Galleria
Rassegna semestrale di cultura, di storia patria,
di scienze letterarie e artistiche e dell’antichità siciliane
2
Supplemento
Atti del Convegno internazionale di studi
Sicilia millenaria.
Dalla microstoria alla dimensione mediterranea
Nuove ricerche e prospettive storiografiche sulla storia di Sicilia
IV edizione
Parco Museo Jalari
Barcellona Pozzo di Gotto (ME)
Sabato 10 e domenica 11 luglio 2021
A cura di
Filippo Imbesi e Luigi Santagati
Anno II - N° 2 Gennaio-Giugno 2021
ISSN 2724-2544
Codice ANVUR E257320
Galleria
Rassegna semestrale di cultura, di storia patria, di scienze letterarie e artistiche
e dell’antichità siciliane
Anno II - N° 2
Gennaio-Giugno 2021
Supplemento
ISSN 2724-2544 - Codice ANVUR E257320
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Tribunale di Caltanissetta n. 2 dell’1 luglio 2020
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Atti del Convegno internazionale di studi
Sicilia millenaria.
Dalla microstoria alla dimensione mediterranea
Nuove ricerche e prospettive storiografiche sulla storia di Sicilia
IV edizione
Parco Museo Jalari
Barcellona Pozzo di Gotto (ME)
Sabato 10 e domenica 11 luglio 2021
A cura di
FILIPPO IMBESI
e
LUIGI SANTAGATI
2
Sommario
5
7
Vera Giorgianni, Prefazione
Antonio Baglio e Luciano Catalioto, Nota introduttiva
I. TEMI E ASPETTI DI STORIA DELLA SICILIA DALL’ANTICHITÀ ALL’ETÀ CONTEMPORANEA
13
37
51
67
85
115
Henri Bresc, Clero e nobiltà nella Sicilia tardomedievale: dalla decima del 1275
a quella del 1455
Giuseppe Labisi, Il monte Altesina nel contesto della conquista islamica della
Sicilia
Luciano Catalioto, Il “Cammino” di Antonio da Padova (1221) e Messina in età
sveva (1194-1266)
Raffaele Manduca, Da Occhiolà a Grammichele: per una storia religiosa e della
chiesa locale
Giuseppe Barone, Le nuove gerarchie territoriali e la rivoluzione del 1820-21 in
Sicilia
Antonio Baglio, Origini e sviluppi della Camera del Lavoro di Messina in età
giolittiana
II. ARCHITETTURA E ARCHEOLOGIA
125
137
177
201
213
261
277
Jean Paul Barreaud e Stefano Zangara, I rostri della battaglia delle Egadi. Omaggio
a Sebastiano Tusa
Alessandro Di Bennardo, Il Tawhid e le geometrie dell’architettura islamica. I
riflessi nelle qubbat siculo-arabe
Simona Modeo, Simboli, riti e credenze delle comunità neo-eneolitiche siciliane
Giuseppe Giugno, Il cantiere della chiesa di San Domenico a Caltanissetta tra
Quattro e Cinquecento: architettura, progetto e committenza
Filippo Imbesi, Indagini per la ricerca di un complesso paleocristiano a Rometta
Giuseppe Tizzone e Francesco Vecchio, Antichi approvvigionamenti idrici nella
valle dell’Alcantara e nel territorio di Castiglione di Sicilia
Alfio Maurizio Bonanno, Possibili orientamenti astronomico/rituali dei dolmen
di contrada Cuntarati (Bronte)
III. TERRITORIO E
287
VIABILITÀ
Eugenio Caratozzolo, Le Quattro Masse (Messina): dati preliminari d’analisi
storico-territoriale e valorizzazione
3
313
339
345
365
397
Antonio Cucuzza, Insediamenti umani, viabilità e ambiente nella piana di
Catania durante il medioevo
Giovanni D’Urso, La Casazza di Nicosia
Santino Recupero, Il tragitto del Gran Conte Ruggero d’Altavilla da Rometta a
Maniace attraverso il crocevia di contrada San Filippo nelle terre di Furnari
Luigi Santagati, La via consolare romana Valeria dal ponte sul fiume Imera a
Marsala e Trapani
Piero Gazzara, Nuove ricerche e aggiornamenti intorno alle spedizioni di
Niceforo II e Giorgio Maniace alla riconquista della Sicilia (X-XI secolo)
IV. STRUTTURE ECCLESIASTICHE E STORIA
415
431
457
483
RELIGIOSA
Giuseppe Ardizzone Gullo, Un Priorato Cistercense dimenticato: Santa Maria
di Bonerba o Minerva in Monforte San Giorgio (ME)
Elisa Bonacini e Michela Ursino, La chiesa di Santa Maria la Vetere a Militello
in Val di Catania: dai normanni alla ricostruzione post 1693
Roberto Motta, Santi, viaggiatori, pellegrini e soldati sulla dorsale dei Peloritani
e dei Nebrodi
Shara Pirrotti, I Santi basiliani del Valdemone
V. ASPETTI STORICI E CULTURALI
493
563
569
Filippo Sciara, Le origini cisterciensi della chiesa parrocchiale di Favara nel
periodo Svevo
Giuseppe Pantano, La “Livatera” di Montalbano Elicona. Significato, storia e
origine di un antico termine galloromanzo
Ferdinando Maurici, Virilmenti assediando. Castelli assediati nella Sicilia del
Trecento
4
PREFAZIONE
VERA GIORGIANNI*
Con enorme gioia il Parco Museo Jalari di Barcellona Pozzo di Gotto riapre i suoi
cancelli alla quarta edizione dell’incontro di studi “Sicilia Millenaria. Dalla Microstoria
alla dimensione Mediterranea “.
Questa edizione dell’incontro giunge dopo un lungo periodo di restrizioni e di rinvii
dovuti alla pandemia di Covid-19, che ci ha tristemente e pesantemente colpito.
Un periodo in cui ci siamo scoperti improvvisamente vulnerabili ed inermi ed in cui
abbiamo dovuto confrontarci con una nuova quotidianità necessariamente più lenta e
più intima.
In questa nuova dimensione sospesa, gli studiosi e i relatori di questo incontro, per
fortuna, non sono rimasti inattivi, ma anzi, hanno approfondito questioni appassionanti
e spesso inedite della storia e della cultura della nostra amata Isola.
Così ora, alla luce di dati sanitari più confortanti, possiamo finalmente tornare a
confrontarci sui temi che ci sono più cari.
Anche Jalari in questo lungo periodo ha atteso …
Ha atteso che tra i viali echeggiassero le voci e che i visitatori tornassero a visitare le
botteghe che compongono il museo etnografico.
Le enormi sculture in pietra di Mariano Pietrini hanno aspettato che il nostro sguardo
stupito tornasse ad accarezzarle.
Le centinaia di alberi e la natura rigogliosa hanno saputo rigenerarsi, per poterci
accogliere con generosità.
Il silenzio che per lungo tempo ha caratterizzato i nostri giorni, all’interno del Parco
Jalari, si è riempito dei versi degli animali, del fruscio del vento, del gorgogliare
dell’acqua.
E noi che abbiamo avuto la fortuna di occuparci di questa creatura vivente che è
Jalari anche in questi lunghi mesi, abbiamo potuto godere della ricchezza del suo respiro.
Così un periodo che poteva essere vuoto si è trasformato in attività operosa e di
rigenerazione, in cui non è mai mancata la consapevolezza dell’importante missione
che ha il Parco Museo Jalari, quella di raccontare la Sicilia in tutte le sue meravigliose
sfumature.
Anche con questo obiettivo, in questi mesi, non si è mai interrotto il dialogo con gli
organizzatori di questo incontro, con i quali abbiamo compreso la necessità di attendere
affinché potessimo godere di un confronto in presenza.
E intendiamoci, non perché non avremmo potuto affidarci alla tecnologia, che tanto
ha consentito e contribuito a realizzare nell’impossibilità di incontri sicuri, ma perché
* Responsabile del Parco Jalari di Barcellona Pozzo di Gotto (ME).
5
crediamo che parte integrante di questi lavori sia il confronto tra gli stessi studiosi, che
spesso ha generato nuovi spunti e nuovi stimoli per altri studi.
E nessun luogo come Jalari è più indicato per questo scopo.
Perché Jalari è prima di tutto un luogo di incontro e di formazione, di riflessione e di
dialogo.
L’incontro, di cui questa pubblicazione è la sintesi, ha rappresentato un momento di
Ripartenza per le attività culturali del Parco e non ci sarebbe stata occasione migliore
per ricominciare.
Grazie, quindi, a tutti gli organizzatori ed in particolare a Filippo Imbesi che ha
saputo riunire e coordinare accademici e studiosi di così alto profilo, il cui contributo
rimarrà per sempre una pietra miliare nella narrazione della nostra terra.
Grazie a tutti i vecchi e nuovi amici di Jalari, con l’augurio che non ci siano mai
luoghi di arrivo, ma sempre nuovi punti di partenza.
6
NOTA
INTRODUTTIVA
ANTONIO BAGLIO* E LUCIANO CATALIOTO*
La quarta edizione di Sicilia millenaria, dalla microstoria alla dimensione
mediterranea, convegno itinerante previsto quest’anno a Barcellona Pozzo di Gotto,
nella splendida cornice del Parco Museo Jalari, dopo il forzato rinvio del 2020 dovuto
all’emergenza Covid-19, conferma ancora una volta la validità e l’efficacia di una formula
che vede coinvolti accademici di chiara fama, docenti universitari provenienti da
prestigiose sedi italiane ed estere, dottori di ricerca e studiosi legati ad alcune tra le più
importanti associazioni culturali operanti sul territorio, chiamati ad esporre il risultato
delle proprie ricerche aventi come denominatore comune la secolare vicenda dell’Isola.
Una feconda sinergia tra realtà universitarie e istituzioni locali, una importante occasione
di confronto tra accademici, studiosi e ricercatori indipendenti, espressione di quel
variegato mondo dell’associazionismo culturale interessato alla riscoperta delle radici
del territorio in un’ottica non solo scientifica ma orientata pure, in senso lato, alla
salvaguardia e valorizzazione dell’ingente patrimonio artistico, dei beni archeologici,
ambientali e paesaggistici che esso offre.
Questa stretta compenetrazione tra realtà locale e cultura accademica è volta a
promuovere una più intensa attività di ricerca sul territorio, attenta all’interazione tra
locale e universale, tra micro e macro-storia, favorendo un affinamento degli strumenti
euristici. Si tratta di uno sforzo significativo, pur con tutti i limiti del caso, in direzione
di un recupero e rilancio, fortemente auspicato, di studi sull’Isola, in una fase in cui la
storiografia contemporanea sembra prestare maggiore attenzione e credito alla
dimensione transnazionale dei fenomeni, bollando come storia locale – con un’accezione
riduttiva e un giudizio di merito sostanzialmente negativo – tutto ciò che riguarda la
ricostruzione di vicende e aspetti relativi a un determinato territorio: con il risultato che
i giovani r icercatori spesso tr ovano più redditizio orientarsi su tematiche
internazionalistiche, lasciando il campo a eruditi ed esperti vari che, pur valenti e animati
da sincera passione di studio, a volte evidenziano una eccessiva tendenza verso il vacuo
cronachismo o, peggio ancora, il bozzettismo aneddottico, senza un’adeguata conoscenza
del dibattito storiografico.
