sappiamo da dove ci era arrivato. Cinquantamila anni fa eravamo anche noi animali come loro. Ma il Grande balzo in avanti ci ha messo a disposizione un’arma intellettuale che ancora non abbiamo compreso. L’unica cosa che sappiamo con certezza è che c’è stato un mutamento nella struttura del cervello, forse un nuovo modo di usare il linguaggio e comunicare. Una svolta improvvisa. Tutto questo lo sai anche tu. Eppure… se fosse in atto un nuovo mutamento? Il cervello di quei bambini funziona in una maniera diversa. Sai anche tu come agisce l’evoluzione. Non procede mai in linea retta. Opera secondo una strategia fatta di prove ed errori. I cervelli di quei bambini potrebbero essere semplicemente una nuova versione del sistema operativo della mente umana, come dire la nuova versione di Windows o del Mac OS, una versione più moderna, più veloce, con delle capacità superiori a quelle precedenti, vale a dire noi. E se quei bambini o altri come loro fossero i primi esemplari di un nuovo ramo che sta spuntando nell’albero genetico umano? Una nuova sottospecie. E se in qualche angolo del pianeta ci fosse un gruppo già in possesso del nuovo aggiornamento del software? Che trattamento pensi che riserverebbero a noi, che siamo gli umani di prima? Forse come noi abbiamo trattato gli ultimi umanoidi che non erano intelligenti quanto noi, gli uomini di Neanderthal e gli Hobbit». «Stai sostenendo una tesi assurda», protestò Kate. «Quei bambini non possono essere una minaccia per noi». Osservò meglio Martin e lo trovò diverso. C’era qualcosa nei suoi occhi che non riusciva a interpretare. E le cose che stava dicendo, tutto quel gran parlare di genetica e storia dell’evoluzione… erano cose che conosceva già, ma allora perché? «Potrebbe sembrare così, ma come facciamo a esserne certi?», obiettò Martin. «Per quel che sappiamo del passato, ogni razza umana più evoluta ha cancellato tutte le tracce di quelle che considerava minacce. Per questa volta i predatori siamo stati noi, ma la prossima potremmo essere la preda». «Allora vorrà dire che affronteremo il problema quando ci si presenterà». «Ci si è già presentato, solo che non lo sappiamo. È l’essenza stessa del Problema della Cornice: in un ambiente complesso, non possiamo semplicemente conoscere le conseguenze delle nostre azioni, per quanto buone possano sembrare. Ford credeva di creare uno strumento per il trasporto di massa. Ha regalato al mondo anche il mezzo per distruggere l’ambiente». Kate scosse la testa. «Dovresti sentirti, Martin. Sembri impazzito, in preda alle allucinazioni». Lui sorrise. «È quello che ho detto anch’io quando tuo padre mi ha fatto lo stesso discorso». Lei fu colta in contropiede da quell’affermazione. Era una menzogna, non poteva essere altrimenti. Come minimo era un diversivo, un modo subdolo per conquistare la sua fiducia, uno sforzo per ricordarle che lui era stato tanto generoso da assumersi la responsabilità del suo benessere. Lo guardò dritto negli occhi. «Mi stai dicendo che hai rapito quei bambini per ostacolare l’evoluzione?» «Non esattamente. Kate, non posso spiegarti tutto. Mi spiace, vorrei davvero poterlo fare. Posso solo dirti che quei bambini posseggono la chiave con cui impedire una guerra che annienterà la razza umana. Una guerra che è andata preparandosi fin dal giorno in cui, sessanta o settantamila anni fa, i nostri antenati lasciarono l’Africa. Devi fidarti. Ho bisogno di sapere che cosa hai fatto». «Cos’è il Protocollo Toba?». Martin sembrò confuso. Oppure era spaventato? «Dove… ne hai sentito parlare?» «Il militare che mi ha prelevato dalla stazione di polizia. C’entri anche tu in questa cosa di Toba?» «Toba… è una contromisura d’emergenza». «E tu c’entri?». La voce di Kate era salda, ma dentro di sé temeva di dover sentire la risposta che non voleva. «Sì, ma… forse non ci sarà bisogno di Toba. Se vorrai parlare con me, Kate». Da una porta laterale che prima non aveva notato, entrarono quattro uomini armati. Martin si girò bruscamente verso di loro. «Non ho ancora finito di parlare con lei!». Due di loro presero Kate per le braccia e la portarono fuori, trascinandola per il lungo corridoio che aveva percorso per andare a incontrare il padre adottivo. Lo sentì dietro di sé discutere con gli altri due. «Il dottor Sloane ci ha detto di informarla che il suo tempo è scaduto. La donna non parlerà e comunque ormai sa troppo. La sta aspettando alla piattaforma di decollo». 33 Villaggio di baracche sul fiume Giacarta, Indonesia David schiaffeggiò di nuovo Cole e lo fece rinvenire. Non poteva avere più di venticinque anni. Il giovane lo osservò per un momento con occhi velati, che si spalancarono di colpo quando lo mise a fuoco. Cercò di ritrarsi, ma David lo teneva inchiodato. «Come ti chiami?». Il giovane si guardò in giro in cerca di aiuto o di una via di fuga. «William Anders», biascicò. David lo perquisì ma non gli trovò armi addosso. «Guardami. Vedi come sono vestito? Riconosci la tenuta?». Si alzò perché il giovane potesse vedere bene il completo da combattimento dell’Immari che indossava. «Seguimi», gli ordinò. Il giovane si tirò su un po’ traballante e lo seguì nell’altra stanza, dove il suo compagno giaceva morto, con la testa girata in un’angolazione innaturale. «Lui mi ha risposto con una balla. Adesso te lo chiedo solo un’altra volta. Come ti chiami?». Il giovane si appoggiò allo stipite e deglutì per aprirsi la gola improvvisamente serrata. «Cole. Bryant di cognome». «Così va meglio. Di dove sei, Cole Bryant?» «Delle forze speciali dell’Immari Security, filiale di Giacarta». «No, di dove sei come origine?» «Cosa?». Il giovane mercenario sembrò confuso. «Dove sei cresciuto?» «In Colorado. A Fort Collins». Il ragazzo stava cominciando a riaversi. Presto sarebbe diventato pericoloso. David doveva scoprire se aveva la personalità giusta per quello che aveva in mente. «Hai famiglia laggiù?». Cole indietreggiò di qualche passo. «No». Mentiva. Molto promettente. Ora David doveva indurlo a credergli. «Lo fanno dolcetto o scherzetto a Fort Collins?» «Cosa?». Cole indietreggiò di un altro passo. «Fermati», gli ordinò David in tono autoritario. «Quella cosa che ti preme dietro la schiena. La senti?». Il giovane si toccò la regione lombare, cercando di infilare una mano sotto il giubbotto. Era sempre più confuso. David andò ad aprire una sacca che c’era nell’angolo della stanza e gli mostrò alcuni panetti rettangolari, di colore marrone, che sembravano plastilina avvolti nel cellophane. «Sai cos’è questo?». Cole annuì. «Ti ho legato una piccola fila di questi esplosivi lungo la spina dorsale. Li controllo con questo telecomando». David alzò la mano sinistra e gli mostrò un cilindretto delle dimensioni di due batterie ministilo. In cima c’era un pulsante rosso che teneva schiacciato con il pollice. «Sai cos’è questo?». Il ragazzo trasalì. «È un dispositivo vigilante». «Molto bene, Cole. Questo è un grilletto che scatta se viene rilasciato». Si rialzò mettendosi in spalla la sacca. «Se stacco il pollice da questo pulsante, quegli ordigni scoppiano e trasformano i tuoi organi interni in una pappetta gelatinosa. Tieni presente che non c’è abbastanza esplosivo perché possa esserne coinvolto io, non basta nemmeno a passare attraverso il tuo giubbotto. Io potrei esserti di fianco o davanti e se qualcuno mi sparasse o mi ferisse gravemente, la detonazione liquefarebbe i tuoi organi interni lasciando intero solo il guscio, come quegli ovetti di Pasqua con il ripieno di crema. Ti piacciono le uova di Pasqua con la crema, Cole?». Adesso si vedeva che il giovane era spaventato a morte. Cole abbozzò un gesto negativo con la testa. «Davvero? Pensa che, quand’ero bambino, io ne andavo matto. Quando veniva Pasqua non vedevo l’ora di averne uno. Mia madre arrivava a mettere da parte un po’ di quelle piccole da darmi a Halloween quando rientravo dai miei dolcetto o scherzetto. E non vedevo l’ora di tornare a casa per aprirne uno. Quel cioccolato era delizioso». Lo sguardo di David si perse nel vuoto ricordando il gustoso sapore degli ovetti di Pasqua. Tornò a guardare il giovane. «Ma tu non vuoi diventare un uovo ripieno, vero, Cole?». 34 Quartier generale Immari Giacarta Giacarta, Indonesia Martin uscì dall’ascensore sulla piattaforma di decollo. Il sole era quasi scomparso del tutto. Il cielo era rosso e sul tetto dell’edificio di ottanta piani il vento soffiava dal mare portando odore di salmastro. Dorian Sloane lo aspettava con tre dei suoi uomini. Quando Sloane lo vide, si girò a segnalare al pilota dell’elicottero di cominciare la sequenza per il decollo. Il motore fu avviato e le pale del rotore cominciarono a girare. «Te l’avevo detto che non avrebbe parlato», furono le prime parole di Sloane. «Ha bisogno di tempo». «Non servirà». Martin strinse i denti. «La conosco molto meglio di te…». «Questo è discutibile…». «Di’ un’altra parola e te lo faccio rimpiangere». Nel rombo dell’elicottero Martin aveva dovuto quasi gridare. «Ha bisogno di tempo, Dorian. Parlerà. Ti esorto a non farlo». «Sei stato tu a creare questa situazione, Martin. Io sto solo facendo pulizia». «Abbiamo tempo». «Sappiamo tutti e due che non è vero. Lo hai detto tu stesso. E le altre cose che hai detto mi hanno quasi divertito. Pensavo che ce l’avessi con me perché non ti piacciono i miei metodi e i miei piani». «Non mi piaci per quello che le hai fatto…». «Che è un decimo di quello che lei ha fatto alla mia famiglia». «Lei non ha niente a che vedere con…». «Concordiamo nell’essere in disaccordo, Martin. E occupiamoci di quello che dobbiamo fare». Sloane lo arpionò per un braccio e lo condusse lontano dall’elicottero dove sarebbe stato più facile parlare. E, rifletté Martin, dove i suoi uomini non avrebbero potuto udirli. «Ascolta, Martin, voglio fare un patto con te. Rimanderò il Protocollo Toba finché non sapremo se questo sistema può funzionare. Tu lasciaci lavorare la ragazza e noi otterremo ciò di cui abbiamo bisogno in un’ora, massimo due. Se partiamo adesso per l’Antartide, ora che torniamo avremo le informazioni che ci servono. Potremo collaudare un vero retrovirus del Gene di Atlantide entro otto ore. E guarda che so che stai cercando una via per entrare». Martin aprì la bocca per ribattere, ma Dorian glielo impedì alzando una mano. «Non disturbarti a negarlo, ho un uomo nella squadra. Entro ventiquattr’ore tu e io potremo entrare insieme nelle tombe. Senza Toba. È l’unica carta che hai da giocare. Lo sappiamo tutti e due». «Voglio la tua parola che non le sarà fatto del male… del male permanente». «Martin, diamine. Non sono un mostro. Abbiamo solo bisogno di sapere quello che sa lei. Non le farei mai del male permanente». «Concorderemo nell’essere in disaccordo su questo punto», rispose Martin. «E adesso è meglio che andiamo. Arrivare al sito dell’Antartide è abbastanza complicato». Mentre raggiungevano l’elicottero, Sloane prese in disparte uno dei suoi. «Tirate Tarea fuori da quella cella e ditegli di scoprire che cosa ha fatto la Warner a quei bambini». 35 Quartier generale Immari Giacarta Giacarta, Indonesia Stavano viaggiando in silenzio da quasi dieci minuti. «Dimmi un po’, Cole», chiese David, «com’è che un ragazzo di Fort Collins finisce all’Immari Security?». Cole, che era al volante, continuò a guardare diritto davanti a sé. «Lo dici come se fosse una cosa brutta». «Non hai idea quanto». «Dice quello che ha ammazzato il mio compagno e mi ha incollato una bomba alla schiena». Cole non aveva tutti i torti. Ma David non poteva spiegare, avrebbe perso il vantaggio. Certe volte bisogna fare i cattivi per salvare i buoni. Proseguirono in silenzio fino alla sede dell’Immari Giacarta, un complesso di sei palazzine circondate da un’alta recinzione sormontata da filo spinato. C’erano guardiole a ogni ingresso. David indossò elmetto e occhiali e consegnò a Cole il tesserino dell’uomo che aveva ucciso. All’entrata la guardia uscì dalla sua postazione e chiese che si identificassero. Cole gli consegnò due tesserini dell’Immari. «Bryant e Stevens». «Grazie, coglione», rispose la guardia. «È solo da quarant’anni che ho imparato a leggere». Cole alzò una mano in segno di scusa. «Cercavo solo di essere d’aiuto». La guardia si chinò a guardare dentro. «Togliti l’elmetto», ordinò a David. David ubbidì continuando a guardare davanti a sé, poi si girò di tre quarti sperando di passare l’esame, e che il controllo supplementare fosse solo un blando atto di nonnismo professionale o l’eccesso di un militare che si sente insicuro. La guardia riesaminò la tessera e tornò a fissare David. Ripeté il confronto due o tre volte. «Un momento», disse poi rientrando di corsa in guardiola. «È normale?», chiese David a Cole. «Mai successo prima». La guardia era al telefono. Stava componendo un numero con gli occhi incollati sui due uomini in macchina. In un lampo David estrasse la pistola e si protese dalla parte della guardiola. L’uomo lasciò cadere il ricevitore e abbassò la mano alla pistola che aveva al fianco. David sparò un solo colpo ferendolo alla spalla sinistra, appena sopra il giubbotto. La guardia crollò all’interno del casotto. Se la sarebbe cavata, ma probabilmente i suoi modi di fare non sarebbero migliorati. Cole lanciò un’occhiata a David, poi diede gas partendo come un razzo in direzione della palazzina del quartier generale. «Fermati all’ingresso posteriore, vicino all’imbarcadero». David si voltò a prelevare un pacchetto pieno di esplosivi dal sedile posteriore. Poi fece cadere sul fondo dell’abitacolo la sacca con le altre cariche. In lontananza si sentirono le sirene diffondere il loro suono lamentoso all’interno dell’area recintata. Entrarono nell’edificio da una porta incustodita, riservata ai fornitori. David piazzò una carica sul muro accanto alla porta. Digitò un codice sul detonatore, che cominciò a mandare segnali a intermittenza. Era difficile operare con una mano sola, ma doveva continuare a tenere il pollice sul pulsante per salvare la vita a Cole. Imboccarono un corridoio, nel quale David piazzò esplosivi ogni sette o otto metri. David aveva scelto di non rivelare nulla a Cole prima che fossero arrivati: il suo prigioniero avrebbe forse trovato un modo per comunicare le informazioni al quartier generale, ma c’era comunque sempre il rischio di essere intercettati. Adesso però non poteva più rimandare. «Senti, Cole», disse, «qui dentro tengono prigioniera una donna da qualche parte. La dottoressa Kate Warner. Dobbiamo trovarla». Cole esitò solo per un momento. «Le celle di detenzione e le stanze per gli interrogatori sono al centro dell’edificio, al quarantasettesimo piano», rispose. «Ma anche se la tengono lì e riesci a farla uscire dalla stanza dove si trova, dall’edificio non uscirai mai. Stanno già arrivando quelli della sicurezza e solo qui dentro ci sono decine di agenti. Senza contare gli operativi che sono rientrati». Cole indicò il dispositivo stretto nella mano sinistra di David. «Cosa sarà di me se…». «Ci sono attrezzature per gli operativi in questo edificio?» «Sì, c’è l’armeria principale al terzo piano, ma è praticamente vuota. Per far fuori te, oggi hanno messo in campo un intero reggimento». «Non importa, non hanno certamente preso quello che serve a me. Quando avremo recuperato la ragazza, ti darò questo dispositivo. Hai la mia parola, Cole. Poi io me ne andrò per conto mio». Cole annuì una sola volta. «C’è una scala di servizio senza telecamere», disse poi. «Una cosa, prima che andiamo». David aprì un ripostiglio e appiccò fuoco a una scatola. In pochi secondi le fiamme risalirono lungo i montanti degli scaffali di legno, verso il rilevatore di fumo applicato al soffitto. Partirono gli allarmi antincendio mentre dappertutto cominciavano a lampeggiare i LED, le porte si spalancavano e la gente si riversava fuori sotto la pioggia improvvisa degli irroratori. «Adesso possiamo andare». 36 Quartier generale Immari Giacarta Giacarta, Indonesia In ascensore Kate aveva lottato cercando di divincolarsi dalla presa a tenaglia con cui le guardie le bloccavano le braccia. La tennero inchiodata alla parete della cabina finché non furono arrivati al piano, poi la trasportarono in una stanza in cui c’era una sedia reclinabile simile a quelle dei dentisti. Ve la legarono sopra divertendosi a schernirla. «Il dottore arriva subito», l’apostrofarono con sarcasmo. E uscirono ridendo. Ora aspettava. Il sollievo iniziale che aveva provato nel vedere Martin le sembrava antico di un milione d’anni. La paura cominciò a insidiarla. Le cinghie le stringevano le braccia poco sopra le ferite che le erano rimaste dalle fascette di plastica. Le pareti della stanza erano di un bianco accecante e oltre alla sedia c’era solo un tavolo con il ripiano d’acciaio, con sopra un fagotto arrotondato. Riusciva a vederlo a fatica da dove si trovava, costretta dalle cinghie a guardare in su, negli sfrigolanti tubi al neon. Si aprì la porta. Kate allungò il collo per cercare di vedere. Era lui, era l’uomo che aveva preso i bambini. L’uomo che l’aveva prelevata dal furgone. Sorrideva. Era un sorriso cattivo, il suo, di quelli che vogliono dire: “Adesso sei mia”. Si fermò di fianco a lei. «Mi hai creato un sacco di guai oggi, piccola mia. Ma la vita è costellata di seconde occasioni». Andò al tavolo d’acciaio ad aprire il fagotto. Con la coda dell’occhio, Kate riuscì a distinguere a malapena il luccichio di utensili d’acciaio, lunghi e appuntiti. Lui le lanciò un’occhiata da sopra la spalla. «Ma chi sto cercando di prendere in giro? La mia esperienza mi dice che la vita è prima di tutto uno scambio». Scelse uno dei suoi strumenti di tortura, una versione ridotta di uno spiedo da griglia. «Adesso tu mi dirai quello che mi serve sapere e io spero che ci vorrà quanto più tempo è fisicamente possibile». Entrò un altro uomo. Indossava una giacca bianca e aveva in mano qualcosa che Kate non riuscì a vedere, forse una siringa. «Cosa stai facendo?», chiese all’aguzzino. «Comincio. E tu?» «No no, prima la droghiamo. Gli ordini sono questi». «Non sono i miei». Inerme, Kate poté solo guardare i due uomini che si fronteggiavano, uno con lo spiedo d’acciaio, l’altro con la siringa. «Non c’è problema», disse alla fine quello con la siringa. «Io le do questo, poi tu fai quello che vuoi». «Cos’è?» «Una cosa nuova che stiamo usando in Pakistan. In pratica ti spappola il cervello e poi ti fa dire tutto quello che uno vuole». «È permanente?», chiese l’aguzzino. «Qualche volta. Ci sono stati effetti collaterali di vario genere. Ci stiamo ancora lavorando». Conficcò l’ago dell’enorme siringa nel braccio di Kate e cominciò a iniettare lentamente. Lei sentì un liquido freddo scorrerle nelle vene. Lottò contro le cinghie, ma erano troppo strette. «Quanto tempo ci vuole?» «Dieci, quindici minuti». «Ricorderà?» «Probabilmente no». L’aguzzino posò il suo attrezzo sul tavolo e tornò da Kate. Le passò una mano sul petto e lungo le gambe. «Niente male. E con un bel caratterino. Magari dopo che hanno avuto le loro risposte mi ci lasciano giocare un po’». 37 Kate non sapeva quanto tempo fosse passato, non sapeva se avesse dormito o se ora fosse sveglia. Non provava dolore in nessuna parte del corpo. Non sentiva la tensione delle cinghie, non sentiva niente. Aveva una gran sete. Le luci erano accecanti. Girò la testa dall’altra parte, si passò la lingua sulle labbra. Che sete… La faccia dell’uomo brutto le riempì tutto il campo visivo. Le afferrò il mento e le rigirò la testa verso la luce. Kate strinse gli occhi. Quella faccia, così cattiva. Rabbiosa. «Direi che siamo quasi pronti per il nostro primo tête-à-tête, principessa». Si tolse qualcosa di tasca. Un foglio? «Prima però abbiamo un po’ di scartoffie da sbrigare. Un paio di domande. Numero uno: che cosa hai dato a quei bambini?». Le mostrò il foglio. «Ah, e qui c’è anche un appunto: “Sappiamo che non era A-R-C 24-7”, qualunque cosa sia. Sanno che non era quello, perciò non provarci. Allora, cos’era? Una risposta definitiva, per piacere». Kate cercò di opporsi al forte desiderio di rispondere. Scosse la testa da una parte e dall’altra, ma la sua mente era tornata in laboratorio, vedeva se stessa che preparava la soluzione, preoccupata che non funzionasse o che potesse danneggiare il loro cervello, ridurli a… dei vegetali… La droga che le avevano somministrato… Doveva assolutamente… «Cos’era? Diccelo». «Ho dato… ai miei piccoli…». Lui si chinò su di lei. «Parla più forte, principessa. Non ti sentiamo. Sono qui a registrare le tue risposte». «Ho dato… non potevo… ho dato ai miei piccoli…». «Sì, brava, cosa hai dato ai tuoi piccoli?» «Ho dato ai miei piccoli…». Lui si rialzò. «Dannazione, ma la sentite? Ha il cervello fritto». Andò a chiudere la porta. «È ora di passare al piano B». Fece qualcosa in un angolo della stanza. Kate non riusciva a concentrarsi. Poi un allarme, acqua che cascava dal soffitto. Luci che lampeggiavano, ancor più insopportabili di quelle di prima. Strinse gli occhi più che poteva. Quanto tempo era passato? Un rumore forte, altri in successione. Spari. La porta che esplodeva. L’uomo brutto cadde a terra sanguinante. Le sciolsero le cinghie, ma non riusciva a reggersi. Slittò dalla sedia sul pavimento come un bambino che scende da uno scivolo. Poi lo vide: era il militare del furgone. David. Aveva uno zaino dietro la schiena. Consegnò un piccolo oggetto a un altro uomo. L’altro uomo era impaurito. Schiacciò l’oggetto con il pollice. Le loro voci erano ovattate, come se Kate si trovasse sott’acqua. Il militare le prese la faccia fra le mani. Benevoli occhi castani incontrarono quelli di lei. «Gheit? Noui enti? Gheit?». Aveva le mani calde. L’acqua era fredda. Si inumidì le labbra con la lingua. Avrebbe dovuto berne un po’. Aveva ancora tanta sete. Il militare si ritrasse di scatto. Altri colpi d’arma da fuoco. Se ne andò. Tornò. «Acciami, Gheit». Le prese le braccia, ma lei non riusciva a muoverle. Ricaddero inerti sul pavimento. Pesavano come cemento. Lui tornò di corsa alla porta e lanciò qualcosa. Venne a prenderla, la sollevò tra le braccia, erano braccia forti. Si mise a correre. Davanti a loro una parete di vetro e acciaio esplose. Fu colpita da dei frammenti, ma non sentì dolore. Stavano volando. No, cadevano. Lui la teneva stretta, con un braccio solo adesso. Con l’altro armeggiava dietro di sé, cercava qualcosa. Poi urtarono qualcosa, rimbalzarono all’indietro. Lei volò, scivolò via dal suo abbraccio, ma lui la trattenne, sempre con un braccio solo. Lei penzolò mentre lui oscillava sopra di lei, sospeso con dei fili a una nuvola bianca. Non riusciva a tenerla, lei era troppo bagnata, aveva gli abiti bagnati. Stava cadendo. Lui la toccò con i piedi, le tastò la schiena e le costole. La mano di lui le risalì per il braccio e finalmente l’agganciò cingendola con le gambe. Lei era a faccia in giù e li vide. Uomini, colpi d’arma da fuoco, sotto… tutto lo spazio che vedeva si stava riempiendo. Altri uomini uscirono dalle palazzine e cominciarono a sparare. Una serie di bip sopra di lei. La base dell’edificio esplose spargendo nel parcheggio macerie e brandelli di esseri umani. Adesso il rumore di qualcosa che si strappava sopra di loro, cominciarono a cadere più in fretta. L’uomo si agitò e la loro traiettoria diventò obliqua, sempre più veloce, verso la baia. Altri rumori da sotto, motori che venivano avviati e scariche di armi da fuoco. Ruotarono nell’aria e Kate vide l’imbarcadero pieno di uomini armati. Bip in rapida successione da sopra. Nel parcheggio un’automobile scomparve in un’enorme nube di fuoco e fumo che inghiottì tutto e tutti nel raggio di decine di metri. La sparatoria cessò. C’era silenzio adesso, c’era quiete. Vide gli ultimi raggi di sole che si spegnevano sul Mar di Giava. Per un po’ rimasero lassù. Kate non seppe capire per quanto tempo. Sentì un altro strappo sopra di sé e precipitarono nel nero del mare sottostante. Kate lo sentì tendersi per cercare di raggiungere qualcosa. Le gambe che la trattenevano allentarono la presa, si sentì scivolare, poi cominciò a cadere più velocemente, da sola. I secondi trascorsero al rallentatore. Rotolò su se stessa mentre precipitava, vide l’uomo che fluttuava sopra di lei, lo vide allontanarsi. Udì il fragore dell’acqua che la inghiottiva. Si sentì spingere, poi trascinare. Aveva acqua nella bocca e nel naso, fredda e salata, e non riusciva a respirare, poteva solo ingoiarla. Bruciava. L’oscurità era quasi completa, appena un barlume di luce in superficie, dove la luna baciava il mare. Si abbandonò, con le braccia lungo i fianchi, gli occhi aperti, in attesa. Aspettò. Lottò per non respirare altro liquido. La sua mente si spense. Nessun pensiero. Solo acqua fredda tutt’intorno, acqua che bruciava nei polmoni. Una luce violenta, un oggetto che cadeva dal cielo ardendo, troppo distante da lei. E qualcosa che nuotava in superficie, una lucciola marina, minuscola, lontanissima. Un altro razzo illuminante, più vicino, ma sempre troppo lontano. La creatura immerse la testa, nuotò, risalì a prendere aria. Un terzo bagliore e la figura s’immerse di nuovo, verso di lei. L’afferrò e la tirò, scalciò con forza per tornare su. Impossibile arrivarci. Bevve un altro sorso d’acqua, non poté farne a meno, aveva bisogno di aria. Si sentì invadere dal liquido, come se qualcuno le stesse versando cemento gelido in bocca. E il peso cercava di farla sprofondare, non le permetteva di risalire, e la luna era lassù e poi tutto diventò così buio. Poi fu aria quella che sentiva, vento e goccioline di pioggia, rumore di sciabordio. Andò avanti a lungo e il braccio che la cingeva la sosteneva con la testa fuori dell’acqua. Ci fu un suono forte, una barca grandissima, con delle luci. Li avrebbe speronati. Veniva dritta verso di loro. Vide il suo soccorritore sbracciarsi mentre la trascinava fuori dalla rotta della barca. Un altro uomo, mani che la issavano, ora era sdraiata sulla schiena. Il suo soccorritore era sopra di lei, le premeva il petto, le pizzicava il naso e… la baciava. Il suo alito era così caldo, le riempiva la bocca e le scendeva nei polmoni. Dapprima resistette, ma poi ricambiò il bacio. Era da tanto tempo che non lo faceva. Si sforzò di alzare le braccia, ma non ce la faceva, provò di nuovo, oh sì, adesso sì, le aveva mosse, cercò di aggrapparsi a lui. Lui respinse le sue braccia, gliele tenne abbassate. Lei rimase così, sdraiata e immobile, finché le esplose il petto. Rotolò su se stessa mentre sparava acqua da naso e bocca. Il liquido continuò a risalire, fra colpi di tosse e conati di vomito. Le si contrasse lo stomaco in una serie di spasmi e tra uno e l’altro risucchiò aria a boccate frenetiche. Lui la tenne sollevata con un braccio finché lei non cominciò a respirare più lentamente. Ogni respiro le bruciava i polmoni, che non riusciva mai a riempire del tutto, ogni tentativo si fermava a metà. «Cuci! Cuci!», si mise a gridare il suo soccorritore all’altro uomo. Si passò la mano di taglio davanti alla gola. Non successe niente. Il suo soccorritore si alzò e andò via. Un secondo dopo le luci si spensero e si misero a navigare più velocemente. La pioggia le sferzava la faccia, ma Kate non era in grado di muoversi. Lui la sollevò, come quando l’aveva portata fuori da quella torre così alta. La portò di sotto e la distese su un lettino in una stanza minuscola. Lei sentì delle voci. Lo vide girarsi verso un altro uomo. «Basta, ferma, ferma!», lo sentì esclamare. Lo vide indicare qualcosa. Poi tornò da lei, la prese tra le sue braccia forti e scesero dalla barca. Camminarono su una spiaggia verso delle case diroccate, come una città bombardata durante la seconda guerra mondiale. Entrarono in un’abitazione e le luci erano accese. Era così stanca, non poteva rimanere sveglia un secondo di più. Lui la posò su un letto di fiori, no, un copriletto con un disegno floreale. Chiuse gli occhi e quasi si addormentò, ma lui era ancora lì vicino, in fondo al letto, le stava sfilando i calzoni. Sorrise. Lui le prese la maglietta. Panico. L’avrebbe vista, avrebbe visto la cicatrice. Gli prese le mani per impedirgli di togliergliela. «Gheit, bevi ettere qua rosa sciutto». «No». Scosse la testa e si girò su un fianco. «Bevi ettere…». Non lo sentiva quasi più. Lui le tirò la maglietta. «No, ti prego», mormorò lei. «Ti prego no…». Allora lui desistette, il peso sul letto cambiò e l’uomo sparì. Entrò in funzione un motore, piccolo, e si sentì avvolgere da aria tiepida. Cambiò posizione e l’aria le scaldò la pancia, i capelli. Sentì calore lungo tutto il corpo. 38 Quartier generale Immari Giacarta Giacarta, Indonesia Cole era sdraiato bocconi, in attesa. Aspettava da quasi un’ora mentre l’artificiere lavorava al suo giubbotto. Ce la metteva tutta per non muoversi, per non perdere il controllo della vescica, per non urlare. Aveva un solo pensiero nella mente, martellante: non vedrò mai più la mia famiglia. Non avrebbe dovuto accettare quel lavoro, a prescindere dalla paga. Avevano messo via quasi abbastanza, 150.000 dollari dei 250.000 di cui avevano bisogno per aprire un Jiffy Lube. Gli sarebbero bastate due missioni con i Marines, ed era fatta. Invece no, lui aveva voluto risparmiare “qualcosa in più”, nel caso i primi anni gli affari fossero andati a rilento. «È più un atto di presenza che altro», gli aveva detto il reclutatore dell’Immari. «Serve a far sentire più sicuri i nostri clienti. Come aveva chiesto, l’assegneremo a una regione a basso tasso d’intervento, sicuramente non il Medio Oriente e nemmeno il Sudamerica. Per l’Europa ci vuole anzianità. Il Sudest asiatico è molto tranquillo. Il clima di Giacarta le piacerà». Adesso qualche altro funzionario dell’Immari sarebbe andato a bussare alla porta di sua moglie. «Signora, suo marito è rimasto ucciso in uno sfortunato incidente come un uovo di Pasqua. Le nostre più profonde condoglianze. Come? Oh, no, signora, questo non è possibile. Qui ci sono i resti del suo guscio». Cole si lasciò sfuggire una risatina aspra, quasi irrazionale. Stava mollando. «Buono lì, Cole, abbiamo quasi finito», lo ammonì l’artificiere da dietro il pesante scudo ricurvo. Indossava un grosso casco e guardava attraverso il vetro di una feritoia nella parte superiore dello scudo. Le sue braccia operavano all’interno di due maniche metallizzate a fisarmonica che ricordavano le braccia del robot della serie televisiva degli anni Sessanta Lost in Space. L’artificiere tagliò le cinghie del giubbotto di Cole. Sollevò leggermente il giubbotto e inclinò la testa dietro la feritoia dello scudo per guardare sotto. Goccioloni di sudore caddero dalla faccia già fradicia di Cole. «Non c’è una trappola esplosiva», mormorò l’artificiere. Centimetro dopo centimetro continuò a sollevare il giubbotto. «Vediamo un po’…». Quando sentì l’artificiere che gli toglieva del tutto il giubbotto, per poco Cole non sobbalzò. C’era un timer? Una carica di backup? Sentì le mani dell’artificiere che armeggiavano con qualcosa che aveva in mezzo alla schiena. Poi percepì le sue mani inguantate rilassarsi. Udì il cigolio del pesante scudo che l’artificiere spostava per levarlo di mezzo. Si accorse che continuava a lavorare a mani nude. Lo sentì togliergli la bomba dalla schiena. «Adesso ti puoi alzare, Cole». Lui si girò trattenendo il fiato. L’artificiere lo contemplò con commiserazione. «Ecco qui la tua bomba, Cole. Attento adesso, potresti essere allergico al poliestere». Gli consegnò una T-shirt arrotolata. Cole era sbigottito. Era anche imbarazzato, ma soprattutto era sollevato. Srotolò la T-shirt. C’era una scritta a grandi lettere fatta con un pennarello nero: “BUM!”. Sotto, più in piccolo: “Scusa…”. 39 Marina di Batavia Giacarta, Indonesia Harto passò un braccio intorno alla vita di sua moglie e attirò i due figli al suo fianco. Erano alla marina, sul pontile dove Harto aveva ormeggiato la “barca” di cui gli aveva detto il soldato. La contemplavano tutti e quattro, ammutoliti. Era scintillante. A Harto sembrava ancora che fosse solo un sogno. Era la cosa più bella che avesse visto dopo la nascita della sua secondogenita. «È nostra», disse finalmente. «Come, Harto?» «Me l’ha regalata il soldato». Sua moglie passò una mano sul parapetto, forse per assicurarsi che fosse reale. «È troppo bella per andarci a pescare». La “barca” era un piccolo yacht. Lunga venti metri, era in grado di solcare i flutti tra le piccole isole di Giava. Poteva ospitare fino a trenta persone in coperta e fino a otto nelle cabine sotto coperta, tra quella padronale e quelle degli ospiti, una a prora e una a poppa. Dal ponte superiore e da quello di comando sopraelevato si doveva godere di viste da togliere il fiato. «Non la useremo per andare a pescare», rispose Harto. «La useremo per portare altre persone a pescare. Gli stranieri che vivono qui e i turisti. Pagano bene per questo servizio, perché qualcuno li porti a pescare in acque profonde. E per le altre cose, tipo le immersioni e le gite turistiche delle isole». Sua moglie guardò Harto e poi la barca, poi di nuovo lui, come a chiedersi se quella di suo marito fosse un’idea praticabile, o forse domandandosi quanto lavoro supplementare sarebbe toccato a lei. «Hai intenzione di imparare finalmente l’inglese, Harto?» «Per forza. Non c’è abbastanza pesce nel mare per dar da mangiare a tutti i pescatori di Giacarta. Il futuro è nel turismo». PARTE SECONDA Un arazzo tibetano 40 Sul Mar di Giava Kate si svegliò con il peggior mal di testa della sua vita. Muoversi le provocava scariche di dolore ovunque. Rimase ferma per un momento, sdraiata sul letto, a deglutire tre o quattro volte. Le faceva male aprire gli occhi. Le faceva male la luce del sole. Girò la testa dall’altra parte, lontano dalla finestra. La finestra. Il letto. Ma dov’era? Si sollevò su un gomito, e per ogni centimetro di spostamento il dolore guadagnava spanne in tutto il suo corpo. Era tutta indolenzita, ma non come ci si sente per aver fatto uno sforzo fisico prolungato. La sensazione era quella di essere stata picchiata in ogni parte del corpo con dei cucchiai di legno. Aveva la nausea, stava male. “Cosa mi è successo?”. Mise a fuoco l’ambiente in cui si trovava. Doveva essere un bungalow, un casotto in spiaggia, di quelli che si usano per le vacanze. La stanza era piccola, con un letto matrimoniale e pochi mobili rustici. Dalla finestra vide un’ampia veranda affacciata su una spiaggia deserta. Non del tipo immacolato e ben tenuto di un luogo di villeggiatura, ma di quelle che potresti vedere su una vera isola deserta, una spiaggia trascurata, disseminata di noci di cocco, cortecce, piante tropicali, e qua e là pesci morti spiaggiati dall’ultimo violento acquazzone notturno e dall’alta marea. Kate si liberò del lenzuolo e lentamente cominciò ad alzarsi. La nausea minacciò di avere il sopravvento. Aspettò che passasse, ma la sensazione peggiorò. Sentì la saliva accumularsi in fondo alla gola. Corse in bagno e ci arrivò appena in tempo. Cadde in ginocchio con la testa sul water, in preda a violenti conati. Non aveva niente da vomitare, erano solo spasmi, prima uno, poi un altro e un terzo ancora. Le convulsioni le provocarono ondate di dolore in un corpo già torturato. Piano piano la nausea passò e Kate scivolò a sedere per terra, posò un gomito sull’asse della tazza e si sostenne la testa con la mano. «Almeno si è risparmiata l’imbarazzo di mostrarsi in pubblico conciata così», l’apostrofò una voce. Alzò la testa. Era quello del furgone, il militare. David. «Chi è lei? Dove siamo?…» «Ce ne occuperemo più tardi. Beva questo». «No. Lo vomiterei». Lui si chinò avvicinandole il bicchiere con il liquido arancione. «Provi». Le sostenne la nuca e Kate si accorse che stava già bevendo prima di aver rifiutato una seconda volta. Era dolce e le lenì il bruciore che aveva in gola. Lo bevve tutto e lui l’aiutò ad alzarsi in piedi. C’era qualcosa che doveva fare. Che cosa? Qualcosa che doveva prendere. La testa le faceva ancora troppo male. Lui l’aiutò a tornare a letto, ma lei lo fermò. «Aspetti, c’è una cosa che devo fare». «Ci arriveremo. Ora deve riposare». Troppo stanca per ribattere, Kate lasciò che lui l’adagiasse di nuovo sul letto. Aveva tanto sonno, come se avesse preso un sonnifero. Il dolce elisir arancione. 41 Jet dell’Immari Corporate Sopra l’oceano Atlantico meridionale Affacciato al finestrino dell’aereo, Martin Grey guardò il gigantesco iceberg. Il sommergibile nazista sporgeva dalla montagna di ghiaccio al centro dell’isola galleggiante che si estendeva su una superficie di 120 chilometri quadrati, più o meno le dimensioni di Disney World. Nel punto in cui il muso del sommergibile usciva dal ghiaccio scavavano alacremente gli uomini di una squadra di tecnici con l’aiuto di grossi macchinari. Stavano cercando l’entrata. Se non avessero trovato al più presto uno sportello, come ultima risorsa avrebbero ritagliato un’apertura nel fianco. La struttura sotto il sommergibile era ancora più misteriosa e si stavano ancora elaborando teorie al riguardo. Martin ne aveva una personale, un’idea che, se necessario, avrebbe portato con sé nella tomba. «Quando l’avete trovato?». La voce di Dorian Sloane lo colse alla sprovvista. Quando si girò, lo trovò in piedi dietro di sé a sbirciare da un altro finestrino del jet. Aprì la bocca per rispondere, ma Sloane lo interruppe subito. «Niente bugie, Martin». Questi sospirò lasciandosi andare contro lo schienale, ma continuando a guardare dal finestrino. «Dodici giorni fa». «È il suo?» «L’identificazione corrisponde. La datazione al carbonio ne conferma l’età». «Voglio entrarci per primo». Martin si voltò verso di lui. «Lo sconsiglio vivamente. La struttura è con ogni probabilità instabile. E non c’è modo di sapere che cosa c’è dentro. Potrebbe…». «E tu vieni con me». «Neanche a parlarne». «Martin, ma dov’è finito l’intrepido esploratore che ho conosciuto in gioventù?» «Questo è un lavoro per i robot. Loro possono andare in posti dove noi non possiamo. Loro possono sopportare il freddo e là dentro fa molto freddo, credimi, più freddo di quanto tu possa immaginare. Ed è più facile rimpiazzarli». «Sì, sarà pericoloso. Ancor più pericoloso, credo, se ci entrassi da solo lasciando te fuori». «Mi credi moralmente corrotto come te». «Non sono io quello che rapisce bambini e nasconde segreti». Sloane si abbassò su Martin, appoggiandosi al bracciolo della poltrona davanti a lui, preparandosi a litigare. «Signore», lo chiamò in quel momento uno steward, «c’è una telefonata per lei. È urgente». Dorian staccò il ricevitore dall’apparecchio montato sulla paratia. «Sloane». Ascoltò, poi girò gli occhi su Martin con un’espressione sorpresa. «Come?». Passò un momento. «Ma non è possibile…». Annuì due o tre volte. «No, ascolta, dev’essere scappato per mare. Cercate sulle isole più vicine, non possono essere andati lontano. Mettici tutti gli uomini, se necessario fate venire rinforzi dalla sede locale dell’Immari Security e dalle stazioni della Clocktower che abbiamo conquistato». Ascoltò di nuovo. «D’accordo, va bene, usate qualunque mezzo per localizzarli. Uccidete lui e prendete lei. Richiamami quando l’avrete catturata». Riappese il ricevitore e si girò a fissare Martin. «La ragazza è scappata», disse. «Con l’aiuto di un agente della Clocktower». Martin continuò a guardare gli uomini che lavoravano intorno al sommergibile. Sloane si sedette davanti a lui, posò i gomiti sul tavolo e si sporse abbastanza da essergli a tiro. «Sono morti cinquanta dei miei e tre piani dell’Immari Giacarta sono saltati in aria, senza contare il pontile. Non mi sembri sorpreso, Martin». «Io sto guardando un sommergibile nazista vecchio di ottant’anni e quella che potrebbe essere un’astronave aliena che spuntano da un iceberg staccatosi dalla costa dell’Antartide. È difficile che ci sia qualcosa che possa sorprendermi di più, Dorian». Sloane si rialzò. «Sappiamo tutti e due che non è un’astronave aliena». «Davvero?» «Ne avremo presto la conferma». 42 Sul Mar di Giava David rimase per qualche tempo appoggiato allo stipite della porta della camera da letto a guardare Kate dormire, aspettando di vedere se si sarebbe svegliata di nuovo. I carnefici dell’Immari l’avevano messa brutalmente sotto torchio e nemmeno la sua azione di salvataggio era stata particolarmente delicata. Guardarla dormire nel fruscio della risacca, accarezzata dalla brezza che attraversava la stanza, gli restituiva un po’ di pace interiore. Era una sensazione che non capiva. La caduta della cellula di Giacarta nell’imminenza di una minaccia terroristica, per mano di chi aveva dedicato una vita a combattere, era uno scenario da incubo. Anzi, era lo scenario da incubo. Eppure l’aver salvato Kate aveva cambiato qualcosa nella sua prospettiva. Ora il mondo gli sembrava meno spaventoso, più accettabile. Per la prima volta da tempi immemorabili provava… speranza. Si sentiva ottimista. Quasi felice. Si sentiva più sicuro. No, in questo si sbagliava. Forse si sentivano più sicure le persone intorno a lui, e lui si sentiva solo più sicuro di sé. Più fiducioso di poter proteggere le persone che… L’autoanalisi avrebbe dovuto aspettare. Ora aveva altro da fare. Quando fu chiaro che Kate non si sarebbe risvegliata molto presto, tornò al suo lavoro nel vano segreto sotto il cottage. Aveva detto ai contractor che voleva un bunker. Non avevano fiatato, ma gli era bastato vedere gli sguardi che si erano scambiati: “Questo è matto, ma non ha avuto da ridire sul prezzo, perciò accontentiamolo”. Così gli avevano messo a disposizione una solida struttura postapocalittica: muri in cemento armato, una spartana scrivania di metallo imbullonata e quel tanto di spazio sufficiente per un piccolo letto e un po’ di provviste. Per la situazione in cui si trovava andava benissimo. La sua mossa successiva sarebbe stata cruciale. Ci aveva rimuginato per quasi tutta la mattina. Il primo istinto era di contattare Central. Il direttore della Clocktower, Howard Keegan, era suo mentore e amico. David si fidava di lui. Howard avrebbe fatto tutto il possibile per salvare la Clocktower e per questo aveva decisamente bisogno del suo aiuto. Il problema era come contattarlo. La Clocktower non aveva canali di comunicazione segreti, solo una VPN ufficiale e dei protocolli. Linee che senza dubbio venivano monitorate. Se se ne fosse servito, avrebbe rivelato la sua posizione. Tamburellò con le dita sulla scrivania contemplando la lampadina che pendeva dal soffitto. Lanciò un browser e scartabellò tutte le notizie locali e nazionali. Stava procrastinando. Lì non c’era niente che potesse aiutarlo. Notò un dispaccio d’agenzia su un uomo e una donna ricercati in connessione con un complotto terroristico e forse una rete di traffico di minori. Questo avrebbe potuto rallentarlo. Non c’erano identikit allegati all’articolo, ma prima o poi sarebbero apparsi, dopodiché tutti gli agenti di tutte le forze dell’ordine del Sudest asiatico avrebbero dato loro la caccia. Nel covo segreto, David aveva alcuni documenti con identità diverse, ma non molto contante. Entrò nel suo conto corrente. Il saldo era quasi a zero. Josh. Era stato lui a eseguire le transazioni. Era vivo? David aveva dato per scontato che il quartier generale della stazione di Giacarta fosse stato assaltato mentre lui si trovava in strada. C’era qualcos’altro. Alcuni depositi, tutti molto piccoli, di meno di 1000 dollari. Era un codice, ma quale? GPS? 9,11 50,00 31,00 14,00 76,00 9,11 9,11. Quello doveva essere o l’inizio o la fine del codice. Restavano: 50.31.14.76. Un indirizzo IP. Josh gli aveva inviato un messaggio. David digitò l’IP nel motore di ricerca. La pagina che apparve era una sua lettera. David, sono alla porta. Non reggerà ancora molto. Ho decodificato i messaggi. Clicca qui per leggere. Non sono riuscito a comprenderne il significato. Mi dispiace. Ho trovato il contatto, almeno on-line. Per passare messaggi usa il board Craigslist di Roswell. Clicca qui per entrarci. Spero che invii un altro messaggio e che tu riesca a fermare l’attacco. Sono davvero desolato di non essere stato di grande aiuto. Josh PS: Ho letto la tua lettera ed eseguito le transazioni (ovviamente). Credevo che fossi morto perché i sensori del tuo giubbotto non trasmettevano segni vitali. Spero di non averti messo nei guai. David sospirò e per un lungo momento distolse gli occhi dallo schermo. Aprì il fascicolo con i messaggi decodificati: necrologi del «New York Times». Risalenti al 1947. Josh aveva fatto un ottimo lavoro. Ed era morto convinto d’aver fallito. Entrò nel sito della Craigslist di Roswell e lo vide all’istante: un nuovo messaggio del contatto. Soggetto: L’orologio di una torre di bugie si è fermato Le due parole chiave c’erano entrambe, clock e tower, orologio e torre. Messaggio: Al mio anonimo ammiratore: Temo che la mia attuale relazione si sia complicata. Non posso incontrarti o avere altri contatti con te. Mi dispiace. Non è per colpa mia. Sei tu. Per me tu sei troppo pericoloso. Ci sono 30 ragioni e 88 scuse che mi sono venute in mente per rifiutarmi di vederti. Ho passato in rassegna 81 bugie e 86 frottole. Mi sono detta che ti avrei incontrato. Ho persino fissato una data. 03-12-2013 E un’ora. 10:45:00 Ma la verità è che a questo punto sulla mia lista delle priorità sei il n. 44. E questo non basta perché possa dedicarci del tempo. Forse se tu fossi il 33. O il 23. O anche il 15. Proprio non basta. Devo proprio staccare la corrente e salvare i miei bambini. È l’unica cosa responsabile da fare. David si grattò la testa. Cosa voleva dire? Il messaggio conteneva evidentemente un codice da decifrare. Quanto gli sarebbe stato utile Josh in quel momento! Prese un bloc-notes e cominciò a ragionare. Il suo cervello non era adatto a quel genere di cose. Da dove cominciare? La prima parte era abbastanza diretta, il contatto gli faceva sapere di trovarsi in difficoltà. Non poteva incontrarlo o inviare altri messaggi. Gran bella notizia. Poi c’erano una serie di numeri all’interno di parole che non avevano molto senso. Avevano una loro logica in quella sezione di contatti mancati, ma non comunicavano niente tra le righe e non aggiungevano nulla di nuovo al messaggio in sé. I numeri, dunque. Dovevano essere quelli. David cominciò a trascriverli. Messi in ordine, la sequenza diventava: 30,88. 81,86. 03-12-2013 10:45:00 44 33-23-15 La prima parte: 30,88. 81,86. Coordinate GPS. David controllò. Cina occidentale, sul confine con Nepal e India. Le immagini satellitari non rivelavano niente di particolare… o no? Un edificio abbandonato. Una vecchia stazione ferroviaria. Poi: 03-12-2013 e 10:45:00. Una data e un’ora. Il contatto diceva di non poterlo vedere di persona, dunque cosa poteva esserci alla stazione ferroviaria abbandonata? Una trappola? Un’altra chiave? Se Josh aveva letto la lettera e seguito le istruzioni, doveva aver inviato tutto quello che aveva trovato a Clocktower Central. Se Central era compromesso, l’Immari sapeva tutto dei necrologi e di Craigslist. Il messaggio poteva essere stato pubblicato dall’Immari. In Cina poteva esserci già una squadra delle forze speciali in attesa di inquadrare David nei loro mirini. Scacciò quel pensiero e si concentrò sull’ultima serie di numeri nel messaggio: 44 e 33-23-15. Doveva trattarsi di un armadietto del deposito bagagli di quella stazione. Ma il 44 poteva anche essere il numero di un convoglio o di una carrozza, no? David si grattò il naso e rilesse il messaggio. Quelle frasi dopo i numeri… Il tenore era completamente diverso. Istruzioni? Devo proprio staccare la corrente e salvare i miei bambini. È l’unica cosa responsabile da fare. “Devo staccare la corrente”. “Salvare i miei bambini”. David ruminò mentalmente queste frasi senza venirne a capo. Alla fine si decise: sarebbe andato nel punto indicato dalle coordinate all’ora e alla data del messaggio per vedere cosa c’era. Avrebbe lasciato Kate al cottage, al sicuro. Lei sapeva qualcosa, ma lui non aveva idea di come collegarla al resto del quadro generale. “Qui non correrà rischi”. Al momento era la sola cosa che gli importasse. Sopra di sé sentì qualcuno aggirarsi per le stanze. 43 Dispaccio d’agenzia «Al Jazeera» Le autorità indonesiane identificano due americani collegati agli attacchi terroristici e a un racket di traffico di minori Giacarta, Indonesia // Una serie di attentati terroristici avvenuti ieri nella capitale indonesiana di Giacarta ha dato il via a una caccia all’uomo per terra, mare e aria. La polizia nazionale indonesiana ha impegnato metà dei dodicimila uomini delle sue forze navali presenti nel Mar di Giava e ha richiamato rinforzi da tutto il Paese per setacciare Giacarta e le isole che la circondano. All’operazione si sono uniti anche i governi delle nazioni vicine, che hanno messo in stato d’allerta le agenzie di sicurezza lungo le frontiere e negli aeroporti. Finora le autorità hanno taciuto sulle ragioni degli attentati, ma hanno diramato un breve identikit dei sospettati. La donna è stata identificata come la dottoressa Katherine Warner, ricercatrice specializzata in genetica che conduceva esperimenti non autorizzati su bambini indigenti provenienti dai villaggi rurali dei dintorni di Giacarta. «Stiamo ancora mettendo insieme i pezzi», ha affermato l’ispettore generale Nakula Pang. «Sappiamo che la clinica della dottoressa Warner aveva la custodia legale di più di cento bambini indonesiani che erano stati sottratti alle famiglie senza il consenso dei genitori. Sappiamo anche che la dottoressa Warner muoveva grosse somme di denaro attraverso conti correnti nelle isole Cayman, un noto nodo di transito per traffico di droga e di esseri umani e altre gravi attività criminose internazionali. Attualmente riteniamo che la clinica facesse da copertura per un traffico di bambini e, da quel che abbiamo potuto dedurre, è presumibile che i profitti siano serviti per finanziare gli attentati di ieri». Gli attentati in questione si articolano in tre separate esplosioni in aree residenziali, un violento scontro a fuoco nel quartiere del mercato e una serie di altri, micidiali ordigni nella zona del porto commerciale, che sono costati la vita a cinquanta dipendenti dell’Immari Giacarta. Adam Lynch, portavoce dell’Immari Giacarta, ha rilasciato questa dichiarazione: «Piangiamo le vite andate perdute ieri e oggi ci limitiamo a cercare delle risposte. La polizia indonesiana ha confermato i nostri sospetti secondo cui il responsabile dell’attacco è David Vale, ex agente della CIA che aveva avuto precedenti contatti con l’Immari Security, una delle divisioni dell’Immari International. Riteniamo che questi attentati facciano parte di una vendetta personale e che il signor Vale continuerà a prendere di mira i dipendenti e gli interessi dell’Immari. È un uomo molto pericoloso. È possibile che soffra di DPTS o di qualche altro problema psicologico. È una situazione molto triste per tutte le persone coinvolte. Abbiamo offerto il nostro aiuto, compresa l’assistenza dell’Immari Security, alle autorità indonesiane e ai governi vicini. Vogliamo che questo incubo cessi al più presto. Vogliamo dire il più presto possibile alla nostra gente che è al sicuro». 44 Sul Mar di Giava Quando si svegliò per la seconda volta, Kate si sentiva meglio, molto meglio. La testa non le faceva più così male, il corpo era meno anchilosato e indolenzito e… riusciva a pensare. Si guardò intorno. La stanza era quasi al buio. Per quanto tempo aveva dormito? Vide dalla finestra che il sole stava tramontando sul mare. La vista era spettacolare e catturò la sua attenzione per un istante. La brezza era tiepida e sapeva di salmastro. Sul portico il venticello faceva cigolare le catenelle arrugginite di una vecchia amaca di corda appesa in veranda. C’era una generale aria di abbandono. Si alzò e passò dalla camera da letto in un ampio soggiorno che conduceva in una cucina, dove c’era la porta che dava sul portico. Era sola? No, c’era un uomo, ma… «La bella addormentata si è svegliata». Lui sembrò materializzarsi dal nulla. Come si chiamava? David. Kate esitò per un momento non sapendo bene cosa dire. «Mi ha drogata», lo accusò poi. «Sì, ma a mia difesa voglio sottolineare che non ho cercato di estorcerle delle risposte e non ho fatto cose terribili ai suoi bambini». I ricordi le esplosero improvvisamente nella memoria. Martin, la droga, l’interrogatorio. Ma cos’era successo dopo? Com’era finita lì? Non era importante in quel momento. «Dobbiamo trovare quei bambini», dichiarò. «Noi non dobbiamo fare un bel niente. Lei deve riposare e io ho del lavoro da sbrigare». «Senta…». «E prima ancora, ha bisogno di mangiare qualcosa». Le porse una specie di pietanza dietetica preconfezionata, ma era qualcosa di molto meno pretenzioso, più simile a una razione di rancio di un militare. Tolse il coperchio dalla vaschetta di cartone e la studiò. Carne in umido con verdure e cracker. O qualcosa di simile a carne in umido con verdure. Kate avrebbe voluto rifiutare, ma la vista e l’odore del cibo cotto le provocò un gorgoglio nello stomaco. Era affamata. Erano due giorni che non toccava cibo. Accettò l’offerta, si sedette, mangiò un boccone di manzo e per poco non lo sputò. «Gesù, è terribile». «Sì, chiedo scusa. È scaduto da qualche giorno e non era un granché nemmeno prima. E, no, non ho nient’altro. Spiacente». Kate mangiò un altro boccone masticandolo poco prima di ingoiarlo. «Dove siamo?». David si sedette al tavolo davanti a lei. «In un cottage di un progetto immobiliare abbandonato sulla costa di Giacarta. Quando la società fallì, comprai un posto qui pensando che sarebbe potuto essere un covo di riserva, nel caso avessi dovuto lasciare la città in tutta fretta». «Non ricordo molto di questa parte». Kate assaggiò le verdure. La sensazione di ribrezzo stava passando. O le verdure erano migliori della carne, o si stava abituando al sapore cattivo di quel piatto. «Dobbiamo far intervenire le autorità». «Sarebbe bello». David posò sul tavolo un articolo di «Al Jazeera»: descriveva la caccia che aveva loro due come obiettivi. Kate deglutì un boccone prima di alzare gli occhi su di lui in un’espressione incredula. «Ma è assurdo!», esclamò. «Non è…». David si riprese la pagina. «Adesso ci interessa poco. Qualunque cosa abbiano in mente, lo hanno già messo in pratica. Ci stanno cercando e hanno l’appoggio dei governi amici. Qui non possiamo fare molto. Io ho una pista e ho bisogno di andare a controllare. Lei sarà al sicuro. Ho bisogno che mi dica…». «Si tolga dalla testa che io resti qui», ribatté Kate in tono deciso. «Neanche a parlarne». «So che lei non se lo ricorda, ma non è stato facile strapparla agli uomini dell’Immari. Non sono persone molto raccomandabili. Qui non è come nei film, dove l’eroe e la ragazza s’imbarcano in una grande avventura perché così fa comodo alla trama. Le dico che cosa faremo. Lei mi racconterà tutto quello che sa e io le do la mia parola che farò il possibile per cercare di recuperare quei due bambini. Lei invece resterà qui e terrà d’occhio un sito web dove potrebbero apparire nuovi messaggi». «Niente da fare». «Senta, non stiamo contrattando, le sto dicendo che…». «Non lo faccio. Lei ha bisogno di me. E io qui non ci voglio restare». Kate finì quello che c’era nel contenitore e vi lasciò cadere dentro la forchettina di plastica. «E poi credo che il posto più sicuro per me sia con lei». «Grazie. Molto carino da parte sua, un toccasana per il mio amor proprio, ma disgraziatamente sono sveglio quel tanto che basta da non cascarci». «Lei vuole lasciarmi qui perché pensa che le sarei d’intralcio». «Sto cercando di tenerla al sicuro». «Ma non è la mia preoccupazione principale». David aprì la bocca per rispondere, ma la richiuse voltando bruscamente la testa di lato. «Cosa…». Lui alzò la mano di scatto. «Zitta». Kate ubbidì. Poi lo vide anche lei: un cerchio luminoso che correva sulla spiaggia. Il rumore appena udibile di un elicottero. Come se n’era accorto? David balzò in piedi, l’afferrò per un braccio e quasi la trascinò all’armadio a muro di fianco alla porta d’entrata. Spinse con forza la parete sul fondo, che si aprì su una scala di cemento. «Ma cosa…», cominciò Kate, confusa. «Vada giù. La seguo subito». «Lei dove va?», chiese Kate, ma David non c’era più. Lei tornò indietro di corsa. Lo vide raccogliere le loro cose: la vaschetta della razione militare e la giacca. Kate corse in camera a rifare il letto, poi risistemò velocemente il bagno. L’elicottero era ancora lontano, ma si stava avvicinando. Ormai era buio e si vedeva molto poco. Anche il raggio del proiettore stentava a illuminare la spiaggia. David fece capolino da dietro la porta. «Bel lavoro», le disse. «Adesso andiamo, però». Tornarono di corsa all’armadio, entrarono nel passaggio segreto e scesero in una stanzetta che sembrava un rifugio antiaereo. C’erano una scrivania con un computer, un piccolo letto singolo e una nuda lampadina appesa al soffitto. Il militare spinse Kate sul letto e si portò l’indice alle labbra per intimarle il silenzio. Poi tirò la catenella della lampadina sprofondandoli nell’oscurità totale. Passò qualche tempo prima che lei udisse dei passi sul pavimento sovrastante. 45 Base di ricerca Immari Snow Island 55 miglia dalla costa dell’Antartide Martin Grey osservava i robot che giravano il volantino sullo sportello del sommergibile. La tuta gli impediva quasi di muoversi, un’autentica tuta da astronauta acquistata in tutta fretta una settimana prima dall’Agenzia spaziale cinese. Era l’unica cosa che potesse proteggerli dalla temperatura antartica e da possibili radiazioni, garantendo loro comunque una riserva sufficiente di ossigeno se il tubo di alimentazione si fosse staccato. Ma a dispetto di tutte queste precauzioni, entrare in un sommergibile nazista lo terrorizzava lo stesso. E l’uomo in tuta accanto a lui, Dorian Sloane, poteva solo contribuire ad aumentare l’ansia di Martin. Sloane perdeva le staffe facilmente e quello che stavano per trovare là dentro avrebbe potuto senz’altro provocare una sua reazione negativa. In un sommergibile anche la più piccola delle esplosioni era fatale. Lo sportello emise un cigolio stridente, il gemito della frizione di metallo contro metallo, ma non cedette. Il braccio meccanico si staccò, si spostò, agganciò di nuovo il volantino e girò ancora. All’improvviso, con un tonfo sordo, lo sportello si spalancò verso l’esterno come il coperchio della scatola di un pupazzo a molla. Il robot fu schiacciato all’istante contro la fiancata del sommergibile e, nel sibilo dell’aria che fuoriusciva, la neve circostante si costellò di pezzi di metallo e plastica. Martin sentì la voce metallica di Dorian Sloane alla radio all’interno della sua tuta. La distorsione della comunicazione radiofonica l’aveva resa ancor più minacciosa del solito. «Dopo di te, Martin». Martin guardò per un attimo l’espressione poco rassicurante degli occhi di Sloane, poi tornò a voltarsi verso il sommergibile. «Ehi, abbiamo una telecamera?» «Sissignore, dottor Grey, abbiamo una telecamera in entrambe le tute». «Ok. Entriamo». Martin si avviò verso il boccaporto rotondo del diametro di un metro in cima alla montagnola di ghiaccio. Quando lo raggiunse, si girò, si acquattò e mise un piede sul primo scalino. Si staccò dal fianco un bastoncino luminoso a LED e lo lasciò cadere all’interno. Precipitò per cinque o sei metri. Quando la plastica rigida del bastoncino toccò il fondo di quella tomba ghiacciata, il metallo diffuse un’eco squillante mentre la luce rivelava un corridoio sulla destra. Martin scese di un altro scalino ricoperto di ghiaccio. Uno scalino ancora e poté afferrare la scaletta con entrambe le mani, ma sentì che stava perdendo contatto con un piede. Tentò di reggersi meglio, ma non poté evitare che i piedi gli scivolassero via dal piolo metallico. Sbatté con la schiena contro il bordo del boccaporto e cadde. Per qualche istante attraversò la zona illuminata, poi fu tutto buio e atterrò senza far rumore. L’isolamento della tuta lo aveva salvato. Ma se si fosse strappata, il freddo sarebbe penetrato e lo avrebbe ucciso in pochi secondi. Martin si portò le mani al casco tastandoselo con trepidazione. Poi una luce cadde lentamente dal boccaporto. Il bastoncino gli si posò sul ventre diffondendo luce tutt’intorno. Martin si guardò la tuta. Gli sembrò che fosse intatta. Sloane si sporse sopra di lui nascondendo la luce del sole. «Mi sa che hai passato troppo tempo seduto a una scrivania, vecchio mio». «Te l’avevo detto che non sarei dovuto venire qui». «Togliti di mezzo». Martin rotolò su un fianco e strisciò più lontano mentre Sloane scivolava giù per la scaletta facendosi scorrere i tubolari dei corrimano tra le dita senza nemmeno toccare i pioli. «Ho studiato lo schema, Martin. La plancia è dritto da questa parte». Accesero le luci sui caschi e imboccarono il corridoio. Il sommergibile, tecnicamente un U-Boot tedesco, era in condizioni perfette, sigillato e congelato per tutti quegli anni. Era praticamente come era stato ottant’anni prima, quando era uscito da un porto della Germania settentrionale. Sarebbe potuto essere un pezzo da museo. Il corridoio era stretto, si procedeva a fatica soprattutto per l’ingombro delle tute e la necessità di tirarsi dietro di tanto in tanto i tubi di rifornimento dell’ossigeno. Sbucarono in uno spazio più ampio. Si fermarono a girare la testa a destra e a sinistra proiettando il fascio di luce dei loro caschi, come un faro che fende il buio della notte illuminandone uno spicchio alla volta. Erano chiaramente sul ponte di comando. A intervalli di pochi secondi la luce di Martin individuò una scena orribile: un corpo umano straziato, accasciato contro uno schienale, con la pelle della faccia disciolta; un altro uomo riverso sul pavimento contro una paratia con gli abiti inzaccherati di sangue; e un gruppo intero di persone, bocconi, in un blocco di sangue congelato. Sembrava che fossero stati prima messi in un gigantesco forno a microonde e poi passati in un processo di congelamento istantaneo. Martin sentì entrare in funzione la radio. «Secondo te potrebbe essere stata la Campana?» «Difficile dirlo, però ci siamo abbastanza vicini», rispose Martin. Rimasero in silenzio per qualche minuto, perlustrando la plancia ed esaminando a uno a uno i resti dell’equipaggio morto. «Ci conviene dividerci», suggerì Martin. «So dov’è il suo compartimento», rispose Sloane girandosi ed entrando nel passaggio posteriore. Martin lo seguì. Aveva sperato di distrarlo, di arrivare agli alloggi dell’equipaggio prima di lui. Ora muoversi con quella tuta addosso gli era diventato quasi impossibile, mentre gli sembrava che Sloane fosse riuscito a adattarsi molto meglio. Alla fine lo raggiunse, proprio mentre quello stava aprendo un altro sportello e lanciando all’interno un paio di bastoncini per illuminare la cabina. Martin scrutò il vano con il fiato sospeso. Vuoto. Espirò. Sarebbe stato più felice se avesse visto un corpo? Forse. Sloane andò al tavolino a sfogliare le carte che c’erano sopra, aprì qualche cassetto a molla. La luce della sua tuta illuminò una foto in bianco e nero di un uomo in divisa militare tedesca. Non era un’uniforme nazista, era precedente, anche di prima della Grande Guerra. Abbracciava la moglie alla sua destra e due figli maschi a sinistra. I figli gli somigliavano moltissimo. Sloane contemplò la foto per un lungo momento, poi se la infilò in una tasca della tuta. In quell’istante Martin provò quasi compassione per lui. «Dorian, non sarebbe mai potuto sopravvivere…». «Tu che cosa ti aspettavi di trovare, Martin?» «Potrei farti la stessa domanda». «L’ho fatta io per primo». Sloane continuò a perquisire la scrivania. «Mappe. E se avessimo avuto fortuna, un arazzo». «Un arazzo?». Sloane girò la testa e la luce del suo casco abbagliò Martin, che alzò una mano per ripararsi gli occhi. «Sì, un grande tappeto con una storia…», cominciò l’anziano scienziato. «So cos’è un arazzo». Sloane tornò a occuparsi della scrivania, e cominciò a esaminare alcuni registri. «Potrei essermi sbagliato su di te, sai? Tu non rappresenti una minaccia, sei semplicemente allo sbando. Hai bevuto troppa Kool-Aid. Guarda che fine hai fatto, a caccia di arazzi e superstizioni». Sloane lasciò ricadere sulla scrivania congelata un fascio di scartoffie e registri. «Qui non c’è niente, solo dei diari». Diari! Ma certo, potevano essere quelli! Martin si sforzò di non tradirsi. «Quelli, posso prenderli io. Forse c’è qualcosa che può esserci utile». Sloane incrociò il suo sguardo per qualche istante, poi tornò a guardare i sottili registri che aveva rimesso sul tavolo. «No, credo che prima ci darò un’occhiata io. Ti passerò tutto quello che c’è di… scientifico». Dorian non ne poteva più di quella tuta. Stava lì dentro da sei ore: tre ore nel sommergibile e tre ore in decontaminazione. Martin e le sue teste d’uovo erano meticolosi. Prudenti. Fan dell’esagerazione. Scialacquatori di tempo prezioso. Ora sedeva di fronte a Martin in una camera bianca in attesa dei risultati del prelievo del sangue che desse loro il via libera definitivo. Perché ci impiegavano tanto? Si era accorto che Martin continuava a posare gli occhi sui diari. Evidentemente là dentro c’era qualcosa che aveva una gran voglia di vedere. Qualcosa che però non voleva che vedesse anche lui. Dorian li avvicinò a sé. Per Sloane il sommergibile era stato la delusione più grande della sua vita. Aveva quarantadue anni e dall’età di sette non era passato giorno in cui non avesse sognato di trovare quell’U-Boot. E adesso che quel giorno era arrivato, non aveva trovato niente. O quasi. Resti di sei persone e un sommergibile tedesco in condizioni perfette. «E adesso, Martin?», chiese. «Adesso si fa quello che abbiamo sempre fatto. Si continua a scavare». «Voglio informazioni precise. So che state scavando sotto il sommergibile, vicino alla struttura». «Quella che riteniamo sia un altro veicolo», s’affrettò ad aggiungere Martin. «Concordo nell’essere in disaccordo. Cosa avete trovato?» «Ossa». «Quante?». Dorian si appoggiò al muro. Gli si andava formando un vuoto nello stomaco, come l’anticipazione che si prova prima di sormontare il culmine del precipizio sulle montagne russe. Temeva la risposta. «Finora abbastanza per una mezza dozzina di uomini. Ma pensiamo che ce ne siano ancora», rispose con voce stanca Martin. Tutte quelle ore con la tuta addosso lo avevano sfinito. «C’è un effetto Campana, là sotto, vero?» «Penso di sì. Quando due ricercatori si sono avvicinati, l’area intorno al sommergibile è collassata. Uno dei due è rimasto incenerito, la stessa sorte che abbiamo riscontrato in quelli a bordo. L’altro è rimasto ucciso quando il ghiaccio ha ceduto. Mi aspetto di trovare anche il resto dell’equipaggio». Dorian era troppo stanco per discutere, ma l’idea lo spaventava a morte. Quella spiacevole sensazione di un tuffo nel nulla definitivo. «Cosa sai della struttura?» «A questo punto, non molto. È antica. Almeno quanto le rovine ritrovate a Gibilterra. Centomila anni, forse di più». A turbare Dorian fin dal loro arrivo era la lentezza con cui procedeva lo scavo. Anche se erano passati solo dodici giorni da quando gli uomini di Martin avevano trovato il relitto, con le loro risorse avrebbero dovuto già aver squarciato quell’iceberg come un tacchino il giorno del Ringraziamento. Il personale che vedeva al lavoro era incredibilmente ridotto, come se l’azione vera si stesse svolgendo altrove. «Questo non è il sito principale, vero?» «Abbiamo risorse… assegnate altrove…». Assegnate altrove. Dorian rifletté su quel modo di esprimersi. Che cosa poteva esserci di più importante? Lì c’era la struttura che cercavano da migliaia di anni. A prezzo di enormi sacrifici. Cosa poteva esserci di più grande? Qualcosa di più grande, appunto. Una struttura di dimensioni maggiori. Oppure… quella principale. Dorian fissò lo scienziato socchiudendo gli occhi. «Questo è solo un pezzo, vero? State cercando una struttura più grande. Questa è una parte che si è semplicemente staccata dal corpo principale». Non era ancora sicuro che fosse proprio così, ma se lo era… Martin annuì, adagio, evitando di incrociare lo sguardo dell’altro. «Mio Dio, Martin». Dorian si alzò e si mise a passeggiare avanti e indietro. «Potrebbe succedere da un momento all’altro. Potrebbero essere qui nel giro di pochi giorni, di poche ore. Ci hai esposto a un rischio terribile. E… lo sapevi già da dodici giorni! Ti ha dato di volta il cervello?» «Pensavamo che fosse quella principale…». «Pensavamo, speravamo, volevamo… Per l’amor di Dio! Dobbiamo agire. Appena ci lasciano uscire da questa gabbia di plastica, vado a chiudere l’operazione in Cina e do il via al Protocollo Toba. Non stare a protestare, sai che è arrivato il momento. E voglio che, quando avrete trovato la struttura principale, tu ti metta subito in contatto con me. Martin, guarda che ho inviato qui alcuni reparti. Nel caso avessi qualche problema a far funzionare il tuo telefono satellitare, ti assicuro che ti daranno una mano loro». Martin si puntellò i gomiti sulle cosce e fissò il pavimento. La porta della camera bianca si aprì e un getto d’aria fresca precedette con un sibilo una giovane donna di vent’anni o poco più. La tuta che indossava lei le aderiva al corpo come una seconda pelle. Doveva averne scelta una di tre taglie troppo piccola. «Signori, siete liberi di andare tutti e due». Si rivolse a Dorian. «C’è nient’altro che posso fare per lei?». Lasciò ricadere la mano in cui stringeva un portablocco, se la portò dietro la schiena, vi unì l’altra mano e inarcò leggermente la spina dorsale. «Come si chiama?», chiese Dorian. «Naomi. Ma può chiamarmi come vuole». 46 Sul Mar di Giava Kate non avrebbe saputo dire se era sveglia o dormiva. Per un momento fluttuò semplicemente nell’oscurità totale e nel silenzio assoluto. La sola sensazione era quella di un tessuto morbido sotto la schiena. Si protese su un lato e udì il cigolio delle molle di un materasso vecchio. Doveva essersi addormentata sul lettino del rifugio antiaereo. Aveva aspettato lì con David mentre le persone che li stavano cercando andavano avanti e indietro sopra di loro, perquisendo il cottage per ore, e aveva perso del tutto la cognizione del tempo. Era rischioso cercare di alzarsi? A quel punto provò un’altra sensazione: fame. Per quanto tempo aveva dormito? Ruotò il bacino per spostare le gambe e posare con decisione i piedi su… «Aaah, accidenti!», esclamò la voce di David, resa sorda dallo spazio minuscolo, quando i piedi di Kate lo colpirono nell’attimo in cui si rialzava da una serie di flessioni che stava facendo sul pavimento. Mentre lui s’affrettava a strisciare via, Kate sollevò di scatto i piedi per un attimo, quindi cominciò a tastare il pavimento con la punta delle dita in cerca di un punto d’appoggio che non fosse sul corpo di David. Finalmente posò il piede sinistro e poté alzarsi, mettendosi subito a cercare alla cieca sopra di sé la catenella che accendeva la lampadina. La trovò, vi diede uno strattone e un lampo giallo inondò l’angusto spazio del rifugio. Abituò gli occhi alla luce aspettando su un piede solo. Quando poté vedere di nuovo, si spostò in un angolo della stanza, lontano da David, che era ancora per terra in posizione fetale. L’aveva beccato proprio là. Oddio. Ma che ci faceva a terra? «Non siamo mica ragazzini, sai? Avresti potuto metterti sul letto anche tu». David finalmente si alzò su mani e ginocchia mugolando. «Qua la galanteria non conta proprio niente». «Non volevo…». «Lascia stare. Dobbiamo andarcene da qui», la interruppe lui, rimettendosi in piedi. «Quelli che sono venuti a cercarti sono ancora…?» «No, se ne sono andati da un’ora e mezza, ma può darsi che siano rimasti qui fuori». «Io qui non ci resto. Verrò con…». «Lo so, lo so». David alzò una mano. Aveva ricominciato a respirare normalmente. «Ma ho una condizione e non è negoziabile». Kate rimase in silenzio. «Farai quello che dico io, quando lo dico io. Senza domande, senza discussioni». Kate levò il mento. «So ubbidire agli ordini». «Sicuro. Ci crederò quando l’avrò visto. Quando saremo fuori di qui, ogni secondo sarà prezioso. Se ti dico di lasciarmi o di scappare, devi farlo. Potresti essere spaventata e disorientata, ma dovrai concentrarti su quello che ti dico di fare». «Non ho paura», mentì Kate. «Benissimo, allora siamo in due». David aprì i battenti di una porta di ferro. «C’è dell’altro». «Ti ascolto», disse Kate, un po’ sulla difensiva. David la squadrò dalla testa ai piedi. «Non puoi andare in giro vestita così. Sembri una senzatetto». Le gettò degli indumenti. «Ti staranno un po’ larghi». Kate li esaminò: un vecchio paio di blue-jeans e una T-shirt nera con il collo a V. David le gettò una felpa grigia. «Avrai bisogno anche di questa. Farà freddo nel posto dove andiamo». «Che sarebbe?» «Te lo spiegherò in viaggio». Kate fece per togliersi la maglietta, ma si arrestò. «Potresti, ehm…». David sorrise. «Non siamo due scolaretti». Lei esitò, non sapeva cosa ribattere. In quel mentre, lui si ricordò. «Ah, già. La cicatrice». Si voltò dall’altra parte, si chinò e cominciò a frugare in alcune scatole che c’erano in fondo all’armadio. «Come fai a…?». Da una delle scatole David prese una pistola e una scorta di munizioni. «Le droghe». Kate arrossì. Che aveva detto? Cosa aveva fatto? L’idea di aver perso il controllo di sé la terrorizzava, avrebbe dato qualsiasi cosa pur di ricordare. «Cos’è successo? Ho forse… Abbiamo…». «Rilassati. A parte la violenza gratuita, è stata una serata tutta a luci verdi. I bambini sono di nuovo al sicuro». Kate si cambiò la maglia. «E anche i soldati immaturi». David ignorò la battuta. Si girò a porgerle una vaschetta. Un altro pasto precotto. Kate lesse l’acronimo. PMP: Pasto Monorazione Pronto. «Fame?». Kate guardò cosa c’era dentro: pollo alla griglia con fagioli neri e patate. «Non poi così tanta». «Come vuoi». Strappò il coperchio, si sedette alla scrivania di metallo e cominciò a divorare la pietanza fredda con la posata allegata alla confezione, per metà forchetta e per metà cucchiaio. Si rammaricò di non aver scaldato la razione il giorno prima per Kate. Lei si sedette sul letto davanti a lui e calzò le scarpe da ginnastica che le aveva dato. «Senti, non so se te l’ho già detto, ma volevo… ringraziarti per…». David smise di rovistare tra le carte che c’erano sul tavolo e deglutì il boccone che stava masticando. «Non ci pensare», rispose senza guardarla. «Ho solo fatto il mio lavoro». Kate si allacciò le scarpe. Ha fatto solo il suo lavoro. Perché quella risposta le sembrava così… insoddisfacente? David infilò gli ultimi fogli in una cartelletta e la porse a lei. «Qui c’è tutto quello che ho su quelli che hanno preso i tuoi bambini. Avrai tempo di leggerlo in viaggio». Kate aprì subito la cartelletta e cominciò a scorrere le pagine. Erano almeno una cinquantina. «In viaggio per dove?». David divorò ancora qualche boccone. «Guarda la prima pagina. È l’ultima comunicazione in codice ricevuta da una fonte interna all’Immari. Qualcuno con cui sono ormai in contatto da due settimane». 30,88. 81,86. 03-12-2013. 10:45:00 44. 33-23-15 Staccare la corrente. Salvare i miei bambini. Kate ripose il foglio nella cartelletta. «Non capisco». «I primi numeri sono coordinate GPS. Sembra che sia una stazione ferroviaria abbandonata nella Cina occidentale. La seconda serie di numeri corrisponde evidentemente a una data, probabilmente il giorno e l’ora di partenza di un treno. Poi c’è qualcosa che non riesco a definire bene, ma credo che possa essere una cassetta con combinazione del deposito bagagli di quella stazione. Presumo che il contatto vi abbia lasciato qualcosa per noi, qualcosa di cui abbiamo bisogno, forse un altro messaggio. Non si può sapere se in quella stazione troveremo i bambini o se rappresenta solo un altro indizio. Ma può darsi che io non ci abbia capito niente. Potrebbe essere un altro codice o avere un significato del tutto diverso. Prima avevo un partner che ha decodificato tutti i messaggi precedenti». «E non puoi consultarlo?». David finì il suo pasto, lasciò cadere la forchetta nel contenitore di cartone e riprese a sistemare gli oggetti che aveva tolto dall’armadio. «No, purtroppo no». Kate richiuse la cartelletta. «Cina occidentale? Come ci arriviamo?» «Una cosa per volta. Prima vediamo se di sopra è rimasto qualcuno. Pronta?». Lei annuì e lo seguì su per le scale, dove lui le disse di fermarsi ad aspettare mentre dava un’occhiata nel cottage. «Via libera», tornò a comunicarle poco dopo. «Speriamo che se ne siano andati del tutto. Stammi vicino». Uscirono correndo nel rado sottobosco, lungo una sterrata che sembrava inutilizzata. La strada finiva in un cul-de-sac sbarrato da quattro grandi capannoni blu, a loro volta chiaramente in disuso da anni. David condusse Kate al secondo. Spostò un pezzo di lamiera ondulata e la invitò a entrare in un’apertura triangolare, attraverso la quale sarebbe passata a malapena. «Lì dentro», le disse. Lei fece per protestare, ma ricordò la condizione che le aveva imposto e ubbidì cucendosi la bocca. D’istinto si sforzò di non sporcarsi le ginocchia di fango, ma così facendo non riusciva a passare. Come fosse sensibile al suo problema, David fece pressione sui bordi dell’apertura e Kate riuscì a entrare abbastanza agevolmente. Lui la seguì all’interno, poi spalancò i battenti del portellone da dentro e lei poté finalmente vedere il “tesoro” nascosto nel capannone. Con molta magnanimità lo si poteva definire un aereo. Per la precisione era un idrovolante, di quelli che Kate immaginava si usassero per raggiungere le zone più remote dell’Alaska… negli anni Cinquanta. Probabilmente non era così vecchio, ma vecchio lo era. C’erano quattro posti a sedere e aveva due grandi eliche sulle ali. Che lei probabilmente avrebbe dovuto mettere in moto manualmente, come Amelia Earhart. Posto che si mettessero in moto… e che il suo compagno soldato sapesse farlo volare. Guardò David che sfilava il telo da sopra la coda e spediva via a calci i blocchi di legno davanti alle ruote. Al cottage le aveva detto che non avrebbe ammesso “domande e discussioni”, ma non poté farne a meno. «Tu sai pilotare questo aggeggio, giusto?», gli chiese. Lui alzò per metà le spalle e si girò a guardarla come se fosse stato colto in flagrante nel tentativo di svicolare. «Ah, be’, genericamente». «Genericamente?». 47 Jet dell’Immari Corporate Sopra l’oceano Atlantico meridionale Dorian guardò Naomi finire l’ultimo goccio del suo Martini e stendersi sul comodo divano all’altro lato della cabina. Un lembo dell’accappatoio bianco di spugna le scivolò sul fianco mettendo in mostra il petto, i cui movimenti respiratori andavano rallentando, come quelli di una gatta appagata che si è appena saziata di una preda succulenta. Si leccò dalle dita una goccia di Martini e si sollevò su un gomito. «Sei di nuovo pronto?». Forse non si era saziata, forse era insaziabile. E se era lui a dirlo, non era cosa da poco. Dorian sollevò il ricevitore. «Non ancora». Naomi fece un mezzo broncio e ricadde sul divano. «Sì, signore?», disse al telefono la voce dell’operatore alle comunicazioni. «Mi metta in contatto con la sede in Cina». «Immari Shanghai?» «No, quella nuova in Tibet. Devo parlare con il dottor Chase». Dorian sentì cliccare il mouse. «Dottor Chang?» «No, Chase. Sezione nucleare». «Attenda». Dorian guardò Naomi giocherellare con l’accappatoio che la copriva solo in parte. Si chiese quanto fosse in grado di aspettare. Si sentì un clic nel telefono. «Chase», disse una voce distratta. «Sono Sloane. A che punto siamo con i botti?». Chase tossì e parlò più lentamente. «Signor Sloane. Direi che, credo, ne abbiamo cinquanta operativi. O forse quarantanove». «E in totale?» «Sono tutti quelli che abbiamo, signore. Stiamo cercando di farcene dare degli altri, ma gli indiani e i pakistani non ce li vogliono più vendere». «Non è una questione di soldi, qualunque cifra chiedano…». «Ci abbiamo provato, signore, non vendono a nessun prezzo, non senza una ragione, e noi non abbiamo niente di meglio da raccontare che quella del backup per il nostro reattore nucleare». «Potete aggirare il blocco sovietico sugli armamenti?» «Sì, ma ci vorrà più tempo. Saranno probabilmente ordigni più vecchi, bisognerà controllarli e convertirli. E avranno una resa sicuramente inferiore». «Va bene. Vedo cosa posso fare. Preparatevi a un nuovo invio. E a proposito di conversioni, ho bisogno che mi prepariate due bombe portatili… qualcosa che una persona di piccola corporatura, oppure… una persona… stanca… possa portare senza difficoltà». «Ci vorrà del tempo». «Quanto?». Dorian sospirò. Era sempre tutto così complicato con quei balordi. «Dipende. Qual è il limite di peso?» «Il limite di peso? Non so. Facciamo quindici chili? No, aspetti, sono troppi. Forse è meglio… sei o sette. Diciamo sette chili o giù di lì, si può fare?» «Ci sarà una riduzione di potenza». «Si può fare?», ripeté spazientito Dorian. «Sì». «Quanto tempo?». Lo scienziato sospirò. «Un giorno, forse due». «Mi serve entro dodici ore. Niente scuse, dottor Chase». Una lunga pausa. Poi: «Va bene, signore». Dorian riappese. Naomi aveva finalmente ceduto. Si stava versando un altro Martini. Gli mostrò la bottiglia in segno d’offerta. «Non ora». Dorian non beveva mai sul lavoro. Rifletté per qualche momento, poi staccò di nuovo il ricevitore. «Mi ridia il Tibet. Il dottor Chang». «Chase?» «Chang, che fa rima con bang bang». Questa volta i clic del mouse furono più solleciti. «Parla Chang, signor Sloane». «Dottore, sto venendo lì e abbiamo bisogno di attivare qualche preparativo. Quanti soggetti abbiamo laggiù?» «Credo…», cominciò Chang. Dorian sentì un fruscio di carte, ticchettio di tasti, e poi di nuovo la voce dello scienziato. «382 primati, 119 umani». «Solo 119 umani? Credevo che ne avessimo acquisiti molti di più. Il progetto parlava di migliaia». Dorian guardò dal finestrino. 119 potevano non essere sufficienti. «Sì, è vero, però, be’, visti gli scarsi risultati, abbiamo sospeso il reclutamento di umani. Ci siamo dedicati di più agli esperimenti con roditori e primati. Vuole che riprendiamo? C’è qualche nuova terapia?» «No. C’è un nuovo piano. Dovremo lavorare con quello che avete. Voglio che tutti gli umani siano sottoposti all’ultimo trattamento, quello scaturito dalla ricerca della dottoressa Warner». «Signore, quella terapia non era efficace…». «Non lo era, dottore. Io so qualcosa che lei non sa. Si deve fidare di me». «Sì, certo, li prepareremo. Ci dia tre giorni…». «Oggi, dottor Chang. Di tempo non ne abbiamo». «Ma noi non abbiamo il personale o la struttura adatta…». «Faccia in modo che bastino». Dorian ascoltò per qualche istante. «Pronto?» «Sono qui, signor Sloane. Li faremo bastare». «Un’altra cosa. Questa volta non incenerite i corpi». «Ma c’è rischio che…». «Sono sicuro che troverete il modo di occuparvene con la dovuta sicurezza. Abbiamo dei locali per la quarantena, no?». Dorian attese, ma lo scienziato rimase in silenzio. «Bene. Ah, quasi dimenticavo. Secondo lei che peso sono in grado di sopportare i due bambini? Ciascuno dei due, intendo». Chang sembrò sorpreso da quella domanda, o forse era distratto o preoccupato per l’ordine che aveva ricevuto di non distruggere i cadaveri. «Ah, intende peso nel senso di…». «Di uno zainetto, ponendo il caso che ne portino uno». «Non saprei…». Scienziati: la sua perenne sventura. Allergici al rischio, fifoni, perditempo. «Faccia una stima, dottore. Non c’è bisogno che sia preciso». «Diciamo tra i sei o sette chilogrammi. Dipende da altri fattori, per quanto tempo devono portare il peso o quanto è lunga la strada che devono percorrere e…». «Basta, basta. Sarò lì tra breve. Veda di farsi trovare pronto». Dorian riattaccò. Naomi non gli diede la possibilità di una terza telefonata. Ingollò il Martini, attraversò il breve spazio che li divideva, posò il bicchiere sul tavolino e gli salì sopra a cavalcioni, lasciando cadere l’accappatoio. Fece per aprirgli la lampo, ma Dorian le afferrò le mani e gliele bloccò contro i fianchi, poi la sollevò e la fece cadere sul divano accanto a sé. Schiacciò un pulsante che aveva alle spalle. Cinque secondi dopo l’assistente di volo aprì lo sportello e, vedendo la scena, indietreggiò all’istante. «Si fermi», gli ordinò Dorian. «Resti. Venga qui». Avendo intuito il senso dell’invito, la giovane assistente richiuse delicatamente lo sportello come un’adolescente che lascia furtivamente la propria cameretta nel cuore della notte. Naomi si alzò dal divano e andò a prenderle il viso tra le mani. La baciò e le sfilò il foulard dal collo, cominciando subito ad armeggiare con i bottoni del blazer blu sulla camicetta bianca. Il blazer fu sul pavimento prima che il bacio finisse. Poi Naomi le spinse la gonna oltre i fianchi. 48 Snow Camp Alpha Sito trivellazione n. 4 Antartide orientale Robert Hunt chiuse la porta della sua capsula abitativa portatile e si mise alla radio. «Bounty, qui Snow King. Abbiamo toccato la profondità di metri due tre zero zero, ripeto, siamo scesi a due tre zero zero metri di profondità. Condizione immutata. Non abbiamo trovato che ghiaccio». «Snow King, Bounty. Abbiamo ricevuto. La profondità è di due tre zero zero metri. Resta in attesa». Robert posò il microfono sul tavolino pieghevole e si sgranchì le membra dalla seggiolina instabile su cui sedeva. Non vedeva l’ora di lasciare quell’inferno di ghiaccio. Aveva cercato petrolio nei luoghi più inospitali del mondo: Canada del Nord, Siberia, Alaska e il Mare del Nord al di sopra del Circolo polare artico. Niente in confronto all’Antartide. Si guardò intorno, da sette giorni quel guscio era casa sua. Non era esattamente come gli ultimi tre in cui era vissuto negli ultimi siti di trivellazione: una stanza di tre metri per cinque con tre brande, una bella stufa rumorosa, quattro bauli di attrezzature e cibo e il tavolo con la radio. Mancava il frigorifero: tenere le cose in fresco era l’ultimo dei loro problemi. La radio tornò in vita gracchiando. «Snow King, qui Bounty. I tuoi ordini sono i seguenti: estrai la trivella, copri il foro e spostati in un posto nuovo. Prego confermare gli ordini quando sei pronto a ricevere le nuove coordinate GPS». Robert confermò, trascrisse le nuove coordinate e chiuse la comunicazione. Per un minuto rimase seduto dov’era a meditare sul suo lavoro. Tre trivellazioni, tutte fino a 2300 metri di profondità, tutte con lo stesso risultato: nient’altro che ghiaccio. E le attrezzature erano bianche come la neve e coperte da enormi teli dello stesso colore, che sembravano vele. Qualsiasi cosa stessero facendo, il loro datore di lavoro non voleva che qualcuno dal cielo se ne accorgesse. Aveva dato per scontato che cercassero petrolio o qualche minerale prezioso. Fare trivellazioni in segreto non era insolito. Si raggiunge un posto, si scava, si fa centro, si nasconde tutto, poi si va a farsi dare un’opzione su quell’area. Ma non esistevano diritti di trivellazione per l’Antartide e c’erano luoghi molto più facili, e anche molto meno costosi, dove trovare petrolio e minerali preziosi. L’aspetto economico dell’operazione non aveva senso. Eppure non sembrava che ci fosse un problema di soldi. In ogni sito c’erano attrezzature per 30 milioni di dollari e, a quanto pareva, a nessuno importava che fine facessero. Lui veniva pagato 2 milioni di dollari per quelli che sarebbero stati, secondo loro, due mesi di trivellazioni al massimo. Gli avevano fatto firmare un documento in cui si impegnava alla segretezza e la cosa era finita lì. Due milioni di dollari, trivella dove ti diciamo noi e tieni la bocca chiusa. Era quello che Robert aveva intenzione di fare. Con 2 milioni di dollari si sarebbe cavato dai guai in cui si trovava e magari gli sarebbe rimasto abbastanza da mollare le trivellazioni per sempre. E forse sarebbe anche riuscito a risolvere tutti i suoi problemi, ragione per la quale si era ritrovato alle strette. Ma quello era probabilmente una pia illusione, più o meno quanto trovare petrolio nell’Antartide. 49 Sopra i monti della Cina occidentale Erano già tre volte che scendevano per tentare l’ammaraggio in un piccolo lago e Kate non ne poteva più. «Mi sembrava che avessi detto che eri capace di pilotare questo coso», mugugnò. David continuò a restare concentrato sui comandi. «Atterrare è molto più difficile che volare». Per Kate atterrare e volare erano la stessa cosa, ma gliela passò. Controllò per la centesima volta la fibbia della cintura di sicurezza. David liberò dalla condensa alcuni dei vecchi indicatori sul cruscotto e cercò di mettere in assetto il velivolo per il tentativo successivo. Kate sentì sputacchiare e l’aereo s’inclinò dalla sua parte. «Sei stato tu?». David batté il dito sul quadro comandi, prima piano, poi con più forza. «Abbiamo finito la benzina». «Credevo che avessi detto…». «L’indicatore dev’essere guasto». David le fece un cenno con la testa. «Passa dietro». Kate gli strusciò addosso per spostarsi sui sedili posteriori, per una volta ubbidendo senza controbattere o lamentarsi. Si allacciò la cintura. Sarebbe stato l’ultimo tentativo di ammaraggio. Anche l’altro motore si spense con un brontolio e l’aereo proseguì volando come un aliante in un silenzio sinistro. Kate osservò da sopra la fitta foresta verde scuro che incorniciava lo scampolo d’acqua azzurra del lago. Era una scena bellissima, le ricordava le regioni selvagge del Canada. Sapeva che laggiù faceva freddo, dovevano essere nel Nord dell’India o nella Cina occidentale. Avevano quasi sempre sorvolato acqua, restando molto bassi sul mare per evitare di essere individuati dai radar. Avevano mantenuto una rotta quasi sempre verso nord e il sole era sempre stato alla sua destra finché non avevano raggiunto la costa, una terraferma dai profili bassi in una zona monsonica, che probabilmente era il Bangladesh. Kate non aveva fatto domande e del resto nemmeno sarebbe servito, nel baccano dei motori ora spenti. Dovunque fossero, si trattava di un luogo remoto e inviolato. Se nell’ammaraggio fossero rimasti feriti invece di lasciarci la pelle, con tutta probabilità sarebbe stato un destino comunque fatale. Ora il lago veniva loro incontro più rapidamente. David mantenne il velivolo orizzontale. O almeno ci provò: a quanto pareva, era più difficile controllare l’idrovolante senza la propulsione dei motori. La mente di Kate cominciò a immaginare esiti funesti. E se fossero piombati di muso dentro il lago? Erano circondati dalle montagne. Un lago così doveva essere incredibilmente profondo… e gelido. L’aereo li avrebbe trascinati verso il fondo. Non sarebbero mai sopravvissuti in quell’abisso di acqua ghiacciata. E se fossero rimbalzati? Come si sarebbero fermati? Sarebbero andati a sbattere contro gli alberi a tutta velocità. Immaginò centinaia di rami che li trapassavano in tutto il corpo, come spilloni in una bambola vudu. Senza dimenticare i gas della benzina che ancora si trovavano nel serbatoio e che sarebbero esplosi alla più piccola scintilla. In quel caso sarebbero morti in fretta. I galleggianti slittarono sull’acqua senza entrarvi in contatto contemporaneamente e il velivolo sobbalzò rollando. Uno dei galleggianti si sarebbe potuto staccare. A quel punto l’aereo sarebbe andato in pezzi e loro altrettanto. Kate strinse la cinghia un po’ di più. O avrebbe dovuto slacciarla? Avrebbe potuto finire tagliata in due. I galleggianti entrarono nuovamente in contatto con l’acqua sibilando per qualche istante prima di rimbalzare di nuovo verso l’alto, tremolanti e feriti. Kate si sporse in avanti e chissà perché passò le braccia intorno al collo di David, tenendolo stretto contro il suo sedile e schiacciandosi lei stessa contro lo schienale. Gli posò la testa sulla spalla. Non poteva guardare. Sentì l’aereo solcare l’acqua con più violenza. Il fondo vibrava all’impazzata. Le scosse si diffusero per le sottili pareti di metallo, poi Kate udì una serie di schiocchi e tonfi e fu catapultata all’indietro quasi completamente senza fiato. Aprì gli occhi e respirò. Si erano fermati. Rami! Dentro la cabina. David era al suo posto con la testa penzoloni. Kate si lanciò in avanti e per poco la cinghia non la spezzò veramente in due. Allungò comunque un braccio e tastò il petto di David. Era stato trafitto da un ramo? Non sentì niente. Lui rialzò la testa molto lentamente. «Ehi, almeno prima offrimi da bere». Kate si lasciò andare contro il proprio schienale e gli mollò una pacca sulla spalla. Era felice di essere viva. E felice che fosse vivo anche lui. «Mi sono capitati atterraggi migliori», disse comunque. Lui si girò per metà per scoccarle un’occhiata. «Sull’acqua?» «Per la cronaca, questo è il mio primo ammaraggio, quindi la risposta è no». «Già, è la prima volta anche per me». David si slacciò la cintura e uscì dallo sportello sull’altro lato di quello del pilota. Posò il primo piede sul predellino e spostò il sedile per far passare Kate. «Stai dicendo sul serio, vero? Non avevi mai fatto atterrare un aereo sull’acqua? Sei completamente impazzito?» «No, stavo scherzando. Passo tutto il tempo libero ad ammarare». «E ti capita sempre di restare senza benzina?». David cominciò a scaricare i bagagli dall’aereo. «Benzina?». Alzò gli occhi come ricordando qualcosa. «Non siamo rimasti senza benzina. Ho spento i motori solo per un effetto più drammatico. Sai, nella speranza che avresti fatto quella cosa di abbracciarmi da dietro». «Ma che spasso». Kate cominciò a riordinare i bagagli come se fosse un’operazione a lei abituale. «Devo dire che sei certamente più… vivace di quando eravamo a Giacarta». Ripensò per qualche momento a quello che aveva appena detto. «Cioè», volle precisare, «non mi sto lamentando…». «Il fatto è che sopravvivere a una brutta fine mi mette sempre di buonumore. A proposito», aggiunse porgendole un lembo di un grande telo verde, «aiutami a stendere questo sull’aereo». Kate s’infilò sotto l’aereo e prese il telo dall’altra parte quando lui glielo lanciò, poi tornò dove avevano accatastato le provviste. Si girò a dare un’occhiata all’aereo mimetizzato. «Dovremo… usare quello per…». David le sorrise. «No, direi che è stato il suo ultimo volo. E poi non c’è più benzina». Le mostrò tre razioni di rancio aprendole a ventaglio come carte da gioco. «Adesso dimmi, hai intenzione di continuare il tuo sciopero della fame o ci stai ad approfittare di una di queste leccornie?». Kate fece una mezza smorfia e ispezionò le confezioni. «Mmm… Cosa offre il menu stamattina?». David girò le vaschette. «Vediamo. Per la gioia del tuo palato abbiamo polpettone, filetto alla Stroganoff e zuppa di pollo con pasta all’uovo». L’ultima volta che Kate aveva mangiato era stato nel tardo pomeriggio del giorno prima, quando ancora non erano scesi nel rifugio antiaereo sotto il cottage. «Non ho poi questa gran fame, ma la zuppa di pollo è semplicemente irresistibile». David strappò il coperchio. «Una scelta eccellente, signora. La prego di attendere qualche momento che il suo piatto si scaldi». «Non c’è bisogno di scaldarlo», ribatté lei. «Sciocchezze, nessun problema». Kate pensò al telo che copriva l’aereo. «Ma il fuoco non rivelerà la nostra posizione? Non ci metterà a rischio di…?». David scosse la testa. «Mia cara dottoressa, ammetto che oggi ci stiamo un po’ arrangiando con mezzi di fortuna, ma non viviamo nell’età della pietra e non cuciniamo i nostri cibi su focolai di pietra come gli uomini di Neanderthal». Prese dai suoi bagagli un piccolo oggetto simile a una torcia a stilo e ne ruotò l’estremità superiore facendone scaturire una fiamma potente come quella del cannello di un piccolo saldatore. Fece passare quindi la fiamma avanti e indietro sotto la vaschetta scelta da Kate. Accosciata davanti a lui, Kate guardò la “zuppa di pollo” che cominciava a bollire. Era senza dubbio soia o qualche altro surrogato del pollo. «Almeno non è stato fatto del male a qualche animale». David rimase concentrato sulla fiamma e il fondo di cartone come se stesse riparando un delicato componente elettronico. «Ah, secondo me è carne vera. Sono diventati molto bravi con queste cose negli ultimi anni. In Afghanistan ho mangiato cibi che non erano adatti al consumo umano. O al consumo degli ominidi, immagino che diresti tu». «Ma complimenti… Sì, siamo ominidi. Anzi, Homines, per la precisione. I soli rimasti». «Ho ripassato un po’ le mie nozioni sull’evoluzione». David le porse la minestra riscaldata, poi aprì un’altra confezione, quella del polpettone, e cominciò a mangiare la pietanza senza scaldarla. Kate mescolò la zuppa con la metà a cucchiaio della sua posata e l’assaggiò con cautela. Non era terribile, ma forse si stava solo abituando al suo sapore spaventoso. Pazienza. Mangiarono in silenzio. Il lago era calmo e la fitta vegetazione intorno a loro ondeggiava nel vento e scricchiolava di tanto in tanto sotto i balzi da un ramo all’altro di creature invisibili. Non fosse stato per i tragici eventi del giorno prima, sarebbero potuti essere campeggiatori in una foresta vergine. E per il momento così sembrava a Kate. Finì la sua zuppa un minuto dopo David. «È meglio che ci muoviamo», le disse lui prendendo la sua vaschetta vuota, «manca mezz’ora all’appuntamento». E di punto in bianco la quiete e l’innocenza di quello scenario naturale svanì. Lui nascose sotto il telo gli avanzi del loro pasto e si caricò in spalla un pesante zaino. Partì a passo spedito inoltrandosi nella foresta e Kate ebbe il suo da fare per stargli dietro e cercare di nascondere il fiato corto. Il suo compagno era in condizioni fisiche molto migliori delle sue. Quando si fermava di tanto in tanto, respirava ancora dal naso, mentre lei si girava dall’altra parte e risucchiava boccate d’aria come se stesse per annegare. «So che ancora non vuoi parlarmi della tua ricerca», le disse quando si fermarono per la terza volta, «però dimmi almeno questo: perché secondo te l’Immari ha preso quei bambini?». Si erano appoggiati entrambi al tronco di un albero, Kate piegata in avanti con le mani sulle ginocchia. «È una cosa a cui ho pensato spesso da quando siamo partiti», gli rispose. «Alcune cose che mi aveva detto Martin, quando mi interrogavano, non avevano assolutamente senso». «Per esempio?» «Ha insinuato che ci sarebbe un’arma, una specie di arma superpotente, che potrebbe cancellare la razza umana dalla faccia della Terra…». David staccò la schiena dall’albero. «Ha detto forse…», cominciò. «No, nient’altro. Era una farneticazione, parte di uno sproloquio su città perdute e teorie genetiche e… cos’altro?». Kate scosse la testa. «Ha sostenuto che i bambini affetti da autismo potrebbero costituire una minaccia, diceva che erano il prossimo passo nell’evoluzione umana». «Ed è possibile? Questo aspetto evolutivo?» «Non lo so, può anche darsi. Sappiamo che l’ultimo grosso passo in avanti nell’evoluzione fu dovuto a un mutamento nella connettività cerebrale. Se osserviamo il genoma degli umani di centomila anni fa e quello degli umani di cinquantamila anni fa, vediamo che ci sono differenze genetiche minime, ma noi sappiamo che i geni che sono mutati hanno avuto un effetto enorme, soprattutto nel nostro modo di pensare. Gli esseri umani hanno cominciato a usare il linguaggio e il pensiero critico, a risolvere problemi invece di agire in base all’istinto. In parole povere, si può dire che il cervello abbia cominciato ad agire più come un computer che come un centro di elaborazione degli impulsi. È tema di dibattito, ma ci sarebbero gli indizi di un nuovo mutamento nella struttura del cervello umano. L’autismo è essenzialmente una modifica della connettività cerebrale, e le diagnosi di casi che rientrano nello spettro dei disturbi da autismo, o ASD, stanno aumentando a vista d’occhio. In America in questi ultimi vent’anni il loro numero è cresciuto del cinquecento percento. Un americano ogni ottantotto rientra in qualche misura nello spettro. L’aumento dei casi è dovuto in parte a tecniche diagnostiche migliori, ma non c’è dubbio che l’ASD sia in crescita in tutti i Paesi del mondo. In particolare, nelle nazioni più sviluppate». «Non ti seguo. Cosa c’entra l’ASD con la genetica evoluzionistica?» «Noi sappiamo che quasi tutte le condizioni presenti nello spettro dell’autismo hanno una forte componente genetica. Sono tutte causate da una differenza nelle connessioni cerebrali controllata da un piccolo gruppo di geni. La mia ricerca indaga sul modo in cui quei geni influenzano le connessioni e si propone soprattutto di individuare una terapia che possa attivare o disattivare certi geni in grado di aumentare le capacità sociali del soggetto e migliorare la sua qualità di vita. C’è un enorme numero di persone che rientra nello spettro dell’autismo e conduce una vita indipendente e gratificante. Gli individui a cui è stata diagnosticata la sindrome di Asperger, per esempio, hanno semplicemente grandi difficoltà a socializzare e di solito hanno un interesse praticamente esclusivo, che può essere per i computer, i fumetti, la finanza, non importa cosa. Ma non deve essere sempre una limitazione. Anzi, di questi tempi la specializzazione è la chiave del successo. Guarda la lista di “Forbes”. Se analizzassimo le persone che hanno fatto fortuna in vari campi come informatica, biotecnica o finanza, ti garantisco che sarebbero quasi tutti classificabili dentro lo spettro dell’autismo. Ma hanno avuto fortuna, hanno vinto alla lotteria genetica. Il loro cervello opera in modo tale da permettere loro di risolvere problemi complessi e contemporaneamente avere una funzionalità sociale sufficiente a vivere senza problemi in una collettività. È questo quello che sto cercando di fare io, offrire ai miei bambini la possibilità di una vita normale». Kate si era riposata abbastanza e aveva ripreso fiato, ma continuava a tenere la testa bassa. «Non parlare così, come se fosse tutto finito. Andiamo, coraggio, manca un quarto d’ora». Ripresero la marcia e questa volta Kate riuscì a stargli dietro. A cinque minuti dall’ora prefissata, uscirono allo scoperto dal fitto della foresta e si trovarono di fronte a una grande stazione ferroviaria. «Non è affatto abbandonata», mormorò Kate. La stazione era affollata di persone in casacca bianca, in tenuta da personale della sicurezza o uniformi di altro tipo. In mezzo a loro David e Kate sarebbero balzati all’occhio. «Sbrigati», la esortò lui, «prima che vedano che siamo usciti dagli alberi». 50 Centro ricerche Immari Corp. Burang, Cina Regione autonoma del Tibet Dorian controllava i monitor mentre i ricercatori facevano uscire dalla stanza la ventina di cinesi sottoposti al test. La terapia li aveva duramente provati. Metà di loro si reggeva a malapena in piedi. Una delle pareti della sala di osservazione era occupata dai monitor che sorvegliavano ogni centimetro quadrato del centro di ricerca, mentre gran parte dello spazio era occupato da alcune file di postazioni alle quali sedevano teste d’uovo a lavorare tutto il giorno ai loro computer, assorti in chissà quali occupazioni. Appoggiata alla parete in fondo alla sala, Naomi si annoiava a morte. Con i vestiti addosso sembrava un’altra persona. Dorian le fece un cenno con la mano. Non era autorizzata ad ascoltare il rapporto dello scienziato. «Non vuoi andare via?», gli chiese lei. «Dopo. Tu familiarizza con l’ambiente. Io ho del lavoro da fare. Ti raggiungo tra poco». «Familiarizzerò con i talenti locali». «Non fare niente che non farei io». Naomi uscì senza una parola. Dorian si rivolse allo scienziato che, sempre trafelato, non aveva fatto che appiccicarglisi addosso da quando era arrivato. «Dottor Chang?» «Sì, signore?» «Vuole spiegarmi cos’abbiamo qui?» «Questo è il terzo turno. Stiamo lavorando a ritmi serratissimi, signor Sloane». Quando Dorian tacque, Chang riprese da solo. «Sa se, ehm, il dottor Grey ci raggiungerà?» «No. D’ora in avanti comunicherà con me sul progetto. Intesi?» «Ah, sì, signore. È…». «Il dottor Grey sta lavorando a un nuovo progetto. Voglio che mi aggiorni velocemente». Chang aprì la bocca per parlare. «E sia breve», aggiunse Dorian con impazienza. «Certo, signore». Chang si sfregò le mani come se se le stesse scaldando sul fuoco. «Dunque, come sa, il progetto risale agli anni Trenta, ma abbiamo fatto reali progressi solo in questi ultimi anni ed è tutto grazie a qualche importante svolta nel campo della genetica, in particolare a un sistema più rapido per il sequenziamento del genoma». «Credevo che avessero già sequenziato il genoma umano… negli anni Novanta». «Ah, ma questa è una nozione incon… be’, diciamo non del tutto precisa. Non c’è un genoma umano. Negli anni Novanta fu sequenziato il primo genoma umano e una bozza della sequenza fu pubblicata nel febbraio del 2001. Era il genoma del dottor Craig Venter, per la precisione. Ma ciascuno di noi ha il proprio genoma e sono tutti diversi. E qui sta uno dei problemi». «Non la seguo». «Sì, chiedo scusa, non parlo spesso del progetto». Fece una risatina nervosa. «E si capisce perché! Ma in particolare non mi capita di doverlo spiegare a qualcuno nella sua posizione. Dunque, da dove cominciamo? Forse ci vuole un minimo di inquadramento storico. Ecco, gli anni Trenta, giusto. A quei tempi la ricerca era… radicale, ma nonostante i metodi impiegati diede alcuni risultati interessanti». Chang si guardò intorno come temendo di aver offeso Dorian. «Ehm, già, per decenni abbiamo studiato l’effetto Campana sulle sue vittime. Come sa, è una forma di radiazione che non abbiamo compreso fino in fondo, ma le cui conseguenze…». «Non sprechi tempo sull’effetto Campana, dottore. Nessuno in questo mondo ne sa più di me. Mi dica quello che non so. E faccia in fretta». Chang abbassò gli occhi, aprì e chiuse tre o quattro volte i pugni e cercò di asciugarseli sui calzoni. «Certo che lei lo sa bene, intendevo solo confrontare le nostre ricerche del passato con… Sì, oggi, nello sviluppo della genetica, sequenziamo… Noi… L’idea vincente è stata quella di rovesciare l’obiettivo della ricerca. Invece di studiare i suoi effetti, ci siamo impegnati nella ricerca di un modo per sopravvivere alla macchina. Fin dagli anni Trenta abbiamo sempre saputo che ci sono soggetti che reagiscono meglio di altri, ma visto che alla fine muoiono tutti…». Quando alzò gli occhi, Chang vide Dorian che lo fissava con severità. Riabbassò in fretta la testa e riprese. «Noi… la nostra teoria è che se riusciamo a isolare i geni che conferiscono immunità alla macchina, potremo sviluppare una terapia genica che ci protegga dai suoi effetti. Per produrre questo gene useremmo un retrovirus, quello che chiamiamo il “Gene di Atlantide”». «Allora perché non l’avete trovato?» «Qualche anno fa abbiamo creduto di essere vicini al successo, ma a quanto pare nessuno ha immunità piena. Come sa, il nostro presupposto era che in un certo momento ci fosse un gruppo di esseri umani in grado di contrastare la macchina, e che il loro DNA sia stato sparso per il pianeta. In pratica ci siamo lanciati in una specie di caccia genetica globale. Ma francamente, dopo tutti gli esperimenti che abbiamo condotto, considerate le dimensioni del nostro campione, stavamo cominciando a credere che il Gene di Atlantide non esistesse, che non fosse mai esistito negli esseri umani». Dorian alzò una mano e lo scienziato s’interruppe per riprendere fiato. Se quello che il dottore gli stava raccontando era vero, sarebbe stato necessario riesaminare tutto ciò di cui erano già convinti. E allora i suoi metodi sarebbero stati più che giustificati. O quasi. Ma era possibile? Qualcosa non andava. «Come mai i bambini sono sopravvissuti?», domandò. «Purtroppo non lo sappiamo. Non sappiamo nemmeno in che modo siano stati trattati…». «Questo lo so anch’io. Mi dica quello che sa lei». «Sappiamo che la terapia a cui sono stati sottoposti è molto all’avanguardia. Forse è così innovativa che non abbiamo niente a cui paragonarla. Abbiamo però qualche teoria. Ultimamente in genetica è stata fatta un’altra decisiva scoperta, che ha dato origine a quella che chiamiamo epigenetica. L’idea è che il nostro genoma non è tanto analogo a uno schema statico, ma piuttosto a un pianoforte. Il genoma sarebbe rappresentato dai tasti del piano. A ciascuno di noi vengono assegnati tasti diversi e i tasti non cambiano per tutta la vita, moriamo con gli stessi tasti di pianoforte, ovvero lo stesso genoma, con cui siamo nati. Quello che cambia è lo spartito, cioè l’epigenetica. Quello spartito determina che melodia viene suonata, quali geni vengono espressi, e quei geni determinano le nostre caratteristiche, tutto quanto ci definisce, dal QI al colore dei capelli. L’idea è che questa complessa interazione tra il nostro genoma e l’epigenetica che controlla l’espressione dei geni sia la vera essenza delle persone che diventiamo. L’aspetto interessante è che noi abbiamo un’influenza nella scrittura della musica, cioè nel controllo della nostra epigenetica personale. Altrettanto hanno i nostri genitori e persino il nostro ambiente. Se un certo gene viene espresso nei nostri genitori e nonni, aumenta la probabilità che si attivi anche in noi. Le nostre azioni, le azioni dei nostri genitori e il nostro ambiente influenzano la scelta dei geni che verranno attivati. I nostri geni possono controllare le variabili, ma è l’epigenetica a determinare il nostro destino. È una scoperta clamorosa. Da tempo sapevamo che c’era qualcos’altro in atto oltre alla pura genetica statica. Ce l’avevano indicato i nostri studi sui gemelli negli anni Trenta e Quaranta. Certi gemelli sopravvivono nella macchina più di altri, nonostante abbiano lo stesso identico genoma. L’anello mancante è l’epigenetica». «E tutto questo cosa ha a che fare con i bambini?» «La mia teoria personale è che un nuovo tipo di terapia abbia inserito nuovi geni nei bambini e che quei geni abbiano avuto un effetto a cascata, operando probabilmente anche a livello epigenetico. Noi pensiamo che per sopravvivere alla Campana sia necessaria un’azione combinata dei geni giusti con l’attivazione di questo “Gene di Atlantide”. È strano, ma si può dire che la terapia abbia agito quasi come una mutazione». «Mutazione?» «Sì, una mutazione è semplicemente un mutamento casuale del codice genetico, potremmo vederla come il lancio di un dado genetico. In certi casi la vincita è consistente e si traduce in un nuovo vantaggio evolutivo, mentre in altri casi… ti ritrovi con sei dita invece di cinque! Questa invece ha prodotto l’immunità alla Campana. È davvero affascinante! Mi piacerebbe tanto parlare con la dottoressa Warner. Sarebbe incredibilmente d’aiuto…». «Dimentichi la dottoressa Warner». Dorian si massaggiò una tempia. Genetica, epigenetica, mutazioni. Tutto si riduceva alla stessa cosa, una ricerca fallita, nessuna terapia utilizzabile come immunità alla Campana e mancanza di tempo per sperare di venirne fuori. «Quanti soggetti potete trattare in una volta sola?» «Be’, di solito ci limitiamo a cinquanta per ogni seduta, ma forse possiamo arrivare fino a cento o anche qualcuno in più, serrando molto le file». Dorian lanciò un’occhiata ai monitor. Una squadra di teste d’uovo in camice bianco stava facendo accomodare un nuovo gruppo di soggetti sulle sedie a sdraio, per collegarli poi alle sacche di morte trasparenti. «Quanto tempo ci vuole?» «Non molto. Di solito un soggetto non regge più di cinque o dieci minuti». «Da cinque a dieci minuti». Lo ripeté quasi sussurrando. Per qualche istante rifletté in silenzio, poi si alzò e si avviò alla porta. «Cominciate a trattare tutti i soggetti rimasti con la Campana. Il più velocemente possibile». Il dottor Chang fece per protestare, ma Dorian stava già uscendo. «Ah, mi raccomando, si ricordi che non dovete distruggere i corpi. Ne abbiamo bisogno. Io sarò nella Sezione nucleare, dottore». 51 Treno dell’Immari Corp. Campagne di Burang, Cina Regione autonoma del Tibet Kate osservava in silenzio il paesaggio che scorreva a quasi 150 chilometri orari. Di fronte a lei David cambiò leggermente posizione sul suo lato dello scompartimento chiuso. “Come fa a dormire in un momento come questo? E poi, storto in quel modo, si sveglierà con il torcicollo”. Si sporse a girargli appena appena la testa. Anche se ora non aveva i nervi a fior di pelle, le gambe le facevano troppo male per poter dormire. Era il prezzo che aveva pagato per l’andatura sostenuta scelta da David per il loro tragitto dal luogo dell’ammaraggio alla stazione ferroviaria. Senza contare gli ultimi metri tutti di corsa fino agli armadietti del deposito e al numero 44, che era stato la loro salvezza. All’interno, c’erano indumenti per entrambi: una divisa da agente della sicurezza per David e una casacca bianca per Kate. C’erano anche credenziali nuove: ora Kate era diventata la dottoressa Emma West, associata ricercatrice della misteriosa “Bell Primary: Divisione genetica”. David era Conner Anderson. Le foto sulle tessere non corrispondevano, ma per salire sul treno delle 10:45, apparentemente l’ultimo in partenza quella mattina, avrebbero dovuto far leggere i documenti a una macchina simile a un lettore di carte di credito o tesserini d’abbonamento. «E adesso?», aveva chiesto Kate mentre montavano in carrozza. David si era guardato intorno. «Non parlare», le aveva sussurrato. «Qualcuno potrebbe ascoltarci. Seguiamo il piano». “Il piano” non era niente di specifico. Lo scopo di Kate era trovare i bambini e risalire sul treno. David avrebbe fermato i reattori e l’avrebbe raggiunta. Non era nemmeno un abbozzo di piano, sarebbero stati probabilmente presi prima ancora di scendere dal treno. E adesso lui dormiva. Del resto non poteva aver dormito più di tanto la notte prima. Probabilmente era rimasto sveglio in attesa di sapere se gli uomini che stavano perquisendo il cottage avrebbero trovato l’ingresso al rifugio. Per quanto tempo era rimasto sdraiato su quel pavimento duro? E poi tutte le ore in quella vecchia e terrificante trappola mortale di aereo. Kate prese alcuni indumenti dalla sua borsa e glieli infilò tra testa e paratia. Trascorsero altri trenta minuti e Kate sentì che il treno rallentava. La gente cominciava ad accodarsi in corridoio. David l’afferrò per un braccio. Ma quando si era svegliato? Kate alzò verso di lui il volto: vi si stava velocemente disegnando un’espressione di panico. «Mantieni la calma», le raccomandò lui. «Ricordati che tu lavori qui. Prendi i bambini per un test. Ordini del direttore». «Quale direttore?», ribatté a denti stretti lei. «Se te lo chiedono, rispondi che non è cosa di loro competenza e tira dritto per la tua strada». Kate era sul punto di fargli un’altra domanda, ma David aprì la porta dello scompartimento e la sospinse nella coda di passeggeri in procinto di scendere. Ora che poté guardarsi indietro, lo vide già lontano di alcuni metri, diretto verso l’altra estremità della vettura. Era sola. Scrollò un paio di volte la testa e deglutì. Ce la doveva fare. Ce la poteva fare. Procedette lentamente in fila, cercando di apparire a suo agio. I passeggeri erano quasi tutti asiatici, ma c’erano anche un numero discreto di occidentali, probabilmente americani. Apparteneva a una minoranza, ma non dava troppo nell’occhio. C’era più di un’entrata al gigantesco complesso, davanti a ciascuna delle quali si erano formate tre code. Kate individuò l’ingresso dove si era raccolto il maggior numero di persone in giacca bianca, si diresse da quella parte e si mise in fila in attesa di inserire la sua tessera nel lettore, mentre cercava di dare un’occhiata a quelle che tenevano in mano gli altri. “Bell Auxiliary: Settore primati”. Guardò chi c’era nella fila accanto alla sua. “Bell Control: Manutenzione”. E lei? Bell qualcosa. Che c’entrava con la genetica. L’attanagliava il terrore che, se avesse osato dare un’occhiata alla sua tessera falsa, qualcuno le avrebbe puntato il dito addosso gridando: «Bugiarda! Prendetela!», come se fosse stata una bambina che se l’era fatta addosso e gli altri ragazzini al campo giochi l’additassero strillando. Davanti a lei, quelli in casacca bianca avanzavano a un ritmo regolare, passando come automi le loro tessere nello scanner. La fila si muoveva velocemente, come alla stazione. A quel punto notò qualcos’altro: sei guardie armate. Ciascuno del primo terzetto sorvegliava una delle tre file, scrutando attentamente i volti degli impiegati. Gli altri tre oziavano dietro un reticolato, bevendo caffè e chiacchierando amabilmente come impiegati d’ufficio in pausa dal lavoro. Tutti portavano in spalla un fucile automatico con la disinvoltura con cui uno sportivo porta la sacca da tennis. Doveva concentrarsi. La tessera. La tirò fuori per sbirciarla. “Bell Primary: Divisione genetica”. Vide nella fila accanto alla sua un uomo alto e biondo, sulla quarantina, con una tessera simile alla sua. Era un po’ più indietro. Calcolò che avrebbe dovuto aspettare di essere superata da lui per poterlo seguire. «Signora…». Mio Dio, stavano parlando a lei! «Signora». La guardia le indicò la colonnina con il lettore. Quelli ai suoi lati proseguivano accelerando il passo. Kate si sforzò di impedire alla mano di tremare mentre faceva scorrere la banda magnetica nella fessura. Un segnale acustico diverso. Una luce rossa. Di fianco a lei passarono altre due persone. Luci verdi, nessun bip. La guardia inclinò la testa e avanzò di un passo verso di lei. Adesso le mani le tremavano visibilmente. “Fai finta di niente”. Infilò la tessera nella fessura e la fece scorrere di nuovo, più lentamente. Luce rossa. Segnale sbagliato. Le guardie dietro il recinto avevano smesso di conversare. Guardavano lei. Quella della sua fila incrociò lo sguardo con i due colleghi. Kate si preparò a infilare la tessera per un altro tentativo, ma qualcuno le bloccò la mano. «È al contrario, tesoro». Lei trasalì. Era il tipo biondo. Non riusciva più a pensare. Cosa le aveva detto? «Io lavoro qui», s’affrettò a rispondere guardandosi intorno. Tutti avevano gli occhi fissi su di loro. Stavano bloccando due delle tre file. «Voglio sperarlo». Le prese la tessera. «Dev’essere nuova», commentò mentre leggeva i dati. «È la prima volta che la vedo… Ehi, questa non le somiglia». Kate gli strappò la tessera dalla mano. «Non… non guardi quella foto. Sono, ehm, nuova qui». Si passò una mano tra i capelli. L’avrebbero smascherata, lo sapeva. Lui continuava a fissarla. «Hanno usato una foto vecchia», cercò di giustificarsi. «Nel frattempo sono… sono dimagrita». «E si è anche tinta i capelli, mi pare», ribatté lui, scettico. «Sì, be’…». Kate prese fiato. «E magari sarà così galante da tenerlo per sé. Le bionde si divertono di più». Cercò di sorridere, ma immaginò di sembrare più impaurita che maliziosa. Lui annuì e ricambiò il sorriso. «Questo è vero». «Ehi, Casanova», lo richiamò all’ordine qualcuno dietro di lui. «Fai pratica di seduzione nel tuo tempo libero». Qualcuno rise. «Da che parte devo metterla?», domandò a quel punto Kate. Fece passare di nuovo la tessera nel lettore e si accese di nuovo la luce rossa e il segnale fu quello sbagliato. Si voltò verso l’impiegato a bocca aperta. Lui le prese la mano, le rigirò la tessera e la infilò nella fessura. Luce verde. Poi fece lo stesso con la propria. Verde. Passò con un certo imbarazzo tra gli sguardi di rimprovero delle guardie e Kate s’affrettò a seguirlo. «Grazie, dottor…». «Prendergast. Barnaby Prendergast». Svoltarono un altro angolo. «Barnaby Prendergast», ripeté lei. «Stavo per arrivarci da sola». «Be’, una certa sfrontatezza non le manca». La squadrò per un istante. «E noto che è anche veloce con i piedi, per essere una persona che non sa come si infila una tessera in un lettore». Aveva capito tutto? Kate cercò di sembrare imbarazzata e non le fu difficile. «Le armi mi rendono nervosa». «Allora qui non le piacerà molto. Sembra che tutti quelli che non indossano una giacca bianca facciano i cowboy come secondo lavoro». Calcò un pesante accento americano nel pronunciare le ultime parole. Sempre usando la sua tessera, aprì i battenti di una grande porta simile a quelle che dividono i reparti in un ospedale. «Immagino che debbano tenersi pronti nel caso gli alberi decidano di attaccarci». Sbuffò e mormorò: «Stupidi idioti». Davanti a loro alcuni uomini corpulenti spingevano gabbie su rotelle. Kate si fermò a guardare. Le gabbie erano piene di scimpanzé. Quando furono passate, si accorse di essere rimasta sola. Percorse un tratto di corridoio quasi correndo e scorse nuovamente Barnabus o come diavolo si chiamava. Dovette correre per raggiungerlo. Quando si fermò davanti a un’altra porta a due battenti come quella precedente, lui si girò nella sua direzione. «Dove ha detto che sta andando, dottoressa West?», le chiese. «Io… non gliel’ho detto». Kate cercò di fargli gli occhi dolci. Si sentiva veramente stupida. «E lei… dove va?» «Al mio laboratorio di virologia. E lei con chi lavora qui?». La guardava con un’espressione che sembrava confusa. O era solo una messinscena e la stava mettendo alla prova? Kate si sentì assalire dal panico. Era tutto molto più complicato di quanto aveva pensato quand’era sul treno. Che cosa credeva, di poter entrare lì dentro come se niente fosse e dire semplicemente: “Sono venuta a prendere i due bambini indonesiani”? Il consiglio di David di rispondere a chi si fosse incuriosito che non erano affari suoi si rivelava per quello che era: troppo semplicistico, troppo inopportuno. Adesso si rendeva conto che le aveva parlato così solo per metterla a suo agio. Ma non le veniva in mente niente di meglio. «Non è di sua competenza», borbottò. Barnaby, che era sul punto di infilare la tessera nel lettore, si ritrasse con la tessera tra le dita. «Come, prego?». La fissò perplesso per un attimo, poi si guardò intorno come a chiedersi da che direzione stesse arrivando un misterioso rumore. Kate provò l’incontenibile desiderio di scappare il più lontano possibile da quell’uomo, ma non sapeva nemmeno da che parte andare. Doveva assolutamente scoprire dove tenevano i bambini. «Io sto facendo una ricerca sull’autismo». Barnaby lasciò ricadere lungo il fianco la mano in cui teneva la tessera. «Davvero?», si meravigliò. «Non sapevo niente di una ricerca sull’autismo». «Con il dottor Grey». «Dottor Grey?». Barnaby alzò gli occhi al soffitto mentre si concentrava. «Non l’ho mai sentito…». La sua espressione scettica si rasserenò mentre si avvicinava a un telefono bianco montato sulla parete di fianco alla porta. Allungò la mano al ricevitore. «Forse è meglio che cerchi qualcuno che l’aiuti a trovare la sua destinazione». «No!». La reazione inconsulta di Kate lo fermò. «No, non lo faccia, non mi sono persa. Lavoro… con due bambini». «Ah, allora è vero», disse lui ritraendo la mano. «Giravano delle voci, ma sono tutti così evasivi su questa faccenda. Tutta questa segretezza da romanzo di cappa e spada». Non sapeva niente dei bambini. Significava qualcosa? Kate aveva bisogno di guadagnare tempo, aveva bisogno di pensare. «Già, capisco. Mi spiace di non poterle dire più di così». «Be’, sono sicuro che non è di mia competenza, come si suol dire». Mormorò qualcos’altro, forse “come se dovesse essere lei a stabilire cos’è di mia competenza”. «Però, sinceramente, mi lasci dire che non capisco cosa potrebbe fare con dei bambini in un posto come questo. Stiamo parlando di un tasso di sopravvivenza dello zero percento. Zero percento. Devo supporre che le “sue competenze” lo giustifichino. È così?». Kate fu attanagliata da un nuovo brutto presentimento, un terrore che non aveva considerato: tasso di sopravvivenza dello zero percento. I bambini potevano essere già morti. «Mi ha sentito?». Ma non poteva rispondere. Era immobilizzata, paralizzata. Lui lo vide, lesse la paura nei suoi occhi. Inclinò la testa sulla spalla. «Sa una cosa? C’è qualcosa di strano in lei. C’è qualcosa che non quadra per niente qui». Allungò di nuovo la mano. Staccò il ricevitore. Kate si protese a strapparglielo dalle dita. Lui sgranò gli occhi in un’espressione di incredulità e oltraggio. Lei si guardò intorno. Sentì echeggiare nella mente le parole di David: “Potrebbero ascoltarci”. Forse era già troppo tardi. Ripose il ricevitore, fece scivolare le braccia intorno alla schiena di Barnaby e gli avvicinò la bocca all’orecchio. «Mi ascolti», sussurrò. «Stanno tenendo due bambini prigionieri in questo complesso. Sono in pericolo. Sono qui per salvarli». Lui la respinse. «Cosa? È matta?». Aveva la stessa espressione che aveva fatto lei due giorni prima su quel furgone quando David l’aveva interrogata. Ci riprovò. «La prego. Mi deve credere. Si fidi. Ho bisogno del suo aiuto. Devo assolutamente trovare quei bambini». Lui la scrutò bene in viso. Aveva compresso le labbra come se avesse messo in bocca qualcosa di cattivo e non potesse sputarlo. «Senta, non so a che gioco stia giocando, se è un’esercitazione della sicurezza o un brutto scherzo, ma le dico che io di quei bambini non so niente. Posto che ci siano. Io ho solo sentito delle voci». «Dove pensa che li terrebbero?» «Non ne ho idea. Io non vedo nemmeno i soggetti. Ho solo accesso ai laboratori». «Si sforzi. La prego, faccia un’ipotesi, ho bisogno del suo aiuto». «Non lo so… in una delle ali residenziali, presumo». «Mi ci porti». Lui le agitò la sua tessera sotto il naso. «Pronto, pronto? Non ho l’accesso. Gliel’ho detto un momento fa, io posso entrare solo ai laboratori». Kate abbassò gli occhi sulla propria tessera. «Scommetto che posso io». La guardia osservò la donna che si avvicinava all’uomo, gli toglieva il telefono dalla mano, lo abbracciava e gli parlava all’orecchio. Forse lo stava minacciando. Lui sicuramente sembrava spaventato. Erano appena stati a un altro seminario sulle molestie sessuali, ma si trattava normalmente di uomini che pretendevano che una donna facesse sesso con loro. Dunque non era quello. Ma poteva essere qualcosa. Sollevò il ricevitore. «Sì, qui è Postazione Sette. Credo che potremmo avere un problema alla Bell Primary». 52 Centro ricerche Immari Corp. Burang, Cina Regione autonoma del Tibet David aspettava nella fila del personale della sicurezza. Il complesso era enorme, ben al di là di quanto si era aspettato. Tre gigantesche torri di raffreddamento a forma di cono rovesciato si elevavano nel cielo, emettendo fumo bianco che andava a confondersi con le nuvole. Incombevano come sentinelle sugli edifici. A giudicare da quel che si vedeva, doveva trattarsi di un centro medico di qualche tipo e insieme anche di una centrale elettrica. Nel frattempo sopraggiungevano altri convogli. Tutto il personale doveva arrivare da lontano e attraversare la vasta zona di quarantena che circondava il complesso, un’area profonda ben più di 100 chilometri. Perché? I costi dovevano essere incredibili. Sia per costruire una fortezza come quella in mezzo al nulla, sia per far arrivare tutti i giorni provviste e personale. «Signore!». David tornò al presente. Toccava a lui. Fece scorrere la tessera. Luce rossa. La ricontrollò. L’aveva infilata al contrario. La girò e ottenne il via libera. Appena entrato si domandò da che parte andare. C’era anche un altro pensiero che lo tormentava: Kate. Era finita in una cosa più grande di lei. Sentiva il dovere di concludere al più presto la propria missione per correre in suo soccorso. Trovò una carta topografica, con il percorso per l’evacuazione in caso di emergenza. Il reattore non era lì. Per la verità, basandosi sulle torri che scaricavano vapore acqueo, riteneva improbabile che si trovasse in quell’edificio. Abbandonò il corridoio principale seguendo il flusso della maggior parte degli impiegati e si trovò in un grande spogliatoio. Le altre guardie chiacchieravano fra loro, aprendo i rispettivi armadietti da cui prelevare armi e ricetrasmittenti. Sentì alcune guardie che parlavano della centrale elettrica e le seguì, munendosi di ricetrasmittente e pistola da una rastrelliera di fianco alla porta. Uscendo sul retro, si trovò in un piccolo cortile dal quale si vedevano i tre edifici più avanti: l’enorme centrale nucleare, una palazzina con poche finestre che poteva essere il centro medico, e una più piccola con molte finestre e la bandiera dell’Immari Corporate sul tetto, che con tutta probabilità ospitava gli uffici dell’amministrazione. Gli uomini che lo precedevano erano immersi nella loro conversazione. David li seguiva preoccupato. Vedendo quanto grande era il complesso, ora temeva di non aver messo nello zaino un quantitativo sufficiente di esplosivo. All’ingresso della centrale elettrica sedeva una guardia obesa che ispezionava i tesserini e consultava un foglio su un leggio. Protese verso David dita grosse come salsicce, senza aprire bocca. Lui gli consegnò la tessera. Per precauzione, mentre era in fila per entrare nel complesso, aveva grattato via gran parte della foto. «Che è successo alla tua tessera?» «Il mio cane». La guardia grugnì e cominciò a scorrere il suo elenco. Aggrottò leggermente la fronte come se i nomi che stava leggendo fossero improvvisamente scritti in una lingua che non conosceva. «Qui non c’è il tuo nome per oggi». «Esattamente quello che ho detto io quando mi hanno tirato giù dal letto stamattina. Adesso, se mi dici che posso andare, me la filo». David fece per riprendersi la tessera. La guardia alzò il ditone. «No, no, un momento». Tornò a leggere la sua lista e prese la penna che teneva incastrata tra testa e orecchio. Ogni due o tre secondi confrontava con gli occhi la tessera con la lista, poi scarabocchiò “Conner Anderson” in fondo alla pagina in uno stampatello infantile. Restituì la tessera a David e chiamò a sé il prossimo della fila flettendo la salsiccia. La stanza successiva era una specie di atrio, con una receptionist a una scrivania e due guardie che chiacchieravano poco distante. Lo seguirono con lo sguardo per qualche momento, poi tornarono a discutere. David trovò un altro schema con il percorso di evacuazione d’emergenza e s’incamminò verso il settore dov’era situato il reattore. Per sua fortuna la sua tessera funzionava su tutte le porte che dovette attraversare. Era quasi arrivato a destinazione, quando una voce lo fermò. «Ehi, tu». David si girò. Era una delle guardie che aveva visto nell’atrio. «Chi sei?» «Conner Anderson». La guardia rimase interdetta per un istante, poi estrasse la pistola. «No, non lo sei. Non ti muovere». 53 A guardarlo, Barnaby sembrava spaventato quanto lei. In parte, essere l’artefice del complotto la faceva sentire più sicura di sé. Ma la rinnovata fiducia s’incrinò quando scorse la guardia dai tratti asiatici che leggeva un fumetto appostata davanti ai battenti della porta da cui si accedeva all’ala residenziale. Quando li vide arrivare, l’uomo lasciò cadere il giornaletto sul tavolo e li osservò avvicinarsi allo scanner. Kate fece scorrere la tessera. Verde. Aprì la porta ed entrò. Barnaby la seguì quasi incollato alla sua schiena. «No!», esclamò la guardia. «Tu. Anche tu la tessera nel lettore!». Glielo ordinò puntandogli un dito addosso e Barnaby, con gli occhi dilatati dal terrore, fece un passo indietro come fosse sul punto di essere fucilato. «Lo scanner». La guardia glielo stava indicando. Barnaby ubbidì. Luce rossa. La guardia si alzò. «Dammi la tessera». Andò verso di lui. Lo scienziato indietreggiò fino al muro e si lasciò cadere la tessera dalla mano. «È stata lei a farmelo fare. È matta!», biascicò. Kate s’intromise. «È tutto a posto, Barnaby». Raccolse da terra la sua tessera e gliela porse. «Volevo che mi accompagnasse al mio posto di lavoro, nient’altro», spiegò. Lo spinse delicatamente con una mano sulla schiena. «È tutto a posto. Ci vediamo dopo, Barnaby». Si voltò verso la guardia, gli mostrò la propria tessera e la fece passare di nuovo nel lettore. «Visto? Verde». Varcò di nuovo la soglia e aspettò un secondo. I battenti rimasero chiusi dietro di lei: forse ce l’aveva fatta. Andò in avanscoperta. Ogni cinque o sei metri c’era una porta di grandi dimensioni, presumibilmente di un corridoio che portava in qualche altra area di quel settore. Fin dove il suo sguardo riusciva a spingersi sembrava tutto uguale, porte e corridoi simmetrici. E c’era un gran silenzio, un silenzio di quelli snervanti. Usò la tessera per aprire la porta più vicina e si avventurò oltre la soglia. Era uno stanzone, come di una caserma, o… il dormitorio di un college, questo le venne in mente. Su una sala comune principale si affacciavano sei stanze più piccole, tutte con dei letti. No, non erano proprio le camere di un dormitorio, erano troppo spartane, somigliavano più alle celle di una prigione. Ed erano vuote. Sembravano abbandonate. E anche in disordine, con lenzuola e indumenti gettati per terra, effetti personali sparpagliati sui piccoli lavandini vicino ai letti. Era come se gli occupanti se ne fossero andati in tutta fretta. Kate uscì e procedette oltre lungo il corridoio principale. A ogni passo le sue scarpe da ginnastica cigolavano sul pavimento. Udì delle voci in lontananza. Doveva dirigersi da quella parte, ma qualcosa dentro di sé si opponeva. Si sentiva più al sicuro nelle stanze vuote dove non c’era nessuno. Svoltò a destra al successivo “incrocio”, continuando in direzione delle voci. Poi vide una specie di postazione da infermiere, simile a quelle che ci sono negli ospedali, un bancone con sopra alcuni incartamenti e due o tre donne che facevano capolino da dietro. Udì altri suoni provenire da una direzione diversa, questa volta il rumore ritmico di stivali che echeggiava nel corridoio vuoto. Stivali che si stavano avvicinando. Continuò verso la postazione delle infermiere. «Questa volta li vogliono tutti», sentì dire. «Lo so»… «È quel che ho detto io»… «Io di quello che fanno non ci capisco niente»… «Non stanno nemmeno curando…». Kate guardò dietro di sé. Gli stivali. Sei uomini. Guardie. Arrivavano di corsa con le pistole in pugno. «Si fermi dov’è!». Avrebbe potuto correre e forse sarebbe riuscita a raggiungere la postazione. Le guardie guadagnavano terreno in fretta, erano a pochi metri ormai. Fece un passo, poi un altro, ma non c’era più tempo, le erano addosso. Le puntarono le armi contro. Kate si fermò e alzò le mani. 54 David alzò le mani. La guardia gli si avvicinò tenendolo sotto mira con la pistola. «Tu non sei Conner Anderson». «Sai che novità», sibilò David. «Metti via quel giocattolo e chiudi la bocca. Qualcuno potrebbe sentirci». La guardia si fermò con un’espressione confusa. «Come?» «Mi ha detto lui di venire al posto suo». «Cosa?» «Senti, ieri abbiamo fatto un po’ troppo casino. Ha detto che se non mi presentavo al posto suo, lo sbattevano fuori». «E tu chi sei?» «Un suo amico. E tu devi essere il suo compagno di lavoro veramente molto sveglio». «Cosa?» «Non sai dire altro? Senti, metti via quella pistola e comportati in modo naturale». «Conner non è di turno oggi». «Ma guarda un po’, genio. Questo lo avevo capito anch’io. Un’altra delle sue stronzate da ubriaco fradicio. Giuro che l’ammazzo, se non lo ammazzate voi idioti prima di me». David agitò le mani alzate annuendo. La guardia non disse niente. «Allora?», lo apostrofò. «O mi spari o mi lasci andare». L’altro ripose malvolentieri la pistola nella fondina, ma non sembrava per niente soddisfatto. «Dove stai andando?» «Me ne vado via», rispose David. «Da che parte ci metto di meno?». La guardia si girò per indicarglielo, ma non riuscì a parlare. David lo tramortì con un colpo secco alla base del cranio. Adesso doveva sbrigarsi. Proseguì di corsa. Aveva un altro problema da risolvere, un problema che fino a quel momento, di fronte a più urgenti questioni di sopravvivenza, aveva accantonato. Ora però doveva pensare a come provocare il black-out. Aveva escluso di prendere direttamente di mira i reattori nucleari: sarebbero stati isolati e ben protetti, ammesso e non concesso che fosse riuscito a raggiungerli. E ce n’erano tre. No, il suo obiettivo migliore erano i cavi dell’alta tensione. Se li avesse fatti saltare, avrebbe tolto per sempre energia a tutto il complesso, compresa quella prodotta dai reattori e immagazzinata da qualche parte. Ma brancolava nel buio. Se per esempio i cavi fossero stati interrati o comunque irraggiungibili? E se fossero stati invece custoditi in un edificio apposito ben sorvegliato, all’esterno dell’impianto che conteneva i reattori? E sarebbe stato capace di riconoscerli anche se li avesse visti? C’erano troppi se… David trovò un altro schema appeso alla parete ed esaminò le varie zone dell’impianto. Reattore 1, Reattore 2, Reattore 3, Turbine, Sala Controllo, Sala Circuito Primario… Sala Circuito, ecco, poteva essere quello! Era situata di fronte ai reattori e, da quel che vedeva, vi arrivavano i cavi da tutti e tre. Si girò nel momento in cui sbucavano due guardie da dietro l’angolo dirette verso di lui. Le salutò con un cenno del capo incamminandosi verso il locale del circuito primario. Era ancora abbastanza lontano e già sentiva il rombo sordo dei macchinari e il ronzio della corrente ad alta tensione. I rumori sembravano attraversare le pareti e salire dal pavimento. Le vibrazioni non si propagavano all’esterno, ma quando entrò nella stanza usando la tessera, cominciò a tremare dalla testa ai piedi in sincronia con le pulsazioni di macchine enormi. Il locale era grandissimo e conteneva un intrico di tubature e condotti metallici che serpeggiavano in tutte le direzioni, tra ronzii e scoppiettii. Gli sembrò di essere stato rimpicciolito e sparato dentro la scheda madre di un computer. S’inoltrò nel locale e cominciò a piazzare le cariche sui condotti più grandi nei punti dove entravano provenendo dai reattori. Vide che c’erano alcuni armadietti di metallo e piazzò cariche anche sopra di essi. Gli restavano pochi esplosivi ancora. Sarebbero bastati? Quanto tempo doveva programmare? Puntò il detonatore su cinque minuti e lo nascose contro la base di uno degli armadietti. Dove poteva mettere le ultime cariche? Nel rumore generale, ne individuò uno nuovo. Ma forse si sbagliava. Si chinò a infilare l’ultima carica che gli restava tra due tubi più piccoli. La sostenne per un secondo e ritrasse la mano adagio per assicurarsi che non cadesse. Li vide con la coda dell’occhio: tre guardie che stavano per piombargli addosso. Questa volta non se la sarebbe cavata a parole. 55 Le sei guardie circondarono Kate. «L’abbiamo presa», disse uno degli agenti parlando alla sua ricetrasmittente. «Gironzolava per il Corridoio Due». «Cosa state facendo?», protestò Kate. «Venga con noi», le ordinò quello con la radio. In due la presero per le braccia e cominciarono ad allontanarla dalla postazione delle infermiere. «Fermi!». Kate si girò e vide una donna che arrivava a passi veloci verso di loro. Era giovane, sui vent’anni. Era vestita in un modo così… sbagliato, così provocante, una sorta di coniglietta di «Playboy». Era del tutto fuori luogo. «Ci penso io», disse alle guardie. «Lei chi è?» «Naomi. Lavoro per il signor Sloane». «Mai sentito». La guardia che evidentemente comandava il drappello rivolse un gesto a un altro dei suoi. «Prendiamo anche lei». «E ve ne pentirete», lo ammonì Naomi. «Chiami. Io aspetto. Chieda al suo capo di telefonare al signor Sloane». Gli agenti si scambiarono un’occhiata. Naomi afferrò una delle ricetrasmittenti. «Allora lo faccio da me». Schiacciò il pulsante. «Sono Naomi, ho bisogno di parlare con il signor Sloane». «Attenda». «Sloane». «Sono Naomi. Ti devo portare una ragazza, ma qui ci sono un branco di guardie che non ci lasciano andare». «Aspetta un momento». Poi si sentì la voce di Sloane che parlava con qualcuno poco distante da lui. «Di’ ai tuoi pagliacci di lasciare in pace la mia gente». Si udì un’altra voce. «Parla il capitano Zhào. Chi è?». Naomi cercò di restituire la ricetrasmittente all’agente a cui l’aveva presa, il quale indietreggiò evitando di toccarla, come se fosse infetta. Naomi la gettò a quello che aveva parlato. «Buona fortuna». Prese Kate per un braccio. «Tu sta’ zitta e seguimi», le raccomandò a bassa voce. Naomi e Kate si allontanarono dalle guardie che si sforzavano in tutti i modi di scusarsi via radio con il loro comandante. Svoltarono a destra e poi a sinistra, imboccando un altro corridoio deserto. Davanti a una porta Naomi chiese a Kate la sua tessera. «Lei chi è?», domandò la scienziata. «Non è importante. Sono qui per aiutarti a portar via i bambini». «Chi l’ha mandata?» «La stessa persona che vi ha fatto avere queste credenziali». «Grazie», fu la sola cosa che Kate riuscì a dire. Naomi rispose con un cenno del capo. Aprì la porta e la scienziata sentì le voci di Adi e Surya. Per un attimo le si fermò il cuore. Naomi aprì anche una delle porte interne e i due bambini erano lì, seduti a un tavolino, in una stanzetta tutta bianca. Kate corse dentro, s’inginocchiò per abbracciarli e loro, senza una parola, le si gettarono addosso facendola cascare all’indietro. Erano vivi. Non tutto era perduto. Poteva ancora salvarli. Sentì una mano che la prendeva per il colletto della giacca bianca e la tirava su. «Mi spiace, ma non abbiamo tempo. Dobbiamo sbrigarci», disse Naomi. 56 Il capo della sicurezza restituì la ricetrasmittente a Dorian. «Non importuneranno più la sua ragazza. Le chiedo scusa, signor Sloane. È per colpa di tutte queste facce nuove, non riusciamo a starci dietro molto bene…». «Me la risparmi». Dorian si voltò verso il dottor Chase. «Continui», disse allo scienziato nucleare. «Dicevo di quel materiale che abbiamo ricevuto dal Nord… non sono sicuro che sia utilizzabile». «Perché?» «Quello che arriva dalla Bielorussia è stato manomesso. Se avessimo un po’ di tempo, probabilmente potremmo smontare i dispositivi e rimetterli a posto». «Che cosa ci resta?», chiese Dorian. «Il materiale arrivato dall’Ucraina e dalla Russia sembra a posto, è solo roba vecchia. Quello che è arrivato dalla Cina è in condizioni perfette, di fabbricazione molto recente. Ma come ha fatto…?» «Lei non ci pensi. Numeri?» «Vediamo». Lo scienziato si aiutò leggendo una stampata. «Un totale di 126 testate. E per la maggior parte sono ad alto potenziale. Sarebbe d’aiuto sapere qual è l’obiettivo, in mancanza del quale non sono in grado di prevedere…». «E gli ordigni portatili?» «Ah, sì, sono pronti». Il dottor Chase richiamò l’attenzione di un assistente. Il giovane lasciò la stanza e rientrò trasportando un enorme uovo argentato di poco più piccolo di un carrello da supermercato. L’assistente stentava a cingerlo del tutto con le braccia, così lo portava come un carico di ceppi da ardere, con la schiena arcuata all’indietro per evitare che gli scivolasse via. Lo posò sul tavolo e indietreggiò, ma l’uovo dondolò per qualche istante, poi cominciò a rotolare verso il bordo. L’assistente si precipitò a bloccarlo con una mano. Il dottor Chase si affondò le mani nelle tasche, fece un cenno a Dorian e attese sorridendo. Questi osservò per un attimo l’uovo con aria disgustata, poi tornò a rivolgersi al dottor Chase. «Quello cosa diavolo sarebbe?». Lo scienziato si tolse le mani di tasca e avanzò di un passo. «È… il dispositivo portatile che aveva richiesto. Pesa sette chili e quattrocento grammi». Scosse la testa. «Non abbiamo potuto ridurlo più di così. Oddio, si potrebbe fare con un po’ di tempo». Dorian tacque, continuando a guardare prima l’uovo e poi lo scienziato. Il dottor Chase si avvicinò al suo uovo come per esaminarlo. «C’è qualcosa che non va? Abbiamo anche l’altro…». «Trasportabile. Ho bisogno di due bombe nucleari trasportabili». «Sì, e lo è, come ha visto anche lei. Lo ha portato qui Harvey. D’accordo, è un po’ ingombrante, ma…». «Ho bisogno di bombe da trasportare per una certa distanza e in uno zaino, non di una specie di uovo magico. Quanto ci vuole per rimpicciolirlo in modo da, diciamo, poterlo infilare in una valigia? Ed è questa la parola chiave, dottore, capito? Valigia». «Ehm, be’… non aveva detto…». Lo scienziato lanciò un’occhiata all’uovo. «Quanto tempo?», lo incalzò Dorian. «Un paio di giorni, se…». «Signor Sloane, abbiamo un problema alla centrale. Deve vedere questo». Dorian si spinse con la poltroncina fino ad arrivare accanto al capo della sicurezza. Dietro di sé sentì lo scienziato avvicinarsi a Harvey ed esporre a lui le sue lamentele. «Non è come nei film dove basta “tagliare il filo verde” e ficcarlo in uno zaino e portarselo dietro fino in cima all’Everest. Qui dobbiamo come minimo…». Dorian lo escluse dal proprio campo sonoro e si concentrò sulle immagini trasmesse dal tablet in mano al capo della sicurezza. C’era un uomo che si aggirava in un locale tecnico. «Dove siamo?», chiese. «Nel bunker del circuito principale collegato ai reattori. C’è di più». Il capo della sicurezza tornò indietro. Dorian vide l’uomo che piazzava alcune cariche. E non solo. Allungò il dito per toccare lo schermo del tablet, fermò il video e zoomò sulla faccia. Incredibile. «Lo riconosce, signore?». Sloane esaminò quella faccia e tornò con la memoria al villaggio tra le montagne del Pakistan settentrionale, le fiamme che si levavano da tutte le baracche, le donne e i bambini in fuga, gli uomini riversi al suolo davanti alle abitazioni incendiate… E un uomo che gli sparava. Ricordava di averlo colpito, non sapeva quante volte. E aveva finito il suo lavoro. «Sì, lo conosco. Si chiama Andrew Reed. È un ex operativo della CIA. Avrà bisogno di molti più uomini per neutralizzarlo». «Spariamo per uccidere?». Dorian fissò lo sguardo nel vuoto assentandosi con la mente. Udì distrattamente gli sfrigolii della ricetrasmittente e la voce del capo della sicurezza che abbaiava ordini. Reed era lì a cercare di fermare la centrale. Impossibile che fosse solo. Dov’era stato in quegli ultimi quattro anni… se non era morto? Perché prendersela con la centrale? Il capo della sicurezza richiamò la sua attenzione. «Abbiamo recuperato le cariche e il timer. Li stanno portando fuori. Abbiamo riguardato tutta la registrazione dal momento in cui è entrato e non ci sono altre minacce. Lo abbiamo circondato. Vuole che…». «Non uccidetelo. Adesso dov’è?», volle sapere Dorian. Il capo della sicurezza gli mostrò il tablet indicandogli un punto sulla mappa. Sloane ne fece apparire un’altra. «Questa stanza cos’è?» «Uno dei locali del reattore, è solo un vano di transito tra il Reattore Uno e il Due». Dorian indicò le due grandi porte che c’erano ai due lati opposti. «Si può entrare e uscire solo da qui?» «Sì, e quella è una casamatta con muri spessi tre metri su tutti i lati». «Perfetto. Spingetelo là dentro e chiudetecelo», disse. Che cosa gli stava sfuggendo? Aspettò che il capo della sicurezza avesse finito di parlare alla radio. I bambini. «Dove sono i bambini?», chiese. L’uomo sembrò colto alla sprovvista. «Nella loro cella». «Me li mostri». Il capo della sicurezza toccò il tablet e rimase a bocca aperta. «Li trovi», abbaiò Dorian. L’uomo tornò a gridare nel microfono della ricetrasmittente. Aspettarono qualche momento, la radio mandò qualche stridio, il capo digitò qualcosa e porse il tablet a Sloane nel momento in cui cominciava a scorrere un altro video. Si vedevano Naomi, Kate Warner e i bambini. Era la peggiore o la migliore notizia possibile? Il capo della sicurezza aveva ripreso a sbraitare alla radio che teneva nell’altra mano. Dorian rifletté. Possibile che ci fossero solo loro due? «Li ritroveremo in un attimo, signore. Non riesco a capire come…». Sloane alzò una mano senza neppure guardarlo. «La smetta di parlare». Cosa doveva fare? C’era ancora una falla nel sistema di sicurezza, e grave, per giunta. E c’erano solo pochi indiziati. Dorian chiamò a sé uno degli uomini della sua scorta. «Logan, manda una memo al consiglio dell’Immari: “Stabilimento cinese sotto attacco. Tentiamo contromisure, ma prevediamo un blocco totale di tutte le attività di ricerca. In tal caso, procedere in tutta fretta con il Protocollo Toba. Restate in attesa di aggiornamenti a breve”. Allega i video dell’uomo nel locale tecnico dei reattori e delle due donne che stanno cercando di portare via i bambini. Voglio essere informato nel momento stesso in cui qualcuno risponde». Il capo della sicurezza gonfiò il petto. «Trovate, signore». «Bel lavoro, un vero esempio di efficienza», rispose con sarcasmo Dorian. L’uomo deglutì. «Vuole che…», disse in un tono meno trionfale. «Faccia portare le due ragazze alla Campana, e le faccia mettere con tutti gli altri soggetti già pronti. E faccia in modo che siano in prima fila. Poi mettete in moto il più presto possibile. E che Chang non si intrometta, non accetto scuse». Fece una pausa. Kate Warner nella sala della Campana. Non avrebbe potuto sperare in una nemesi più appropriata. E Martin non poteva farci niente. Presto, nessuno avrebbe potuto farci più niente. La situazione si stava evolvendo meglio di quanto avesse pianificato. Si rivolse di nuovo al dottor Chase. «Le testate sono tutte su vagoni ferroviari?» «Sì, eccetto i dispositivi bielorussi e… i portatili…». «Bene». Dorian si girò verso il capo della sicurezza. «Mettete i bambini sul treno con le testate e fatelo partire subito». Si girò nuovamente verso lo scienziato. «Mi aspetto che salga su quel treno anche lei, dottore, e quando sarà sulla costa, o quelle uova staranno dentro uno zaino, o ci metto lei al loro posto. Capito?». Il dottor Chase annuì e abbassò la testa. Il capo della sicurezza ascoltò una nuova comunicazione via radio, poi se la staccò dall’orecchio. «Il sabotatore è chiuso al Reattore Due». «Va bene. Che tutti i vagoni che non sono stati utilizzati restino qui. Ne abbiamo bisogno per trasportare qualcos’altro». Dorian andò a conferire con Dmitrij Kozlov, comandante in seconda della sua unità personale dell’Immari Security. «Quando finiscono con la Campana, caricate i corpi su quei vagoni e portateli via», gli ordinò. «Abbiamo bisogno di allestire un’area di carico, probabilmente nell’India settentrionale, un posto che abbia accesso agli aeroporti». «E il resto del personale che c’è qui?» «Ci stavo pensando», rispose Dorian mentre si allontanava con Dmitrij da orecchie indiscrete. «Sono un inconveniente. Di certo non possiamo lasciare che qualcuno esca da qui, almeno non prima che il Protocollo Toba sia ben avviato. E abbiamo un altro problema. Abbiamo a disposizione solo 119 soggetti umani». Il suo braccio destro intuì subito cosa aveva in mente il suo superiore. «Non bastano». «Neanche lontanamente. Credo che potremmo risolvere entrambi i problemi, ma non sarà facile». Dmitrij annuì con un’occhiata agli scienziati che si aggiravano per il laboratorio. «Passare il personale per la Campana? Sono d’accordo. Questo significa che gli assistenti di Chang dovranno usare la macchina… sui propri compagni. Fattibile, ma potrebbe essere poco simpatico. Abbiamo un centinaio di agenti della sicurezza. Non si sottoporranno senza rimostranze, anche se li segreghiamo e orchestriamo la cosa in modo che sembri un’esercitazione». «Di che cosa hai bisogno?», domandò Dorian. «Cinquanta, forse sessanta uomini. L’ideale sarebbe che fossero agenti operativi dell’Immari Security o della Clocktower. In questo momento quelli della sicurezza stanno epurando la stazione di Nuova Delhi. Forse possiamo sfruttare gli operativi rimasti». «Ok, fallo», ordinò Dorian incamminandosi. «Lei dove sarà?» «Qualcuno all’Immari deve essere in contatto con Reed. Voglio scoprire chi è». 57 Le guardie della sicurezza le strapparono i bambini dalle mani e la spinsero per terra. Kate lottò, strillando, scalciando, graffiandoli in faccia. Non poteva perderli di nuovo. Doveva impedirglielo. «Al treno», disse una delle guardie. I piccoli si dibattevano inutilmente cercando di liberarsi. Kate cercò di rialzarsi, ma uno degli agenti le imprigionò le braccia. Un altro le si piazzò davanti e l’ultima cosa che lei vide fu il calcio di un fucile che le stava per piombare sulla faccia. La stanza era buia e affollata. Kate era schiacciata da persone da tutte le parti. Sgomitò a destra e a sinistra, ma nessuno si muoveva, erano morti in piedi. Se non fossero stati così compatti l’uno contro l’altro, sarebbero caduti. Sopra di sé Kate sentì un tonfo violento. Dal soffitto stava calando su di loro un enorme oggetto metallico. Poi dalla cima della macchina scaturirono raggi di luce lampeggianti, sincronizzati con i tonfi. Kate sentì i colpi che le riverberavano nel petto e li vide vibrare nei corpi degli zombie che la circondavano. Dov’erano i bambini? Cercò di guardarsi intorno. Vide soltanto espressioni spente, gente che sembrava dormire in piedi con gli occhi aperti. Poi… Naomi. La donna che aveva cercato di salvarla era terrorizzata. I tonfi provenienti dall’alto diventarono assordanti, le luci accecanti. Kate sentì che i corpi delle persone intorno a lei si stavano surriscaldando. Alzò una mano per asciugarsi il sudore dalla faccia, ma la sua mano era più che bagnata, coperta da un liquido denso, quasi appiccicoso. Sangue. 