Non è un caso che questa miscellanea di studi ospiti i contributi, tra gli altri, di
alcuni dei maestri del panorama storiografico attuale, dal medievista Henri Bresc al
contemporaneista Giuseppe Barone, punti di riferimento per diverse generazioni di
studiosi, da sempre impegnati in un serio e rigoroso lavoro di ricerca sulla storia siciliana
(e non solo) capace di produrre risultati significativi e di aprire nuove piste di indagine.
* Università di Messina.
7
Proprio Barone, di recente, ha riproposto con un’ottica nuova, attraverso uno sguardo
più ampio, il tema della storia isolana, dando alle stampe una Storia mondiale della
Sicilia, edita da Laterza nel 2018, in cui rilegge, attraverso il coinvolgimento di un
numero considerevole di studiosi ed esperti delle varie tematiche, i diversi momenti
della vicenda siciliana dall’antichità sino alla fase odierna. È utile richiamarne alcuni
passi, tratti dall’introduzione, per evidenziare la fecondità dell’approccio e del quadro
interpretativo:
La condizione insulare della Sicilia non è stata un fattore di isolamento, ma di
integrazione e di apertura alla dimensione-mondo dell’economia. L’idea di
un’isola ‘sequestrata’ dal mare è un topos letterario resistente ma di nessun
valore storico. La Sicilia non è stata mai chiusa, ma civiltà multiculturale,
luogo cruciale di incontro e di scontro, ora cerniera ora frontiera, da sempre
collegata ai circuiti mercantili dell’economia internazionale. La sua storia antica
coincide e s’identifica per larga parte con l’espansione dei traffici mediterranei,
laddove l’età medievale e moderna privilegia una più decisa proiezione verso
il mercato europeo, nella misura in cui le differenti vocazioni territoriali la
specializzano in regione esportatrice di prodotti agricoli pregiati e risorse
minerarie. La sua forte intelaiatura urbana rende marginale l’economia basata
sull’autoconsumo e sviluppa i flussi mercantili interni ed esteri. Storia mondiale,
dunque, come processo virtuoso di eccellenze produttive e di investimenti
intensivi di capitale e lavoro per adeguarsi ai cicli variabili della domanda e
dell’offerta e per rispondere ai ritmi incalzanti delle rivoluzioni commerciali e
industriali dell’Occidente. Una Sicilia esposta ai rischi e alle opportunità dei
mercati.
La miscellanea di studi, che qui si presenta, è articolata in diverse sezioni: se nella
prima parte l’attenzione si concentra su temi e aspetti della storia dell’Isola dall’antichità
all’età contemporanea, con gli interventi di Henri Bresc (Università Parigi X Nanterre),
Giuseppe Labisi (Universität Konstanz), Luciano Catalioto (Università di Messina),
Giuseppe Barone (Università di Catania), Raffaele Manduca (Università di Messina) e
Antonio Baglio (Università di Messina), in quelle successive si spazia dal settore
Architettura e archeologia, che ospita i contributi di Jean Paul Barreaud (conferenziere
e guida turistica, Sicilia Svelata) e Stefano Zangara (direttore del Parco archeologico
Himera, Solunto e Monte Iato), Alessandro Di Bennardo (architetto, PhD Storia e
Conservazione dei Beni Architettonici - UNIPA), Simona Modeo (archeologa e presidente
regionale di SiciliAntica), Giuseppe Giugno (architetto, Società Sicilia), Filippo Imbesi
(architetto, gruppo Ricerche nel Val Demone, Società Sicilia), Giuseppe Tizzone (Pro
Loco di Castiglione di Sicilia) e Francesco Vecchio (geologo), Alfio Maurizio Bonanno
(Istituto Nazionale di Astro-Fisica, Osservatorio Astrofisico di Catania), a saggi inerenti
all’area tematica Territorio e viabilità, scritti da Eugenio Caratozzolo (archeologo,
Presidente di SiciliAntica Messina), Antonio Cucuzza (Società Ramacchese di Storia
Patria, SiciliAntica Palagonia, Società Sicilia), Giovanni D’Urso (Associazione
8
Ecomuseo Petra d’Asgotto, Società Sicilia), Santino Recupero (Ricercatore indipendente,
gruppo Ricerche nel Val Demone), Luigi Santagati (architetto, Società Sicilia), Piero
Gazzara (Archivio storico romettese). Le sezioni finali sono dedicate a temi riguardanti
le Strutture ecclesiastiche e la storia religiosa, con interventi di Giuseppe Ardizzone
Gullo (Presidente del Centro studi storici di Monforte San Giorgio e del Valdemone),
Elisa Bonacini (archeologa) e Michela Ursino (archeologa), Roberto Motta (Studioso
di medicina e di storia medievale), Shara Pirrotti (Dottore di ricerca in Storia medievale);
e ad alcuni Aspetti storici e culturali, con saggi di Filippo Sciara (Società Sicilia, Officina
di Studi medievali di Palermo, Società Nissena di Storia Patria), Giuseppe Pantano
(Ricercatore indipendente) e Ferdinando Maurici (già Docente universitario e Dirigente
dell’Assessorato regionale siciliano ai BB. CC. AA.)
Caratterizzata da una varietà e vastità dei temi trattati, da una molteplicità di approcci
metodologici e disciplinari, in una prospettiva di lungo periodo, questa raccolta di saggi
rappresenta un altro risultato tangibile di quel percorso di ricerche sul territorio isolano
– puntellato da importanti occasioni di esposizione dei risultati e di confronto offerti da
alcuni momenti convegnistici (Montalbano Elicona, Santa Lucia del Mela, Furnari,
Rometta, Monforte San Giorgio e quest’anno ancora Barcellona Pozzo di Gotto) – che
scaturito da genuino interesse ed entusiasmo di studio generatisi in seno alle Società di
Storia patria e istituzioni archivistiche (Messina, Sicilia Orientale, Archivio storico
romettese, Centro studi storici Monforte San Giorgio), associazioni culturali attive nei
più disparati campi (Ricerche nel Val Demone, Sicilia svelata, Società Sicilia,
Associazione SiciliAntica, Eremo della Candelora di Santa Lucia del Mela, Parco Museo
Jalari, ecc…), ha trovato nel tempo un rapporto sempre più stabile con il mondo
universitario, in grado di irrobustire e dare nuova linfa a tale apprezzabile sforzo
di indagine. Ne è una prova il coinvolgimento attivo, anche in questa occasione, di docenti
e studiosi provenienti dalle Università di Messina, Catania, Nanterre e Konstanz.
In conclusione, consentiteci di richiamare ancora, in questa sede, le
considerazioni del prof. Barone, espresse nel volume Storia mondiale della Sicilia,
laddove soffermandosi sulle emergenze e problematiche attuali, in cui il
Mediterraneo appare ben lontano dal Mare nostrum dell’epoca greco-romana – a
fronte di una realtà contrassegnata oggi da una sempre più marcata distanza tra i
popoli mediterranei, in termini di sviluppo economico, di sistemi politici e sociali, di
dialogo multireligioso –conclude con il seguente auspicio, che facciamo nostro:
Ma forse sta qui la forza dell’utopia generatrice di storia e di futuro. La visione
del ‘lago mediterraneo’ come spazio e tempo di dialogo tra popoli e culture si
pone oggi come obiettivo vitale per l’Europa e per l’intero Occidente. La
destabilizzazione politica dell’area, i flussi migratori, lo ‘scontro di civiltà’ si
battono soprattutto col rilancio della cooperazione transfrontaliera e con
strategie globali in grado di coniugare diritti umani, sicurezza e sviluppo
‘sostenibile’. La Sicilia può rappresentare il baricentro geopolitico per questa
‘sfida di civiltà’, se le sue classi dirigenti sapranno interpretare i nuovi scenari
9
internazionali e riposizionare l’isola come cerniera interculturale e cabina di
regia di una crescita intelligente e inclusiva.
10
I. TEMI E ASPETTI DI STORIA DELLA SICILIA DALL’ANTICHITÀ ALL’ETÀ CONTEMPORANEA
11
12
CLERO E NOBILTÀ NELLA SICILIA TARDOMEDIEVALE: DALLA DECIMA DEL 1275 A QUELLA
DEL 1455
HENRI BRESC*
Per gli storici della Sicilia medievale e moderna esiste una doppia doxa (opinione)
sul tema della relazione tra clero e nobiltà, e gli studiosi hanno ampiamente sottolineato
la penetrazione della feudalità nel clero. Così Domenico Ligresti1 e Carmen Salvo2. E
c’è un accordo tacito sull’ignoranza del clero, in chiave erasmiana e luterana, secondo
un’opinione resa ed esplicitata in particolare da Adolfo Longhitano3. Questi pareri si
possono però sfumare e proverò a presentare qualche riserva.
Prima vorrei affrontare l’ambiente della nobiltà, piuttosto che la sola nobiltà infeudata:
si tratta in effetti di ambienti porosi, poco solidali, riuniti solo dall’orgoglio del sangue,
cioè dall’antichità del lignaggio e da pratiche comuni (cavallo, caccia, attività militari),
ma non sempre messe in opera. Mentre la feudalità è definita dal diritto, una nobiltà
seconda si costituisce con il servizio regio, la giustizia e l’amministrazione, per
raggiungere il feudo o ritrovarlo quando si tratta di rami secondari di grandi lignaggi. Il
patriziato urbano (i nobili messinesi e palermitani come quelli romani prendono volentieri
nel Cinquecento la qualificazione di patrizi) e la nobiltà civica analizzata da Matteo
Gaudioso4, e che corrisponde alla noblesse de clocher (nobiltà più antica) d’Oltralpe,
partecipano alla nebulosa considerata e sono come lo zoccolo e il vivaio di rinnovamento.
Le fonti utilizzabili sono essenzialmente le decime apostoliche: quelle del 1275 (di
cui si sono pubblicati i frammenti), del 1308 (completa ma con qualche punto oscuro5),
del 13456 e del 1455 (completa e ancora inedita)7. Ognuna produce uno spaccato del
clero beneficiato, i nomi dei beneficiari e l’importo del loro reddito netto. I ruoli delle
* Già Università di Parigi (Nanterre X).
1
DOMENICO LIGRESTI, Sicilia aperta (secoli XVI-XVII). Mobilità di uomini e idee, Palermo, Associazione
no profit Mediterranea, 2006.
2
CARMEN SALVO, Il Capitolo della Cattedrale di Messina. Istituzioni ecclesiastiche e vita cittadina
(secoli XIV-XV), in «Clio. Rivista trimestrale di Studi Storici», XXIX, 1 (1993), pp. 5-43.
3
ADOLFO LONGHITANO, La parrocchia nella diocesi di Catania prima e dopo il concilio di Trento,
Istituto superiore di scienze religiose, Palermo, 1977.
4
MATTEO GAUDIOSO, Genesi ed aspetti della Nobiltà civica in Catania nel secolo XV, «Bollettino Storico
Catanese», 6, 1941, pp. 29-67, 35-40.
5
Le decime del 1275 e del 1308 sono pubblicate da PIETRO SELLA, Rationes decimarum Italiæ nei
secoli XIII et XIV. Sicilia, Città del Vaticano, 1944, non senza errori.
6
Edita da MARCELLO MOSCONE, L’ufficio della Colletoria di Sicilia e la struttura istituzionale della
Chiesa palermitana da un inedito conto della decima della metà del Trecento, in Dall’archivio Segreto
Vaticano, miscellanea di testi, saggi e inventari, I, Città del Vaticano, 2006, pp. 323-351.