58 Le pesanti porte di cemento della sala si richiusero con un’eco che si disperse quasi del tutto nel potente rombo degli enormi reattori. David si addentrò perlustrando con lo sguardo il suo ultimo baluardo di difesa. Forse Kate era riuscita a scappare. Fece scivolare fuori il caricatore della pistola. Due colpi. Gli conveniva risparmiare l’ultimo? Le droghe che avevano somministrato alla scienziata erano potenti. Chissà che cosa avrebbero potuto fare con lui. Era a conoscenza di preziose informazioni riservate. Quella era la ragione più oggettiva, ma ce n’erano altre. Scacciò quel pensiero dalla mente. Lo avrebbe affrontato quando fosse venuto il momento. Si aggirò per lo stanzone, imboccò il passaggio tra le due torri. Gli sembrava di essere in una palestra di scuola, con un alto soffitto dominato da impalcature di metallo. Era a forma di clessidra, con una base quasi rettangolare, salvo per due convessità arrotondate in corrispondenza del centro: i massicci muri di cemento dei due reattori. Alle due estremità c’erano delle porte a ghigliottina, entrambe di cemento. Gli alti muri lisci tutt’intorno erano attraversati da condutture e tubi di metallo, per lo più d’acciaio, ai quali erano accostati altri blu e rossi. Davano l’impressione di vene varicose che sporgevano da una fronte grigia sopra la bocca della porta. «Ciao, Andrew», tuonò una voce dagli altoparlanti, che evidentemente servivano per eventuali avvisi in caso di un’evacuazione. Era una voce che David conosceva, la voce di una persona di prima che entrasse alla Clocktower. Ma non riuscì a collegarla a un volto. Aveva bisogno di guadagnare tempo, era la sola cosa che poteva fare per aiutare Kate. «Non mi chiamo più così». Nel frastuono dei reattori, si chiese se il suo interlocutore fosse in grado di sentirlo. Quanto tempo era passato? Ormai le cariche sarebbero dovute esplodere. Il black-out avrebbe messo il sigillo finale al suo destino, ma avrebbe aiutato Kate. «Abbiamo preso la ragazza. E abbiamo trovato i tuoi ordigni. Non mi sei sembrato molto creativo. Da te mi sarei aspettato qualcosa di meglio». David si guardò intorno. Stava mentendo? Perché dirlo a lui? Cosa avrebbe potuto fare? Sparare ai reattori? Ma certo, per grattar via un po’ di polvere da quei muri impenetrabili. Una delle condutture, nella speranza di beccare quella giusta? Improbabile. Il soffitto? Inutile. La voce voleva qualcosa da lui, altrimenti perché interpellarlo? Ma forse mentiva. Forse Kate era al treno e lo stava aspettando. Forse non l’aveva catturata. «Cosa vuoi?», gridò. «Chi ti ha mandato qui?», rimbombò la voce. «Lasciala andare e te lo dico». La voce rise. «Come no, ci sto». «Allora vieni quaggiù e ti rilascio una dichiarazione formale. Ti faccio anche un disegno. Ho anche il suo indirizzo e-mail». «Se devo venire lì, ti faccio parlare a suon di botte. Vado di fretta, non c’è tempo per drogarti». Il rombo dei reattori aumentò. Era normale che fossero così rumorosi? «Guarda che non hai alternative, Andrew», proseguì la voce. «Lo sai meglio di me. Ma preferisci temporeggiare. Questo è il tuo problema: la tua debolezza. Sei il più disperato avvocato delle cause perse. Ti gratifica pensare di essere il grande salvatore. Villaggi pakistani, bambini di Giacarta, non ti fai mai mancare niente. Siccome empatizzi, ti senti come una vittima, è così che funziona il tuo cervello. Tu pensi che, pareggiando i conti con le persone che ti hanno fatto un torto, riavrai la tua integrità. Ma non è così. È finita. Sai che è vero. Ascolta la mia voce. Sai chi sono. Io mantengo le mie promesse. E ti prometto che riserverò alla ragazza una morte veloce. E il meglio che puoi fare per lei è dirmi chi ti ha mandato. È l’ultima carta che ti resta da giocare». Interrogatorio standard: incrina la fiducia del soggetto in se stesso, asserisci la tua superiorità e convincilo che parlare è la sua unica speranza. In effetti nel suo caso era più che convincente. David sapeva che avrebbero potuto facilmente riempire lo stanzone di gas, lanciare dentro una granata o fare irruzione scaricando sventagliate da armi automatiche. Non aveva alternative. Ma intanto aveva capito chi era l’uomo con cui stava parlando: Dorian Sloane, il comandante in campo dell’Immari in Afghanistan e Pakistan. Avrebbe dovuto immaginare che al punto in cui erano arrivati, sarebbe stato lui a dirigere le operazioni dell’Immari Security in tutta la regione. Era spietato, capace… e vanitoso. In che modo avrebbe potuto servirsene? La sola possibilità che gli si offriva era di continuare a guadagnare tempo nell’improbabile eventualità che accadesse qualcosa. O che Dorian stesse mentendo e Kate fosse già fuggita. «Sloane, devo proprio dirti che è un peccato che tu non abbia seguito la tua vera vocazione. La psicanalisi. Sei fantastico, è straordinario il modo in cui mi hai spinto a riesaminare tutta quanta la mia vita. Mi dai un po’ di tempo per meditare sulle questioni profonde che hai fatto emergere? Mi servirebbe…». «Piantala, Andrew. Perdere tempo non serve né a te, né a lei. Hai sentito come quei reattori hanno aumentato la potenza? È il rumore dell’energia che alimenta la macchina che in questo momento sta uccidendo Kate. Resti solo tu, ormai. E la Clocktower è morta e defunta già da qualche ora. Allora dimmi…». «In tal caso sei tu a perdere tempo. Io non ho niente da dire». David serrò i denti e gettò sul pavimento la pistola, che scivolò fino alla porta in fondo al locale. «Se vuoi provare a farmi parlare a suon di cazzotti, vieni giù e provaci. Sono disarmato. Potresti anche farcela». Fermo in mezzo alla stanza a forma di clessidra, guardava prima una porta e poi l’altra, domandandosi quale si sarebbe aperta. E se, quando fosse accaduto, avrebbe avuto il tempo per tentare la sorte. Il frastuono dei reattori crebbe ancora e David sentì il calore che irradiavano. Stava funzionando male? Dietro di lui una porta di cemento cominciò a sollevarsi dal solco nel pavimento, profondo mezzo metro. La pistola era finita contro la porta opposta. David corse verso quella che si apriva. Dieci metri. Sette metri. Sloane si tuffò sotto la porta e saltò immediatamente in piedi con la mano armata protesa. Fece fuoco tre volte in rapida successione. La prima pallottola colpì David a una spalla, abbattendolo all’istante. Sentì il sangue che bagnava il pavimento mentre rotolava su se stesso nel tentativo di rialzarsi, ma Sloane gli fu subito sopra e lo atterrò nuovamente con uno sgambetto. «Chi ti ha detto di questo posto?». Il frastuono dei reattori era troppo forte, David non sentiva quasi più Sloane. Il dolore alla spalla pulsava. La sensazione non era quella di una ferita, ma di un pezzo di corpo strappato via. Non sentiva nemmeno più il braccio sinistro. Dorian gli puntò la pistola alla gamba sinistra. «Vedi almeno di morire con un po’ di dignità, Andrew», lo apostrofò. «Parla e la faccio finita». “Mi serve altro tempo”, fu l’unico pensiero di David. «Non ho un nome». Sloane avvicinò la pistola alla sua gamba. «Però… ho un indirizzo IP. È così che comunico con lui». Dorian abbassò il braccio riflettendo. David ne approfittò per riprendere fiato. «È nella mia tasca sinistra. Dovrai prenderlo tu». Sloane rialzò il braccio e schiacciò il grilletto piantando una pallottola nella gamba di David. Lui si contorse sul pavimento urlando di dolore. Dorian gli girò intorno. «Smettila-di-mentirmi». Quando David non rispose, Sloane gli sferrò un calcio alla fronte facendogli sbattere la testa sul cemento. David vide le stelle. Era sicuro che di lì a pochi attimi avrebbe perso i sensi. Sopra di loro i reattori avevano cambiato di nuovo tonalità, il rumore era diverso. Dorian corrugò la fronte, perplesso. Partì una sirena e un istante dopo un’esplosione fece tremare tutto il locale; una gragnuola di calcinacci e pezzi di metallo cominciò a rimbalzare dai muri e dal pavimento. Dai tubi si sprigionò del gas che in pochi attimi riempì l’aria. L’altra porta si spalancò e un gruppo di uomini entrò correndo. David si girò sul ventre e cominciò a strisciare su un braccio e una gamba, trascinando con sé gli arti feriti e inerti. Il dolore era lancinante e dovette fermarsi per deglutire e riprendere fiato. Avanzò di qualche altro centimetro, sforzandosi di non inalare la polvere che copriva il pavimento. Sapeva che gli stava penetrando nelle ferite alla gamba e alla spalla, ma non poteva farci niente, doveva assolutamente allontanarsi. Vide Sloane barcollare nel fumo, agitando le mani come per scacciarlo. Un’altra esplosione. L’altro reattore? Ormai non si vedeva più niente. «Signore», esclamò una voce in lontananza, «dobbiamo abbandonare il centro, c’è un problema…». «Bene. Dammi la tua pistola». Spari, dappertutto. Pallottole che rimbalzavano dai muri, dal pavimento. David si immobilizzò. Mantenne la testa assolutamente ferma, posata al suolo come in ascolto, in attesa di qualche segno illuminante. Nei pochi centimetri di campo visivo che aveva subito sopra il pavimento vide corpi che si accasciavano, quelli degli uomini che Sloane stava ferendo e uccidendo nel suo disperato tentativo di piantare un’ultima pallottola nella testa di David. «Signore, dobbiamo…». «Va bene!». David sentì il rumore di passi in corsa. Cercò di sollevarsi sul braccio buono, ma non ci riuscì. Era troppo debole. Faceva troppo freddo. Vide il proprio alito soffiare la polvere bianca che copriva il pavimento. Ogni suo respiro spostava granelli bianchi. Tutt’intorno a lui il bianco veniva divorato dal rosso. Gli ricordava qualcosa, un pensiero o un fatto del passato… La guancia di un uomo che si radeva. Era come il sangue di una ferita di rasoio che saturava un tessuto bianco. Restò a guardare il rosso tingere la polvere bianca venendo incontro alla sua faccia nell’ululato delle sirene. 59 Kate pensava che le persone che riempivano la stanza stessero cadendo, ma si rese conto con orrore che invece si stavano sciogliendo o disintegrando, dai piedi alla testa. I lampi di luce che attraversavano la stanza erano accompagnati da onde come di una violenta marea che seminava morte al ripetersi di ogni rintocco assordante. Il rumore però adesso era diverso. E le luci, i lampi, erano di minore intensità, non accecavano più. Piano piano cominciò a vedere la macchina sospesa sopra di loro. Era a forma di campana, o più precisamente somigliava a un pedone del gioco degli scacchi con delle finestrelle all’altezza della testa. Sforzò gli occhi e allora vide qualcos’altro: gocciolava. Vide cadere lacrime di ferro sugli sventurati che venivano ricoperti da una liquida coltre di morte. C’era altra gente che stava crollando a terra, ma c’erano anche dei sopravvissuti, alcuni disorientati, come se aspettassero di essere estratti in una lotteria di morte, altri che cercavano di scappare, alcuni stretti negli angoli, tre o quattro sdraiati per terra a battere i pugni sul pavimento. Kate si guardò per la prima volta da quando si era svegliata. Era coperta di sangue, ma non era il suo. A parte il martello in testa, era illesa. Doveva assolutamente aiutare quella povera gente. S’inginocchiò a esaminare l’uomo più vicino, o meglio, quel che ne restava. Era come se il suo sangue si fosse dilatato, facendo scoppiare i vasi che lo contenevano e provocando una massiccia emorragia in tutto l’organismo a una pressione tale da lacerare la pelle e traboccare dagli occhi e dalle unghie. La campana stava cambiando, i lampi di luce erano tornati a farsi intensi. Kate si schermò gli occhi con la mano e si girò dall’altra parte. Allora vide Naomi più avanti, che doveva essersi infilata fra i corpi in direzione della porta. Kate cominciò a strisciare verso di lei. Ora i colpi producevano una nota bassa e costante, come quella di un interminabile gong. Metallo sottoposto a tensione? Raggiunse Naomi, le rovesciò la testa e le tolse i capelli dalla faccia. Morta. Bellissima. Il sangue non le aveva deturpato il viso. Altri corpi si muovevano intorno a lei, i superstiti. Alcuni erano già arrivati alla porta e vi picchiavano sopra i pugni gridando. Cercò di alzarsi in piedi ma non ci riuscì, la sorpassavano camminandole sopra, gesticolando e spingendosi a vicenda. L’esplosione l’assordò e lo spostamento d’aria appiattì la folla, ricoprendola di corpi. Kate boccheggiò, cercò di respirare, ma era schiacciata, la stavano soffocando. Tirò pugni, si divincolò, riuscì a sollevare la testa. Stava piovendo. No, erano detriti quelli che cadevano da sopra. E poi acqua, una spaventosa cascata che riempì tutta la stanza, e Kate fu libera, galleggiava: l’ondata di marea la trasportò con sé sopra le macerie delle mura della stanza della morte. Respirò avidamente riempiendosi i polmoni. L’aria le fece provare dolore, ma portò con sé ossigeno e sollievo. In quel momento la sua mente formulò due pensieri: “Sono viva”. “Dev’essere stato David a salvarmi”. 60 Dorian Sloane fece cenno al dottor Chang di mettersi una delle cuffie a bordo dell’elicottero. Sotto di loro un’altra esplosione fece tremare il complesso e sussultare il veivolo, che subito dopo virò inclinandosi leggermente per allontanarsi dalla nuvola di fumo. Appena Chang si fu messo la cuffia, Dorian lo aggredì via radio. «Cosa diavolo è successo?» «La Campana», rispose lo scienziato, «qualcosa non ha funzionato». «Un sabotaggio?» «No, oddio, io non credo. Era tutto normale, la potenza, l’emissione di radiazioni, però… c’è stato un guasto». «Impossibile». «Senta, ancora non abbiamo compreso fino in fondo in che modo agisca ed è, lo sa, vecchio di più di centomila anni, e noi lo stiamo usando con costanza da non più di un’ottantina…». «Non è una questione di garanzie, dottore, ho bisogno che mi spieghi cosa può essere successo». S’intromise in linea un’altra voce maschile. «Signore, c’è una chiamata dal centro. Il capo della sicurezza. Dice che è urgente». Dorian si tolse rabbiosamente le cuffie e prese il telefono satellitare. «Cosa?» «Signor Sloane, abbiamo un altro problema». «Non mi chiami per dirmi che abbiamo un problema. Mi sembra evidente che abbiamo dei problemi. Mi dica che problema è e non mi faccia perdere tempo». «Certo, naturalmente, mi scusi…». «Allora? Parli!». «La sala della Campana. È esplosa. Pensiamo che ci sia stata una fuga di radiazioni». Dorian rifletté in fretta. Se dalla sala della Campana erano fuoriusciti dei corpi o anche delle radiazioni, avrebbe potuto ancora salvare il Protocollo Toba. Doveva solo riuscire a ingannare quelli rimasti di sotto. «Signore», lo interpellò titubante il capo della sicurezza. «Ho dato inizio a una quarantena per i nostri agenti, volevo solo che mi confermasse…». «No. Niente quarantena». «Ma i miei ordini…». «Sono cambiati. Come del resto la situazione. Abbiamo bisogno di salvare i nostri. Voglio che impieghi ogni risorsa per far salire tutti sui treni e allontanarli dal centro. E caricate sui treni anche i cadaveri. Le loro famiglie hanno il diritto di prendersene le dovute cure». «Ma non c’è pericolo di un diffondersi di…». «Lei si preoccupi solo di caricare quella gente sui treni. Al resto penso io. Ci sono elementi di cui lei non è a conoscenza. Mi avverta quando è partito anche l’ultimo treno. L’Immari è una famiglia. Noi non abbandoniamo nessuno. Mi ha capito?» «Sì, signore, non abbandoneremo neppure un…». Dorian chiuse la comunicazione e si mise nuovamente le cuffie. Si rivolse a Dmitrij Kozlov, l’alto funzionario dell’Immari Security che sedeva davanti a lui. «Chase è riuscito a uscire con le testate e i bambini?» «Sì, sono diretti alla costa». «Bene». Dorian pensò per un momento. Avrebbero avuto ancora corpi dalla Campana e quella era la notizia buona. Ma le esplosioni allo stabilimento avrebbero attirato l’attenzione delle autorità. Se il mondo avesse scoperto che cosa si faceva al loro centro di ricerca… Cinquemila anni del loro lavoro, di segreti gelosamente conservati, sarebbero andati in fumo. E la stessa fine avrebbe fatto l’Immari. «Lanciamo droni dall’Afghanistan. Appena sarà partito l’ultimo treno, fai radere al suolo il centro di ricerca». 61 David sentì che lo sollevavano da terra e lo trasportavano come un fagotto. Gli sembrava di essere in una zona di guerra: le sirene che laceravano l’aria, la polvere bianca sospesa come neve, il fumo nero che saliva dai focolai di incendio e voci che gridavano in cinese. Tutto questo lo vide dagli occhi semichiusi, come in un sogno. Una voce registrata ripeteva dagli altoparlanti: «Perdita dal nucleo del reattore. Evacuare. Évacuer. Evakuieren…». Poi si attutì e David sentì sulla faccia la carezza del sole. Gli uomini che lo stavano trasportando percorrevano un terreno accidentato facendolo sobbalzare di continuo. «Fermi! Fatemi dare un’occhiata!». Una faccia davanti alla sua. Un uomo in giacca bianca. Biondo, sulla quarantina. Inglese. Gli prese il viso, gli aprì di forza le palpebre, poi gli esaminò le ferite. «No, non ce la fa». Indicò il terreno e si passò la mano di taglio davanti al pomo d’Adamo. «Mettetelo giù. Trovate qualcun altro». Indicò quel che restava dello stabilimento. Gli operai cinesi lo lasciarono cadere come un sacco di patate e tornarono indietro di corsa. Una volta a terra, David vide l’uomo biondo correre verso un altro gruppo che sosteneva un corpo dissotterrato dalle macerie. Lo esaminò velocemente tastandolo in più punti. «Sì, questa ce la fa». Indicò il treno e gli uomini proseguirono per i restanti pochi metri e consegnarono la donna ad altri operai cinesi, che si sporsero dal vagone per prenderla e issarla all’interno. L’uomo in giacca bianca si girò verso un altro gruppo. «Provviste? Caricatele. Sbrigarsi». Il treno. Pochi metri alla libertà. Ma David non riusciva a muoversi. 62 Kate arrivò nel momento in cui il treno passeggeri partiva. Corse su gambe dolenti e sfibrate, sforzandosi fino ad avere le vertigini, ma perse progressivamente terreno. Si fermò, china in avanti con le mani sulle cosce, ad ansimare nella ritmica cantilena delle ruote del treno che scompariva nella grande foresta. I bambini erano su quel convoglio. Lo sapeva. Non era in grado di spiegare come, ma lo sapeva. Li aveva persi. E si sentì travolgere dalla situazione in cui era precipitata. Quella macchina infernale, quel posto da incubo. Allora si sentì completamente sconfitta. Si guardò intorno. Non c’erano altri treni. Quello con cui era arrivata aveva viaggiato sempre nel fitto della foresta. Impossibile pensare di uscirne a piedi. E non era l’unico problema: la temperatura stava scendendo. Aveva bisogno di un riparo, ma per quanto tempo avrebbe potuto nascondersi da quelle parti prima che gli uomini della sicurezza la trovassero? E David? La stava forse cercando? I suoi esplosivi avevano devastato molti degli edifici del complesso. Probabilmente era su quel treno, convinto che ci fosse anche lei. La stava cercando, perlustrando le carrozze sicuro di trovarla da qualche parte con i bambini? Cosa avrebbe fatto quando si fosse reso conto che non c’era? Chissà. Quello che sapeva invece era cosa avrebbero fatto gli uomini dell’Immari se l’avessero catturata. Si girò a guardare di nuovo il centro di ricerca in fiamme. Era la sua unica possibilità. Un altro suono di treno. Kate si girò su se stessa, trepidante. Da che parte arrivava? Si voltò di nuovo cercando disperatamente di capire la direzione da cui stava sopraggiungendo il nuovo convoglio. Doveva essere sull’altro lato del complesso. Partì di corsa, respirando a grandi boccate convulse aria che ora le bruciava nei polmoni, non solo per il fumo nella sala della Campana, ma anche per il freddo. Raggiunse l’edificio dei laboratori nel momento in cui echeggiava di nuovo il treno. Caricò a testa bassa nel caos che vi scoprì all’interno. Sbucata da una porta sul retro, si ritrovò in un piccolo cortile da cui si accedeva alla centrale elettrica, la struttura che aveva evidentemente subìto i danni maggiori. Era un cumulo di macerie fumanti. Due delle enormi ciminiere erano crollate del tutto. Quando sentì di nuovo la sirena, fu certa che il treno si trovava sull’altro lato del complesso. Ripartì, correndo con tutte le sue forze. L’aria fu scossa da un’altra esplosione nella centrale, che per poco non la mandò a gambe levate. Si fermò per ritrovare l’equilibrio e riprese a correre. Sbucando da dietro i resti della centrale vide il treno, un convoglio merci. C’erano operai che lanciavano provviste e cadaveri nelle porte aperte dei vagoni che procedevano a grande lentezza, in maniera che il carico venisse equamente distribuito lungo tutto il convoglio. Di fronte all’enorme quantità di cadaveri disseminati intorno alla centrale distrutta, Kate provò una stretta al cuore. E se David non ce l’aveva fatta? Forse era ancora là dentro. O sul treno. C’erano uomini anche sui vagoni, a sistemare i corpi che venivano caricati. David poteva essersi mescolato a loro. Sarebbe salita a cercarlo prima che il convoglio ripartisse, poi avrebbe cercato anche fra le macerie della centrale. Non poteva andarsene senza di lui. Sentì dietro di sé una voce che riconobbe. Il dottore inglese. Il sedicente Barnaby Prendergast? Corse verso di lui. «Barnaby, hai visto per caso…». Ma lui era concentrato su uno dei cadaveri. Ignorò Kate e gridò a un gruppo di guardie della sicurezza poco distante. Lei lo afferrò per il bavero della giacca, che non era più molto bianca, e lo costrinse a guardarla. «Barnaby, sto cercando un uomo, una guardia della sicurezza, biondo, sui trent’anni…». «Tu!». Lui cercò di liberarsi, ma Kate lo trattenne con forza. Quando vide in che condizioni era, tutta sporca di sangue ma apparentemente incolume, indietreggiò di un passo spingendola via. «Sei stata tu!». Alzò un braccio rivolgendosi a una delle guardie. «Aiuto! Questa donna è un’imbrogliona, una terrorista, è stata lei a minare l’impianto, qualcuno m’aiuti!». Molte delle persone più vicine interruppero quello che stavano facendo per girarsi a guardare. Alcune delle guardie s’incamminarono verso di loro. Kate lasciò andare Barnaby e si guardò intorno. «Sta mentendo!», gridò. «Io non ho…». Ma le guardie stavano arrivando. Doveva scappare. Erano sulla piattaforma di carico, non sapeva da che parte tentare la fuga senza che la raggiungessero in pochi istanti, non c’era… Fu allora che vide David, per terra, immobile, con gli occhi chiusi, adagiato scomposto in mezzo ai calcinacci. Solo. Morente. O già morto? Corse da lui. Vide subito che era ferito, due fori di proiettile, alla spalla e alla gamba. Cosa gli era successo? Le ferite non erano belle, ma c’era qualcosa che la spaventava di più: non sanguinavano quasi per niente. Fu percorsa da un brivido freddo e si sentì fremere la bocca dello stomaco. Ma non poteva fermarsi. Lo esaminò meglio. Aveva gli abiti a brandelli e busto e gambe costellati di bruciature e tagli dovuti a frammenti di cemento e shrapnel, ma nient’altro di tanto grave quanto una ferita da arma da fuoco. Se solo avesse avuto… Sentì una mano che le stringeva una spalla. Una guardia della sicurezza, poi un’altra, in tre ad accerchiarla. Quando aveva visto David, aveva dimenticato tutto il resto. La sollevarono di peso tenendola per le braccia. «Avevo cercato di fermarla!», blaterava Barnaby dietro di loro, gesticolando nella sua direzione e istigando i pochi sopravvissuti. Quando Kate cercò di liberarsi dalla stretta della guardia che ancora la teneva prigioniera, lui l’attirò a sé. Lei si ritrovò con una mano sul calcio della sua pistola. Tirò, ma non riuscì a sfilarla dalla fodera. Tirò più forte, ce la mise tutta, e sentì uno schiocco sordo. Ce l’aveva fatta. Ma intanto le erano di nuovo addosso anche le altre due guardie, e la stavano spingendo tutte e tre insieme nel tentativo di farla inginocchiare. Lei puntò la pistola verso l’alto e schiacciò il grilletto. Per poco l’arma non le schizzò via dalla mano, ma i tre uomini della sicurezza la lasciarono immediatamente, allontanandosi in tutta fretta. Anche Barnaby indietreggiò in modo convulso, prima di voltarsi e darsela a gambe. Kate tenne la pistola puntata davanti a sé e la mosse a destra e a sinistra prendendo di mira, ora uno ora l’altro, i tre uomini della sicurezza che continuavano a camminare all’indietro con le mani alzate. Dovette aiutarsi con l’altra mano per impedire alla pistola di traballare. Lanciò un’occhiata dietro di sé. Il treno si stava allontanando. I pochi rimasti sulla banchina di carico stavano correndo per saltare sugli ultimi vagoni, che presto sarebbero scomparsi nella foresta. «Caricatelo sul treno», ordinò alle guardie, che continuavano a indietreggiare. Kate usò la pistola per indicare prima David e poi il treno. «Mettetelo su. Adesso!». Si allontanò da David concedendo loro spazio di manovra. Le tre guardie tornarono indietro, sollevarono David da terra e lo portarono al convoglio, caricandolo appena all’interno del portellone di uno dei vagoni. Kate continuò a tenere la pistola puntata su di loro mentre andava a frugare in un cumulo di forniture mediche che gli operai spaventati avevano abbandonato poco distante. Di cosa aveva bisogno? Antibiotici. E qualcosa con cui pulire e chiudere la ferita. Non avrebbe potuto salvarlo, ma poteva almeno provarci, se non altro per la propria pace interiore. I resti del complesso furono scossi da un’altra esplosione, seguita da una voce rabbiosa che gridava in cinese dalle ricetrasmittenti delle guardie. Costoro decisero lì per lì che a quel punto avevano priorità più urgenti di cui occuparsi che di una mezza matta che rubava medicinali, e Kate si trovò improvvisamente sola. Dietro di lei il treno acquistava velocità. Kate fece per infilarsi la pistola nella cintola, ma poi ci ripensò. Era ancora armata? Controllò il cane, che era sollevato. Probabilmente si sarebbe squarciata una gamba. Posò con cautela l’arma sulla banchina, raccolse tutti i farmaci che riuscì a tenere tra le braccia e rincorse il treno. Qualche scatola le cadde dalle mani, ma non desistette. Mantenendosi a fatica all’altezza del vagone su cui c’era David, buttò dentro i farmaci che aveva recuperato. Alcune confezioni finirono sul fianco della carrozza e saltarono via. Afferrò la maniglia e si issò lanciandosi in avanti. Cadde sul ventre con le gambe penzoloni. Si trascinò dentro il vagone e guardò scomparire prima la banchina, poi le macerie della centrale nucleare e l’annesso centro di ricerca. Carponi raggiunse David. «Mi senti? David? Andrà tutto bene». Poi cominciò a controllare quali medicinali era riuscita a portare con sé. 63 David si girò coprendosi la testa con le braccia e gettandosi per terra mentre intorno a lui i muri crollavano imprigionandolo in un vortice di cemento, polvere e frammenti di metallo. Si sentì schiacciare dalle macerie, i profili taglienti di oggetti estranei conficcarglisi nelle ferite. Respirò polvere e fuliggine, udì urla, alcune vicine, altre distanti. E aspettò. Per quanto tempo, non sarebbe stato capace di dire. Poi arrivarono a tirarlo fuori. «Ci sei ancora, amico. Non cercare di muoverti». I vigili del fuoco di New York. Scavarono tutt’intorno a lui. Chiamarono a gran voce una barella, ve lo legarono sopra e lo portarono via su un fondo irregolare e cedevole. Sentì la luce del sole sulla faccia. Una dottoressa gli aprì le palpebre e gli puntò una luce negli occhi, poi gli legò qualcosa intorno alla gamba. «Mi sente?». Armeggiò ancora sulla gamba, poi tornò ad avvicinare la bocca alla sua faccia. «Ha la gamba schiacciata e una lacerazione estesa alla schiena, ma non è in pericolo. Mi capisce?». Kate bendò le ferite che David aveva alla gamba e alla spalla, ma serviva a poco, non c’era molto sangue da arrestare. Lui cominciava già a sentire freddo. Lei cercò di convincersi che fosse solo per via del vento che entrava dal portellone della carrozza. Ora il treno procedeva veloce, più di quello con cui erano arrivati. Il sole stava tramontando e la temperatura stava scendendo rapidamente. Kate si rialzò e tentò di far scorrere il portellone nella rotaia, ma a quella velocità non era in grado di chiuderlo. Si accasciò stanca sul fondo e tirò David per un braccio, trascinandolo con sé nell’angolo più distante dalla porta. Gli aveva praticato un’iniezione di antibiotici e aveva pulito e chiuso le ferite come meglio poteva. Più di così non era in grado di fare. Si appoggiò alla parete, lo tirò contro di sé e agganciò le gambe alle sue per cercare di trasmettergli un po’ di calore. La testa di David le ricadde inerte sul ventre e Kate cominciò ad accarezzargli i capelli. Sentì che stava diventando sempre più freddo. 64 Dai finestrini dell’elicottero si vedeva il sole scomparire dietro l’altopiano tibetano. Dorian cercò con lo sguardo gli edifici del complesso oltre la coltre verde della foresta. Si scorgeva solo un’unica colonna di fumo bianco e grigio, come se qualcuno avesse acceso un enorme fuoco da bivacco nel mezzo di una remota landa inviolata. «L’ultimo treno è partito», annunciò Dmitrij. «I droni?». Dorian non staccò gli occhi dalla colonna di fumo che si vedeva in lontananza. «Sono decollati da trenta minuti». Dorian non disse niente, ma il suo braccio destro aveva bisogno di istruzioni. «Ora cosa facciamo?», gli chiese. «Fermiamo i treni. Che i nostri uomini prendano nota di tutti quelli che ci sono a bordo, compresi i morti. Assicurati che i nostri siano in tenuta di quarantena». 65 Kate fissava il nero della notte. Uno spicchio di luna si rifletteva debolmente sulle cime degli alberi che sfilavano veloci. Non più così veloci, ora. Il treno stava rallentando. Eppure fuori non c’era niente, solo foresta. Sollevò delicatamente la testa di David per scivolare via e andò ad affacciarsi. Guardò prima verso la testa del treno, poi verso la coda. Erano sull’ultimo vagone e sulle rotaie dietro di loro non c’era niente. Fece per rientrare e solo allora si accorse che attraverso la porta sull’altro lato si scorgeva a malapena un altro convoglio, quasi invisibile, immobile e buio com’era. Andò a guardare da vicino e notò qualcos’altro: sagome scure sui tetti delle carrozze. In attesa di cosa? Il loro treno si fermò e quasi contemporaneamente Kate sentì i tonfi degli uomini che saltavano sui loro vagoni. Si ritrasse frettolosamente nell’oscurità dell’interno nel momento in cui alcuni militari piombavano nel vagone come ginnasti lanciatisi da una sbarra delle parallele. Si distribuirono subito da tutte le parti, puntandole una torcia in faccia e in ogni angolo del vagone. Agganciarono un cavo che andava da un treno all’altro e lo strattonarono per collaudarne la resistenza. Un uomo l’afferrò, si appese al cavo con un moschettone e si lanciò dal vagone verso l’altro convoglio. Kate torse il collo per guardare indietro. David! Ma avevano preso anche lui. Un altro militare stava sopraggiungendo alle sue spalle reggendo David con un braccio come se trasportasse un bambino addormentato. L’uomo che aveva preso Kate la condusse in una carrozza ristorante e la mise bruscamente a sedere in uno scomparto. «Aspetta qui», le disse in un inglese dal forte accento cinese prima di lasciarla sola. L’altro uomo portò dentro David e lo abbandonò su un divano. Kate accorse immediatamente. Non sembrava peggiorato, ma non voleva dire nulla. Non gli restava molto tempo. Kate corse alla porta che il militare stava chiudendo e la bloccò. «Ehi», protestò, «abbiamo bisogno di aiuto qui». Lui la fissò per un attimo, poi provò di nuovo a chiudere la porta. «Si fermi! Abbiamo bisogno di un ospedale. Di medicinali adeguati. Sangue». Ma quell’uomo capiva anche una sola parola di quello che gli stava dicendo? «Un kit medico», aggiunse alla disperata ricerca di qualcosa che potesse riuscire comprensibile al cinese. Lui le piantò una mano sul petto, la spinse indietro e chiuse la porta. Kate tornò da David. Entrambe le pallottole che lo avevano colpito alla spalla e alla gamba erano passate da parte a parte. Kate aveva chiuso come meglio sapeva i fori di entrata e uscita. Avrebbe avuto bisogno di pulirgli le ferite meglio di come aveva fatto, ma al momento non era l’infezione a fargli rischiare la vita. Più di tutto, aveva bisogno di una trasfusione. Kate avrebbe potuto dargli il suo sangue, era 0 negativo, quello del donatore universale. Se… avesse trovato il modo di metterglielo in corpo. Il treno diede uno scossone e la fece cadere. Si stavano muovendo. Si alzò in piedi mentre il treno procedeva a strattoni e iniziava ad accelerare. Dal finestrino non riuscì a vedere l’altro convoglio, il treno merci sul quale era arrivata fin lì. Ora procedevano nella direzione opposta. Ma chi li stava portando via? Di chi erano prigionieri? Era un interrogativo a cui non sapeva rispondere e lo ignorò. La sola cosa che le interessava al momento era salvare David. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che potesse servirle. La carrozza ristorante era lunga una quindicina di metri, occupata per lo più da séparé, ma in fondo c’era un piccolo bar con un distributore di bibite, dei bicchieri e dei liquori. Forse il tubo… La porta si aprì di nuovo ed entrò un altro militare che faticava a mantenere l’equilibrio nell’accelerazione del treno. Posò sul pavimento una valigetta verde marcio con una croce rossa. Kate si precipitò a raccoglierla. Prima che vi arrivasse, il militare aveva già chiuso nuovamente la porta. Kate aprì la valigetta e vi frugò dentro. Quello che trovò la riempì di sollievo. Quindici minuti dopo il suo braccio era collegato tramite un tubicino a quello di David. Aprì e chiuse il pugno per far scorrere il sangue. Aveva una fame tremenda. E sonno. Ma stava facendo qualcosa per lui e tanto le bastava per farla sentire meglio. 66 Kate fu svegliata dai rintocchi di campana che il vento portò attraverso una grande finestra panoramica dentro la nicchia con i due lettini gemelli. Era un vento fresco e frizzante, vento fresco di montagna, che faceva ondeggiare le tende bianche di lino, sollevandole fin quasi a sfiorarle il viso. Alzò il braccio per toccarle, ma una fitta di dolore glielo fece abbassare subito. Nell’incavo del gomito aveva un ampio livido violaceo che le aveva invaso parte dell’avambraccio e le era risalito per il bicipite. David. Cercò di orientarsi. La stanza somigliava vagamente a un’aula di scuola. Era lunga e larga, con il pavimento in legno grezzo, pareti bianche e travi di legno ogni tre metri. Non ricordava di essere scesa dal treno. Era successo in piena notte. Gli uomini l’avevano trasportata di peso su per infiniti gradini dentro una fortezza tra le montagne. Ah, certo, adesso ricordava, non una fortezza ma un tempio, o forse un monastero. Fece per alzarsi, ma qualcosa la colse di sorpresa, un movimento poco distante, quello di una figura che si sollevava da terra. Era rimasto seduto talmente immobile, che non si era accorta della sua presenza. Le si avvicinò e Kate vide che era un ragazzo, un adolescente. La fece pensare a un giovane Dalai Lama. Indossava una pesante tunica rossa fissata su una spalla, che gli scendeva fino alle dita dei piedi e gli si posava sui sandali di cuoio. Aveva la testa rasata. «Buongiorno, dottoressa Warner», la salutò con un sorriso. Kate posò i piedi sul pavimento. «Ti chiedo scusa, mi hai spaventata». Si sentiva un po’ disorientata. Il giovane si inchinò profusamente, protendendo un braccio fin quasi a toccare terra. «Non volevo allarmarla, signora. Io sono Milo, al suo servizio». Pronunciò ogni singola parola con molta attenzione. «Grazie». Kate si strofinò la fronte cercando di raccapezzarsi. «C’era un uomo con me». «Ah, sì, il signor Reed». Reed? Milo andò a un tavolino poco distante dal letto. «Sono venuto a prenderla per portarla da lui». Sollevò con entrambe le mani una grande scodella di ceramica e gliela porse. «Ma prima, colazione!». Mentre lo diceva sollevò le sopracciglia. Kate alzò una mano per respingere la scodella, ma bastò quel movimento a farla venire meno e ricadde seduta sul letto, disorientata. «La colazione fa bene alla dottoressa Warner». Milo le porse di nuovo la scodella sempre sorridendo. Kate allungò il collo per annusare la densa zuppa che c’era nella tazza e si rassegnò a prendere il cucchiaio e assaggiarla. Squisita. Oppure erano la fame e quelle terribili razioni militari a fargliela sentire così buona? Svuotò la scodella in pochi secondi e si pulì la bocca con il dorso della mano. Milo posò la scodella sul tavolo e le porse una salvietta grande come un fazzoletto. Kate si asciugò di nuovo la bocca con un sorrisetto imbarazzato. «Ora vorrei vedere…». «Il signor Reed. Certamente. Da questa parte». Milo la condusse in un passaggio coperto che collegava diverse strutture. La vista era mozzafiato. Davanti a loro si estendeva un altopiano verde che arrivava fino a un orizzonte cinto da una catena di montagne incappucciate di neve. Dalla distesa sottostante salivano i fili di fumo di alcuni villaggi. In lontananza, a ornare le pendici delle montagne, c’erano altri monasteri, costruiti fin sui pendii più ripidi delle vette innevate. Kate faticava a impedirsi di fermarsi a contemplare quello scenario così incantevole e Milo fu tanto gentile da rallentare per darle il tempo di riprendersi. Svoltarono un altro angolo. Sotto di loro una grande terrazza quadrata si affacciava su valli e montagne. Su di essa sedevano venti o trenta uomini, tutti con la testa rasata e in tunica rossa, a gambe incrociate, immobili, con lo sguardo perduto in lontananza. «Meditazione mattutina», spiegò Milo a Kate. «Vuole unirsi a loro?» «Ah, oggi no», borbottò Kate faticando a staccare gli occhi da quella scena. Il ragazzo la scortò in un’altra stanza dove David era sdraiato in una nicchia simile a quella in cui si era svegliata lei. Kate corse da lui. S’inginocchiò accanto al suo letto e lo esaminò in tutta fretta. Era sveglio, ma sfinito. Antibiotici. Bisognava dargliene altri per scongiurare un’infezione. Senza difese farmacologiche, non poteva farcela. E prima o poi avrebbe dovuto disinfettare e chiudere bene le ferite dei proiettili. Una cosa alla volta. Aveva lasciato gli antibiotici sul treno. Quando l’avevano portata via. O salvata? Troppi misteri. «Milo, ho bisogno di medicine, antibiotici…». Il giovane la invitò ad avvicinarsi a un tavolino simile a quello dal quale gli aveva servito la zuppa. «È quello che avevamo pensato anche noi, dottoressa Warner. Ho preparato una serie di rimedi curativi che possono esserle utili». Le stava mostrando alcuni mucchietti di radici sporche di terra, una manciata di polvere arancione e un assortimento di funghi. Sorrise inclinando la testa come a dire: “Fantastico, vero?”. Kate si portò le mani ai fianchi. «Milo, questi sono, ehm, molto utili davvero, grazie, però io, be’… Temo che le sue condizioni siano gravi, penso che richiedano, come dire, delle medi…». Il ragazzo fece un passo indietro, sorrise mostrando i denti come lo Stregatto e puntò il dito su di lei. «Ah, gliel’ho fatta, dottoressa Warner!». Così esclamando, aprì le antine di un armadio di legno che arrivava al soffitto e conteneva una messe di moderni prodotti farmaceutici. Kate corse a esaminare quel bendidio. C’era un po’ di tutto: antibiotici, antidolorifici, antimicotici, bende. Da dove cominciare? Kate gli rivolse un sorriso di riconoscenza e cominciò a guardare quali antibiotici aveva a disposizione. «Sì, me l’hai fatta proprio bene, Milo». Lesse qualche etichetta. Farmaci di produzione europea, forse canadese. Alcuni erano scaduti, ma ne trovò anche di utilizzabili. «Il tuo inglese è eccellente. Dove lo hai imparato?» «La stele di Rosetta». Kate gli lanciò un’occhiata scettica. Il sorriso scomparve dalle labbra di Milo, che assunse un’espressione seria. Guardò dalla finestra la valle sottostante. «L’hanno trovata in una grotta alle pendici di questa montagna. Per trenta giorni e trenta notti cento monaci portarono via le pietre finché rimase un piccolo varco. Hanno mandato dentro me, io ero l’unico che ci passava. E là dentro, in fondo alla grotta, c’era una luce gialla che illuminava una tavola di pietra e io ho trovato la tavola lì. L’ho portata fuori quella notte e mi sono guadagnato la tunica». Quando la sua storia finì, fece un lungo sospiro. Kate, che lo aveva ascoltato immobile con gli antibiotici in mano, non sapeva bene cosa rispondere. Milo si voltò di scatto puntando di nuovo il dito. «Ah, gliel’ho fatta di nuovo, dottoressa Warner!». Poi si buttò per metà all’indietro scoppiando a ridere beato. Lei scosse la testa tornando al capezzale di David. «Sei un tipo vivace, eh?», commentò mentre apriva un flacone di antibiotici. «Milo è pieno di vita, dottoressa Warner, e a me piace molto intrattenere gli ospiti». Ospiti? Evidentemente il ragazzo vedeva in quella situazione l’occasione di farsi una nuova amica. Gli sorrise. «Chiamami Kate». «Sì, lo faccio certamente, dottoressa Kate». «Allora, sul serio, come hai imparato l’inglese qui?» «La stele di Rosetta…». Kate gli rivolse uno sguardo tra il severo e il divertito, ma il giovane reagì annuendo vivacemente. «Si chiama così. È un corso d’inglese che ho ricevuto per posta da un benefattore anonimo. Molto, molto misterioso. Una grande fortuna per Milo. Non vengono in molti a trovarci quassù. E quando chiedono uno che parla inglese, dev’essere Milo, nessun altro parla inglese qui, non bene come Milo. Io ho imparato per divertimento, ma guarda che fortuna!». Kate prese dal tavolo una tazzina d’acqua e aiutò David a mandar giù una compressa di antibiotico. Ne aveva scelto uno a largo spettro, sperando che funzionasse. L’ideale sarebbe stato somministrargli antibiotici per endovena in un ospedale. Gli fece ingoiare anche un antidolorifico. Quando fosse uscito dallo stato di semincoscienza in cui si trovava, il dolore lo avrebbe aggredito come un animale feroce, e voleva premunirsi. E adesso? Le venne in mente una cosa. La stele di Rosetta. «Milo, hai un computer?» «Certo, è così che vi abbiamo trovati». Sollevò le sopracciglia in un’espressione cospiratoria. «E-mail enigmatica». Kate si alzò. «E-mail? Posso usare…?». Milo s’inchinò. «No, spiacente, dottoressa Kate. Qian vuole vederla. Dice che appena ha dato le medicine al signor Reed devo portarla da lui. È un uomo molto serio, non spassoso come Milo. Dice che ha qualcosa da darle». 67 Auditorium principale Indo-Immari Corporate Nuova Delhi, India Il mormorio dei convenevoli si spense e duecento paia di occhi si fissarono su di lui. Tutti i presenti erano ansiosi di conoscere il motivo per cui erano stati tirati giù dal letto alle sei del mattino. Dorian si fermò al centro della pedana e contemplò i convenuti. Per lo più erano dell’Immari Security. Con loro c’erano anche alcune decine di persone provenienti dalle sussidiarie della società: Immari Research, Immari Logistics, Immari Communications e Immari Capital. Tutti avrebbero avuto un ruolo nell’operazione imminente. C’erano poi gli agenti operativi della Clocktower. Il capo della stazione di Nuova Delhi aveva giurato di aver eliminato chiunque potesse costituire un problema. L’Immari Security aveva contribuito all’epurazione ed erano rimasti solo pochi analisti e operativi in sospeso, in attesa di una “valutazione definitiva”. Solo il capo della stazione e il reparto dell’Immari Security alle dipendenze di Dorian erano a conoscenza dei dettagli del Protocollo Toba e sapevano che cosa c’era da fare. Sloane aveva bisogno che questo grado di segretezza venisse mantenuto, ma aveva anche bisogno di aiuto, e non poco, da tutte le persone presenti in sala. Aveva indetto la riunione proprio allo scopo di convincerli, un’arte in cui Dorian non aveva molta dimestichezza. Lui impartiva ordini e la gente gli ubbidiva. Lui non chiedeva, lui diceva cosa bisognava fare e la sua gente non poneva domande. Quelli che aveva davanti a sé ora invece sì, erano abituati ad analizzare e a pensare in maniera autonoma. Ma non c’era tempo per le discussioni. «Vi state tutti chiedendo perché siete qui a quest’ora in una sala con così tante facce nuove», cominciò Dorian. «Se siete qui adesso, è perché siete stati scelti. Siete stati scelti come membri di una task force, un gruppo di lavoro molto speciale, una squadra d’élite su cui l’Immari Corporation e tutte le sue organizzazioni precedenti ripongono le loro speranze. Ciò che sto per dirvi non deve uscire da questa sala. Quello che vi dirò oggi, ve lo porterete nella tomba. Ci saranno cose alle quali faticherete a credere. E parte di quello che vi sarà chiesto di fare sarà ancora più difficile, per motivi che ancora non siete in grado di comprendere. Devo avvertirvi fin da subito che non posso darvi tutte le risposte. Non posso mettervi la coscienza in pace, almeno non ora. Quando sarà finita, tutto avrà senso. Saprete qual è stato il ruolo essenziale che avete avuto nella storia del mondo e lo sapranno anche altri. Ma a qualche risposta avete diritto, è giusto che conosciate alcune delle ragioni alla base delle azioni terribili che vi sarà chiesto di compiere». Dorian s’interruppe e si mise a passeggiare sul palco guardando gli astanti. «Ecco cosa posso dirvi. L’Immari Corporation è la discendente, l’incarnazione moderna, di una tribù che lasciò un’area, che riteniamo debba essere da qualche parte in India, Pakistan o forse persino Tibet, circa dodicimila anni fa, non molto tempo dopo l’ultima era glaciale, quando l’innalzamento dei livelli del mare di molte decine di metri cancellò le comunità costiere di tutto il mondo. Questo gruppo aveva un obiettivo preciso: scoprire le vere origini e la vera storia della razza umana. Erano persone di grande fede e riteniamo che nel corso della loro ricerca abbiano creato la religione. Ma con il passare del tempo e il progredire dell’umanità, emerse una nuova tecnica di indagine: la scienza. E la scienza resta alla base del nostro lavoro odierno. Alcuni di voi hanno visto piccoli frammenti di questa operazione grandiosa: scavi archeologici, progetti di ricerca, sperimentazione genetica. È tutto il nostro grande lavoro. Ma quello che abbiamo trovato, non avremmo mai potuto immaginarlo. Sto arrivando alla fine del poco che vi posso dire, ma una cosa la dovete sapere: molti anni fa abbiamo scoperto l’esistenza di un pericolo preciso e presente per tutta la razza umana. Una minaccia che pensavamo inconcepibile. Da quasi cento anni sappiamo che a un certo punto sarebbe venuto il giorno in cui avremmo dovuto affrontare questo nemico. Quel giorno è arrivato. Ciascuno di voi è un soldato dell’esercito che fermerà questa incombente apocalisse. I prossimi due giorni, e ciò che a essi seguirà, saranno difficili. Non sto parlando di una scaramuccia in campagna. Questa sarà una battaglia in nome della razza umana, una lotta per il nostro diritto a restare in vita. Abbiamo un obiettivo: la sopravvivenza dell’umanità». Dorian tornò a fermarsi al centro del palco, dando tempo ai presenti di assimilare quello che aveva appena detto. C’erano espressioni confuse, ma anche ascoltatori concentrati, cenni affermativi con la testa. «Nella vostra mente affiorano gli interrogativi. Perché non possiamo operare alla luce del giorno? Perché non chiedere l’aiuto dei governi del mondo? Vorrei davvero che fosse possibile. Mi renderebbe molto più facile accettare ciò che deve essere fatto. In verità la nostra coscienza è l’altro nemico contro cui dovremo combattere nei prossimi giorni. E rendere la cosa pubblica servirebbe anche a sollevarci da questo fardello, il proverbiale peso del mondo, sapendo che non siamo noi l’ultima linea di difesa, che arriveranno dei rinforzi, che ci saranno altri a combattere lo stesso nemico, e che per questo ci è consentito fallire. Invece noi non possiamo fallire, come non possiamo rivelare di quale minaccia si tratta. È lo stesso motivo per cui io non vi posso dare tutti i particolari, il motivo per cui non posso giustificare tutto quello che sto per chiedervi di fare, per quanto mi angosci tenervi all’oscuro. Se l’operazione fosse di dominio pubblico, il risultato sarebbero panico, isterismi, il disfacimento della società proprio nel momento in cui dobbiamo rimanere più uniti e integri possibile. Su questo pianeta ci sono sette miliardi di persone. Immaginate che cosa succederebbe se sapessero che siamo a un passo dall’estinzione. Il nostro scopo è di salvare il più alto numero di vite. Non saranno molte, ma se ciascuno di noi farà la sua parte, potremo garantire la sopravvivenza della razza umana. Ecco cosa c’è in gioco. E non dovremo affrontare solo la minaccia principale. Ci saranno altri ostacoli di minore entità: governi, organi di informazione, agenzie di intelligence. Non possiamo sconfiggerli, ma possiamo tenerli a bada abbastanza a lungo perché il nostro piano vada in porto. Ed è su quello che dobbiamo lavorare fin da subito. Nei plichi che i miei uomini vi stanno distribuendo ci sono i vostri incarichi: sottogruppi, responsabilità, ordini di posizionamento. Le azioni da intraprendere sono drastiche, ma lo è anche la nostra situazione». Dorian s’impettì alzando il mento. «Io sono un soldato. Ci sono nato. Ho dedicato la mia vita a questa causa. Mio padre ha dato la vita per questa causa. La nostra causa. Ma io so che voi non siete soldati di carriera. Voi siete stati arruolati. Però io non vi chiederò di fare quello che non siete in grado di fare. Sarebbe crudele e io non sono un uomo crudele. L’Immari non è un’organizzazione crudele. Se in qualsiasi momento non potrete partecipare all’operazione che sta per essere avviata, non avrete che da informarne semplicemente uno degli agenti dell’Immari Security del mio reparto personale. Non c’è niente di cui vergognarsi. Siamo tutti anelli di una stessa catena. Se uno si spezza, si spezza l’intera catena e sarebbe il disastro. Mentre è proprio di questo che si tratta: prevenire la catastrofe, ovunque essa possa manifestarsi. Vi ringrazio e vi auguro buona fortuna». Un agente dell’Immari Security salutò Dorian che scendeva dalla pedana. «Bel discorso, capo». «Non perdere tempo a lusingarmi. Tenete d’occhio quella gente. Uno qualunque di loro potrebbe affossare l’intera operazione. Come siamo messi con la task force principale?» «Si sta radunando al quartier generale della Clocktower locale». «Bene. Dài a tutti trenta secondi per prepararsi, poi riunisci il gruppo. A che punto siamo con i treni?» «Dovremmo avere l’elenco dei vivi e dei morti entro un’ora». «Sbrigatevi. Voglio avere i dati in tempo per la riunione». 68 Regione autonoma del Tibet Milo faceva dondolare la lanterna dietro la schiena illuminando i gradini di pietra. «Siamo quasi arrivati, dottoressa Kate». Le sembrava che stessero scendendo quella scala a chiocciola da più di un’ora. Dovevano essere arrivati al centro della montagna, almeno un chilometro sotto il monastero. Milo scendeva saltellando e portando la sua lanterna come un bambino con un sacchetto di dolciumi la notte di Halloween: mai stanco, senza fermarsi a riposare. Kate aveva male alle gambe. Ancora non si era ripresa dalle fatiche del giorno prima. Non osava pensare a quando sarebbe dovuta tornare su. Davanti a lei Milo si era arrestato e la stava aspettando, ma questa volta era ai piedi delle scale, in un’ampia apertura circolare. Finalmente. Fece un passo indietro e protese la lanterna a illuminare una porta di legno ad arco, a forma di lapide. Kate attese un momento pensando che Milo la precedesse. «Entri, prego, dottoressa. La sta aspettando». Lei aprì la porta di una piccola stanza a pianta circolare. Le pareti erano coperte di carte geografiche dove non si ergevano scaffali con bottigliette di vetro, statuette e manufatti di metallo. L’ambiente era… medievale, come l’antico laboratorio nella torre di un castello dove avresti trovato a lavorarci qualcuno di nome Merlino, o qualcosa del genere. E anche lì c’era uno stregone, o comunque uno che somigliava a uno stregone: un vecchio che leggeva seduto a un tavolino rustico di legno. Girò lentamente il collo come se provasse dolore. Era asiatico, ormai da tempo calvo, e aveva una faccia rugosa come Kate non aveva mai visto. Avrebbe potuto avere più di cento anni. «Dottoressa Warner…». La sua voce era un bisbiglio. Si alzò e andò verso di lei reggendosi vistosamente a un bastone di legno. «Signor…». «Non ci sono signori qui, dottoressa Warner». S’interruppe subito. Camminare parlando gli era troppo faticoso. Fissò paziente il pavimento di pietra mentre riprendeva fiato. «Mi chiami Qian. Ho qualcosa per lei. Una cosa che aspetto di darle da settantacinque anni. Ma prima c’è un’altra cosa che le devo mostrare. Vuole aiutarmi con la porta?». Le indicò una piccola porta di legno di cui Kate non si era ancora accorta. Era alta meno di un metro e mezzo. Kate l’aprì e vide con sollievo che il passaggio su cui si affacciava era più alto. Attese sulla soglia che Qian la precedesse, fermandosi ogni pochi passi. Quanto tempo aveva impiegato per scendere fin laggiù? Quando sbirciò all’interno del corridoio, Kate vide con sorpresa che era illuminato da lampade moderne. Era corto, meno di cinque metri, e sembrava chiuso da un muro di pietra. Qian impiegò qualche minuto ad arrivare in fondo, dove le indicò un pulsante inserito nella parete. Kate lo premette e il muro in fondo cominciò a sollevarsi. Kate sentì un soffio d’aria scorrerle sui piedi ed entrare nella stanza misteriosa. Evidentemente il muro che si era sollevato la manteneva sigillata. Seguì Qian oltre la soglia in un locale sorprendentemente grande, più di dieci metri per dieci. Era vuoto eccetto che per un grande tappeto quadrato che copriva quasi del tutto il pavimento. Kate vide che sopra di loro pendeva un sottile telo di lino che copriva l’intera area del soffitto. Ma sopra il primo telo, notò che ce n’era un altro identico, e più su un altro ancora, e via di seguito, a perdita d’occhio, come strati di zanzariera, fino alla cima della montagna. Un metodo per arginare l’umidità? Forse, ma Kate vide qualcos’altro: nel telo erano impigliati minuscoli frammenti di terra e roccia. Qian le indicò il tappeto con un cenno della testa. «Questo è il tesoro che proteggiamo qui dentro. La nostra eredità. Ci è costata un caro prezzo». Si schiarì la voce e continuò parlando lentamente. «Quand’ero giovane, al mio villaggio sono venuti degli uomini. Indossavano divise militari. Io all’epoca non lo sapevo, ma erano uniformi naziste. Quegli uomini cercavano un gruppo di monaci che viveva sulle montagne dietro il mio villaggio. Nessuno parlava di quei monaci. Nemmeno io ne sapevo niente. Quegli uomini pagarono me e alcuni altri bambini perché li portassimo da loro. I monaci non avevano paura di quegli uomini e invece avrebbero dovuto. Quelli, che al nostro villaggio erano stati gentili, in montagna divennero dei mostri. Perquisirono tutto il monastero, torturarono i monaci e alla fine appiccarono fuoco alla montagna». Qian s’interruppe di nuovo per riprendere fiato. «I miei amici erano morti e i soldati cercavano me nel monastero. E poi mi trovarono. Uno di loro mi prese in braccio e mi portò in un tunnel. In fondo, c’erano tre uomini ad aspettarmi. L’uomo disse loro che io ero l’unico superstite. Mi consegnò un diario e mi disse che avrei dovuto conservarlo al sicuro fino al momento giusto. Quella notte i tre monaci scapparono portando via solo me, le tuniche che avevano indosso e questo arazzo». Qian abbassò gli occhi sulla grande opera d’arte che raccontava una storia epica di dèi, eroi, mostri, paradisi, luci, sangue, fuoco e acqua. Kate ascoltava in silenzio. Dentro di sé si domandava cosa avesse a che fare lei con tutto quello. Doveva dominare la voglia di dire: “Davvero molto bello, ma ora posso usare il suo computer?”. «E adesso si sta chiedendo cosa c’entra con lei». Kate arrossì e scosse la testa. «No, assolutamente no, è bellissimo…». E lo era. I colori erano vivi come affreschi di una chiesa e la trama dava profondità alle figure. «Ma l’uomo con cui sono venuto qui… lui e io siamo in pericolo». «Lei e Andrew non siete i soli». Prima che Kate potesse ribattere, Qian riprese con una voce inaspettatamente vigorosa. «I vostri nemici fanno parte dello stesso gruppo che ha bruciato quel monastero settantacinque anni fa e lo stesso che molto presto scatenerà un male impensabile. È quello che racconta l’arazzo. Per fermarli le nostre armi sono capire che cosa raccontano l’arazzo e il diario. Io sono rimasto aggrappato alla vita per settantacinque anni aspettando e sperando che giungesse il giorno in cui avrei potuto adempiere al mio destino. E ieri, quando ho saputo che cos’era successo in Cina, ho capito che il momento era arrivato». Qian s’infilò una mano nella tunica e con dita fragilissime porse a Kate un libriccino rilegato in pelle. Poi le indicò l’arazzo. «Che cosa vede, figlia mia?». Kate studiò le immagini dai colori così saturi. Angeli, dèi, fuoco, acqua, sangue, luce, sole. «Una rappresentazione religiosa?» «La religione è il nostro disperato tentativo di capire il nostro mondo. E il nostro passato. Noi viviamo nell’oscurità, circondati da misteri. Da dove veniamo? Qual è il nostro scopo? Cosa sarà di noi dopo la morte? La religione ci dà anche qualcos’altro, un codice di condotta, una guida per distinguere il bene dal male, per comportarci con decoro. Come qualunque altro strumento, può essere usato a sproposito. Ma questo documento è stato creato molto prima che l’uomo trovasse consolazione nelle sue credenze religiose». «Come?» «Noi crediamo che sia nato da tradizioni orali». «Una leggenda?» «Forse. Ma riteniamo che sia un documento insieme di storia e profezia. Una rappresentazione di eventi precedenti al risveglio dell’uomo e di tragedie che ancora devono verificarsi. Noi lo chiamiamo l’Epopea delle quattro inondazioni». Qian le additò l’angolo in alto a sinistra. Kate studiò le immagini di quella porzione: animali nudi, non del tutto umani, in una rada foresta o una savana africana. I semiuomini sono in fuga da un’oscurità che sta scendendo dal cielo, una coltre di ceneri che soffoca loro e uccide le piante. Più sotto sono soli in una terra arida e defunta. Poi emerge una luce che li guida fuori di lì e un protettore parla ai selvaggi offrendo loro una coppa piena di sangue. Qian si schiarì la gola con un colpetto di tosse. «La prima scena è la Marea di Fuoco. Un’inondazione che per poco non distrusse il mondo intero, seppellendo quasi del tutto gli esseri umani sotto la cenere e annientando tutte le risorse alimentari». «Un mito della creazione», mormorò Kate. In tutte le religioni principali esisteva il mito della creazione sotto diverse forme, la storia di come Dio aveva creato l’uomo a propria immagine. «Questo non è un mito. Questo è un documento storico». Il tono di Qian era dolce, come quello di un insegnante o un genitore. «Noti che l’uomo esisteva già prima della Marea di Fuoco, viveva come un animale nella foresta. L’inondazione lo avrebbe ucciso, ma fu protetto dal salvatore. Che però non può essere sempre presente a salvarlo. Così il salvatore consegna loro il dono più grande di tutti, il suo sangue. Un dono che sottrarrà alla morte il genere umano». La Catastrofe di Toba e il Grande balzo in avanti, pensò subito Kate. Sangue. Una mutazione genetica, un’innovazione nella connettività cerebrale, che conferì all’umanità un vantaggio nella lotta per la sopravvivenza, aiutandola ad affrontare il mare di ceneri cadute settantamila anni prima dal supervulcano. La Marea di Fuoco. Possibile? Kate esaminò di nuovo l’arazzo. La scena era strana. Gli uomini della foresta sembravano diventati ninja o spiriti. Indossavano degli indumenti e avevano cominciato a macellare gli animali. La scena diventava sanguinosa, un’escalation di orrori che si snodava lungo l’arazzo, centimetro dopo centimetro. Schiavitù, eccidi, guerre. «Questo dono rese l’uomo intelligente e forte e lo salvò dall’estinzione, ma per questo dovette pagare un prezzo molto alto. Per la prima volta vide il mondo per quello che era in realtà e vide pericoli tutt’intorno: nelle fiere che abitavano la foresta e nei propri simili. Da animale, era vissuto in un mondo di sereno benessere, agendo d’istinto, pensando solo quando gli era indispensabile, senza vedersi mai per ciò che era, senza preoccuparsi mai della propria mortalità, senza cercare mai di ingannare la morte. Adesso invece a governarlo erano i suoi pensieri e le sue paure. Per la prima volta veniva a conoscenza del male. Il vostro Sigmund Freud giunse molto vicino a descrivere questi concetti con i suoi Io ed Es. L’uomo si trasformò in un dottor Jekyll e Mr Hyde. Lottò con la sua mente animale, con i suoi istinti primordiali. Passione, ira, questi sono istinti di cui l’uomo non potrà mai liberarsi per quanto si evolva, è il nostro retaggio bestiale. Noi possiamo solo sperare di tenere sotto controllo la bestia che è dentro di noi. L’uomo desiderava anche ardentemente comprendere la propria mente vigile, con le sue paure e i suoi sogni e i suoi interrogativi sulle proprie origini e il proprio destino. E soprattutto sognava di ingannare la morte. Fondò comunità sulle coste e commise indicibili atrocità per garantire la propria sicurezza e cercare l’immortalità, o con le sue gesta o con la magia o l’alchimia. Le coste sono un luogo naturale per l’essere umano, è lì che sopravvisse alla Marea di Fuoco. Quando la terra fu bruciata, la sua fonte di cibo fu la fauna marina. Ma il regno dell’uomo ebbe breve durata». Kate esaminò il quadrante inferiore a sinistra: una muraglia d’acqua a ridosso di un carro che viaggiava sul mare trasportando il salvatore con la coppa apparso in occasione della Marea di Fuoco. «Il salvatore ritorna e dice alle sue tribù che sta per arrivare una grande marea e che si devono preparare». «Una storia che ho già sentito», commentò Kate. «Sì. C’è il mito di un’inondazione in tutte le religioni, dalle più nuove alle più antiche. Ed è un fatto storico. L’ultima era glaciale finì circa dodicimila anni fa e i ghiacci si sciolsero. L’asse del pianeta si spostò. Durante questo intero periodo il livello dei mari salì di centotrenta metri, in certi casi gradatamente, in altri con ondate distruttive e tsunami». Kate guardava le immagini di città che cadevano sotto l’impeto delle acque, masse di esseri umani che morivano annegati, governanti e ricchi che guardavano l’inondazione dall’alto sorridendo e, in fondo, un gruppetto di persone in abiti modesti che si avventurava verso l’interno, in direzione delle montagne. Portando con sé una specie di arca. Qian la lasciò contemplare l’arazzo per un lungo momento prima di riprendere il suo racconto. «Le popolazioni ignorarono gli avvertimenti. L’uomo era padrone del mondo o così credeva. Era arrogante e decadente. Rise dell’imminente catastrofe e continuò nei suoi vizi e comportamenti deprecabili. Qualcuno dice che Dio abbia punito l’uomo per aver ucciso i suoi fratelli e le sue sorelle. Una tribù ascolta gli ammonimenti, costruisce un’arca e si allontana dal mare salendo in montagna. Arriva la marea e distrugge le città lungo il mare, risparmiando solo i villaggi primitivi dell’entroterra e le tribù nomadi sparse sulle alture. Si diffonde una voce secondo cui Dio è morto e adesso l’uomo è il dio della Terra. Dunque la Terra appartiene all’uomo perché ci faccia ciò che più gli piace. Resta una tribù però che conserva la fede. La loro credenza è una sola, e cioè che l’uomo è imperfetto, l’uomo non è Dio, e vivere in umiltà è il solo modo per essere veramente umani». «Quella tribù eravamo noi». «Sì. Noi abbiamo ascoltato le parole del salvatore e abbiamo fatto come ci aveva ordinato. Abbiamo trasportato l’Arca in montagna». «E questo arazzo era nell’Arca?», chiese Kate. «No. Nemmeno io so che cosa c’era nell’Arca. Ma dev’essere stata reale, se ancora oggi sopravvivono racconti che ne parlano. Ed è una storia molto potente. Ha un’influenza incredibile su chiunque l’ascolti. È una delle molte storie che hanno origine dalla psiche umana. Noi la vediamo come realtà, esattamente come riconosciamo le diverse versioni del mito della creazione. Queste storie sono sempre esistite e sempre esisteranno nelle nostre menti». «Cosa successe alla tribù?» «Si dedicarono alla ricerca della verità dell’arazzo, alla comprensione del mondo antidiluviano, quello precedente all’inondazione, alla ricostruzione di quanto era avvenuto nel passato. Un gruppo pensava che le risposte fossero da trovare dentro la mente umana, che la verità sarebbe emersa dalla comprensione della nostra esistenza, tramite riflessione e autoanalisi. Costoro diventarono i monaci di montagna, gli Immaru, i monaci della Luce. Io sono l’ultimo degli Immaru. Ma alcuni dei monaci persero la pazienza. Andarono a cercare le loro risposte nel mondo. Anche loro, almeno all’inizio, erano un gruppo di fede. Con il passare del tempo e il prolungarsi dei viaggi, persero lentamente la loro religione, nel senso letterale del termine. Si votarono a una nuova speranza come tecnica di ricerca, cioè la scienza. Si erano stancati di miti e allegorie. Volevano prove concrete. E cominciarono a trovarle, ma a un costo notevole. Alla scienza manca qualcosa di molto importante che c’è nella religione, vale a dire un codice morale. La sopravvivenza del più adatto è un fatto scientifico, ma risponde a un’etica crudele, al mondo delle bestie, non a una società civile. Le leggi possono portarci solo fino a un certo punto e devono basarsi su qualcosa, un codice morale condiviso che abbia qualche riferimento. Con il recedere di questo fondamento morale, si deteriorano anche i valori della società». «Io non credo che per avere una morale una persona debba essere religiosa. Io sono una scienziata e non sono… più di tanto religiosa… però sono, o credo di essere, una persona morale». «Lei è anche molto più intelligente e molto più sensibile verso il prossimo della vasta maggioranza della gente. Ma un giorno si allineeranno a lei anche gli altri e il mondo vivrà in pace, senza più bisogno di allegorie o lezioni morali. Io sono tra quelli che temono che questo giorno sia ancora molto lontano. Parlo dello stato delle cose oggi, delle masse, non della minoranza. E sbaglio. Predico di argomenti di mio personale interesse, come fanno spesso i vecchi, specialmente i vecchi soli. Lei ha senza dubbio già intuito l’identità dei monaci che molto tempo fa si separarono dagli Immaru». «Gli Immari». Qian annuì. «Noi crediamo che verso il tempo dei greci, i monaci separatisti cambiarono il loro nome in Immari. Forse lo fecero perché il loro nome suonasse più greco e potessero essere accettati dagli studiosi ellenici che stavano compiendo passi giganteschi nell’emergente campo delle scienze. La vera tragedia e la verità di come quella fazione mutò per sempre è raccontata nel diario. Per questo lei deve leggerlo assolutamente». «E il resto dell’arazzo? Le altre due maree?» «Sono eventi che ancora non si sono realizzati». Kate studiò l’altra metà. Il mare che aveva consumato il mondo nella Marea di Acqua si trasformava dall’azzurro in un mare rosso di sangue che si riversava nel quadrante inferiore di destra. Sopra il mare di sangue un gruppo di superuomini massacrava esseri inferiori. Il mondo era una distesa funerea, l’oscurità copriva la Terra e il sangue scorreva da ogni uomo, donna e bambino in un lago vermiglio. La Marea di Sangue. Al di sopra della battaglia un eroe lottava contro un mostro, lo uccideva e saliva in cielo, da dove sprigionava una Marea di Luce, che inondava il mondo e lo liberava. Preso nel suo insieme, l’arazzo passava dai neri e i grigi della Marea di Fuoco ai blu e i verdi della Marea di Acqua, al carminio e il vermiglio della Marea di Sangue, ai bianchi e i gialli della Marea di Luce. Era di una bellezza straordinaria. Incantevole. Qian interruppe la sua concentrazione. «Ora devo riposare. E lei deve fare i suoi compiti, dottoressa Warner». 69 Sala riunioni principale Quartier generale Clocktower Nuova Delhi, India Dorian fermò l’analista alzando la mano. «Che cos’è un “Barnaby Prendergast Report”?». L’analista, un uomo sulla trentina, sembrò perplesso. «È il rapporto di Barnaby Prendergast». Sloane guardò la sala dov’erano riuniti i personali della Clocktower e dell’Immari Security. Il nuovo staff integrato si stava ancora ambientando alla nuova fusione delle due forze lavoro e la redistribuzione di ruoli e competenze stava rallentando le attività della riunione. «Qualcuno sa dirmi, per piacere, cos’è Barnaby Prendergast?» «Ah», disse l’analista, «è così che si chiama lui, Barnaby Prendergast». «Sul serio? Siamo stati noi ad affibbiargli quel nome? No no, non me lo dica, non mi interessa. E che cosa ha detto? Ripeta». L’analista scartabellò alcuni fogli graffettati. «Prendergast è uno dei venti dei nostri che è ancora in loco». «Era in loco», lo corresse Dorian. L’analista alzò gli occhi da sotto la fronte abbassata. «Tecnicamente lo è ancora, o comunque lo è il suo corpo senza vita». «Gesù Cristo, mi dica di questo rapporto». «Sì, certo, scusi… dunque, prima dell’attacco del drone, diceva – Prendergast, intendo – che una donna non identificata “lo ha avvicinato davanti al suo laboratorio e lo ha costretto ad aiutarla in quello che sosteneva essere un soccorso di due bambini”, testuali parole». L’analista girò un’altra pagina. «Prosegue dicendo di aver “cercato di fermarla” e di “credere che stesse usando una tessera identificativa falsa o rubata”. Inoltre, e qui sta il punto, dice che dopo gli attacchi la donna è uscita di corsa e, cito, “coperta di sangue ma illesa”, e che lo ha “attaccato di nuovo impedendogli di soccorrere gli operai”, e poi che “ha preso la pistola a una guardia di sicurezza e ha cercato di sparargli”. Sparare a Prendergast, intendeva. Infine è salita su un treno merci con un complice in fin di vita, che secondo Prendergast era stato colpito più di una volta». Dorian si mise a osservare la fila di monitor. Kate Warner era sopravvissuta alla Campana. Come? Reed era probabilmente morto, lui stesso lo aveva crivellato, riducendolo a una fetta di formaggio svizzero. L’analista si schiarì la voce. «Signore, dobbiamo ignorarlo? Crede che siano farneticazioni? Che stesse cercando di mettersi in mostra?» «No, non lo credo». Dorian si mangiucchiò un’unghia. «È troppo dettagliato perché sia inventato. Aspetti… perché ha detto “mettersi in mostra”?» «Subito prima dell’attacco, Prendergast si è messo in contatto con la BBC. È così che abbiamo ricevuto il rapporto. Stavamo monitorando tutte le comunicazioni in entrata e in uscita dal complesso fin dall’inizio dell’… incidente. Lo abbiamo incluso nel nostro elenco di fonti da screditare. La sua storia minaccia i precedenti comunicati stampa dell’Immari sull’incidente all’impianto industriale. Perciò…». «Ho capito, si fermi. Basta così. Una cosa alla volta. Concentriamoci». Dorian ruotò la poltrona dalla parte del dottor Chang, che sedeva in un angolo a contemplare la moquette di poco pregio della sala riunioni. «Chang. Faccia attenzione». Il dottore schizzò a sedere, dritto come se fosse stato interrogato da un insegnante. Era da quando erano esplosi i reattori in Cina che lo scienziato appariva spento e assente. «Sì, sono qui». «Per il momento, dottore, ma se non scopre come ha fatto Kate Warner a sopravvivere alla Campana, non lo sarà per molto». Chang si strinse nelle spalle. «Ma io non so… nemmeno cominciare a…». «Invece comincerà. Come può essere sopravvissuta?». Il dottore si portò una mano davanti alla bocca e tossì nel pugno. «Be’, ehm, vediamo, potrebbe aver preso la stessa cosa che aveva dato ai bambini. Forse la stava testando». Dorian annuì. «Interessante. Altre possibilità?» «No. Oddio, c’è quella più ovvia, cioè che fosse già immune, grazie al Gene di Atlantide». Sloane si tormentò di nuovo l’unghia. Questa seconda ipotesi era molto interessante. «Questo mi sembra facile da verificare…». Chang scosse la testa. «Il mio laboratorio è andato distrutto e non sappiamo nemmeno da che parte cominciare…». «Si trovi un laboratorio nuovo». Dorian si rivolse a uno dei suoi. «Trovate un laboratorio nuovo al dottor Chang». Tornò a parlare a lui. «Io non sono uno scienziato, ma comincerei sequenziando il suo genoma in cerca di qualche irregolarità». Chang annuì. «Sì, naturalmente, sarebbe anche facile, ma viste le condizioni del complesso, è improbabile che riusciamo a trovare del DNA…». Sloane ridendo reclinò la testa all’indietro. «Per l’amor del cielo, si sturi il cervello! Ha un appartamento a Giacarta. Sarà pur capace di trovare una spazzola per capelli o un assorbente usato, dottore!». Chang arrossì. «Sì, dovrebbe funzionare». «Ci sono donne che gettano gli assorbenti interni nel water…», intervenne un’analista della Clocktower. Dorian chiuse con forza gli occhi e alzò le mani. «Dimentichiamoci l’assorbente. A Giacarta devono esserci tonnellate di campioni di DNA di Kate Warner. Andate a prenderne uno. Anzi, meglio ancora, cercate lei. Se non è scappata, deve essere su uno dei treni». Dorian si rivolse a Dmitrij Kozlov, il suo comandante in seconda che aveva lasciato la Cina con lui. Il militare fece segno di no. «Ho appena ricevuto la lista. L’abbiamo confrontata con l’elenco del personale. Non è su uno dei convogli. E non c’è neanche Reed. Abbiamo molti feriti e molti morti, alcuni con ferite da trauma, ma nessuno con ferite da armi da fuoco». «Non può essere vero. Perquisite di nuovo i treni…». «Ritarderemo il Protocollo…», obiettò Dmitrij. «Fatelo». «Potrebbe essere saltata giù», si intromise l’analista con il rapporto di Prendergast. Dorian si massaggiò le tempie. «Non è saltata giù». «Come fa a dire…», cominciò l’analista, testardo. «Perché con lei c’era anche Reed». «Avrebbe potuto spingerlo giù». «Avrebbe potuto, ma non lo ha fatto». L’analista era confuso. «Come fa a saperlo?» «Perché quella donna non è stupida quanto evidentemente è lei. È alta un metro e settantadue e pesa cinquantasei chili. Reed è alto quasi un metro e novanta e ne pesa almeno ottanta. La Warner non potrebbe uscire dal Tibet a piedi portandosi sulle spalle ottanta chili di peso morto. E, mi creda, se Reed fosse vivo, non potrebbe camminare». «Potrebbe averlo lasciato». «No, questo no». «Come lo sa?» «Perché la conosco. Vediamo di darci una mossa adesso, andiamo, fuori tutti quanti». Dorian si alzò e agitò le braccia invitando i presenti a uscire dalla sala. «E il rapporto di Barnaby Prendergast?», chiese l’analista. «Cioè?» «Dobbiamo confutare…». «No, no. Confermatelo. I media lo diffonderanno comunque, contiene la parola terrorista. Ed è vero, un terrorista ha attaccato il nostro stabilimento in Cina. Un regalo più bello non potevamo riceverlo. A sostegno di questa tesi consegnate anche il filmato di Reed che piazza le cariche esplosive. Dite alla stampa che l’attacco è seguito a un assalto precedente da parte delle stesse persone a Giacarta. Metteteci anche il video della Warner». Dorian rifletté per un momento. Anche questo poteva tornargli comodo, fargli guadagnare un po’ di tempo e fornirgli una buona copertura. «Diciamo che stiamo attualmente indagando sull’eventualità che la dottoressa Warner abbia impiegato un’arma biologica per colpire il nostro stabilimento e che per questo abbiamo preso rigorose misure di quarantena per tutta l’area coinvolta. Forza adesso, andiamo». Puntò il dito su Dmitrij. «Tu resti». L’aitante militare gli si avvicinò mentre la sala cominciava a svuotarsi. «Qualcuno li ha prelevati dal treno». «Concordo», rispose Sloane tornando indietro verso il tavolo. «E devono essere stati loro». «Impossibile. Non abbiamo mai smesso di cercare in mezzo a quelle montagne dall’11 settembre. Non sono lì. Sono stati tutti uccisi nel 1938. O forse sono addirittura soltanto una leggenda. Forse gli Immaru non sono mai esistiti». «Tu hai un’idea migliore?», chiese Dorian. Dmitrij tacque. «Voglio delle squadre che battano quelle montagne», aggiunse allora Dorian. «Mi spiace, signore, ma non abbiamo abbastanza uomini. Prima l’epurazione della Clocktower, poi la fine delle ostilità principali in Afghanistan, dove le nostre forze erano già ai minimi termini. Tutti sono impegnati nel Toba. Se vuole delle squadre, bisogna prenderle da lì». «No, il Protocollo ha la priorità. Non potremmo usare i satelliti? Non possiamo provare a individuarli dal cielo?». Dmitrij scosse la testa. «Non abbiamo occhi che guardano dal cielo sulla Cina occidentale, non ce li ha nessuno. È una delle ragioni per cui l’Immari Research ha scelto di piazzare lì il suo centro, dove non c’è niente e non c’è motivo di andare a cercare. Niente città, pochissimi villaggi o strade. Possiamo riposizionare i satelliti, ma ci vorrà del tempo». «Fatelo. E lanciate il resto dei droni dall’Afghanistan…». «Quanti…». «Tutti. Che radano al suolo ogni centimetro dell’altopiano, a cominciare dai monasteri. E riassegna due uomini, ce li possiamo permettere. Toba è importante, ma lo è anche catturare la Warner. È sopravvissuta alla Campana. Dobbiamo sapere perché. Due uomini che risalgano il percorso di tutti i treni partiti dal centro, interroghino gli abitanti dei villaggi, scovino qualcuno che abbia visto qualcosa. Facciano pressioni. Voglio che sia ritrovata». 70 Monastero Immaru Regione autonoma del Tibet Quando Kate tornò nella sua stanza, David dormiva ancora. Si sedette ai suoi piedi, sul lettino nella nicchia, a fissare per un po’ fuori della finestra. C’era una quiete in quel posto che non aveva mai trovato in vita sua. Si girò a guardare David. Sembrava sereno come la valle verdeggiante e le montagne imbiancate. Si appoggiò alla parete e allungò le gambe accanto alle sue. Aprì il diario e ne scivolò fuori una lettera. La carta era vecchia, fragile come Qian. La scrittura, in denso inchiostro scuro, era così marcata che ne sentiva il rilievo sul dorso della pagina, come Braille. Cominciò a leggere a voce alta sperando che David la sentisse e che la voce gli fosse di conforto. Agli Immaru, sono diventato un servo della setta di coloro che conoscete come Immari. Mi vergogno delle cose che ho fatto e temo per il mondo, per le cose che so che stanno progettando. In questo momento, nel 1938, sembrano inarrestabili. Prego di sbagliarmi. Nel caso così non fosse, vi invio questo diario. Spero che possiate usarlo per impedire l’apocalisse Immari. Patrick Pierce 15-11-1938 15 aprile 1917 Ospedale Alleati Gibilterra Quando, un mese fa, mi hanno tirato fuori dal tunnel sul Fronte occidentale e mi hanno portato in questo ospedale da campo, ho pensato di essere salvo. Ma questo posto mi si è insinuato dentro e, come un cancro, ha cominciato a mangiarmi dall’interno, dapprima silenziosamente senza che lo sapessi, poi cogliendomi di sorpresa, precipitandomi in un male oscuro da cui non posso fuggire. A quest’ora nell’ospedale regna il silenzio ed è il momento in cui diventa più spaventoso. I preti vengono tutte le mattine e tutte le sere, pregano, raccolgono confessioni e leggono al lume di candela. Ora sono andati tutti via, come quasi tutte le infermiere e i dottori. Io li sento fuori della mia stanza, nella grande corsia piena di letti. Uomini che gridano, soprattutto di dolore, ma qualcuno a causa degli incubi che sta facendo; altri piangono, parlano e giocano a carte alla luce della luna e ridono, come se prima del sorgere del sole cinque o sei di loro non saranno ormai morti. A me hanno dato una stanza privata, mi hanno messo qui. Non l’ho chiesta io. Ma la porta chiude fuori i pianti e le risa e di questo sono contento. Non mi piace sentire né gli uni né le altre. Prendo la bottiglia di laudano, bevo fino a farmelo colare lungo il mento e scivolo nella notte. Lo schiaffo mi riporta in vita e vedo una fila disordinata di denti marci dentro un ghigno cattivo su una faccia sporca e ruvida di barba non rasata. «È sveglio!». L’odore putrido di alcol e malattie mi fa girare la testa e mi rivolta lo stomaco. Altri due uomini mi trascinano giù dal letto e io grido di dolore quando casco per terra. Mi contorco sul pavimento lottando per non svenire mentre loro ridono. Voglio essere sveglio quando mi uccidono. La porta si apre e sento la voce dell’infermiera. «Cosa sta succedendo…». Loro la prendono e sbattono la porta. «Ce la spassiamo solo un po’ con questo ragazzo di Senata, bella signora, ma tu sei molto più carina di lui». L’uomo le passa un braccio intorno alla vita e le scivola dietro. «Meglio cominciare con te, bellezza». Le strappa il vestito e la sottoveste dalla manica sinistra giù fino alla vita. Le escono fuori i seni e lei alza un braccio per coprirsi. Lotta disperatamente con l’altro braccio, ma l’uomo glielo prende e glielo blocca velocemente dietro la schiena. La vista del suo corpo nudo sembra infondere energia negli uomini ubriachi. Io mi rialzo e appena sono in piedi quello più vicino a me mi è addosso. Mi appoggia la lama di un coltello alla gola. Mi guarda dritto negli occhi blaterando parole sconnesse. «Cattivo, il papà di Senata che in guerra l’ha fatto andare, lui e tutti noi, ma adesso non lo può più salvare». Mi guarda con odio e la lama mi morde il collo. L’altro uomo tiene l’infermiera da dietro, allunga il collo per cercare di baciarla e lei si gira dall’altra parte. L’ultimo uomo si spoglia. Stare dritto sulla gamba mi fa sentire un male tremendo che mi sale lungo il corpo, un dolore così terribile da darmi la nausea, le vertigini. Presto perderò i sensi. È insopportabile, nonostante il laudano. In un posto come questo, il laudano vale più dell’oro. Allungo la mano verso il tavolo, cercando di distogliere lo sguardo di quell’uomo. «C’è del laudano sul tavolo, una bottiglia intera». Per un istante si distrae e io prendo il coltello. Glielo faccio passare di traverso sul collo e lo squarcio mentre lo ruoto su se stesso, poi lo spingo via e mi getto con la lama in pugno sull’uomo nudo, gliela affondo per intero nello stomaco. Gli rovino addosso, estraggo il coltello e glielo pianto nel petto. Lui gesticola e vomita sangue. Il dolore che mi ha procurato l’assalto mi travolge. Non mi è rimasto più niente per l’ultimo uomo, quello che ha preso l’infermiera, ma lui strabuzza gli occhi e lascia andare la donna e scappa dalla mia stanza mentre io perdo i sensi. 