7
Archivio di Stato, Roma, Camerale Ia, busta 1195.
13
HENRY BRESC
decime ignorano però i preti e i chierici non beneficiati. Qualcuno fornisce la possibilità
di calcolare il numero complessivo dei beneficiari che, per esempio, ammonta a 1324
unità nel 1455. Il ricco materiale dei Registri avignonesi e vaticani, sfruttato da Salvatore
Fodale, gli ha permesso di seguire i curricula, di allargare la lista con molti sacerdoti
officianti non beneficiati e di costruire una prima prosopografia del clero8. Le pergamene
dei tabulari, i registri della Cancelleria e i registri notarili di Palermo, Trapani, Termini,
Sciacca, Messina, Catania e Noto consentono di completare un po’ di questa incipiente
prosopografia, raggiungendo un numero elevato di membri del clero di cui si conoscono
i patronimici. Molti scappano però: per i membri del clero l’uso del patronimico non è
generalizzato ancora all’inizio del ‘300 ed è del tutto ignorato per i monaci.
In un secondo momento, le liste si possono paragonare a quelle delle famiglie nobili
di vari ambienti e casate che contano feudatari, alti funzionari e membri delle mastre
municipali in via di cristallizzazione conosciuti dagli scrutinia di giudici e giurati eletti,
poi approvati dalla monarchia 9 . Il risultato rimane provvisorio: anche se la
documentazione è abbondante, parecchi limiti si presentano per una perfetta validità.
Se conosciamo bene i lignaggi dei feudatari, in particolare dallo spoglio che ha fatto
Gianluca Barberi dei registri della Cancelleria, l’insieme della nobiltà amministrativa e
civica meriterebbe studi più approfonditi.
Questo confronto permette di suggerire una valutazione della partecipazione dei nobili
al reclutamento del clero. Il risultato rimane grossolano e manca quasi sempre
l’indicazione precisa del ramo della famiglia cui appartiene l’ecclesiastico considerato,
e spesso la certezza sui membri della famiglia e non del discendente di un liberto o di un
convertito che può aver conservato il cognome gentilizio del padrone o del padrino. La
circolazione dei membri del clero è intensa. Messina, in particolare, focolaio di cultura,
vede uno sciame di chierici ottenere dalla Curia avignonese benefici riservati a Girgenti,
Siracusa e anche Capua, come anche giudici e notai messinesi migrano in tutta Sicilia e
anche a Napoli nei periodi favorevoli. Lo spostamento anche di rami delle famiglie
nobili tra un sito più frequentato (Polizzi per i Milite, che emigrano nei paesi delle
Madonie, a Palermo e nel Trapanese) e altre località rende incerta l’identificazione di
qualche sacerdote10. La coerenza dei dati statistici permetterà solo di affidarsi a un risultato
sempre provvisorio e soggetto a revisioni.
8
SALVATORE FODALE , Alunni della perdizione. Chiesa e potere in Sicilia durante il grande Scisma
(1372-1416), Roma, Istituto storico per il Medio Evo, «Nuovi studi storici» 80, 2008.
9
Rimando agli studi di P ATRIZIA SARDINA, Il labirinto della memoria, Salvatore Sciascia editore,
Caltanissetta-Roma, 2011, su Girgenti; di DANIELA SANTORO, Messina l’indomita. Strategie familiari del
patriziato urbano tra XIV e XV secolo, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma, 2003, di CARMEN
SALVO Una realtà urbana nella Sicilia medievale. La società messinese dal Vespro ai Martini, Roma
1997, di CATERINA ORLANDO, Una città per le regine. Istituzioni e società a Siracusa tra XIII e XIV secolo,
Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma 2012, infine di C ALOGERO RIDULFO , Corleone nel tardo
medioevo, Palladium, Corleone 2018 e di CARLO BORGESE, Documenti editi e inediti su Polizzi Generosa
e sul comprensorio delle Madonie, Offset Studio, Palermo 1999.
10
Qualche esempio: non siamo sicuri che un Sabia, prete di Rometta nel 1455, presenti un legame con
i nobili Sabia di Nicosia. Appartiene un Gavaretta, prete di Cammarata nello stesso anno, alla famiglia di
stesso nome di Salemi? Un legame è probabile, ma non sicuro, tra gli Isaia di Messina e quelli di Monforte,
tra gli Arlotta di Montalbano e quelli di Castiglione, tra gli Scarfallito di Nicosia e quelli di Catania.
14
CLERO E NOBILTÀ NELLA SICILIA TARDOMEDIEVALE: DALLA DECIMA DEL 1275 A QUELLA DEL 1455
Contesti
1. Un modello politico
I vescovadi siciliani del Due, del Tre e del Quattrocento sono organizzati secondo
una struttura quasi statale, costituita nel XII secolo: i vicariati, gli arcipresbiterati, i
protopapati per le regioni greche, permettono un’amministrazione gerarchizzata e una
eventuale sorveglianza delle deviazioni, d’altronde rarissime. Non è il modello della
doxa (credenza comune) storica europea nel quale lo Stato si costruisce prendendo in
prestito organi già elaborati e tecnici addestrati dalla Chiesa. In Sicilia, lo Stato e la
Chiesa sono fondati sul modello bizantino e la Chiesa è stata durevolmente subordinata.
Dell’epoca della fondazione rimangono in particolare nuclei di antichi vescovadi
programmati dai Normanni (Troina, Petralia, Vicari), che scandiscono la conquista, i
prelati, i capitoli o le semplici prebende dei canonici, e anche un elemento originale
come la presenza sparsa, nei grandi vescovadi del Sud, di priorati dipendenti da Cefalù,
da Patti e anche da Catania.
Questo quasi stato che costituisce il clero siciliano è decentrato e relativamente
democratico. Fino al Trecento e anche nel Quattrocento, è il capitolo che elegge il vescovo
e l’insieme dei monaci o delle monache, votando l’abate e l’abadessa. Il capitolo, poi,
ne controlla la gestione, sorvegliata dal livello superiore dell’istituzione. Le élites locali,
e non solo la nobiltà, sono rappresentate nei capitoli vescovili e nel personale delle
abbazie come nella densa rete di prebende legate a vicariati e ad arcipresbiterati. La
circolazione è intensa nel mondo clericale e la capacità di negoziazione e la tecnica
oratoria sono legate a questa pratica elettiva e al controllo permanente dei prelati da
parte dei canonici e dei monaci.
L’ideologia dominante del clero riguarda la difesa e il servizio dello Stato, anche
quando la monarchia siciliana è in conflitto con il Papato, dal 1282 al 1360, e si
concretizza con il ritorno alla Corte e nella partecipazione al governo dello Stato dopo
la conciliazione con la Santa Sede. Rari sono i vescovi al servizio dell’aristocrazia
comitale, come Roberto Campulo a Cefalù, legato a Francesco I Ventimiglia nel 1337.
L’ideale di democrazia elitista fondata sul sapere e l’attivismo del clero siciliano in
maggioranza contrario alla monarchia pontificia spiegano la partecipazione dei vescovi
siciliani al movimento conciliarista, la loro presenza a Basilea, e la parte che assumono
abati e vescovi nella rappresentazione delle élites e del regno, nella pratica parlamentare
delle Corti, poi del Parlamento, e infine nelle presidenze del regno assunte nel
Quattrocento.
Una convergenza minore è probabile con la nobiltà nella volontà di limitare l’autorità
monarchica. La convergenza maggiore invece unisce clero e città nella difesa rigorosa
del Patrimonio della monarchia.
2. Un clero ricco e numeroso
Le decime permettono di fissare approssimativamente il reddito netto dei benefici e
del patrimonio delle mense e dei monasteri e di paragonare, con il reddito feudale del
1336 e dello Stato, il reddito lordo nel decennio 1451-1460. La decima non rivela però
il totale del patrimonio del clero: accanto ai benefici, vescovi (quando sono siciliani),
15
HENRY BRESC
Cartina n. 1. Reddito del clero siciliano nel 1308.
canonici e sacerdoti dispongono di un patrimonio e di redditi privati. Così, a Corleone,
tra il 1437 e il 1438, i testamenti di quattro preti elencano cinque vigne, dieci case e una
bottega, nove chiuse e un giardino, alcune terre, due masserie e due mandrie. Di questo
patrimonio privato, una parte è destinata dai testamenti a confluire nella fortuna della Chiesa.
La cartina n. 1, Reddito del clero siciliano nel 1308, manifesta un provento totale di
10539 once. Quest’ammonto è distribuito tra il Val di Noto (vescovado di Siracusa e
Catania) per il 15,8%, il Valdemone (Messina, Patti e Cefalù) per il 31,6% e il Val di
Mazara per il 52,4%. La ricchezza del clero appare disuguale secondo le regioni. Il
Mazarese è povero. La ricchezza invece del clero palermitano e monrealese è notevole,
ed è fondata sui feudi distribuiti dagli Altavilla. La diocesi agrigentina manifesta una
certa agiatezza, anche se una parte notevole del reddito, quella dei feudi della montagna,
va alle abbazie cistercensi della Campania, di Casamari e di Fossanova. Il Siracusano,
invece, presenta una relativa indigenza e il vescovado è povero di feudi in un Val di
Noto poco popolato e poco coltivato. Le diocesi, infine, di Catania, di Messina, di Patti
e di Cefalù godono di un patrimonio abbondante. Oltre a questo integrano un reddito
più elevato di quello dichiarato. Essi sono di fatto titolari di redditi dispersi nell’Isola,
invisibili perchè registrati nei vescovadi di origine del reddito11.
Uno studio preliminare: H. BRESC, Metochi e priorati nella Sicilia normanna, in Nelle terre dei
Normanni: la Sicilia tra Ruggero e Federico II, a cura di M ARINA C ONGIU e SIMONA MODEO, Salvatore
Sciascia editore, Caltanissetta, 2015, pp. 77-98.
11
16
CLERO E NOBILTÀ NELLA SICILIA TARDOMEDIEVALE: DALLA DECIMA DEL 1275 A QUELLA DEL 1455
Cartina n. 2, I feudi delle chiese.
Il patrimonio di feudi delle chiese è costituito nel Duecento su un nucleo di dotazioni
stabilito dalla monarchia e arricchito dalle donazioni dell’aristocrazia (cartina n. 2, I
feudi delle chiese). Il movimento riprende all’inizio del Trecento, accelerato dopo il
1348, sempre controllato: la monarchia impone la rivendita immediata dei possedimenti
feudali, per evitare un passaggio massiccio in manomorta e la perdita del servizio militare
dovuto dai possessori. La norma però non è più rigorosamente rispettata e l’estinzione
di numerose casate dell’aristocrazia e della cavalleria urbana e la concentrazione della
proprietà feudale attengono principalmente ai monasteri benedettini di seconda
generazione: a Palermo, San Martino delle Scale eredita i feudi Milocca, Bonagrazia,
Borgetto e Cinisi; a Catania, San Nicola l’Arena riceve Granieri, legato nel 1368 dal
cavaliere Ruggero Scolaro, e la Ganziria nel territorio di Caltagirone, lasciato nel 1397
da Attardo di Padula.