2 giorni dopo Mi sveglio in un posto diverso, sembra un cottage di campagna, lo dico dall’odore e dal modo in cui il sole brilla nella finestra aperta. È una camera da letto luminosa, arredata con gusto femminile, con suppellettili e oggettini, di quelli che piacciono alle donne e che gli uomini non notano mai se non in momenti come questo. E lei è lì a leggere in un angolo, si dondola lentamente, in attesa. Per un sesto senso sembra che sappia all’istante che sono sveglio. Posa il libro con delicatezza, come se fosse di fine porcellana, e si avvicina al mio letto. «Salve, maggiore». I suoi occhi scendono a guardare la mia gamba sinistra, preoccupati. «Hanno dovuto operarla di nuovo». Ora la vedo anch’io. La mia gamba è fasciata, gonfia, quasi il doppio del normale. Quando mi hanno ricoverato, per due intere settimane hanno minacciato di tagliarmela. «Poi ci ringrazierai. Devi fidarti di noi, vecchio mio. Sembra una cosa orribile ma è per il tuo bene. Non sarai solo a casa, te lo garantisco, ci sono centinaia di giovani che tornano dalla guerra e se ne scorrazzano di qua e di là su gambe di latta, una cosa comune come bere un bicchier d’acqua, credimi». Io cerco di sporgermi per guardare meglio, ma il dolore mi piomba addosso appena mi muovo, mi afferra e mi sbatte giù di nuovo. «Ce l’ha ancora. Ho insistito perché rispettassero i suoi desideri. Ma hanno asportato molto tessuto molle. Hanno detto che era infetto e che non poteva guarire. L’ospedale è un posto pieno di germi e dopo…». Deglutisce a vuoto. «Dicono che resterà a letto per due mesi». «Gli uomini?» «Disertori, credono. Ci sarà un’inchiesta, ma… sarà una formalità, suppongo». Ora vedo la bottiglia bianca sul tavolo, proprio come se fossi in ospedale. Mi soffermo a guardarla per un po’. So che lei mi vede. «Quella, può portarla via». Se mi lascio andare, non mi fermo più. So dove si va a finire per quella strada. Lei è svelta ad afferrarla, quasi che stesse per cadere dal tavolo. Come si chiama? Dio, quest’ultimo mese è stato troppo confuso, un sogno annegato nell’oppio e nell’alcol, un incubo. Barnes? Barrett? Barnett? «Ha fame?». È in piedi con la bottiglia stretta al petto in una mano, il vestito sorretto con l’altra. Sarà per le droghe o sarà perché non mangio da non so più quanto tempo, ma non ho neanche un briciolo d’appetito. «Tantissimo», rispondo. «Arrivo fra un minuto». È già quasi alla porta. «Infermiera… non…». Si ferma, mi guarda, forse un po’ delusa. «Barton. Helena Barton». Venti minuti dopo sento profumo di pane di mais, fagioli e prosciutto cotto di campagna. Non ho mai mangiato niente che avesse un profumo così inebriante. Con mio stupore, quella sera ne faccio fuori tre piatti. Si vede che mi sbagliavo, avevo fame e non lo sapevo. 71 Sala riunioni principale Quartier generale Clocktower Nuova Delhi, India Dorian lesse la lista dei vivi e dei morti a bordo dei due treni. «Voglio spedire più corpi negli Stati Uniti. In Europa mi pare che andiamo bene». Si passò una mano sui capelli. «Credo che anche il quantitativo assegnato al Giappone possa bastare. La densità della popolazione sarà d’aiuto». Avrebbe voluto poter consultare Chang o uno degli scienziati, ma era essenziale limitare al massimo il numero delle persone informate. Anche Dmitrij studiò la lista. «Possiamo sempre modificare le destinazioni, ma da dove li prendiamo?» «Dall’Africa e dalla Cina. Secondo me si muoveranno con più lentezza di quel che pensiamo. La Cina tende a ignorare o mettere sotto silenzio le situazioni di allarme sanitario su larga scala, e l’Africa semplicemente non ha le infrastrutture necessarie a fronteggiare un contagio». «Né a diffonderlo. È una delle ragioni per cui…». «Ma la vera minaccia sono le nazioni sviluppate. Guai a sottovalutare i CDC, i centri per la prevenzione e il controllo delle malattie. Quando scoppia qualcosa, intervengono con tempismo. Quanto all’Africa, possiamo vedercela noi dopo che sarà cominciata». 72 Monastero Immaru Regione autonoma del Tibet Kate sostenne la testa a David per aiutarlo a inghiottire gli antibiotici con un sorso d’acqua dalla tazza di porcellana. Le ultime gocce gli colarono fuori della bocca e lei lo asciugò con un lembo della camicia. Durante tutta la mattina si era svegliato ripetutamente, ma solo per brevi periodi. Kate aprì di nuovo il diario. Guido i miei uomini nella galleria sotterranea facendo luce con la candela. Siamo quasi arrivati, ma io mi fermo alzando le mani e gli uomini che mi seguono mi urtano la schiena. Ho sentito qualcosa? Pianto il mio diapason nel terreno e lo guardo in attesa del verdetto. Se vibra, vuol dire che i tedeschi sono vicini. Abbiamo già abbandonato due cunicoli per tema di incontrarli. Il secondo, glielo abbiamo fatto saltare in aria sotto i piedi nella speranza di fermarli. Il diapason non si muove. Me lo infilo di nuovo nella cintura e proseguiamo addentrandoci in tenebre sempre più fitte, aiutati dal lume della candela che disegna sui muri di pietra e terra ombre dai contorni imprecisi. Poi la pioggia costante di sudiciume cessa. Io guardo su e alzo la candela cercando di capire cosa sta succedendo. Mi giro e grido: «Indietro!», ma il soffitto sta già crollando e ci piomba addosso l’inferno. La luce fioca della candela si spegne e io mi ritrovo per terra sotto le macerie che mi schiacciano la gamba e per poco non perdo i sensi. I tedeschi atterrano in piedi, praticamente su di me, e cominciano a sparare uccidendo subito due dei miei. Ci sono solo i lampi dalle canne dei loro fucili mitragliatori e le grida dei miei uomini colpiti a orientarmi. Estraggo la pistola e sparo ad alzo zero, uccidendo i primi due uomini che devono aver pensato che fossi morto o aver creduto che in quel buio non vedessi niente. Ma ne stanno arrivando degli altri e sparo anche su di loro. Cinque, sei, sette di loro muoiono, ma è un flusso inarrestabile, è un intero reggimento quello che si appresta a infilarsi nel sotterraneo per ricomparire dietro le linee degli alleati. Sarà un massacro. Io ho finito le cartucce. Getto via la pistola scarica e prendo una granata. Strappo l’anello con i denti e la scaglio con tutte le forze nel tunnel sopra di me, ai piedi della nuova ondata di soldati. Passano due interminabili secondi, durante i quali altri uomini saltano giù sparandomi, poi c’è l’esplosione, il loro tunnel crolla con loro e su di loro e, insieme alla prima, si sbriciola anche la seconda galleria. Io sono prigioniero. Non mi posso alzare e non potrò mai uscire da qui, terra e pietre mi stanno soffocando, ma poi all’improvviso delle mani… L’infermiera mi asciuga il sudore dalla fronte reggendomi la testa. «Ci stavano aspettando… hanno intercettato la galleria scavata da noi durante la notte… non avevamo nessuna possibilità…», dico, cercando di spiegare. «È tutto finito. Era solo un brutto sogno». Io mi tocco la gamba come se facendo così potessi fermare le fitte di dolore. L’incubo non è finito. Non finirà mai. Il sudore e il dolore sono andati peggiorando ogni notte, non può non vederlo anche lei. E infatti lo vede. Ha la bottiglia bianca in mano e io dico: «Solo un sorsetto. Devo liberarmene». Bevo un sorso e la bestia si ritrae. E io posso dormire un po’ come si deve. Quando mi sveglio lei è lì, a lavorare a maglia seduta nell’angolo. Sul tavolo accanto a me ci sono tre bicchierini con un liquido marrone scuro, la mia razione quotidiana di soluzione a base di oppio che mi nutre della morfina e della codeina di cui ho disperato bisogno. Ringrazio Dio. Le scalmane sono tornate e con esse anche il dolore. «Sarò a casa prima del tramonto». Annuisco e ingoio il primo bicchierino. Due bicchierini ogni giorno. Lei legge per me tutte le sere, dopo il lavoro e la cena. Io aggiungo di tanto in tanto qualche commento salace e qualche battuta spiritosa. Lei ride e quando sono un po’ troppo volgare mi rimprovera scherzosamente. Il dolore è quasi sopportabile. Un bicchierino al giorno. Libertà. Quasi. Ma il dolore persiste. Ancora non posso camminare. Ho passato la mia vita nelle miniere, in spazi angusti, al buio. Ma non ce la faccio. Forse è la luce, o l’aria fresca, o l’essere sdraiato a letto giorno dopo giorno, notte dopo notte. È trascorso un mese. Ogni giorno, con l’avvicinarsi delle tre, conto i minuti finché lei non entra in casa. Un uomo che aspetta che una donna rincasi. Ci sarebbe da discutere sulla premessa. Ho insistito perché smettesse di lavorare all’ospedale. Germi. Bombe. Misogini. Le ho provate tutte. Non mi ascolta. Non la spunterò. Non ho una gamba su cui reggermi. Semplicemente non posso mettere giù il piede. E come se non bastasse, sto mollando, faccio dello spirito scadente su me stesso, con me stesso. La vedo arrivare dalla finestra. Che ore sono? Due e mezzo. È in anticipo. E… con lei c’è un uomo. Durante tutto il mese in cui sono stato qui non ha mai portato a casa un corteggiatore. Non ci avevo mai pensato prima e, ora che lo faccio, questo pensiero mi prende nella maniera più sbagliata. Mi sforzo di vedere meglio dalla finestra, ma non li vedo più. Sono già in casa. Risistemo febbrilmente il letto e mi tiro su sopportando il dolore per farmi trovare composto e sembrare più forte di quel che sono. Prendo un libro e comincio a leggerlo alla rovescia. Alzo gli occhi e giro il libro dalla parte giusta appena in tempo prima che Helena entri. Il bellimbusto baffuto e con il monocolo in un abito a tre pezzi le è alle calcagna come un cane avido a una battuta di caccia. «Oh, ti sei messo a leggere qualche libro. Che cosa hai scelto?». Me lo fa alzare di quel tanto da poter intravedere il titolo inclinando un po’ la testa. «Mmm, Orgoglio e pregiudizio. Uno dei miei preferiti». Io lo chiudo e lo getto sul tavolo come se mi avesse appena detto che la copertina è impestata. «Sì, be’, bisogna pur tenersi in esercizio. E apprezzare… i classici». L’uomo con il monocolo la guarda con impazienza. Lui è venuto per lei, non vuole perdere tempo con l’invalido nella stanza degli ospiti. «Patrick, ti presento Damien Webster. È venuto dall’America per vederti. Non ha voluto dirmi perché». Inarca le sopracciglia per manifestare il suo disappunto per tanto mistero. «Piacere, signor Pierce. Conoscevo suo padre». Non è qui per corteggiarla. Un momento, conosceva mio padre. Webster si accorge che sono confuso. «Le abbiamo mandato un telegramma all’ospedale. Non l’ha ricevuto?». Mio padre è morto, ma non è venuto qui per questo. Per cosa allora? Helena parla prima che possa farlo io. «Il maggiore Pierce è qui da un mese. All’ospedale ricevono un gran numero di telegrammi tutti i giorni. Perché è qui, signor Webster?». Il tono di Helena è diventato serio. Lui la guarda storto. Probabilmente non è abituato a sentire quel tono da una donna. Probabilmente gli farebbe bene che capitasse più spesso. «Diverse questioni. La prima è il patrimonio di suo padre…». Vedo dalla finestra un uccellino che scende a posarsi sulla fontana. Si agita, affonda il becco, rialza la testa e scrolla via l’acqua. «Com’è morto?», chiedo continuando a guardare l’uccellino. Webster parla in fretta, come se fosse qualcosa di cui deve sbarazzarsi, una seccatura. «Incidente d’auto. Lui e sua madre sono morti all’istante. Macchine pericolose, dico io. Una cosa veloce. Non hanno sofferto, gliel’assicuro. Ora…». Io provo un dolore di un tipo diverso, una sensazione soffocante di solitudine, vuoto, come se dentro di me ci fosse una voragine che non posso riempire. Mia madre morta. Sepolta ormai. Non la vedrò mai più. «Pensa che sia accettabile, signor Pierce?» «Cosa?» «Il conto alla First National Bank di Charleston. Suo padre era un uomo molto parco. Su quel conto ci sono quasi 200.000 dollari». Peggio che parco. Webster è chiaramente deluso e il suo tono si fa insistente. «Il conto è a suo nome. Non c’era testamento, ma siccome lei non ha fratelli, non c’è problema». Aspetta un altro momento. «Possiamo trasferire i soldi in una banca di qui». Rivolge occhiate a Helena. «O in Inghilterra, se preferisce…». «La West Virginia Children’s Home. Un orfanotrofio a Elkins. Faccia in modo che tutta la somma presente su quel conto vada a loro. E che sappiano che viene da mio padre». «Ehm, sì, si può… fare. Posso chiederle perché?». Una risposta sincera sarebbe stata: “Perché non avrebbe voluto darli a me” o, più precisamente, “Perché non gli piaceva il tipo d’uomo che sono diventato”. Ma io non gli rispondo così, forse perché c’è anche Helena o forse perché non penso che questo mozzorecchi meriti una risposta onesta. Borbotto invece qualcosa di simile a: «È quello che avrebbe desiderato». Lui guarda la mia gamba e cerca le parole giuste. «Tutto questo va benissimo, ma le pensioni per i militari sono… alquanto modeste, anche per un maggiore. Pensavo che le sarebbe piaciuto trattenere un po’ di soldi, diciamo 100.000 dollari, no?». Io adesso lo guardo dritto negli occhi. «Perché non mi dice perché è qui? Dubito che sia per i duecentomila di mio padre». L’ho preso in contropiede. «Certamente, signor Pierce. Stavo cercando solo di darle qualche consiglio… nel suo miglior interesse. Ed è proprio per questo che sono qui. Le reco un messaggio di Henry Drury Hatfield, governatore del grande Stato del West Virginia. Sua eccellenza desidera farle… be’, innanzitutto le rivolge le sue più profonde condoglianze per il suo lutto, che è anche una dolorosa perdita per lo Stato e per la nostra grande nazione. Inoltre vuole farle sapere che è pronto ad assegnare a lei il seggio di suo padre al Senato degli Stati Uniti, giacché questa autorità gli è appena stata conferita da una legge statale». Sto cominciando a capire perché i McCoy potessero odiare tanto quelle serpi. Henry Hatfield è il nipote di Devil Hatfield, il leader del famigerato clan Hatfield. Il governatore non può presentarsi per un secondo mandato. Due anni fa si è aperto la strada per il senato nazionale, ma gli Stati hanno ratificato il Diciassettesimo Emendamento che autorizza l’elezione diretta al senato nazionale, tagliando le gambe ai legislatori statali corrotti e ai manipolatori come Hatfield. Mio padre era nella prima schiera di senatori eletti dal popolo. La sua morte e questa storia dei soldi adesso hanno più senso. Ma non la nomina. Webster non lascia che il mistero si prolunghi. Si appoggia alla pediera del letto e adesso mi parla come se fossimo vecchi amici. «Naturalmente la sua figura di eroe di guerra fa di lei una scelta popolare. Ci sarà una speciale votazione. Come sa, ora i senatori vengono eletti dal popolo», precisa annuendo, «come è giusto che sia. Il governatore è pronto a nominare lei al posto di suo padre a condizione che lei lo appoggi nella speciale campagna promozionale per la propria elezione. In cambio è pronto a favorire ulteriormente la sua carriera. Magari come candidato alla Camera dei rappresentanti. “Deputato Patrick Pierce” suona molto bene, direi». Si stacca dalla pediera e mi sorride. «Dunque, posso dare al governatore la buona notizia?». Io lo osservo con astio. Mai in vita mia ho tanto desiderato potermi alzare in piedi, poter andare ad afferrare questo infame per buttarlo fuori dalla porta. «So che le circostanze non sono quelle ideali, ma dobbiamo cogliere tutti l’occasione quando ci si presenta». Webster indica la mia gamba con un cenno del mento. «E con le sue… limitazioni, potrebbe essere un’ottima opportunità per lei. Non è facile che possa trovare un lavoro migliore…». «Fuori». «Ora, signor Pierce, so che…». «Mi ha sentito. E non si faccia rivedere. Ha avuto l’unica risposta che potesse ottenere. Dica a quella canaglia di Hatfield di fare da sé il suo lavoro sporco, o di farlo fare magari a uno dei suoi cugini. Mi dicono che ci sono tagliati». Lui viene verso di me, ma Helena lo prende per un braccio. «Da questa parte, signor Webster». Andato via lui, lei torna da me. «Mi spiace per i tuoi genitori». «Anche a me. Mia madre era una donna molto buona e molto affettuosa». So che vede quanto sono triste adesso, ma non posso più fingere. «Posso portarti qualcosa?». So che non è intenzionale, ma i suoi occhi si posano là dove ci sarebbe la bottiglia, accanto al mio letto. «Sì. Un dottore. Per la gamba». 73 Sala operativa Quartier generale Clocktower Nuova Delhi, India Dorian si trattenne sulla porta a osservare la sala in piena attività. Sembrava quasi mission control nel momento in cui la NASA sta per effettuare un lancio nello spazio. Una fitta schiera di analisti disposti su più file parlava al microfono e manovrava i droni dai rispettivi computer. Sulla lunga parete un mosaico di monitor trasmetteva le telemetrie registrate dai droni: scene di montagne e foreste. A coordinare la ricerca era Dmitrij. Il nerboruto russo aveva l’aria di non aver più chiuso occhio dal giorno delle esplosioni in Cina. Passò tra le file di analisti e raggiunse Dorian sulla soglia della porta d’ingresso. «Ancora niente, finora. L’area delle ricerche è un po’ troppo grande». «Cosa dicono i satelliti?» «Stiamo ancora aspettando». «Perché? Cosa li rallenta?» «Il riposizionamento richiede tempo e l’area da visionare è davvero ampia». Dorian osservò per un momento gli schermi sulla parete. «Cominciate a battere i cespugli». «Battere?» «Bruciateli», disse Dorian girandosi e attirando Dmitrij in corridoio per non farsi sentire dagli analisti. «Vediamo cosa viene fuori. Io dico che la Warner è nascosta in uno di quei monasteri. A che punto siamo con Toba?» «I corpi sono su aerei diretti in Europa, Nord America, Australia e Cina. I vivi sono negli ospedali locali indiani e…». S’interruppe un momento per consultare l’orologio. «E in Bangladesh entro un’ora». «Segnalazioni?» «Finora niente». Quella almeno era una buona notizia. 74 Monastero Immaru Regione autonoma del Tibet Il mattino seguente Milo era al servizio di Kate, come il giorno prima. “Quanto tempo sta seduto lì ad aspettare che mi svegli?”, si chiese lei. Si alzò e trovò allo stesso posto un’altra ciotola per la prima colazione. Si scambiarono i loro convenevoli mattutini, poi Milo la condusse di nuovo da David. Il diario era sul tavolino di fianco al letto, ma lei lo ignorò occupandosi prima di lui. Gli somministrò gli antibiotici e gli ispezionò le ferite alla spalla e alla gamba. Durante la notte l’arrossamento si era diffuso, allargandosi a parte del petto e della coscia. Kate si morse un labbro e rivolse uno sguardo assente alla finestra. «Milo, ho bisogno che mi aiuti per una cosa. È molto importante». «Come le ho detto quando ci siamo visti la prima volta, signora», rispose lui inchinandosi di nuovo, «Milo è ai suoi ordini». «Il sangue ti fa senso, Milo?». Qualche ora più tardi Kate stava finendo di fasciare la spalla di David. In un catino sul tavolo un groviglio di garze sporche galleggiava in una pozza di sangue. Milo era stato ammirevole, non tecnicamente abile come un infermiere del pronto soccorso, ma di grande aiuto soprattutto nel sostenerla moralmente, grazie al suo atteggiamento zen. Quand’ebbe finito di bendarlo, Kate passò una mano sul torace di David e si concesse un lungo sospiro. Ora poteva solo aspettare. Si appoggiò alla parete e per un po’ guardò il suo petto alzarsi e abbassarsi in un movimento quasi impercettibile. Dopo un po’ aprì il diario e cominciò a leggere. 3 giugno 1917 «E adesso?», chiede il dottor Carlisle premendomi la stilografica sulla gamba. «Sì», ringhio io stringendo i denti. Lui cerca un punto più in basso e spinge di nuovo. «E qui?» «Da matti». Si rialza e medita sul risultato della sua ispezione. Prima di guardarmi la gamba ha voluto sentire qualche ragguaglio “storico”. È stata una gradita variante rispetto al comportamento dei chirurghi al fronte che guardano solo la ferita, mai il ferito, e di solito procedono senza aprir bocca. Gli ho detto di avere ventisei anni, di godere genericamente di ottima salute, di non avere “vizi” e di essermi procurato la ferita in una galleria che mi è crollata addosso sul Fronte occidentale. Lui ha annuito e ha eseguito un esame meticoloso, notando che la ferita non era molto diversa da quelle che gli capita di curare su minatori e atleti. Io attendo il verdetto, domandandomi se sia tenuto a dire qualcosa. Il medico di città si gratta la testa e si siede accanto al letto. «Devo ammettere che concordo con quello che le hanno detto i chirurghi militari. Sarebbe stato meglio tagliare subito, direi immediatamente sotto il ginocchio, o comunque è lì che avrei cominciato io». «E ora?», mi azzardo a domandare. «Ora… non sono sicuro. Non ci potrà più camminare o almeno non normalmente. Dipenderà soprattutto da quanto dolore sentirà. Senza dubbio ci sono gravi danni al sistema nervoso. Io le consiglio di cercare di camminare come meglio riesce per almeno un mese o due. Se il dolore è insopportabile, come temo, taglieremo sotto il ginocchio. La parte più sensibile è nei piedi, dove ci sono più nervi. Questo le darà un po’ di sollievo». Come prevenendo la mia disperazione, aggiunge subito: «Qui il nostro nemico principale non è il dolore. Qui dobbiamo vedercela con la vanità. Nessun uomo al mondo vuole perdere mezza gamba, ma non per questo è meno uomo. È meglio essere pratici. Sarà contento di esserlo stato. E immagino che l’ultima considerazione vada al tipo di lavoro che svolgerà. Capitano… no, maggiore, giusto? Non ho mai conosciuto un maggiore così giovane». «Si fa carriera in fretta quando intorno a te muoiono tutti come mosche», gli dico prendendo tempo prima della domanda successiva, quella che mi sono rifiutato di affrontare da quando è crollato il tunnel. Io conosco solo il lavoro di minatore. «Non so bene che cosa farò dopo… dopo che sarò di nuovo in piedi». È la prima espressione che mi viene in mente. «Un lavoro sedentario sarebbe di, ehm, giovamento alle sue condizioni, se lo trova». Fa un cenno affermativo con la testa e si alza. «Bene, se non c’è altro, mi telefoni o mi scriva di qui a un mese». Mi porge un biglietto con il suo indirizzo di Londra. «Grazie, dottore, di cuore». «Non potevo certo non aderire a una richiesta di lord Barton. La nostra amicizia risale ancora ai tempi di Eton e quando mi ha detto che lei era un eroe di guerra e che questa bambina era così insistente, che temeva che se non fossi venuto a darle un’occhiata le si sarebbe spezzato il cuore, sono salito sul primo treno». C’è del trambusto in corridoio, come di qualcuno che ha urtato una mensola facendo cascare qualcosa. Ci giriamo tutti e due da quella parte, ma nessuno dice niente. Lui recupera la sua borsa nera. «Lascerò a Helena qualche istruzione su come bendarle la gamba. Buona fortuna, maggiore». 5 agosto 1917 Sono passati due mesi ed è da un mese ormai che “cammino”. Zoppico saltellando, soprattutto. Nei giorni buoni, con l’uso di un bastone, zoppico e basta. Una settimana fa è venuto Carlisle ad assistere al mio numero da claudicante. Di fianco a Helena ha applaudito come un padrone orgoglioso a un concorso canino. Questa è una cattiveria. Del tutto gratuita nei confronti di uno che con me non è stato mai altro che gentile. Le pillole. Leniscono il dolore e tutto il resto, compresi i miei pensieri. Mi rendono immune alle emozioni quando ne sento l’effetto e mi fanno stare male da morire quando l’effetto si esaurisce. Combattere una guerra nella mente è uno strano tipo di tortura. Credo di preferire di gran lunga sparare agli uomini del Kaiser; almeno sapevo dov’ero e quando non ero in trincea potevo concedermi qualche momento di riposo. Le settimane di camminate a suon di pillole mi hanno fatto nascere un altro timore, quello di non potermi liberare mai più dalla bestia che mi si è aggrappata alla schiena, e mi incita a drogarmi per non sentire più il dolore. Ho bisogno delle pillole, non ce la faccio senza e non voglio. Ho barattato il demone del laudano con due stampelle, una al mio fianco e una in tasca. Carlisle dice che camminerò meglio quando avrò “imparato la gamba” e avrò trovato qual è la dose minima di antidolorifici di cui ho bisogno. Facile a dirsi. Ma non sono le pillole quelle a cui mi sono attaccato di più nei mesi passati da quando ho lasciato l’ospedale. Helena è una persona straordinaria. L’idea di andarmene, di dirle addio, mi terrorizza. So che cosa voglio fare: prenderla per mano, imbarcarmi e salpare da Gibilterra, andar via dalla guerra, via dal passato, e ricominciare dal nulla in un posto sicuro, dove i nostri figli possano crescere senza una pena al mondo. Sono quasi le tre ed è tutto il giorno che non prendo pillole. Quando le parlo voglio essere lucido. Non voglio sbagliare niente, dolore o non dolore, alla gamba o nel cuore. Avrò bisogno di tutta la mia sagacia. Forse è per via della sua educazione britannica, con il suo stoicismo e le sue freddure, o forse è per via dei due anni che ha passato all’ospedale militare, dove le emozioni sono contagiose e pericolose non meno delle infezioni contro cui combattono, ma quella donna è quasi indecifrabile. Ride, sorride, è piena di vita, ma non perde mai il controllo, non si lascia scappare una parola di troppo, non tradisce mai quel che pensa. Darei la mia altra gamba per sapere che cosa prova veramente per me. Ho valutato le alternative che ho e ho preso i provvedimenti che posso. Il giorno dopo la visita di quel demonio di Damien Webster, ho scritto tre lettere. La prima era diretta alla First National Bank di Charleston per informarli di girare i soldi sul conto corrente di mio padre alla West Virginia Children’s Home di Elkins. Ho inviato la seconda all’orfanotrofio per informarli di aspettarsi un contributo e che nel caso in cui l’accredito non dovesse avvenire direttamente, devono contattare il signor Damien Webster, in quanto è l’ultima persona a me nota ad aver avuto accesso a quel conto. Spero ardentemente che ricevano quei fondi. L’ultima lettera l’ho scritta alla City Bank di Charleston, dove ho depositato i miei risparmi. Una settimana e mezzo dopo ho ricevuto la loro risposta con cui mi informano che sul mio conto ci sono 5752,34 dollari e che ci sarà qualcosa da pagare per il trasferimento di questa somma via assegno circolare a Gibilterra. Avevo senz’altro previsto di essere taglieggiato appena avessi messo il piede fuori della porta, come fanno spesso le banche, e ho risposto immediatamente ringraziandoli e sollecitandoli a inviarmi il prima possibile il mio assegno circolare. Ieri è arrivato un corriere a consegnarmelo. Ho ricevuto anche il rendiconto del mio meschino salario da soldato, che l’esercito trattiene quasi del tutto quando un militare non sta combattendo. Sono stato congedato con onore la settimana scorsa, dunque quelli sono gli ultimi soldi che mi daranno. Nell’insieme ho 6382,79 dollari, di gran lunga meno di quanto mi serve per sistemarmi e mantenere una moglie. Dovrò trovarmi un lavoro sedentario, con ogni probabilità in qualche banca o istituto di credito, possibilmente in un settore di cui sappia qualcosa, come estrazioni minerarie o magari munizioni. Ma quelli sono lavori che riesce a ottenere solo un certo genere di individui, con le conoscenze giuste e l’educazione adeguata. Se avessi un capitale mio, potrei tentare la sorte e con un po’ di fortuna trovare un filone giusto di carbone, oro, diamanti, rame o argento, e i soldi non sarebbero un problema. L’obiettivo che mi sono preposto è di 25.000 dollari. Non ho un gran margine d’errore. Sento Helena aprire la porta e le vado incontro nella piccola anticamera. La sua divisa da infermiera è coperta di sangue e fa uno strano contrasto con il dolce sorriso che le distende le labbra appena mi vede. Darei qualsiasi cosa per sapere se quel sorriso sia di pietà o di felicità. «Sei in piedi. Non badare a quello che ho addosso, sto andando a cambiarmi», dice scappando via. «Mettiti qualcosa di carino», le grido. «Ti porto a fare una passeggiata e poi a cena». Lei fa capolino dalla porta della sua stanza. «Davvero?». Il sorriso è più marcato e c’è un che di stupore nella piega della sua bocca. «Devo prepararti l’uniforme?» «No, grazie, con l’uniforme ho chiuso. Stasera ci occupiamo del futuro». 75 Sala operativa Quartier generale Clocktower Nuova Delhi, India Dorian non riusciva a stare fermo, passeggiava ansioso di conoscere le telemetrie dei droni. I monitor si animarono uno dopo l’altro mostrando un monastero incastonato tra le pieghe di una montagna. Il tecnico si girò verso di lui. «Dovremmo fare alcuni passaggi per trovare il bersaglio ottimale…». «No, non perdiamo tempo. Colpite a destra della base, non è necessario essere precisi. Vogliamo più che altro che scoppi un incendio. Fate seguire il primo drone da un secondo che filmi com’è andata», disse Dorian. Un minuto dopo guardò i razzi partire dal drone e sfrecciare verso il fianco della montagna. Attese nella speranza di vedere Kate Warner uscire di corsa dal monastero in fiamme. 76 Monastero Immaru Regione autonoma del Tibet Kate posò il diario e cercò di capire che cosa stava succedendo in lontananza. Le sembravano esplosioni. Una frana? Un terremoto? Dietro la più lontana delle catene montuose si alzò del fumo nel cielo, dapprima bianco, poi nero. Possibile che gli Immari li stessero cercando? Se così era, cosa avrebbe potuto fare? Somministrò a David la sua dose pomeridiana di antibiotici e riprese a leggergli il diario a voce alta. 5 agosto 1917 Passeggio con Helena sull’acciottolato della banchina, nella gradevole brezza tiepida che viene dal mare, ascoltando le sirene delle navi che entrano nella baia e ormeggiano nel porto, piccolo come una manciata di stuzzicadenti, dominato com’è dalla possente, spigolosa Rocca di Gibilterra. Mi infilo le mani in tasca e lei mi prende a braccetto, mi viene più vicina e sincronizza il suo passo con il mio. Io lo interpreto come un buon segno. Pian piano sulla via si accendono le luci e i negozianti si destano dalla loro siesta alla spagnola e tornano in bottega a prepararsi per la clientela del tardo pomeriggio. A ogni passo è come se qualcuno mi rigirasse un coltello dentro la gamba, o comunque questa è la sensazione che provo camminando. Sento il sudore che mi affiora sulla fronte provocato dal dolore, ma non oso alzare il braccio per asciugarlo per paura che lei si stacchi da me. Helena si ferma. Se n’è accorta. «Patrick, ti fa male?» «No, certo che no». Mi asciugo la fronte sulla manica. «È solo che non sono abituato al caldo. Stando sempre in casa con i ventilatori, mi sono assuefatto alla condizione di degente. E come se non bastasse, sono cresciuto in West Virginia». Lei indica la Rocca. «Nelle grotte fa più fresco. E ci sono anche le scimmie. Le hai viste?». Le chiedo se sta scherzando e lei giura di no. Le dico che abbiamo ancora un po’ di tempo prima di cena e mi lascio guidare da lei, soprattutto perché mi prende di nuovo a braccetto e a quel punto andrei con lei in qualunque posto al mondo. Il sergente inglese ci offre una visita privata dei recinti in cui tengono le scimmie, nelle profondità della grotta di san Michele. Quando parliamo si sente l’eco delle nostre voci. Li chiamano macachi Barnaby e sono veramente simili ai macachi, solo che non hanno la coda. A quanto pare, i macachi Barnaby di Gibilterra sono gli unici primati non in cattività di tutta l’Europa. Oddio, tolti gli umani, se vogliamo credere alla teoria dell’evoluzione, e io non sono sicuro di volerlo fare. Mentre torniamo sui nostri passi per andare a cena, le chiedo come mai sapeva delle scimmie. «Curano quelle che si ammalano al British Naval Hospital», mi risponde. «Ma va’». «È vero». «E non è pericoloso? Curare le scimmie vicino a dove si curano gli umani?» «Immagino di sì. Non ho idea di quali malattie possano saltare dalle scimmie sugli esseri umani». «Perché darsi tanta pena?» «Secondo la leggenda, gli inglesi continueranno a governare Gibilterra finché ci saranno i macachi». «Certo che siete gente molto superstiziosa». «O forse ci piace più semplicemente prenderci cura di tutto ciò che ci sta a cuore». Per un po’ camminiamo in silenzio. Mi chiedo se per lei io sono come un animale domestico, o un minore sotto la sua tutela, o qualcuno con cui è in debito per averla salvata all’ospedale. Il dolore sta avendo la meglio e lei, senza una parola e sempre tenendomi per il braccio, si gira a guardare la Rocca mentre il sole scende sulla baia. «C’è un’altra leggenda sulla Rocca. I greci dicono che è una delle Colonne d’Ercole e che le grotte e le gallerie che ci sono sotto scendono negli abissi della Terra e arrivano ai cancelli dell’Ade». «La porta dell’Oltretomba». Lei inarca le sopracciglia in un’espressione scherzosa. «Tu pensi che sia laggiù?» «No, ho qualche dubbio. Sono più che certo che l’inferno è a mille miglia da qui, in una trincea sul Fronte occidentale». Lei ridiventa seria e abbassa gli occhi. Stava scherzando e io cercavo di fare lo spiritoso, ma ho ricordato a entrambi la guerra. Ho guastato l’atmosfera e vorrei poter tornare indietro e cambiare quel momento. Lei si rasserena un po’ e mi tira il braccio. «Io comunque sono felice che ormai sei lontano da quel posto… e che non ci torni». Apro la bocca, ma lei prosegue, probabilmente con l’intenzione di impedirmi di dire qualcos’altro di demoralizzante. «Hai fame?». Arriva il vino e io ne bevo in fretta due bicchieri come una medicina. Lei ne sorseggia mezzo bicchiere, probabilmente per cortesia. Vorrei che bevesse di più, vorrei che quella facciata si aprisse, anche se solo per un momento, per permettermi di vedere che sta pensando, cosa prova. Ma arrivano le ordinazioni e ne assaporiamo tutti e due il profumo e diciamo quanto sono appetitosi i piatti. «Helena, avevo intenzione di parlarti di una certa cosa». Mi esce dalla bocca troppo serio. Avevo sperato di essere più lieve, di disarmarla. Lei posa la forchetta e mastica il bocconcino che ha staccato quasi senza muovere le mascelle. Io vado avanti. «Sei stata molto generosa a ospitarmi. Non so se ti ho mai detto grazie, ma l’ho apprezzato». «Non mi è stato di alcun disturbo». «Sì che è stato un disturbo, e parecchio». «Non per me». «Ciononostante credo che ora che ho… finito la mia convalescenza, dovrò trovarmi un posto dove stare». «Forse sarebbe più prudente rimandare. La tua gamba potrebbe non essere ancora guarita del tutto. Il dottor Carlisle ha detto che quando camminerai di più c’è la possibilità che la ferita si riapra». Giocherella con il cibo che ha nel piatto. «La gamba non mi preoccupa. La gente inizierà a parlare. Un uomo e una donna che non sono sposati e vivono sotto lo stesso tetto». «La gente ha sempre qualcosa di cui parlare». «Non voglio che parlino di te. Troverò un posto e anche un lavoro. È ora che metta in ordine la mia vita». «Mi sembra… ragionevole… aspettare di sapere dove lavorerai prima di trovare casa». «Questo è vero». Si rianima un po’. «A proposito, ci sono degli uomini che vogliono incontrarti per un lavoro. Amici di mio padre». Con mia meraviglia, non riesco a nascondere la stizza nella voce. «Gli hai chiesto di cercarmi un lavoro». «No, te lo giuro. Sapevo che cosa avresti pensato se lo avessi fatto, anche se avrei voluto. È stato lui a parlarmene quando mi ha telefonato una settimana fa, e ci sono queste persone che desiderano conoscerti. Io ho rimandato perché non sapevo quali fossero i tuoi piani». «A incontrarli non c’è niente di male», borbotto io. È stato il peggiore sbaglio della mia vita. Mentre apriva la porta del loro appartamentino, David la sentì leggere, o sentì qualcuno che leggeva. Allison andò a premere il bottone della pausa sullo stereo. «Sei a casa presto», commentò con un sorriso e cominciò a lavarsi le mani nel lavello in cucina. «Non riuscivo a studiare». David indicò lo stereo. «Un altro audiolibro?» «Sì, mi annoio di meno quando cucino». Chiuse il rubinetto. «Io avrei in mente qualcosa di meno noioso che cucinare». L’attirò a sé e la baciò sulla bocca. Lei tenne posate sul seno le mani bagnate e si divincolò dal suo abbraccio. «Non posso, ehi, dài, domani il mio ufficio trasloca, devo essere là molto presto». «Oh, la nostra grande esperta in investimenti ottiene già un ufficio con una finestra panoramica?» «Figurati. Sono al centoquattresimo piano. Ci vorranno probabilmente vent’anni prima che ottenga una finestra panoramica lassù. Probabile che per adesso sia uno sgabuzzino di fianco ai servizi». «Motivo per il quale è giusto che tu viva un po’». La sollevò da terra e la buttò sul letto. La baciò di nuovo accarezzandola. Ora lei aveva il respiro più corto. «A che ora hai lezione? Cos’è domani? Martedì 11?». Lui si tolse il pullover. «Non lo so, non m’importa». 77 Comunicato stampa Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie 1600 Clifton Rd. Atlanta, GA 30333, USA Per trasmissione immediata Contatto: Divisione della News & Electronic Media, Ufficio delle Comunicazioni (404)639-3286 Segnalato nuovo ceppo influenza in villaggi dell’India settentrionale Il ministero indiano della Salute e welfare della famiglia ha riportato la presenza di un nuovo ceppo di influenza chiamato NII.4 Burang. Ancora non si sa se si tratti di una mutazione di un ceppo preesistente o di un virus completamente nuovo. I CDC hanno inviato una squadra in ausilio alle autorità sanitarie indiane nell’analisi del nuovo ceppo. La prima segnalazione ha avuto origine nei villaggi nei pressi di Dharchula, India. Attualmente non si conoscono nemmeno la gravità e il tasso di mortalità del nuovo ceppo. Un nuovo comunicato verrà diffuso appena i CDC avranno altri particolari sull’NII.4 Burang. 78 Monastero Immaru Regione autonoma del Tibet La mattina dopo non c’era Milo ad aspettarla, ma sul tavolo c’era come sempre la ciotola di porridge per colazione. Era un po’ freddo ma sempre buonissimo. Kate uscì dalla stanza con il pavimento di legno. «Dottoressa Kate!», esclamò Milo andandole incontro in corridoio a passi veloci. Si fermò davanti a lei, si posò le mani sulle guance e ansimò finché non ebbe ripreso fiato. «Le chiedo scusa, dottoressa. Ero… al lavoro sul mio progetto speciale». «Progetto speciale? Milo, non sei tenuto a vedermi tutte le mattine». «Lo so. Ma lo voglio», disse il ragazzo con il respiro ancora corto. Scesero insieme sotto le tettoie dei passaggi all’aria aperta verso la stanza di David. «A che cosa stai lavorando, Milo?». Lui scosse la testa. «Non lo posso dire, dottoressa Kate». Lei si domandò se fosse un altro dei suoi scherzi. Quando furono davanti alla porta di David, Milo si congedò con un inchino e scappò via nella direzione da cui erano arrivati. Le condizioni di David erano praticamente stabili, anche se Kate ebbe l’impressione che gli fosse tornato un po’ di colorito. Gli somministrò i suoi antibiotici e l’antidolorifico di ogni mattina e aprì nuovamente il diario. 7 agosto 1917 Mi alzo per accogliere i due uomini che Helena sta introducendo nella piccola serra. Oggi non si può leggere sulla mia faccia la minima traccia di dolore. Ho preso tre pillole bianche, di quelle grandi, per prepararmi al meglio, essere sicuro di apparire all’altezza di qualsiasi incarico. Manca poco a mezzogiorno e il sole è alto nel cielo e inonda di luce i mobili bianchi di vimini e le piante. L’uomo più alto sorpassa Helena e parla senza aspettare di essere presentato. «Allora, finalmente si è deciso a riceverci». Tedesco, un militare. I suoi occhi sono freddi, penetranti. Prima che io possa aprire bocca, da dietro le sue spalle si sporge quell’altro e mi tende la mano. «Mallory Craig, signor Pierce. Piacere». Un irlandese, di quelli un po’ timidi. Il tedesco si sbottona la giacca e si siede senza essere invitato. «E io sono Konrad Kane». Craig gira a passetti veloci intorno al divano e si piazza accanto a Kane, che gli lancia un’occhiata arricciando il naso e si sposta più in là. «Lei è tedesco», dico io neanche lo stessi accusando di omicidio, come mi pare sia più che giusto. Probabilmente avrei potuto mascherare il tono della voce, non fosse stato per le medicine, ma sono contento che sia venuto fuori così. «Mmm. Nato a Bonn, ma devo dire che a questo punto ho perso interesse per la politica». Kane risponde con disinvoltura, come se gli avessi chiesto se ha tenuto duro fino alla fine, come se i suoi non avessero assassinato con il gas i soldati alleati a milioni. Inclina la testa. «Perché darsi tanta pena quando il mondo è pieno di cose molto più affascinanti?». Craig annuisce. «Giustissimo». Helena posa fra me e loro un vassoio con caffè e tè e Kane parla prima che possa farlo io, come se questa fosse casa sua e fosse lui a intrattenere me. «Ah, grazie lady Barton». Io la invito a sedersi. «Resta», le dico, credo solo per mostrare a Kane chi dirige l’orchestra. Lui sembra seccato e io mi sento un po’ meglio. Beve un sorso di caffè. «Ho sentito che ha bisogno di un impiego». «Sto cercando un impiego». «Noi abbiamo un tipo di lavoro speciale da fare. Ci serve un certo genere di uomo. Qualcuno che sappia come tenere la bocca chiusa e far funzionare il cervello». A quel punto penso: lavoro di intelligence. Per i tedeschi. Spero che sia così. Ho ancora la mia pistola d’ordinanza dell’esercito degli Stati Uniti nel cassetto del comodino. Mi vedo mentalmente andare a prenderla e tornare nella serra. «Che genere di lavoro?», domanda Helena rompendo il silenzio. «Archeologia. Uno scavo». Kane continua a fissarmi, vuole intercettare la mia reazione. Craig guarda quasi esclusivamente Kane. Dopo il suo “Giustissimo” non ha più emesso un solo pigolio, e dubito che lo farà. «Io sto cercando un impiego qui», dico. «Allora non resterà deluso. Il posto è sotto la baia di Gibilterra. A una notevole profondità. È da molto tempo che stiamo scavando, quarantacinque anni per la precisione». Kane attende una mia reazione e io non lo accontento. Beve lentamente un sorso di caffè senza mai staccare gli occhi dai miei. «Abbiamo appena cominciato a trovare… a fare progressi veri, ma la guerra si è rivelata un grosso ostacolo. Continuiamo a pensare che presto finirà, ma fino ad allora siamo costretti a prendere contromisure adeguate. Quindi eccomi qui a offrirle questo lavoro». Finalmente distoglie lo sguardo da me. «È pericoloso?», vuole sapere Helena. «No. Non più pericoloso, diciamo, del Fronte occidentale». Kane aspetta che lei aggrotti la fronte, poi si sporge per batterle delicatamente una mano sulla gamba. «Ma no, dicevo così per ridere, mia cara ragazza». Sorride a me. «Non metteremmo mai in pericolo il nostro piccolo eroe di guerra». «Che ne è stato della vostra ultima squadra?», chiedo. «Avevamo una squadra di minatori tedeschi, uomini estremamente capaci, ma come è ovvio la guerra e il controllo degli inglesi su Gibilterra hanno complicato non poco la nostra situazione». Gli pongo la domanda che avrei dovuto fargli fin dal principio. «Quanti uomini sono scomparsi?» «Scomparsi?» «Morti». Kane scuote le spalle quasi sbuffando. «Nessuno». L’espressione di Craig mi dice che è una bugia e mi chiedo se Helena lo sappia. «Per che cosa scavate?». Mentirà, ma sono curioso di sapere in che modo. «Manufatti. Di valore storico». Kane pronuncia le parole come se sputasse tabacco masticato. «Ne sono sicuro». La mia ipotesi è che si tratti di una caccia al tesoro, probabilmente una nave pirata o un mercantile affondato nella baia. Dev’essere qualcosa di molto lucroso per dedicarci quarantacinque anni di scavi, specialmente sott’acqua. Un incarico rischioso. «Il compenso?», domando. «Cinquanta Papiermark alla settimana». Cinquanta di qualsiasi moneta sarebbe stato una presa in giro, ma i Papiermark sono uno schiaffo in faccia. Tanto valeva che mi pagassero in giuggiole. Dato come sta andando la guerra per la Germania, tra un anno o due i Papiermark non serviranno nemmeno per accendere il fuoco nel caminetto. Le famiglie tedesche li porteranno dal fornaio a carriolate per comprare un pezzo di pane. «Accetterò di essere pagato in dollari americani». «I dollari, ce li abbiamo», butta lì Kane. «E un bel po’ di più. Voglio 5000 dollari d’anticipo, solo per venire a vedere le vostre gallerie». Lancio un’occhiata a Helena. «Se sono scavate male, o se le strutture di sostegno sono sgangherate, me ne vado con i miei cinquemila». «Sono fatte alla perfezione, signor Pierce. Sono gallerie scavate dai tedeschi». «E voglio 1000 dollari alla settimana». «Assurdo. Sta chiedendo il riscatto di un re, per un lavoro da contadino». «Sciocchezze. Ho sentito che re, Kaiser e zar non valgono più come un tempo. Ma una catena di comando chiara è indispensabile. Serve a mantenere in vita un uomo, specialmente in posti pericolosi come le miniere sottomarine. Se accetto l’incarico, quando sono in miniera comando io, senza eccezioni. Non consegnerò la mia vita nelle mani di un cretino. Queste sono le mie condizioni. Prendere o lasciare». Questa volta Kane sbuffa davvero e posa la tazzina. «Naturalmente potete sempre aspettare che finisca la guerra», aggiungo io, serafico. «Concordo che non andrà per le lunghe. Allora potrete far scendere in miniera una squadra di tedeschi, posto che ne sia sopravvissuto qualcuno, ma… io non ci scommetterei». «E io non accetto le sue condizioni». Kane si alza, rivolge a Helena un saluto con un movimento della testa ed esce, lasciando Craig nella confusione più totale. L’omino si alza a sua volta, esita per un momento girando concitatamente la testa da me al suo padrone in fuga, poi insegue Kane. Quando la porta si chiude, Helena si passa una mano fra i capelli e sospira. «Dio, per un momento ho avuto il terrore che accettassi quel lavoro». Contempla per qualche istante il soffitto. «Mi avevano detto che ti cercavano per un progetto di ricerca. Io gli ho risposto che sei in gamba e che saresti stato sicuramente adatto. Se avessi saputo che cosa volevano, non avrei mai lasciato entrare quei due farabutti». Il giorno dopo, mentre Helena è al lavoro, si presenta Mallory Craig. Lo trovo davanti alla porta con il cappello stretto al petto. «Le mie scuse per le spiacevolezze di ieri, signor Pierce. Il signor Kane è in condizioni di notevole stress, dato che… Be’, sono venuto, ehm, per dirle che siamo veramente dispiaciuti e per darle questo». Mi porge un assegno. Cinquemila dollari statunitensi dal conto dell’Immari Gibilterra. «Saremmo onorati di farle dirigere lo scavo, signor Pierce. Alle sue condizioni, si capisce». Gli dico che la conversazione di ieri mi ha contrariato e che mi sarei fatto vivo, in un modo o nell’altro. Passo il resto della giornata seduto a pensare, due cose in cui non ero mai stato bravo prima di partire per la guerra, due cose in cui dopo mi sono esercitato parecchio. Mi immagino mentre scendo in quel pozzo di miniera con la luce del giorno che viene sostituita da quella delle candele, e l’aria che diventa fredda e umida. Allo sparire della luce ho visto uomini, tornati da un crollo o qualche altro infortunio, uomini forti, spaccarsi come il guscio di un uovo sul bordo di una padella all’ora della prima colazione. E io? Cerco di immaginarlo, ma non posso sapere finché non sarò sceso in quella galleria. Ragiono su cos’altro potrei fare per guadagnarmi da vivere, esamino le mie alternative. Posso trovare da lavorare in qualche miniera, almeno finché non finisce la guerra. Poi ci saranno troppi minatori a spasso, alcuni appena formatisi durante la guerra, molti di più ex minatori che tornano al lavoro di sempre. Ma per trovare miniere che abbiano bisogno di un uomo come me devo lasciare Gibilterra, inutile girarci intorno. L’altra questione, sulla quale non mi soffermo a lungo, è che dovrei imbarcarmi per andare in America o in Sudafrica solo per scendere a farmi il culo in una miniera. Guardo l’assegno. Cinquemila dollari mi aprirebbero molte strade, e andare a visitare il loro scavo potrebbe essere… rivelatore… a livello personale. Decido di “dare giusto un’occhiata”. Posso sempre andarmene o, a seconda di quanto sono bravo a controllare le viscere, darmela a gambe. Dico a me stesso che probabilmente rifiuterò il lavoro e che non c’è ragione di dirlo a Helena. Non c’è ragione di farla preoccupare. È già abbastanza stressante fare l’infermiera in un ospedale di guerra. Dorian si massaggiò le tempie. «Stiamo ricevendo immagini satellitari», annunciò il tecnico. «E?», ribatté Dorian. Il tecnico studiò più da vicino il suo monitor. «Diversi bersagli». «Spedite i droni». I monasteri erano come aghi in un gigantesco pagliaio tibetano, ma finalmente li avevano individuati. Ormai mancava poco. 79 Kate esaminò la ferita e cambiò la medicazione a David. Stava guarendo. Presto ne sarebbe uscito. Così sperava. Tornò al diario. 9 agosto 1917 Ieri, quando è venuto, Craig mi ha detto che l’Immari Gibilterra è «solo una piccola appendice locale». Poi si è affrettato ad aggiungere: «Anche se siamo parte di un’organizzazione più grande con altri interessi qui sul continente e oltremare». Una piccola appendice locale non è proprietaria di metà della banchina del porto e non lo fa tramite cinque o sei società di comodo. Il giro turistico del sito dello scavo è la prima indicazione che l’Immari non è ciò che sembra. Arrivo all’indirizzo che c’è sul biglietto di Mallory e trovo un malandato edificio di tre piani nel cuore del quartiere degli spedizionieri. Le insegne sulle case finiscono tutte con qualche variazione di “Import/Export” o “Spedizioni e trasporti via mare” o “Costruzione e riequipaggiamento navi”. I nomi così lunghi e l’aspetto vivace di questi edifici contrastano vistosamente con la struttura di cemento male illuminata e apparentemente abbandonata con la scritta “Immari Gibilterra” fatta col pennello, in uno stampatello nero appena sopra la porta. Quando entro, salta su una flessuosa signorina all’ingresso che dice: «Buongiorno, signor Pierce. Il signor Craig la sta aspettando». O mi ha riconosciuto per la zoppia, o non ricevono molte visite. L’attraversamento degli uffici mi ricorda un quartier generale di battaglione allestito in fretta e furia in una città appena caduta dopo un assedio, un posto che verrà abbandonato alla svelta nel momento in cui verrà conquistato un nuovo territorio o nell’eventualità di una ritirata improvvisa. Un posto che non garantisce un soggiorno prolungato. Craig è cortese nel comunicarmi quanto è felice che io abbia deciso di venire. Come sospettavo, Kane non si fa vedere, ma c’è un altro uomo, più giovane, meno di trent’anni, più o meno mio coetaneo e parecchio somigliante a Kane, specialmente per quel mezzo sorriso spocchioso. Craig conferma i miei sospetti. «Patrick Pierce, questo è Rutger Kane. Ha già conosciuto suo padre. Gli ho chiesto di accompagnarci, visto che lavorerete insieme». Ci diamo la mano. La stringe e schiaccia la mia, quasi serrando i denti. I mesi a letto mi hanno indebolito e ritraggo la mano. Kane jr sembra soddisfatto. «Lieto che sia finalmente venuto, Pierce. Ho fatto pressioni su papà per mesi perché mi trovasse un nuovo minatore, questa dannata guerra ha fermato tutto per troppo tempo». Si siede e accavalla le gambe. «Gertrude!». Gira la testa a guardare oltre la spalla la segretaria che si affaccia alla porta. «Porta del caffè. Lei beve caffè, Pierce?». Io lo ignoro e mi rivolgo direttamente senza mezzi termini a Craig. «Le mie condizioni erano chiare. Dirigo io la miniera. Se accetto il posto». Craig alza entrambe le mani impedendo a Rutger di intervenire e parla veloce, sperando di sedare entrambi. «Non è cambiato niente, signor Pierce. Rutger lavora al progetto da più di dieci anni, è praticamente cresciuto in queste miniere! Voi tutti avete probabilmente qualcosa in comune, immagino, ehm, da quel che ho sentito. No, lavorerete tutti insieme. Rutger le offrirà consigli preziosi e grazie all’esperienza di Rutger e alla sua bravura raggiungeremo l’obiettivo in poco tempo, o comunque faremo grandi progressi». Ferma la segretaria che sta entrando in punta di piedi con un vassoio. «Ah, Gertrude, metta il caffè in un thermos, vuole? Lo portiamo con noi. Ehm, e anche del tè per il signor Pierce». L’ingresso alle miniere è a un chilometro e mezzo dagli uffici dell’Immari, dentro un magazzino lungo la banchina del porto, vicino alla Rocca. I magazzini sono due, per la precisione, uniti all’interno, ma con due facciate diverse perché dall’esterno sembrino separati. Un capannone così grande spiccherebbe fra tutti gli altri e attirerebbe curiosità indesiderata. Due facciate di dimensioni normali invece passano inosservate. Dentro l’enorme magazzino ci stanno aspettando quattro uomini dalla pelle scura. Immagino che siano marocchini. Quando ci vedono cominciano a togliere in silenzio un telone da una struttura che c’è al centro. Quando emerge, mi rendo conto che non è affatto una struttura, bensì l’imboccatura del pozzo della miniera. Un’apertura enorme, di larghezza inusitata. Io mi ero aspettato un pozzo verticale, ma questa è la minore delle sorprese che mi attendono. C’è un camion, di quelli elettrici. E due grosse rotaie che entrano nella miniera. È ovvio che estraggono terra in grandi quantitativi. Craig mi mostra un vagone vuoto e poi addita il porto e il mare che si vede dalla porta del magazzino. «Scaviamo di giorno e scarichiamo di notte, signor Pierce». «Scaricate la terra…». «Nella baia, se ci è possibile. Se c’è la luna piena, ci spostiamo più al largo», interviene Craig. Logico. Non c’è altro modo di eliminare tutta quella terra. Mi avvicino e ispeziono l’ingresso della miniera. È sostenuto da grossi pali di legno come le nostre miniere in West Virginia, ma vedo un grosso cavo nero che va da palo a palo, perdendosi là dove il mio sguardo non arriva. Anzi, ce ne sono due, uno per parte. Quello di sinistra arriva fino a… un telefono. Quello a destra finisce semplicemente in una scatola fissata al palo più esterno. Ha una leva di metallo, sembra un interruttore. Corrente elettrica? Sicuramente no. Quando i marocchini hanno tolto anche l’ultimo lembo di telone, Rutger va da loro e li riprende con durezza in tedesco. Io qualcosa capisco, una parola in particolare: Feuer. Fuoco. Mi si accappona la pelle. Lui indica il camion, poi le rotaie. Gli uomini sono confusi. Tutto questo è senz’altro a mio uso e consumo, così mi giro dall’altra parte perché mi rifiuto di assistere allo spettacolo e alla loro umiliazione. Sento Rutger che traffica per prendere qualcosa e un rintocco metallico sulle rotaie. Quando mi volto, lo vedo accendere uno stoppino dentro un cilindro di carta posato su un vagoncino minuscolo, grande quanto un piatto da portata. Rutger colloca il vagoncino su una singola rotaia e alcuni dei marocchini lo aiutano a tendere gli elastici di una specie di fionda che spedisce la fiamma nel buio della miniera. La carta la protegge, impedendo che lo spostamento d’aria improvviso la spenga. Passa un minuto e sentiamo in lontananza lo sbuffo di un’esplosione. Grisou. Probabilmente una sacca di metano. Rutger fa segno ai marocchini di mandar giù un’altra sonda, e loro corrono a mettere sulla rotaia un altro vagoncino con un sacchetto di carta e una candela accesa. Sono impressionato. Devo ammettere a malincuore che in West Virginia i nostri sistemi non sono nemmeno lontanamente così evoluti. Trovare una sacca di metano è come trovare una granata innescata, l’esplosione è istantanea e totale. Se non ti uccide la fiammata, ti ammazza il crollo. Questa è una miniera pericolosa. Sentiamo il puff della seconda fiammella, questa volta a una profondità maggiore. I marocchini caricano e lanciano una terza sonda. Aspettiamo un po’, e quando non si sente niente, Rutger aziona l’interruttore sulla scatola e si mette al volante del camion. Craig mi molla una pacca sulla schiena. «Siamo pronti, signor Pierce». Si siede di fianco a Rutger e io mi accomodo sulla panca che c’è dietro. Rutger si lancia a rotta di collo dentro la miniera, rischia di andare a sbattere contro le rotaie e sterza all’ultimo istante per scavalcarle e poi giù, a precipizio nelle viscere della Terra come personaggi di un romanzo di Jules Verne. Per esempio Viaggio al centro della Terra. La galleria è nel buio più assoluto, rischiarata solo parzialmente dai deboli fari del camion, la cui luce non arriva a più di tre metri davanti a noi. Procediamo a velocità sostenuta per forse un’ora, e io sono senza parole, per quanto ben poco potrei tentare di dire nel fracasso che facciamo. Le dimensioni sono inimmaginabili, da togliere il fiato. Le gallerie sono larghe e alte e, per quanto mi sia mortificante ammetterlo, molto, ma molto ben fatte. Non sono gallerie da caccia al tesoro, queste sono ampie strade sotterranee costruite per durare. Per i primi minuti non facciamo che girare. Direi che stiamo scendendo per una spirale, come un cavatappi che entra sempre di più nel turacciolo, abbastanza in profondità da finire al di sotto del fondale della baia. La spirale ci deposita in un’ampia caverna, che viene usata senza dubbio per conservare e inventariare scorte. Riesco a scorgere per non più di un attimo scatoloni e casse, prima che Rutger schiacci di nuovo l’acceleratore a tavoletta e imbocchi un’altra galleria a una velocità ancora superiore a quella di prima. Siamo su una pendenza costante e io sento l’aria diventare rapidamente più umida. Ci sono diversi bivi, ma niente che rallenti Rutger. Guida all’impazzata, sterzando a destra e a manca, rasentando le pareti a ogni curva. Io viaggio aggrappato alla panca. Craig tocca il braccio di Rutger, ma nel rombo assordante del motore non sento che cosa gli dice. Qualunque cosa sia, Rutger non si scompone minimamente. Respinge la mano di Craig e fila giù peggio di prima. Il motore stride e le gallerie sfrecciano come lampi. Rutger mette in scena questa piccola corsa così emozionante per dimostrare che sa destreggiarsi nelle gallerie anche al buio, che questo è il suo territorio, che la mia vita è nelle sue mani. Vuole intimidirmi. Funziona. Questa è la miniera più grande che io abbia mai visto. E di miniere nelle montagne del West Virginia ce ne sono di gigantesche. Finalmente la nostra galleria si apre in un’area spaziosa e dalla forma molto irregolare, come se i minatori avessero cercato in varie direzioni facendo una serie di false partenze. Le lampadine che la illuminano dal soffitto rivelano intaccature e fori di martello pneumatico e le nicchie dove sono state messe delle cariche per aprire nuove gallerie, poi abbandonate. Vedo una matassa di cordone nero vicino a un tavolo su cui c’è un altro apparecchio telefonico, senza dubbio collegato con la superficie. Il binario finisce qui. I tre vagoncini sono allineati al capolinea, vicino alla parete di fondo. I primi due hanno la parte superiore incenerita. Il terzo se ne sta tranquillo in coda a quelli che lo hanno preceduto e la sua fiamma guizza, salendo a brancare i soffi di ossigeno di passaggio nello spazio intriso di umidità. Rutger spegne il motore, salta giù e soffia sulla candela. «Bene», mi dice Craig, imitandolo, dall’altra parte, «che cosa ne pensa, Pierce?» «Gran bella galleria». Mi guardo intorno notando altri particolari di quella strana caverna. Rutger ci raggiunge. «Non faccia finta di niente, Pierce. Non ha mai visto niente di simile». «Non ho mai sostenuto il contrario». Rivolgo le mie parole a Craig. «Avete un problema di metano». «Sì, uno sviluppo molto recente. Abbiamo cominciato a trovare delle sacche solo dall’anno scorso. Evidentemente eravamo un po’ impreparati. Pensavamo che il nostro pericolo principale fosse rappresentato dall’acqua». «Era logico pensarlo». Il metano è un pericolo costante in molte miniere di carbone. Non mi sarei mai aspettato di trovarne lì sotto, un posto che apparentemente non contiene carbone, petrolio o altri depositi di materiale combustibile. Craig alza un braccio indicando sopra di noi. «Avrà notato senz’altro che la miniera ha un’inclinazione costante di circa nove gradi. Quello che deve sapere è che il fondale sopra di noi è inclinato di circa undici. In questo punto è a soli circa otto metri da noi… crediamo». Capisco subito dove vuole andare a parare e non posso nascondere la meraviglia. «Pensate che le sacche di metano siano sul fondo del mare?» «Sì, temo di sì». Rutger sogghigna come se fossimo due comari che spettegolano. Ispeziono la volta della caverna. Craig mi porge un casco e uno zainetto. Poi aziona un interruttore che c’è su un fianco e il casco si illumina. Io lo osservo per un momento perplesso, poi decido di occuparmi innanzitutto del mistero più importante e me lo metto in testa. La roccia del soffitto è asciutta, un buon segno. Il pericolo taciuto è che se esplodesse una sacca di metano e quella sacca fosse abbastanza grande da toccare il fondo del mare, si avrebbe una deflagrazione di proporzioni enormi, seguita da un’inondazione che farebbe crollare praticamente in un istante tutta quanta la miniera. Si finirebbe bruciati, annegati o schiacciati. Forse una combinazione delle tre. Una scintilla di un piccone, di un sasso che rimbalza, della frizione delle ruote di un carrello sulle rotaie basterebbe a far saltare tutto in aria. «Se il gas è di sopra, tra questo pozzo e il mare, non vedo alternative. Dovete chiuderlo e trovarne un altro», dico. Rutger sbuffa. «Te l’avevo detto, Mallory. Non ce la fa. Stiamo sprecando il nostro tempo con questo americano zoppo e vigliacco». Craig s’affretta ad alzare una mano. «Un minuto, Rutger. Abbiamo pagato il signor Pierce perché venisse qui, adesso ascoltiamo che cos’ha da dire». «Lei che cosa farebbe, signor Pierce?» «Niente. Abbandonerei il progetto. Il guadagno non può in nessun modo giustificare il costo. In manodopera o capitale». Rutger alza gli occhi al cielo e comincia a passeggiare nervosamente ignorando me e Craig. «Ho paura che non lo possiamo fare», dice Craig. «Voi state cercando un tesoro». Craig si porta le mani dietro la schiena e s’incammina verso il fondo della caverna. «Ha visto le dimensioni di questo scavo. Sa che non siamo cacciatori di tesori. Nel 1861 nella baia di Gibilterra abbiamo affondato una nave, l’Utopia. Una notizia solo per pochi intimi. Nei cinque anni successivi abbiamo effettuato immersioni sul luogo dell’affondamento, che era una copertura per quello che avevamo trovato sotto, una struttura a meno di due chilometri dalla costa. Accertammo però che non avremmo avuto accesso a quella struttura dal fondo del mare, perché era interrata troppo in profondità e le nostre capacità tecnologiche non erano all’altezza, né si sarebbero sviluppate abbastanza in fretta. E avevamo paura di attirare troppa attenzione. Ci eravamo già trattenuti fin troppo a lungo nel punto dove era affondato un semplice mercantile». «Struttura?» «Sì. Una città o un tempio». Rutger torna da noi e mi volta le spalle girandosi verso Craig. «Non c’è bisogno che sappia queste cose. Se sa che stiamo cercando qualcosa di prezioso, pretenderà altri soldi. Gli americani sono avidi quasi quanto gli ebrei». Craig alza la voce. «Sta’ zitto, Rutger». È facile non dare retta al moccioso. Sono incuriosito. «Come facevate a sapere dove affondare la nave?», domando. «Dove scavare?» «Avevamo… avevamo un’idea generica». «Presa da dove?» «Certi documenti storici». «Come fate a sapere di essere sotto quello stesso punto?» «Abbiamo usato una bussola e calcolato la distanza tenendo conto dell’inclinazione della galleria. Siamo esattamente sotto il punto dell’affondamento. E ne abbiamo la prova». Craig va a raccogliere una pietra vicino alla parete, ma mi sbaglio, mi sembrava che fosse un frammento di roccia invece è uno straccio sporco e annerito. Lo fa scivolare via sul pavimento e sotto c’è… un passaggio, come il boccaporto di una nave. Mi avvicino per illuminare con la lampada che ho sul casco quella strana apertura. Le pareti sono nere, chiaramente di metallo, ma luccicano in un modo diverso, indescrivibile, quasi che fossero vive e reagissero alla mia luce, come uno specchio fatto d’acqua. E ci sono delle fonti luminose che brillano in cima e in fondo al passaggio. Allungo lo sguardo e vedo che conduce a una specie di porta o portale. «Questo cos’è?», domando sottovoce. Craig si sporge da sopra la mia spalla. «Crediamo che sia Atlantide. La città descritta da Platone. La posizione è quella giusta. Platone diceva che Atlantide si affacciava sull’oceano Atlantico e che era un’isola situata di fronte allo stretto delle Colonne d’Ercole…». «Le Colonne d’Ercole…». «Quelle che noi chiamiamo Colonne d’Ercole. La Rocca di Gibilterra è una delle Colonne d’Ercole. Platone diceva che Atlantide governava su Europa, Africa e Asia, e che era il passaggio per altri continenti. Ma fu distrutta. Secondo quanto raccontava Platone, “ci furono terremoti violenti e inondazioni e in un sol giorno e una notte di sventura tutto il popolo guerriero in un sol corpo precipitò nella Terra, e l’isola di Atlantide in ugual modo scomparve negli abissi del mare”». Craig si allontana da quella strana struttura. «Eccola qui. L’abbiamo trovata. Ora vede anche lei perché non possiamo fermarci, signor Pierce. Siamo molto, molto vicini. Vuole unirsi a noi? Abbiamo bisogno di lei». Rutger ride. «Stai sprecando il tuo tempo, Mallory. Questo se la fa sotto dalla paura. Glielo leggo negli occhi». «Lo ignori», mi esorta Craig. «So che la situazione quaggiù è pericolosa. Possiamo darle anche più di 1000 dollari alla settimana. Mi dica lei quanto vale il rischio che deve correre». Io guardo la galleria, poi ispeziono di nuovo il soffitto. Il soffitto asciutto. «Mi ci faccia pensare». 80 Snow Camp Alpha Sito trivellazione n. 5 Antartide orientale «A che profondità siamo?», chiese Robert Hunt al tecnico. «Siamo a duemila metri, signore. Dobbiamo fermarci?» «No, si va avanti. Riferirò. Chiamatemi quando siamo a duemiladue». Due chilometri di trivellazione e non avevano trovato che ghiaccio, esattamente come nei quattro tentativi precedenti. Robert strinse la cinghia del parka e lasciò l’enorme piattaforma diretto alla sua tenda. Lungo il tragitto incrociò un altro uomo. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non ricordava come si chiamava. I due uomini che gli avevano assegnato erano taciturni, nessuno di loro gli aveva raccontato molto di sé, ma erano lavoratori solerti e non bevevano, quanto di meglio si può sperare durante operazioni di perforazione in condizioni climatiche estreme. Il suo capo probabilmente avrebbe rinunciato presto. Il buco numero cinque era in tutto e per tutto uguale ai quattro precedenti: nient’altro che ghiaccio. L’intero continente era un gigantesco cubetto di ghiaccio. Ricordava di aver letto che l’Antartide possedeva il novanta percento del ghiaccio del pianeta e il settanta percento dell’acqua dolce presente nel mondo. Se si fosse presa tutta l’acqua che c’era sul pianeta da tutti i laghi, gli stagni, i fiumi e i torrenti, aggiungendoci persino l’acqua delle nuvole, il totale sarebbe stato meno della metà dell’acqua ghiacciata dell’Antartide. Quando tutto quel ghiaccio si fosse sciolto, il mondo sarebbe stato un posto molto diverso. Il mare si sarebbe alzato di centotrenta metri, le nazioni sarebbero state travolte, o per meglio dire sarebbero sprofondate, i Paesi ai livelli più bassi sul mare come l’Indonesia sarebbero scomparsi dalla carta geografica. Nulla sarebbe rimasto di New York, New Orleans, Los Angeles e quasi tutta la Florida. A quanto gli risultava, l’unica cosa che c’era in abbondanza in Antartide era proprio il ghiaccio. Che cosa potevano mai cercare là sotto? La risposta logica era petrolio. Del resto lui stesso era un esperto in trivellazioni petrolifere. Ma l’attrezzatura era tutta sbagliata. Il diametro della trivella era sbagliato. E per il petrolio c’era bisogno di una conduttura. Con quelle macchine scavavano buchi grandi da farci passare un camion. O da calarci dentro un camion. Cosa poteva esserci là sotto? Minerali? Qualcosa di scientifico, magari dei fossili? Forse uno stratagemma per rivendicare il diritto di sfruttamento? L’Antartide era vastissimo, 17,5 milioni di chilometri quadrati. Se fosse stato una nazione, sarebbe stata la seconda nazione al mondo per estensione. Era solo di 20.000 chilometri quadrati più piccolo della Russia, un altro posto infernale dove era andato a trivellare, ma con notevole successo. Circa due milioni di anni prima l’Antartide era un paradiso lussureggiante. Era presumibile che sotto la sua superficie si celassero riserve di petrolio di incalcolabile valore e Dio solo sapeva cos’altro… Dietro di sé Robert sentì un rimbombo potente. Il fusto della trivella che emergeva dal ghiaccio ruotava vorticosamente: la punta non trovava resistenza. Dovevano aver incontrato una sacca. Se l’era aspettato, perché di recente altre squadre si erano imbattute in grandi caverne e crepacci, probabilmente fiordi sottomarini dove il ghiaccio rivestiva i rilievi sottostanti. «Fermatela!», urlò Robert. L’uomo sulla piattaforma non poteva sentirlo. Robert fece il segno convenzionale passandosi la mano di taglio davanti alla gola, ma l’altro lo guardò con aria confusa. Allora usò la radio. «Ferma tutto!», gridò. Sulla piattaforma il lungo tubo che usciva dal ghiaccio cominciava a oscillare come una trottola che sta per perdere l’equilibrio. Robert lasciò cadere la ricetrasmittente e tornò indietro di corsa. Spinse via il tecnico e digitò i comandi che fermavano la trivella. Prese il suo tecnico per il giaccone e scappò con lui. Erano quasi arrivati al guscio quando sentirono la piattaforma vibrare e la videro schiantarsi sul ghiaccio. Il fusto della trivella si era spezzato in due e il moncone ruotava all’impazzata nell’aria. Anche a più di cinquanta metri di distanza il rumore era assordante, come il fischio dei motori di un jet a pieno regime. La piattaforma sprofondò nella neve e lo scalpello all’estremità dell’asta di perforazione cominciò ad avanzare, scavando nel ghiaccio come un tornado sulle pianure del Kansas nella cosiddetta “Tornado Alley”. Robert e il tecnico erano sdraiati bocconi e cercavano di resistere al lancio di scaglie di ghiaccio e grumi di neve, in attesa che lo scalpello si fermasse. Finalmente Robert alzò la testa. Il suo capo non sarebbe stato contento. «Non toccare niente», disse al tecnico. Rientrato nel suo guscio, Robert si mise alla radio. «Bounty, qui Snow King. Ho un aggiornamento». Era in dubbio su cosa riferire. Non avevano incontrato una bolla di petrolio. Era qualcos’altro. Lo scalpello avrebbe sgretolato qualunque tipo di roccia o terreno, anche se congelato. Quello che aveva incontrato invece lo aveva lasciato del tutto pulito. C’era una sola possibilità. «Ti ascolto, Snow King. A rapporto, prego». Meno si dice meglio è. Non avrebbe azzardato ipotesi. «Abbiamo beccato qualcosa», fece Robert. Il dottor Martin Grey guardava dalla finestra del quartier generale modulare, quando la sua attenzione fu richiamata dall’arrivo di un tecnico dell’Immari. Non distolse lo sguardo. C’era qualcosa nella sconfinata distesa di neve candida che gli infondeva un senso meraviglioso di pace. «Signore, la squadra numero tre ha appena fatto rapporto. Crediamo di aver trovato la struttura». «Un’entrata?» «No, signore». Martin attraversò la stanza e si piazzò davanti al grande schermo che mostrava una mappa dell’Antartide. «Mi mostri dove». 81 Monastero Immaru Regione autonoma del Tibet L’indomani mattina, quando Kate andò da lui, David era sveglio. E in collera. «Devi andartene. Il ragazzo mi ha detto che sei qui da tre giorni». «Mi fa piacere vedere che stai meglio», gli rispose Kate con brio. Prese gli antibiotici, le pillole di analgesico e una ciotolina con dell’acqua. David era sempre più smunto, e Kate pensò che doveva costringerlo a mangiare qualcosa. Avrebbe voluto toccargli la faccia smagrita, gli zigomi sporgenti, ma adesso, da sveglio, ne era troppo intimidita. «Non mi ignorare», l’ammonì David. «Parliamo dopo che avrai preso le tue pillole». Gliene porse due nel palmo della mano. «Cosa sono?» «Un antibiotico e un antidolorifico». David prese l’antibiotico e lo inghiottì con un po’ d’acqua. Kate gli avvicinò di più al viso la mano con l’altra pillola. «Devi prendere…». «No». «Quando dormivi eri un paziente migliore». «Ho dormito abbastanza». David posò nuovamente la testa sul guanciale. «Devi andartene da qui, Kate». «Io non vado da nessuna parte». «No, non fare così. No. Ricordi cosa mi hai promesso? Nel cottage sul mare? Hai detto che avresti ubbidito ai miei ordini. È stata la mia unica condizione. Adesso ti sto dicendo che devi andare via da qui». «Be’… Questa è una decisione di natura medica, non è… come la chiameresti tu, una decisione strategica». «Non giocare con le parole. Guardami. Sai che non posso uscire di qui sulle mie gambe e so quanto è lunga quella camminata. L’ho già fatta…». «A proposito, chi è Andrew Reed?». David scosse la testa. «Non conta. È morto». «Ma loro ti chiamano…». «Ucciso sulle montagne del Pakistan, non lontano da qui, mentre combatteva contro gli Immari. Sono bravi ad ammazzare la gente su queste montagne. Questo non è un gioco, Kate». Le prese un braccio attirandola a sedersi sul letto. «Ascoltami. Senti quel ronzio sordo, come un’ape che vola lontano?». Kate annuì. «Sono droni. Predatori con le ali. Stanno cercando noi, e quando ci avranno trovato non ci sarà nessun posto dove potremo rifugiarci. Devi andare». «Lo so. Ma non oggi». «Non voglio…». «Andrò domani, te lo prometto». Kate gli afferrò una mano e gliela strinse. «Dammi solo un altro giorno». «Partirai alle prime luci dell’alba, altrimenti me ne andrò io, scenderò per quel precipizio che c’è lì fuori…». «Non mi minacciare». «È una minaccia solo se non intendi fare quello che mi hai detto». Kate gli lasciò andare la mano. «Allora andrò via domani». Si alzò e uscì. Tornò con due scodelle di denso porridge. «Ho pensato che avresti avuto fame». David si limitò ad annuire e si mise a mangiare, dapprima velocemente, poi più adagio, dopo le prime cucchiaiate. «Ti ho letto un po’ di questo». Gli mostrò il diario che aveva in mano. «Ti spiace?» «Cos’è?» «Un diario. Il vecchio… quello che sta di sotto… è stato lui a darmelo». «Ah, lui. Qian». David mangiò altre due cucchiaiate veloci. «Di che parla?». Lei si sedette sul letto e allungò le gambe accanto alle sue come aveva fatto quando lui era in stato di incoscienza. «Miniere». David si girò verso di lei. «Miniere?» «O forse guerra, no, non sono sicura. È ambientato a Gibilterra». «Gibilterra?» «Sì. È importante?» «Forse. Il codice». David si frugò nelle tasche. «Ce l’aveva Josh…». «Chi è Josh? Aveva cosa?» «È… Io lavoravo con lui. Abbiamo estratto un codice dalla fonte, la stessa persona che ci ha informati sul centro di ricerca in Cina. Vorrei parlarne, a proposito. Comunque c’era la foto di un iceberg con un sommergibile conficcato dentro. Sul retro c’era un codice. Il codice indicava certi necrologi pubblicati sul “New York Times” nel 1947. Ce n’erano tre». David si sforzò di ricordare. «Il primo faceva riferimento a Gibilterra e agli inglesi che avevano trovato delle ossa vicino a un sito». «Il sito potrebbe essere la miniera. Gli Immari stanno cercando di assumere un minatore americano, un ex soldato, perché disseppellisca una struttura ad alcuni chilometri di profondità sotto la baia di Gibilterra. Pensano che sia la città perduta di Atlantide». «Interessante», commentò pensieroso David. Prima che potesse dire altro, Kate aprì il diario e cominciò a leggere. 