Dopo il secolo aureo dei Normanni, tempo delle smisurate dotazioni ordinate dai
fondatori di monasteri e dai donatori alle mense, il flusso delle donazioni nobili ritorna
all’inizio del Trecento. Così San Benedetto di Catania riscuote le donazioni di sette
nobili, di cui cinque cavalieri e feudatari, di un notaio e di un artigiano, San Nicola
l’Arena da dodici nobili e da un notaio, Santa Caterina al Cassaro da sei nobili, di cui
cinque dell’ambiente feudale e del cavalierato, e da un notaio, mentre nel Quattrocento
l’elenco si diversifica con un nobile, un giudice, un mercante e tre artigiani.
Il flusso maggiore è costituito dalle fondazioni legate alla preghiera perpetua per i
morti, finanziate dai censi stabiliti sul patrimonio, urbano per lo più, dei testatori:
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HENRY BRESC
cappellanie, altari de requie e distribuzioni ai poveri segnano un potente movimento di
trasferimento del valore della terra e delle case verso gli istituti religiosi, una vera
trasmutazione, una transustanziazione dei valori materiali in valori spirituali12. La
ricchezza degli istituti religiosi si consolida nella città e nel cerchio dei giardini e la
Cattedrale di Palermo dispone nel 1477 di un reddito rurale di 277 once dai venti
feudi posseduti (il 43% del totale) e di un reddito urbano e periurbano di 365 once
(57%). Questo flusso in parte è cannibale e i membri del clero lasciano una parte
almeno dei propri beni all’istituzione, generalmente la mensa capitolare, che li ha
accolti.
3. Ricchezza del clero, ricchezza della nobiltà e ricchezza dello Stato
Ricchezza feudale
La cartina n. 3, Il reddito feudale nel 1336, manifesta un provento totale di 20771
once, un po’ meno del doppio di quello del clero. La ripartizione della rendita è abbastanza
diversa di quella del reddito della Chiesa: 31,9% per il Val di Noto, 25,7% per il
Valdemone e 41,6% per il Val di Mazara. La produzione però di questo reddito (37,5%
per i feudi del Val di Noto, 29,9% per quelli del Valdemone e solo 28,5% per il Val di
Mazara) rivela una feudalizzazione più intensa nel Val di Noto e un trasferimento del
reddito verso Messina e Palermo.
Una cartina cumula le due serie (n. 4, Confronto tra reddito ecclesiastico nel 13081310 e reddito feudale nel 1336) e fa notare le concordanze geografiche intorno a Cefalù
e Messina, e a Catania, Siracusa, Girgenti e Palermo. Le principali città, che sono anche
i vescovadi, attraggono i redditi che provengono anche da altre zone, come i priorati di
Cefalù e di Catania, e anche i feudi dei nobili messinesi concentrati a Lentini e sparsi
fino al Vallone. La cartina segnala anche vistose discordanze nel Monrealese, nella
zona di Prizzi e di Palazzo Adriano e nella montagna di Patti, dove i possessi ecclesiastici
sono dominanti. Nella Valle del Platani, in quella del Dittaino e negli Iblei la
predominanza feudale è invece fortissima. In queste zone, la fortuna del clero è
l’immagine in negativo di quella della nobiltà feudale.
L’evoluzione della fortuna del clero
La tendenza del Trecento è nella concentrazione della fortuna urbana e della rendita
nelle mani del clero. La cartina n. 5, Reddito del clero siciliano nel 1455, manifesta un
reddito fiscale di 14787 once, cioè un aumento del 28,7% rispetto al 1308.
La ripartizione geografica è appena cambiata: il Mazarese è sempre povero; la
ricchezza si concentra sulle mense palermitana, monrealese e messinese, mentre si sono
perduti per la Chiesa i lauti proventi delle abbazie di Casamari e di Fossanova.
Si è impoverito il vescovado di Cefalù, sottomesso al controllo dei conti
Ventimiglia. Notiamo invece l’arricchimento relativo del Siracusano uscito nel ‘400
da una lunga depressione iniziata con la conquista musulmana e la prosperità del
clero del Catanese.
CLARA BIONDI, Mentalità religiosa e patriziato urbano a Catania. Secoli XIV-XV, Intilla ed. (Collana
di studi storici, 10), Messina, 2001.
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CLERO E NOBILTÀ NELLA SICILIA TARDOMEDIEVALE: DALLA DECIMA DEL 1275 A QUELLA DEL 1455
Cartina n. 3. Il reddito feudale nel 1336.
Cartina n. 4. Confronto tra reddito ecclesiastico nel 1308-1310 e reddito feudale nel 1336.
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HENRY BRESC
Cartina n. 5, Reddito del clero siciliano nel 1455.
Un confronto tra il reddito del clero nel 1455 e quello dello Stato siciliano è permesso
dall’elaborazione di una cartina che cumula le medie dei proventi delle secrezie e del
maestro portolano nel decennio 1451-1460, e l’ammonto della colletta prendendo come
base quella del 1455 (5000 once). La cartina n. 6, Il reddito dello Stato nel decennio
1451-1460 (Secrezie, Portolano e colletta) genera un reddito totale di 26 300 once.
Grossolanamente, il Val di Mazara pesa per i due terzi di questa ricchezza, il Val di Noto
e il Valdemone ciascuno un po’ più del 16 %, e si nota la concentrazione nelle principali
città, mancando ancora Siracusa, della Camera reginale, e nei porti cerealicoli. La
differenza tra il reddito statale e la rendita ecclesiastica è notevole e la seconda rappresenta
solo un po’ più della metà del primo. Si tratta però di un reddito netto imponibile, dopo
la deduzione delle cariche che pesano sulla Chiesa e le spese di sostentamento e di
amministrazione del culto e della gestione degli ospedali, mentre lo Stato deve pagare
gli sborsi della Corte, dell’amministrazione centrale e della guerra quasi permanente,
importi in parte solo riversati sulle secrezie con la tecnica dell’assegnazione.
La ripartizione geografica del reddito dello Stato manifesta un’irregolarità in perfetto
contrasto con la presenza universale della Chiesa. Nel Monrealese, lo Stato manca del
tutto e tutti i suoi beni, feudi e foreste, sono stati dati all’arcivescovo e all’abbazia di
Altofonte. Nelle Madonie e nel Valdemone centrale, nella montagna di Naso, quasi
tutto è della feudalità, tranne i beni delle abbazie greche. Gran parte del Val di Noto,
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CLERO E NOBILTÀ NELLA SICILIA TARDOMEDIEVALE: DALLA DECIMA DEL 1275 A QUELLA DEL 1455
Cartina n. 6. Il reddito dello Stato nel decennio 1451-1460 (Secrezie, Portolano e colletta).
infine, è anticamente feudalizzato. La Chiesa costituisce invece un tessuto denso, vicino
alla popolazione, anche per i servizi spirituali e per le funzioni educative e ospitaliere
assunte nell’insieme dell’Isola.
La mancanza di uno strumento di misura per la fortuna feudale durante il Quattrocento
ci impedisce di stimarla e di paragonarla con quella della Chiesa. Sappiamo però che il
primo quarto del secolo è il nadir, il punto più basso della rendita feudale, che comincia
a riprendere soffio solo nel secondo quarto. La congiuntura rende dunque credibile
l’ipotesi di una tendenza della nobiltà a penetrare il clero per assicurarsi almeno una
parte dei proventi ecclesiastici. Penetrazione, compenetrazione o competizione tra ceti?
L’esame delle liste prosopografiche impone una risposta piena di sfumature.
L’ipotesi della penetrazione della nobiltà nel clero
1. L’episcopato
Alla fine del Duecento e nel Trecento
La cartina n. 7, Partecipazione della nobiltà feudale cavalleresca e della nobiltà
civica all’episcopato (1250-1400), delinea le basi di un’evoluzione. Almeno un terzo
dei vescovi sono nobili, più numerosi nei vescovadi strategici, sia per il ruolo politico
assunto (a Catania quasi i due terzi, a Palermo più della metà, a Messina la metà), sia
per la ricchezza (quasi la metà a Monreale). Tra questi vescovi nobili contiamo una
forte percentuale, più della metà (54,8%), di stranieri usciti dall’aristocrazia romana e
21
HENRY BRESC
Cartina n. 7. Partecipazione della nobiltà feudale cavalleresca e della nobiltà civica all’episcopato (1250-1400).
anche napoletana prima a servizio della monarchia pontificia e degli Angioini, poi della
nobiltà catalana e aragonese.
I vescovi sono ancora in maggioranza eletti dai capitoli, non senza pressione e
suggerimenti del monarca (non siamo in una chiesa gregoriana). Una parte importante,
ma difficile da precisare, dei vescovi proviene dai capitoli, nobili come i Labro, o non
nobili come Fugardo. Oltre alla pietà e alle capacità di gestione, la nobiltà è dunque un
criterio secondario della scelta, ma non l’unico. Il fattore del sapere è anche rilevante e
si può combinare con l’origine illustre: almeno dodici dei vescovi di stirpe nobile sono
maestri universitari.
Prendendo in considerazione i numerosi vescovi siciliani in partibus, che assumono
funzioni di prestigio, di edificazione (come Federico Vitorilla a Corleone e Tommaso di
Bando da Palermo a Termini) e anche amministrative (come i vescovi titolari di Stiefan
e di Tiberiade a Messina, quelli di Salmastra e di Stampalia a Catania, quelli di Giafa, di
Hippona e di Scutari a Siracusa, ecc.), la percentuale dei nobili sarebbe molto più bassa.
Molti di questi vescovi di seconda fila sono francescani e appartenenti ad ambienti
sociali più modesti.
La percentuale elevata dei vescovi nobili corrisponde alla permanenza dei caratteri
della monarchia normanna e sveva. I prelati sono legati alla dinastia, qualcuno dal sangue
come gli Antiochia, e la maggior parte dall’origine geografica e dalla fedeltà politica: i
Beaumont, i Santa Fede, i Donmusco, i Lentini e i Pignatelli con la dinastia angioina; i
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CLERO E NOBILTÀ NELLA SICILIA TARDOMEDIEVALE: DALLA DECIMA DEL 1275 A QUELLA DEL 1455
Cartina n. 8. Partecipazione della nobiltà feudale e cavalleresca e della nobiltà civica all’episcopato (1401-1460).
Palizzi, i Bellomo, i Vilamarí e i Santapau con i cosiddetti Aragonesi. Altri appartengono
a famiglie pontificali e/o cardinalizie e vengono promossi da Roma e poi da Avignone (i
Capocci, gli Orsini, i Fieschi, gli Spinola e i Caracciolo). Per la monarchia, la scelta di
prelati nobili è una garanzia di capacità politiche e governative, confermate da un’autorità
naturale e da una rete di contatti utilissima per governare il vescovado, ed eventualmente
per servire lo Stato e gestire sempre un’ambasciata.
Il lato oscuro di queste scelte è la massiccia non residenza di questi vescovi, spesso
imposti da un accordo tra potere reale e Avignone. Ne scaturiscono conflitti a ripetizione
tra capitoli e Corte pontificia e, finalmente, l’evanescenza dell’istituzione vescovile e il
rafforzamento del ruolo dei canonici, come è stato messo messo in luce da Salvatore
Fodale.
Nel primo Quattrocento
In un secondo tempo, sotto i Martini e i Trastamara, la partecipazione della nobiltà
all’episcopato è in netto aumento, come manifesta la cartina n. 8, Partecipazione della
nobiltà feudale e cavalleresca e della nobiltà civica all’episcopato (1401-1460). La
percentuale dei vescovi nobili sale al 53% del totale. L’origine nobile è utilizzata nella
scelta dei prelati, come esplicitano le lettere di raccomandazione di Alfonso il
Magnanimo.
23
HENRY BRESC
Il sapere continua ad essere un elemento decisivo. Tra gli ultimi eletti dai capitoli
vescovili, Ubertino de Marinis, a Palermo nel 1414, appartiene alla nobiltà civica ed è un
legista famoso. Il suo successore, Niccolò Tedeschi, è una delle stelle del diritto canonico.
Le capacità amministrative e imprenditoriali sono illustrate dall’arcivescovo di Monreale
Giovanni Ventimiglia e dal vescovo siracusano Ruggero Bellomo. I legami con la corte
sono sempre solidissimi e, tra i presidenti del regno, Simone Bologna, arcivescovo di
Palermo, è anche il rappresentante che negozia con la Corte di Alfonso l’uscita dalla crisi
del 1450. Questi vescovi non mancano anche di grandi qualità intellettuali e di devozione
alle proprie convinzioni: Niccolò Tedeschi è anche un fulcro del militantismo riformista
all’interno della Chiesa. Egli aderisce al movimento conciliarista e rappresenta il Regno a
Basilea. Il lato oscuro, ancora una volta, ma per ragioni diverse, è l’assenteismo.
2. I capitoli e le abbazie
Dobbiamo prendere in considerazione la struttura differenziata dei vari capitoli
vescovili poichè essa appare federativa. Un capitolo unisce i rappresentanti delle élites
delle città e delle terre principali del vescovado, in particolare nella Sicilia occidentale.
I capitoli appaiono aperti sui ceti locali di Trapani, Monte San Giuliano e Salemi nel
‘400, di Caltabellotta (canonicato nel 1375), Sciacca, Castronovo (canonicato nel 1285),
Naro (canonicato), Licata (canonicato), Sutera (canonicato nel 1375), Vicari (canonicato
nel 1395 e nel 1431) e di Termini (canonicato nel 1408). Lo stesso legame e la stessa
decentralizzazione si ritrovano anche a Caltagirone, a Vizzini (canonicato nel 1378), a
Lentini, a Noto e ad Avola nel ‘400, e ancora a Troina, a Gozo nel ‘400, con prebende
locali. I capitoli monastici (Monreale, Catania, Patti, Cefalù) sembrano invece chiusi
alle nobiltà del vescovado.
Tra Due e Trecento
Alla fine del Duecento e nel Trecento, la cartina n. 9, Famiglie della nobiltà feudale
e cavalleresca e della nobiltà civica che accedono ai canonicati 1275-1400, illustra una
percentuale relativamente elevata dei nobili, un quarto (23,7%), cui si dovrebbe
aggiungere una frazione di canonici stranieri nominati da Avignone. La presenza nobile
sembra più forte a Catania, a Girgenti e a Messina, dove chiesa e municipio sono più
legati. Pochi, trentanove, un po’ più di un quarto dei canonici nobili, appartengono a
famiglie ancorate alla feudalità o decorate da insegne cavalleresche; nessuno invece a
famiglie baronali. Gli altri, un po’ meno di tre quarti, manifestano il legame tra capitoli
e la nuova nobiltà amministrativa, municipale e mercantile. A Messina, la composizione
del capitolo conferma il legame con le élites locali che godono di un ingresso facile alla
cavalleria e più frequente, e anche l’acquisto di feudi e di casali, tra l’altro necessari per
l’approvvigionamento del grano della città. Il legame con lo studio non è ancora
consolidato e su nove canonici, decorati con il titolo di maestro, di professore di diritto
o di teologia, uno solo appartiene ad una famiglia nobile.
La Cappella Palatina, istituzione a parte, presenta una struttura federale, riunendo i
canonici provenienti da tutti i vescovadi. Si potrebbe aspettare che rappresentino le
élites clericali e le nobiltà locali. Ma la Palatina rimane sempre nella media.
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CLERO E NOBILTÀ NELLA SICILIA TARDOMEDIEVALE: DALLA DECIMA DEL 1275 A QUELLA DEL 1455
Cartina n. 9. Famiglie della nobiltà feudale e cavalleresca e della nobiltà civica che accedono ai canonicati 1275-1400.
Cartina n. 10. Famiglie della nobiltà feudale e cavalleresca e della nobiltà civica che accedono ai canonicati 1401-1460.
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HENRY BRESC
Nel primo Quattrocento
Dalla cartina n. 10, Famiglie della nobiltà feudale e cavalleresca e della nobiltà
civica che accedono ai canonicati 1401-1460, si deduce che la percentuale dei
nobili reperiti è rimasta uguale a quella del Trecento, manifestando una stabilità
d’insieme notevole. Nel dettaglio, le percentuali aumentano vigorosamente a
Messina, a Malta e alla Palatina. Segnalano probabilmente un nuovo valore
attribuito all’origine nobiliare. Non è il caso invece di Palermo né di Cefalù. Non
sembra si sia avuto un movimento uniforme: la statistica riunisce, come sempre,
scelte di individui e di famiglie. Il legame con lo studio si è notevolmente rafforzato
e su quindici canonici che presentano titoli universitari, sei sono nobili (il 40%
dei dottorati).
A vescovi e canonici, si possono aggiungere gli abati, le abbadesse, i priori e i
precettori delle commende degli ordini ospedalieri di Terrasanta. Come i vescovi, essi
vengono eletti e disponiamo di parecchi resoconti di elezioni che non nascondono le
competizioni e ogni tanto i conflitti e l’intervento delle famiglie influenti, e specialmente
dell’aristocrazia feudale, nelle scelte. La preferenza di superiori nobili può essere una
garanzia d’influenza nella Corte, presso i municipi o ancora di autorità morale all’interno
del monastero. Lo statuto e le pratiche dei Cisterciensi, degli Ospedalieri e dei Teutonici
li mettono da parte: monaci e fratelli dovrebbero essere tutti nobili. Tra i monasteri
femminili, i più prestigiosi sono destinati a accogliere le figlie delle famiglie feudali e
della nobiltà civica senza però essere riservati a loro13. La percentuale dei nobili tra i
superiori dei monasteri è dunque più elevata: trentacinque su ottantaquattro (41,6%) a
Palermo, e almeno ventinove su cinquantadue negli altri monasteri di Corleone, Messina,
Lentini e Catania (55,7%).
3. Il basso clero, beneficiari e sacerdoti
L’accesso di membri delle famiglie nobili ai benefici ecclesiastici e al sacerdozio è
minimo tanto alla fine del Duecento e nel Trecento, con una percentuale di 9,6% dei
654 beneficiari e sacerdoti censiti, quanto nel primo Quattrocento, con 7,2% dei 1343
registrati. La cartina n. 11. Famiglie della nobiltà feudale, cavalleresca e civica che
accedono ai beneficii e al sacerdozio 1275-1400, suggerisce anche le sfumature
geografiche: nella diocesi di Malta, la percentuale è più alta, ma le cifre sono troppo
basse; a Cefalù, Patti, Mazara, la presenza dei nobili nel clero è effettiva, e soprattutto
nella diocesi di Catania dove un ecclesiastico su cinque è di famiglia nobile.
La cartina n. 12, Famiglie della nobiltà feudale, cavalleresca e civica che accedono
ai beneficii e al sacerdozio 1400-1460, mostra la permanenza di una percentuale bassa,
e ancora ridotta all’8%. Le percentuali proposte sono basse in tutte le diocesi, tranne in
quella di Cefalù, dove circa dieci tra i 53 beneficiali e preti registrati appartengono a
famiglie nobili, (18,8%). La diocesi copre una montagna povera e potrebbe offrire un
esempio di ambiente clericale come rifugio per i cadetti di lignaggi anche feudali, come
gli Ancisa di Polizzi e di Calascibetta, in mancanza di mezzi.
13
PATRIZIA SARDINA, Il monastero di Santa Caterina e la città di Palermo (secoli XIV e XV), Palermo,
Associazione Mediterranea, 2016, «Quaderni. Mediterranea. Ricerche storiche» 29.
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CLERO E NOBILTÀ NELLA SICILIA TARDOMEDIEVALE: DALLA DECIMA DEL 1275 A QUELLA DEL 1455
Cartina n. 11. Famiglie della nobiltà feudale, cavalleresca e civica che accedono ai beneficii e al sacerdozio 1275-1400.
Cartina n. 12. Famiglie della nobiltà feudale, cavalleresca e civica che accedono ai beneficii e al sacerdozio 1400-1460.
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HENRY BRESC
Notiamo però la presenza costante dei membri delle famiglie feudali, anche baronali,
nel clero minore: Amato, Antiochia, Aspello, Exea, Graffeo, Leto, Massaro, Milite,
Precopio, Raone, Sano, Tagliavia, Taranto, Thetis, Ventimiglia (alla fine del Due e nel
Trecento), Afonte, Ancisa, Cabrera, Campulo, Capobianco, Grandi, Lancellotto,
Mastrangelo, Montaperto, Paternò, Pilaya, Platamone, Pujades, Sabia, Spatafora,
Ventimiglia, Xortino, ecc., nel primo Quattrocento. Potrebbe trattarsi di una scelta
economica o di una strategia per avvicinare una sedia da canonico, ma i benefici sono
magri e l’ingresso nei capitoli è consentito solo a un pugno di figli di feudatari e a
rarissimi discendenti di baroni. Pare dunque più ragionevole attribuire questa scelta alla
volontà personale e alla devozione familiare e individuale.
La scelta sociale è in effetti molto aperta, a famiglie di giudici, di notai e di mercanti.
Così, nel Trecento, più di cinquanta ecclesiastici appartengono a famiglie che
comprendono giudici e/o notai, e altrettanto avviene nel primo Quattrocento. Questa
presenza, d’altronde difficile da precisare, conferma i legami del clero con il sapere, la
pratica giuridica del notaio certo, ma anche i saperi umanistici: a Corleone, tre dei
quattro maestri di scuola conosciuti sono sacerdoti, e il prete Leonardo Blasco è il cugino
del quarto maestro, l’unico laico. I testamenti dei sacerdoti corleonesi manifestano una
cultura estesa, la grammatica, la logica e i libri di autorità, in particolare l’Eneide. Siamo
all’opposto della figura polemica del clero ignorante.
Possiamo trarre dunque una prima conclusione: la penetrazione della nobiltà in Sicilia
è conforme alle grandi tendenze osservate nell’Europa avignonese e post-avignonese.
Le percentuali sono dappertutto più forti per gli alti carichi della Chiesa e per i vescovadi
chiave; scendono regolarmente per l’ambiente dei canonici, per quello degli ufficiali
della Curia e per quello dei beneficiari con livelli simili a quelli osservati nell’Isola.
In Sicilia, come probabilmente altrove in Europa, nelle scelte che fanno vescovi e
capitoli, la domanda dell’istituzione, cioè la preoccupazione di presentare vescovi
influenti e qualche canonico appoggiato a un lignaggio forte, è probabilmente più rilevante
dell’offerta degli individui o delle famiglie sostenuta dalle ambizioni dei cadetti nobili.
Gestione, profitti e competizione
La questione che è stata posta riguarda il ruolo avuto dai nobili nella gestione dei
beni ecclesiastici e dei profitti che si possono trarre. Lo studio degli affitti e delle
procurazioni permette di individuare questo ruolo e di suggerire i limiti.