9 agosto 1917 Torno a casa tardi e Helena è al tavolo della cucina. Ha i gomiti appoggiati e si tiene la faccia nelle mani, come se dovesse cascarle la testa se la lasciasse andare. Non ci sono lacrime, ma i suoi occhi sono rossi come se avesse pianto e non ne avesse più. Mi ricorda le donne che vedevo lasciare l’ospedale, seguite da due uomini che trasportavano una barella con sopra un telo bianco. Helena ha tre fratelli, due sotto le armi, uno troppo giovane, che però forse ha appena firmato. Questo è il mio primo pensiero: mi chiedo quanti fratelli le sono rimasti adesso. Al rumore della porta salta in piedi e mi guarda con gli occhi sgranati. «Cos’è successo?», domando. Lei mi abbraccia. «Credevo che l’avessi fatto, che avessi preso il lavoro, o che te ne fossi andato via». Io ricambio il suo abbraccio e lei mi affonda la testa nel petto. Quando smette di singhiozzare, rialza la testa e i suoi grandi occhi castani mi rivolgono una domanda che non riesco a decifrare. La bacio sulla bocca. È un bacio famelico, impetuoso, come un animale che morde qualcosa a cui ha dato la caccia per tutto il giorno, qualcosa che gli serve per sopravvivere, qualcosa di cui non può fare a meno. La sento così delicata tra le mie braccia, così piccola. Muovo la mano sulla sua camicetta, tocco un bottone, ma lei mi imprigiona la mano e indietreggia di un passo. «Patrick, non posso. Sono ancora… tradizionale, in molte cose». «Posso aspettare». «Non è quello. È che… ecco, vorrei che conoscessi mio padre. Tutta la mia famiglia». «Mi piacerebbe moltissimo incontrare lui, tutti quanti». «Bene. La prossima settimana non devo andare all’ospedale. Domattina gli telefono. Se per loro va bene, possiamo prendere il treno del pomeriggio». «Facciamo… facciamo dopodomani. Ho bisogno… ho bisogno di procurarmi una cosa». «Come vuoi». «E c’è dell’altro», aggiungo io e cerco le parole giuste. Ho bisogno di quel lavoro, almeno qualche settimana di paga, e poi sarò a posto. «Il lavoro. In effetti sono andato a dare un’occhiata e, ehm, forse non è poi così pericoloso…». La sua espressione cambia in un lampo, come se le avessi dato uno schiaffo. La smorfia che fa è a metà tra ansia e ira. «Non ce la faccio. Non posso. Tutti i giorni ad aspettare chiedendomi se tornerai a casa. Non vivrò così». «È tutto quello che ho, Helena. Non sono bravo in nient’altro. Non so fare nient’altro». «Questo non lo credo nemmeno per un istante. Succede in continuazione che un uomo ricominci da zero». «E lo farò anch’io, te lo prometto. Sei settimane, non mi serve altro, poi mollerò tutto. A quel punto forse la guerra sarà finita e avranno un’altra squadra da mandare giù e tu ripartirai da qui e io avrò bisogno di… avrò bisogno di soldi per… per sistemare le cose». «Le cose si possono sistemare senza soldi. Io ho…». «Non se ne parla». «Se resti ucciso in quella miniera, non mi riprenderò mai più. Sei in grado di sopportarlo?» «Lavorare in miniera è molto meno pericoloso quando non ti bombardano». «E quando hai sopra di te un intero oceano? Tutta quanta la baia di Gibilterra? Tutta quell’acqua a pesare continuamente su quelle gallerie. Come farebbero a tirarti fuori se ci fosse un crollo? È un suicidio». «Si può sapere in anticipo se il mare sta arrivando». «Come?» «La roccia suda», le dico. «Mi spiace, Patrick, non posso». L’espressione che vedo nei suoi occhi mi dice che fa sul serio. Certe decisioni sono facili. «Allora è un capitolo chiuso. Dirò loro di no». Ci baciamo di nuovo e io la tengo stretta stretta. David posò una mano su quella di Kate. «È questo che mi stai leggendo? Via col vento nell’epoca della prima guerra mondiale?». Lei spinse via la sua mano. «No! Voglio dire che non è stato sempre così finora, però… be’, non credo che ti faccia male un po’ di sentimentalismo nelle tue scelte letterarie. Magari addolcisce quel duro cuore di soldato che hai». «Vedremo. Forse possiamo saltare la parte sdolcinata e andare diritto al punto dove dicono che laggiù c’è il deposito delle bombe o ci sono i laboratori segreti». «Non salteremo proprio niente. Potrebbe essere importante». «Visto che a te piace tanto, vorrà dire che farò buon viso a cattivo gioco». S’intrecciò le dita sulla pancia e fissò stoicamente il soffitto. Kate sorrise. «Il solito martire». 82 Quartier generale Clocktower Nuova Delhi, India «Signore?». Dorian si girò verso l’agente dell’Immari Security che sostava sulle spine davanti alla soglia del suo ufficio. «Cosa?» «Aveva chiesto di essere tenuto al corrente dell’operazione…». «Sentiamo». L’agente deglutì. «I carichi sono in posizione in America e in Europa». «I droni?» «Hanno centrato un altro obiettivo». 83 Monastero Immaru Regione autonoma del Tibet Quel ronzio in lontananza, l’ape che li stava cercando, stava diventando più forte, ma Kate preferì ignorarlo. Nemmeno David fece commenti. Sedevano insieme nella piccola nicchia affacciata sulla valle. Kate continuò a leggere, fermandosi solo per mangiare un boccone e dare a David i suoi antibiotici. 10 agosto 1917 Come un rapace appollaiato su un albero, l’uomo del banco dei pegni mi guarda esaminare la merce esposta nelle teche di vetro. Ci sono anelli in quantità, tutti scintillanti, tutti bellissimi. Avevo pensato che mi sarei trovato a scegliere fra tre o quattro, che sarebbe stato abbastanza semplice. Cosa fare… «Un giovanotto che cerca un anello di fidanzamento… non c’è niente che mi scaldi di più il cuore, specialmente in questi tempi bui». Me lo trovo accanto, con un sorriso orgoglioso e romantico sulle labbra. Non l’ho nemmeno sentito arrivare. Quest’uomo si muove come un ladro nella notte. «Sì, io… non credevo ce ne fossero così tanti». Continuo a cercare con lo sguardo aspettando che un anello mi balzi all’occhio. «Ci sono molti anelli perché qui a Gibilterra ci sono molte vedove. Sono quattro anni che il regno è in guerra e queste povere donne, la guerra le lascia senza marito e senza fonti di sostentamento. Vendono i loro anelli per comprarsi il pane. Un pezzo di pane in pancia vale più di una pietra al dito o un ricordo nel cuore. Noi diamo loro pochi spiccioli». Prende dalla vetrinetta un espositore ricoperto di velluto con gli anelli più grossi. Lo posa sopra il vetro a pochi centimetri da me e vi impone le mani come se stesse per esibirsi in un numero di magia. «Ma la loro sfortuna può essere un vantaggio per lei, amico mio. Dia un’occhiata ai prezzi. Resterà stupito». Io faccio un passo indietro senza rendermene conto. Guardo gli anelli e guardo lui, che mi invita a riavvicinarmi con la mano e un sorriso luccicante di avidità. «Per favore, può toccarli tranquillamente…». Come in un sogno io sono fuori del negozio e di nuovo per le strade di Gibilterra prima di rendermene conto. Cammino veloce, il più veloce che posso su una gamba e mezza. Non so perché, ma esco dal quartiere degli affari diretto alla Rocca. Poco prima di arrivarci, taglio di traverso e lascio il lato ovest, quello della città moderna affacciata sulla baia. Entro nella città vecchia, che è sul lato est della Rocca, sulla Catalan Bay, di fronte al Mediterraneo. Per un po’ cammino e penso. Le gambe mi fanno un male tremendo. Non ho con me pillole. Non avevo previsto di camminare così tanto. Ho portato 500 dollari dei quasi 11.000 che posseggo. Ho ragionato a lungo su quanto spendere. Pensavo di sborsare di più, forse persino 1000 dollari, ma due cose mi hanno convinto a non farlo. La prima è che ho bisogno di capitale per cominciare una nuova vita. Undicimila dollari probabilmente non bastano, ma un modo lo troverò. Di sicuro non accetterò il lavoro all’Immari, dunque il capitale che ho a disposizione adesso è definitivo. Il secondo e più importante motivo è che non penso sia ciò che vuole Helena. Sorriderebbe e accetterebbe volentieri un anello sgargiante, ma non lo vorrebbe. È cresciuta in un mondo in cui i bei gioielli, gli abiti di seta e i grandi palazzi erano la quotidianità. Credo che queste cose abbiano perso smalto per lei. Desidera le cose più genuine, la gente reale. Capita così spesso che cerchiamo ciò che nell’infanzia ci è stato negato. I figli viziati diventano sprezzanti. I figli che hanno patito la fame diventano ambiziosi. E certi figli, come Helena, cresciuti nei privilegi, senza dover agognare nulla, circondati da persone che non vivono nel mondo reale, persone che tutte le sere bevono il loro brandy e spettegolano sui figli e le figlie di questa e quella casata… certe volte desiderano solo vedere il mondo reale, viverci dentro e farsi strada in esso. Avere veri rapporti umani, vedere che la loro vita significa qualcosa. Davanti a me la strada finisce davanti alla Rocca. Ho bisogno di un posto dove sedermi, alzare la gamba. Mi fermo e mi guardo intorno. All’ombra della roccia bianca che si erge sulla destra c’è una semplice chiesetta. I battenti della porta ad arco si aprono e nel cocente sole di Gibilterra esce un prete di mezza età. Senza una parola mi indica con la mano il buio dell’ingresso e io salgo le scale ed entro nella piccola cattedrale. La luce filtra dai vetri colorati delle finestre. È una chiesa bellissima con travi di legno scuro e affreschi incredibili sui muri. «Benvenuto in Nostra Signora del Dolore, figliolo», dice il sacerdote mentre chiude la pesante porta di legno. «Sei venuto a confessarti?». Io medito di andarmene, ma la bellezza della chiesa mi trattiene e avanzo di qualche passo ancora. «Ehm, no, padre», rispondo distrattamente. «Cosa stai cercando?». Cammina dietro di me con le braccia abbassate e le mani giunte come quando si uniscono per farne una staffa. «Cercare? Niente, cioè, ero andato al negozio per comprare un anello e…». «Sei stato saggio a venire qui. Viviamo in tempi strani. Per anni la nostra parrocchia è stata molto fortunata. Abbiamo ricevuto molte donazioni da parrocchiani che hanno lasciato il mondo dei vivi. Fattorie, oggetti d’arte, gioielli e, ultimamente, molti anelli». Mi fa strada in una stanzetta dove ci sono uno scrittoio e librerie che arrivano al soffitto piene di volumi rilegati in pelle. «La chiesa conserva queste donazioni per venderle quando possiamo e usare il ricavato per aiutare coloro che sono ancora tra i vivi». Io annuisco, non sapendo bene cosa ribattere. «Sto cercando… qualcosa di speciale…». Il prete fa un’espressione poco convinta mentre si siede allo scrittoio. «Temo che la nostra selezione non sia quella che troveresti altrove». «Non è una selezione quella che cerco… è un anello… con una storia». «Tutti gli anelli raccontano una storia, figliolo». «Allora qualcosa con un lieto fine». Lui mi guarda. «Il lieto fine è merce rara in questi tempi bui. Però… forse so di un anello di questo genere. Parlami della fortunata giovane signorina che lo riceverà». «Mi ha salvato la vita», rispondo imbarazzato, e lì per lì più di così non mi viene. «Sei rimasto ferito in guerra». «Sì». Difficile non accorgersi della mia zoppia. «Ma non è solo questo. Mi ha cambiato». Mi sembra una sintesi sgraziata di quello che ha fatto per me, mi sembra quasi di offendere la donna che ha voluto che vivessi di nuovo, ma il prete si limita ad annuire. «Alcuni anni fa una coppia di persone amabili è venuta a trascorrere la vecchiaia qui. Lei era stata volontaria in Sudafrica. Sei mai stato in Sudafrica?» «No». «Non mi meraviglia. Solo di recente la gente se ne occupa. Fin dal 1650 è stato soltanto un luogo di transito sulle rotte commerciali verso l’Oriente. La Compagnia olandese delle Indie orientali costruì Città del Capo come stazione di sosta sulla rotta che transitava per il Capo di Buona Speranza. La edificò con schiavi provenienti da Indonesia, Madagascar e India. E così è rimasta, come luogo di sosta sull’oceano, almeno fino all’Ottocento, quando trovarono oro e diamanti e quella regione diventò un autentico inferno in terra. Per secoli gli olandesi avevano massacrato la popolazione locale in una serie di guerre di frontiera, ma poi sono arrivati gli inglesi che hanno portato tecniche di guerra moderne, quelle che sanno impiegare solo gli europei. Ma credo che tutto questo tu lo sappia già. Una guerra con perdite ingenti, carestie, epidemie e campi di concentramento. C’era un soldato che aveva combattuto per gli inglesi nella guerra del Sudafrica. E siccome le spoglie di guerra vanno ai vincitori, con la fine del conflitto qualche anno dopo si ritrovò con un bel gruzzoletto. Lo usò investendolo nelle miniere. La scoperta di un buon filone lo fece diventare ricco, ma si ammalò. Una volontaria, una spagnola che durante la guerra aveva lavorato in ospedale, lo curò e guarì. E gli intenerì il cuore. Gli disse che lo avrebbe sposato a una condizione, che lasciasse per sempre le miniere e donasse all’ospedale metà dei suoi averi. Lui accettò e insieme lasciarono per sempre il Sudafrica. Si stabilirono qui a Gibilterra, nella città vecchia sulla costa del Mediterraneo. Ma a lui fare il pensionato non piaceva. Per tutta la vita era stato soldato e minatore. Qualcuno potrebbe dire che conosceva soltanto l’oscurità, il dolore, la fatica, che per il suo cuore di tenebra la luce di Gibilterra era troppo abbagliante, che la vita facile gli dava troppo tempo per riflettere sui suoi peccati, che lo insidiavano, tormentavano, giorno e notte. Quale che fosse la causa, un anno dopo morì. La donna lo seguì qualche mese più tardi». Io aspetto e mi chiedo se il racconto non sia finito. «Padre», dico alla fine, «noi abbiamo idee molto diverse su cos’è un lieto fine». Un sorriso distende le labbra del prete come se avesse sentito un bambino dire qualcosa di buffo. «Questa storia è più lieta di quel che pensi, se credi in ciò che insegna la Chiesa. Per noi la morte è solo un passaggio, e di quelli gioiosi per chi è stato meritevole. È un inizio e non una fine. Vedi, quell’uomo si era pentito, aveva deciso di girare le spalle alla sua vita di oppressioni e avidità. Aveva pagato per i suoi peccati in tutti i modi che contano. Era stato salvato, come accade a molti uomini, da una donna buona. Ma certe vite sono più dure di altre e alcuni peccati ci perseguitano, per quanto abbiamo pagato per essi o per quanto da essi ci siamo distaccati. Forse è quello che accadde a quell’uomo e forse no. Forse la vita da pensionato non si addice all’industrioso. Forse non c’è consolazione nel riposo per il lavoratore indefesso. E c’è un’altra possibilità. In Sudafrica quell’uomo aveva cercato guerra e ricchezze. Ambiva a potere, sicurezza, consapevolezza di essere al sicuro in un mondo pericoloso. Ma abbandonò tutto questo quando incontrò quella donna. È possibile che tutto quello che desiderava era essere amato e non dover soffrire. E dopo che finalmente trovò l’amore dopo una vita passata cercandolo, sia morto felice. E quanto alla donna, aveva desiderato solo sapere di poter cambiare il mondo e, dopo aver cambiato il cuore dell’uomo più insensibile, ha concluso che c’era speranza per l’intera razza umana». Il sacerdote s’interrompe, prende fiato, mi osserva. «O forse la loro unica follia è stata di ritirarsi, di condurre una vita sedentaria dove il passato avrebbe potuto rincorrerli, anche se solo nei loro sogni notturni. Ma quali che siano state le cause della loro morte, il loro destino era certo: il regno dei cieli è il luogo dove vanno coloro che si pentono, e io sono convinto che da allora quell’uomo e quella donna è là che vivono». Io rifletto sul racconto del prete mentre lui si alza in piedi. «Vuoi vedere l’anello?» «Non ho bisogno di vederlo». Conto cinque banconote da 100 dollari Silver Certificate e le poso sul tavolo. Lui sgrana gli occhi. «Siamo felici di accettare qualsiasi somma un nostro donatore ritenga adeguata, ma è giusto che ti faccia presente, dovessi mai aver bisogno di rivenderlo, che al… mercato attuale, l’anello vale molto meno di 500 dollari». «Per me li vale fino all’ultimo centesimo». Tornando al cottage quasi non mi accorgo del dolore alla gamba. Vedo me stesso e Helena viaggiare per il mondo per più di qualche anno senza fermarci mai. Nella mia fantasia, lei lavora negli ospedali. Io investo in miniere usando quello che so per trovare operatori esperti e siti promettenti, miniere che offrano ai lavoratori una paga decente a condizioni dignitose. Non ci sarà da guadagnare molto all’inizio, ma attireremo le persone più brave e nel settore delle miniere, come in tutti i settori industriali, le persone più brave fanno la differenza. Faremo fallire i nostri concorrenti e useremo il denaro per apportare miglioramenti. E non smetteremo mai, non lasceremo mai che il mondo che ci insegue ci raggiunga. Kate chiuse il diario e ispezionò la fasciatura intorno al petto di David. Diede qualche tiratina alle bende per sistemarle meglio. «Qualcosa non va?» «No, ma credo che tu stia ancora sanguinando un po’ da una delle ferite. Tra poco ti cambio la medicazione». David emise un sospiro teatrale. «Io sono nato con un cuore che sanguina». Kate sorrise. «Queste battute è meglio che te le risparmi». 84 13 agosto 1917 La casa inglese dove Helena ha passato l’infanzia è più elegante di quanto abbia immaginato, soprattutto non ne ho mai vista una così. Si trova vicino a un lago grandissimo, incorniciato da fitti boschi e dolci colline. È un capolavoro di pietra e legno, come certi castelli medievali ridecorati secondo i gusti moderni. L’automobile che ci è venuta a prendere alla stazione percorre la ghiaia del viale alberato in una nebbia densa. Ad aspettarci, accogliendoci sull’attenti come se fossimo dei dignitari, ci sono suo padre, sua madre e suo fratello. Ci salutano con cortesia. Dietro di noi i domestici prelevano i bagagli dalla macchina e scompaiono. Suo padre è un omone alto e grosso, non corpulento, ma senz’altro non magro. Mi stringe la mano e mi guarda negli occhi, socchiudendo un po’ i suoi come per scrutarmi dentro. Nell’anima, forse. Le ore successive passano in un’atmosfera di nebulosa sospensione. Il pranzo, le chiacchiere in salotto, il giro turistico della casa. Io riesco a pensare solo al momento in cui chiederò al padre la mano di sua figlia. Gli lancio qualche occhiata di tanto in tanto, cercando di carpire qualche scampolo di informazione, qualcosa che mi dica che tipo è e cosa potrebbe dire. Dopo pranzo, Helena attira sua madre fuori della stanza con una domanda su un certo mobile e con mio sollievo Edward, il fratello minore, chiede al padre il permesso di assentarsi. Finalmente siamo soli nel salotto rivestito di pannelli di legno e comincia a prendermi l’ansia. Oggi sono stato attento con le pillole, ne ho presa solo una. Ultimamente il dolore è stato meno intenso o forse sto “imparando la gamba”, come mi aveva detto che avrei fatto il dottor Carlisle. Però c’è ancora, e in questo stato di nervosismo lo sento mordicchiare. Ciononostante resto in piedi in attesa che sia lui a sedersi. «Tu cosa preferisci, Pierce? Brandy, scotch, bourbon?» «Un bourbon, grazie». Riempie un bicchiere fin quasi all’orlo, non ci mette il ghiaccio e me lo porge. «So che cosa sei venuto a chiedere e la risposta è no, dunque sbarazziamoci di questo piccolo, sgradevole intoppo e vediamo di goderci la serata. Kane mi dice che sei stato a vedere lo scavo a Gibilterra, dice che Craig ti ha illustrato il nostro piccolo progetto». Mi fissa con un sorriso sornione. «Mi piacerebbe conoscere la tua impressione da… da minatore professionista. Reggerà finché avremo finito?». Io cerco di cominciare a parlare più di una volta. Mi scorrono nella mente cattivi pensieri. “Ti ha chiuso la bocca come si fa con un piazzista. È dell’Immari, una serpe peggio di Kane”. Bevo un lungo sorso e parlo nel tono più neutro possibile. «Vorrei sapere perché». «Evitiamo di essere sgarbati, signor Pierce». «È innamorata di me». «Ne sono certo. In tempo di guerra si è emotivi. Ma la guerra finisce e i sentimenti si spengono. Torna il mondo reale e lei tornerà in Inghilterra e sposerà qualcuno che potrà darle la vita che realmente vuole, una vita di civiltà ed eleganza. Una vita che non puoi apprezzare prima di aver conosciuto le brutture del resto del mondo. Questo ha in serbo il destino per lei. Ho già preso i provvedimenti necessari». Accavalla le gambe e sorseggia il suo brandy. «Sai, da bambina Helena aveva l’abitudine di portare in casa tutti gli animali infestati dai pidocchi, dalle malattie, feriti e mezzi morti che trovava in giro per la proprietà. Non si arrendeva finché non erano morti o guariti. Ha un cuore grande. Ma è cresciuta e ha perso completamente la mania di salvare animali. Tutti passano attraverso fasi come quella, specialmente le bambine. Ora vorrei sentire la tua opinione sulle nostre gallerie a Gibilterra». «Non me ne importa un fico secco di quelle gallerie o di quello che c’è là sotto. È una miniera pericolosa e io non ci lavorerò. Quello che farò invece è sposare sua figlia, con o senza il suo permesso. Io non sono un animale ferito e Helena non è più una bambina». Poso il bicchiere sul tavolino di cristallo e per poco lo spacco e spargo liquido ambrato dappertutto. «Grazie del bourbon». Mi alzo per andarmene, ma lui posa a sua volta il bicchiere e mi precede alla porta. «Un minuto. Non puoi fare sul serio. Hai visto cosa c’è laggiù. E rinunci?» «Ho già trovato qualcosa che mi interessa molto più delle città scomparse». «Te l’ho detto. Ho già sistemato il futuro di Helena. È cosa fatta. Non pensarci più. Quanto allo scavo, siamo disposti a pagarti. A proposito, è questo il mio ruolo al riguardo. Io sono quello che regge i cordoni della borsa, l’Immari Treasury. Kane è responsabile delle spedizioni e di molte altre cose ancora, come certamente avrai intuito. Mallory è il nostro capo dello spionaggio. Non sottovalutare Craig, sa fare bene il suo mestiere. Dimmi, cosa ci vuole? Possiamo raddoppiare. Duemila dollari alla settimana. Nel giro di pochi mesi potrai toglierti qualunque sfizio». «Non lavorerò in quella miniera a nessun prezzo». «Ma perché? Per la sicurezza? Puoi migliorarla tu, ne sono certo. I tuoi ufficiali superiori mi hanno riferito che eri in gamba. Il migliore, hanno detto». «Ho detto a Helena che non lavorerò in una miniera. Gliel’ho promesso. E non farò di lei una vedova». «Presumi di sposarla. Ma non ti sposerà senza il mio permesso». Lord Barton prende un respiro e attende la mia reazione, soddisfatto di avermi messo all’angolo. «La sottovaluta». «Sei tu che la sopravvaluti. Ma se quello è il tuo prezzo, ti accontenterò, oltre ai 2000 dollari alla settimana. Ma tu accetti subito, qui davanti a me, di lavorare a quello scavo finché non avremo finito. Quando l’avrai fatto, avrai la mia benedizione immediata». «Mi offre la sua approvazione in cambio di quello che c’è sepolto là sotto?» «Senza esitazioni. Sono un uomo pratico. E responsabile. Forse un giorno lo sarai anche tu. Cos’è il futuro di mia figlia a confronto con il destino della razza umana?». Quasi mi scappa da ridere, ma lui mi fissa con un’espressione maledettamente seria. Io mi passo una mano sul volto e cerco di pensare. Non mi aspettavo di dover mercanteggiare, meno che mai su questa faccenda dello scavo di Gibilterra. So che sto commettendo un errore, eppure non vedo quali alternative io abbia. «Avrò il suo permesso adesso, non dopo lo scavo». Barton stacca gli occhi dai miei. «Quanto per entrare nella struttura?» «Non so…». «Settimane, mesi, anni?» «Mesi, direi. Non c’è modo di prevede…». «Va bene, va bene. Hai il permesso. Lo annunciamo questa sera e, se non mantieni la tua parte di accordo a Gibilterra, ci penserò io a fare di lei una vedova». 85 Associated Press – Ultim’ora on-line Si moltiplicano i casi di nuova influenza in tutti gli Stati Uniti e in Europa occidentale New York (AP) // I pronto soccorso e le strutture ospedaliere in varie località degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale riferiscono il diffondersi di casi di una nuova influenza, alimentando il timore che possa essere l’inizio del propagarsi di un ceppo virale precedentemente non identificato. 86 Monastero Immaru Regione autonoma del Tibet Kate appoggiò la nuca alla parete di legno della nicchia e, guardando il sole, rimpianse di non avere il potere di fermarlo là dov’era. Di sottecchi vide David aprire gli occhi e guardarla. Riprese a leggere prima che potesse dire qualcosa. 20 dicembre 1917 I minatori marocchini si acquattano mentre intorno a loro cascano pezzi di roccia. Lo spazio si riempie di fumo e ci ritiriamo nella galleria. Aspettiamo ascoltando, pronti ad arrampicarci sul camion messo di traverso sulle rotaie, pronti a risalire il tunnel a tutta birra al primo segno di guai seri, fuoco o acqua in questo caso. Il primo cinguettio di canarino rompe il silenzio, e noi sospiriamo uno dopo l’altro e torniamo nella grande caverna a vedere dove ci ha portati quest’ultimo lancio dei dadi del destino. Siamo vicini. Ma non ancora arrivati. «Te l’avevo detto che dovevamo trivellare più in fondo», dice Rutger. Io non ricordo che abbia detto proprio niente. Anzi, sono più che sicuro che se ne stava là seduto ad ammazzare il tempo, senza nemmeno ispezionare la buca, prima che la riempissimo di esplosivo chimico. Si avvicina allo scavo per vedere meglio facendo scorrere le dita su una delle gabbie e provocando il panico nell’uccellino che c’è dentro. «Non toccare le gabbie», gli dico. «Tu non ti volti indietro se i canarini soffocano avvelenati dal metano per guadagnarti qualche minuto di vantaggio, e io non posso nemmeno sfiorarli?» «Quegli uccelli possono salvare la vita a tutti noi. Non ti permetterò di torturarli solo per divertimento». Rutger scarica sul capo dei marocchini la collera che sarebbe stata diretta a me. Grida al poveretto in francese, e la sua squadra di una decina di operai comincia a ripulire le macerie provocate dall’esplosione. Sono passati quasi quattro mesi da quando sono sceso quaggiù per la prima volta. Nei primi mesi di scavi si è capito che la parte di struttura che hanno trovato è un tunnel d’accesso alla sua base. Conduceva a una porta sigillata con una tecnologia della quale siamo assolutamente ignari. Abbiamo tentato tutte le strade: fuoco, ghiaccio, esplosivi, sostanze chimiche. I minatori berberi hanno persino provato a fare uno strano rito tribale, probabilmente a protezione di se stessi. Ma presto è stato evidente che non avremmo mai attraversato quella porta. La nostra teoria è che si tratti di una specie di canale di drenaggio o uscita d’emergenza, rimasta sigillata per Dio solo sa quante migliaia di anni. Dopo qualche discussione l’Immari Council – vale a dire Kane, Craig e lord Barton, ora mio suocero – ha deciso che dovevamo risalire lungo la struttura nella zona che contiene le sacche di metano. Questo ci ha rallentati, ma in queste ultime settimane abbiamo trovato segni della vicinanza di un ingresso di qualche genere. La superficie della struttura, di un metallo liscio e più duro dell’acciaio che non produce praticamente rumore quando lo colpisci, ha cominciato a inclinarsi. Una settimana fa abbiamo trovato degli scalini. La polvere si sta posando e vedo altri scalini. Rutger grida agli operai di lavorare più in fretta, come se questa cosa potesse andarsene da qualche parte. Dietro la cortina di polvere alle mie spalle sento uno scalpiccio e vedo arrivare di corsa il mio assistente. «Signor Pierce. C’è sua moglie in ufficio. La sta cercando». «Rutger!», grido. Lui si gira. «Prendo il camion. Non far scoppiare niente finché non torno io». «Scordatelo! Siamo vicini, Pierce». Io prendo la sacca con gli esplosivi e corro al camion. «Portami su», ordino al mio assistente. Sento Rutger tuonare peste e corna all’indirizzo della mia vigliaccheria. In superficie mi cambio in fretta e mi lavo le mani. Prima di poter arrivare in ufficio squilla il telefono del capannone e vedo venir fuori il direttore. «Spiacente, signor Pierce, è andata via». «Che cosa le hanno detto?» «Non so, signore, non ne ho idea». «Non stava bene? Stava andando in ospedale?». Il direttore si stringe nelle spalle. «Non… non ho chiesto… mi spiace…». Sono fuori e già in macchina prima che finisca. Mi precipito all’ospedale, ma lei non c’è e non l’hanno vista. Dall’ospedale il centralino mi mette in comunicazione con il telefono che abbiamo installato da poco a casa nostra. Suona dieci volte. La centralinista stacca. «Mi spiace, signore, non risponde…». «Lo faccia squillare. Aspetto». Altri cinque squilli. Altri tre e risponde Desmond, il nostro maggiordomo. «Residenza Pierce, parla Desmond». «Desmond, la signora Pierce è a casa?» «Sì, signore». Aspetto. «Be’, passamela allora», dico poi cercando senza successo di nascondere il mio nervosismo. «Naturalmente, signore!», risponde lui imbarazzato. Non è abituato al telefono. Probabilmente è per questo che ha impiegato tanto a rispondere. Passano tre minuti e sento di nuovo Desmond. «Non è nella sua stanza, signore. Devo mandare Myrtle a cercarla…». «No. Vengo subito». Corro fuori e salto in macchina. Ordino al mio assistente di schiacciare il pedale a tavoletta. Giriamo a rotta di collo per le strade di Gibilterra, spedendo fuori strada più di una carrozza e mettendo in fuga pedoni e turisti a ogni svolta. Quando arriviamo a casa, salto giù, corro su per le scale, spalanco le porte e faccio irruzione nell’atrio. Un dolore lancinante mi martella la gamba a ogni passo che faccio e grondo di sudore, ma tengo duro, spinto dalla paura. Salgo lo scalone, corro alla nostra camera da letto ed entro senza bussare. Helena si gira di scatto chiaramente sorpresa di vedermi. E sorpresa nel vedere come sono ridotto, con il sudore che mi gocciola dalla fronte, la smorfia di dolore, l’affanno del respiro. «Patrick?» «Stai bene?», chiedo mentre mi siedo sul letto con lei e sposto la coperta pesante. Passo la mano sul suo addome gonfio. Lei si tira su a sedere. «Potrei chiederti la stessa cosa io. Certo che sto bene, perché non dovrei?» «Ho pensato che fossi venuta perché qualcosa non andava, magari c’era qualche problema…». Sospiro e tutta la trepidazione svanisce. La rimprovero con lo sguardo. «Il dottore ha detto che devi restare a letto». Lei si lascia andare contro i guanciali. «Prova tu a stare a letto per mesi e mesi…». Le sorrido mentre lei si rende conto di quello che ha appena detto. «Scusa, ma da quel che ricordo nemmeno tu eri molto bravo a fare il paziente». «No, hai ragione, non lo ero. Mi spiace di non averti incrociata. Cosa c’è?» «Come?» «Sei venuta in ufficio, no?» «Ah, sì. Volevo sapere se potevi scappare via per pranzo, ma mi hanno detto che eri già uscito». «Sì. Un… problema giù al porto». È la centesima volta che le mento. Non mi è diventato più facile, ma l’alternativa è molto peggiore. «I guai di essere un magnate delle spedizioni». Lei sorride. «Sarà per un altro giorno». «Forse fra qualche settimana, quando a pranzo andremo in tre». «Tre, certo. O magari quattro. Mi sento così grossa». «A vederti non pare». «Ma che fior di bugiardo che sei», dice. “Fior di bugiardo” è ancora poco. La nostra schermaglia è interrotta da dei colpi che sento nella stanza accanto. Mi giro da quella parte. «Stanno misurando il salotto e il tinello», dice Helena. Abbiamo già ristrutturato per far posto al neonato e allargare tre camere da letto per i figli. Per noi ho comprato una casa grande con annesso un cottage per la servitù e non capisco di che cos’altro dovremmo avere bisogno. «Ho pensato che potevamo aprire una sala da ballo con il parquet, come quella che c’è dai miei». Ogni uomo ha dei limiti. Helena può fare quello che vuole alla casa, non è questo il problema. «E se sarà un maschio?», chiedo. «Non temere». Mi accarezza la mano. «Non farò subire al tuo forte figlio americano le noiose complicazioni del ballo di società all’inglese. Ma avremo una bambina». Inarco le sopracciglia. «Lo sai?» «Lo sento». «Allora avremo bisogno di una sala da ballo», concludo sorridendo. «A proposito di balli, oggi hanno recapitato un invito. L’assemblea annuale e il ballo di Natale dell’Immari. Quest’anno sarà a Gibilterra. Sarà una festa in grande stile. Ho telefonato a mamma. Ci saranno anche loro. Vorrei andarci. Starò attenta, non temere». «Senz’altro, è deciso». 87 Adesso Kate faceva fatica a leggere. Il sole tramontava dietro le montagne e nel suo stomaco si addensava la paura. Diede un’occhiata a David. La sua espressione era quasi una maschera, indecifrabile. Forse incupita. Come se le avesse letto nel pensiero, Milo entrò nella grande stanza con il pavimento di legno portando una lanterna a gas. L’odore piacque a Kate. Chissà come, le diede sollievo. Il ragazzo posò la lanterna sul comodino, da dove la luce avrebbe rischiarato le pagine del diario. «Buonasera, dottoressa Kate», disse. Quando si accorse che David era sveglio, si illuminò. «E salve di nuovo, signor Ree…». «Mi chiamo David Vale ora. È bello rivederti, Milo. Sei cresciuto parecchio». «E non è tutto, signor David. Milo ha imparato quell’antica arte di comunicazione che conoscete come… inglese». David rise. «E l’hai imparata bene. Ai tempi mi ero chiesto se l’avessero buttata via o te l’avessero recapitata davvero. Parlo della stele di Rosetta». «Ah, finalmente il mio misterioso benefattore si rivela!». Milo s’inchinò di nuovo. «La ringrazio per il dono della sua lingua. E ora posso ripagare il regalo almeno parzialmente», e sollevò le sopracciglia in un’espressione enigmatica, «con il pasto della sera?» «Volentieri», rispose Kate ridendo. David guardò dalla finestra. L’ultimo spicchio di sole sparì dietro le montagne come un pendolo scompare oscillando nell’angolo del mobile che lo contiene. «È ora che ti riposi, Kate. È una camminata molto lunga». «Mi riposerò quando avremo finito. Leggere mi rilassa». Aprì di nuovo il diario. 23 dicembre 1917 Ancora non vedo bene finché la polvere non si sarà diradata. Poi non credo ai miei occhi. Abbiamo scoperto altri scalini, ma non è tutto, perché a destra degli scalini c’è… un’apertura, come uno squarcio nel metallo. «Siamo entrati!», prorompe Rutger, e si lancia nell’oscurità e nella polvere sospesa a mezz’aria. Io lo afferro, ma lui si libera. La mia gamba è un po’ migliorata, al punto che prendo una sola pillola al giorno, solo qualche volta due, ma non lo raggiungerò mai. «Vuole che lo seguiamo?», chiede il capo dei marocchini. «No», rispondo. Non sacrificherei nessuno di loro per salvare Rutger. «Passatemi uno degli uccelli». Prendo la gabbietta con il canarino, accendo la lampada del mio casco ed entro con circospezione. Lo squarcio è chiaramente il risultato di un’esplosione o di un contatto violento. Ma non siamo stati noi a provocarlo. Noi lo abbiamo solo trovato, le paratie di metallo sono spesse quasi un metro e mezzo. Mentre penetro nella struttura alla quale l’Immari ha dedicato sessant’anni di scavi e immersioni, mi sento finalmente invadere dalla soggezione. La prima area è un corridoio largo un metro e lungo dieci. Sfocia in una stanza circolare le cui meraviglie non saprei nemmeno cominciare a descrivere. La prima cosa che richiama la mia attenzione è una rientranza nella parete con quattro grossi tubi, come grandi condutture trasparenti o lunghi barattoli cilindrici di vetro messi in verticale, che arrivano fino al soffitto. Sono vuoti eccetto che per una vaga luce bianca e una nebbiolina sul fondo. Più avanti ce ne sono altri due. Uno mi sembra danneggiato. Il vetro è crepato e non c’è nebbia. Ma il tubo che c’è di fianco… c’è dentro qualcosa. Rutger lo vede nel momento in cui lo vedo io, e sembra che il tubo percepisca la nostra presenza. Mentre ci avviciniamo la nebbia si dissolve, come un telo che si ritrae per rivelare il suo segreto. È un uomo. No, una scimmia antropomorfa. O una via di mezzo. Rutger si gira verso di me e per la prima volta sul suo viso c’è un’espressione che non è di arroganza o disprezzo. È confuso. Forse impaurito. Di sicuro lo sono io. Gli poso una mano sulla spalla e riprendo la mia ispezione della sala. «Non toccare niente, Rutger». 88 24 dicembre 1917 In quel vestito Helena è radiosa. Il sarto ha impiegato una settimana a realizzarlo e mi è costato una piccola fortuna, ma è valsa la pena aspettare e vale fino all’ultimo scellino che gli ho dato. Helena è raggiante. Balliamo, dimenticando entrambi la sua promessa di non affaticarsi troppo. Non sono capace di dirle di no. Io per lo più sto in piedi senza muovermi, ma il dolore è sopportabile e forse per la prima volta nella nostra vita sulla pista da ballo siamo ben accoppiati. La musica rallenta, lei posa la testa sulla mia spalla e io mi dimentico l’uomo-scimmia nel tubo. Il mondo mi sembra di nuovo normale per la prima volta da quando è esplosa quella galleria sul Fronte occidentale. Poi, come la nebbia nel tubo, tutto si dissolve. La musica si ferma e parla lord Barton alzando un bicchiere. Sta brindando a me, il nuovo capo delle spedizioni dell’Immari, marito di sua figlia ed eroe di guerra. Cenni d’assenso da parte di molti dei presenti. Qualcuno scherza sul Lazzaro dei nostri tempi, tornato dall’aldilà. Si ride. Io sorrido. Helena mi stringe più forte. Finalmente Barton termina il suo discorso e gli invitati scolano champagne e mi fanno cenni di approvazione. Io mi profondo in uno stupido, piccolo inchino e riaccompagno Helena al nostro tavolo. In quel momento, per qualche ragione che non capisco, l’unica cosa a cui riesco a pensare è l’ultima volta in cui ho visto mio padre, il giorno prima di partire per la guerra. Quella sera si era ubriacato come uno scaricatore di porto e aveva perso il controllo, la prima, ultima e unica volta in cui l’abbia visto perdere il controllo. Quella sera mi ha raccontato della sua infanzia e io l’ho capito, o così ho creduto. Fino a che punto si può veramente capire un uomo? Vivevamo in una modesta casa nel centro di Charleston, West Virginia, di fianco alle abitazioni di quelli che lavoravano per mio padre. I suoi pari – altri imprenditori, mercanti e banchieri – abitavano dall’altra parte della città e a mio padre piaceva così. Si era messo a passeggiare per il soggiorno e parlava sputacchiando. Io ero seduto sul divano nella mia nuova uniforme marrone dell’esercito degli Stati Uniti con la mia singola barretta d’ottone da sottotenente sul colletto. «Sei stupido come un altro uomo che conoscevo e che si arruolò nell’esercito. Tornò di corsa a casa che sembrava pazzo di gioia. Agitava quella lettera come se gliel’avesse scritta il re in persona. Ce la lesse, ma allora non la compresi fino in fondo. Ci stavamo trasferendo in America, in un posto chiamato Virginia. La guerra tra gli Stati era scoppiata un paio d’anni prima. Non ricordo di preciso quando, ma a quel punto era diventata molto sanguinosa. Ed entrambe le parti avevano bisogno di altri uomini, corpi freschi per il tritacarne. Ma se eri abbastanza ricco, non eri tenuto ad andarci. Ci mandavi un sostituto. Un latifondista ricco del Sud assunse tuo nonno da mandare come sostituto. Un sostituto. L’idea di assoldare un altro uomo perché vada a morire in guerra per te, solo perché hai dei soldi… Questa volta quando cominceranno con le coscrizioni, in Senato farò in modo che nessuno possa mandare qualcuno al posto suo». «Non ci saranno coscritti. Gli uomini coraggiosi vanno spontaneamente a migliaia…». Lui aveva riso e si era versato di nuovo da bere. «Uomini coraggiosi a migliaia. Stupidi a vagonate. Ci vanno perché pensano di trovarvi gloria, magari fama e avventura. Non sanno quali sono i veri costi di una guerra. Il prezzo che c’è da pagare». Aveva scosso la testa e mandato giù un altro lungo sorso, svuotando quasi del tutto il bicchiere. «Presto la voce si diffonderà e dovranno fare una leva obbligatoria, come hanno fatto gli Stati durante la Guerra civile. All’inizio no, è successo anni dopo l’inizio della guerra, quando la gente ha cominciato a provarci gusto, è allora che sono cominciate le coscrizioni e che i ricchi hanno iniziato a scrivere ai poveri come mio padre. Ma sulla frontiera canadese la posta è lenta, specialmente se sei un boscaiolo che vive lontano dalle città. Per quando siamo arrivati noi in Virginia, quel latifondista aveva già assunto un altro sostituto, aveva detto che non aveva avuto risposta da tuo nonno, aveva paura di essere costretto ad andarci di persona, che Dio lo scampi. Ma noi ormai eravamo in Virginia e lui era determinato a fare fortuna, ed erano 1000 dollari quelli che si pagavano ai sostituti, erano tanti, se riuscivi a incassarli. Be’, lui non ci è riuscito. Ha trovato un altro latifondista e si è messo quella maledetta uniforme grigia e ci è morto dentro. Quando il Sud ha perso la guerra, la società è andata a rotoli e l’enorme pezzo di terra promesso a tuo nonno come pagamento fu acquistato per pochi centesimi da un piccolo faccendiere nordista sui gradini del tribunale di contea». A quel punto finalmente si era seduto con il bicchiere vuoto. «Ma questo è stato il più piccolo degli orrori della Ricostruzione. Ho guardato il mio unico fratello morire di febbre tifoidea mentre i soldati occupanti dell’Unione ci facevano fuori la casa, o quello che era, più che una casa una piccola baracca sgangherata nella piantagione. Il nuovo padrone voleva sbatterci fuori, ma mia madre lo convinse: se ci avesse lasciati restare, avrebbe lavorato per lui. E così fece. Lavorò in quella piantagione fino a morirci. Io avevo dodici anni quando decisi di mollarla e, a suon di passaggi, arrivai in West Virginia. Era difficile trovare da lavorare nelle miniere, ma avevano bisogno di ragazzini, e più piccoli erano meglio era, perché riuscivano a infilarsi nei passaggi più stretti. Dunque questo è il costo della guerra. Adesso lo sai. Tu almeno non hai famiglia. Ma è questo ciò che ti aspetta, morte e desolazione. Se ti sei mai chiesto perché sono stato così severo con te, così parco, così esigente, adesso lo sai. La vita è dura, lo è per tutti, ma per lo sciocco o il debole è l’inferno in Terra. Tu non sei né l’uno né l’altro. Ci ho pensato io a impedire che lo diventassi, ed è così che adesso mi ripaghi». «Questa guerra è diversa…». «È sempre la stessa guerra. Cambiano solo i nomi dei morti. È sempre per una sola cosa: quale gruppo di uomini ricchi si dividerà le spoglie. La chiamano “la Grande Guerra”. Bel lavoro di propaganda. È una guerra civile europea, l’unica cosa che resta da stabilire è quali re e regine si prenderanno quali fette di continente quando sarà finita. L’America non c’entra niente, è per questo che io ho votato contro. Gli europei hanno avuto il buonsenso di starsene alla larga dalla nostra guerra fratricida, e uno penserebbe che noi dovremmo avere il buonsenso di fare lo stesso con loro. In pratica è una faida familiare tra famiglie reali, sono tutti cugini». «E sono nostri cugini. La patria di nostra madre è con le spalle al muro. Loro verrebbero in nostro aiuto se rischiassimo di essere annientati». «Noi a loro non dobbiamo proprio niente. L’America è nostra. Abbiamo pagato per questa terra con il nostro sangue, il nostro sudore, le nostre lacrime, la sola valuta che abbia mai contato qualcosa». «Hanno un disperato bisogno di minatori. Una maggiore abilità nello scavare gallerie può contribuire ad accorciare la guerra. E tu vorresti che io restassi a casa? Quando posso salvare delle vite umane?» «Non puoi salvare vite». La sua espressione era di disgusto. «Non hai capito una sola parola di quello che ti ho detto, vero? Vattene. E se mai riesci a tornare dalla guerra, non venire qui. Fammi un favore, però, in cambio di tutto quello che ti ho dato. Quando capirai che stai combattendo la guerra di qualcun altro, vattene via. E non mettere su famiglia finché non ti sarai tolto quell’uniforme. Non essere crudele e avido come è stato lui. Per arrivare in quella piantagione in Virginia noi abbiamo dovuto attraversare le devastazioni del Nord. Lui sapeva in che cosa stava andando a cacciarsi e ci si è buttato a testa bassa. Quando vedrai la guerra con i tuoi occhi, capirai. Fai scelte migliori di quella che stai facendo oggi». Era uscito dalla stanza e non l’avevo più rivisto. Sono così perso nei ricordi che quasi non mi accorgo della gente che ci sfila davanti presentandosi e accarezzando la pancia di Helena. Noi siamo seduti davanti a loro come una coppia reale che presenzia a un cerimoniale. Ci sono decine di scienziati, arrivati senza dubbio in città per studiare la sala che abbiamo recentemente disseppellito. Ricevo i capi delle divisioni estere dell’Immari. È un’organizzazione vastissima. Arriva Konrad Kane. Ha gambe e braccia rigide, la schiena dritta come un palo, come se una sonda invisibile che gli passa da un’estremità all’altra gli impedisse di piegarsi. Ci presenta la donna al suo fianco, sua moglie. Il suo sorriso è caloroso e parla con cordialità, cosa che mi coglie di sorpresa. Sono un po’ imbarazzato per il mio atteggiamento scostante. Da dietro la schiena di lui sbuca un bambino che salta in grembo a Helena schiacciandole il ventre. Io lo afferro per un braccio, lo tiro via e lo rimetto giù. Digrigno i denti per la collera e il bambino sembra essere sul punto di mettersi a piangere. Konrad mi fissa negli occhi, ma la madre accoglie tra le braccia il figlioletto e lo ammonisce. «Fa’ attenzione, Dieter», dice. «Helena è incinta». Lei allunga la mano verso il bambino. «È tutto a posto. Dammi la mano, Dieter». Gli prende il braccio, lo attira vicino a sé e si posa la mano del bambino sulla pancia. «Lo senti?». Lui alza gli occhi su di lei e annuisce. Helena gli sorride. «Ricordo quando tu eri dentro il pancino della tua mamma. Ricordo il giorno in cui sei nato». Lord Barton viene a mettersi fra me e Konrad. «È ora». Guarda la donna e il bambino che tiene la mano sul ventre rotondo di Helena. «Con il vostro permesso, signore». Ci fa strada per un corridoio ed entra in una sala riunioni. Ad aspettarci ci sono gli altri apostoli dell’apocalisse: Rutger, Mallory Craig e un gruppo di altri uomini, soprattutto scienziati e ricercatori. Le presentazioni sono sbrigative. Questi individui sono evidentemente tutt’altro che colpiti dalla mia presenza. C’è un altro rapido giro di congratulazioni e iperboli, come se avessimo debellato la peste, poi si passa alle cose concrete. «Quando arriveremo fino in fondo, in cima alla scala?», chiede Konrad. Io so che cosa voglio dire, ma la curiosità ha la meglio. «Che cosa sono gli involucri che abbiamo trovato nella sala?». Mi risponde uno degli scienziati. «Li stiamo ancora studiando. Sembra che possano essere una specie di camere di sospensione». Fin lì ci ero arrivato anch’io, ma quando lo dice uno scienziato mi sembra meno fuori del mondo. «La sala è una specie di laboratorio?». Gli scienziati annuiscono. «Sì. Secondo noi siamo di fronte a un edificio scientifico, probabilmente un laboratorio gigantesco». «E se non fosse un edificio?». Lo scienziato sembra disorientato. «Cos’altro potrebbe essere?» «Una nave», dico io. Barton scoppia a ridere. «Buona questa, Patty», esclama gioviale. «Ma perché non ti occupi dello scavo e lasci la scienza ai qui presenti?». Si gira verso gli scienziati. «Ti assicuro che in questo ci sanno fare meglio di te. Dunque, Rutger ci ha detto che sei preoccupato per l’acqua e il gas al di sopra della scala. Che cosa hai in mente?» «Le pareti», insisto io. «Dentro la struttura. Sembrano le paratie di una nave». Quello che dev’essere il portavoce della delegazione di scienziati esita per qualche secondo, poi decide di rispondermi. «Sì, è vero», ammette. «Ma sono troppo spesse, quasi due metri. Nessuna nave avrebbe bisogno di pareti così spesse, e non potrebbe mai galleggiare. Inoltre la struttura è troppo larga per essere una nave. È una città, di questo siamo abbastanza sicuri. E ci sono le scale. Delle scale a corpo pieno come queste su una nave sarebbero una notevole stranezza». Barton alza una mano. «Risolveremo tutti questi misteri dopo che saremo entrati. Ci puoi dare un’approssimazione sui tempi, Pierce?» «No». «Perché no?». Per un breve momento la mia mente torna a quella sera in West Virginia, poi sono di nuovo presente, al cospetto dell’Immari Council e degli scienziati. «Perché ho chiuso con quello scavo. Trovate qualcun altro», rispondo. «Ehi, calma, ragazzo mio, questo non è un club, un’attività di svago a cui ti iscrivi e da cui te ne vai quando i doveri ti diventano troppo scomodi. Finirai il lavoro e manterrai la tua promessa», mi ammonisce lord Barton. «Avevo detto che vi avrei fatto entrare e così è stato. Questa non è la mia guerra. Ora ho una famiglia». Barton si gonfia il petto pronto ad alzare la voce, ma Kane lo afferra per un braccio e lo precede prendendo la parola per la prima volta. «Ha detto guerra. Interessante scelta di parole. Mi dica, signor Pierce, secondo lei che cosa c’è in quell’ultimo tubo?» «Non lo so e non m’importa». «Sbaglia», dice Kane. «Non è umano e non corrisponde a nessuno scheletro di quelli che abbiamo mai rinvenuto». Attende la mia reazione. «Vediamo di unire un po’ di punti per lei, visto che lei sembra non poterlo o non volerlo fare. Qualcuno ha costruito questa struttura ed è l’esempio di tecnologia più avanzato che esista sul pianeta. E chi lo ha costruito lo ha fatto migliaia di anni fa, forse centinaia di migliaia. Quell’essere congelato, mezzo uomo e mezzo scimmia, è là dentro da chissà quante migliaia di anni. In attesa». «In attesa di cosa?» «Non lo sappiamo, ma le posso assicurare che quando lui e gli altri che hanno costruito questa struttura si sveglieranno, per la razza umana di questo pianeta sarà la fine. Dunque lei dice che questa non è la sua guerra, e invece lo è. Non può sottrarsi a questa guerra, non può semplicemente astenersi o trasferirsi altrove, perché questo nemico ci inseguirà fin nei più remoti angoli del mondo e ci sterminerà». «Dando per scontato che siano ostili», obietto. «Siccome voi siete ostili, i vostri pensieri sono dominati da sterminio e guerra e sete di potere, e così pensate che sia lo stesso per loro». «La sola cosa che sappiamo con sicurezza è che quel coso è una ancora non identificata forma di uomo. I miei presupposti sono validi. E pratici. Uccidere loro garantisce la sopravvivenza a noi. Stringere amicizia con loro no». Rifletto su quello che ha detto e mi vergogno di dover ammettere che lo trovo sensato. Kane sembra accorgersi della mia titubanza. «Sa che è così, Pierce. Sono più intelligenti di noi, infinitamente più intelligenti. Se ci lasciano vivere, anche solo alcuni di noi, per loro non saremo niente più che animali da compagnia. Forse ci alleverebbero in maniera che fossimo docili e amichevoli, ci getterebbero bocconcini da mangiare intorno ai loro proverbiali fuochi da bivacco, eliminerebbero quelli aggressivi nella stessa maniera in cui noi molte migliaia di anni fa abbiamo addomesticato i lupi trasformandoli in cani. Ci civilizzerebbero a tal punto che non sapremmo nemmeno immaginare di reagire, non sapremmo più cacciare e non sapremmo nutrirci da soli. Forse sta già accadendo e noi non lo sappiamo. Ma forse non ci troverebbero così simpatici. Potremmo diventare i loro schiavi. È un concetto che dovrebbe tornarle familiare, credo. Un gruppo di umani brutali ma intelligenti, dotati di tecnologie all’avanguardia, soggioga un gruppo meno evoluto. Stavolta però sarebbe per il resto dell’eternità. Noi non ci evolveremmo più. Ci pensi. Eppure, possiamo impedire che vada così. Sembra crudele assassinarli nel sonno, ma consideri l’alternativa. Quando la storia conoscerà la verità, verremo celebrati come eroi. Noi siamo i liberatori della razza umana, gli emancipatori…». «No. Qualsiasi cosa accada qui, accadrà senza di me». Non riesco a togliermi dalla mente il viso di Helena, il pensiero di noi e il nostro bambino, di invecchiare sulle sponde di qualche lago, insegnare ai nostri nipoti ad andare a pescare d’estate. Non posso essere io a fare una differenza nei progetti dell’Immari. Troveranno un altro minatore. Forse ritarderanno di qualche mese, ma qualunque cosa ci sia là sotto non dovrà fare altro che aspettare. Mi alzo e per un lungo momento osservo Kane e Barton. «Signori, dovete scusarmi. Mia moglie aspetta un bambino e devo riportarla a casa». Mi rivolgo esclusivamente a Barton. «Noi aspettiamo il nostro primo figlio. Le auguro quanto di meglio per il suo progetto. Come sa, sono stato un soldato. E i soldati sanno mantenere i segreti. Quasi bene quanto sono bravi a combattere. Io però spero che le mie battaglie siano il mio passato e non il mio futuro». David si issò a sedere. «So cosa sta facendo». «Chi?» «L’Immari. Il Protocollo Toba. Adesso è chiaro. Stanno allestendo un esercito. Sono pronto a scommetterci. Credono che l’umanità stia per affrontare un nemico più evoluto di noi. Il Protocollo Toba è un piano per ridurre la popolazione mondiale, provocare un collo di bottiglia genetico e un secondo Grande balzo in avanti. Lo stanno facendo per creare una razza di supersoldati, esseri umani più evoluti in grado di sostenere una battaglia contro coloro che hanno costruito quella cosa che c’è a Gibilterra». «Forse. C’è dell’altro. In Cina c’era una macchina. Credo che abbia qualcosa a che fare con tutto questo», disse Kate. Raccontò a David la sua esperienza in Cina, gli disse dell’oggetto a forma di campana che aveva massacrato la gente che vi si trovava sotto prima di fondersi e infine esplodere. Quand’ebbe finito, David stava annuendo. «Credo di sapere cos’è». «Davvero?» «Sì. Forse. Continua a leggere». 89 18 gennaio 1918 Quando il maggiordomo entra precipitosamente nel mio studio, il mio primo pensiero va a Helena: le si sono rotte le acque… o è caduta, o… «Signor Pierce, c’è il suo ufficio in linea. Dicono che è importante, urgente. È per il porto, il magazzino». Scendo nell’ufficio del maggiordomo e prendo il telefono. Mallory Craig comincia a parlare prima che io abbia aperto bocca. «Patrick. C’è stato un incidente. Rutger non ha permesso loro di chiamarti, ma io ho pensato che dovessi saperlo. Ha esagerato. È voluto andare troppo avanti, troppo in fretta. Alcuni dei lavoratori marocchini sono rimasti intrappolati, dicono…». Sono fuori della porta prima che abbia finito. Corro in macchina al magazzino e salto sul camion di fianco al mio ex assistente. Filiamo a rotta di collo come ha fatto Rutger il giorno in cui mi fece visitare lo scavo. L’idiota ci è riuscito, ha esagerato e ha provocato un crollo. Tremo all’idea di quello che dovrò vedere, ma incito lo stesso il mio assistente perché vada il più veloce possibile. Quando sbuchiamo dalla galleria nell’enorme cavità di pietra in cui ho lavorato negli ultimi quattro mesi, noto che le luci sono spente, eppure non è buio, ci sono una decina di raggi di luce che si incrociano: sono quelle sui caschi dei minatori. Un uomo, il caposquadra, mi artiglia un braccio. «Rutger la cerca all’apparecchio, signor Pierce». «Al telefono», dico io mentre mi incammino nell’area che è rimasta al buio. Mi fermo. Ho dell’acqua sulla fronte. È sudore? No, ecco un’altra… goccia. Una goccia d’acqua dal soffitto. Trasuda. Mi metto al telefono. «Rutger, dicono che c’è stato un incidente. Dove sei?» «Al sicuro». «Non è il momento di giocare. Dov’è l’incidente?» «Oh, sei nel posto giusto». Il tono di Rutger è tronfio e tranquillo. Tronfio. Mi guardo intorno. I minatori non sanno cosa fare, sono confusi. Perché le luci sono spente? Poso la cornetta e mi avvicino al cavo della corrente. È collegato a un cavo nuovo. Lo illumino con la mia lampada e ne seguo il percorso. Sale lungo la parete… fino al soffitto e da lì sulle scale, fino… «Fuori!», urlo. Arranco sul fondo irregolare verso la galleria e cerco di organizzare gli operai, che nella concitazione inciampano l’uno sull’altro in un lampeggiante caleidoscopio di luci e ombre. Un boato sopra di noi si riverbera nella caverna e cominciano a cadere pezzi di roccia. L’antro si riempie di polvere ed è come i tunnel del Fronte occidentale. Non posso salvarli. Non riesco nemmeno a vederli. Io mi trascino nella galleria, il corridoio che porta al laboratorio. La polvere mi segue e sento le macerie che sbarrano l’ingresso. Le grida si spengono in lontananza, così, come una porta che si chiude, e io sono nell’oscurità totale, se non per il fioco bagliore bianco e la nebbia dentro i tubi. Non so quanto tempo è passato, ma ho fame. Molta fame. La lampada del mio casco si è esaurita da un pezzo e io sono in questa oscurità silenziosa appoggiato al muro e penso. Helena dev’essere impazzita di ansia. Scoprirà finalmente il mio segreto? Mi perdonerà? Tutto questo presuppone che io esca da qui. Sull’altro lato del crollo sento dei passi. E delle voci. Sono suoni che mi giungono flebili, ma c’è quel tanto di spazio tra le macerie che mi permette di sentirli. «Ehiiii!». Devo scegliere con attenzione le parole. «Vai all’apparecchio e chiama lord Barton. Digli che Patrick Pierce è intrappolato nella miniera». Sento ridere. Rutger. «Sei un sopravvissuto, Pierce, te lo devo. Sei un minatore in gamba, ma quanto a giudicare le persone, hai la testa più dura delle pareti di questa struttura». «Barton non ti perdonerà di avermi ucciso». «Barton? Ma tu chi credi che abbia dato l’ordine? Pensi che io avrei potuto farti fuori così, come se niente fosse? Allora mi sarei sbarazzato di te già da tempo. No. Barton e mio padre avevano deciso che io e Helena ci saremmo sposati prima ancora che fossimo nati. Ma a lei l’idea non piaceva tanto, dev’essere per questo che allo scoppio della guerra è saltata sul primo treno per Gibilterra. Però non possiamo sfuggire al nostro destino. Lo scavo ha portato qui anche me e la vita stava per rientrare nel suo giusto binario, finché quella fuga di metano non ha ucciso i miei minatori e sei arrivato tu. Barton ha fatto un patto, ma ha promesso a papà che lo si poteva disfare. La gravidanza è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, però non temere, ne avrò cura io. Sono così tanti i bambini che muoiono appena nati di ogni sorta di mali misteriosi. Non ti preoccupare, ci sarò io a consolarla. Ci conosciamo da secoli». «Io uscirò da qui, Rutger. E quando sarò fuori, ti ammazzerò. Mi hai sentito?» «Bada a come parli, Patty caro. Qui ci sono degli uomini che stanno lavorando». Si allontana dall’imboccatura del corridoio ostruita dalle macerie. Grida qualcosa in tedesco e sento passi in giro per la caverna. Per qualche ora, non so quante, perquisisco il misterioso laboratorio. Non c’è niente che possa usare. Tutte le porte sono sprangate. Questa sarà la mia tomba. Dev’esserci una via d’uscita. Alla fine mi siedo a fissare le pareti e aspetto guardandole luccicare come vetro, quasi riflettendo la luce che c’è nei tubi, ma non del tutto. È un riflesso spento, un po’ come quello dell’acciaio lucidato. Da sopra mi arrivano ogni tanto i rintocchi di martelli pneumatici e picconi. Stanno cercando di finire il lavoro. Devono essere vicini alla cima della scala. All’improvviso i rumori cessano e sento gridare. «Wasser! Wasser!». Acqua. Devono aver colpito… Poi boati potenti. Il frastuono inconfondibile di una cascata di pietre. Corro all’ingresso a tendere l’orecchio. Urla, scrosci d’acqua. Qualcos’altro. Un battito. Una pulsazione. Che cresce velocemente d’intensità. Altre grida. Uomini che corrono. Il camion che riparte. Mi sforzo, ma non sento altro. In assenza di rumori, mi accorgo di avere le gambe immerse in mezzo metro d’acqua. Sta filtrando attraverso il cumulo di macerie, e sta entrando rapidamente. Torno nel corridoio. Dev’esserci una porta per accedere al laboratorio. Batto i pugni sulle pareti, ma non serve a niente. Adesso l’acqua è arrivata fin dove sono io, fra poco ne sarò sommerso. Il tubo. È aperto, uno dei quattro. Che scelta ho? Cammino nell’acqua e mi accascio dentro il tubo. La nebbia mi avvolge e lo sportello si chiude. 90 Snow Camp Alpha Sito trivellazione n. 6 Antartide orientale Dentro il suo guscio, Robert Hunt si scaldava le mani su una tazza di caffè bollente appena fatto. Dopo il quasi disastro dell’ultima perforazione, era contento di aver raggiunto i duemila metri senza colpo ferire. Niente sacche di aria, di acqua, o sedimenti. Forse il prossimo posto sarebbe stato come i primi quattro, nient’altro che ghiaccio. Bevve il caffè e rifletté su che cosa poteva spiegare la differenza riscontrata nell’ultimo punto dove avevano trivellato. All’esterno del guscio partì un suono stridulo, l’inequivocabile rotazione di una trivella che trova una frizione scarsa o nulla. Uscì di corsa, scambiò un’occhiata con l’operatore e si passò la mano di taglio davanti alla gola. L’operatore si precipitò ad azionare l’interruttore che fermava i macchinari. Stava imparando, grazie al cielo. Robert raggiunse la piattaforma. Il tecnico si girò verso di lui. «La tiriamo fuori?», domandò. «No». Robert controllò la profondità. 2225 metri. «Mandala giù. Vediamo quanto è profonda la sacca». Il tecnico fece scendere la trivella e Robert tenne d’occhio la progressione: 2250… 2260… 2275… 2290… 2315. Si fermò a 2323. Robert si mise a pensare febbrilmente. Una caverna a quasi 2500 metri di profondità sotto il ghiaccio. Poteva essere qualcosa sulla superficie del suolo. Ma cosa? La caverna o sacca, qualunque cosa fosse, era alta un centinaio di metri. Il soffitto era distante dal pavimento per una lunghezza pari a quella di un campo da football. Le leggi della gravità non funzionavano in quel modo. Che cosa poteva avere la forza di reggere una volta di ghiaccio spessa più di due chilometri? «Riprendiamo a scavare?», chiese il tecnico. Robert, ancora assorto nei suoi pensieri, agitò una mano in direzione del quadro comandi e brontolò: «No. Mmm, no, non fare niente. Devo prima avvertire». Tornato nel suo guscio, si mise alla radio. «Bounty, qui Snow King. Ho un aggiornamento». Passò qualche secondo prima che la radio si mettesse a gracchiare. «Ti sento, Snow King», disse una voce. «Abbiamo incontrato una sacca a due due due cinque, ripeto due due due cinque. Sacca finisce a due due due tre, ripeto due due due tre. Attendo istruzioni. Passo». «Attendi, Snow King». Robert cominciò a preparare dell’altro caffè. Probabilmente la sua squadra ne aveva bisogno. «Snow King, qual è la situazione della trivella, passo». «Bounty, la trivella è ancora nella perforazione alla profondità massima, passo». «Ricevuto, Snow King. Le istruzioni sono le seguenti: estrarre la trivella, chiudere la piattaforma e procedere a sito sette. Attendi le coordinate GPS». Come la volta precedente, trascrisse le coordinate e subì rassegnato le inutili raccomandazioni sulla necessità di tenere i contatti. Ripiegò il foglio con le coordinate GPS e se lo mise in tasca, poi si alzò, prese le due tazze di caffè appena fatto e uscì dal guscio. Estrassero la trivella e si prepararono a chiudere la postazione. Lavorarono tutti e tre con efficienza, quasi meccanicamente, e in silenzio. Dal cielo sarebbero potuti apparire come tre versioni eschimesi di soldatini indaffarati ad accatastare casse, aprire grandi ombrelli bianchi per coprire gli oggetti più piccoli e ancorare pali bianchi di metallo con cui tendere un enorme telo a proteggere la piattaforma. Quand’ebbero finito, i due tecnici salirono sulle loro motoslitte e aspettarono che Robert facesse loro strada. Robert posò il braccio sul cassone di plastica che conteneva le telecamere e contemplò il sito. Due milioni di dollari erano un sacco di soldi. I due uomini lo guardavano. Avevano messo in moto i loro veicoli, ma uno dei due spense il motore. Robert spazzò via un po’ di neve dal cassone e aprì uno dei ganci. Fu sorpreso da uno sfrigolio della radio. «Snow King, Bounty. SITREP». Robert schiacciò il pulsante ed esitò per un secondo. «Bounty, qui Snow King». Lanciò un’occhiata ai suoi uomini. «Stiamo evacuando il sito ora». Richiuse il gancio e per qualche attimo rimase interdetto. Era molto strano. Il silenzio radio, tutta quella segretezza. Ma che cosa ne sapeva lui? Era pagato per perforare. Forse non stavano facendo niente di male, forse semplicemente non volevano che la stampa raccontasse a mezzo mondo i loro affari. Niente di sbagliato in questo. Farsi licenziare per essere stati troppo curiosi non era accettabile. E lui non era così stupido. Immaginò se stesso che diceva al figlio: «Mi spiace, il college dovrà aspettare. Ora come ora non me lo posso permettere. Sì, avrei potuto, ma non sopportavo di non sapere…». Ma ancora una volta… se c’era qualcosa di illegale e lui ne era complice… «Figliolo, non puoi andare al college perché tuo padre è un criminale internazionale e, per la cronaca, era troppo imbecille per rendersene conto». Anche l’altro tecnico spense la sua motoslitta. Lo guardavano tutti e due. Robert tornò a piedi dove avevano lasciato le attrezzature mimetiche in eccesso. Prese un ombrellone bianco chiuso, lungo quasi tre metri, e tornò indietro a legarlo alla sua motoslitta. Mise in moto e partì verso il luogo della perforazione successiva. I due tecnici lo seguirono immediatamente. Trenta minuti dopo, Robert vide un roccione che emergeva dalla neve. Si inclinava in avanti come una tettoia, creando uno spazio semichiuso che poteva sembrare una caverna e proiettando sulla distesa innevata un’ombra molto lunga. Modificò la rotta in maniera da passarci vicino e all’ultimo secondo sterzò, infilandosi nel buio dell’ombra. I due tecnici, che lo seguivano da presso, furono tempestivi nell’imitarlo e si parcheggiarono accanto a lui. Robert era ancora seduto. Nessuno degli altri due smontò dalla propria motoslitta. «Ho dimenticato qualcosa. Torno subito. Non ci metterò molto. Aspettate qui e, ehm, non uscite da qua sotto». Nessuno dei due disse niente. Robert sentiva crescere il nervosismo dentro di sé. Come bugiardo, faceva schifo. Tenne duro lo stesso, sperando di dare legittimità agli ordini che stava impartendo. «Ci hanno chiesto di minimizzare la nostra visibilità dal cielo». Aprì l’ombrellone bianco e lo piantò accanto a sé, ancorandolo alla motoslitta, come un cavaliere medievale che imbraccia la lancia e prepara il suo destriero per la carica. Uscì da sotto la roccia a marcia indietro e ripartì nella direzione da cui era arrivato. 91 Monastero Immaru Regione autonoma del Tibet Kate sbadigliò e voltò pagina. Faceva freddo e adesso lei e David si erano protetti avvolgendosi in una coperta pesante. «Finiscilo in viaggio», le consigliò David. Il sonno gli aveva appesantito le palpebre. «Dovrai fermarti spesso». «D’accordo», disse lei, «ma voglio prima arrivare a un punto giusto». «Da bambina restavi sveglia a leggere a letto?» «Quasi tutte le sere. E tu?» «Videogame». «Prevedibile». «Qualche volta Lego». Sbadigliò anche David. «Quante pagine mancano?». Kate controllò. «Non molte, per la verità. Poca roba. Io reggo ancora, se ce la fai anche tu». «Come ho già detto, ho dormito abbastanza. E domani non ho una scarpinata da fare». Mi sveglio nel sibilo sottile dell’aria che entra nel tubo che si sta aprendo. Dapprima l’aria mi ingolfa, come se avessi acqua nei polmoni, ma dopo qualche boccata profonda di aria fredda e umida il mio respiro si normalizza e posso valutare la situazione in cui mi trovo. La stanza è ancora immersa nell’oscurità, però dal corridoio entra nel laboratorio una debole lama di luce. Esco dal tubo e vado verso la porta guardandomi intorno. Nessuno degli altri tubi è occupato, solo quello con l’essere mezzo uomo e mezzo scimmia, che a quanto pare ha dormito senza problemi durante tutta l’inondazione. Mi chiedo quante ne abbia passate mentre dormiva. In corridoio ci sono ancora un paio di spanne d’acqua. Abbastanza da accorgersene, ma non abbastanza da rallentarmi. Procedo verso lo squarcio con i piedi a bagno. Le macerie che mi hanno imprigionato qui dentro sono quasi completamente scomparse, senza dubbio portate via dalla forza della marea. Sopra di me vedo un fioco chiarore color ambra, illumina i frammenti di roccia rimasti, che sposto per uscire nella stanza. La fonte di quella luce strana è sospesa dieci metri sopra la mia testa, in cima alle scale. Sembra una campana, o un pedone da scacchi di dimensioni inusitate, con delle feritoie nella parte superiore. Mentre lo osservo cercando di capire cosa sia, ho l’impressione che mi fissi; le luci pulsano lentamente, come batte il cuore di un leone dopo aver divorato una preda nel Serengeti. Resto immobile aspettando di sapere se ha intenzione di aggredirmi, ma non succede niente. La mia vista si sta abituando e con il passare dei secondi metto meglio a fuoco tutta la stanza. Il pavimento è una nauseante poltiglia di ceneri, terra e sangue. Sul fondo vedo i corpi dei minatori marocchini schiacciati dal crollo. Sopra di loro giacciono prostrati gli europei, dilaniati, alcuni carbonizzati, tutti mutilati da un’arma che non so immaginare. Non è un’esplosione o un colpo d’artiglieria o un assalto all’arma bianca. Non sono morti di recente. Le ferite sono vecchie. Quanto tempo sono rimasto quaggiù? Esamino i corpi nella speranza di vederne uno in particolare. Ma Rutger non c’è. Mi strofino la faccia. Devo concentrarmi. Devo tornare a casa. Helena. Il camion non c’è più. Sono debole, stanco e affamato e in questo momento non so se vedrò mai più la luce del sole, però comincio a mettere un piede dietro l’altro e mi avvio nella difficile risalita verso l’esterno. Mentre arranco con tutte le mie forze, mi preparo a dover affrontare il dolore, che invece non viene. A spingermi a uscire da questo posto sono un fuoco e un furore che non credevo di possedere. La miniera sfila intorno a me e vedo la luce uscendo dall’ultima curva della spirale. Hanno coperto l’ingresso della galleria con una tenda bianca o un lenzuolo. Lo scosto e mi ritrovo circondato da soldati in strane tute di un materiale lucido e con le maschere antigas. Mi piombano addosso e mi inchiodano a terra. Un soldato più alto degli altri si sporge sopra di me. Nonostante la tuta ne nasconda la struttura fisica, lo riconosco lo stesso. È Konrad Kane. Uno di quelli che mi tengono prigioniero si gira a parlargli attraverso la maschera. «È appena uscito, signore», dice con una voce ovattata dal respiratore. «Portatelo di là», ordina Kane con una voce sorda che sembra provenire dall’aria. Gli uomini mi portano verso una zona del capannone in cui sono state erette sei tende bianche che mi ricordano un ospedale da campo. Nella prima tenda ci sono file su file di brande, tutte coperte da teli bianchi. Nella tenda accanto sento gridare. Helena. Mi dibatto, ma sono troppo debole, sfinito dalla mancanza di cibo, dalla lunga risalita nella galleria e da qualunque cosa mi abbia fatto quel tubo. Mi tengono con mani salde, io però continuo a lottare. Ora la sento distintamente, è in fondo alla tenda, dietro un lenzuolo bianco. Tento di correre, ma i soldati mi trattengono e mi accompagnano lungo la corsia e passando vedo bene tutti quelli che giacciono morti sulle brande. Il cuore mi si riempie di orrore. Ci sono lord Barton e lady Barton. Rutger. La moglie di Kane. Tutti morti. E ci sono altri ancora, persone che non riconosco. Scienziati. Soldati. Infermiere. Passiamo davanti a una branda su cui c’è un bambino, il figlio di Kane. Dietrich? Dieter? Sento i dottori che parlano a Helena e quando giriamo intorno al lenzuolo appeso, li vedo intorno a lei, uno di loro le sta iniettando qualcosa, un altro la costringe a restare sdraiata. Mi dibatto, prigioniero dei miei angeli custodi. Kane si gira verso di me. «Voglio che tu veda questo, Pierce. Voglio che tu la guardi morire come io ho guardato morire Rutger e Marie». Mi trascinano vicino a lei. «Cos’è successo?», chiedo. «Hai scatenato l’inferno, Pierce. Avresti potuto aiutarci. Quella cosa che c’è là sotto ha ucciso Rutger e metà dei suoi uomini. Quelli che sono riusciti a riemergere dalla miniera erano malati. Una peste come nessuno avrebbe mai potuto immaginare. Ha devastato Gibilterra e si sta diffondendo in tutta la Spagna». Apre di più la tenda bianca mostrandomi la scena intera: Helena che si contorce nel letto circondata da tre uomini e due donne che tentano concitatamente di assisterla. Io mi libero dei miei guardiani e Kane alza una mano indicando loro di lasciarmi stare. Corro da lei, le sposto i capelli per baciarla sulla guancia e poi sulla bocca. Scotta. Sentire la sua pelle bollente mi terrorizza e lei se ne accorge. Mi accarezza la faccia con la punta delle dita. «Non è niente di grave, Patrick. È solo influenza. È quella che chiamano “spagnola”. Passerà». Alzo gli occhi su uno dei dottori. Lui abbassa la testa. Mi affiora una lacrima e mi scivola lentamente sulla guancia. Helena me la toglie con un dito. «Sono così felice di vederti sano e salvo. Mi avevano detto che eri rimasto ucciso in un incidente in miniera mentre cercavi di salvare i marocchini che lavoravano per te». Mi posa la mano sulla guancia. «Così coraggioso». Stacca la mano da me per portarsela alla bocca e cercare di reprimere la tosse che le scuote tutto il corpo e fa dondolare il lettino su cui è adagiata. Si tiene il ventre gonfio con l’altra mano, tenta di non urtare le sponde di metallo del letto. Tossisce per quella che mi sembra un’eternità. È come se le si stessero squarciando i polmoni. Io le tengo le spalle. «Helena…». «Ti perdono. Per non avermelo detto. So che l’hai fatto per me». «Non mi perdonare, ti prego, non farlo». Un’altra crisi di tosse la devasta e i dottori mi spingono via. Le danno dell’ossigeno, ma non sembra servire. Guardo. E piango. E Kane guarda me. Helena scalcia e si dibatte… e quando il suo corpo si accascia inerte, io mi giro verso Kane e la mia voce è piatta, esanime, quasi come la voce che esce dalla maschera antigas. In quel preciso istante, in quell’ospedale dell’Immari, stipulo un patto con il diavolo. Le lacrime bagnavano il viso di Kate. Chiuse gli occhi e non era in Tibet a letto con David. Era di nuovo a San Francisco, su una lettiga, in una fredda notte di cinque anni prima. La stavano trasportando di corsa dall’ambulanza dentro l’ospedale. C’erano medici e infermiere che gridavano intorno a lei e lei gridava a loro, ma nessuno l’ascoltava. Aveva afferrato il braccio di un dottore. «Salvate il mio bambino, se è tra me e il bambino, salvate…». Il dottore aveva ritratto bruscamente il braccio. «Sala Due!», aveva gridato al corpulento paramedico che spingeva la lettiga. «Subito!». Il paramedico si era messo a correre, qualcuno le aveva applicato la mascherina sulla bocca e lei aveva tentato invano di non addormentarsi. Si era svegliata in una grande stanza d’ospedale vuota. Le doleva dappertutto. C’erano dei tubicini che le partivano da un braccio. Si era toccata subito il ventre, ma già sapeva prima di posare le mani. Aveva sollevato il camice e visto la brutta, lunga cicatrice. Si era presa la testa tra le mani e aveva pianto, per quanto tempo non sapeva. «Dottoressa Warner?». Kate aveva alzato gli occhi di scatto. Piena di speranza. L’infermiera davanti a lei era a disagio. «Il mio bambino?», aveva chiesto Kate con la voce rotta. L’infermiera aveva abbassato gli occhi. Kate era ricaduta sul guanciale. Questa volta le lacrime erano sgorgate a fiotti. «Signora, non sapevamo, non c’era nessun messaggio in caso di emergenza nella sua cartella, dovremmo… c’è nessuno che dovremmo chiamare? Il… padre?». Un accesso di furore arginò l’ondata di lacrime. I sette mesi di idillio sentimentale, le cenette, l’incantesimo. L’imprenditore del web che sembrava cavalcare la tigre, quasi troppo bello per essere vero. Il presunto errore nel sistema contraccettivo. La sua magica sparizione. La decisione di tenere il bambino. «No, non c’è nessuno da avvertire». David la strinse forte e le asciugò le lacrime. «Di solito non sono così sentimentale», mormorò Kate tra i singhiozzi. «È solo che… quando ero a…». Era come se una diga avesse ceduto, sentimenti e sensazioni che aveva tenuto nascoste le si riversarono nella mente e nel cuore. Sentì formarsi le parole, pronte a uscirle dalla bocca, una storia che era pronta a rivelare per la prima volta a un uomo, qualcosa che solo pochi giorni prima era ancora inimmaginabile. Si sentiva così sicura con lui. Anzi, c’era di più. Si fidava di lui. «Lo so». David le asciugò dalle guance una nuova ondata di lacrime. «La cicatrice. Capisco». Le sfilò il diario dalle mani. «Basta leggere per stasera. Riposiamoci un po’». L’aiutò a stendersi accanto a sé e si addormentarono insieme. 92 Sala operativa Quartier generale Clocktower Nuova Delhi, India «Signore, siamo abbastanza sicuri di averli individuati», disse il tecnico. «Abbastanza quanto?», chiese Dorian. «I nostri due esploratori a terra. Gente del luogo ha detto loro che in questa regione è passato un treno». Il tecnico usò un raggio laser per circolettare sullo schermo gigante una zona di montagne e foreste. «La linea è ufficialmente abbandonata, quindi non può essersi trattato di un treno merci. E i droni hanno rilevato la presenza di un monastero poco distante». «Dove sono quei droni adesso?». Il tecnico digitò qualcosa sul suo laptop. «A qualche ora…». «Come? Gesù, ma se ci eravamo sopra!». «Non c’era scelta, signore, dovevano fare rifornimento. Potranno essere di nuovo in volo tra un’ora. Ma… ormai è buio. L’immagine satellitare è di qualche tempo fa. Sarà…». «Non hanno gli infrarossi?». Il tecnico lavorò alla sua tastiera. «No. Quello che…». «Nessuno dei droni in zona ha gli infrarossi?», tagliò corto Dorian. «Un momento». Le immagini del video del computer si riflettevano negli occhiali del tecnico. «Sì, un po’ più distanti, ma possono raggiungere il bersaglio». «Lanciateli». Entrò di corsa un altro tecnico. «Abbiamo appena avuto una segnalazione riservata dall’operazione nell’Antartide. Hanno trovato un’entrata». Dorian si girò verso di lui. «Verificata?» «Stanno confermando ora, ma profondità e dimensioni sono quelle giuste». «Le bombe portatili sono pronte?» «Sì. Il dottor Chase riferisce che sono state modificate per poter entrare in uno zaino». Il tecnico gli mostrò un pacco di fogli troppo spesso perché si potessero graffettare. «Per la verità, Chase ha mandato un rapporto molto dettagliato…». «Distruggilo». Il tecnico si infilò nuovamente il pacco di fogli sotto il braccio. «E ha chiamato il dottor Grey. Vuole discutere con lei delle misure precauzionali da prendere al sito». «Ovviamente. Digli che ne parliamo quando sarò lì. Parto subito». Dorian si alzò per uscire. «C’è un’altra cosa, signore. I casi di infezione stanno aumentando nel Sudest asiatico, in Australia e in America». «Qualcuno ci sta già lavorando?» «No, crediamo di no. Pensano che sia semplicemente un nuovo ceppo di influenza». 