1. Il contesto: la gestione dei beni ecclesiastici
I grandi complessi ecclesiastici (arcivescovado di Monreale, Magione, San Martino
delle Scale, Ospedale Nuovo e Grande di Palermo, abbazia del Santo Spirito) e qualche
monastero e ospedale minore (San Bartolmeo alla Kalsa, San Giovanni degli Eremiti, le
Vergini di Palermo, Santa Maria di Baida) abbinano l’affitto di terre, orti, giardini,
vigne e terreni da seminare con la gestione diretta delle aziende destinate al mercato dei
cereali e del formaggio per l’esportazione. La gestione, anche se affidata agli arrendatari
e procuratori, anche nobili, è attenta: nel 1451, la città di Palermo protesta contro il
disegno dei prelati e di Monreale di aumentare il prezzo della locazione dei pascoli e di
28
CLERO E NOBILTÀ NELLA SICILIA TARDOMEDIEVALE: DALLA DECIMA DEL 1275 A QUELLA DEL 1455
introdurre la misura del tummino grosso per la riscossione dei terraggi, in modo da
approfittare pienamente della ripresa della congiuntura e della rendita. Le loro imprese
agricole proprie, massarie e mandrie, sono gestite sul modello delle imprese della nobiltà,
affidate ai curatoli o in società con i massari che apportano la loro parte del capitale
(buoi per l’aratura, lavoro personale) e con i bovari e i pecorai che aggiungono il proprio
bestiame a quello del monastero o della mensa vescovile.
Dalla propria impresa sui terreni propri, almeno due di loro, i più forti, passano alla
costruzione di vaste aziende che operano sui terreni presi in affitto da altre istituzioni
ecclesiastiche, sempre sui modelli usati dalle famiglie nobili: l’arcivescovo di Monreale
Giovanni Ventimiglia prende in conduzione i pascoli e le terre arabili dell’arcivescovado
di Palermo (Santa Cristina, Bifarera, Ducco, San Nicola, Suvarelli), di San Martino
delle Scale (Sagana) e di Santa Caterina al Cassaro (Montelepre) per i propri armenti,
mentre San Martino estende i propri pascoli sui feudi della Montagna di Cani, Traversa
e Suvarito, e porta i suoi maiali al bosco di Godrano. Giovanni Ventimiglia costruisce
una grande impresa di produzione dello zucchero intorno al trappeto di Monreale,
affittando le terre irrigabili di Partinico dell’abbazia di Parco.
Individualmente, canonici e semplici sacerdoti partecipano all’attività agricola,
finanziando le società di orticoltura, come i canonici palermitani Benedetto de Consule,
Riccardo Cardamono e Giovanni Pontecorona, o di masseria, come per esempio il
canonico Giovanni Garofalo nel feudo Disisa dell’arcivescovado di Monreale e il prete
Antonio de Gradu a Mezzoiuso.
Altri sacerdoti assumono l’iniziativa di impiantare vigneti: tremila viti al Faro di Messina a
cura di Michele Caridi nel 1418 e un vasto vigneto nel lontano feudo Femenino dato in enfiteusi
dal vescovado di Cefalù al sacerdote Pietro di Lu Ministreri nel 1430. Gli imprenditori sono
spesso ecclesiastici usciti dall’ambiente nobiliare, come Benedetto de Consule (ugualmente
negoziante di vino), Giovanni Pontecorona, Don Guarnerio Pollina a Salemi (conduttore del
feudo Busulesi nel 1457) ed Enrico Sclafani a Termini (affittuario del feudo Brucato nel 1408).
Ad un livello più modesto ancora, e sempre sul modello delle nobiltà urbane, canonici
e sacerdoti finanziano l’attività economica con prestiti ad ortolani, imprenditori di
masseria, gestori di osterie, artigiani, come l’arcidiacono di Patti che nel 1351 affida
due once a un bottaio palermitano, probabilmente per andare a prelevare vino a Patti, o
il canonico Berardo de Orlandino che anticipa nove salme di orzo a vari palermitani, da
restituire dopo la mietitura.
Presenti in tutti i pori della società, i sacerdoti sono ugualmente esperti. Sappiamo di
un fonditore di campane nel 1405 e di un tabellione in un paese che manca di notaio nel
1454. Il proletariato clericale offre i propri servizi con preti officianti nelle chiese dei
canonici e beneficiari assenteisti, sia come firmarii che prendono in affitto il reddito
casuale della chiesa, sia come salariati, o ancora per compiti vari, decorosi o umili
(castellano, ma anche zappatore nel 1431).
2. Procurazioni e arrendamenti
Non tutti i patrimoni ecclesiastici sono amministrati da procuratori delegati dai vescovi
per le mense episcopali, dai capitoli per le mense capitolari e dai superiori dei monasteri
29
HENRY BRESC
e degli ospedali. I beni dei monasteri e degli ospedali di Terra Santa, in particolare, sono
in maggior parte gestiti personalmente dagli abati, dalle abbadesse, dai priori o dai
precettori. Per transazioni e contratti, i superiori sono presenti davanti al notaio e ai
testimoni convocati nel monastero. Su ottantanove procuratori registrati, la partecipazione
dei nobili rimane modesta con dodici esponenti (13,4%), mentre i notai sono quattordici,
avvantaggiati dalla conoscenza del diritto, e i membri del clero, i monaci, i conversi
cisterciensi e i semplici preti sono ventidue, in una struttura decentralizzata a priorati e
a ospedali locali. Una figura originale di procuratore a vita è quella, simile all’oblato,
del cliente che sceglie di vivere nel monastero, a suo servizio, e fa donazione dei propri
beni. Tra i vari esempi si segnalano Bernardo Calogero di Vicari, procuratore a vita del
SS. Salvatore di Palermo, nel 1377, e Guglielmo de Polito, converso del Santo Spirito di
Palermo, nel 1436, che conserva l’usufrutto dei propri beni e gestisce la grangia e il
bosco di Altopiano.
I beni ecclesiastici possono anche essere un legame aggiuntivo in una relazione di
devozione e di clientela. Kristijan Toomaspoeg14 ha messo in luce la cristallizzazione di
una clientela intorno alla Magione dei Teutonici di Palermo, alla stessa volta gruppo di
devoti, che spesso lasciano i beni all’ospedale, affittuari ed enfiteuti delle case e dei
giardini dei Teutonici, testimoni ancora degli atti dei precettori. La stessa configurazione
si delinea a Messina intorno a Santa Maria de Monialibus, studiata da Hadrien Penet15,
dove due degli enfiteuti che prendono a censo le case in rovina per ricostruirle si dicono
devoti del monastero. Nell’insieme si tratta di semplici vicini a Messina per le botteghe,
i fondaci, le vigne e i giardini suburbani, e di modesti abitatori dei casali per le terre del
monastero. Su 66 enfiteuti e affittuari ci sono dieci artigiani, un notaio e due nobili
soltanto, tra i quali un imprenditore di canna da zucchero che riceve le terre del monastero
a Fiumefreddo. Sempre a Messina, intorno al Capitolo, le schede di Carmen Salvo16
mostrano l’estrema dispersione sociale degli enfiteuti, raggruppati però nelle stesse
contrade artigianali; su ventidue, sedici sono artigiani e giardinieri, tre sono ecclesiastici
e soltanto due sono nobili, conduttori di un’area edificabile e di un castagneto. A Palermo,
Santa Caterina presenta 81 enfiteuti, due notai, due mercanti, quattro ebrei e ventidue
artigiani; l’originalità dei contratti di tre degli otto nobili è nella durata della scadenza,
che fa dell’enfiteusi una quasi alienazione: il feudo Santa Dominica di Vicari dato al
nobile Federico Aloy, l’uliveto della Conca d’Oro ai Carastono, di una nobiltà cittadina
legatissima alla Chiesa, il tenimento di Pizzoli a Misilmeri a un Aragona.
I nobili costituiscono una piccola minoranza tra enfiteuti e conduttori dei beni
ecclesiastici. A Palermo, tra una miriade di ortolani che prendono in affitto i giardini
suburbani delle chiese e di imprenditori di mandrie delle Madonie e della stessa città
KRISTIJAN TOOMASPOEG, Les Teutoniques en Sicile (1197-1492), Collection de l’École française de
Rome, 321, Roma 2003.
15
HADRIEN P ENET, Le Chartrier de S. Maria di Messina, Messina, 1998-2005.
16
C ARMEN SALVO, Regesti delle pergamene dell’Archivio Capitolare di Messina (1275-1628), in
«Archivio Storico Messinese», LXII (1992), pp. 87-174 ; e Il Capitolo della Cattedrale di Messina. Istituzioni
ecclesiastiche e vita cittadina (secoli XIV-XV), in «Clio. Rivista trimestrale di Studi Storici», XXIX, 1
(1993), pp. 5-43.
14
30
CLERO E NOBILTÀ NELLA SICILIA TARDOMEDIEVALE: DALLA DECIMA DEL 1275 A QUELLA DEL 1455
(compratori dell’erba dei feudi e dei produttori di zucchero che acquistano l’acqua e
l’uso dei terreni da irrigare alle porte della città e nei feudi del litorale), sono pochi i
nobili legati alle chiese, tra cui i Milite con la Cattedrale all’inizio del Trecento, poi i
Crispo e i Bologna nel primo Quattrocento. I nobili palermitani sono invece
numerosissimi a realizzare massarie nei feudi della Chiesa di Monreale con la quale
non hanno legami, nè canonicati, gestione e devozione (Adamo, Amato, Bologna, Fisaulo,
Homodei, Sardo, Scorchalupo, Sottile, Tagliavia). Le relazioni sono intense a Cefalù tra
la Cattedrale, i Salamone e i Notarbartolo di Polizzi, e soprattutto a Catania, dove sono
affittuari di terreni della mensa parecchie famiglie nobili dell’ambiente canoniale e
sacerdotale (Cultellis, Massaro, Munsono, Paternò, Rizari, Tarento), e anche famiglie
dello stesso ceto che accedono alla nobiltà (Ala, Asmundo, Calvino, Castello, Constancio,
Crapanzano, Santangelo). I vasti possedimenti della Chiesa catanese sembrano fungere
da riserva fondiaria che favorisce l’ascensione delle famiglie dei canonici. Anche a
Palermo la gestione dei beni della Chiesa ha favorito l’arricchimento e l’ascensione di
famiglie che contano canonici, e i Milo, i Saladino e i Zaffaronibus sono rimasti in una
modesta agiatezza.
3. Una nobiltà di Chiesa
L’esame attento delle liste dei canonici e di altri membri del clero permette di
discernere le famiglie propriamente clericali, con due o più discendenti, che partecipano
allo stato ecclesiastico. Ne identifichiamo così sessantasette la tra fine del Duecento e il
Trecento. La cartina n. 13, Famiglie canoniali e clericali (due membri del clero e più)
1275-1400, permette di rintracciare i nuclei più forti che erano quelli di Messina (dieci
famiglie di cui otto canoniali), di Siracusa (nove, tutte canoniali), di Catania (sedici di
cui dodici canoniali) e soprattutto di Palermo dove diciotto famiglie canoniali formano
un nocciolo potente, capace di difendere il patrimonio della Cattedrale, nei momenti
dove l’arcivescovo è assente o evanescente, e in particolare durante la crisi della conquista
catalana, tra il 1392 e il 1398. Si notano anche famiglie di preti nelle terre di Salemi, a
Trapani, a Corleone, a Caltavuturo, a Piazza e a Noto.
Nel primo Quattrocento, le famiglie identificate sono ancora sessantanove. Esse
presentano quasi tutte, però, nuovi patronimi ad eccezione dei Bruno di Salemi, dei
Mastrangelo e dei Zaffaronibus di Palermo, degli Augusta e dei Rizari di Catania, come
dimostra la cartina n. 14, Famiglie canoniali e clericali (due membri del clero e più)
1401-1460. Questa mutazione massiccia è favorita probabilmente dalla più rapida
estinzione delle linee canoniali o clericali in mancanza di figli. Però rimane un dubbio:
non si conoscono i nipoti da parte delle sorelle nè le eventuali trasmissioni fuori del
patrilignaggio, e si sa che la Chiesa ha favorito i figli delle sorelle, in particolare ad
Avignone. La ripartizione tra le diocesi di questa nobiltà di Chiesa è anche in parte
cambiata: se Palermo e Monreale conservano un forte nucleo, con sette famiglie canoniali
e otto linee clericali (come Siracusa, con un insieme di dodici lignaggi, e Messina, con
dieci patronimici), un altro sistema si delinea intorno a Mazara e in particolare a Monte
San Giuliano e a Trapani, con tredici famiglie. Un nocciolo notevole si rivela anche a
Corleone e un altro a Castrogiovanni.
31
HENRY BRESC
Cartina n. 13. Famiglie canoniali e clericali (due membri del clero e più) 1275-1400.
Cartina n. 14. Famiglie canoniali e clericali (due membri del clero e più) 1401-1460.
32
CLERO E NOBILTÀ NELLA SICILIA TARDOMEDIEVALE: DALLA DECIMA DEL 1275 A QUELLA DEL 1455
Cartina n. 15. Feudi ecclesiastici usurpati dall’aristocrazia feudale e presi a censo dalle diverse nobiltà.
Con la pubblicazione di nuove fonti, è probabile che le liste su cui lavoriamo saranno
amplificate e che sarà precisata la configurazione di questo ambiente. Ma possiamo
suggerire che questo nucleo, composto da giuristi e da amministratori, è il custode dei
beni ecclesiastici ben più che i vescovi, spesso stranieri e quasi sempre di breve incarico.
4. Competizione tra i ceti nobiliare ed ecclesiastico
La Sicilia conosce una lunga storia di usurpazioni dei beni ecclesiastici, già
precisamente studiata, che si sono compiute in particolare durante le transizioni politiche
tra un potere e un altro, all’inizio del regno di Carlo I, durante la guerra del Vespro e
sotto il governo dei Quattro Vicari, quando l’autorità regia è ancora debole. Vengono
poi le campagne di restituzione animate dalla Corte regia e sostenute dal papato.
La cartina n. 15, Feudi ecclesiastici usurpati dall’aristocrazia feudale e presi a censo
dalle diverse nobiltà, segnala le perdite definitive (intorno a Siracusa e a Lentini, a
Castrogiovanni), le terre di piena giurisdizione del vescovo di Catania e quelle del
vescovado di Patti, e i possedimenti più meridionali dell’arcivescovado di Monreale. Al
limite dell’usurpazione, gli scambi sono stati imposti dalla potenza dei feudatari, in
particolare Pollina scambiata per due feudi da Francesco Ventimiglia. Entrano in questa
categoria le enfiteusi più o meno forzate (Aci, Motta Sant’Anastasia e Calatabiano)
strappate al vescovo di Catania, il casale di Camastra, Roccella ottenuta dal vescovo di
Cefalù, o quelle passate con condizioni favorevoli come Bonfornello.
Durante il Trecento, il filo rosso dell’azione dell’aristocrazia è quello di recuperare
il potere sugli uomini, sui casali ancora abitati o da ripopolare, e sui posti strategici
33
HENRY BRESC
come Monforte a Capo Bianco e Roccella, strappata al vescovado di Cefalù. Nel
Quattrocento, avviene il contrario e le ambizioni della grande nobiltà feudale si voltano
verso le terre vuote o poco sfruttate dei litorali per piantarci le canne da zucchero (ad
Aci, a Bonfornello, alla Bicocca, e sui territori di Brucato, di Mondello e di Partinico).
Si cerca anche di allargare le signorie di montagna con i baroni d’Isnello che occupano
Bonfornello e i conti di Collesano la vicina Garbonugara. La nobiltà feudale prepara il
terreno acquistando gli spazi dove, in un secondo tempo, avverrà la fondazione di nuove
terre. Questa vasta impresa di spoliazione compensa largamente il flusso delle donazioni.
Nell’insieme l’iniziativa è dell’aristocrazia feudale: venti dei quaranta possedimenti e
tutte le terre abitate passano sotto il suo controllo.
Una parte delle infeudazioni è decisa dalla monarchia per la quale il patrimonio
della Chiesa è una riserva fondiaria di origine statale sulla quale si può legittimamente
attingere in caso di necessità. La ridistribuzione dei possessi favorisce anche l’ascensione
di famiglie nuove (Anello, Bologna, Crastono, Crapanzano, Crispo, Imperatore,
Villardita) o di rami rinvigoriti di famiglie decadute (Gravina, Leto). Così nel 1455
l’abate di Altofonte concede a censo al secretario del re Giovanni Crapanzano le terre di
Rachali, oggi Valguarnera vicino Partinico.
Un sospetto di complicità potrebbe pesare sui vescovi e sugli abati nobili, come
favoritismo verso la propria famiglia o verso amici e protettori. In effetti, si troverebbe
qualche esempio, molto limitato però, proprio marginale, in un insieme di transazioni
regolari. Ed è proprio percettibile nelle istituzioni a stampo nobile, dai Cistercensi e
dagli ordini militari: nel 1455, l’abate di Altofonte Giovanni Bernardo Leofante fa gestire
il patrimonio del monastero dal fratello Arcimbaldo e gli affitta la taverna Carruba nel
feudo di Partinico. Ma il controllo interno funziona e quando nel 1456 il precettore
degli Ospedalieri della Guilla, il nobile Federico Ventimiglia, concede in enfiteusi a
Francesco Prestileone di Caltagirone un modesto mulino a San Filippo d’Argirò, la
Curia pontificia annulla il contratto perchè vendita nascosta.
Conclusioni
Alla diversità delle nobiltà e alla diversità di formazione, di cultura e d’interessi si
oppone la coerenza del clero. La difesa di un’istituzione di origine divina è un dovere,
come anche quello di una monarchia propriamente davidica. La scelta del celibato rompe
anche la catena della successione e la patrilinearità. Gli affetti familiari possono rimanere,
ma la solidarietà tra i membri del clero e i loro parenti è un’ipotesi avventurata. D’altronde,
nella Sicilia della fine del Medioevo, le solidarietà familiari sono fragili. Se il dovere di
vendetta è generalmente rispettato, il concetto di clan, importato da storici imprudenti,
non corrisponde affatto alla realtà politica.
Il clero è un’altra nobiltà. Il prestigio degli ecclesiastici genera concorrenza con
quello dei cavalieri. Come questi ultimi, il canonico, l’arciprete, spesso il semplice
sacerdote sono chiamati Messer, Dominus. La forza della Chiesa è nel suo governo e
consiglio, con forme democratiche simili a quelle del Comune, anticamente impiantato
in Sicilia con l’approvazione di Federico II, poi di Carlo I, con le dovute limitazioni. Le
elezioni, le deleghe, i molteplici controlli e la sindacatura al termine di un mandato
34
CLERO E NOBILTÀ NELLA SICILIA TARDOMEDIEVALE: DALLA DECIMA DEL 1275 A QUELLA DEL 1455
creano uno spirito comune che si confonde con la fede, con le due forme di devozione e
fiducia. Ricordiamo che lo Spirito Santo viene sempre invocato prima di tutte le riunioni.
E questa fede rende anche temibile la condanna per gli usurpatori di beni o di funzioni
ecclesiastiche.
Quest’insieme permette di spiegare, a mio avviso, la resistenza dell’ambiente
ecclesiastico alle ambizioni della nobiltà, l’attrazione che si esercita sull’aristocrazia e
sui ceti cittadini più onorati e più abbienti e il flusso di ricchezza che ne scaturisce.
35
36
IL MONTE ALTESINA NEL CONTESTO DELLA CONQUISTA ISLAMICA DELLA SICILIA
GIUSEPPE LABISI*
Il sito archeologico del monte Altesina è situato 12 km a sud-ovest dell’abitato di
Nicosia ed è incluso all’interno dell’omonima Riserva Naturale Orientata. La riserva
occupa un’area di 1.140 ettari ed è compresa nei fogli 260, II Quadrante SO e 268, I
Quadrante NO della cartografia ufficiale I.G.M. L’insediamento occupa un’area di circa
10 ettari e si sviluppa intorno alla cima dell’Altesina (1.192 m; Figura 1), la vetta più
alta dei Monti Erei. L’insediamento è stato segnalato da Bernabò Brea nel 1951 1 ,
individuato da Giacomo Scibona nel 1982 e indagato in diverse campagne di scavo fra
gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso da parte della Soprintendenza per i Beni Culturali di
Agrigento ed Enna e nuovamente agli inizi degli anni 2000 da parte della Soprintendenza
di Enna (scavi condotti da Carmela Bonanno)2.
Il sito risulta occupato fra la fine del terzo e gli inizi del secondo millennio quando
diverse tombe a forno, con cella singola e prospetto rettangolare sagomato per la chiusura
con un portello, furono realizzate sulle pendici scoscese del monte Altesina, ma anche
su blocchi di roccia isolati. Gli scavi portarono alla luce un lembo di fortificazione di
circa 20 m di lunghezza che utilizza il banco roccioso come fondazione e l’elevato in
pietrame legato a secco3. Sul pianoro sommitale è presente una tomba a camera (Figura
2); gli scavi hanno inoltre portato alla luce un vasto abitato che occupava il pianoro in
cima e i pendii, chiuso da possenti fortificazioni realizzate con tecnica pseudo-isodomica
di cui sono stati esplorati tratti lungo il pendio settentrionale. Il materiale rinvenuto è
stato datato dall’età greca arcaica all’età ellenistica4. Il rinvenimento di frammenti di
teste fittili e di grandi pithoi, louteria e oscilla circolari ha consentito un’attribuzione
cultuale per la zona5. I saggi del 2007 hanno portato alla luce delle strutture il cui materiale
associato è databile fra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C., fra cui si conservano
elementi di decorazione fittile frontonale (coroplastica)6.
Per quel che riguarda i periodi successivi, durante le recenti attività di censimento
del sito7 è stato possibile segnalare nell’area sommitale la presenza di tegole a vacuoli,
* Unità di ricerca Ausonius ed Universität Konstanz (D).
1
ALBANESE PROCELLI 1992.
2
BONANNO 2012.
3
CILIA 1993-1994.
4
BONANNO 2009.
5
CILIA 1993-1994.
6
BONANNO 2009, 539-540; BONANNO 2012.
7
Il sito archeologico del monte Altesina è attualmente oggetto di una ricerca triennale congiunta fra la
Soprintendenza per i BBCCAA di Enna e il Dipartimento Ausonius dell’Università Bordeaux-Montaigne.
37
GIUSEPPE LABISI
Figura 1. La parte sommitale del monte Altesina e l’area del convento di Santa Maria dell’Artisina
(G. Labisi, 2020)
il cui arco cronologico va dal periodo tardo antico all’alto medioevo 8 . Inoltre,
un’importante testimonianza della frequentazione del sito in età islamica è data dalla
presenza di un’epigrafe in arabo ricavata nei pressi dell’ingresso della tomba a camera
(Figura 3).