93 Monastero Immaru Regione autonoma del Tibet Kate aprì gli occhi stanchi e si guardò intorno. Non era notte, ma non del tutto mattino. I primi raggi del sole sbirciavano dalla grande finestra e Kate si girò dall’altra parte per non vederli, per rifiutare la nascita del nuovo giorno. Avvicinò la testa a quella di David e chiuse di nuovo gli occhi. «So che sei sveglia», disse lui. «No che non lo sono». Affondò mezza faccia nel cuscino e non si mosse. Lui rise. «Mi stai parlando». «Parlo nel sonno». David si alzò a sedere. La contemplò a lungo, e poi le ravviò i capelli dal volto. Lei aprì gli occhi e li fissò in quelli di lui. In quel momento avrebbe voluto che David si chinasse su di lei e… «Kate, devi andare». Lei girò la testa dall’altra parte, a disagio. Soffriva al pensiero di litigare, ma non intendeva cedere. Non lo avrebbe lasciato. Prima che potesse obiettare, però, comparve Milo, come materializzandosi dal nulla. L’espressione era quella gioviale di sempre, ma dietro di essa, dietro il sorriso e il portamento gagliardo, spuntavano indizi evidenti di spossatezza. «Buongiorno, dottoressa Kate, buongiorno, signor David. Dovete venire con Milo». «Dacci un minuto». Il giovane si avvicinò al letto. «Non abbiamo un minuto, signor David. Qian dice che è ora». «Ora per cosa?», chiese David. «Ora di andare. Ora del», e inarcò le sopracciglia, «piano di fuga. Progetto di Milo». David lo guardò con un’espressione scettica. «Piano di fuga?». Era un’alternativa, o comunque un diversivo che permetteva a Kate di rimandare la sua discussione, perciò fu lesta nel cogliere l’occasione che le veniva offerta. Corse all’armadio a prendere antibiotici e antidolorifici. Milo l’assistette con un sacchetto di tela in cui Kate rovesciò i farmaci assieme al diario. Vi aggiunse garze, bende e cerotto medico, tanto per non sbagliare. «Grazie, Milo». Sentì dietro di sé David che posava i piedi sul pavimento e crollava quasi all’istante. Lo soccorse appena in tempo perché non cadesse del tutto. Pescò dal sacchetto una pillola di antidolorifico e una di antibiotico e gliele ficcò in bocca senza dargli il tempo di protestare. David ingoiò le pillole senz’acqua mentre Kate lo trascinava praticamente fuori della stanza e sulla passerella coperta di legno. Il sole si arrampicava veloce nel cielo, e dall’altra parte del passaggio che stavano percorrendo Kate vide dei paracadute sospesi nell’aria. No, non erano paracadute, erano palloni riempiti di aria calda. Ce n’erano tre. Guardò meglio quello più vicino. La parte superiore era verde e marrone. Una specie di scena mimetica. Sì, erano… alberi, una foresta. Che stranezza. Il rumore. Il ronzio. Era vicino. «I droni», mormorò David. Si staccò dalla spalla di Kate su cui si reggeva. «Vai al pallone». «David…», cominciò lei. «No, fai come ti dico». Prese Milo per il braccio. «Il mio fucile. Quello con cui sono venuto qui la prima volta. L’avete conservato?». Milo annuì. «Abbiamo tutte le sue cose…». «Portamelo, presto. Devo guadagnare quota. Ci vediamo sulla terrazza di osservazione». Kate pensò che si sarebbe voltato verso di lei un’ultima volta e… invece David si era già incamminato zoppicando. Tornò indietro lungo il passaggio sospeso e cominciò a salire dei gradini di pietra scavati nel fianco della montagna. Kate lanciò un’occhiata ai palloni prima di voltarsi di nuovo, ma David non c’era già più. Proseguì veloce fino in fondo alla passerella che finiva con una scala a chiocciola di legno. In fondo riapparvero i palloni giganteschi. Sulla terrazza inferiore c’erano cinque monaci che la stavano aspettando, richiamandola con gesti febbrili. Appena l’avevano vista comparire, due dei monaci erano saliti nella cesta del primo pallone. Ora sciolsero la fune d’ormeggio e cominciarono a salire nell’aria. Il pallone si staccò dalla montagna e i due monaci richiamarono la sua attenzione manovrando funi e fiamma per mostrarle come pilotarlo. Uno dei due lasciò cadere uno dei sacchi della zavorra e il pallone salì più velocemente, allontanandosi sempre di più dal pendio. Era bellissimo, con quel modo aggraziato di volare, quei bei colori, rosso e giallo con spennellate di azzurro e verde. Sorvolò l’altopiano come una gigantesca farfalla. Altri due monaci erano entrati nella cesta del secondo pallone variopinto. Erano pronti a partire, ma sembrava che stessero aspettando lei. Il quinto monaco le fece cenno di salire nella cesta del terzo pallone, quello con la scena della foresta dipinta sulla volta. Quando fu più vicina, Kate vide che sulla parte inferiore era stata disegnata una scena di cielo e nuvole, blu e bianco. Da sotto, alla distanza giusta, un drone avrebbe visto solo il cielo. Se un drone si fosse trovato al di sopra del pallone, avrebbe visto solo una foresta. Molto astuto. Salì nella cesta del pallone con la nuvola e gli alberi. Il secondo si staccò dalla terrazza e salì sopra di lei, mentre il quinto monaco rimasto giù staccò due dei sacchetti e fece decollare anche il suo. Il pallone salì silenzioso come un sogno surreale. Quando fu arrivato a una certa altezza, Kate vide che ce n’erano a decine, anzi a centinaia, a formare un collage di colori che si estendeva per buona parte dell’altopiano. Provenivano da tutti i monasteri della regione e appena incontravano il sole si trasformavano in esplosioni di colore. Ora il pallone di Kate saliva più velocemente lasciandosi indietro la terrazza di legno e il monastero. David. Kate afferrò le corde che controllavano il pallone nel momento in cui sentiva uno scoppio. Un pezzo di montagna sembrò sparire in una frazione di secondo. Il pallone oscillò. Vide volare in aria pezzi di legno e frammenti di pietra. L’aria tra lei e il monastero si riempì di fumo, fiamme e ceneri. Non vedeva più niente. Ma il pallone sembrava intatto, il missile del drone aveva colpito la montagna sotto di lei, dall’altra parte del monastero. Manovrò le funi. Ora l’ascesa era ancora più veloce, troppo. Poi un’altra deflagrazione. Un colpo di fucile. Da sopra. 94 Il colpo di fucile andò a vuoto. Il drone aveva lanciato uno dei suoi due missili un secondo prima che David premesse il grilletto. La perdita di peso aveva inferto una lieve accelerazione al drone, che era passato oltre la traiettoria del proiettile del fucile di precisione. David inserì un’altra pallottola e cercò nuovamente il drone. Ora le colonne di fumo che arrivavano da sotto erano più dense. Il monastero era quasi completamente avvolto dalle fiamme e avevano preso fuoco anche gli alberi sottostanti. Reggersi in piedi gli costava una certa fatica, ma le gambe rispondevano abbastanza bene, l’antidolorifico faceva effetto. Doveva trovare però un luogo più adatto da dove sparare. Quando si girò, si meravigliò di trovare Milo seduto in un angolo della terrazza di legno a gambe incrociate e con gli occhi chiusi. Il suo respiro era ritmico e superficiale. David lo afferrò per una spalla. «Cosa stai facendo?» «Cerco la pace interiore, signor…». David lo issò in piedi e lo spinse contro il fianco della montagna. «Cercala là in cima». Gli indicò la vetta e, quando il ragazzo si voltò, lo afferrò di nuovo e gli diede un’altra spinta. «Sali e continua a salire, Milo, qualsiasi cosa accada. Vai. Dico sul serio». Il giovane infilò malvolentieri le dita in un appiglio e cominciò ad arrampicarsi. David lo osservò per un secondo, poi tornò sull’orlo della terrazza dove si mise ad aspettare. Finalmente arrivò, uno squarcio nel fumo. Si abbassò su un ginocchio, applicò l’occhio al mirino telescopico e, senza doverlo regolare, individuò il drone. Era diverso da quello precedente. Questo aveva ancora entrambi i missili. Quanti ne avevano mandati? David non esitò. Trattenne il fiato e schiacciò lentamente il grilletto. Il drone esplose e precipitò tracciando nel cielo una sottile striscia di fumo. David cercò l’altro drone senza successo. Si alzò e ripercorse zoppicando la terrazza. Attraverso la cortina di fumo vide salire dei colori, una scena di cielo e alberi in mezzo alle volute grigie. Il pallone. Kate. I suoi occhi incontrarono quelli di lei nel momento in cui sotto di lui esplodeva la montagna. Mezza terrazza scomparve in un baleno facendogli perdere l’equilibrio. Il fucile gli sfuggì dalle mani e rimbalzò rumorosamente sulle rocce. Il monastero stava crollando. Il primo drone aveva sganciato il suo secondo missile: un colpo mortale. Il pallone era stato sballottato, ma era ancora lì, tre o quattro metri più sotto. Ora stava collassando anche l’ultima terrazza. David tornò rapidamente indietro di qualche passo, prese la rincorsa e si lanciò. Colpì con il torace la cesta e rimase quasi senza fiato. Cercò di aggrapparsi, ma le mani gli scivolarono via. Stava per perdere del tutto la presa, quando sentì le dita di Kate agguantargli gli avambracci e stringere con tutte le forze. Aveva smesso di scivolare, ma pendeva impotente aggrappato a lei. Cercò di agganciare l’orlo della cesta, ma il dolore della ferita era troppo forte. Sentì il calore dell’incendio che gli risaliva lungo le gambe, ogni istante più vicino. Stava trascinando il pallone nel rogo. Kate doveva lasciarlo andare. Da quell’altezza, sarebbe stata una morte immediata. «Kate! Non ce la faccio a salire!». Nonostante l’antidolorifico, stava per soccombere alle fitte lancinanti che gli attraversavano la spalla. «Devi…». «Non ti lascerò andare!», strillò lei. Facendo leva con i piedi contro il fondo della cesta tirò in un ultimo sforzo disperato. David afferrò con la mano il bordo e riuscì a reggersi. Appena fu certa che ce la faceva da solo, Kate lo abbandonò e scomparve. David aspettò, con le braccia sempre più stanche, in un calore sempre più intenso. Sentì uno dopo l’altro i tonfi delle zavorre che venivano scaricate. Sentì anche il sudore rivestirgli i palmi delle mani strette sul bordo della cesta. Stava per cominciare a scivolare di nuovo e precipitare nelle fiamme del monastero, quando Kate tornò ad afferrarlo per gli avambracci e lo issò oltre il bordo della cesta. Lei era fradicia di sudore per lo sforzo che aveva fatto e lui madido per il calore dell’incendio. La sua faccia era a dieci centimetri da quella di lei e la stava guardando negli occhi. Si sentiva addosso il suo fiato affannato. Si avvicinò di più alla sua bocca. Un istante prima che le loro labbra si toccassero, lei lo spinse ad allungarsi su un fianco mentre si rialzava. David chiuse gli occhi. «Scusa…», mormorò. «No, non è quello. Ho sentito che stai sanguinando. Ti si sono strappate le bende». Gli denudò la spalla e cominciò a medicargli la ferita. Ansimando, David si mise a guardare le nuvole dipinte sul pallone. Si augurò che, sotto di loro, Milo fosse seduto sulla cima della montagna sano e salvo e che un giorno, chissà dove, trovasse la pace dentro di sé. PARTE TERZA Le tombe di Atlantide 95 Regione autonoma del Tibet Una volta finito di fasciare David con delle bende nuove, Kate strisciò sull’altro lato della cesta e si lasciò andare contro la fiancata. Per molto tempo veleggiarono nell’aria assaporando la brezza sulla faccia e il panorama delle montagne innevate dell’altopiano verdeggiante. Nessuno parlava. Lei era ancora tutta indolenzita per lo sforzo che aveva fatto per issarlo a bordo. Fu David a rompere finalmente il silenzio. «Kate». «Voglio finire il diario», disse lei, ripescando il libriccino rilegato in pelle dal sacchetto con i medicinali. «Poi potremo pensare a cosa fare. D’accordo?». David annuì, appoggiò la nuca alla cesta e ascoltò Kate leggere le ultime pagine. 4 febbraio 1919 A un anno dal mio risveglio nel tubo… Il mondo sta morendo. E lo abbiamo ucciso noi. Sono seduto al tavolo con Kane e Craig ad ascoltare i dati statistici come se fossero le quotazioni di un concorso ippico. L’influenza spagnola (è così che è stata venduta al mondo, è così che abbiamo etichettato la pandemia) si è diffusa in tutti i Paesi sulla faccia della Terra. Sono state risparmiate solo poche isole. Finora ha già ucciso milioni di persone. Uccide i forti risparmiando i deboli, al contrario di tutte le altre epidemie di influenza. Craig parla a lungo, riempiendo il discorso di parole inutili. La sintesi è che nessuno ha trovato un vaccino e naturalmente l’Immari non si aspetta che qualcuno lo faccia. Ma pensano di poter continuare a fingere che sia un’influenza, questa è «la buona notizia», annuncia Craig. E c’è di più. L’atteggiamento generale è di fiducia e ottimismo: la razza umana sopravvivrà, sebbene le perdite saranno ingenti. Ci si aspetta che il flagello che abbiamo scatenato uccida tra il due e il cinque percento della popolazione totale, cioè tra i trentasei e i novanta milioni di persone. A essere contagiati saranno circa un miliardo. Si stima che l’attuale popolazione si aggiri attorno al miliardo e ottocento milioni di individui, dunque, per usare le parole di Craig, «è una sfrondatina niente male». Le isole offrono una buona protezione, ma la verità è che la gente ha paura e che tutto il mondo si è rintanato, tutti fanno il possibile per evitare chiunque possa essere infetto. Le stime dei caduti in guerra parlano di dieci milioni. La peste, o se vogliamo l’influenza spagnola, ucciderà da quattro a dieci volte più della guerra. Naturalmente tenerlo nascosto è difficile. Sommando guerra e influenza, dalla faccia della Terra spariranno da cinquanta a cento milioni di persone. Ma io ne ho in mente solo una. Mi chiedo perché lei è morta e io sono vivo. Sono un guscio vuoto, ma tengo duro per una ragione. Kane mi fissa con occhi freddi e cattivi e io sostengo il suo sguardo. Pretende che faccia rapporto e io parlo lentamente, in un tono assente e privo di inflessioni. Riferisco che abbiamo scavato intorno al dispositivo. «L’arma», mi corregge. Lo ignoro. Propongo la mia opinione: dopo che lo avremo disattivato, potremo entrare nella struttura. Loro fanno domande, io rispondo meccanicamente come un automa. Si parla della fine della guerra, degli organi di informazione che danno prevalenza alla pandemia, ma naturalmente per questo si preparano delle contromisure. Pare che in America ci siano dei medici che stanno studiando il virus, e si dice che potrebbero scoprire che si tratta di qualcos’altro. Craig fa come sempre da paciere. Assicura tutti di avere la situazione in pugno. Sostiene che sembra che il virus stia perdendo efficacia, come l’incendio di una foresta che ha quasi esaurito la sua ferocia. Con il recedere della pandemia, è convinto che se ne occuperà intensamente la ricerca scientifica. La teoria più accreditata è che questa malattia fatale sia indebolita dalla ritrasmissione. Le persone all’interno delle gallerie sono state uccise sul colpo. Quelle che le hanno trovate si sono ammalate e sono morte poco dopo. Al momento chi viene contagiato è arrivato probabilmente alla quinta o sesta trasmissione a partire da Gibilterra, e questo spiegherebbe l’incremento della percentuale di sopravvivenza. Dopo l’insorgere del contagio, ci sono state altre due ondate di notevole intensità e crediamo che siano state provocate entrambe da corpi contagiati nella prima fase e trasferitisi da Gibilterra o dalla Spagna in aree densamente popolate. Io obietto che dovremmo informare l’opinione pubblica e rintracciare tutti quelli che hanno lasciato Gibilterra. Kane non è d’accordo. «Tutti muoiono, Pierce. Non credo di dovertelo ricordare. Queste morti servono a un obiettivo. Ogni volta che si verifica un’ondata di infezione impariamo qualcosa di più». Ci gridiamo addosso l’uno con l’altro fino a diventar rauchi. Io non ricordo nemmeno che cosa ho detto. Non fa niente. È Kane a controllare l’organizzazione. E io non posso permettermi di mettermi contro di lui. Kate chiuse il diario. «In Cina caricavano cadaveri sui treni». David fissò per un momento il cielo. «Prima raccogliamo tutti i fatti. Quanto manca?» «Poche pagine». 12 ottobre 1938 Sono passati quasi vent’anni dall’ultima volta che ho scritto qui. È una pausa molto lunga, ma non pensiate che non sia successo niente. Cercate di capirmi. Ho cominciato questo diario come antidoto alla cupa disperazione d’essere un uomo ferito in un luogo senza speranza. Era un modo per gestire il mio tormento, una via verso la riflessione. Poi è diventato il testamento di quello che credevo fosse un complotto. Ma quando vedi morire la persona che hai amato di più in questo mondo, vittima di qualcosa che hai scatenato involontariamente tu stesso, conseguenza di un patto che hai stipulato pur di avere la sua mano, la somma della tua intera esistenza si riduce a un tizzone nel tuo palmo… è dura impugnare una penna e scrivere di una vita che per te non conta più niente. E di azioni di cui ti vergogni. Ecco cos’è successo dopo quel giorno in quella tenda. Ma la situazione è degenerata a un punto che mi è insopportabile. Questa per me è la fine della strada. Non posso essere complice di un genocidio, ma non posso nemmeno fermarlo. Spero che possiate voi. Successivamente alla mia ultima annotazione, è emerso quanto segue: La Macchina: Noi la chiamiamo la “Campana” o, per Kane e i suoi compari teutonici, die Glocke. Kane è convinto che sia una superarma e che, se non arriva a sterminare l’intera razza umana, può provocare come minimo una decimazione, lasciando gli individui geneticamente superiori e uccidendo tutti quelli che potrebbero rappresentare una minaccia per questa razza prescelta. Queste teorie sulla razza, l’identificazione di una razza padrona in grado di sopravvivere all’apocalisse in arrivo, quella provocata dalla Macchina, sono diventate per lui un’ossessione. Guarda caso è convinto di appartenere a questa razza suprema. Gli sforzi della ricerca sono indirizzati alla creazione di questa razza padrona in maniera controllata, prima del presunto attacco atlantidiano. Da quando hanno estratto la Campana, io sono stato messo da parte, ma le orecchie le ho ancora buone. L’ha portata in Germania per condurre esperimenti nei pressi di Dachau. Nel suo Paese la situazione è disperata, la carestia dilaga e il tasso di disoccupazione è pericolosamente alto. Lì è facile manipolare il governo. Kane ne approfitta al meglio. Gli Immaru: Ho raccolto altre informazioni sulla storia degli Immari e degli Immaru, due sette sorelle. In tempi antichi, Immari e Immaru costituivano un unico gruppo, presumibilmente intorno all’epoca dei sumeri, i primi di cui abbiamo testimonianze scritte. Nella mitologia sumera, Immaru significa “la luce”. Kane pensa che gli Immaru sapessero da migliaia di anni della Macchina e del destino della razza umana, già da prima della grande inondazione. La sua teoria è che gli Immari, i suoi antenati, fossero un gruppo di ribelli Immaru che ritenevano che l’uomo potesse essere salvato, ma che non riuscirono a convincere gli altri membri del gruppo. Nella ricostruzione di Kane, i suoi antenati Immari cercarono la salvezza intraprendendo un viaggio che li portò dalla madrepatria ariana in Europa, dove speravano di poter trovare le rovine di Atlantide di cui aveva scritto Platone e in esse la chiave della sopravvivenza dell’umanità. Quando ha esposto questa storia revisionistica, gli ho domandato direttamente perché gli Immari non fossero stati messi al corrente fin da subito. Se sono fatti storici che possono essere di grande utilità, non c’era motivo di tenerli nascosti. Lui mi ha tenuto una mezza lezione con una certa prosopopea su quanto «pesante sia la testa che porta la corona» e «sapere che c’eravamo solo noi tra l’umanità e l’annientamento ci avrebbe distrutti. I nostri antenati furono saggi. Ci risparmiarono il peso delle loro azioni in modo che potessimo impegnarci nella ricerca della verità e nella salvezza del mondo». È difficile discutere con un maniaco che diventa ogni giorno più importante. Le spedizioni di Kane: Kane ha inviato spedizioni in tutte le regioni degli altopiani asiatici: Tibet, Nepal e India settentrionale. È convinto che gli Immaru siano da quelle parti, nascosti, depositari di segreti che potrebbero salvarci dall’imminente fine dei giorni. È sicuro che questi Immaru si siano insediati in un luogo in quota e in un clima freddo. Fa notare che le popolazioni nordiche dell’Europa hanno dominato a lungo il continente grazie al loro legame con l’originale stirpe Immaru, che prospera in ambienti glaciali. Ha apertamente disprezzato la mia obiezione sulle civiltà greca e romana, entrambe notevolmente progredite, sviluppatesi nel clima mite dell’Europa meridionale. «Il risultato di donazioni genetiche fatte dagli Immari durante i loro viaggi verso il Nord in cerca di Atlantide e del loro habitat naturale», ha detto. Insiste nel sostenere che questo “Gene di Atlantide” da cui dipendono tutte le caratteristiche vincenti dell’umanità, un’eredità genetica concentrata soprattutto negli Immari, debba essere connesso al clima freddo. Da questo deduce che quel che resta della razza di Atlantide debba essere da qualche parte in quelle regioni, ad aspettare ibernata di reimpossessarsi del pianeta. Di conseguenza un’altra sua ossessione è l’Antartide. Ha mandato una spedizione anche lì, ma ancora non sono giunte notizie positive. Ha in progetto di occuparsene personalmente, in un supersottomarino che sta facendo costruire in un cantiere navale nel Nord della Germania. Ho cercato in ogni modo di scoprire dov’è nella speranza di andare a piazzarci una bomba. Ma ho sentito che il sottomarino è quasi pronto e che presto salperà per l’Estremo Oriente a spazzar via una volta per tutte gli Immaru, prima di fare rotta per l’Antartide dove trovare la capitale di Atlantide. Un piano non da poco. Avevo sperato che la sua assenza mi offrisse un’opportunità, ovvero di poter assumere il controllo dell’Immari mentre lui non c’è, ma è stato previdente. Se ho ragione, presto io sarò escluso più o meno per sempre. Dunque ho pensato a qualcos’altro. Ho convinto un soldato della spedizione a portarvi questo diario, posto che Kane trovi gli Immaru e che il soldato mantenga la sua promessa. Se gli verrà trovato addosso, la sentenza per lui sarà di morte (e anche per me). Una camera delle meraviglie: C’è un’ultima cosa che desidero dirvi. Ho trovato qualcosa. Quella che mi è sembrata una camera, nel cuore delle rovine a Gibilterra. Credo che contenga la chiave con cui capire la struttura e forse gli Atlantidei. Qui la tecnologia è molto progredita, pericolosa se finisce nelle mani sbagliate. Mi sono prodigato in tutti i modi per impedire che Kane ne fosse a conoscenza. Accludo le indicazioni per raggiungere quella camera, che ho nascosto dietro un finto muro. Fate in fretta. Kate aprì il delicato foglio giallo con la mappa, la studiò per qualche secondo, quindi la porse a David. «Era la stessa macchina che c’era in Cina, la Campana. L’hanno usata su di me e su centinaia di altre persone con me. Ecco cosa stanno facendo, cercano una chiave genetica che renda immuni alla macchina. Tutta la mia ricerca, tutta la ricerca dell’Immari ha avuto questo obiettivo, trovare il Gene di Atlantide. Tutte le bugie di Martin… Mi hanno usata… da sempre». David le restituì il foglio e guardò le montagne e le foreste che stavano sorvolando. «Be’, sono contento che l’abbiano fatto». Kate lo fissò senza capire. «Sarebbe potuto essere qualcun altro», le spiegò David. «Una persona non altrettanto forte. O altrettanto perspicace. Si può ricostruire il quadro generale ed è ancora possibile fermarli». «Non vedo…». «Ricapitoliamo quello che sappiamo. Mettiamo giù tutti i tasselli del puzzle e vediamo quali possono stare insieme. Ok?». Quando Kate annuì, David riprese a parlare. «Al monastero ho detto che sapevo che cos’era la Campana. È una vecchia leggenda della seconda guerra mondiale. I teorici del complotto ne parlano ancora, die Glocke o the Bell, la Campana. Dicono che era il prototipo di una nuova arma nazista o forse una nuova fonte di energia. Da lì in avanti le teorie diventano le più bizzarre. C’è di tutto, dall’antigravità ai viaggi nel tempo. Ma se nel 1918 provocò l’influenza spagnola e ora i morti colpiti dallo stesso morbo vengono portati fuori della Cina…». «Ci sarebbe un’altra pandemia, questa volta molto peggiore dell’influenza spagnola». «Mi chiedo se è possibile», ribatté David. «Le statistiche dell’Immari saranno giuste? È possibile che non abbiamo un vaccino per qualcosa che uccise tra il due e il cinque percento della popolazione mondiale?» «Noi abbiamo studiato l’influenza spagnola all’università. Oggi la conosciamo come la pandemia influenzale del 1918. I loro dati sono esatti o comunque ci vanno molto vicino. Pensiamo che l’influenza spagnola abbia ucciso tra i cinquanta e i cento milioni di individui, vale a dire il quattro percento circa della popolazione mondiale…». «Che corrisponderebbe a… duecentottanta milioni di oggi, l’intera popolazione degli Stati Uniti. Devono avere un vaccino. E come può l’Immari nascondere una strage di questo genere? O farla passare per influenza?» «All’inizio i medici non pensavano che fosse influenza. Si credette che fosse dengue, colera o febbre tifoidea, soprattutto perché i sintomi erano molto… molto diversi da quelli dell’influenza. I pazienti presentavano emorragie dalle mucose, specialmente da naso, stomaco e intestino, sanguinamento anche da cute e orecchie». Kate ripensò alla stanza buia con la Campana appesa sopra la folla terrorizzata, ricordò la gente che aveva visto sanguinare intorno a sé. «Comunque di tutti i ceppi influenzali che girano per il mondo, quello è ancora il meno conosciuto e il più mortale. Non esiste vaccino. Fondamentalmente l’influenza spagnola spinge l’organismo ad autodistruggersi. Uccideva provocando uno sconvolgimento delle citochine, l’organismo veniva aggredito dal proprio sistema immunitario. La maggior parte dei ceppi influenzali è devastante per le persone con sistemi immunitari deboli, i bambini e gli anziani. È per questo che usiamo i vaccini, per fortificare il sistema immunitario. L’influenza spagnola agiva in un altro modo. Uccideva le persone con forti sistemi immunitari. Più era forte il sistema immunitario, più era grave la tempesta di citochine. L’influenza era mortale per individui fra i venticinque e i trentaquattro anni d’età». «Sembra quasi che uccidesse tutti coloro che potevano essere una minaccia. Non c’è da meravigliarsi se gli Immari pensassero che fosse un’arma», commentò David. «Ma perché scatenarla? Il mondo non avrebbe speranza. Nel 1918, alla fine della prima guerra mondiale, tutte le frontiere erano chiuse, il mondo intero era in una situazione di sosta generale. Pensa a come siamo connessi oggi. Un’epidemia di quel genere ci annienterebbe nel giro di pochi giorni. Se quello che dici è vero, il contagio ha già lasciato la Cina e mentre parliamo si sta diffondendo nel mondo. Perché lo fanno?» «Forse non hanno scelta». «C’è sempre una scelta». «Secondo loro no», disse Kate. «Basandomi sulle riflessioni del diario, io avrei un paio di teorie. Credo che stiano cercando il Gene di Atlantide per poter sopravvivere alla macchina. Per questo erano interessati alla mia ricerca e per questo hanno rapito i bambini. Ritengono di non avere più tempo». «La foto satellitare, quella con i codici sul retro. Al centro c’era un sottomarino». «Il sottomarino di Kane», disse Kate. «Senza dubbio. E sotto di esso c’era una struttura. Sappiamo che cercano quel sottomarino dal 1947. Decodificando il necrologio apparso sul “New York Times”, si stava cercando un U-Boot nell’Antartide e si chiedeva l’autorizzazione a continuare le ricerche perché ancora non si era trovato niente. Dunque evidentemente alla fine il sottomarino è stato trovato e sotto di esso un’altra Atlantide, una minaccia». David scosse la testa. «Ma ancora non capisco… perché far scoppiare un’altra pandemia?» «Io credo che i cadaveri della Campana siano il Protocollo Toba. Sembra che il contatto diretto con la Campana sia mortale, ma ce n’è una sola, o ce n’era una sola. Forse intendono distribuire i cadaveri in tutto il mondo. L’epidemia che ne conseguirebbe ridurrebbe drasticamente la popolazione mondiale, limitata a quelli che riescono a sopravvivere alla Campana, cioè tutti coloro che possiedono il Gene di Atlantide». «Sì, ma perché? Non ci sono sistemi migliori? Non potrebbero, non so, sequenziare una manciata di genomi o rubare dei dati attraverso i quali individuare queste persone?» «Forse sì, ma probabilmente no. Forse si potrebbero identificare le persone con il Gene di Atlantide, ma manca lo stesso qualcosa: l’epigenetica e l’attivazione genica». «Epi…». «È un po’ complicato, ma fondamentalmente non conta tanto quali geni si hanno, piuttosto quali geni vengono attivati, e anche in che modo quei geni interagiscono. Presumibilmente con l’attivazione del Gene di Atlantide in coloro che ne sono provvisti, l’epidemia provocherebbe un secondo Grande balzo in avanti. Però potrebbe essere qualcosa di completamente diverso, forse l’epidemia ridurrebbe la popolazione e ci costringerebbe a mutare o a evolverci, come successe con la Catastrofe di Toba…». Kate si massaggiò le tempie. C’era qualcos’altro ancora, mancava ancora un elemento e non era lontano, ci era quasi arrivata. Le tornò alla mente la conversazione che aveva avuto con Qian: l’arazzo, la Marea di Fuoco, la schiera di esseri umani che moriva sotto la cortina di ceneri… il salvatore… che offriva una coppa del suo sangue e le bestie della foresta che emergevano trasformate in esseri umani moderni. «Credo che ci sfugga qualcosa». «Tu pensi…». «E se il primo Grande balzo in avanti non fosse stato un fenomeno naturale? Se non fosse stato affatto una fase della nostra evoluzione? Se l’umanità fosse stata sul punto di estinguersi e fossero venuti in nostro soccorso gli Atlantidei? Se gli Atlantidei avessero dato a quegli umani che stavano morendo qualcosa che li aiutò a sopravvivere a Toba? Un gene, un vantaggio genetico che li ha resi abbastanza intelligenti da trovare il modo di sopravvivere. Un mutamento nella connettività cerebrale. Se ci avessero donato il Gene di Atlantide?». 96 David si guardò intorno indeciso su cosa dire. Aprì finalmente la bocca per parlare, ma Kate alzò la mano. «So che sembra fantascientifico, sono d’accordo, ma ti prego di ascoltarmi, lascia che lo elabori a parole. Tanto per il momento non stiamo andando da nessuna parte in particolare», aggiunse indicando la cesta e il pallone sopra di loro. «Non posso darti torto, però ti avverto che su queste faccende sono un pesce fuor d’acqua. Non sono sicuro di poterti essere di grande aiuto». «Tu dimmi solo quando comincia a sembrare troppo pazzesco». «È retroattivo? Perché quello che hai appena detto…». «No, dài, facciamo che mi ascolti per qualche minuto, poi mi interrompi quando dico qualcosa di troppo poco plausibile. Mettiamo sul tavolo i fatti. Settantamila anni fa il supervulcano Toba esplode. Ne segue un inverno vulcanico che coinvolge tutto il pianeta per un minimo di sei fino a un massimo di dieci anni, con un probabile strascico di un migliaio di anni di raffreddamento. Il Sudest asiatico e l’Africa vengono ricoperti da uno strato di ceneri. La popolazione totale di esseri umani precipita intorno a un minimo di tremila esemplari fino a un massimo di diecimila, con forse meno di mille coppie fertili». «Va bene, questo è successo davvero, posso confermare che non è pazzesco». «Perché io ti ho detto della Catastrofe di Toba a Giacarta». «Ehi», si difese David, «stavo solo cercando di venirti incontro». Kate ricordò la propria reazione e come aveva risposto a David sul furgone qualche giorno prima, anche se al momento le sembrava che fosse passato un secolo. «Molto spiritoso. Fatto sta che più o meno in quel periodo si verificò un collo di bottiglia genetico. Noi sappiamo che tutti gli esseri umani presenti oggi sul pianeta discendono da un gruppo estremamente piccolo, tra le mille e le diecimila coppie fertili, vissuto circa settantamila anni fa. Tutti gli esseri umani fuori dell’Africa discendono da una piccola tribù di un centinaio di individui che partì da quel continente cinquantamila anni fa. In pratica tutti gli esseri umani oggi viventi sono discendenti diretti di un uomo che visse in Africa sessantamila anni fa». «Adamo?» «Noi scienziati lo chiamiamo Adamo cromosomiale Y. C’è anche una Eva, l’Eva mitocondriale, ma lei è vissuta molto prima, pensiamo intorno ai centonovantamila o duecentomila anni fa». «Viaggiatori nel tempo? Ho ancora il compito di sottolineare le cose pazzesche…». «Non viaggiatori nel tempo, grazie tante. Sono solo designazioni genetiche di persone da cui discendono direttamente tutti gli abitanti umani del pianeta. È complicato, ma il nocciolo della questione è che questo Adamo ha usufruito di un enorme vantaggio: la sua prole era di gran lunga più evoluta dei suoi simili». «Avevano il Gene di Atlantide». «Per adesso atteniamoci ai fatti. Avevano un qualcosa in più, qualunque cosa fosse. Intorno a cinquantamila anni fa la razza umana ha cominciato a comportarsi in un modo nuovo. C’è un’esplosione nel comportamento complesso: linguaggio, fabbricazione di utensili, pittura murale. È un passo epocale nella storia umana ed è quello che chiamiamo il Grande balzo in avanti. Se guardiamo i fossili umani prima e dopo, non troviamo nessuna differenza. Non c’è molta differenza nemmeno nei genomi. Tutto quello che sappiamo è che si è verificato un piccolo mutamento genetico che ha cambiato il nostro modo di pensare, forse una modificazione nelle connessioni del nostro cervello». «Il Gene di Atlantide». «Qualsiasi cosa fosse, questa innovazione nella connettività cerebrale è stata la più grandiosa vincita genetica alla lotteria della storia dell’uomo. La razza umana passa dall’estinzione quasi certa, ridotta com’è a meno di diecimila esemplari che vivono allo stato brado nutrendosi grazie alla caccia e alla raccolta di frutti e radici, al dominio sull’intero pianeta, con una popolazione di oltre sette miliardi di individui, il tutto nel breve spazio temporale di cinquantamila anni. Che in termini di evoluzione valgono un batter di ciglia. È un recupero così straordinario da essere difficile da digerire anche per un genetista. Sto dicendo che sono ancora vivi oggi il dodici percento di tutti gli esseri umani che sono da sempre su questo pianeta. Ci siamo evoluti solo duecentomila anni fa. Stiamo godendo ancora degli effetti della nuvola a forma di fungo del Grande balzo in avanti e non abbiamo idea di come esso sia avvenuto, o dove ci porterà». «Sì, ma perché noi, perché questa fortuna è toccata proprio a noi? C’erano altre specie umane, no? Gli uomini di Neanderthal, i… non ricordo come li avevi chiamati… Ma la domanda è: che fine hanno fatto tutti gli altri? Se gli Atlantidei sono venuti in nostro aiuto, perché non aiutare anche gli altri?» «Io ho una teoria. Sappiamo che cinquantamila anni fa erano presenti almeno quattro sottospecie di umani. C’eravamo noi, o quelli che possiamo definire gli umani anatomicamente moderni, gli uomini di Neanderthal, i Denisoviani e l’Homo floresiensis, ovvero gli Hobbit. Probabilmente ce n’erano altri che non abbiamo scoperto, ma quelle erano le quattro sottospecie…». «Sottospecie?», intervenne David. «Sì. Tecnicamente sono sottospecie. Erano tutti umani. Noi definiamo specie un gruppo di organismi in grado di accoppiarsi e generare nuovi organismi fertili, e gli esemplari di tutti e quattro quei gruppi erano in grado di accoppiarsi e procreare con individui degli altri gruppi. Abbiamo anzi prove genetiche che l’abbiano fatto. Qualche anno fa, quando abbiamo sequenziato il genoma di Neanderthal, abbiamo scoperto che tutti gli individui fuori dell’Africa avevano tra l’uno e il quattro percento del DNA dell’uomo di Neanderthal. Era pronunciato soprattutto in Europa, la patria dei Neanderthal. Abbiamo avuto lo stesso risultato quando abbiamo sequenziato il genoma del denisoviano. Ci sono individui in Melanesia e soprattutto in Papua Nuova Guinea che condividono per il sei percento il loro genoma con i Denisoviani». «Interessante. Dunque siamo tutti degli ibridi?» «Tecnicamente sì». «E assorbimmo le altre sottospecie in una razza umana che ne mescolava le caratteristiche?» «No. Be’, forse per una piccola percentuale, ma le testimonianze archeologiche indicano che i quattro gruppi sopravvissero come sottospecie separate. Io credo che le altre sottospecie non ricevettero il Gene di Atlantide perché non ne avevano bisogno». «Perché loro…». «Non rischiavano l’estinzione», finì per lui Kate. «Pensiamo che i Neanderthal esistessero in Europa già tra i seicentomila e i trecentomila anni fa. Anche le altre sottospecie sono più antiche di noi e probabilmente erano presenti in popolazioni più numerose. Ed erano fuori del raggio d’azione di Toba. I Neanderthal erano in Europa, i Denisoviani erano nei territori dell’attuale Russia e gli Hobbit erano nel Sudest asiatico, ma lontani da Toba e sottovento». «Dunque se la cavarono meglio di noi, mentre noi ne fummo quasi sterminati. Però poi abbiamo estratto il biglietto giusto alla lotteria della sopravvivenza e a estinguersi sono stati loro… per mano nostra». «Già. E sono scomparsi relativamente in fretta. Sappiamo che i Neanderthal erano più forti di noi, avevano un cervello più grosso del nostro e vivevano in Europa da centinaia di migliaia di anni prima che apparissimo noi. Poi si sono estinti in un arco di tempo tra i dieci e i ventimila anni». «Forse questo fa parte del grande piano degli Immari», osservò David. «Forse il Protocollo Toba è qualcosa di più della semplice ricerca del Gene di Atlantide. Se per esempio gli Immari pensassero che questi umani evoluti, questi Atlantidei, si siano ibernati, ma che se dovessero riprendersi eliminerebbero tutta la concorrenza umana, tutti quelli che possono rappresentare una minaccia, proprio come hanno fatto negli ultimi cinquantamila anni dopo aver ricevuto il Gene di Atlantide? Hai letto il discorso di Kane. Loro pensavano che una guerra con gli Atlantidei fosse imminente». Kate rifletté sull’ipotesi avanzata da David e tornò con la mente alla conversazione con Martin e alle sue allusioni all’intenzione di una eventuale razza più evoluta di sbarazzarsi di qualunque essere umano inferiore per eliminare una possibile minaccia. La sua teoria era che la razza umana fosse come un algoritmo che progredisce verso un’unica soluzione finale, una razza umana omogenea. Quello era l’ultimo tassello del puzzle. «Hai ragione. Toba non si esaurisce nel ritrovamento del Gene di Atlantide. Riguarda la creazione degli Atlantidei, la trasformazione della razza umana tramite l’evoluzione. Stanno cercando di sincronizzare l’umanità con gli Atlantidei per creare una razza unica, così se gli Atlantidei dovessero tornare, non ci considererebbero una minaccia. Martin definiva il Protocollo Toba “un’ultima risorsa”. Pensano che se gli Atlantidei si svegliassero e vedessero sette miliardi di selvaggi, ci massacrerebbero tutti. Ma se riemergendo trovassero un piccolo gruppo di umani geneticamente molto simili a loro, permetterebbero loro di sopravvivere, li vedrebbero come una parte della loro stessa tribù o razza». «Sì, ma io credo che questa sia solo una metà del piano», obiettò David. «Questa è la base scientifica, l’angolazione genetica, il piano di backup. Gli Immari ritengono di essere in guerra. Pensano con la mentalità di un soldato. Ho detto già una volta che credo stiano organizzando un esercito e lo credo ancora. Penso che stessero collaudando i soggetti con la Campana per una ragione specifica». «Perché potessero sopravvivere». «Resistere alla Campana, sì, ma, per essere più precisi, essere in grado di passarci sotto. A Gibilterra hanno dovuto scavare tutt’intorno e rimuoverla. Io credo che potrebbe esserci una Campana in ogni struttura di Atlantide, una specie di sentinella che impedisce agli estranei di entrare. Ma su di noi non funziona molto bene perché in realtà noi siamo degli ibridi, in parte anche Atlantidei. Se gli Immari hanno trovato un modo per attivare il Gene di Atlantide, potrebbero inviare un esercito in tutte le strutture e sterminare gli Atlantidei. Il Protocollo Toba potrebbe essere l’ultima risorsa. Se dovessero fallire, gli Atlantidei si sveglierebbero, ma di noi troverebbero soltanto quel piccolo gruppo che appartiene in realtà alla loro razza». Kate annuì. «Vogliono massacrare le stesse persone che ci hanno salvato dall’estinzione, forse le uniche che potrebbero aiutarci a sconfiggere il morbo provocato dalla Campana». Sospirò. «Ma sono tutte teorie e congetture. Potremmo sbagliarci». «Limitiamoci a quello che sappiamo. Noi sappiamo che dei cadaveri sono stati portati via dalla Cina e che i cadaveri di persone uccise dalla Campana hanno già provocato una pandemia». «Avvertiamo le autorità sanitarie?». David scosse la testa. «Lo hai letto nel diario: sanno come nascondere la diffusione del morbo. E probabilmente adesso sono anche molto più bravi, chissà da quanto tempo stanno preparando il Protocollo Toba. Dobbiamo scoprire se le tue teorie sono corrette e abbiamo bisogno di precederli, trovare il modo di metterci in contatto con gli Atlantidei o di fermare gli Immari». «Gibilterra». «È il nostro cavallo vincente. La camera trovata da Patrick Pierce». Kate fissò il pallone. Stavano perdendo quota e avevano solo pochi sacchetti di zavorra da sganciare. «Non credo che arriveremo così lontano». David sorrise e si guardò intorno come cercando qualcosa. In un angolo della cesta c’era un fagotto. «Questa è roba che hai portato tu?». Kate lo notò per la prima volta solo in quel momento. «No». David andò ad aprirlo. Dentro l’involto di tela grezza trovò rupie indiane, un cambio d’abito per entrambi e, ripiegata, una carta geografica dell’India settentrionale, la regione che senza dubbio stavano sorvolando in quel momento. Lui aprì la carta e ne cascò fuori un foglietto. Mise da parte la mappa, lesse il foglietto e lo porse a lei. Perdonateci la nostra inazione. La guerra non è nella nostra natura. Qian Kate posò il messaggio e tornò a osservare il pallone. «Ho paura che non ci resti molto tempo da passare quassù», mormorò. «Concordo. E avrei un’idea. È rischiosa però». 97 A due chilometri dal Sito trivellazione n. 6 Antartide orientale Robert Hunt fu costretto a rallentare. Già due volte il gigantesco ombrello per poco non lo aveva fatto cadere dalla motoslitta. Alla fine aveva azzeccato la velocità giusta, ma anche così il rumore del veicolo combinato con gli sbatacchiamenti dell’ombrello era quasi assordante. Poi, in mezzo a tanto fragore, intercettò un suono insolito. Si girò a guardare. I suoi uomini lo avevano seguito? Fermò la motoslitta. Non era un motore. Era una voce. Si aprì il giaccone e cercò la ricetrasmittente. L’indicatore di segnale era acceso, lo stavano chiamando. Spense il motore, ma il segnale sparì. Attese. In lontananza un colpo di vento sollevò neve polverosa dalla cima arrotondata di un rilievo. Premette il pulsante sulla radio. «Qui Snow King», disse. Fu colto alla sprovvista dalla reazione violenta dell’operatore. «Snow King!», tuonò una voce. «Perché eri in silenzio radio?». Robert pensò per un istante, poi schiacciò il bottone e parlò con tutta la naturalezza di cui era capace. «Eravamo in trasferta. È difficile sentire la radio». «Trasferta? Qual è la tua posizione?». Robert deglutì. Non gli avevano mai chiesto la posizione, né lo avevano mai contattato durante il trasferimento da un sito all’altro. Cosa poteva dire… Lo vedevano dal cielo? «Snow King! Mi ricevi?». Robert ebbe un attimo di sbandamento, poi si portò di nuovo la ricetrasmittente davanti alla bocca. «Bounty, qui Snow King. La stima è tre kappa dal sito sette». Staccò il dito dal bottone e abbassò di nuovo la mano per cercare di respirare normalmente. «Abbiamo incontrato… Abbiamo dei problemi con una delle motoslitte. Stiamo riparando». «Attendi, Snow King». Trascorsero i secondi. Faceva un freddo tremendo, ma Robert sentiva solo il cuore che gli batteva in gola. «Snow King. Chiedete assistenza?». Rispose all’istante. «Negativo, Bounty. Ce la caviamo». Aspettò un secondo e aggiunse: «Dobbiamo cambiare la destinazione?» «Negativo, Snow King. Proseguite alla velocità migliore e osservate il protocollo di black-out in vigore». «Ricevuto, Bounty». Lasciò cadere la ricetrasmittente sul sedile. In quel momento gli pesava in mano come un’incudine. Lentamente l’adrenalina gli defluì dal sistema vascolare e solo allora si rese conto di quanto male gli facesse il braccio destro. Tenere l’ombrello glielo aveva anchilosato. A stento riusciva a flettere le dita e la spalla gli spediva fitte di dolore a ogni micromovimento che faceva. Serrò i denti e trasferì l’ombrello sull’altro lato della motoslitta. In quel freddo terribile e tra una martellata di dolore e l’altra, c’era anche una voce che gli urlava nella testa: “Torna indietro!”. Rifletté sul motivo che poteva averli spinti a chiamarlo. C’erano due sole possibilità: a) lo avevano scoperto; b) volevano assicurarsi che si fosse allontanato dal sito abbandonato. Se lo avevano beccato, era fritto in ogni caso. Se stavano facendo qualcosa al vecchio sito che non volevano che lui vedesse, allora era in una situazione molto delicata. Quand’era ripartito per tornare indietro, aveva pensato che, se lo avessero beccato, avrebbe detto semplicemente di aver dimenticato qualcosa. Niente di male. E l’ombrello? “Osserva il protocollo di black-out in vigore”. Sì, la conversazione via radio aveva eliminato la possibilità di ricorrere a quella scusa. Se avevano capito che stava mentendo, come minimo avrebbe perso il suo impiego, e se stava lavorando per dei criminali coinvolti in qualcosa di illegale… le conseguenze sarebbero potute essere molto peggiori. Così era giunto a un compromesso con se stesso: sarebbe andato fino in cima al rilievo più vicino, avrebbe guardato quel che c’era da vedere e sarebbe tornato dai compagni. Almeno ci aveva provato. Ora Robert doveva procedere lentamente. Reggeva l’ombrello con il gomito sinistro, puntellandoselo contro il fianco. Gli ci volle quasi un’ora per raggiungere la vetta del colle, da dove scrutò l’orizzonte attraverso le lenti del binocolo. Stentò a credere ai propri occhi. Le macchine che adesso avevano invaso il sito appena abbandonato erano di dimensioni gigantesche persino per lui, che di macchinari enormi ne aveva visti a sufficienza. E ora il vecchio sito sembrava colpito da un tornado. La piattaforma era quasi sepolta nella neve, come un microscopio rovesciato nella fossa della sabbia di un campo giochi per l’infanzia accanto a macchine-giocattolo per il movimento terra. Ma quella non era una fossa della sabbia e i cingoli che erano stati montati sulle ruote di quei “giocattoli” dovevano essere alti almeno quindici metri. Il più grande di tutti sembrava un centopiedi. Era lungo forse centocinquanta metri e aveva una piccola testa, senza dubbio la “cabina” che lo trainava. Il corpo era costituito da una serie di segmenti bianchi a forma di pallone. Si aggirava per il sito serpeggiando. Vicino al centopiedi c’era una gru semovente bianca, grande dieci volte una normale gru da cantiere, con il braccio sollevato verso il cielo. Stava estraendo qualcosa? O stava più probabilmente calando qualcosa? Robert zoomò. Prima di riuscire a mettere a fuoco il cavo della gru, scorse qualcos’altro, o il profilo di qualcos’altro, davanti al centopiedi. Puntò il binocolo a sinistra, ma a quel grado di ingrandimento perse completamente di vista il sito. Diminuì la lunghezza focale, inquadrò nuovamente il sito e zoomò ancora, mettendo a fuoco il centro del centopiedi. Erano persone o robot? In ogni caso indossavano quelle che sembravano tute hazmat bianche, con la differenza che queste erano più voluminose. Si muovevano lentamente, dando l’impressione di fare fatica. Somigliavano all’uomo della pubblicità dei marshmallows di Ghostbusters o all’omino Michelin. Erano alti quanto persone normali. Robert seguì una di queste figure bianche che si avvicinava ai resti della piattaforma. La gru stava ruotando in direzione del centopiedi. Aveva estratto qualcosa dalla buca. Un altro uomo della pubblicità dei marshmallow aiutò il primo a sganciare il carico della gru e posarlo al suolo. Sembrava la sfera stroboscopica di una discoteca, ma era nera. Dietro di loro si spalancò uno sportello nell’ultima sezione del centopiedi bianco. Scivolò dal basso verso l’alto, aprendo un varco in cui Robert vide una fila di monitor immersi in una luce gialla. C’era anche uno scatolone bianco che due uomini in tuta spinsero dall’interno giù per una rampa. I due che si trovavano fuori raggiunsero i compagni e insieme cominciarono a rimuovere i pannelli bianchi della scatola. Vennero via facilmente, dovevano essere di plastica flessibile o tela rigida. Robert puntò il binocolo sul contenitore. Era una gabbia. Dentro c’erano due scimmie, forse scimpanzé, dato che erano abbastanza piccole. Saltellavano e si aggrappavano l’una all’altra evitando le sbarre. Dovevano patire un freddo spaventoso. Uno dei quattro uomini s’inginocchiò immediatamente e cominciò a digitare su quello che doveva essere un tastierino in fondo alla gabbia. Il debole bagliore arancione in cima alla gabbia si intensificò e, quando brillò come un tizzone ardente, le scimmie sembrarono tranquillizzarsi. Uno degli altri tre agitò il braccio in direzione della gru, che cominciò a ruotare. Agganciarono la gabbia al cavo, poi vi aggiunsero anche la sfera nera. Gli uomini si allontanarono mentre la gru sollevava la gabbia, girava il braccio orizzontale e l’abbassava sulla buca. Due degli uomini andarono dietro la gru e riapparvero alla guida di altrettante macchine, simili a granchi. Le portarono sulla buca della trivellazione, dove le collegarono l’una con l’altra coprendo per intero la buca, eccetto che per una stretta fessura abbastanza grande perché vi scorresse il cavo della gru. Poi tutti e quattro gli uomini si affrettarono a rientrare nel centopiedi e lo sportello ridiscese richiudendoli dentro. Per qualche minuto non accadde nulla. Il braccio di Robert cominciò a stancarsi. Si chiese per quanto ancora dovesse restare in osservazione. Ora non aveva più dubbi: non stavano cercando petrolio. Ma che cosa stavano facendo? E perché per farlo avevano bisogno di mettersi quelle tute da marshmallow? Come mai a lui non era servita? E nemmeno alle scimmie, se è per questo? Forse presto avrebbe avuto le sue risposte. I pupazzi bianchi stavano uscendo di nuovo dal centopiedi per tornare alla buca. Spostarono le macchine con cui l’avevano coperta e la gabbia balzò fuori, come spinta da un’esplosione. Saltellò due o tre volte appesa al cavo che guizzava da una parte e dall’altra, poi si fermò appesa a qualche spanna da terra. Gli uomini la stabilizzarono e aprirono lo sportello. Le scimmie erano coperte di bianco o grigio… neve magari? Giacevano entrambe prive di vita. Quando gli uomini le estrassero dalla gabbia, la sostanza bianca non scivolò via dai loro corpi. Non era neve. Infilarono le scimmie in due diversi sacchi bianchi e le caricarono sul centopiedi, facendole passare per lo sportello che si aprì nella seconda sezione. Fu allora che Robert scorse all’interno due bambini seduti su una panca dentro una gabbia di vetro. Aspettavano. Come se adesso toccasse a loro. 98 Nuova Delhi, India «Aspetta qui. Se fra quindici minuti non sono uscito, trova un poliziotto e digli che c’è una rapina in corso in quel negozio», fece David. Kate osservò la strada e la facciata del negozio: “Timepiece Trading Company”. La strada era affollata, piena di vecchie automobili e indiani che zigzagavano in bicicletta. David le aveva spiegato che il negozio era uno dei vari avamposti della Clocktower, una sorta di canale di comunicazione segreto da dove agenti e informatori locali potevano inviare messaggi a Central. Se la Clocktower era ancora operativa, era possibile che fosse stato attivato. Era un se molto grosso. Se la Clocktower era caduta completamente, allora gli Immari tenevano d’occhio o addirittura gestivano direttamente quegli avamposti, con l’intento di neutralizzare qualunque agente fosse sfuggito alla loro epurazione. Kate annuì e David si avviò zoppicando verso il negozio. In un batter d’occhio era dentro. Lei si morsicò il labbro e aspettò. C’era molta gente nel negozio. Tutti gli orologi sembravano protetti da teche di vetro, quantomeno tutti quelli che non erano dentro un mobile. Gli sembravano così fragili, così delicati, così vulnerabili. David si sentì come il proverbiale elefante nella cristalleria mentre cercava di infilarsi tra due teche di vetro, pretendendo che la sua gamba ferita collaborasse. Fuori la luce era forte, e da quando era entrato nella penombra non vedeva quasi niente. Urtò una vetrinetta piena di antichi orologi da tasca, quelli che avrebbero usato uomini con il monocolo e panciotti luccicanti. La vetrinetta tremò e gli orologi tintinnarono toccandosi e facendo protestare i minuscoli meccanismi. David abbracciò la vetrina cercando di tenerla ferma mentre ritrovava l’equilibrio sulla gamba sana. Aveva come l’impressione che gli sarebbe bastato un solo movimento falso per far crollare tutto quanto il negozio. «Benvenuto, signore», lo apostrofò una voce che proveniva dal fondo. «Come posso esserle d’aiuto oggi?». David cercò con lo sguardo una volta, poi un’altra, e finalmente localizzò un uomo dietro un bancone alto, in fondo al negozio. Proseguì zoppicando in quella direzione cercando di evitare le mine di vetro. «Sto cercando un pezzo speciale». «Allora è venuto nel posto giusto, signore. Che genere di pezzo?» «Una Clocktower». Il commesso lo fissò in silenzio. «Una richiesta insolita», disse poi. «Ma ha avuto fortuna. Nel corso degli anni abbiamo accontentato molti clienti con diverse Clocktower. Posso sapere qualcosa di più dell’esemplare che sta cercando? Datazione, forma, dimensioni? Qualunque informazione sarà utile». David cercò di ricordare le parole precise. Non aveva mai pensato di doversene servire. «Un pezzo che non indichi solo il tempo. Forgiato in un acciaio che non si può spezzare». «Credo di sapere dove trovare un pezzo così. Devo fare una telefonata». La sua voce cambiò. «Resti qui», disse, ma il tono era di comando. Prima che David potesse rispondere, l’uomo era scomparso dietro una tenda appesa sul vano di una porta. David cercò di ascoltare, ma da dietro la tenda non arrivò alcun suono. Guardò l’orologio appeso al muro. Era dentro da quasi dieci minuti. Kate avrebbe mantenuto la promessa? Riapparve il commesso. La sua espressione era indecifrabile. «Il venditore vorrebbe parlarle». Attese. Cosa avrebbe dato David in quel momento per una pistola! Poté solo annuire e fare il giro del bancone. Il commesso spostò la tenda e lo spinse nel buio del locale retrostante. Avvertì il movimento del braccio del commesso che si alzava dietro di lui, ma prima che David potesse voltarsi, stava già ridiscendendo veloce verso il suo petto. 99 David si girò nel momento in cui la mano del commesso scendeva. Una luce improvvisa rischiarò il retrobottega. Poco sopra la sua testa una nuda lampadina stava ancora dondolando. Il commesso staccò la mano dalla catenella con cui l’aveva accesa. «Il telefono è là», disse indicandogli un tavolo nell’angolo. Il ricevitore era di plastica rigida preformata, come le cornette nelle cabine telefoniche degli anni Ottanta. Di quelle con cui puoi ammazzare una persona con un colpo in testa. L’apparecchio a disco combinatore non era meno vecchio. David si avvicinò al tavolo, sollevò il ricevitore e si voltò a sorvegliare il commesso che aveva fatto un passo verso di lui. Non sentiva niente, come se non ci fosse segnale. «Central?», disse. «Identificarsi», rispose una voce. «Vale, David Patrick». «Stazione?» «Giacarta», rispose David. Non ricordava bene, ma sapeva che non era così che funzionava. «Attendere». Di nuovo silenzio assoluto. «Codice d’accesso?». Codice d’accesso? Non esisteva nessun codice d’accesso. Non era in un rifugio segreto dei boyscout. Avrebbero dovuto identificarlo tramite le frequenze vocali nel momento stesso in cui aveva pronunciato il suo nome. A meno che stessero prendendo tempo. Mentre circondavano l’edificio. Mentre aspettava con il ricevitore all’orecchio David cercò di interpretare l’atteggiamento del commesso. Da quanto tempo era dentro il negozio? Erano passati quindici minuti? «Non… non ho un codice d’accesso…». «Resta in linea». Ora la voce era più nervosa? «Identità operativa?». David esitò. Cosa aveva da perdere? «Reed. Andrew Michael». La reazione fu immediata. «Ti passo il direttore». Trascorsero due secondi, poi udì la voce paterna di Howard Keegan. «David, Dio mio, ti abbiamo cercato dappertutto. Stai bene? Dammi la tua situazione». «Questa linea è sicura?» «No. Ma francamente, ragazzo mio, al momento abbiamo problemi più grossi». «La Clocktower?» «Caduta, ma non completamente. Sto organizzando un contrattacco. C’è un altro problema. Un’epidemia che si sta diffondendo dappertutto. Siamo in lotta contro il tempo». «Credo di avere un tassello del puzzle». «Quale?» «Ancora non sono sicuro. Ho bisogno di un mezzo di trasporto». «Destinazione?» «Gibilterra». «Gibilterra?». Keegan era disorientato. «Qualche problema?» «No, non avrei potuto ricevere una notizia migliore. Il fatto è che in questo momento io sono a Gibilterra, è qui che io e gli ultimi agenti rimasti stiamo organizzando il contrattacco. Il commesso del negozio ti troverà il modo di arrivare fin qui, ma prima che tu parta c’è… qualcos’altro che devi sapere, David. Te lo dico nel caso tu non debba farcela ad arrivare o… io non dovessi essere qui. Non eri il solo a indagare sull’Immari. Smascherare la loro cospirazione è stata la missione della mia vita, ma quando mi sono trovato alle strette… sapevo che tu rappresentavi la mia migliore probabilità di fermarli. La tua fonte ero io. Per aiutarti ho usato tutti i miei contatti all’interno dell’Immari, ma non è bastato. Gli errori tattici sono stati solo miei…». «E sono acqua passata. Abbiamo informazioni nuove, qualcosa che forse possiamo utilizzare. Non è ancora finita. Ci vediamo a Gibilterra». 100 Base di ricerca Immari Prism Antartide orientale Dorian doveva ammetterlo: Martin Grey era tecnicamente competente. Il centro di ricerca nell’Antartide era una struttura esemplare. In quell’ultima mezz’ora Martin gli aveva fatto visitare tutte le sezioni del gigantesco laboratorio mobile a forma di centopiedi: la stanza dei primati con i cadaveri delle due scimmie, il centro di controllo perforazioni, gli alloggi del personale, le sale riunioni e il centro di controllo principale, dove si trovavano ora. «Qui siamo allo scoperto, Dorian. Dovremmo prendere delle precauzioni. In Antartide ci sono parecchie stazioni di ricerca. Una di loro potrebbe incrociarci per caso…». «E allora?», ribatté Sloane. «Chi potrebbero avvertire?» «Le nazioni che le finanziano, per dirne una». «Nazioni che presto avranno il loro bel da fare con l’epidemia. Ricerche non autorizzate su uno sperduto cubetto di ghiaccio in capo al mondo non saranno fra le loro priorità, fidati. Smettiamola di perdere tempo e mettiamoci al lavoro. Dimmi cosa avete trovato sull’iceberg». «Più o meno quello che era previsto». «Lui?» «No. Il generale Kane», e nel pronunciare quel nome sembrò che Martin evitasse a stento di fare una smorfia, «non era tra i corpi che abbiamo identificato». «Allora è dentro il sommergibile». La speranza che lo animava incrinò l’espressione solitamente granitica di Dorian. «Non necessariamente. Ci sono altre possibilità». «Poco probabili». «Potrebbe essere rimasto ucciso nel raid in Tibet», insisté Martin. «O mentre era in viaggio. È stata una traversata molto lunga. Oppure…». «È dentro. Lo so». «Se è così, ci sono alcuni interrogativi che richiedono una risposta. Per esempio perché non è uscito. E perché non abbiamo altre notizie su di lui. E c’è il fattore concreto dell’età. Kane è partito per l’Antartide nel 1938. Settantacinque anni fa. Se fosse davvero dentro, avrebbe più di centoventi anni. È morto da un pezzo». «Forse ha veramente cercato di comunicare con noi: Roswell. Era un avvertimento». Martin valutò la sua teoria. «Interessante. Ma anche così, la tua ossessione per Kane sta mettendo in pericolo tutti noi. Se devi guidare questa operazione, è necessario che tu mantenga una mente lucida». «La mia mente è più che lucida, Martin». Dorian si alzò. «Ammetto che trovare Konrad Kane per me è diventata un’ossessione, ma sarebbe lo stesso per te se fosse tuo padre a essere scomparso». Robert Hunt lasciò il motore acceso. Scese dalla motoslitta ed entrò nell’oscurità sotto la sporgenza rocciosa dove aveva lasciato i due compagni. Non c’erano più. Ma c’era una delle altre due motoslitte. Erano andati avanti? Lo avevano denunciato? Lo avevano seguito tornando indietro anche loro? Se lo avevano fatto, in sostanza era come se lo avessero denunciato. Corse fuori, recuperò il binocolo e scrutò la distesa di ghiaccio in tutte le direzioni. Niente. Rientrò nell’antro. Dentro faceva freddo. Un freddo micidiale. Cercò di accendere il motore della motoslitta rimasta, ma era senza carburante. Come mai? Lo avevano seguito ed erano rimasti a secco appena rientrati? No, le tracce erano vecchie. Avevano tenuto il motore acceso là sotto. Perché? Per tenersi al caldo? Sì, probabile. Avevano aspettato finché avevano potuto, finché il carburante si era esaurito e aveva ricominciato a fare freddo. Allora erano saliti entrambi sull’ultima motoslitta ed erano andati via insieme. Ma dove? 101 «Ti prego di non farlo, Dorian». Martin si piazzò davanti alla porta e aprì le braccia. «Sii ragionevole, Martin. Sai che è ora». «Non abbiamo nessuna certezza…». «Quello che sappiamo con certezza è che dalla loro città si è staccato un grosso pezzo. E che quasi settantacinque anni fa fu attivata una delle loro Campane. Abbiamo i corpi trovati nel sommergibile a dimostrarcelo. Vuoi correre il rischio? Sappiamo tutti e due che presto usciranno dall’ibernazione, posto che non l’abbiano già fatto. Non abbiamo tempo per fare ricerche e discutere. Se vengono fuori da lì, per la razza umana è la fine». «Tu dai per scontato…». «Io lo so. E lo sai anche tu. Abbiamo visto che cosa può fare la Campana. E questo è solo un piccolo assaggio, la porta d’ingresso di un tipo di città che non saremmo capaci di costruire per almeno mille anni, posto che fossimo mai in grado di inventare una tecnologia all’altezza della loro. Prova a immaginare che razza di armi avranno là dentro. La Campana è un semplice scacciamosche per impedire che qualche insetto disturbi il loro riposo. Se vogliono che nessuno entri là dentro, avranno una buona ragione. Io cerco solo di garantire la nostra sopravvivenza. Questo è l’unico modo». «Un’azione di questa vastità, basata su così tante congetture…». «I grandi leader si forgiano nel fuoco delle decisioni gravi», sentenziò Dorian. «Ora fatti da parte». Sloane si abbassò a guardare negli occhi i due piccoli indonesiani. I bambini sedevano su una panca bianca, davanti alla porta del laboratorio dei primati. Non toccavano il pavimento con la punta dei piedi. «Scommetto che voi due sarete ben felici di togliervi di dosso quella roba, vero?». I bambini lo fissarono senza rispondere. «Io mi chiamo Dorian Sloane. E voi?». Lo sguardo inespressivo dei due bambini si spostò lentamente da lui al pavimento. «Non fa niente, non abbiamo bisogno di nomi per giocare a questo gioco. Il gioco dei nomi è comunque noioso. Noi ne facciamo uno più bello, uno molto divertente. Avete mai giocato a nascondino? Quand’ero bambino era il mio preferito. Ed ero davvero bravo». Si rivolse al suo assistente. «Fatti dare gli zaini dal dottor Chase». Dorian fissò attentamente i bambini. «Vi faremo entrare in un labirinto, un labirinto grandissimo. Il vostro compito è trovare una certa stanza». Mostrò loro un disegno. «Vedete qui? Questa è una stanza con dentro molti tubi di vetro. Tubi grandi abbastanza da poterci entrare! Incredibile, vero? Se trovate questa stanza e vi nascondete lì dentro, vincerete il premio». Sloane posò sulle loro ginocchia il foglio di carta lucida. Era una ricostruzione fatta al computer di come sarebbe potuta apparire una grande sala di tubi da ibernazione secondo gli Immari. Entrambi i bambini studiarono l’immagine. «Quale premio?», chiese uno dei due. Dorian spalancò le braccia. «E già, è quello che avrei chiesto anch’io. Ah, se siete svegli, davvero in gamba». Si guardò intorno. Quale premio? Non aveva pensato che glielo avrebbero domandato. Odiava i bambini. Quasi quanto le loro domande. «Per la verità ne abbiamo più d’uno. Quale… vi piacerebbe?». L’altro bambino posò il foglio sulla panca. «Kate». «Volete vedere Kate?», chiese Dorian. Entrambi annuirono, muovendo la testa a tempo con le gambe penzoloni. «Allora vi dico come facciamo. Se trovate quella stanza e vi nascondete lì e aspettate da bravi, Kate verrà a prendervi». Quando vide gli occhi dei bambini diventare più grandi, Sloane annuì. «Proprio così. Io la conosco, siamo vecchi amici, se non lo sapete». Dorian sorrise della propria ironia, ma il sorriso ebbe l’effetto desiderato. I bambini erano visibilmente eccitati. Rientrò l’assistente con gli zaini e lo aiutò a metterli sulle spalle dei bambini. «Le fibbie attivano le testate. Abbiamo fatto in maniera che sia molto difficile manometterle. Se le fibbie vengono slacciate, le testate nucleari esplodono. Come aveva richiesto, una volta attivate, non c’è modo di disattivarle, né manualmente né a distanza. Abbiamo fissato il conto alla rovescia su quattro ore». «Eccellente», si compiacque Dorian stringendo bene le cinghie degli zaini. Posò le mani sulle spalle dei bambini. «Ora vi spiego una parte molto importante del gioco. Non potete togliervi questi zaini. Se lo fate, il gioco è finito. Niente premio. Niente Kate. So che sono un po’ pesanti. Se c’è bisogno, potete fermarvi a riposare, ma ricordatevi che non dovete toglierveli. Altrimenti lei non verrà. E c’è un’ultima cosa». Sloane appuntò una busta al petto del più grandicello dei due. Su di essa, a grandi lettere c’era scritto: “Papà”. Dorian usò qualche altro spillo per assicurarsi che la busta non venisse via. «Se dentro il labirinto vedete un uomo, un uomo anziano in divisa militare, vincete il gioco… se gli consegnate questa busta. Dunque se lo vedete, correte da lui e ditegli che vi ha mandato Dieter. Ve lo ricorderete?». I bambini annuirono. Un quarto d’ora dopo Dorian osservava dalla sala comando i due bambini che procedevano verso la Campana a tre chilometri di profondità sotto il laboratorio. La macchina infernale non reagì minimamente. Davanti a loro un gigantesco portale si aprì a segmenti, uno dopo l’altro. Come la palpebra di un rettile, pensò Dorian. I monitor trasmettevano le immagini riprese dalle telecamere sulle tute dei bambini. Su entrambi l’angolo di visuale s’inclinò verso l’alto quando i piccoli alzarono la testa per osservare la Campana, sospesa centinaia di metri sopra di loro, nella gigantesca cupola di ghiaccio. Dorian schiacciò un pulsante. «Non vi farà alcun male. Andate avanti. Ricordate la stanza con i tubi». Tolse il dito dal pulsante e si girò verso il tecnico accanto a lui. «Potete inviare l’immagine computerizzata dei tubi alle visiere delle loro tute? Bene». Riattivò il collegamento con le tute dei bambini. «È quella lì. Entrate e trovate i tubi». Dorian si accomodò meglio sulla poltroncina e guardò i bambini varcare la soglia del portale. Quando la porta si richiuse, le loro telecamere smisero di inviare segnali. Sugli altri schermi nella sala di controllo Dorian vedeva la camera esterna e la Campana. Dove tutto era immobile. E regnava un silenzio funereo. Sugli schermi scorrevano i secondi del conto alla rovescia: 03:23:57, 03:23:56, 03:23:55. 102 Trascrizione Comunicato stampa della Casa bianca sulla “Influenza Flash” ADAM RICE (ADDETTO STAMPA): Buongiorno a tutti. Vi leggerò ora una breve dichiarazione, poi risponderò a qualche domanda. «Il presidente e la sua amministrazione stanno prendendo provvedimenti per valutare e affrontare l’insorgere di quella che i mass media hanno battezzato “Influenza Flash”. Stamane il presidente ha ordinato ai CDC, i centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, di impegnare tutte le risorse disponibili in una stima dell’entità della minaccia. Sulla base dei risultati di detta valutazione, la Casa bianca prenderà eventuali ulteriori provvedimenti per garantire la sicurezza a ogni singolo americano». [Rice posa la dichiarazione e addita il primo giornalista.] GIORNALISTA: Il presidente ha stabilito una data per la chiusura delle frontiere? [Rice sospira e stacca lo sguardo dall’obiettivo.] RICE: Il presidente ha dichiarato ripetutamente che chiudere le frontiere è l’ultima spiaggia. Sappiamo l’impatto che una misura di questo genere avrebbe sull’economia americana a ogni livello. Sentite, ci rendiamo conto che c’è una questione di salute pubblica. Ma c’è anche un rischio commerciale. Chiudere le frontiere mette concretamente a repentaglio l’economia statunitense. L’influenza può costituire un danno per molti americani, ma chiudere le frontiere provocherebbe senz’altro un’immediata recessione che metterebbe in pericolo molti più cittadini USA di quanto possa fare il diffondersi di un’influenza. Stiamo mantenendo una posizione di vigile equilibrio. Il presidente non esporrà nessuno, né al pericolo dell’influenza, né a quello di un crollo commerciale. GIORNALISTA: Qual è la reazione ufficiale alle notizie che giungono da Asia, Medio Oriente ed Europa? RICE: Raccogliamo questi dati con tutta la serietà del caso, ma li sottoponiamo anche a un’analisi accurata e obiettiva. Stiamo ancora lavorando su informazioni incomplete e francamente non crediamo che siano affidabili in toto. GIORNALISTA: Sta alludendo ai rapporti dei testimoni oculari, ai filmati… [Rice alza una mano.] RICE: Quanto ai video che girano in Internet, è una di quelle situazioni per cui si vede solo il peggio. Nessuno carica su YouTube un video mentre sta seduto a casa, sano e vegeto, a mangiare i suoi cereali o a fare esercizi di aerobica. Fanno questi video quando c’è qualcosa di sensazionale. Finora li abbiamo visti tutti e ce ne saranno altri. Se si decide di vivere basandosi su quello che si vede su YouTube, si è destinati a prendere decisioni assai poco sagge, ed è quello che noi stiamo cercando di evitare. Non è nemmeno chiaro se questi video siano veri, e se lo sono, potrebbero riguardare una varietà indefinita di affezioni in fase acuta. [Rice alza entrambe le mani.] RICE: Bene, per oggi è tutto, grazie. 103 Covo segreto Clocktower Gibilterra Il tramonto sulla baia di Gibilterra era spettacolare. In lontananza, sobrie pennellate di rosso, arancione e rosa scendevano a tuffarsi nelle profonde acque blu dell’Atlantico. Cento metri più avanti finiva il porto e la Rocca si ergeva da mare e terra. La sua massa grigia e nera si scontrava con i raggi ardenti del sole che ne incorniciavano i fianchi. Kate aprì la porta-finestra e uscì sul balcone piastrellato, quattro piani al di sopra delle vie del quartiere portuale. Sotto di lei c’erano guardie armate a sorvegliare la casa. Si appoggiò alla ringhiera avvolta da una tiepida brezza mediterranea. Alle sue spalle si levarono delle risa intorno al tavolo. Si girò a incrociare lo sguardo di David. Com’era felice seduto lì, in compagnia degli altri capi e agenti della Clocktower, una decina di superstiti della cellula locale che era stata spazzata via. E adesso… Resistenza. Dal balcone, se non ne avesse saputo niente, avrebbe pensato a una rimpatriata di vecchi compagni d’università che festeggiavano scambiandosi battute e ricordi, progettando le prossime partitelle mariti contro mogli e le prossime spedizioni allo stadio con annessa bisboccia nel parcheggio, a base di salsicce e birra. Ma Kate sapeva che stavano progettando un attacco al quartier generale dell’Immari di Gibilterra. La conversazione era passata alle discussioni tecniche sugli elementi tattici dell’operazione, soffermandosi sulla topografia dell’edificio e sull’affidabilità dei dati relativi in loro possesso. Kate si era allontanata sentendosi come la nuova fidanzatina di uno del gruppo, necessariamente esclusa dall’intimità dei legami che univano i vecchi membri. Sull’aereo proveniente dall’India lei e David si erano parlati per la prima volta con franchezza, senza omissioni o titubanze. Lei gli aveva raccontato del bambino che aveva perso, di come avesse conosciuto un uomo che si era dileguato nel momento in cui era rimasta incinta. Una settimana dopo l’aborto spontaneo aveva lasciato San Francisco per Giacarta, dove per anni si era immersa nel suo lavoro e nelle ricerche sull’autismo. David era stato altrettanto sincero. Aveva raccontato a Kate della perdita della fidanzata nell’attacco dell’11 settembre e delle gravi ferite che aveva subìto e per le quali per poco non era rimasto paralizzato. Quando però si era trovato quasi miracolosamente del tutto guarito, aveva deciso di dedicarsi anima e corpo alla ricerca dei responsabili. Solo una settimana prima Kate non avrebbe dato alcun peso alle sue apparenti fantasie sull’Immari e su un complotto a livello mondiale, ma in aereo aveva cambiato idea. Non sapeva come collegare i vari frammenti di informazione in loro possesso, però gli credeva. Dopo aver parlato avevano dormito, come se quello sfogo li avesse liberati da un peso. Ma per Kate il sonno era stato interrotto e agitato, soprattutto per il rumore dell’aereo e in parte perché le era difficile dormire seduta. Tutte le volte che si svegliava, David era assopito. Immaginava che facesse lo stesso anche lui, che si svegliasse e la osservasse fino a quando si addormentava di nuovo. Aveva ancora tante cose da dirgli. L’ultima volta che si era ridestata, l’aereo era in manovra di avvicinamento a Gibilterra. David stava guardando dal finestrino, e quando si era accorto che era sveglia, si era subito preoccupato di darle qualche raccomandazione. «Ricordati di non parlare del diario, del Tibet o della centrale in Cina finché non ne sapremo di più», le aveva detto. «Voglio prima vederci un po’ più chiaro in questa faccenda». Appena atterrati, l’aereo era stato invaso da agenti della Clocktower, che li avevano trasferiti immediatamente nel covo segreto. Da allora avevano avuto poche occasioni per parlarsi. Kate sentì aprirsi la porta a vetri e si girò in fretta sorridendo, sperando. Era Howard Keegan, il direttore della Clocktower. Il sorriso le morì sul viso all’istante. Sperò che lui non se ne fosse accorto. Keegan uscì sul balcone e chiuse la porta. «Posso farle compagnia, dottoressa?» «Prego. E mi chiami Kate». Keegan si fermò accanto a lei senza sporgersi dalla ringhiera e senza guardarla. Fissò lo sguardo sulla baia al tramonto. Sebbene non nascondesse i suoi sessant’anni passati, era in perfetta forma, tonico. Il silenzio stava creando una situazione di disagio. «Come va con i piani?», chiese Kate. «Bene. Ma non ha importanza». La voce di Keegan era neutra, asettica. Kate si sentì percorrere da un brivido. Cercò di metterci un po’ di brio. «È così fiducioso…». «Senz’altro. L’esito di quanto avverrà domani è stato preparato già da anni». Indicò con la mano le strade e le guardie che piantonavano l’edificio. «Quelli non sono agenti della Clocktower. Sono dell’Immari Security. Come le guardie all’interno. Domani gli ultimi agenti ancora fedeli alla Clocktower moriranno, compreso David». Kate si staccò dalla ringhiera e lanciò un’occhiata al tavolo dove gli altri stavano ancora ridendo e chiacchierando. «Non capi…». «Non si giri. Sono qui per farle un’offerta», la interruppe Keegan sottovoce. «Che offerta?» «La vita di David. In cambio della sua. Lei partirà oggi stesso, tra qualche ora, quando tutti saranno andati a dormire. Ci andranno di buonora, il raid è previsto per l’alba». «Sta mentendo». «Ah sì? Io non voglio ucciderlo. Gli sono sinceramente affezionato. Semplicemente ci troviamo su fronti diversi. È così che ha voluto il destino. Ma noi vogliamo lei e siamo pronti a pagare qualunque prezzo». «Perché?» «Lei è sopravvissuta alla Campana. È la chiave di tutto ciò che abbiamo fatto. Dobbiamo capire come funziona. Non le racconterò storie. Sarà interrogata e poi studiata, ma lui sarà risparmiato. Consideri le alternative. Noi potremmo uccidere seduta stante gli agenti che ci sono qui dentro. Sarebbe scomodo sul piano pratico, proprio qui in un quartiere residenziale, ma accettabile comunque. Abbiamo tenuto aperta questa operazione fin troppo a lungo in attesa di sapere chi fosse disposto a passare dalla nostra parte, nella speranza che si facesse vivo lui. C’è dell’altro. Se saprà agire con astuzia nelle sue trattative, forse riuscirà a liberare i bambini, o comunque a scambiare la sua vita con loro. Sono trattenuti nello stesso posto». Finalmente Keegan si girò a guardarla negli occhi. «Allora? Qual è la sua risposta?». Kate deglutì e fece segno di sì con la testa. «Accetto». «C’è un’altra cosa. Dalle registrazioni sull’aereo risulta che abbiate parlato di un diario. Lo vogliamo. Non ha idea da quanto tempo lo stavamo cercando». 104 Snow Camp Alpha Sito trivellazione n. 7 Antartide orientale Quando vide la motoslitta parcheggiata davanti al piccolo guscio bianco del sito n. 7, Robert Hunt si sentì invadere da un’ondata di sollievo. Posteggiò il proprio mezzo e corse dentro. Gli uomini si stavano scaldando davanti al radiatore. Quando lo videro entrare si alzarono entrambi. «Abbiamo cercato di aspettarti, ma si gelava. Siamo dovuti andare via». «Lo so, va bene così», rispose Robert. Si guardò intorno. Tutto come nelle sei fermate precedenti. Lanciò un’occhiata alla radio. «Hanno chiamato…». «Tre volte a intervalli di un’ora. Chiedendo di te. Stanno perdendo la pazienza». Robert pensò a cosa replicare. «Cosa gli avete detto?». La loro risposta gli avrebbe rivelato che ruolo avevano in quella strana situazione. «Alla prima chiamata non abbiamo risposto. La seconda volta hanno detto che mandavano dei soccorsi. Noi gli abbiamo spiegato che stavamo lavorando alla piattaforma e che non avevamo bisogno di assistenza. Tu cos’hai visto?». Quell’ultima domanda obbligò Robert a prendere in fretta una decisione. “E se mi stanno mettendo alla prova? Se hanno parlato con il datore di lavoro e hanno avuto ordine di uccidermi? Posso fidarmi di loro?”. «Non ho…». «Senti, io non sono un genio, dannazione, non ho nemmeno preso il diploma, ma ho lavorato alle piattaforme petrolifere nel Golfo per tutta la vita e so che non stiamo scavando per cercare petrolio, allora perché non ci dici cosa hai visto?». Robert si sedette al piccolo tavolo su cui c’era la radio. A un tratto si sentiva stanchissimo. E affamato. Si abbassò il cappuccio sulla schiena, poi si sfilò i guanti. «Ancora non sono sicuro. C’erano delle scimmie. Le hanno uccise con qualcosa. Poi ho visto dei bambini. Dentro una gabbia di vetro». 105 Covo segreto Clocktower Gibilterra Kate cercò di calcolare la distanza tra i balconi. Un metro e mezzo? Di più? Poteva farcela? Sentì i passi di una guardia in giardino e rientrò silenziosamente in camera. Ascoltò. Lo scricchiolio della ghiaia sottile sotto i piedi della guardia si spense in lontananza. Tornò fuori. Passò una gamba oltre il parapetto, poi lo scavalcò anche con l’altra. Indugiò sullo stretto cornicione tenendosi con le mani alla ringhiera dietro di sé. Poteva farcela? Allungò una gamba sempre reggendosi alla ringhiera come facesse un passo da ballerina classica. La protese più che poté, sentì che la mano le scivolava dalla ringhiera e per poco non cadde. Si ritrasse giusto in tempo andando a sbattere contro il parapetto. Si sarebbe rotta l’osso del collo. L’altro balcone, anche se di poco, era troppo lontano. Si appoggiò dietro di sé e si accingeva a spiccare il salto quando la portafinestra dell’altro balcone si aprì e uscì David. Quando la vide, trasalì per un istante, ma dopo averla riconosciuta le si avvicinò con un sorriso sulle labbra. «Molto romantico», commentò. Le tese un braccio. «Salta. Ti tengo io. Te lo devo». Kate guardò giù. Si sentiva le mani sudate. David era proteso verso di lei, la distanza non era nemmeno di due metri, era pronta a provare, ma se non ce l’avesse fatta? Se fosse caduta, le guardie le sarebbero state subito addosso e Keegan avrebbe capito tutto. Addio accordo. David era davvero in grado di prenderla con un braccio solo, visto che l’altro pativa ancora le conseguenze della ferita? E sarebbe riuscito a salvarli dalla trappola in cui erano caduti? Si fidava di lui, credeva in lui, ma… Saltò e lui l’afferrò e la issò oltre la ringhiera prendendola tra le braccia. Poi tutto accadde così in fretta, come in un sogno. La trasportò di peso in camera senza nemmeno chiudere la porta-finestra. La gettò sul letto e le salì sopra. Si strappò via la camicia e le passò le dita nei capelli. La baciò sulla bocca e le sollevò la maglia, allontanando le labbra da quelle di lei solo per il tempo necessario a sfilargliela dalla testa. Doveva dirglielo. Doveva fermarlo. Ma non poteva resistere. Lo voleva anche lei. Le sue mani erano come cariche di corrente elettrica, accendevano parti di lei che da troppo tempo erano rimaste al buio. David stava risvegliando qualcosa in lei, una specie di forza soprannaturale che la travolgeva, cancellando tutto il resto. Non poteva più pensare. Non aveva più il reggiseno e lui si stava togliendo i calzoni. La faceva stare così bene. Quel senso di liberazione. Avrebbero parlato dopo. Kate osservava il movimento ritmico del torace di David. Era un sonno profondo, il suo. Prese la sua decisione. Tornò a sdraiarsi e a fissare il soffitto bianco mentre ragionava e cercava di comprendere le sensazioni che provava. Si sentiva… di nuovo viva… al sicuro, persino, nonostante la minaccia di Keegan. Da una parte desiderava svegliare David, avvisarlo che erano in pericolo e che dovevano sparire da lì al più presto. Ma che cosa avrebbe potuto fare lui? Le ferite alla gamba e alla spalla non erano guarite nemmeno per metà. Sarebbe riuscita solo a farlo uccidere. Si rivestì e uscì in punta di piedi chiudendo lentamente la porta. «Ero stato chiaro». La voce la spaventò. Si voltò di scatto. C’era Keegan dietro di lei, con un’espressione di… tristezza? Delusione? Rammarico? «Non gliel’ho detto». «Ne dubito». «Sbaglia». Kate riaprì di qualche centimetro la porta perché potesse vedere David che dormiva sotto un lenzuolo che lo copriva dall’ombelico in giù. Richiuse con delicatezza. «Non abbiamo parlato affatto». Abbassò gli occhi. «Gli stavo solo dicendo addio». Mezz’ora dopo, in volo verso l’Antartide, Kate guardava dal finestrino le luci dell’Africa settentrionale. 106 «Svegliati, David». Lui aprì gli occhi. Era ancora nudo, nella stessa posizione in cui si era addormentato. Tastò il letto accanto a sé. Vuoto. Freddo. Kate non c’era più da ore. «David». C’era invece Howard Keegan, in piedi accanto al letto. David si alzò a sedere. «Che c’è? Che ore sono?». Il suo ex mentore gli porse un biglietto. «Circa le due di notte. Abbiamo trovato questo nella stanza di Kate. Se n’è andata». David lesse il messaggio. Caro David, non odiarmi. Non posso non cercare di fare qualcosa per salvare i bambini. So che questa mattina attaccherete il quartier generale dell’Immari. Spero che abbiate successo. So che cosa ti hanno portato via. Buona fortuna, Kate David rifletté in tutta fretta. Kate che faceva una cosa del genere? Qualcosa non quadrava. «Crediamo che sia andata via già da qualche ora. Ho pensato che dovessi saperlo. Mi spiace, David». Howard si avviò alla porta. David cercò di analizzare la situazione tattica, si sforzò di ragionare con obiettività. “Cosa mi sfugge?”. La sua mente continuava a tornare a Kate, le immagini di qualche ora prima gli scorrevano nella mente come una successione di diapositive che non era in grado di fermare. Era al sicuro e improvvisamente andava a consegnarsi al nemico. “Perché?”. Era il suo incubo peggiore. Keegan afferrò la maniglia. «Aspetta». David stava ancora cercando un filo conduttore. Ma cos’altro poteva fare? «So dov’è andata». Howard si girò e lo guardò con scetticismo. «In Tibet ci hanno dato un diario». David gli parlò mentre si vestiva. «Conteneva la mappa di una rete di gallerie sotto la Rocca. Là sotto c’è qualcosa di cui hanno bisogno». «E cioè?» «Non lo so. Ma credo che Kate sia andata laggiù… a cercare quella cosa da usare come scambio. Noi come siamo messi?» «Tutti in assetto. Siamo quasi pronti per l’assalto». «Ho bisogno di parlare ai ragazzi». Trenta minuti dopo David guidava gli ultimi ventitré agenti della Clocktower rimasti al mondo nelle gallerie sotto la Rocca di Gibilterra. Aveva spiegato ai suoi uomini che doveva assolutamente andare lì, che doveva assolutamente trovare Kate e che probabilmente avrebbe ritardato la sua partecipazione all’assalto. Il suo ruolo sarebbe stato comunque in gran parte strategico. Le ferite, in particolare quella alla gamba, lo rendevano inidoneo a un compito operativo. Sarebbe stato a una scrivania a guardare l’evolversi dell’azione sui monitor e coordinare da lì le operazioni sul campo. I suoi colleghi avevano accettato all’unanimità: sarebbero rimasti insieme e lo avrebbero accompagnato a recuperare Kate prima di mettere in atto il piano originale. Il contenuto della camera delle meraviglie avrebbe forse offerto loro qualche vantaggio tattico nell’operazione principale. Non si erano aspettati una forte resistenza al magazzino e non furono delusi. Il capannone non era nemmeno custodito. E non era nemmeno più sprangato come prima. La squadra della Clocktower trovò per terra, spezzato in due, un comune lucchetto a combinazione, di quelli che si usano per gli armadietti a scuola. Doveva essere stata Kate. Sembrava che gli uomini dell’Immari avessero abbandonato quello scavo già da tempo, giudicandolo di scarso valore. Ma l’assenza di personale a guardia del magazzino insospettì David. L’ingresso alle gallerie era come descritto nel diario e praticamente nelle stesse condizioni. Il telo nero che lo nascondeva era stato strappato via e le luci interne erano accese. Dentro la miniera una cosa però era cambiata: ora era stato installato un sistema di trasporto elettrico, una specie di monorotaia con vagoni singoli per garantire un transito rapido e sicuro lungo le gallerie. Su ciascun vagone potevano prendere posto due passeggeri; la squadra ne riempì una decina, con Howard e David in testa. Dopo una vertiginosa discesa a spirale, il tunnel proseguiva in un rettilineo, che però si divideva in una serie di bivi. David non se l’era aspettato: aveva pensato che gli Immari avessero chiuso tutti i vicoli ciechi. La mappa del diario riproduceva l’interno della struttura di Atlantide, ma non c’era modo di sapere dove conducessero le gallerie laterali. Non c’era scelta. Howard cominciò a dividere le sue forze e disgraziatamente, quando ebbero lasciato dietro di sé l’ultimo bivio, lui e David dovettero separarsi anche dall’ultima coppia di uomini al loro seguito e proseguire da soli, sperando di essere nella direzione giusta. L’accordo era di ritrovarsi all’ingresso di lì a un’ora. Avrebbero avuto ancora tutto il tempo per un raid all’Immari Gibilterra prima del sorgere del sole. David viaggiava guardando dritto davanti a sé tra le luci del tunnel che gli sfrecciavano accanto con interminabile, ritmica monotonia. Che cosa non vedeva? Howard regolava la loro velocità ai comandi del veicolo. A un tratto, in lontananza, ci furono tre colpi in rapida successione. David e Howard si scambiarono un’occhiata. Howard rallentò e aspettarono di sentirne altri nella speranza di individuarne la provenienza. «Possiamo tornare indietro», disse sottovoce. Attesero. Le gallerie erano silenziose. Cosa fare? Quelli che avevano sentito erano sicuramente spari, ma David non era in condizione di combattere e, per quanto abile come analista, Howard era un burocrate, non un soldato. Nessuno dei due avrebbe potuto opporre una vera resistenza. Per la verità, sarebbero stati probabilmente d’impiccio e basta. «No, si va avanti», rispose David. Cinque minuti dopo sentirono altri colpi d’arma da fuoco, ma non si fermarono. Cinque minuti e raggiunsero l’antro in cui era stato disseppellito il fianco della struttura. La scala era al centro, completamente esposta. A destra c’era l’apertura irregolare descritta nel diario. David vedeva anche il resto della struttura, che era però quasi tutta di liscio metallo scuro. Enormi putrelle d’acciaio tenevano a bada roccia e mare sopra di loro. David studiò l’area sopra la scala. C’era una grande cupola sopra una sezione della struttura che mancava, chiaramente rimossa dall’alto. «Cos’è?», chiese Howard. «Lì è da dove hanno estratto la Campana», disse David, parlando quasi a se stesso. Howard si avvicinò alla scala, posò un piede sul primo gradino e si girò a guardare David. Senza una parola, lui lo raggiunse zoppicando e cominciò a salire aiutandosi con il bastone. Mentre arrancava stringendo i denti, fu invaso da un insinuante senso di déjà-vu. Anche l’uomo che aveva aperto la galleria, Patrick Pierce, era stato attirato là sotto dalla necessità di salvare qualcuno, solo per finire intrappolato lui stesso. David varcò la soglia con Howard subito dietro. Si fermò a guardare negli occhi il suo mentore. Gli sfuggiva qualcosa? Ma che cosa avrebbe potuto farci ormai? L’interno della struttura era illuminato da LED che correvano lungo il pavimento e il soffitto. I corridoi erano alti circa due metri e mezzo, né angusti né esattamente spaziosi. Non erano nemmeno a sezione rettangolare. Sopra e sotto le pareti s’incurvavano lievemente in una forma pressoché ovale, ma con curvature più accentuate in corrispondenza degli angoli. L’architettura faceva pensare ai corridoi di una nave… ma una navicella spaziale alla Star Trek. David precedette Howard facendosi guidare dall’immagine mentale della mappa trovata nel diario. Memorizzare mappe e codici era uno degli strumenti fondamentali dell’arte spionistica, e in questa specialità David era particolarmente portato. La struttura era incredibile. Molte delle porte erano aperte, e passando vide una serie di laboratori provvisori, qualcosa di simile a quello che si potrebbe trovare dietro i vetri di un museo, dove i curatori esaminano meticolosamente o restaurano manufatti antichi. A quanto pareva, in quegli ultimi cento anni gli Immari avevano dissezionato ogni centimetro della struttura. Era surreale. David aveva creduto solo in parte al racconto del minatore, aveva pensato che potesse essere solo una… storia romanzata. Invece era tutto lì. Stavano arrivando alla parete finta, subito dietro l’ultima curva. Quando comparve, David si scoprì a trattenere il fiato. La camera segreta era… aperta. Kate. Era là dentro? «Kate!», chiamò. Non aveva niente da perdere. Chiunque ci fosse stato là dentro avrebbe sentito i rintocchi del suo bastone sul pavimento di metallo già da chissà quanto tempo, dunque l’elemento sorpresa era comunque andato perso. Nessuna risposta. Alle sue spalle si materializzò Howard. David si avvicinò con cautela alla porta aperta e sbirciò all’interno. Sembrava un centro di comando. Una plancia, con poltrone allineate davanti a superfici lisce… computer? Qualcosa di più evoluto? Entrò con la massima prudenza, ruotò su se stesso reggendosi con il bastone e scrutò tutto lo spazio del locale. «Non è qui», disse. «Ma quello che c’è nel diario è tutto vero». Howard entrò dopo di lui e toccò qualcosa alle sue spalle. La porta si chiuse con un sibilo, scivolando da destra a sinistra. «Oh, sì, verissimo». David lo guardò con nuovo interesse. «Lo hai letto?». Le sue dita sfiorarono la pistola che portava infilata nella cintura. L’espressione di Howard era cambiata. Quella mite che mostrava di solito non c’era più. Adesso era soddisfatta, compiaciuta. «Sì, l’ho letto. Ma giusto per curiosità. Sapevo che cosa ci avrei trovato perché io ero qui. L’ho visto personalmente. Sono stato io ad assumere Patrick Pierce perché trovasse questo posto. Io sono Mallory Craig». 107 Base di ricerca Immari Prism Antartide orientale Seduta su una piccola panca di plastica, Kate fissava i muri bianchi. Era in una specie di laboratorio o centro di ricerca, ma non aveva idea di dove si trovasse. Si toccò le tempie. Dio, come si sentiva stordita. Stavano ancora sorvolando l’oceano, quando un uomo era venuto a offrirle una bottiglia d’acqua. Aveva rifiutato e lui, come se nulla fosse, l’aveva inchiodata allo schienale della poltrona e le aveva coperto la bocca con un fazzoletto intriso di una di quelle sostanze che fanno perdere immediatamente conoscenza. Che cosa si era aspettata? Si alzò e si mise a passeggiare. Nella porta bianca c’era una piccola fessura, ma da lì riuscì a vedere solo un tratto di corridoio con alcune altre porte come quella della stanza in cui si trovava lei. Inserito in una delle lunghe pareti c’era uno specchio rettangolare, incassato per qualche centimetro. Dunque era senz’altro una stanza di osservazione simile a quelle che c’erano nel suo laboratorio di Giacarta, ma infinitamente più sinistra. Fissò lo specchio. Là dietro c’era qualcuno che la stava spiando, in quel momento? Kate andò a piazzarsi davanti allo specchio, assunse una posa marziale e lo fissò a testa alta come se potesse scorgere l’uomo misterioso che c’era dietro. «Io ho fatto la mia parte. Sono qui. Voglio vedere i miei bambini». «Dicci che farmaco hai somministrato loro», le rispose dagli altoparlanti una voce attutita e alterata al computer. Kate si rendeva conto che una volta rivelato il suo segreto sarebbe rimasta totalmente a mani vuote. «Prima voglio vedere i bambini, poi dovete liberarli e solo allora ve lo dirò». «Non sei nella posizione di negoziare, Kate». «Credo proprio che vi sbagliate. Voi avete bisogno di quello che io so. Adesso mi mostrate i bambini oppure non abbiamo niente da dirci». Per quasi un minuto non accadde nulla, poi su un lato dello specchio si animò un filmato. Evidentemente quella sezione era in realtà uno schermo di computer. Nel video si vedevano i bambini che percorrevano un corridoio buio. Kate si avvicinò di più allungando la mano. Davanti a loro si apriva un enorme portale su tenebre ancor più scure. I bambini proseguirono. Il video mostrò ancora l’immagine del portale che si richiudeva. «Hai letto il diario del minatore. Sai della struttura a Gibilterra. Qui ce n’è una simile, venti volte più grande. È qui, sotto tre chilometri di ghiaccio, da migliaia e migliaia di anni. I bambini sono lì dentro». Lo schermo nello specchio passò a un’immagine in primo piano dei piccoli un attimo prima di varcare la soglia del portale. Strinse sugli zaini. C’era un piccolo quadrante a LED, tipo quello di una sveglia digitale, con una serie di cifre. Un conto alla rovescia. «Kate, negli zaini di quei bambini ci sono testate nucleari. Gli restano meno di trenta minuti. Noi possiamo disattivare le bombe a distanza, ma tu devi dirci che cosa hai fatto». Lei indietreggiò. Era follia pura. Chi poteva fare una cosa simile a due bambini? No, non si fidava di loro. Non avrebbe parlato. Avrebbero solo fatto del male ad altri minori, ne era certa. «Ho bisogno di tempo», balbettò. L’immagine degli zaini scomparve. Trascorsero pochi secondi, poi la porta si aprì. Entrò un uomo che indossava un lungo trench nero e camminava rigido come un robot… Kate lo conosceva. Com’era possibile? Un rapido scorrere di immagini del passato, cene eleganti, il suo modo affascinante di sorridere, un appartamento di San Francisco pieno di candele accese. E il giorno in cui gli aveva detto di essere incinta, l’ultima volta in cui lo aveva visto… fino a ora, lì. «Tu…», fu tutto quello che riuscì a dire. Indietreggiò davanti a lui che le andava incontro a passo di marcia. Indietreggiò fino a quando non si sentì con le spalle contro la parete. «È ora di parlare, Kate. E chiamami Dorian Sloane. Anzi, lasciamo perdere gli pseudonimi. Sono Dieter. Dieter Kane». 108 Tunnel degli Immari Gibilterra David fissò l’uomo che gli veniva incontro, l’uomo che aveva sempre conosciuto come Howard Keegan, il direttore della Clocktower, colui che sosteneva di essere Mallory Craig. «Stai mentendo. Craig assunse Pierce quasi cent’anni fa». «Così è, infatti. Ed è praticamente da allora che cerchiamo il suo diario. Pierce era un uomo estremamente intelligente. Sapevamo che nel 1938 aveva spedito il suo diario agli Immaru, ma non eravamo sicuri che fosse arrivato a destinazione. Io ero curioso di sapere che cosa potesse avervi scritto, quanti segreti vi avesse rivelato. Quando lo hai letto, non eri ansioso di conoscere l’accordo che aveva fatto con noi? Come mai era rimasto a lavorare per gli Immari per quasi vent’anni dopo che l’influenza spagnola aveva ucciso sua moglie e il figlio ancora non nato? Come l’aveva definito? Il suo “patto con il diavolo”». Rise. David si sfilò la pistola dalla cintura. Doveva farlo parlare almeno ancora po’. «Non vedo cos’ha a che fare tutto questo con te». «Ah no? Secondo te perché Pierce avrebbe lavorato per noi?» «Perché altrimenti l’avreste ucciso». «Sì, ma lui non temeva la morte. Hai letto come finisce il diario. L’avrebbe accettata volentieri, uccidendo tutti noi in un gesto eroico. Noi gli avevamo portato via tutto, tutto ciò che amava di più. Ma il suo amore per suo figlio era più forte del suo odio per noi. Come ho detto, Patrick Pierce era un uomo molto intelligente. Nell’istante stesso in cui era uscito da quel tubo, aveva capito che cos’era. Una cella di ibernazione, una camera di sospensione temporale. In quell’ospedale provvisorio nel magazzino sopra di noi, stipulò un patto. Avrebbe messo il corpo di Helena morta in uno di quei tubi e in un altro Kane avrebbe messo Dieter, che stava morendo. Credendo ciecamente nella ricerca medica, sognavano il giorno in cui avrebbero aperto quei tubi e salvato i loro cari. Naturalmente l’idea di Kane era molto più radicale, ispirata da princìpi razzisti. Si dedicò alla ricerca di un modo per sopravvivere alla Campana. La portò in Germania e… già sai degli esperimenti che furono fatti. Sapeva che Pierce stava lavorando contro di noi, stava progettando qualcosa. Nel 1938, alla vigilia della sua spedizione, Kane fece catturare Pierce dagli uomini delle sue truppe d’assalto e lo fece mettere in uno dei tubi». «Perché non ucciderlo?» «Ci sarebbe piaciuto, ma come ho detto sapevamo che aveva scritto un diario e che aveva in mente altri piani per noi. Non potevamo escludere che entrassero in atto in seguito alla sua morte, dunque eravamo in una posizione difficile. Ucciderlo era ancora troppo rischioso. Io tuttavia ridevo vedendo Pierce lottare con tutte le forze prima che le guardie lo neutralizzassero e lo gettassero nel tubo. Poi, con mia sorpresa e orrore, Kane ordinò ai suoi uomini di mettere me in un altro tubo. Non si fidava di me, neppure dopo i tanti anni in cui gli avevo dimostrato la mia lealtà. Mi promise che mi avrebbe riportato in vita quando fosse tornato. Non aveva mai immaginato di non tornare, ma naturalmente è così che andò a finire. Abbiamo ritrovato il suo sommergibile solo qualche settimana fa nell’Antartide. Io e Pierce fummo risvegliati nel 1978 in un mondo diverso. La nostra organizzazione, l’Immari, era praticamente finita, restavano solo gli involucri esterni di sedi scomparse e qualche struttura all’estero. La seconda guerra mondiale ci aveva decimati. I nazisti si erano appropriati di molti dei nostri beni, compresa la Campana. La direzione di quel che rimaneva dell’Immari era alla disperazione, lo era al punto da rianimare la vecchia guardia, quelli che avevano fondato l’Immari International. Ebbero almeno il buonsenso di fare questo. Ma naturalmente non conoscevano tutta la storia. Io e Patrick Pierce fummo risvegliati lo stesso anno e ciascuno di noi riprese esattamente da dove aveva lasciato. Io mi dedicai alla ricostruzione dell’Immari e Patrick ricominciò a fare di tutto per ostacolarmi. Io iniziai riportando in attività la struttura che avevo fondato, la mia divisione dell’Immari, la prima organizzazione di intelligence globale. La conosci. È la Clocktower. La branca dell’intelligence dell’Immari». «Menti». «Nossignore. Lo sai. Hai visto i messaggi che spedimmo nel 1947, quelli nascosti nei necrologi del “New York Times”. Perché i messaggi dell’Immari dovevano essere contrassegnati dalle parole clock e tower? Quando hai visto i messaggi codificati non puoi non essertene reso conto. Ma forse ci eri già arrivato prima. Da qualche parte, sotto sotto, sapevi cos’era in realtà la Clocktower nel momento in cui hai sentito quanti agenti erano sotto il controllo dell’Immari. Lo hai capito quando hai visto le cellule cadere così velocemente. Pensaci. La Clocktower non è stata infiltrata e quindi conquistata dall’Immari. È sempre stata una divisione dell’Immari, un’organizzazione che aveva lo scopo di conquistarsi la fiducia delle agenzie di intelligence di tutto il mondo, di entrarne a far parte e assicurarsi che quando il giorno fosse venuto, quello in cui avremmo scatenato la Peste di Atlantide, fossero cieche e impotenti. La Clocktower aveva anche un’altra funzione: quella di assorbire e arginare chiunque avesse avuto sentore del piano principale dell’Immari. Gente come te. Per tutto il tempo in cui sei stato alla Clocktower ti abbiamo sorvegliato cercando di scoprire cosa sapevi e a chi lo riferivi. Era l’unica soluzione. Quelli come te resistono agli interrogatori. E c’è un altro vantaggio. Abbiamo scoperto nel corso del tempo che la gran parte degli agenti, quando conosce la verità, si unisce a noi. È quello che farai anche tu. È per questo che sei qui». «Per farmi indottrinare? Tu pensi che dopo aver ascoltato le tue argomentazioni, io mi alleerò con voi?» «Le cose non sono come sembrano…». «Ho sentito abbastanza». David alzò la pistola e premette il grilletto. 109 Base di ricerca Immari Prism Antartide orientale Kate scosse la testa. Com’era possibile che lui fosse lì? Non si sarebbe messa a piangere. Riuscì solo a emettere uno strozzato: «Perché?», con una voce rotta che la tradì. L’espressione di Dorian cambiò, come se avesse ricordato qualcosa di frivolo, una suppellettile di poco conto che aveva comprato ma poi dimenticato alla cassa del negozio. «Oh, quella storia. Un vecchio debito che andava saldato. Ma non è niente in confronto a quello che ti farò se non mi dici cosa hai dato a quei bambini». Le si avvicinò costringendola a strisciare contro il muro per tenerlo lontano. Kate sentì la voglia di dirglielo a questo punto, giusto per vedere che faccia avrebbe fatto. «Sangue cordonale». «Cosa?». Dorian retrocesse di un passo. «Ho perso il bambino. Ma un mese prima mi ero fatta estrarre dal cordone ombelicale un campione di cellule staminali embrionali, nel caso il neonato avesse sviluppato qualche patologia che ne richiedesse l’impiego». «Menti». «No, tutt’altro. Sui bambini ho usato un trattamento sperimentale a base di cellule staminali, usando quelle prelevate dal feto di nostro figlio morto. Le ho usate tutte. Non ce ne sono altre». 110 Tunnel degli Immari Gibilterra David premette il grilletto di nuovo. Un altro clic. «Ho tolto il percussore», disse Craig. «Avresti sentito la differenza di peso se ti avessi scaricato la pistola». «Cosa vuoi da me?» «Te l’ho già detto. Sono qui per reclutarti. Quando avremo finito di parlare conoscerai la verità, e allora finalmente…». «La risposta è no. Puoi ammazzarmi anche subito». «Preferirei di no. È difficile trovare uomini in gamba. E c’è un’altra ragione. Tu sai più di chiunque altro. Sei in una posizione unica per poter…». «Sai perché sono entrato alla Clocktower, che cosa l’Immari mi ha portato via. Che cosa tu mi hai portato via». «Non io. Dorian. Dieter Kane. È vero che ho usato la Clocktower per assicurarmi che nessuna agenzia di intelligence fiutasse l’esistenza del complotto, ma è stato lui a progettare l’11 settembre. È stata una sua creazione. Era ossessionato dal bisogno di ritrovare suo padre. Lo viveva come un legame spezzato che aveva assolutamente bisogno di riallacciare. E non c’era solo quello. Come ti ho spiegato, quando mi sono svegliato nel 1978 la nostra organizzazione era distrutta e nel 2001 non ci eravamo ancora rimessi in piedi. Avevamo bisogno di soldi e di una copertura globale dietro la quale riprendere il nostro lavoro». «Dorian Sloane è Dieter Kane?» «Già. Nel 1978, al mio risveglio, ordinai al personale di aprire il suo tubo, dal quale emerse perfettamente sano. Evidentemente quella struttura aveva anche proprietà terapeutiche, sottoponeva l’ospite a un trattamento medico. Le sue capacità, però, erano limitate. Ho visto con i miei occhi Patrick Pierce, che per vent’anni era stato emotivamente più inflessibile di un giudice, crollare quando estrassero dal suo tubo il corpo morto di Helena. Rivisse per intero il momento della sua morte. Eppure fummo in grado di salvare il feto». «Suo figlio?» «Figlia. Ma già la conosci. Kate Warner». 111 Base di ricerca Immari Prism Antartide orientale Kate studiava l’espressione di Dorian. Confusione? Incredulità? Rimpianto? Lo vedeva fissare il punto in cui la parete arrivava a toccare il pavimento. Stava pensando. Poi rialzò la testa e le rivolse un ghigno sgradevole, malvagio. «Molto furba, Kate. È naturale che tu sia brillante, quando si tratta di scienza. Ma non quando si tratta di capire il prossimo». Si voltò e si diresse alla porta. «Sei proprio come tuo padre, da questo punto di vista. Brillante, ma stupida». Di cosa stava parlando? Suo padre era morto ventotto anni prima. Dorian – o Dieter o comunque si chiamasse – era un pazzo. «Qui l’unico stupido sei tu», ribatté. «Io? Tutto questo è colpa di tuo padre. È stato lui a scatenare questo casino. Ha ucciso mia madre e mio fratello e ha costretto mio padre a intraprendere una missione pericolosa per salvare il mondo, una missione dalla quale non è più tornato. Ecco il tuo perché, Kate. Io mi sono ripromesso di finire il lavoro di mio padre e vendicare i torti che il tuo ha fatto alla mia famiglia. E oggi tu mi hai offerto il modo di realizzare finalmente il mio proposito». Prima che Kate potesse reagire, partì un allarme. Fece irruzione una guardia della sicurezza o un agente di qualche unità paramilitare. «Signore, ci hanno attaccato». 112 Tunnel degli Immari Gibilterra David stentava a star dietro allo scorrere dei suoi stessi pensieri. Li espresse a voce alta borbottando tra sé. «Kate Warner sarebbe la figlia di Patrick Pierce? Ma come…». «Mi sembrava opportuno usare nomi nuovi. Se qualcuno ci avesse collegati a fatti avvenuti durante e dopo la prima guerra mondiale, la nostra vita sarebbe stata… più complicata. Pierce prese il nome di Tom Warner e scelse Katherine come nome per sua figlia rinata. Le disse che sua madre era morta dandola alla luce, cosa che in pratica era anche vera. Dieter diventò Dorian Sloane e si ammalò del bisogno patologico di ricollegarsi con il passato e con l’eredità di suo padre. Era un bambino pieno di odio. Aveva visto troppo dolore ed era solo in un’epoca che non capiva. Immagina tu un bambino influenzato di sette anni che si addormenta nel 1918, quando i genitori e il fratello sono ancora vivi, e si risveglia sessant’anni dopo, nel 1978, guarito e tutto solo in un mondo incomprensibile. Ho cercato di fargli da padre, ma era un ragazzo troppo problematico, troppo chiuso in se stesso. Come te, ha dedicato la vita a vendicarsi delle persone che gli avevano portato via i suoi cari, a uccidere chi lo aveva cambiato e gli aveva rovinato l’esistenza. Per lui queste persone si incarnavano in Tom Warner e gli Atlantidei. Purtroppo per tutti noi, però, Dorian è un uomo di straordinario talento. E aveva l’appoggio dell’organizzazione. Per gli Immari era l’erede e il salvatore ritornato per loro, la prova vivente che il morbo e la Campana potevano essere sconfitti, che la razza umana poteva sopravvivere. Tutto questo gli ha dato alla testa. Si è trasformato in un mostro. Si è messo in mente di ridurre la razza umana a un’élite scelta, gli esseri geneticamente superiori, quelli che ritiene siano la sua tribù. Ha già scatenato l’epidemia. L’apocalisse sta avvenendo adesso, mentre noi parliamo. Ma possiamo fermarlo. Possiamo ucciderlo. Dopodiché sarò solo io a guidare l’organizzazione, con te al mio fianco». Craig s’interruppe e aspettò, nella speranza di vedere sul volto di David qualche indicazione su come il suo ex apprendista stesse reagendo alla proposta. «Ti farò entrare come prigioniero. Lo conosco. Vorrà vantarsi, metterti personalmente sotto torchio e torturarti con le proprie mani. Io ti darò un mezzo per ucciderlo quando resterai solo con lui». David scosse la testa. «È questo che vuoi? Desideri che ti spalleggi in questa sciarada? Vuoi che io faccia fuori Sloane per mettere sul trono te?» «Non lo vuoi anche tu? Quell’uomo è responsabile dell’11 settembre. È il tuo nemico. E tu puoi salvare Kate, che in questo momento è con lui. E lui le farà del male, credimi. Gliene ha già fatto a San Francisco. Il bambino? Era figlio suo». «Cosa?» «Era la sua vendetta. Tolto di mezzo Tom Warner, restava sua figlia. E Dorian non ci ha pensato due volte. Voleva che Kate provasse lo stesso dolore che aveva provato lui nello svegliarsi e rendersi conto che la sua famiglia era stata spazzata via. È un mostro. Solo Martin gli ha impedito di ucciderla, ma lui non può fermarlo adesso. Tu sì. Tu puoi salvare Kate. Nessun altro lo farà». Craig gli diede il tempo di assimilare bene il concetto, poi si girò e cominciò a camminare. «Pensaci bene, David. Sai di non poter vincere. Non puoi metterti contro di noi. Gli spari che hai sentito poco fa erano quelli dei miei agenti dell’Immari Security che uccidevano gli ultimi lealisti della Clocktower. Sono tutti morti. Sei solo, qua sotto. Non puoi sconfiggere gli Immari. Non lo può fare nessuno. Il mondo sta già lottando contro la peste. Tu non puoi impedire la catastrofe. Ma insieme possiamo rovesciare la situazione dall’interno dell’organizzazione. Possiamo modellare il mondo futuro». David valutò la sua offerta, quella di un nuovo patto con il diavolo. Poi si guardò intorno in cerca di un’arma da usare. Da una delle pareti spuntava qualcosa, il manico di legno di una lancia. Era così incongruo quell’attrezzo di legno e ferro, in una stanza di un metallo e un vetro sconosciuti, frutto di una tecnologia che non poteva neppure cominciare a immaginare. Dall’altra parte della stanza si animò un ologramma, come un video in 3D. «Cosa…». «Non abbiamo ancora capito bene», disse Craig. Si avvicinò al punto in cui si andava formando l’ologramma. «Una serie di video, ologrammi che si ripetono. A intervalli di qualche minuto. Credo che mostrino il passato, quello che è successo qui. Sono l’altra ragione per cui ti ho portato quaggiù. Sono i segreti custoditi in questa stanza. Noi crediamo che, quando spedì il suo diario nel 1938, Patrick Pierce non li avesse ancora scoperti. Oppure, secondo un’altra teoria, aveva trovato la stanza ma niente era ancora in funzione finché non uscì dal tubo nel 1978. Ci stiamo ancora lavorando, ma come vedi riteniamo che a un certo punto, nei sette anni durante i quali riprese il suo lavoro come Tom Warner, li abbia visti. Noi ancora non sappiamo che cosa significhino, ma è certo che Patrick si sia ben guardato dal farci anche solo intuire la loro esistenza. Noi riteniamo che siano una specie di messaggio». 113 Base di ricerca Immari Prism Antartide orientale La stanza vibrò, scossa da una seconda esplosione. Kate tentò di nuovo di aprire la porta. Niente da fare. Le sembrò di sentire odore di fumo. Tornò con la mente alle deliranti affermazioni di Dorian e ai video dei bambini che entravano in quella gigantesca struttura… con degli zaini sulle spalle. La porta si spalancò all’improvviso. Martin Grey entrò quasi correndo, l’agguantò per un braccio e la trascinò in corridoio. «Martin», cominciò Kate, ma lui non la lasciò parlare. «Zitta. Dobbiamo sbrigarci», le disse lui correndo tra le pareti bianche del lungo corridoio. Svoltarono un angolo e si trovarono davanti a quello che sembrava lo sportello della camera d’equilibrio di una stazione spaziale. L’attraversarono e da lì, accompagnati da una ventata, passarono in una grande sala, una specie di hangar con un alto soffitto ad arco. Sempre tenendola per un braccio, Martin condusse Kate a una catasta di casse di plastica rigida, dietro le quali si acquattarono in silenzio. Poco dopo lei sentì provenire dall’altro lato dell’hangar delle voci maschili e in sottofondo dei motori di veicoli industriali, forse carrelli elevatori. «Resta qui», le sussurrò lui. «Martin…». «Tra un minuto», tagliò corto lui alzandosi e avviandosi di buon passo. Kate lo udì fermarsi davanti agli uomini che stavano arrivando. La sua voce risuonò di un’autorevolezza e una perentorietà che Kate non gli aveva mai sentito. «Cosa state facendo?» «Scarichiamo…». «Sloane ha richiamato tutto il personale all’Ingresso Nord». «Cosa? A noi hanno detto…». «Degli estranei sono entrati nella stazione. Se la stazione cade, quello che state facendo qui non conterà più niente. Lui vi ha chiamati. Se volete potete anche restare qui. Siete voi a rimetterci la pelle». Kate sentì altri passi venire verso di lei, ma proseguirono senza fermarsi. Li sentì svanire all’interno di un’altra camera d’equilibrio. A quel punto sentì muoversi solo una persona. Era Martin, che si allontanava da lei nell’altra direzione. «Ha richiamato tutti», disse di nuovo in tono autoritario. «E chi rimane qui a controllare?» «Secondo voi perché io sono qui?». Altri passi, di corsa, gli sportelli di una camera d’equilibrio che si aprivano e chiudevano. Poi di nuovo Martin. «Presto, Kate, vieni». Lui la trascinò oltre file di casse accatastate, passando davanti a un angolo dov’era stata allestita una specie di postazione di sorveglianza, con computer e una serie di schermi fissati alla parete. I monitor mostravano un lungo corridoio di ghiaccio e l’apertura attraverso la quale Kate aveva visto passare i bambini. «Martin, ti prego, spiegami cosa sta succedendo». Lui la contemplò per un momento con uno sguardo dolce e pieno di compassione. «Mettiti questa tuta. Ti dirò tutto quello che posso appena saremo partiti». Le indicava una morbida tuta spaziale bianca appesa alla parete di fianco a degli armadietti. Lei si mise a indossarla e Martin iniziò a parlare. «Non sai quanto sono dispiaciuto, Kate. Sono stato io a forzarti a produrre dei risultati. E quando lo hai fatto… ho fatto rapire i bambini. È stato perché avevamo bisogno di loro». «Per la Campana». «Sì, per poter passare al di là della Campana, per poter entrare nel sepolcro, la struttura che c’è qui in Antartide alla profondità di tre chilometri sotto il ghiaccio. Quando abbiamo cominciato a studiare la Campana, abbiamo capito subito che ci sono persone in grado di resistere più di altre. Muoiono tutte, ma qualche anno fa abbiamo identificato il gene alla base della resistenza. Lo abbiamo chiamato “Gene di Atlantide”. Lo stesso gene ha un’enorme influenza sulla connettività cerebrale. Noi pensiamo che sia responsabile dell’evoluzione delle nostre capacità cognitive nel risolvere problemi, nelle attività intellettuali, linguaggio e creatività. Ne siamo provvisti noi, cioè l’Homo sapiens sapiens, mentre non ce l’ha nessuna delle altre sottospecie di umani. Noi almeno non lo abbiamo trovato. Costituisce ciò che ci rende diversi. La mia teoria è che a donarcelo siano stati gli Atlantidei circa sessantamila anni fa, più o meno all’epoca della Catastrofe di Toba. È stato quel gene a permetterci di sopravvivere. Ma noi non eravamo del tutto pronti a servircene. Eravamo ancora troppo simili alle nostre grandi cugine scimmie, agivamo in base all’istinto, vivevamo allo stato brado. Il fatto strano è che secondo noi viene attivato da una sottoroutine neurale focalizzata sulla sopravvivenza, la risposta adrenergica di attacco o fuga. È questo meccanismo ad attivare il Gene di Atlantide, coinvolgendo corpo e mente. Può darsi che spieghi perché siamo una razza di amanti del brivido e perché siamo così inclini alla violenza. È affascinante». Martin scosse la testa come soppesando ciò che aveva appena detto. «In realtà stiamo ancora cercando di capire in quale modo funzioni. Tutti abbiamo il Gene di Atlantide, o almeno alcuni componenti genetici a esso assimilabili, ma il problema è come attivarlo. In alcune menti, quelle geniali, l’attivazione è più frequente. Riteniamo che questi momenti di genialità, questi lampi di quella che potremmo definire chiaroveggenza, siano letteralmente come l’accendersi e spegnersi di una lampadina. Il Gene di Atlantide si attiva e per un brevissimo momento ci permette di usare tutta la potenza del nostro cervello. Queste persone possono attivare il Gene di Atlantide senza l’intervento del circuito dell’attacco o della fuga. Così abbiamo cominciato a indirizzare le nostre ricerche sulle menti che avevano questa caratteristica di attivazione reiterata. Abbiamo osservato il fenomeno in alcuni cervelli inclusi nello spettro dell’autismo: i savant. È per questo che abbiamo finanziato la tua ricerca. Ecco perché l’Immari Council ha chiuso un occhio sulle interferenze di Dorian. Era stato lui a spingerti a lavorare nell’interesse dell’organizzazione. E quando la tua sperimentazione ha dato dei risultati positivi, quando i bambini hanno manifestato l’attivazione frequente del Gene di Atlantide, io li ho portati via prima che lui potesse scoprirlo. E per tenerlo occupato, ho creato anche altri diversivi tramite la Clocktower». «Dunque la fonte eri tu. Sei stato tu a inviare informazioni a David». «Sì. È stato un tentativo disperato di fermare il Protocollo Toba. Sapevo che David indagava sul complotto Immari. Gli ho mandato un messaggio per fargli sapere dell’esistenza di doppiogiochisti nell’organizzazione che lavoravano come analisti alla Clocktower, e stavo cercando di dirgli che la Clocktower stessa era un’agenzia di intelligence dell’Immari e segnalargli di chi si poteva fidare. Avevo sperato che capisse in tempo come stavano in realtà le cose. Ma dovevo agire con la massima cautela: alcune delle informazioni che cercavo di passargli erano note solo ai massimi livelli e io ero già sospettato. Mi auguravo che come minimo la guerra per l’occupazione della Clocktower obbligasse l’Immari a utilizzare gran parte delle sue risorse, ritardando la messa in atto del Protocollo Toba». «Ma che cos’è di preciso questo Protocollo Toba?» «Il Toba è un progetto di Sloane: usare la peste prodotta dalla Campana per completare la trasformazione genetica della razza umana». «Perché?» «Per sincronizzare geneticamente tutti noi con gli Atlantidei. Questa è almeno la storia che Sloane e Keegan fanno intendere all’interno dell’organizzazione. Ma è solo una mezza verità. Il suo scopo finale è creare un esercito per un attacco preventivo. Sloane e Keegan vogliono entrare nella struttura che c’è sotto di noi e uccidere gli Atlantidei». «Pura follia». «Sì, ma ai loro tempi, nel 1918, la pandemia uccise decine di milioni di individui in tutto il mondo, compresi la madre e il fratello di Sloane. Sono convinti che dentro quella struttura ci siano esseri ostili, che quando si sveglieranno vorranno sterminare la razza umana. Per loro salvare pochi eletti, un gruppo geneticamente superiore, è meglio dell’estinzione». La mente di Kate era un turbinio di interrogativi. Cercò di trovare un senso alle rivelazioni di Martin. «Perché non mi hai mai detto niente? Perché non mi hai chiesto aiuto?», domandò quasi senza pensarci. Lui sospirò. «Per proteggerti. E avevo bisogno di portar via subito i bambini. Non avevo tempo per spiegarti, e se lo avessi fatto ti avrei coinvolta nella cospirazione dell’Immari. Cercavo di mantenere una promessa fatta molto tempo fa: quella di tenerti fuori da questa storia. Ma ho fallito. Il piano dell’operazione era di portar via i bambini dal tuo laboratorio senza spargere sangue. A quell’ora tu non saresti dovuta nemmeno essere lì. È stato un colpo terribile sapere che il tuo assistente era rimasto ucciso. E ho commesso anche altri errori. Ho sottovalutato la velocità di reazione di Dorian. Quando ci siamo visti a Giacarta, ho cercato di darti qualche indizio su quanto stava avvenendo, approfittando di quella mia sceneggiata in sala di osservazione. Dovevo affidarmi al tuo intuito, nella speranza che collegassi insieme tutti i fili. Ma poi ti hanno presa gli uomini di Dorian e… e la situazione è precipitata. Dopo averti visto a Giacarta, sono stato portato qui in Antartide. Guardato a vista dagli agenti di Dorian: non potevo fare molto per aiutarti. Qui però avevo un agente su cui poter contare, Naomi. Ho corso il rischio di inviare a David un altro messaggio in codice per avvertirlo della centrale in Cina, e lei… ha trovato il modo di accompagnare Dorian qui». «È stata Naomi a farci trovare i documenti d’identità alla stazione». «Sì. La mia speranza era che tra tu, lei e David trovaste il modo di salvare i bambini e disattivare la centrale elettrica, scongiurando così l’avvio del Protocollo Toba. Era una mossa disperata, certo, ma data la posta in gioco – stiamo parlando proprio di miliardi di vite umane – nessun tentativo era da disprezzare». Kate finì di chiudersi la tuta. «I bambini… Tu stavi…». «Cercavo di mettermi in contatto, sì. Appartengo a una piccola fazione dell’Immari che auspica una strategia diversa. Il nostro obiettivo è quello di trovare una terapia che attivi il Gene di Atlantide, permettendoci di entrare nelle tombe ad accogliere gli Atlantidei nel momento in cui si sveglieranno, e non come assassini, ma come loro pronipoti, per chiedere il loro aiuto nell’affrontare i crescenti problemi dell’umanità. Chiedere il loro aiuto per il Gene di Atlantide. Abbiamo scoperto altri… aspetti interessanti del gene, misteri che ancora non riusciamo a risolvere. Non c’è tempo per spiegare, ma abbiamo bisogno del loro aiuto. È questo che devi fare, Kate. Tu puoi entrare nel loro sepolcro. Tu hai visto che cos’ha in mente Dorian. Lui vuole usare i bambini per annientare gli Atlantidei. Non c’è più tempo, devi correre. Tuo padre ha dato la vita per questa causa e ha fatto tanti sacrifici per te. E ha anche cercato in tutti i modi di salvare tua madre». «Mia madre…», mormorò Kate, confusa. Martin scosse la testa. «Ma certo. Non te l’ho detto. Il diario. È di tuo padre». «Non può essere…». La frase morì sulle labbra di Kate che fissò Martin con gli occhi sgranati. Sua madre era Helena Barton? Patrick Pierce era suo padre? Com’era possibile? «È vero. Tuo padre è stato un membro dell’Immari contro la sua volontà. Lo ha fatto per salvare te. Quel giorno, all’ospedale militare di Gibilterra, ti mise nel tubo con tua madre. Nel 1978, quando riemerse, prese il nome di Tom Warner. Io ero già uno scienziato dell’Immari, ma ero titubante, non mi convincevano i loro metodi, mi angosciava la crudeltà dell’operazione. Ho trovato in tuo padre un alleato, una persona all’interno dell’Immari che voleva mettere fine a quella follia, una persona che credeva più nel dialogo che nel genocidio. Lui però non si è mai fidato del tutto di me». Martin abbassò gli occhi. «Ho fatto del mio meglio per cercare di proteggerti, di onorare la promessa fatta, e invece ho fallito così miseramente…». Un’altra esplosione fece tremare le pareti. Martin le porse il casco. «Adesso devi andare. Ti calo io. Quando sarai dentro, devi trovare i bambini e portarli via immediatamente. Qualsiasi cosa tu faccia, assicurati che loro escano. Poi trova gli Atlantidei. Non resta molto tempo». L’accompagnò a un’altra camera d’equilibrio in fondo al magazzino. «Quando sei dall’altra parte, entra nella gabbia del discensore, io la manovrerò da qui. Appena arrivi in fondo al pozzo, entra di corsa attraverso il portale come hanno fatto i bambini». Le agganciò il casco alla tuta e la spinse nella camera d’equilibrio prima che Kate potesse aprire bocca. Quando lo sportello si aprì dall’altra parte, lei vide la gabbia d’acciaio appesa al grosso cavo metallico della gru. Oscillava leggermente nei venti dell’Antartide, che soffiava attraverso le maglie d’acciaio. Vi si avvicinò con qualche difficoltà e per poco il vento non la fece cadere prima di aver raggiunto la struttura. Trafficò per qualche momento con la maniglia, ostacolata dai grossi guanti, ma riuscì ad aprire lo sportello, entrare nella gabbia e chiudersi dentro. La gru cominciò immediatamente a calarla nel foro circolare. Nel cigolio della gabbia, Kate vide il cerchio di luce rimpicciolirsi velocemente sopra di sé. Le ricordò il modo in cui finivano certi cartoni animati, quando l’ultima scena veniva gradatamente coperta di nero dai lati verso il centro fino a sparire del tutto. I cigolii della gabbia costituivano un’inquietante colonna sonora alla sua discesa nell’oscurità. Dopo i primi secondi, la gabbia cominciò a muoversi più velocemente e sopra di lei scomparve anche l’ultimo briciolo di luce. La velocità e il buio la disorientarono. Si aggrappò ai bordi della gabbia cercando di dominare un crescente senso di nausea e ripetendo a se stessa che mancava ancora poco, che presto il disagio sarebbe finito. Non aveva idea di quanto si sbagliasse. Scese per tre chilometri. A un tratto vide di nuovo della luce, una costellazione di scintille che luccicavano sotto di lei, simili a stelle in un cielo terso. Per un momento rimase attonita e in contemplazione ad ammirarne la bellezza, senza pensare a che cosa potessero essere. “Stelle”, pensò. Poi, lentamente e quasi d’istinto, la sua mente scientifica cominciò a vagliare le possibilità prima di soffermarsi sulla candidata più plausibile: minuscoli LED lasciati cadere per illuminare il fondo del pozzo. Erano sparpagliati a casaccio e balenavano nel buio di quell’abisso, come a guidare Kate in un viaggio cosmico verso un pianeta ignoto. Erano quasi… ipnotici… Il boato di un’esplosione proveniente dall’alto riempì il pozzo e improvvisamente lei si sentì precipitare. Il grosso cavo a cui era agganciata la gabbia si allentò e ricadde, torcendosi su se stesso sopra la sua testa. Era in caduta libera. Qualcuno aveva reciso il cavo. 114 Tunnel degli Immari Gibilterra Craig affiancò David davanti all’ologramma che si andava estendendo. I colori erano vivi e l’immagine riempiva quasi per intero lo spazio disponibile. La sensazione era di essere fisicamente presenti a una scena reale. Si vide una grande nave emergere dai flutti. Apparve la Rocca di Gibilterra e a quel punto David si rese conto delle dimensioni della macchina. Al suo confronto, la Rocca sembrava un sassolino. E non era tutto: la sua posizione era sbagliata. Era sulla terraferma, non sulla costa, e la terra si apriva oltre la Rocca e alla sua destra, giù fino all’Africa. Europa e Africa erano unite da un istmo. «Dio del cielo…», mormorò David. «Proprio come l’aveva descritta Platone», commentò Craig, «una grande isola che usciva dal mare. Stiamo ancora cercando di definire il periodo, ma pensiamo che questo ologramma sia stato realizzato dai dodicimila ai quindicimila anni fa. È stato certamente prima della fine dell’ultima era glaciale. Ne sapremo di più appena avremo calcolato il livello del mare. Platone dice che l’isola sprofondò dodicimilacinquecento anni fa, dunque potrebbe essere vicino alla realtà. Avrai notato le dimensioni della nave, suppongo». «Incredibili. Voi ne avete trovato solo un pezzo». «Sì, e nemmeno tanto grande. Pensiamo che la struttura superasse per estensione i 150 chilometri quadrati, questo presumendo che la Rocca sia oggi delle stesse dimensioni di quindicimila anni fa. Il pezzo di struttura in cui ci troviamo noi adesso è meno di due chilometri e mezzo. La nave trovata nell’Antartide è molto più grande, all’incirca 650 chilometri quadrati». Craig indicò l’ologramma con un cenno della testa. «Nella prossima immagine pensiamo che ci venga mostrato che tipo di veicolo è». David guardò l’enorme nave fermarsi a ridosso della costa. L’ologramma tremò, come se qualcuno stesse cambiando la pizza in un vecchio proiettore cinematografico. La nave c’era ancora, ma l’acqua era più alta. Appena al di là della nave, sul ciglio della costa, c’era una città, se così la si può chiamare. Dietro ad alcuni primitivi monumenti di pietra disposti a semicerchio come i monoliti di Stonehenge, c’erano capanne con i tetti di stoppia. Al centro del semicerchio bruciava un enorme falò, e l’ologramma circoscrisse in particolare quella zona. Un gruppo di umani coperti di fitte pellicce trascinava un altro essere umano… anzi, no, era una scimmia antropomorfa. Qualcosa tra un essere umano e un animale. La scimmia era alta di statura. Era un maschio nudo che lottava furiosamente nel tentativo di divincolarsi da coloro che lo trattenevano. Al suo passaggio gli altri umani s’inchinavano. Prima che fosse portato al falò, dalla nave sfrecciarono nel cielo due oggetti volanti, che somigliavano a carrozzelle, o a segway dell’era spaziale. Filarono verso il falò librandosi a qualche spanna da terra. Quando lo raggiunsero, gli umani indietreggiarono inchinandosi e abbassando gli occhi. Gli Atlantidei smontarono dai loro veicoli, afferrarono il selvaggio e gli iniettarono qualcosa. Indossavano una specie di armatura aderente, la testa del tutto racchiusa in caschi quasi interamente a specchio, eccetto che per la sezione della nuca. Caricarono l’uomo-scimmia su uno dei veicoli volanti e tornarono sfrecciando alla nave. L’ologramma vacillò di nuovo e la scena del falò fu sostituita da una in cui si vedeva l’interno della nave. L’uomo-scimmia era sul pavimento. Gli Atlantidei indossavano ancora le loro armature e, dai piccoli segni del linguaggio del corpo e da qualche gesto con le mani, David ebbe l’impressione che si stessero parlando. Craig si schiarì la voce. «Stiamo ancora cercando di capire bene cosa succeda qui. Non ti scordare che li abbiamo visti solo qualche ora fa, quando abbiamo recuperato la mappa che c’era nel diario e abbiamo trovato la stanza. Comunque l’ipotesi più probabile è che sia il video di un intervento degli Atlantidei che interrompono un sacrificio rituale. L’uomo che vedi è un Neanderthal. Pensiamo che i nostri antenati considerassero un dovere dare la caccia a tutti gli uomini che non fossero fatti a immagine di Dio per sacrificarli. Una sorta di ancestrale pulizia etnica». «Questo è lo stesso umano degli albori che Pierce aveva visto nel tubo?» «Sì, come vedrai». «Che fine ha fatto?». Craig scosse la testa con un grugnito. «Kane lo scongelò agli inizi degli anni Trenta, appena ebbe messo in funzione la Campana. Avevamo avuto grosse difficoltà con l’assorbimento di energia elettrica. Per qualche anno condussero una serie di esperimenti, cercarono persino di ricreare l’uomoscimmia accoppiando umani con gli scimpanzé, un progetto folle. Alla lunga, visto che non otteneva risultati soddisfacenti, Kane perse interesse. Nel 1934 lo espose alla Campana». «E non sopravvisse?» «No, nonostante le migliaia di anni passati dentro il tubo, dunque è chiaro che rimanemmo non poco sconcertati quando Kate Warner ce la fece. Pensiamo che in questo i tubi c’entrino qualcosa, ma qualunque cosa facciano funziona solo sulla nostra sottospecie. In qualche modo i tubi attivano il Gene di Atlantide. In qualche modo quello che Kate ha dato ai bambini dev’essere collegato ai tubi. Secondo la nostra teoria, ogni essere umano possiede il Gene di Atlantide, che viene però attivato solo sporadicamente e da una minoranza selezionata. È ovvio che i Neanderthal non avevano questo precursore genetico». Craig s’interruppe per richiamare nuovamente l’attenzione di David sull’ologramma. «Ah, qui c’è il gran finale, a effetto, come si suol dire». Dal laboratorio l’immagine passò di nuovo all’esterno. Dietro la nave si sollevò nell’aria un terrificante tsunami. Era decine di metri più alto dello scafo, che già per conto suo superava almeno i cinquanta metri, basandosi sull’altezza relativa della Rocca di Gibilterra. L’onda investì la nave e piombò sul primitivo insediamento umano, distruggendolo in un unico schianto di violenza inaudita. La nave, catturata dall’impeto della marea, entrò nella città abbattendo i monumenti di pietra e le capanne. Poi le acque si ritirarono trascinandola nuovamente in mare, ancora per metà immersa nei flutti. Dalla frizione dello scafo sul fondo marino si sprigionarono delle scintille, poi l’ologramma s’illuminò del rosso e del bianco abbagliante di una terrificante esplosione che, salendo da sotto la nave, la squarciò in due, tre, infine quattro pezzi. «Noi pensiamo che sotto il fondale ci fosse una gigantesca sacca di metano. Esplose con la forza di dieci testate nucleari». I flutti si stavano richiudendo sulla nave distrutta e l’immagine tornò al laboratorio e agli Atlantidei. Uno di loro era stato scaraventato contro la paratia. Il corpo era inerte. Morto? L’atlantideo sopravvissuto sollevò da terra l’uomo di Neanderthal e lo gettò in uno dei tubi con la disinvoltura con cui si butta un foglio accortocciato in un cestino dei rifiuti. La sua forza era impressionante. David si domandò se fosse naturale o indotta dall’armatura che indossava. L’atlantideo tornò indietro a raccogliere da terra il suo compagno. L’immagine si dissolse sulla sua uscita da quel locale. L’ologramma lo ritrovò nella sua corsa attraverso la nave. Correva barcollando, senza dubbio a causa delle spinte con cui le onde facevano rollare lo scafo mentre stava scendendo a posarsi sul fondo del mare. E alla fine lo si vedeva nella camera in cui ora si trovavano Craig e David. Azionò per qualche secondo dei comandi. Non li toccò veramente, gli bastò muovere le dita a una certa distanza, mentre reggeva il compagno su una spalla. I computer si spensero, uno dopo l’altro. «Noi crediamo che in questo momento stesse attivando la Campana. Un dispositivo antintrusione per tenere fuori esseri come noi. È plausibile. Poi spense i computer. Quanto a ciò che segue, siamo ancora qui a spremerci le meningi». Nell’ologramma il locale era quasi immerso nel buio, rischiarato debolmente solo dalle luci di emergenza. L’atlantideo andò in fondo alla stanza e toccò qualcosa che aveva sull’avambraccio. Davanti a lui si aprì uno sportello. David lo cercò con lo sguardo. Era lì, ancora al suo posto, ma adesso vi era conficcata una lancia. L’atlantideo si guardò intorno, indugiò per un momento, poi uscì. La porta si richiuse alle sue spalle… senza lancia. David si girò di nuovo a guardare lo sportello. «Lascia perdere», disse Craig scuotendo la testa. «Ci abbiamo provato. Per ore». «Cosa c’è nella porta?», domandò David avvicinandosi all’asta che sporgeva dallo sportello. «Non siamo sicuri. Secondo alcuni scienziati, potrebbe essere la Lancia del Destino, ma è solo un’ipotesi. Noi pensiamo che l’abbia portata quaggiù Patrick, o per meglio dire Tom Warner, con il proposito di aprire un foro nella porta, o qualcosa del genere». «La Lancia del Destino?», ripeté David. Sapeva che cos’era, ma aveva bisogno di prendere tempo e distrarre Craig. «Sì. Non la conosci?». David fece segno di no. «Un’altra delle ossessioni di Kane, e di Hitler dopo di lui. Secondo la leggenda è la lancia che trafisse il fianco di Gesù Cristo in croce uccidendolo. Secondo gli antichi, qualunque esercito fosse stato in possesso di quell’arma non sarebbe mai stato sconfitto. Quando Hitler annetté l’Austria, prese la lancia ma la perse poche settimane prima della resa della Germania. È uno dei molti reperti che abbiamo collezionato nel corso degli anni, sperando che prima o poi ci fornisse la chiave d’accesso al mondo degli Atlantidei». «Interessante», disse David e contemporaneamente impugnò l’asta. Tirò e sentì lo sportello muoversi leggermente. Tirò più forte, la lancia venne via e lo sportello si aprì. David la lasciò cadere e si tuffò oltre la soglia, mentre Craig estraeva la pistola e cominciava a sparare. 115 Base di ricerca Immari Prism Antartide orientale «No, non sparate!», gridò via radio Dorian, ma era troppo tardi. Vide il secondo uomo colpito due volte al petto e il terzo cadere sotto i proiettili ricevuti in una spalla e nell’addome. «Cessate il fuoco! Ammazzerò io stesso il prossimo idiota che preme un grilletto!». La sparatoria cessò e Dorian uscì allo scoperto. Vedendolo arrivare, l’uomo ferito cominciò a strisciare verso il fucile che gli era caduto di mano, lasciando dietro di sé una densa scia di sangue. Dorian lo precedette e spedì con un calcio il fucile contro la parete del laboratorio. «Fermo, non voglio farti del male. Sono qui per aiutarti. Voglio solo sapere chi ti ha mandato». «Mandato me?», ribatté tossendo il ferito, e dalla bocca gli sgorgò un rivolo di sangue che gli colò lungo il mento. «Sì…». Dorian sentì un crepitio nell’auricolare e distolse lo sguardo dal ferito. «Signore», gli comunicò la voce di uno dei tecnici, «abbiamo identificato gli uomini. Sono nostri. Una delle squadre di perforazione». «Una squadra di minatori?» «Sì. Anzi, è proprio la squadra che ha trovato l’entrata». Dorian tornò a rivolgersi al ferito. «Chi ti ha mandato?» «Nessuno…», rispose confuso l’uomo a terra, «ci ha mandato…». «Non ti credo». «Ho visto…». Ora perdeva sangue a fiotti. Il proiettile che gli era entrato nelle viscere non gli lasciava più molto tempo. «Visto cosa?», lo incalzò Sloane. «Bambini». «Ma per l’amor del cielo», esclamò Dorian. Dove stavano andando a finire? Ormai persino dei rudi manovali erano diventati dei sentimentali rammolliti. Lo finì con un colpo alla testa e tornò alla sua unità dell’Immari Security. «Ripulite qua dentro», ordinò. «Signore», gli disse uno dei suoi soldati, «ci sono novità dal controllo del portale. Qualcuno ha appena fatto partire la gabbia». Dorian corrugò la fronte. Non impiegò molto a intuire cosa stava succedendo. «Martin», sbottò. «Mandate una squadra alla stazione di controllo. Nessuno lasci quella stanza». Tornò a riflettere sull’informazione appena ricevuta. La gabbia stava scendendo. Kate? «Quanto tempo abbiamo?» «Tempo?» «Le bombe negli zaini dei bambini». L’agente dell’Immari Security estrasse un palmare e ne toccò lo schermo. «Quattordici minuti». Avrebbe potuto ancora raggiungerli. «Segate il cavo della gabbia», ordinò Sloane. Era il finale appropriato: Kate Warner, la figlia di Patrick Pierce, sarebbe morta nel buio e nel gelo di una galleria sotterranea, proprio come Rutger, il fratello di Dorian. 116 David cadde sul pavimento mentre le pallottole rimbalzavano sullo sportello che si chiudeva dietro di lui. Rotolò restando accucciato e tenendo la lancia sopra una spalla, come un cacciatore preistorico pronto a trafiggere la sua preda appena fosse riapparsa nel vano dello sportello. Che però non si riaprì. David soffiò via il fiato che aveva trattenuto e si sedette, dando sollievo alla sua gamba ferita. Non capiva come avesse fatto Patrick Pierce a camminare così tanto in giro per quel labirinto. Quando il dolore si fu placato, si rialzò ed esaminò il posto in cui era finito. Quest’altra sala era simile a quella che aveva appena lasciato, con le stesse pareti grigie di metallo e le stesse luci in alto e in basso. Aveva l’aspetto di un’anticamera o di un atrio. C’erano otto porte, sette delle quali disposte a semicerchio, quasi come gli ascensori nella hall di un albergo. Tolte le sette porte ovali, la stanza era vuota se non per un tavolo posto al centro, a qualche metro dalla serie di porte, alto quanto un bancone. Una postazione di controllo? La superficie era coperta di plastica o vetro scuro, come il quadro comandi che c’era nella stanza precedente. David vi si avvicinò e vi appoggiò la lancia per poter usare la mano buona. La stese al di sopra della superficie, come aveva visto fare all’atlantideo nell’ologramma. La mano fu avvolta da una leggera nebbia e da scariche di luce bianca e azzurra, che trasmisero alla sua pelle lievi vibrazioni elettriche. Mosse le dita e luce e nebbia cambiarono radicalmente. I crepitii e i leggeri impulsi elettrici gli si avvitarono alle dita. David ritrasse la mano. Quando si dice non sentirsi nel proprio elemento. Si era aspettato, o per meglio dire aveva sperato, che comparissero una specie di istruzioni per l’uso. Recuperò la lancia. “Affidati a ciò che sai, ai tuoi ancestrali istinti da cacciatore e raccoglitore”, si disse. Alzò lo sguardo sulle porte al di là del tavolo. Come mai una era separata dalle altre? Un’uscita forse? Fece un passo in quella direzione e lo sportello si aprì automaticamente su corridoi simili a quelli alla Star Trek che lo avevano condotto alla camera segreta. I suoi occhi si erano ormai abituati alla debole luce dei LED incastonati in soffitto e pavimento. Se quindicimila anni prima o giù di lì, quando la nave era esplosa, gli Atlantidei erano corsi in quel locale, era ragionevole pensare che fosse una sorta di navicella di emergenza, o un settore fortificato al centro dello scafo. Un altro pensiero balenò nella mente di David: se si erano rifugiati lì, forse ce n’era ancora qualcuno. Forse si erano ibernati là dentro, in altri tubi. Si guardò intorno. Non registrò nessun segno di vita. Dallo spazio in cui si trovava il corridoio si biforcava in una T. In entrambe le direzioni c’era un altro sportello ovale. Scelse il braccio più corto e si avventurò da quella parte zoppicando, sostenuto dalla lancia che ora usava come bastone. Gli era di immenso aiuto. In fondo al corridoio lo sportello si aprì automaticamente e David ne varcò la soglia. «Non ti muovere». Una voce maschile. Arrochita, come di qualcuno che non parla da parecchio tempo. David sentì dei passi dietro di sé. Basandosi sull’eco, giudicò che l’uomo (o l’atlantideo) che stava arrivando fosse più o meno della sua stazza. Alzò le mani, sempre impugnando la lancia. «Non sono qui per farti del male». «Ti ho detto di non muoverti». L’uomo lo aveva quasi raggiunto. David si girò di scatto e colse uno scorcio momentaneo di un individuo – forse un uomo, forse no – un istante prima di avvertire la pressione del pungolo elettrico. Stramazzò a terra privo di sensi. 117 Tre chilometri sotto la base di ricerca Immari Prism Antartide orientale La gabbia d’acciaio precipitava nel pozzo di ghiaccio oscillando pericolosamente. Urtò ora una parete, ora l’altra, incidendo il ghiaccio, che tempestò la tuta e la visiera di Kate di scaglie affilate. Lei alzò le braccia per coprire il casco, e proprio in quel momento la gabbia rimbalzò verso l’altro lato del pozzo, facendola rotolare impotente da una grata a quella opposta. Ora al peso della gabbia si era aggiunto quello dello spezzone di cavo che vi si era posato sopra. Per qualche metro scese in verticale, poi all’improvviso s’inclinò, fendendo un lato del pozzo di ghiaccio con uno spigolo del fondo e il lato opposto con uno degli spigoli superiori. Kate afferrò una delle sbarre sopra di sé e piantò i piedi nella rete metallica del fondo, bloccandosi come un astronauta in un simulatore giroscopico da addestramento a gravità zero, preparandosi all’eventualità che la gabbia si rovesciasse verticalmente o orizzontalmente. Chiuse gli occhi e spinse con forza con le gambe. La gabbia continuò a scendere rimbalzando da una parte all’altra e scalzando grandinate di schegge. I ripetuti contatti rallentarono la caduta. A un tratto le pareti intorno a lei scomparvero, trascorsero due lunghissimi secondi e poi… lo schianto. La gabbia s’incastrò in un affioramento di ghiaccio e Kate finì mezzo sepolta e senza fiato. Cercare di respirare dentro la tuta era come tentare di succhiare aria da una minuscola cannuccia da bibita. Quando ebbe ripreso fiato, si girò sulla schiena ed esaminò la situazione in cui si trovava. La gabbia era sprofondata per qualche metro in un cumulo di ghiaccio in corrispondenza con il punto dove la trivella aveva forato la volta della camera. Doveva essersi formato con i pezzi di ghiaccio caduti durante l’estrazione della livella dal pozzo e con le scaglie create dalla sua precipitosa e disordinata discesa. Quel cumulo le aveva salvato la vita. Ricordava una strobo da discoteca ma fatta di neve, in cui brillavano luci intense. Kate le osservò per un momento. Somigliavano a uno stormo di lucciole, ma erano senza dubbio i LED lasciati cadere dalla superficie per illuminare il vasto antro sotterraneo. Erano sprofondati nel ghiaccio e le rifrazioni illuminavano dal basso il grande spazio circostante. Rivelando anche a Kate la sua situazione. Per metà era sepolta nella montagna di scaglie di ghiaccio e la parte emersa della gabbia era coperta dalla rete metallica. Era in trappola, eppure c’era una piccola apertura, non grande abbastanza da permetterle di strisciare fuori, tuttavia… se vi avesse scavato sotto avrebbe potuto allargarla. Cominciò a scavare con le mani come un cane che cerca di passare sotto una recinzione. La gabbia aveva spezzettato il ghiaccio, ma i progressi erano lo stesso lenti. Quando finalmente le sembrò di avere abbastanza spazio, vi infilò la testa e cominciò a strisciare. Fece passare anche le braccia, ma poi la tuta, troppo ingombrante, s’impigliò negli spunzoni della rete metallica. Kate cercò allora di indietreggiare, ma i cavi troncati d’acciaio le strapparono la tuta, bloccandola di nuovo. Sentì l’aria gelida entrarle attraverso gli squarci e aggredirle la schiena. Si divincolò, si schiacciò il più possibile sul fondo e spinse con le mani rientrando nella gabbia. Il gelo le stava togliendo sensibilità poco a poco, cominciando dalla schiena, le terminazioni nervose smettevano di funzionare. Con il passare dei secondi il congelamento guadagnava nuovo terreno. Iniziarono a tremarle le mani. Non si era resa conto di quanto calore le avesse garantito fino a quel momento la tuta che indossava. Il freddo che faceva laggiù era esiziale. Se non avesse preso provvedimenti immediati, sarebbe morta assiderata. Cominciò a scavare con entrambe le mani, cercando di allargare di più l’apertura. Sentì le gambe indurirsi e dovette lottare per non perdere l’equilibrio mentre spostava manciate di ghiaccio. Ce l’aveva quasi fatta. Ora sentiva l’aria bruciarle i polmoni e il suo fiato era una nebbia gelida contro il vetro del casco. Ancora poco e il freddo le avrebbe fermato i polmoni. Sarebbe morta soffocata prima che assiderata. La nebbia… le aveva quasi ricoperto il casco. Se lo pulì con la mano. Niente. Era ancora lì. Provò di nuovo. Sempre lì. Perché non andava via? Già, non era sul casco, ma dentro. Lo sapeva. Perché aveva cercato di ripulirne l’esterno? Cosa le stava succedendo? Era il freddo. Il suo organismo si stava spegnendo. Stentava a far funzionare il cervello. Che cosa stava facendo prima della nebbia? Ora lo strato di brina all’interno del casco si era completato, non vedeva più nulla. Si girò in cerca di un punto di riferimento con cui orientarsi. Era come un cane in gabbia, carponi, alla ricerca di un rumore nella notte. Un cane. Una gabbia. Lo squarcio. Sì, stava scavando per allargare lo squarcio. Doveva uscire. Dov’era il passaggio? Tastò alla disperata il ghiaccio sotto di sé. Si aggirò in ginocchio per la gabbia. Nient’altro che rete metallica, dappertutto. Dov’era il buco? Poi le sue mani trovarono qualcosa… sì, eccolo. Ma non poteva più scavare. Non si sentiva più le dita. S’infilò nell’apertura e spinse con i piedi. Sentì gli aculei della rete metallica rotta che le artigliavano la schiena e li ignorò spingendo con più forza. Poco dopo percepì la rete metallica sui polpacci. Stava uscendo. Affondò i gomiti nel ghiaccio e tirò ancora, un gomito dopo l’altro, come un soldato sotto il filo spinato di un percorso di guerra. Si era allontanata abbastanza? Saggiò la situazione sollevando una gamba. Sì, era libera. Si alzò in piedi. Il ghiaccio dentro il casco la rendeva cieca. Da che parte era la struttura? Si mise a correre ma le gambe erano di piombo. Con quella tuta addosso e gli arti semicongelati non ce l’avrebbe mai fatta. Non stava venendo a capo di nulla. Da che parte? Era tutto uguale: ghiaccio e ghiaccio e più in là un vago riverbero di luci. Sentì il terreno che le veniva addosso. Era caduta di nuovo, rotolò su se stessa, fece pressione sul ghiaccio con il dorso e una nuova ondata di gelo le penetrò nel corpo, minacciando di paralizzarle il sistema nervoso. Inarcò la schiena e sbarrò gli occhi. Rifiatò avidamente, si sollevò sulle ginocchia ansimando. Doveva assolutamente far funzionare la testa. Si alzò in piedi e girò su se stessa. Le luci. In una direzione erano più intense che nell’altra. L’antro a cupola era enorme. Le luci… il globo di neve con dentro le lucciole… il punto dov’era entrata la trivella… le luci dovevano essere nella direzione opposta. Si voltò e cominciò a camminare allontanandosi dalle luci. Il freddo era diventato quasi insopportabile. In quel momento sentì un tonfo. Riverbero di metallo su metallo. Era davanti a lei, un po’ a destra. Modificò la rotta e proseguì. Cadde di nuovo, ma si rialzò, spingendo con entrambe le mani su un ginocchio e trascinando su l’altra gamba. Non sentiva più nessuna parte del proprio corpo. Muoveva gli arti solo con la forza della volontà, sorretta dalla speranza. Lo scricchiolio del ghiaccio sotto i piedi cessò. I suoi passi diventarono silenziosi, però faceva ancora freddo. Si sentiva la testa vuota. Fece un altro passo, uno ancora. Continua a camminare… Dietro di lei, metallo su metallo. La porta che si chiudeva? Aveva ancora tanto freddo. Cadde in ginocchio e poi a faccia in giù. 118 Base di ricerca Immari Prism Antartide orientale Dorian guardò Kate cadere, rialzarsi e varcare la soglia del gigantesco portale. La Campana appesa al soffitto era silenziosa. Controllò il conto alla rovescia: 00:01:32. Meno di due minuti. Era sicuro che sarebbe morta precipitando nel pozzo, invece niente. E un’esplosione nucleare nelle tombe, allora? Meglio ancora. Risultato finale: il medesimo. «Digli di lasciarmi andare, Dorian». Sloane si girò a guardare Martin Grey, che si dibatteva nella morsa dei due agenti dell’Immari Security che lo tenevano prigioniero. Era stato così preso a guardar morire Kate, purtroppo solo per restare deluso, da essersi dimenticato del vecchio rompiscatole. «Dunque sei stato tu», lo apostrofò con un sorriso. «Prima la sciarada della Clocktower, poi le indicazioni per arrivare alla centrale in Cina sperando che salvassero i bambini e impedissero a me di dare il via libera al Protocollo Toba». Rifletté per un momento. «E li hai aiutati a scappare. Perché sei stato tu, vero? Hai avvertito gli Immaru, che sono andati a prelevarli dopo l’esplosione della Campana. Come hai fatto? Come li hai trovati?» «Stai delirando, Dorian. Fammi liberare e smettila di coprirti di ridicolo». «Sei un abile giocoliere con le parole, Martin, ma questa volta non riuscirai a cavartela con le chiacchiere. Hai appena aiutato Kate a scappare». «Non lo nego. Non ho mai nascosto il mio affetto per lei. Proteggerla è sempre stata la mia priorità assoluta. Se necessario, avrei anche raso al suolo questa struttura». «Dunque lo ammetti», sottolineò Dorian compiaciuto. «La squadra di trivellatori che ci ha assalito agiva dietro tuo ordine». Martin scosse la testa. «Neanche per idea», ribatté. «Pensaci, Dorian. Io non avevo nemmeno il modo di contattarli. Non li ho mai neppure conosciuti». «Comunque non fa niente. Ho capito tutto, Martin». Dorian tacque per qualche istante aspettando una reazione che non arrivò. «E tu? Sì, scommetto di sì. I bambini sono sopravvissuti alla Campana perché erano stati trattati con cellule staminali del figlio concepito da me e Kate. Noi due invece ci siamo salvati grazie ai tubi – Kate quando non era ancora nata nel ventre di sua madre e io quando ormai ero stato contagiato dalla peste di Atlantide, o influenza spagnola se preferisci – e questo significa che anch’io posso varcare la soglia di quel portale. Ma aspetterò qualche minuto». Alzò la mano in direzione dello schermo gigante con il conto alla rovescia. Trascorsero anche gli ultimi secondi e le cifre digitali si fermarono su: 00:00:00. Lampeggianti in rosso. Dorian si era aspettato che le esplosioni trasmettessero un tremito in superficie, invece non successe niente. Le pareti incredibilmente spesse della struttura e la crosta di ghiaccio alta tre chilometri costituivano un isolamento insormontabile. Sorrise. «Laggiù sono appena scoppiate due testate nucleari. Kate non è arrivata dai bambini, te lo posso assicurare. Aveva meno di due minuti per raggiungerli e non credo che fosse nelle condizioni di lanciarsi in uno sprint. L’hai visto anche tu. Ha sofferto parecchio, Martin. Può darsi che sia morta congelata dentro la sua tuta. O come minimo che abbia perso quasi tutte le dita delle mani e dei piedi… poco prima di morire lo stesso». Attese, ma Martin taceva. Dorian rivolse un cenno a uno dei suoi uomini, che andò a prendere una tuta spaziale da uno degli armadietti. «Fra poco vado giù a dare un’occhiata, appena avranno preparato un’imbracatura con cui calarmi. Ti farò sapere se troviamo dei resti. Ne dubito. Ma prima di scendere, ho ancora qualcosa da raccontarti. Perché ho chiarito anche un altro mistero». Si mise a passeggiare davanti a Martin. «Ti va di ascoltare?» «È il tuo numero da baraccone, Dorian…». «Non mi offendere. La tua vita è nelle mie mani». «E la tua. Nessun membro del consiglio può ucciderne un altro…». «Questo è tutto da vedere. Qualche giorno fa Mallory Craig mi ha proibito di ucciderti, adesso però ha cambiato idea. È stato lui a mandarmi Kate, credo che questa volta non porrà il veto sulla tua esecuzione. Comunque, ti stavo dicendo di quello che è successo in Cina. I bambini erano stati trattati con il Gene di Atlantide, e fin qui tutto bene. Le radiazioni della Campana non hanno avuto effetto su di loro, ma quando ci è entrata in contatto Kate, le cose sono andate in un altro modo: si è spenta. Ecco cos’è successo in Cina. La Campana l’ha riconosciuta come un’atlantidea, un individuo da proteggere, e si è spenta, lanciando nella rete della centrale uno spaventoso sovraccarico che ha distrutto i reattori nucleari e tutto quanto l’impianto. Capisci che cosa significa, Martin?». Lui fissava il vuoto. «Sono sicuro che stai per dirmelo tu». «Non fare l’insolente. So che lo vuoi sentire. Significa che il figlio mio e di Kate è il primo discendente di due Atlantidei, il primo di una nuova razza di umani, il risultato di un’evoluzione. Il suo genoma contiene la chiave con cui comprendere in che modo cambiammo cinquantamila anni fa, in che modo noi continuiamo a progredire». «Parlane al condizionale, Dorian. Perché tuo figlio…». «Non ho potuto farlo», lo interruppe Dorian distogliendo per la prima volta gli occhi da Martin. «Per quanto abbia odiato Kate per quello che suo padre ha fatto alla mia famiglia, non sono riuscito ad arrivare al punto di uccidere mio figlio. È in un laboratorio, a San Francisco, in uno dei tubi. È questo che volevo dirti, Martin. Tutti i tuoi intrighi non sono serviti a niente. Ho vinto io. Un’équipe scientifica sta estraendo in questo momento il feto per studiarlo. Presto avremo un vaccino efficace, forse addirittura nel giro di poche settimane o mesi. E lo useremo selettivamente…». «Siamo pronti, signore», lo interruppe in quel momento un tecnico. «Devo andare, Martin». «Se fossi in te non lo farei», lo ammonì lui. «Sono sicuro che tu…». «So perché vuoi scendere là sotto». «Tu sai…». «Il messaggio», fece Martin. «Quello che hai dato a quei bambini. So che cos’è. Una lettera in tedesco di un ragazzino di buona volontà che dice al suo papà che i bambini portano addosso delle bombe e che deve uscire di là il più in fretta possibile. Sei cieco, Dorian. Guarda i fatti. E guarda le carcasse di quei primati nel Laboratorio Tre. Quando siamo arrivati, la Campana là sotto era attiva. E lo era anche quella sull’iceberg dove hanno rinvenuto il sommergibile qualche settimana fa. Ha ucciso gli uomini della nostra squadra di ricerca. Abbiamo trovato delle ossa sotto la Campana. Tuo padre non è mai stato nel tubo. Era umano, maledettamente umano…». «Era un dio. E non è morto. Io non ho mai visto le sue ossa», rispose con impeto Dorian. «Non ancora. Ma le…». «È là sotto!», tuonò Dorian. «Anche se lo fosse – cosa di cui dubito – avrebbe centoventisette anni». «Allora troverò le sue ossa o quel che resta di lui, ma saprò. E troverò anche altre ossa. Di donna, primi anni Trenta. Allora completerò finalmente il mio destino. Spazzerò via una volta per tutte la minaccia di Atlantide». Sloane si rivolse alle guardie. «Che non esca di qui. Tenetelo sotto stretta sorveglianza. E se non hanno bisogno di lui per le ricerche sul feto…», e tornò a fissare gli occhi in quelli di Martin, «allora uccidetelo». Lui rimase impassibile senza tradire la minima emozione. Uno dei tecnici si avvicinò per prendere Dorian in disparte. «Signore», cominciò un po’ a disagio, «quanto a scendere nel pozzo, sarebbe… be’, pensiamo che farebbe bene ad aspettare». «Perché? Avete detto che la tuta mi proteggerà dalle radiazioni…». «Sì, questo sì, ma le esplosioni potrebbero aver provocato altri danni. Incendi. Forse adesso la struttura è pericolante. Per quel che ne sappiamo, c’è il rischio che crolli tutto. A Gibilterra stiamo raccogliendo dati sulla struttura, il direttore Craig ha trovato una specie di archivio di video. Sembra che la struttura sia stata distrutta da un’esplosione di metano analoga a quella degli ordigni che abbiamo mandato giù noi… Oddio, più potente in realtà, ma in ogni caso il precedente dimostra che le strutture non sono indistruttibili». «Che cosa suggerite?» «Di aspettare qualche giorno». «Non se ne parla. Qualche ora al massimo». Il tecnico annuì. «C’è dell’altro. Dopo che sarò entrato nelle tombe, mandate giù dallo stesso pozzo altre tre testate. Se dovesse uscire qualcuno oltre a me o mio padre – essere umano, atlantideo o altro ancora – fatele scoppiare. Distribuite il resto delle testate negli altri pozzi di trivellazione e regolate i detonatori perché esplodano tutte contemporaneamente». «Le esplosioni scioglierebbero il ghiaccio…». «Le esplosioni salverebbero la razza umana. Fatelo». 119 David aprì gli occhi e guardò in giro. Era sdraiato su un lettino dal telaio sottile con un materasso di un materiale simile a gel che si conformava perfettamente al suo corpo. Si sporse in avanti e il gel reagì sostenendolo. Sentiva un odore strano, come di aglio mescolato a liquirizia. Però era anche peggio. Alzò la mano per tapparsi il naso, ma l’odore peggiorò. Allora capì che era lui a emanarlo. Lo diffondeva un impasto nero che aveva sulla spalla e sulla gamba. Dio che tanfo, ma… gli sembrava che le ferite gli facessero meno male. La sostanza gli aveva consumato il tessuto della camicia, ma sembrava che lo stesse guarendo. Si alzò del tutto e crollò all’istante sul materasso di gel. Non era proprio al cento percento. «Con calma». Era l’uomo che lo aveva stordito. David cercò con lo sguardo una possibile arma. La lancia era sparita. «Tranquillo, non ho intenzione di farti del male. All’inizio avevo pensato che ti avessero mandato a uccidermi, ma quando ho visto le tue ferite… ho immaginato che avrebbero mandato qualcuno in… in condizioni fisiche migliori». David lo guardò meglio. Sì, era proprio un uomo, adesso lo vedeva bene. Sui cinquant’anni, poco più o poco meno. Aveva la faccia scarna, come se non dormisse o non mangiasse da tempo. Ma c’era di più, qualcos’altro… La sua espressione era dura, quella di un soldato, forse un mercenario. «Chi sei?». David fu assalito da un’altra zaffata dell’impacco nero che aveva sulla spalla e girò la testa dall’altra parte nel vano tentativo di allontanarsene. «Che cosa mi hai fatto?» «Francamente, non ne sono sicuro. È una pasta medicinale di cui non so niente ma che pare riesca a guarire praticamente tutto. Come funzioni è un mistero, però funziona. Io mi ero fatto male e pensavo di dover morire, poi il computer ha aperto un pannello con dentro un po’ di questa roba puzzolente e mi ha mostrato un filmato in cui c’ero io che me la mettevo addosso. Era molto realistico. Così ho fatto come mi veniva consigliato e sono migliorato molto velocemente. Presto sarai a posto anche tu. Forse entro poche ore». «Davvero?». David si guardò le ferite. «Anche prima. Non è che tu abbia qualche altro posto dove andare. Ora dimmi chi sei». «David Vale». «Organizzazione?» «Clocktower, stazione di Giacarta», rispose meccanicamente David. L’uomo gli si avvicinò e nella sua mano comparve d’incanto una pistola. Solo in un secondo tempo David si rese conto di quello che aveva detto. «No. Io lavoravo contro gli Immari. Ho scoperto solo da poco che la Clocktower apparteneva a loro». «Non raccontarmi balle. Come mi hai trovato?» «Non l’ho fatto. Non ti stavo cercando. Non so nemmeno chi sei». «Cosa ci fai quaggiù? Come ci sei arrivato?» «Le gallerie sotto Gibilterra. Ho trovato una camera, con la lancia…». «Come?» «Era scritto in un diario». David scosse la testa cercando di riordinare i pensieri. Il puzzo penetrante della pasta lo confondeva. «L’ho avuto da un monaco in Tibet. Ne sai qualcosa?» «Per forza. L’ho scritto io». 120 Kate udì il sibilo dell’aria che la stava avvolgendo. Ancora non sentiva niente del proprio corpo, ma l’aria era calda, all’inizio solo tiepida, poi la temperatura era aumentata velocemente con il passare dei secondi. Cercò di rialzarsi da terra, ma ricadde bocconi. Era così stanca. Si lasciò andare dentro la tuta congelata. Lentamente il calore gliela riempì e con esso riacquisì sensibilità. Qualcuno stava riportando il suo corpo a una temperatura normale. La brina dentro la visiera del casco si trasformò in gocce d’acqua che scesero in rivoli, attraverso i quali cominciò a vedere strisce di pavimento, come una fotografia fatta a pezzi che veniva ricomposta. Era una grata metallica, solo che… non riusciva a vederci attraverso. No, non era una grata, era un pavimento uniforme di metallo increspato. Si girò sulla schiena e osservò un soffitto di metallo liscio. Intanto la nebbia andava scomparendo. Sentiva ancora freddo, ma ora, a paragone del gelo nella cattedrale di ghiaccio che c’era fuori, il clima le sembrava gradevolmente mite. Ma dove si trovava? In una specie di camera di decontaminazione? Si mise a sedere. Ora sentiva di nuovo le dita e armeggiò con i fermi sui polsi riuscendo dopo qualche manovra a sfilarsi i guanti. Poi fu la volta del casco e dieci minuti dopo si era liberata anche della tuta e indossava solo gli indumenti di quando aveva lasciato Gibilterra. Si guardò intorno. Era in un posto ben illuminato, largo una decina di metri e lungo forse il doppio. Accanto a sé c’era l’enorme porta da cui era entrata, molto più grande di quella all’altra estremità. Quando si avventurò da quella parte, la porta più piccola si aprì. Appena la ebbe attraversata si accesero luci sul soffitto e nel pavimento. Erano tutte deboli, ma nell’insieme illuminavano più che bene il corridoio di grigio metallo. Le ricordavano le file di punti luce nel pavimento di una limousine. Si trovava al centro di un bivio a T. Da che parte andare? Prima che potesse decidere, sentì arrivare qualcuno. Passi. 121 David si sforzava di dare un senso a quello che gli aveva detto quell’uomo. Aveva la mente confusa, sia per via della nanopasta che gli stava medicando le ferite alla spalla e alla gamba, sia per il suo ottenebrante odore pestilenziale. Quell’uomo sosteneva di essere Patrick Pierce/Tom Warner, padre di Kate e autore del diario. Un soldato americano che aveva scavato le gallerie per gli Immari in cambio del permesso di sposare la figlia di uno dei loro capi. Ma non era possibile, era passato troppo tempo. Anche se… quell’uomo lo aveva trascorso in uno di quei contenitori statici atlantidei… Possibile che stesse dicendo la verità? David cercò di ricollegare tra loro i vari dati in suo possesso. Tra il 1917 e il 1918 Patrick Pierce trascorre un periodo di convalescenza in seguito alle ferite ricevute durante la prima guerra mondiale e scopre la struttura di Atlantide sotto Gibilterra, dove è custodita la Campana che scatena una pandemia mortale, descritta all’opinione pubblica come “influenza spagnola”. Muoiono tra i cinquanta e i cento milioni di persone. In tutti i continenti, i contagiati arrivano a un miliardo. Nel 1918 Pierce mette dentro uno di quei tubi la moglie Helena quand’era incinta. Tra il 1918 e il 1938 Pierce è costretto a entrare a far parte dei vertici dell’Immari per poter proteggere la moglie. Finisce lo scavo di Gibilterra, ma anche lui viene messo in uno di quei tubi quando Konrad Kane parte per la spedizione che lo deve portare prima in Tibet, a recuperare certi reperti e massacrare gli Immaru, poi nell’Antartide, a cercare quella che crede sia la capitale di Atlantide. Kane non fa più ritorno. Nel 1978, dopo quarant’anni, Mallory Craig, Patrick Pierce e Dieter Kane vengono risvegliati dai tubi in cui erano ibernati. La moglie di Pierce è ancora morta, ma è nata la bambina. Pierce le dà il nome di Katherine Warner. Gli altri prendono nomi nuovi: Patrick stesso diventa Tom Warner, Mallory Craig diventa Howard Keegan e Dieter Kane diventa Dorian Sloane. Nel 1985, Tom Warner (Patrick Pierce) scompare, morto probabilmente nel corso di un esperimento. Poteva essere vero? Era possibile che Patrick Pierce/Tom Warner fosse rimasto là sotto fin dal 1985? Se durante la prima guerra mondiale Pierce aveva più o meno venticinque anni, come diceva nel diario, doveva essere sui quarantacinque nel 1938, quando era entrato in quello che chiamava “tubo”… Avrebbe avuto dunque cinquantadue anni circa nel 1985 e… ottanta adesso. L’uomo che aveva di fronte era molto più giovane, probabilmente sotto i cinquant’anni. La pasta miracolosa lo stava già facendo stare meglio. Si alzò, ma l’uomo gli puntò contro la pistola. «Resta dove sei. Non mi credi, vero?». “Non è il caso di mettersi a fare il difficile quando sei ferito e sei sotto tiro di un’arma”, pensò David. Si strinse nelle spalle con un’espressione conciliante. «Sì che ti credo». «Non fare il furbo. E smettila di mentirmi». «Senti, sto solo cercando di raccapezzarmi. Il diario andava da… dal 1918 al 1936…». «Conosco le date del diario, ti ho già detto che l’ho scritto io. Ora spiegami bene che cosa ci fai quaggiù». «Sono caduto in una trappola», rispose David. «Preparatami da Mallory Craig, il direttore della Clock…». «So cosa dirige. Qual è stata l’esca?». Gli parlava velocemente, cercando di farlo cadere in contraddizione e smascherare le sue bugie. «Kate Warner. Mi aveva detto che era scesa nelle tombe. E io sono venuto a cercarla. Una settimana fa hanno rapito due bambini dal suo laboratorio di Giacarta. I bambini erano stati trattati con una nuova terapia contro l’autismo…». «Di cosa diavolo stai parlando?» «Non lo so bene neppure io, non mi ha spiegato più di tanto…». «Kate Warner è una bambina di sei anni. Non ha nessun laboratorio, né a Giacarta né altrove». David lo osservò in silenzio. Adesso cominciava a intuire qualcosa. «Kate Warner è una ricercatrice in genetica. E decisamente non ha sei anni». L’uomo abbassò la pistola e distolse lo sguardo. «Impossibile», mormorò. «Perché?» «Io sono qua sotto soltanto da un mese». 122 Kate era sbalordita. Da dietro l’angolo uscirono correndo Adi e Surya. Appena la videro, si precipitarono verso di lei. Kate si chinò ad abbracciarli, ma i due piccoli non si fermarono neppure. La tirarono per le braccia. «Presto, Kate», la esortarono concitati, «dobbiamo andare! Stanno arrivando!». Dorian sganciò le fibbie dell’imbracatura arancione e si lasciò cadere per l’ultimo metro. La luce che proiettava dal casco illuminò la gabbia semidistrutta che sporgeva per metà dal cumulo di frammenti di ghiaccio come una nassa conficcata nella sabbia in fondo all’oceano. Accanto a essa si era raggomitolata una grossa matassa di cavo d’acciaio. Il cavo era piombato su Kate, che purtroppo era stata salvata dalla rete che faceva da tetto alla gabbia. Sloane si diresse verso il portale. Quando fu sotto la Campana, appesa in cima alla cupola, si fermò. Illuminò la macchina con le luci del casco e sorrise. La Campana se ne stava lassù, ferma e inerte. Il crudele congegno che aveva ucciso all’istante suo fratello e poi sua madre, colpendola con il morbo che aveva scatenato sui sopravvissuti… ora era come morto. Il portale si aprì, quasi riconoscesse che quello era il momento a cui era stato predestinato. Dorian entrò. 123 «Non so cosa dirti». David era disorientato. «Siamo nel 2013». «Impossibile». L’uomo andò a un armadietto continuando a tenerlo sotto tiro, lo aprì, ne tolse un luccicante oggetto d’oro e glielo lanciò. David lo prese al volo. Era un orologio. Lo girò e lesse la data: 19 settembre 1985. «Sì, già. Io per parte mia non ho un orologio d’oro con la data sbagliata, però…». Fece per infilarsi una mano in tasca. L’uomo agitò la pistola in segno di ammonimento. David si fermò. «Calma, calma. Ho qui la mia personale capsula temporale. Una foto che ho in questa tasca. Prendila tu e dagli un’occhiata». L’altro si avvicinò e gli sfilò dalla tasca una fotografia in carta lucida. Studiò l’immagine dell’iceberg da cui sporgeva il muso del sommergibile. «Dubito che nel 1985 gli Immari scattassero foto satellitari di iceberg». L’uomo scosse la testa e aggrottò la fronte in un’espressione pensierosa. «Questo è l’U-Boot di Kane, non è vero?». David annuì. «Crediamo che lo abbiano trovato qualche settimana fa. Senti, sono confuso come te. Perché non confrontiamo quello che sappiamo e non cerchiamo di ricostruire la situazione? Tu come sei finito qui?» «Stavo lavorando nella camera segreta. Avevo capito come far funzionare le loro macchine». «Sei stato tu a mettere in funzione i video perché vengano proiettati a ripetizione?» «I video? Ah sì, sono stato io, nel caso non fossi riuscito a tornare e qualcuno avesse trovato la camera». Si sedette sull’altro lettino, a testa bassa, come concentrandosi per mettere in ordine i pensieri. «Ho anche piantato la lancia nella porta. Stavo provando diversi reperti presi dall’archivio degli Immari nella speranza di trovare qualcosa che rimettesse in funzione altre loro macchine. Sono riuscito a far aprire la porta, ma niente di più, nella camera segreta non ho trovato altro. Immaginavo che nella stanza dopo ci fosse un’altra stazione di controllo, così sono andato avanti. Ho cercato di tenere la porta aperta con la lancia. Non mi è andata bene e non sono riuscito a tornare indietro. Qui le macchine sono diverse. Sono quasi tutte spente. Ci sono anche altri misteri… ma in quest’ultimo mese non ho fatto molti progressi, non fino a poco prima che arrivaste voi. Adesso sembra che tutto quanto qui dentro si stia svegliando, pian piano entrano in funzione più macchine e si aprono porte che prima era impossibile smuovere. Ero in esplorazione, quando ho sentito schiudersi la porta e ho trovato te». «Torniamo allo scarto temporale. So che non sei Patrick Pierce o, come avevi detto… Tom Warner. Dovrebbe avere ottant’anni. Allora dimmi chi sei, invece…». «Sono Patrick Pierce». L’uomo ci pensò su. «Qui il tempo procede più lentamente. Il rapporto dev’essere di… di un giorno qui per ogni anno fuori». «Come?» «Non lo so. Ma crediamo che abbia a che fare con la Campana. Può darsi che abbia due diverse funzioni. È una sentinella con il compito di tener fuori i non Atlantidei, ma non è solo questo. All’inizio, quando abbiamo cominciato a studiarla, pensavamo che fosse una macchina del tempo. Crea intorno a sé un campo extradimensionale, una specie di bolla nel flusso temporale, una dilatazione che ne rallenta lo scorrimento. Per via di questo effetto, vicino alla Campana è come se il tempo venisse allungato come un elastico. Abbiamo pensato che avesse a che fare con il dislocamento gravitazionale, che ripiegasse e distorcesse il continuum spazio-temporale nel punto in cui si trovava. Abbiamo persino pensato che potesse essere un generatore di cunicoli». «Di cosa?» «Tunnel spazio-temporali. Un’ipotesi che si basa sulla teoria della relatività generale di Einstein. Ma sono sicuro che nel frattempo è stata aggiornata, se non accantonata. Resta il fatto che, negli anni trascorsi dopo l’estrazione della Campana a Gibilterra, ci siamo accorti che nello spazio circostante il tempo sembrava rallentare. Abbiamo pensato che fosse il suo modo di generare energia. Siamo riusciti essenzialmente a invertire il processo della macchina immettendo energia in modo da minimizzarne gli effetti gravitazionali». «Interessante, però c’è un problema: la Campana di Gibilterra è stata rimossa quasi cento anni fa». «Lo so. Sono stato io. E io ho un’altra teoria. Io credo che quando la nave che c’era a Gibilterra è esplosa, gli Atlantidei siano rimasti intrappolati nella sezione che si era staccata. Credo che la porta attraverso cui sono passati non fosse in comunicazione con un altro locale della stessa nave. Credo che fosse il portale da cui si accedeva a un’altra nave. Credo che non ci troviamo più a Gibilterra». 124 Solo dopo aver svoltato un altro angolo, Kate riuscì finalmente a fermare i bambini. «Ditemi cosa sta succedendo», li supplicò. «Dobbiamo nasconderci, Kate», fece Adi. «Da chi?». «Non c’è tempo», disse Surya. Tempo. La parola echeggiò nella mente di Kate e un nuovo orrore le gelò il sangue nelle vene. Afferrò i ragazzini per le spalle girandoli su se stessi per leggere il quadrante digitale. 02:51:37. Avevano ancora quasi tre ore. Martin aveva detto che mancavano meno di trenta minuti alla detonazione. Com’era possibile? Ma non poteva perdersi in congetture, i secondi scorrevano inarrestabili. I bambini la stavano strattonando di nuovo e dietro di loro si stavano aprendo i battenti di una porta. Dorian lasciò cadere per terra la tuta e studiò dove si trovava. Gli sembrò che fosse una specie di camera di decontaminazione. Si avvicinò alla porta più piccola. I suoi passi si propagarono amplificati dall’alto soffitto metallico della camera. Quando le fu davanti, la porta si aprì e Sloane uscì in un corridoio. Proprio come a Gibilterra. Era tutto vero. Anche quella era una città atlantidea. Su soffitto e pavimento si accesero delle luci. Il corridoio sembrava intatto, in condizioni perfette, di certo non mostrava nessun segno d’essere passato attraverso una deflagrazione nucleare. Come mai? I bambini si erano forse addentrati troppo in profondità in quei sepolcri? Erano stati catturati dagli Atlantidei? Le bombe erano state disinnescate? Sentì dei passi più avanti, stivali in marcia che facevano vibrare all’unisono il pavimento di metallo. Estrasse la pistola e si spostò su un lato del corridoio, nell’ombra di un montante di sostegno. 125 Kate si era fermata sulla soglia e guardava attonita l’allestimento della stanza. C’erano una dozzina di giganteschi tubi trasparenti, cilindri verticali come quelli che aveva descritto nel diario Patrick Pierce… suo padre. E come i tubi di cui aveva raccontato lui, anche ciascuno di questi conteneva un individuo, una scimmia, un umano o un essere a metà tra l’una e l’altro. Kate entrò nella stanza, sconcertata da quell’incredibile spettacolo: un padiglione di progenitori perduti. Tutti gli anelli mancanti nell’evoluzione umana raccolti e catalogati in quella stanza ovale, tre chilometri sotto i ghiacci dell’Antartide, come un bambino collezionerebbe farfalle in un barattolo di vetro. Alcuni degli esemplari erano più bassi di Kate, alti poco più di un metro; molti erano della sua statura e qualcuno parecchio più alto. I colori della pelle erano i più vari: alcuni molto scuri, alcuni olivastri, altri rosei o quasi bianchi. In un posto così uno scienziato avrebbe potuto passarci la vita intera. Molti avevano già trascorso tutta la loro esistenza a disseppellire ossa solo nella speranza di recuperare qualche minuscolo frammento degli stessi esseri umani che lì erano sospesi intatti in quei tubi di vetro. I bambini entrarono dietro di lei e i battenti della porta si richiusero. A parte i tubi, nella stanza c’era solo un banco con il ripiano in vetro. Kate andò da quella parte, ma si fermò quando sentì che la porta alle loro spalle si stava aprendo di nuovo. 126 Patrick Pierce camminava con la mano sul calcio della pistola e sorvegliando da vicino l’uomo che diceva di chiamarsi David Vale. Aveva lasciato che fosse lui a precederlo. Gli aveva raccontato una storia plausibile, ma Patrick ancora non si fidava di lui. “O forse più semplicemente non voglio credergli”. Percorsero lunghi corridoi, uno dopo l’altro, e intanto la mente di Patrick tornò a Helena, a quel giorno di sette anni prima, quando il tubo di vetro si era aperto con un sibilo… Le nubi bianche si erano schiuse e lui l’aveva toccata. E quando aveva sentito la sua pelle fredda, era stato come se la sua mano si fosse trasformata in sabbia, si fosse sfarinata per essere soffiata via quale cenere nel vento. Era caduto in ginocchio con le lacrime che gli scorrevano sulle guance. Mallory Craig gli aveva cinto la vita e Patrick lo aveva scaraventato per terra e aveva cominciato a colpirlo, lo aveva tempestato di pugni in faccia prima di essere immobilizzato da due guardie. Craig, la mano destra del diavolo, l’uomo che lo aveva attirato in una trappola con l’intenzione di ucciderlo. E nell’angolo, raggomitolato, c’era un bambino terrorizzato. Dieter Kane. Craig si era rialzato cercando di ripulirsi dal sangue che continuava a sgorgargli dal naso, lo aveva preso per mano ed era sparito. Patrick avrebbe voluto seppellire Helena in Inghilterra nella tomba di famiglia, ma Craig non glielo aveva permesso. «Avremo bisogno di nomi nuovi, Pierce. Bisogna cancellare ogni legame con il passato». Nomi nuovi. Katherine. Quell’uomo – David Vale – l’aveva chiamata Kate. Patrick cercò di immaginare come potesse essere stata la sua vita. Lui era stato un padre assente e, quando c’era, un padre che si poteva definire come minimo singolare. Dal momento in cui aveva avuto Katherine tra le braccia, aveva deciso di dedicarsi a sventare la minaccia degli Immari e a cercare la chiave con cui svelare i misteri di Gibilterra e della Campana. Aveva deciso di fare di tutto perché per lei il mondo fosse più sicuro. Era il meglio che aveva saputo pensare per Kate. E aveva fallito. Se quello che David Vale diceva era vero, gli Immari erano più forti che mai. E Kate… Della sua vita aveva perso ogni singolo passo. Peggio ancora, era stata cresciuta da uno sconosciuto. E come se non bastasse, era finita nelle spire del complotto degli Immari. Era un incubo. Cercò di scacciare quei pensieri dalla mente, ma riaffioravano a ogni angolo di quel labirinto: sembrava emergessero dal pavimento di ogni nuovo corridoio, con l’accanimento di un fantasma. Tornò a concentrarsi sull’uomo che zoppicava davanti a lui. Aveva delle risposte da dargli? E sarebbe stato sincero? Patrick si schiarì la voce. «Com’è?» «Chi? Ah, Kate, suppongo». David si girò a sorridergli. «È… straordinaria. Incredibilmente brillante… e con una forza di volontà pazzesca». «Di questo non dubito». Sentir parlare di lei aveva qualcosa di surreale, ma aiutò in parte Patrick a venire a patti con il fatto che sua figlia fosse cresciuta senza di lui. Gli sembrò di dover dire qualcosa, ma non sapeva cosa. «Faccio fatica a adattarmi a questi discorsi, Vale», esclamò dopo un po’. «Per me sono passate solo poche settimane da quando l’ho salutata a Berlino ovest. È… è strano sapere che mia figlia è cresciuta senza un padre». «Ma è cresciuta più che bene, credimi». David fece una breve pausa. «Non ho conosciuto nessuna donna come lei», aggiunse poi. «È davvero molto bella…». «Va bene, ehm, credo che possa bastare. Non… ah… vediamo di non distrarci, Vale». Patrick allungò il passo. Evidentemente c’era un limite alla velocità con cui poteva assimilare rivelazioni… di un certo tipo. Sorpassò David e proseguì spedito. Aveva su di lui il vantaggio di un braccio e una gamba, nel senso letterale dei termini, e in più Vale non era armato, quindi come minaccia non poteva essere un granché. E l’ultima risposta che gli aveva dato lo aveva convinto: stava dicendo la verità. David cominciò a fare fatica a stargli dietro. «Hai ragione», disse. Proseguirono in silenzio e dopo qualche tempo Patrick si fermò per permettergli di riprendere fiato. «Scusa», disse. «So che quell’impacco ti indebolisce». Sollevò un sopracciglio. «L’ho usato anch’io dopo qualche incidente che mi è capitato durante la mia esplorazione». «Ce la faccio», rispose David ansimando. «Come no. Ricorda con chi stai parlando. Sono andato in giro zoppicando per queste gallerie quasi cento anni prima di te. Meglio non esagerare». «A proposito», ribatté David, «mi sembra che adesso cammini più che bene». «Sì. Anche se preferirei zoppicare ancora per poter tornare indietro. È stato il tubo. Nel 1918 ne sono uscito rimesso a nuovo. Non l’ho scritto nel diario, a quei tempi ero molto più preoccupato per quello che vedevo accadere intorno a me. Helena… L’influenza spagnola…». Patrick fissò la parete per qualche secondo. «Credo che i tubi facciano qualcosa a chi c’è dentro. Quando sono uscito nel 1978, ero capace di far funzionare le macchine. Credo che sia per questo che ho potuto attraversare il portale di Gibilterra». S’interruppe per guardare David negli occhi. «Però ancora non capisco come abbia potuto farlo tu. Tu non sei mai stato in un tubo». «Vero. E ammetto che non lo capisco nemmeno io». «Non è che gli Immari ti hanno dato qualcosa?» «No. O meglio, non credo. Però in effetti una cura mi è stata somministrata. Ho ricevuto una trasfusione di sangue da una persona che era stata nei tubi. Kate. In Tibet ero ferito. Avevo perso molto sangue e lei… lei mi ha salvato la vita». Patrick si mise a passeggiare annuendo. «Davvero interessante». Lanciò un’occhiata alle lesioni di David coperte dal misterioso medicamento. «Le ferite erano pulite, ma mi era sembrato che fossero dovute a proiettili. Come te le sei procurate?» «Dorian Sloane». «Dunque si è unito agli Immari incaricandosi di portare avanti l’eredità di famiglia. Nel 1985 la sua malvagità cresceva di pari passo con la sua statura. Aveva quindici anni». «E non ha più smesso». David si sentiva meglio. «Grazie della sosta. Sono pronto». Patrick riprese il cammino, sempre a un’andatura sostenuta ma non più come prima. Davanti a lui i battenti di una porta che non si era mai aperta prima cominciarono a schiudersi quando erano ancora a qualche decina di metri di distanza. «È emozionante vedere aprirsi passaggi che fino a ieri mi erano preclusi. Ma sentimi! Parlo come quei deficienti che mi assunsero durante la guerra». David scosse la testa. «La guerra», ripeté. «Cosa?» «Niente. È solo strano sentir dire semplicemente “guerra” in riferimento alla prima guerra mondiale. Oggi quando si dice guerra si intende l’Afghanistan». Patrick si fermò. «I sovietici? Siamo in guerra…». «Oh, no, loro se ne sono andati nel 1989. Anzi, per la verità l’Unione Sovietica non esiste più». «Allora chi?» «Al Qaeda, o per la precisione adesso sarebbero i talebani, una… una sorta di tribù islamica radicale». «L’America è in guerra con una tribù afghana…». «Be’, su per giù, è una storia lunga…». Le luci del corridoio vacillarono e un attimo dopo si spensero del tutto. «Era mai successo prima?», chiese David sottovoce. «No». Patrick accese un tubo a LED, che sprigionò abbastanza luce da illuminare tutto il corridoio. Si sentì come Indiana Jones mentre accendeva una torcia con cui illuminare un’antica galleria. Stava per fare una battuta in tal senso, ma probabilmente David non sapeva chi fosse Indiana Jones. Ormai I predatori dell’arca perduta era un film uscito da più di trent’anni, e probabilmente l’ultima generazione non guardava più le vecchie pellicole. Vale alzò il braccio buono per proteggersi dal bagliore intenso. Patrick avanzò a passi prudenti. Le luci del corridoio si riaccesero debolmente, ma si spensero prima di splendere del tutto. Quando furono più vicini alla porta, in fondo al corridoio, questa non si aprì automaticamente. Patrick allungò la mano al quadrante di vetro che c’era su un lato. La nebbia e i crepitii che emanavano dalle sue dita erano più fiochi. Cosa stava succedendo? «Ho paura che ci sia un problema di energia», commentò Patrick. Ma sapeva come aprire la porta. Usò il tastierino del quadrante e quella si schiuse lentamente. Alzò il tubo a LED e illuminò l’immenso spazio dall’altra parte. Erano in una sala più grande di quelle che aveva visto fino a quel momento, là sotto o altrove. L’impressione era che fosse lunga e larga chilometri e chilometri. E c’erano file su file di lunghi tubi di vetro che salivano fino a un soffitto così alto che non riusciva a vederlo. Ce n’erano a perdita d’occhio, per chilometri, fin nell’oscurità dove si perdeva lo sguardo. Erano dello stesso tipo di quelli che Patrick aveva visto tanti anni prima a Gibilterra, ma con due eccezioni: questi tubi erano pieni di corpi… e la nebbia bianca che c’era all’interno si stava dissipando. Nelle volute di nebbia sempre più rarefatta si cominciavano a scorgere a tratti le persone che vi erano contenute. Posto che fossero persone. Avevano sembianze più umane dell’uomo-scimmia di Gibilterra. Erano gli Atlantidei? E se non erano loro, chi erano? E che cosa stava succedendo? Si stavano svegliando? Il momento di trance in cui era caduto Patrick davanti a quella foresta di tubi fu interrotto da un rumore che sopraggiungeva dai recessi dei sepolcri: passi. 127 I battenti si aprirono e Kate tentò invano di nascondere la sua sorpresa quando vide entrare un uomo alto, di mezza età, che indossava un’uniforme militare nazista. L’uomo si fermò e rimase immobile come una statua, sull’attenti. Il suo sguardo passò lentamente in rassegna prima lei e poi i bambini. Inconsciamente Kate avanzò di un passo per mettersi tra lui e i suoi piccoli. Un abbozzo di sorriso arricciò le estremità delle labbra del militare, come se quel movimento involontario gli avesse rivelato qualcosa, gli avesse svelato un segreto. Forse con quella mossa lei si era tradita, ma altrettanto aveva fatto lui con quel sorriso. Ne aveva riconosciuto la freddezza. E sapeva chi era quell’uomo. «Salve, Herr Kane», lo salutò in tedesco. «Era da molto che la stavamo cercando». 128 Il rumore dei passi che si sentiva provenire dal buio cessò. Immobili, David e Patrick si scambiarono un’occhiata. «Che posto è questo?», domandò bisbigliando David. «Non ne ho idea». «Non eri mai stato qui?» «No. Ma penso che… un’idea ce l’avrei», disse Patrick osservando i tubi. In tanta oscurità, le sole luci erano quelle dei tubi appesi a grappoli, come caschi di banane, a rastrelliere di metallo. Era possibile? Gli Immari avevano avuto ragione fin dall’inizio? «Credo che questo potrebbe essere un gigantesco centro d’ibernazione. La porta di Gibilterra era… era in realtà il portale di comunicazione con un altro luogo. Probabilmente la struttura dell’Antartide. E quella struttura è… è quella che pensavano che fosse». «Chi?» «Kane, gli Immari. La loro teoria era che la struttura di Gibilterra fosse un piccolo avamposto della patria atlantidea, che secondo loro si trovava sotto l’Antartide. Credevano che gli Atlantidei fossero dei superumani ibernati in attesa di reimpossessarsi della Terra». In quel momento i passi ripresero. Patrick scoccò un’occhiata alla lancia che David usava come bastone per aiutarsi a camminare. La sua espressione tradusse il suo pensiero: se fossero andati incontro ai passi, li avrebbero sentiti. «Io posso aspettare qui», disse David. «Oppure chiediamo chi è». «No», sussurrò subito Patrick. «Se gli Immari hanno trovato un ingresso nell’Antartide… i passi potrebbero essere… potrebbero non essere di persone amichevoli. Oppure…», aggiunse guardando i tubi. «In ogni caso ci conviene aspettare e basta». Si rifugiarono dietro il gruppo di tubi più vicino e si accovacciarono nell’oscurità mentre l’eco dei passi sotto la volta del sepolcro cresceva. 129 Dorian guardò i soldati nazisti passare marciando nella fioca luce del corridoio. Era vero. Alcuni di loro erano vivi. Poteva essere vivo anche suo padre. Uscì dall’ombra, drizzò la schiena e parlò in tono stentoreo. «Ich heiße Dieter Kane». I due uomini si voltarono spianando i fucili mitragliatori. «Halt!», intimò uno dei due. «Come osate!», rispose sdegnato Dorian. «Io sono l’unico figlio sopravvissuto di Konrad Kane. Abbassate le armi e portatemi subito da lui». Konrad Kane si avvicinò a Kate come un grosso felino che studia la preda, calcolando se o quando attaccare. «Tu chi sei?». Lei rifletté in fretta. Aveva bisogno di una bugia credibile. Gli disse in tedesco: «Sono la dottoressa Carolina Knapp e sono a capo di uno speciale progetto di ricerca dell’Immari inviata quaggiù a cercare lei, signore». Kane la osservò con attenzione, poi spostò lo sguardo sui bambini. «Impossibile. Io sono qui da meno di tre mesi. Per lanciare una nuova spedizione ci vorrebbe più tempo». Kate temette che il suo accento potesse insospettirlo: era da tanto tempo che non parlava tedesco. Meglio dargli risposte concise. «Lei è qui da molto più di pochi mesi, signore. Ma ho paura che non abbiamo tempo. Dobbiamo andare. Devo sbarazzarmi di questi zaini e portar via questi bambini…». Arrivò di corsa un secondo nazista. «Signore, abbiamo trovato qualcosa e altre persone», riferì con ansia. «Tornerò», disse Kane a Kate. La osservò ancora una volta con aria perplessa. «Dottoressa», aggiunse. Si chinò davanti ai bambini e la stupì parlando in inglese. «Ragazzi, ho bisogno del vostro aiuto. Venite con me, per piacere». Li sollevò da terra prendendoli in braccio e se ne andò prima che lei potesse obiettare. 130 Quindici minuti a discutere con quei rimbambiti e Dorian non aveva cavato un ragno dal buco. Lo tenevano sotto mira come un ladro colto in flagrante, facendo orecchie da mercante a tutto quello che diceva. Alla fine Dorian si era rassegnato e, con un sospiro, si era messo a dondolarsi aspettando di vedere come sarebbe andata a finire. I secondi passarono a una lentezza esasperante. Poi il silenzio fu rotto da un rumore di passi che andava crescendo. Il ritmo si sincronizzò con i battiti di Dorian, nel cui cuore crebbe l’emozione per l’imminenza del momento che aveva aspettato per tutta la vita. L’uomo che ricordava a stento, che aveva messo il suo corpo malato in una bara di vetro, che gli aveva salvato la vita e che avrebbe salvato il mondo intero, suo padre, sbucò da dietro l’angolo e andò verso di lui a passi marziali. Dorian avrebbe tanto voluto corrergli incontro, abbracciarlo e raccontargli tutto quello che aveva fatto, come lo aveva salvato, proprio nello stesso modo in cui era stato salvato da lui quasi un secolo prima. Avrebbe voluto che suo padre sapesse che era cresciuto forte nel fisico e nel carattere, forte come era stato suo padre, che era degno dei sacrifici che lui aveva fatto per salvarlo. Invece rimase immobile. Una delle ragioni erano i fucili mitragliatori, ma non era quella principale. Gli occhi di suo padre erano gelidi, penetranti. Sotto quello sguardo si sentiva a disagio, era come se lo stesse analizzando, sondando. «Papà», mormorò. «Ciao, Dieter». Gli si era rivolto in tedesco, in un tono di voce professionale, distaccato. «Ho tante cose da dirti. Mi sono risvegliato nel 197…». «1978. Qui il tempo scorre più lentamente, Dieter. Hai quarant’anni?» «Quarantadue», precisò, sorpreso dalla velocità con cui suo padre aveva già fatto i conti. «Fuori è il 2013. Qui sono passati settantacinque giorni. Un giorno per ogni anno. Un differenziale temporale di trecentosessanta a uno». La mente di Dorian era momentaneamente alla deriva. Avrebbe voluto dire qualcosa di perspicace, far vedere a suo padre che era abbastanza intelligente da risolvere da solo quel paradosso, ma riuscì solo a spiccicare: «Sì, ma perché?» «Abbiamo trovato la loro camera di ibernazione. È come sospettavamo», dichiarò suo padre. «Forse la Campana distorce anche il tempo all’interno della struttura e genera l’energia di cui hanno bisogno per l’ibernazione. Forse l’ibernazione non è perfetta. Magari invecchiano, anche se molto gradualmente. O forse il rallentamento serve a preservare i loro macchinari, che sicuramente patiscono l’usura del tempo anche se in misura lieve. Resta comunque il fatto che rallentare il tempo li aiuta a fare balzi di intere ere geologiche. E abbiamo trovato anche qualcos’altro. Gli Atlantidei non sono ciò che pensavamo noi. La verità è più stravagante di quella che abbiamo immaginato. Ci vorrà un po’ per spiegartelo». Dorian indicò i minori. «Negli zaini di quei bambini…». «Ci sono degli esplosivi, sì. Bella mossa. Immagino che siano immuni agli effetti della Campana, giusto?» «Sì», rispose Dorian. «E non solo loro. C’è anche una donna, Kate Warner. È la figlia di Patrick Pierce. Temevo che li trovasse prima di noi. Ma adesso non è più importante. Il tempo è quasi scaduto». Konrad controllò uno degli zaini. «Circa due ore ancora. La donna che dici li ha effettivamente trovati prima di noi, ma abbiamo preso anche lei. Li metteremo nelle tombe. E torneremo giù noi, se ci sarà da finire il lavoro». «Meglio muoverci. Da qui al portale è una camminata di trenta minuti». Dorian si chinò a parlare ai bambini in inglese. «Allora, vi avevo detto che sarebbe venuta Kate. Il primo gioco vi è piaciuto?». Loro lo guardarono in silenzio. Ottusi come somari, pensò Sloane. «Adesso facciamo un gioco nuovo. Vi piace?». Dorian aspettò, ma i bambini rimasero muti. «E va bene, lo prenderò come un sì. Il gioco è una corsa. Siete veloci a correre?». I piccoli annuirono. 131 David e Patrick tennero d’occhio i due soldati nazisti che avanzavano lentamente osservando i tubi tra meraviglia e soggezione. Indossavano maglioni pesanti e non portavano l’elmetto. Erano della Kriegsmarine, sicuramente molto abili nel combattimento corpo a corpo. Per avere la meglio su di loro, l’effetto sorpresa era fondamentale. David alzò una mano per fare un segnale a Patrick, che lo aveva preceduto e gli stava facendo cenno di aspettare che fossero passati oltre il punto dove erano nascosti loro due. David cercò di abbassarsi di più, ma il bruciore alla gamba glielo impedì. Era già un miracolo che riuscisse a stare acquattato. Quella pasta funzionava davvero. Già, la pasta: avrebbero notato il cattivo odore che emanava? Altri due secondi… Uno dei due militari si fermò. Aveva sentito l’odore dell’impacco? Da uno dei tubi sopra David e Patrick uscì un getto di nebbia bianca che attirò l’attenzione dei soldati. Si fecero scivolare dalla spalla la cinghia dei fucili mitragliatori e li imbracciarono, ma David e Patrick erano già scattati. Sotto l’urto, il suo bersaglio rovinò a terra. Senza dargli il tempo di reagire, David lo colpì duramente alla fronte facendogliela cozzare sul pavimento di metallo. Si udì uno schiocco e intorno alla testa del soldato si formò una pozza di sangue. Poco distante Patrick era alle prese con l’altro nazista. Il giovane gli era sopra e lo aveva pugnalato al petto con un coltello. David gli piombò addosso, lo spinse via, gli fece saltare la lama dalla mano e lo inchiodò sul pavimento. Patrick gli fu subito accanto con il coltello recuperato, che puntò alla gola del prigioniero. Il nazista smise di opporre resistenza in segno di tacita resa, ma David continuò a tenergli le braccia bloccate. Non sapeva il tedesco ma, prima che aprisse bocca, Patrick cominciò a interrogare il soldato nella sua lingua. «Wieviele Männer?» «Vier». Patrick spostò la lama dal collo del prigioniero all’indice della mano sinistra. «Zwölf!», corresse precipitosamente il giovane. «Herr Kane?». Il soldato annuì. Adesso sudava profusamente. «Töten sie mich schnell», disse. Patrick continuò imperterrito a interrogarlo, strappandogli qualche altra informazione. «Bitte…»2, lo implorò nuovamente il prigioniero. Con un colpo secco del polso, Patrick gli aprì la gola e la morte seguì immediata al fiotto di sangue che inondò il petto del militare. Poi lasciò cadere il coltello e crollò a terra. Perdeva sangue dalla ferita al torace. David scavalcò il soldato morto, si staccò dalle ferite ormai quasi guarite la pasta nera e la spalmò su Patrick, che sussultò facendo una smorfia. «Non temere», lo rassicurò David con un sogghigno, «sarai come nuovo nel giro di poche ore. Forse anche prima». Patrick si tirò su a sedere. «Se ce l’abbiamo, qualche ora». Indicò la porta da cui erano arrivati i soldati. «Adesso non ho più dubbi, siamo veramente in Antartide». Stava ancora riprendendo fiato, aveva il respiro corto. «Quanti sono?». Patrick guardò i soldati morti. «Dodici. Adesso dieci. C’è Kane con loro. Se entreranno qui dentro sarà una strage, dopodiché, forse… ci saranno… ci saranno pessime notizie per la razza umana». David cominciò a saccheggiare i morti, recuperando le armi e qualunque cosa potesse servire. «Hanno detto nient’altro?». Patrick lo guardò senza capire. «Non hanno visto nessun altro?», si corresse David. Sperava in qualche indicazione su Kate. Patrick intuì cosa aveva in mente. «No, non hanno visto nessuno. Erano qui da quasi tre mesi e, se sono arrivati intorno al 1938, i conti tornano. Un anno per ogni giorno, un mese ogni due ore. Ha detto che avevano appena trovato questa stanza e che uno di loro era tornato indietro a riferire». David offrì a Patrick uno dei fucili mitragliatori e gli porse il braccio per aiutarlo ad alzarsi. «Allora non abbiamo tempo da perdere». Patrick si aggrappò al suo braccio e si sollevò non senza fatica. Si girò a guardare il soldato morto che lo aveva pugnalato. «Guarda, Vale», mormorò sconsolato. «Sono passati venticinque anni da quando ero un militare…». «Ce la caveremo lo stesso», tagliò corto David. 2 «Quanti uomini?»… «Quattro»… «Dodici»… «Uccidimi velocemente»… «Per favore». (n.d.t.) 132 Dorian marciava al fianco del padre tenendo i bambini per una spalla. Così andava il mondo: la vita poteva cambiare di punto in bianco. Lui e suo padre riuniti che andavano a finire la loro grande missione: salvare la razza umana. Tutti i suoi sacrifici, tutte le sue decisioni… Aveva avuto ragione. Davanti a loro si accese una sparatoria. David abbatté i due soldati a guardia dell’ingresso alle tombe prima che avessero il tempo di entrare in azione. Un terzo sbucò da dietro l’angolo a sinistra e scaricò una mitragliata nel muro di metallo accanto a lui, ma Patrick lo centrò in pieno petto con tre colpi in rapida successione, neutralizzandolo all’istante. David sorvegliò per qualche istante il corridoio nell’altra direzione. Nessuno. Allora raggiunse velocemente Patrick, che si stava sporgendo con la massima cautela dall’angolo da cui era comparso il terzo militare. «Vado avanti io», sussurrò David. Mise fuori la testa e fu sfiorato immediatamente da un proiettile. «Ti copro», disse Patrick allungando il braccio e scaricando oltre l’angolo alcuni colpi di pistola. David uscì nel corridoio e corse verso l’uomo che vide schiacciato contro una parete. Lo centrò con due pallottole al petto. Quattro eliminati. Ne restavano cinque, più Kane. Erano ancora in pericolosa inferiorità numerica. E avevano perso l’effetto sorpresa. Un passo alla volta. Patrick lo raggiunse e insieme osservarono i battenti della porta chiusa da cui doveva essere arrivato quell’ultimo nazista. Si misero in posizione ai due lati, e Patrick usò il tastierino del piccolo quadrante di vetro, finché i battenti cominciarono a schiudersi su una stanza con dodici tubi di vetro contenenti… uomini-scimmia? David era sconcertato. Patrick sembrava meno confuso. Entrò veloce nella stanza controllando fulmineamente a destra e a sinistra con il fucile spianato. David lo seguì. Non c’era nessuno. Poi David avvertì qualcuno che si stava avvicinando da dietro. Ruotò su se stesso pronto a sparare. Kate. Era rimasta nascosta dietro la postazione di controllo. David staccò il dito dal grilletto e abbassò il fucile andando verso di lei, pronto a prenderla tra le braccia. Ma prima che la raggiungesse, gli occhi di Kate incontrarono quelli di Patrick. «Papà?», mormorò Kate pregiudicando senza volere lo slancio affettuoso di David. Immobile, con un’espressione tra rimorso e incredulità, l’anziano genitore impiegò qualche secondo per riaversi. «Katherine…», mormorò. Con gli occhi lucidi di lacrime, lei andò ad abbracciarlo. Lui ricambiò con un gemito di tristezza e felicità. Dopo qualche secondo Kate si ritrasse. «Sei vivo», disse. Poi arricciò il naso. «E anche ferito e… cos’è quest’odore…». «È tutto a posto, Katherine. Io… oh, mio Dio, quanto le somigli». Anche a lui affiorarono le lacrime agli occhi. «Ero così preoccupato, ma capisco che per te… non… Per me sono passate solo poche settimane…». Kate annuì, per lei il paradosso temporale che governava lo spazio nei sepolcri degli Atlantidei non era più un mistero. Poco distante, David la osservava con meraviglia e ammirazione, sentendosi un po’ a disagio. Lei allungò una mano verso di lui e allora le si avvicinò e l’abbracciò, premendole la guancia contro la testa. Era viva. In quel momento non c’era nient’altro che per lui contasse di più. Kate lo aveva lasciato a Gibilterra, ma era viva. Il vuoto che da allora aveva sentito dentro di sé si colmò di nuovo. Kate si staccò da entrambi. «Come hai fatto…», cominciò a chiedere. «Gibilterra», disse suo padre. «Una porta nella camera che avevo trovato. Era il portale che conduceva all’Antartide, a questa struttura più grande. Ci sono altri uomini. Dobbiamo…». «Sì», disse Kate. «Hanno preso i bambini. Dorian gli ha piazzato sulla schiena degli zaini con degli ordigni nucleari». «C’è una sala con dei tubi», intervenne David guardandosi intorno velocemente. «È un posto sconfinato e scommetto che è lì che stanno andando». Ma non avrebbe esposto Kate a un nuovo pericolo. «Tu resterai qui», aggiunse. Kate fece cenno di no. «Non se ne parla». Andò a raccogliere la mitragliatrice dell’ultimo soldato ucciso. Poi fissò David con un’espressione di sfida. «Vengo con voi. E questa volta ci vengo armata. Non è una richiesta, è un’affermazione». David sospirò. «Ho il sospetto che questa sia una discussione ricorrente», commentò Patrick guardando prima l’uno e poi l’altra. «Già, è stata una, ehm, settimana bizzarra», ribatté David. Si rivolse a Kate. «Tu non uscirai di qui…». «Non posso restare. Lo sai anche tu». Lui non voleva dargliela vinta, cercò febbrilmente qualcosa di convincente con cui rintuzzare la sua ostinazione. Guardandoli, Patrick intuì che in quel confronto si celava un sottinteso. «Se non fermiamo quello che sta per succedere, io non sarò comunque al sicuro, anche se resto qui. E tu hai bisogno del mio aiuto. Devi recuperare quei bambini e uscire da questa struttura. E voi due non li conoscete e non sapete qual è il modo migliore di comportarsi con loro». David non poteva darle torto. Ma l’idea di farle affrontare quegli uomini armati gli era insopportabile. «Devi lasciarmi venire con voi, David. So di che cosa hai paura». Lo fissò per un momento in silenzio. «Dobbiamo farlo. Il passato è passato». Lui finalmente annuì. La paura non era passata, ma adesso qualcosa era cambiato. Sapere che accettava il rischio avendone consapevolezza, che credeva in lui e che voleva essergli accanto in quell’impresa così importante gli rendeva la decisione più accettabile. David andò a offrirle la pistola. «La Luger si inceppa molto raramente. È carica e pronta a essere usata. Non hai che da puntare e sparare. Hai otto colpi. Più che sufficienti. Stai dietro di noi». 133 Dorian con una mano alzata fermò i cinque soldati che lo seguivano. Spiò da dietro l’angolo. Due militari morti ai lati della porta. Erano usciti da lì o erano entrati? Usciti, sperava. Guardò di nuovo. Un altro soldato ucciso all’angolo del corridoio. Era arrivato di corsa. Dunque erano usciti. «Via libera», disse, e i suoi uomini e suo padre invasero il corridoio andando subito a controllare i commilitoni morti. Dorian si chinò a parlare ai bambini. «Allora», disse radunandoli con una mano in maniera che non si avvicinassero troppo ai cadaveri, «non badate a loro, fanno finta di essere morti. È un altro gioco. Adesso è il momento della gara di corsa. Ricordate di correre più veloce che potete. Il primo che arriva in fondo alla sala vince un premio grandissimo!». Suo padre azionò i comandi del riquadro di vetro di fianco ai giganteschi battenti della porta, che si aprirono scorrendo silenziosamente. Dorian spinse i bambini oltre la soglia nel momento in cui risuonavano i primi spari. Due dei loro cinque uomini stramazzarono a terra, colpiti a morte. Dorian si lanciò a protezione del padre, ma si era mosso in ritardo. Un proiettile ferì a un braccio Konrad, che perse l’equilibrio. Sloane trascinò il genitore al riparo della parete di fianco alla porta, mentre i tre soldati superstiti si affrettavano a rifugiarsi sull’altro lato. Dorian strappò la manica al padre per esaminare subito la ferita. Konrad lo respinse. «È superficiale, Dieter. Sangue freddo, per piacere. Non perdere di vista l’obiettivo». Estrasse la pistola e allungò lo sguardo all’interno del salone. Alcune pallottole rimbalzarono sul metallo una spanna sopra la sua testa. Dorian tirò suo padre all’indietro. «Papà, tu esci da dove sono entrato io. Uno di noi deve per forza uscire. Ti copro io». «Dobbiamo restare…». Dorian lo issò in piedi di forza. «A loro penso io e poi ti raggiungo». Lo spinse in corridoio e sparò raffiche dalla mitragliatrice finché il percussore non andò a vuoto. Suo padre era riuscito a scomparire in fondo al corridoio. Dorian lo aveva salvato. Si accasciò contro la parete e le sue labbra si distesero lentamente in un sorriso. 134 David si girò a parlare a Patrick. «Dobbiamo aggirarli. Non possiamo affrontarli, non in inferiorità numerica e senza esplosivi». «Questo corridoio deve collegarsi con quello da cui siamo entrati nelle tombe. I bambini stavano correndo. Forse riusciamo a raggiungerli», disse Patrick. David si guardò intorno come per assicurarsi che non ci fossero alternative. «D’accordo. Voi due andate. Io tengo occupati Sloane e i suoi uomini». Kate infilò la testa tra i due uomini. «No, David». «Faremo così, Kate», ribadì lui in un tono che non ammetteva obiezioni. Lei lo fissò negli occhi per un lungo momento, poi abbassò la testa. «E le bombe?». David le indicò Patrick con un cenno della testa. «Tuo padre ha in mente qualcosa per quelle». Il volto dell’uomo assunse lentamente un’espressione di comprensione e intesa. Kate si girò verso di lui. «Ce l’hai?» «Sì, ce l’ho. Adesso muoviamoci». Kate seguì il padre attraverso un’altra entrata alle tombe, e proprio in quel momento i bambini passarono correndo davanti a loro. «Adi! Surya!», gridò lei. I piccoli interruppero il loro slancio così bruscamente che per poco non ruzzolarono per terra. Kate corse da loro e controllò subito il conto alla rovescia su uno degli zaini. 00:32:01. 00:32:00. 00:31:59. «Come pensi di disattivare le bombe?» «Fidati di me, Katherine», fu l’elusiva risposta di suo padre mentre la strattonava per un braccio. Dalla direzione da cui erano appena arrivati Kate sentì giungere il crepitio di armi semiautomatiche. David. Che combatteva contro i nemici superstiti, da solo. La tentazione di tornare indietro fu forte, ma doveva pensare ai bambini e alle bombe. Suo padre la stava tirando di nuovo e lei si ritrovò a camminare suo malgrado, ad allontanarsi sempre più velocemente dalla sparatoria. 135 David sentì Kate chiamare i bambini. Lanciò un’occhiata oltre l’angolo. L’avevano sentita anche i nazisti? Vide i soldati che presidiavano la porta abbandonare le loro postazioni nello sconfinato salone d’ibernazione. Non poteva permettere che la raggiungessero. Uscì allo scoperto sparando… ma il fucile era scarico. Lo gettò via e raccolse l’ultimo rimasto dallo scontro a fuoco precedente. Con una sventagliata freddò i due uomini prima che fossero troppo lontani. Ne restava solo uno, oltre Dorian. Lo vide fare capolino da dietro l’angolo e lo colpì con una scarica alla testa. Aveva tentato di tendergli una trappola. I soldati che correvano erano l’esca. Avevano sperato che David si facesse prendere dal panico e corresse loro dietro, offrendo al cecchino appostato un bersaglio facile. Ora restava solo Dorian. David non sentiva rumore di passi. Udì invece il tonfo di una porta che si richiudeva in lontananza. Kate, Patrick e i bambini erano fuori. Ora avrebbe dovuto abbandonare la sala anche lui, seguirli, invece si fermò appena prima della soglia. Per raggiungerli avrebbe dovuto correre, invece rimase dov’era. L’11 settembre era lontano. Aveva salvato Kate. Ma c’erano ancora gli Immari. C’era l’epidemia in corso. Dove poteva essere Sloane? Nei recessi del sepolcro, nascosto in attesa, in un punto da cui sorvegliare l’ingresso. Avrebbe potuto aspettare che si facesse vedere. Oppure… Scosse la testa come per scacciare quel pensiero. Indietreggiò di un paio di passi, sempre con la mitragliatrice pronta, e, quando non vide apparire nessuno, voltò le spalle alla porta e partì di corsa giù per il corridoio. I primi colpi lo raggiunsero alla schiena e gli uscirono dal petto catapultandolo contro la parete. Scivolò a terra battendo la faccia. Altri proiettili raggiunsero il suo corpo inerte sul pavimento crivellandogli le gambe. Passi. Una mano che lo rovesciava. David premette due volte il grilletto della pistola. Le pallottole spappolarono il ghigno sulla faccia di Dorian, facendogli esplodere il cranio e proiettando cervello e pezzi di osso a dipingere il soffitto di rosso e grigio. Un sorriso agrodolce apparve sulle labbra di David mentre esalava l’ultimo respiro. 136 Konrad bloccò il casco della tuta e attese che il portale si aprisse. I battenti di metallo si separarono con un boato su una gigantesca cattedrale di ghiaccio molto simile a quella che aveva attraversato quasi tre mesi prima… o settantacinque anni prima. Se era la stessa, appena oltre la soglia, sopra l’entrata, doveva esserci una Campana. Quando era stato lì lui, la Campana sull’altro lato della struttura era disattivata ed era rimasta totalmente inerte mentre ci passava sotto con i suoi uomini. Ma da dentro l’avevano accesa, adesso questo lo sapeva. I sistemi di controllo all’interno della struttura erano complicati e con i suoi uomini Konrad aveva cercato di accedere a quello che pensavano potesse essere il meccanismo che regolava l’ibernazione. Avevano scoperto invece di aver manomesso il funzionamento di un satellite meteo. Kane lo aveva fatto successivamente cadere, forse in New Mexico, o almeno così credeva. Avevano attivato involontariamente un programma antintrusione che aveva reso inaccessibili i sistemi e messo in funzione la Campana, con il conseguente sterminio di tutti gli uomini del suo sommergibile. Da allora nessuno dei sistemi aveva più funzionato. Fino a quel giorno. Si domandava se avessero già asportato la Campana che si trovava all’esterno o se la riattivazione dei sistemi di controllo significava che era stata spenta. C’era un’altra possibilità: che la Campana aggredisse solo le persone che cercavano di entrare e non quelle che uscivano. Se era ancora attiva, avrebbe dovuto passarci sotto alla velocità della luce. Uscì dalla camera di decontaminazione avanzando di un solo passo, con prudenza. Quando la sua vista si fu abituata all’oscurità, scorse un debole bagliore come di lustrini su un mucchio di neve sotto i resti di una gabbia di metallo. C’era qualcos’altro: una gabbia intatta appesa a un cavo d’acciaio. Eccola, la sua via di fuga, anche se la Campana fosse stata in funzione. Fece un altro passo allontanandosi dal portale. Un boato proveniente dall’alto riverberò nel grande spazio vuoto, riecheggiando all’interno della sua tuta e forse dentro il suo scheletro. Una Campana c’era. E si stava svegliando rumorosamente. 137 Kate strattonò ancora una volta lo zaino sulla schiena di Adi. Finalmente si staccò. 00:01:53. Si occupò di Surya. La sostanza nera stava consumando anche le fibbie del suo zainetto. Mancava poco. Suo padre prese lo zaino appena si fu staccato dalle cinghie e spinse il bambino verso di lei. Le indicò la seconda di sei porte. «Da quella parte, Katherine. Qui ci penso io». «No. Dimmi. Come?». Prima voleva sapere in che modo intendeva disattivare gli ordigni nucleari. Con un sospiro, suo padre le indicò la porta. «Quando gli Atlantidei abbandonarono la struttura di Gibilterra fecero in modo che il portale su cui rifugiarsi in quest’altra struttura nell’Antartide fosse una via senza ritorno. Ma questa struttura era sigillata ed è per questo che io non potevo più tornare indietro. Se ho visto giusto, però, il riattivarsi dei sistemi che ci sono qui sotto permetterà agli Atlantidei di usare di nuovo quella via. Tu hai puro DNA atlantideo. Sei stata incubata nei tubi. Per te funzionerà. Ora ascoltami perché questo è importante. Quando sarai dall’altra parte, ti troverai a Gibilterra, in un centro di controllo. Non toccare niente. Devi lasciare il portale aperto in modo che io possa seguirvi. Poi dovrò chiuderlo io… per sempre. Non possiamo permettere che queste bombe esplodano qui nell’Antartide». Kate lo fissava cercando di seguire il suo ragionamento. «Quando sarai dall’altra parte, devi salire in superficie il più velocemente possibile. Avrai trecentosessanta minuti, sei ore. Un minuto qui corrisponde a trecentosessanta minuti dall’altra parte. Hai capito?». Il tono di suo padre era perentorio. Kate non riuscì a trattenere una lacrima. Finalmente aveva capito. Lo abbracciò per tre lunghi secondi, ma quando cercò di indietreggiare non poté farlo, perché lui la stava stringendo troppo forte. «Ho fatto tanti errori, Katherine. Ho cercato in ogni modo di proteggere te e tua madre…». Gli si spezzò la voce. Kate allontanò la testa dalla sua per poterlo guardare negli occhi. «Ho letto il diario, papà. So perché lo hai fatto, tutto quello che hai fatto. Capisco. E ti voglio bene». «Ti voglio bene anch’io, non immagini quanto». 138 Konrad sentì una goccia di sudore spuntargli sulla fronte mentre sopra di lui i tonfi della Campana crescevano d’intensità. Attraverso il vetro del casco vide apparire un’immagine, come se all’interno della visiera si fosse materializzata la versione miniaturizzata di una persona. L’uomo dai capelli grigi sedeva in un ufficio a una grande scrivania di legno, con uno stendardo dell’Immari alle spalle. Alla parete era appesa una carta geografica del mondo, che però era diverso da come lo conosceva, era tutto sbagliato. E quell’uomo… Konrad sapeva chi era. «Mallory!», esclamò. «Aiutami…». «Ma certo, Konrad. C’è una siringa sulla gabbia. Fatti l’iniezione». Konrad si lanciò in avanti e cadde quasi subito. Si rialzò, ci riprovò e cadde di nuovo. Concluse di non poter correre con quella tuta addosso, così procedette trattenendosi, avanzando impacciato più velocemente che poteva mentre i rintocchi della Campana erano di secondo in secondo più violenti. «Cosa c’è nella siringa?» «Una cosa a cui stiamo lavorando. Sbrigati, Konrad». Lui arrivò alla gabbia e afferrò l’astuccio di metallo. «Tirami su, Mallory. Lascia perdere quest’esperimento». «È un rischio che non possiamo correre. Fatti l’iniezione, Konrad. È la tua unica speranza». Konrad aprì l’astuccio e contemplò per un momento la siringa mentre le martellate della Campana crescevano ulteriormente. C’era qualcos’altro che gli stava scorrendo sulla faccia. Vide il riflesso rosso nel vetro del casco. Quanto tempo gli restava? Afferrò la siringa, strappò via il puntale di plastica dall’ago e se lo piantò nel braccio attraverso il tessuto della tuta. Anche se la funzione dell’astuccio era di tenere la siringa al caldo, il liquido che gli fluì nelle vene era lo stesso gelido. «L’ho fatto, ora tirami su». «Temo di non poterlo fare, Konrad». Konrad si sentì le braccia bagnate. Non era sudore. I rintocchi della Campana stavano diventando assordanti. Si sentì strano, indebolito. «Cosa mi hai fatto?». Mallory lo guardava da dietro la scrivania con un’espressione soddisfatta. «Ricordi quando mi hai fatto visitare il campo dove testavi la Campana? Erano i primi anni Trenta, non ricordo di preciso quale anno, ma ricordo bene il tuo discorso, quello che avevi detto agli operai per convincerli a fare quelle cose terribili. Ero curioso di vedere come saresti riuscito ad abbindolarli. “Sì, è una cosa odiosa”, avevi detto, “ma queste persone stanno offrendo la loro vita perché noi possiamo capire gli effetti della Campana, perché noi possiamo salvare e purificare la razza umana. Il loro sacrificio è necessario. Il loro sacrificio sarà ricordato. Muoiono in pochi perché possano sopravvivere in molti”». Mallory scosse la testa. «Ero così impressionato da te allora, eri il mio idolo. Ma è stato prima che mi mettessi in un tubo per quarant’anni, prima che mi portassi via la vita. Io ero stato leale, ti avevo fatto da spalla per tutti quegli anni, e tu hai pensato bene di ripagarmi in tal modo. Non ti darò una seconda possibilità». «Non mi puoi uccidere. L’Immari sono io. Il tuo assassinio non sarà tollerato». Konrad cadde in ginocchio. Si sentiva la Campana battere dentro il cuore, la sentiva disarticolargli il corpo dall’interno. «Tu non sei l’Immari, Konrad. Tu sei un esperimento scientifico». Mallory scartabellò dei fogli, poi si rivolse a qualcuno che non si vedeva. Lo ascoltò per un momento. «Buone notizie, Konrad», disse poi. «Stiamo ricevendo i dati dalla tuta. Dovrebbero darci tutte le informazioni che ci servono. Abbiamo un feto con un’attivazione frequente del Gene di Atlantide. Per la precisione è il figlio di Kate e di Dieter. Ironia della sorte, eh? Comunque il problema è che abbiamo bisogno di un genoma dello stesso stock genetico prima dell’attivazione del gene. L’ideale è un genitore. Ci serve anche monitorare il genoma durante un attacco della Campana per capire bene quali geni e fattori epigenetici entrano in gioco. Come ricorderai, smontare una Campana è un lavoraccio e c’è sempre la questione dell’alimentazione». Mallory fece un gesto di nonchalance con la mano. «Così abbiamo pensato di tenere attiva questa Campana, preparare una siringa con una sostanza di rilevamento del gene e aspettare che venissi fuori tu. Io non sono mai stato bravo a tenere discorsi, non come te, ma ero bravo a prevedere cosa avrebbe fatto la gente. E tu sei molto prevedibile, Konrad». Lui sputò sangue mentre crollava bocconi sul ghiaccio. «Suppongo che questo sia un addio, vecchio amico mio. Come ho detto, il tuo sacrificio sarà ricordato». Mentre Mallory finiva di parlare, arrivò di corsa un uomo nel suo ufficio. Mallory lo ascoltò e parve trasalire. «Gibilterra!», proruppe con un’espressione confusa. «Quando?». 139 Kate guardò il portale aprirsi silenziosamente trattenendo il fiato. Era come le aveva detto suo padre: una postazione di controllo con innumerevoli quadri di comando di vetro. Ma c’era anche qualcuno, una guardia che leggeva una rivista seduta su uno sgabello inclinato all’indietro. Alla vista della donna e dei due bambini sussultò e, dopo un primo istante di sconcerto, fece ripiombare le zampe dello sgabello sul pavimento e si drizzò in piedi. Mentre la sua rivista con una donna nuda in copertina scivolava per terra, afferrò il fucile automatico appoggiato alla parete e lo puntò su Kate. «Non si muova, dottoressa Warner», le intimò in tono minaccioso. Poi piegò la testa per avvicinare la bocca alla spalla e disse: «Sono Mills, stanza Sette. Sono qui davanti a me, la Warner e i due bambini. Chiedo rinforzi». Nel giro di dieci secondi erano apparse altre due guardie. Perquisirono i tre prigionieri tastandoli velocemente dalla testa ai piedi, poi il comandante del terzetto prelevò la pistola di Kate e se la fece scomparire in tasca con un sorrisetto soddisfatto. «Venite con noi», disse. 140 Mallory Craig passeggiava nervoso per l’ufficio in attesa di notizie. Si girò di scatto all’entrata dell’agente dell’Immari. «Abbiamo i dati biometrici della tuta di Kane. Il dottor Chang li sta analizzando, ma dice che ha bisogno del corpo». «Va bene, fategli avere il corpo. Come siamo messi con Gibilterra?» «Presi Warner e i due bambini». «Warner chi?», sbottò Mallory. «La donna». Che cosa gli sfuggiva? «Vuole che…». «Non è uscito nessun altro?», chiese Mallory. «No». Mallory si sedette alla scrivania e si mise a scrivere in tutta fretta. Ripiegò il foglio, lo infilò in una busta, vi scrisse sopra un indirizzo e si alzò. «Devi consegnare questa». «Cosa dobbiamo fare della dottoressa Warner?». Lui rifletté guardando fuori della finestra. Doveva presumere che Vale e il padre di Kate fossero morti nelle tombe? «Trattenetela. Dobbiamo interrogarla. E triplicate la sorveglianza di quella stanza. Avvertiteli che sto arrivando». 141 Kate seguì gli uomini per una serie di corridoi, tenendo i due bambini stretti al proprio fianco. «Fermi», ordinò alle loro spalle una voce che le era familiare. Si girarono tutti a guardare l’uomo che stava sopraggiungendo, accompagnato a sua volta da due guardie. Indossavano uniformi con uno stemma che Kate non aveva mai visto, sotto il quale c’erano due lettere maiuscole dentro un quadratino: [II]. «Da qui in avanti me ne occupo io», disse Martin Grey. «Non è possibile, signore. Ordini del presidente Craig». Il capo del drappello si era messo davanti a lei e fronteggiava Martin e la sua scorta. L’aspetto di Martin aveva quasi fatto trasalire Kate. Scarmigliato e in disordine, non si faceva la barba da… mesi? E probabilmente non si faceva una doccia da altrettanto. I capelli lunghi e la barba incolta, le occhiaie e le palpebre appesantite dalla stanchezza contrastavano con la voce tersa e il tono pacato. «Capisco. Lei ha i suoi ordini da eseguire, capitano. Ma, prima che li porti via, mi chiedevo se mi fosse possibile vedere i bambini. È una questione scientifica che riguarda la ricerca, una cosa di cui abbiamo urgente bisogno». Prima che l’ufficiale potesse rispondergli, Martin venne avanti e si abbassò, cinse i bambini con le braccia e li attirò verso di sé, coprendo loro occhi e orecchie mentre il corridoio risuonava di un’improvvisa scarica di armi da fuoco e si illuminava delle fiammate che uscivano dalle canne dei fucili. I tre soldati che circondavano Kate stramazzarono al suolo e Martin prese immediatamente in braccio i bambini e partì quasi correndo giù per il corridoio. Kate lo inseguì. «Martin, dobbiamo uscire di qui al più presto». Si scapicollarono in quel labirinto di gallerie, con i due uomini di Martin a fare da retroguardia. «Una considerazione ovvia, Kate», commentò Martin, che subito dopo si fermò. «Aspetta, a che cosa ti riferisci?» «All’esplosione nucleare che ci sarà fra meno di due ore in quella stanza», rispose Kate. Martin si rivolse ai suoi soldati. «Il sommergibile». I due uomini armati li guidarono per una serie di corridoi a un ambiente circolare, con le pareti di un metallo diverso da quello della struttura di Atlantide. Quella sezione era nuova. Ed era opera di umani. Al centro della stanza una scala d’acciaio scompariva in una larga apertura rotonda. A Kate ricordò le botole attraverso le quali si entrava e usciva dalle fognature. «Cosa sta succedendo, Martin? Che fine avevi fatto?» «Ero quaggiù ad aspettare. Sono rimasto nascosto per quasi due mesi nella speranza di intercettare te e tuo padre. Ma ne parliamo quando saremo nel sommergibile. Avanti, vai. Craig starà probabilmente già arrivando». 142 Patrick entrò dal portale nella sala di controllo. C’erano almeno una decina di guardie e, in fondo, dietro di loro, un volto familiare. Una volta tanto Patrick fu sinceramente contento di vedere l’uomo che cento anni prima lo aveva accompagnato a visitare le gallerie. L’uomo che aveva cambiato il suo destino. L’uomo che, quando si era svegliato nel 1978, avrebbe potuto lasciar morire l’Immari, ma aveva scelto invece di ricostruire quella mostruosa organizzazione. La mente di Patrick tornò alle parole che Mallory Craig aveva pronunciato tanti anni prima. La chiamata. L’esca. La trappola. “Patrick. C’è stato un incidente…”. Craig fece un cenno a un uomo in camice bianco che aveva una siringa in mano. «Prendi il campione». Patrick alzò la pistola e la puntò sull’uomo in camice, che reagì fermandosi immediatamente. Sul viso di Patrick apparve un sorrisetto. «Mallory. Dunque sembra che sia proprio vero. Gli umili erediteranno la Terra». L’espressione di Craig mutò all’istante. «Umiltà è una parola che non appartiene al mio vocabolario, sta’ tranquillo…». «Sai resistere a un’esplosione nucleare? E se sono due?». 143 Uno dopo l’altro, Kate, Martin, i bambini e i due uomini di Martin salirono nel sommergibile. Mezz’ora dopo il mezzo emergeva nelle acque della baia di Gibilterra. Era piccolo, un unico ambiente interno senza compartimenti. «Uscite nell’Atlantico», ordinò Martin quando furono in superficie, «e attenti a come manovrate, perché lo stretto è pattugliato». Indicò quindi a Kate di seguirlo su per un’altra scala d’acciaio che portava in torretta. Appena emersa nella struttura ovale al centro dello scafo, Kate raggiunse Martin a ridosso del parapetto. Ora il vento era più freddo, molto più del giorno prima a Gibilterra. Per quanto tempo era rimasta nelle tombe? E c’era qualcos’altro di diverso. Gibilterra. Era al buio. «Come mai non ci sono luci a Gibilterra?», chiese. Martin si girò verso di lei. Kate non si era ancora abituata al suo aspetto trasandato. «Evacuata». «Perché?» «È un protettorato dell’Immari». «Protettorato?» «Sei stata via due mesi, Kate. Il mondo è cambiato. E non in meglio». Lei continuò a scrutare la linea della costa. Gibilterra era immersa nel buio, ma le tenebre regnavano anche su tutto il Nordafrica. Tutte le luci che aveva visto brillare dal balcone quella notte, la notte in cui David l’aveva presa… Per un po’ rimase a guardare in silenzio. A un certo punto delle luci apparvero nei pressi della costa. «Le luci nel Nordafrica…». «Non ci sono luci in Nordafrica». Kate puntò il dito. «Quelle che si vedono laggiù…». «Un barcone della peste». «Peste?» «La peste di Atlantide», disse Martin. Sospirò e all’improvviso sembrò ancor più provato. «A tempo debito, ci arriveremo», mormorò. Si appoggiò al parapetto guardando Gibilterra. «Avevo sperato di rivedere tuo padre. Ma questa… questa è una fine che gli sarebbe piaciuta». Continuò prima che lei potesse intervenire. «Tuo padre era consumato dal rimorso, Kate. Si riteneva responsabile della morte di tua madre. E di aver guidato gli Immari nella città di Atlantide. Un sacrificio per salvare la tua vita, salvare gli Atlantidei e per impedire che gli Immari arrivassero al portale che aveva trovato, per tenerli fuori della struttura in Antartide… è una soluzione che lo avrebbe appagato. Avrebbe voluto morire a Gibilterra. È a Gibilterra che è morta tua madre». Come se le sue parole fossero state un segnale, dal mare si levò un’enorme colonna di acqua e un terribile rimbombo squassò il cielo riverberandole nel petto. Martin le passò un braccio intorno alle spalle. «Dobbiamo tornare giù. Presto arriverà l’onda. Dobbiamo inabissarci». Kate si concesse un’ultima occhiata. Nella luce dell’esplosione vide la Rocca di Gibilterra sgretolarsi… ma non crollare del tutto. Caduti anche gli ultimi pezzi, dalla linea dell’acqua ne rimase in piedi ancora una scheggia. 144 Il tecnico entrò nell’ufficio del dottor Chang. «Signore, non abbiamo ricevuto dati da Gibilterra». «L’esplosione ha interrotto la trasmissione?» «No. La trasmissione non è mai cominciata. Non hanno mai ottenuto un campione da Pierce. Ma ci si è offerta un’alternativa inaspettata. Craig ha lasciato una lettera: non ha voluto che Pierce seppellisse il corpo di Helena Barton per una ragione, ma lo ha conservato nell’eventualità che un giorno potesse tornare utile. È in un deposito a San…». «Vi siete procurati un campione?». Il tecnico annuì. «Lo stiamo testando in questo momento con il feto e i dati di Kate. Non sappiamo se dopo tutto questo tempo si riuscirà…». Chang lasciò cadere il tablet sulla scrivania. «Quando sapremo qualcosa?» «Forse…», cominciò il tecnico e in quel momento squillò il suo telefonino. «Ci siamo già», annunciò con un tremito di emozione nella voce. Quando guardò Chang gli brillavano gli occhi. «Abbiamo trovato il Gene di Atlantide». Epilogo David aprì gli occhi. Quel poco che vedeva era tutto distorto. Attraverso un velo bianco. La convessità di un vetro. Era dentro un tubo. La vista gli si andava schiarendo come se si stesse destando da un sonno profondo. Ora vedeva il proprio corpo. Era nudo. La sua pelle era liscia… troppo liscia. Le ferite alla spalla e alla gamba non c’erano più. E così erano scomparse anche le cicatrici sulle braccia e sul petto, dove tanto tempo prima gli si erano conficcati nelle carni pezzi roventi di metallo e calcinacci degli edifici crollati. Ora la nebbia si andava assottigliando e cominciò a vedere qualcosa fuori del tubo. Alla sua sinistra c’era una luce che penetrava nella sala sconfinata. Era la luce che proveniva dal corridoio… lo stesso in cui si era lanciato e in cui Dorian gli aveva sparato. Uccidendolo. David sforzò gli occhi. Era laggiù. Il suo corpo giaceva inerte in un bagno di sangue. E c’era un altro corpo di traverso sopra di lui. Staccò gli occhi dalla scena cercando di capire che cosa potesse significare. Alla sua destra, di sopra e di sotto, da una parte e dall’altra, per quel che riusciva a vedere c’erano tubi. In cui tutti dormivano. Eccetto lui. E un altro. Un altro paio di occhi spaziavano con lo sguardo nella grande sala. Proprio di fronte a lui. Avrebbe voluto spingersi in avanti per vedere meglio, ma non poteva muoversi. Attese. Una nuvola di nebbia si aprì e allora vide gli occhi e la faccia nell’altro tubo. Dorian Sloane. Nota dell’autore Salve e grazie di avermi letto. Atlantis Genesi è il mio primo romanzo e spero tanto che vi sia piaciuto. Questo libro è stato soprattutto il frutto di un travagliato parto e un vero percorso di apprendimento. Mi ci sono voluti due anni per scriverlo e il viaggio che mi ha portato ad affidarlo alle vostre mani è una storia che riempirebbe altre centinaia di pagine. L’insegnamento principale che mi è rimasto dopo aver finito di scriverlo è quanto importanti siate voi lettori. Ho tratto immenso vantaggio dalle indicazioni che tanti lettori prima di voi mi hanno offerto e vi invito a scrivermi direttamente le vostre opinioni all’indirizzo ag@agriddle.com. L’acume, la generosità e le belle parole che ho ricevuto da tanti di voi hanno cambiato in modo decisivo il corso della mia carriera di scrittore. Mentre scrivo queste parole, dieci mesi dopo aver pubblicato Atlantis Genesi, il romanzo ha ottenuto quasi seimila recensioni su Amazon. Questi giudizi mi hanno dato visibilità. Io sono un autore nuovo, sconosciuto, e per di più un autore indipendente. Senza quelle recensioni, forse non avreste mai scoperto il mio lavoro. Non vi sto chiedendo di scrivere una recensione di Atlantis Genesi. Direi che ne ha avute abbastanza. Quello che vi chiedo è qualcosa di diverso, che cioè la prossima volta che leggerete il libro di un autore esordiente che non ha molte recensioni, se potete, scrivetene una voi. Quella recensione potrebbe cambiare la vita di una persona. Scoprite di più su: AtlantisGene.com/Next Grazie ancora per avermi letto. Gerry PS: Il sito web contiene anche una sezione intitolata Fact vs. Fiction behind The Atlantis Gene che esamina gli aspetti scientifici e storici di cui tratta il romanzo. Ringraziamenti Da dove comincio? Da casa, immagino. Da Anna, per tutto. Principalmente per aver letto la prima bozza e avermi dato suggerimenti impagabili. E in generale perché è vissuta con me in questi ultimi due anni durante i quali non facevo che chiedermi se stessi facendo un buco nell’acqua, e perché la bottiglia di Balvenie fosse sempre vuota (è risultato che non aveva una crepa). Ti amo. Credo che ogni giovane che scrive un romanzo debba ringraziare soprattutto la propria madre, ma per me questo principio vale ancora di più. Ho la grande fortuna di avere genitori che mi hanno sempre sostenuto e di avere una madre che ha insegnato per vent’anni inglese (attualmente scrittura creativa) alla Crest Middle School di Shelby, North Carolina. Grazie, mamma, per aver letto il mio manoscritto, per lo straordinario lavoro di editing e per aver sempre creduto nei tuoi figli, dentro e fuori le aule di scuola. Da qui l’elenco delle persone che voglio ringraziare si fa più lungo e rischio di lasciar fuori qualcuno. Non voglio macchiarmi di questa colpa, perciò a tutti coloro che hanno avuto una parte nel progetto del mio primo romanzo e mi hanno aiutato a portarlo a termine, dico grazie. Indice Prologo PARTE PRIMA. GIACARTA A FERRO E FUOCO Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16 Capitolo 17 Capitolo 18 Capitolo 19 Capitolo 20 Capitolo 21 Capitolo 22 Capitolo 23 Capitolo 24 Capitolo 25 Capitolo 26 Capitolo 27 Capitolo 28 Capitolo 29 Capitolo 30 Capitolo 31 Capitolo 32 Capitolo 33 Capitolo 34 Capitolo 35 Capitolo 36 Capitolo 37 Capitolo 38 Capitolo 39 PARTE SECONDA. UN ARAZZO TIBETANO Capitolo 40 Capitolo 41 Capitolo 42 Capitolo 43 Capitolo 44 Capitolo 45 Capitolo 46 Capitolo 47 Capitolo 48 Capitolo 49 Capitolo 50 Capitolo 51 Capitolo 52 Capitolo 53 Capitolo 54 Capitolo 55 Capitolo 56 Capitolo 57 Capitolo 58 Capitolo 59 Capitolo 60 Capitolo 61 Capitolo 62 Capitolo 63 Capitolo 64 Capitolo 65 Capitolo 66 Capitolo 67 Capitolo 68 Capitolo 69 Capitolo 70 Capitolo 71 Capitolo 72 Capitolo 73 Capitolo 74 Capitolo 75 Capitolo 76 Capitolo 77 Capitolo 78 Capitolo 79 Capitolo 80 Capitolo 81 Capitolo 82 Capitolo 83 Capitolo 84 Capitolo 85 Capitolo 86 Capitolo 87 Capitolo 88 Capitolo 89 Capitolo 90 Capitolo 91 Capitolo 92 Capitolo 93 Capitolo 94 PARTE TERZA. LE TOMBE DI ATLANTIDE Capitolo 95 Capitolo 96 Capitolo 97 Capitolo 98 Capitolo 99 Capitolo 100 Capitolo 101 Capitolo 102 Capitolo 103 Capitolo 104 Capitolo 105 Capitolo 106 Capitolo 107 Capitolo 108 Capitolo 109 Capitolo 110 Capitolo 111 Capitolo 112 Capitolo 113 Capitolo 114 Capitolo 115 Capitolo 116 Capitolo 117 Capitolo 118 Capitolo 119 Capitolo 120 Capitolo 121 Capitolo 122 Capitolo 123 Capitolo 124 Capitolo 125 Capitolo 126 Capitolo 127 Capitolo 128 Capitolo 129 Capitolo 130 Capitolo 131 Capitolo 132 Capitolo 133 Capitolo 134 Capitolo 135 Capitolo 136 Capitolo 137 Capitolo 138 Capitolo 139 Capitolo 140 Capitolo 141 Capitolo 142 Capitolo 143 Capitolo 144 Epilogo Nota dell’autore Ringraziamenti