Il sito rivela, inoltre, la presenza 600 m a ovest/sudovest della cima dell’Altesina dei
resti del convento di Santa Maria dell’Artesina, la cui prima attestazione attraverso
fonti storiche risalirebbe al 12479, ma la cui fondazione potrebbe risalire a dei periodi
precedenti10 : il complesso, oggi in rudere, è composto dai resti del convento e della
chiesa11, uno dei quali realizzato su uno sperone roccioso in cui è possibile notare delle
tracce di modifiche antropiche12. A circa 40 m a nordovest del complesso si notano,
inoltre, i resti di un frantoio, anch’esso rupestre.
Le diverse testimonianze archeologiche hanno dimostrato come il complesso del
monte Altesina avrebbe subito diversi cambiamenti nella sua destinazione d’uso:
l’insediamento arcaico e il suo santuario furono infatti riutilizzati e riadattati fra l’età
medievale e il XVII secolo.
ARCIFA 2010, 108-109.
Traggo questa informazione dalla tesi di laurea incompiuta di Francesco Campione (2010-2011, 5)
che la ricava a sua volta dal A. B. IMA in S 1741, ricerca del dott. Lorenzo Vicari di Leonforte; il convento
è anche citato in un documento del 1576 (D’URSO 2010). Colgo l’occasione per esprimere la mia gratitudine
verso il signor Antonino Campione per il suo costante, genuino e validissimo supporto in questa e altre
ricerche. I miei ringraziamenti vanno anche agli amici dell’associazione Petra D’Asgotto di Nicosia.
10
Secondo L. Santagati (SANTAGATI 2012, pp. 152 e 254 e ivi nota 30) la madîna Mariyâ citata nel
Kitâb Gharâ’ib al-Funûn wa-Mula’ al-’Uyûn del 1050 (App. 5, Itinerario da al-Mahdiyya a Palermo, 20;
J OHNS 2004, 449) potrebbe corrispondere con il convento di Santa Maria dell’Altesina; considerando
tuttavia le caratteristiche descrittive dell’Appendice 5 del Kitâb è probabile che la madîna Mariyâ
corrispondesse ad una località costiera fra Palermo e San Vito Lo Capo. Colgo l’occasione per ringraziare
l’architetto Luigi Santagati per le sue interessanti osservazioni.
11
D’URSO 2010, 57.
12
L’area è stata brevemente indagata nel 1951 (ALBANESE PROCELLI 1992, 392-394).
8
9
38
IL MONTE ALTESINA NEL CONTESTO DELLA CONQUISTA ISLAMICA DELLA SICILIA
Figura 2. Sito archeologico del monte Altesina, area sommitale (G. Labisi, 2018)
Il sito archeologico del monte Altesina si inserisce tuttavia in un contesto sub-regionale
più ampio, avendo avuto il Mons Heraeus, il monte Altesina, una funzione centrale
nella divisione in valli a partire dal periodo medievale13; il sito fronteggia orograficamente
la rupe di Enna, vero e proprio centro geografico della Sicilia e insediamento essenziale
nelle relazioni territoriali fra le diverse parti dell’isola, nonché luogo simbolico di una
frontiera osmotica, così definita da M. Albanese Procelli14 . Il contesto archeologico
territoriale si è arricchito, inoltre, delle ricerche condotte negli ultimi decenni nel territorio
provinciale ennese attraverso l’archeologia orizzontale di superficie e l’archeologia
verticale di scavo stratigrafico15.
Queste ricerche hanno mostrato come l’insediamento ennese fu popolato dall’antichità
per lo sfruttamento delle risorse naturali e per la posizione cruciale all’interno del sistema
viario della Sicilia rivelando così la presenza di un paesaggio antico ben diverso dallo
stereotipo comune di terra desolata16. Una longue durée di occupazione territoriale con
tracce databili a partire dal IV millennio a.C. documentati nei siti di Cozzo Matrice17,
Malpasso18, Case Bastione19 o l’insediamento fluviale del Torcicoda20. La cesura del
modello insediativo, attestato dal X secolo fino all’età arcaica (VII-VI sec. a.C.), è
testimoniata, ad esempio, dall’abbandono del sito del Torcicoda e dalla nascita dei centri
proto-urbani negli Erei caratterizzati da complessi funerari rupestri sui fianchi scoscesi
collinari su cui sorsero in seguito gli abitati di Centuripe e Morgantina, oppure inclusi
AMICO 1855, 108; si veda anche infra, nota 47.
ALBANESE PROCELLI 2003.
15
GIANNITRAPANI – PLUCIENNICK 1998; 2001; 2004.
16
VALBRUZZI 2014, pp. 501-514.
17
VALBRUZZI – CANZONIERI 2016.
18
GIANNITRAPANI 2015.
19
Si vedano GIANNITRAPANI – IANNÌ – CHILARDI – ANGUILANO 2014; GIANNITRAPANI -– IANNÌ 2015.
13
14
39
GIUSEPPE LABISI
nel bacino idrografico
dell’Imera meridionale o
ancora situati in posizione
elevata quali l’insediamento
del monte Altesina, monte
Giulfo, Capodarso, Sabucina, Rocche e Tornambè21.
Questo sistema policentrico entrò in crisi in età
classica, come testimoniato
dall’abbandono dei diversi
siti precedentemente occupati per la fondazione di una
vera e propria polis, Henna,
nella quale furono stanziate
-– con ogni probabilità – le
comunità indigene del territorio22 .
In età ellenistica e repubblicana il territorio ennese
rivela un popolamento
rurale sia residenziale che
produttivo; tale orientamento insediativo perdura fino
al III secolo d.C. (sebbene
alcuni siti vengano abbanFigura 3. L’epigrafe in arabo del monte Altesina (G. Labisi, 2018)
donati forse in seguito alle
evidenziata nell’ovale.
rivolte servili del II sec.
a.C.) quando si assiste ad una crisi insediativa23. Il IV secolo vide la nascita del fenomeno
delle ville monumentali, probabilmente il riflesso di un forte sviluppo economico24 che
trova nel V secolo un nuovo sviluppo dell’insediamento rurale diffuso, influenzato con
ogni probabilità dal ruolo riassunto di granaio di Roma25 e che rimarrà invariato fino al
periodo del thema bizantino, il cui fenomeno è messo in relazione all’accentramento
della proprietà fondiaria da parte del demanio imperiale, della classe senatoria e,
successivamente, del Patrimonium Petri26. Gli studi dedicati al thema bizantino hanno
evidenziato come la Sicilia del VII e dell’VIII secolo risulti prospera, a differenza degli
GIANNITRAPANI -– PLUCIENNICK 1998, 2001, 2004.
VALBRUZZI – GIANNITRAPANI 2017.
22
VALBRUZZI 2014; VALBRUZZI -– GIANNITRAPANI 2017, 94-95.
23
VALBRUZZI 2012, 205-240.
24
WILSON 1990.
25
VALBRUZZI 2017, 236.
26
VALBRUZZI 2014, 510-511.
20
21
40
IL MONTE ALTESINA NEL CONTESTO DELLA CONQUISTA ISLAMICA DELLA SICILIA
altri themata bizantini; cruciale, inoltre, la definizione dell’isola come area di frontiera
fra il dâr al-Islâm e l’impero bizantino27. Inoltre, la ricerca archeologica relativa alla
controversa transizione bizantino-islamica 28 ha avuto negli ultimi anni dei notevoli
progressi anche grazie all’importante scoperta archeologica relativa alle olle con
decorazione a stuoia datate stratigraficamente fra la fine dell’VIII secolo e i primi decenni
del IX e che ha permesso di stabilire una cronologia certa per numerosi siti archeologici
isolani, oltre a fornire un elemento cronologico preciso per il modello abitativo di forma
circolare, associato alla summenzionata ceramica29.
I dati archeologici sembrano anche notare per questo periodo delle tendenze differenti
fra la Sicilia occidentale e quella orientale: se la prima è caratterizzata da un notevole
pauperamento avvenuto fra l’VIII e il IX secolo e contraddistinto dall’impoverimento
degli insediamenti urbani e dal ridimensionamento di quelli rurali30, la parte orientale –
nella quale rientra il Kastron Hennae – è caratterizzata invece dalla «rivitalizzazione
insediativa»31 dovuta alla riorganizzazione del thema e dei principali centri e/o kastra
dell’isola (Siracusa, Lentini, Catania, Cefalù, Enna, Butera e Ragusa)32 e al ripopolamento
di alcuni insediamenti rurali (choria)33. Il limes interno del thema sarebbe da individuare
nella valle del fiume Platani e dai kastra che lo presidiano (fra cui si citano il Kassar di
Castronovo di Sicilia e la fortificazione del Monte Conca)34.
È in questa chiave che andrebbero interpretati, dunque, la conquista islamica della
Sicilia e il diverso fenomeno di islamizzazione documentato nelle due parti dell’isola 35 .
Inoltre, per quel che riguarda il Kastron Hennae, le recenti ricerche archeologiche
condotte in contrada Santa Ninfa nei pressi della Rocca di Cerere hanno rivelato un
cambiamento insediativo sostanziale frutto dei cambiamenti storici relativi alla conquista
islamica della Sicilia: qui infatti la funzione cultuale ininterrotta dall’età greca fino a
quella proto-bizantina trova una brusca cesura in età tardo-bizantina; a questo periodo
sono relative le tracce del processo di fortificazione in risposta all’assedio perpetuato
da ‘Abbas ibn al-Fadòl: un muro di fortificazione taglia, infatti, l’edificio di culto
precedente36. In seguito alla conquista islamica l’area fu adibita ad area di produzione
fino al XIII secolo per essere poi utilizzata solo a scopo agricolo37.
È in questo contesto che è possibile inserire l’epigrafe in arabo del monte Altesina,
uno dei pochi esempi epigrafici in situ al di fuori del contesto siciliano occidentale38 di
cui si offre di seguito una proposta di lettura.
NEF – PRIGENT 2006, 16. Per la Sicilia bizantina si veda anche SANTAGATI 2012.
ARCIFA 2013.
29
ARCIFA 2010, 120. Si vedano anche i diversi contributi in ARCIFA – SGARLATA 2020.
30
ARCIFA 2013, 162-163.
31
Eadem, 167.
32
Eadem, 166-167. Si vedano anche i diversi contributi in ARCIFA – SGARLATA 2020.
33
ARCIFA 2015. Si veda anche VALBRUZZI 2017, 103-104.
34
ARCIFA 2013, 168-169. Si veda anche VASSALLO 2020.
35
Eadem, 170-174.
36
GIANNITRAPANI – V ALBRUZZI 2015, 11-12; GIANNITRAPANI – NICOLETTI – V ALBRUZZI 2020.
37
Iidem: 14-15.
38
Si veda anche LABISI 2018.
27
28
41
GIUSEPPE LABISI
L’epigrafe in arabo
L’epigrafe in arabo riporta una professione di fede o shahâda ed è scolpita direttamente
sulla roccia (solco di 0,5 cm). Il suo stato di conservazione è discreto, in alcune parti
lacunoso. L’iscrizione, situata 78 cm a sud dell’ingresso della tomba a camera, è lunga
112 cm, l’altezza media delle lettere è di 8 cm ed è posta su un unico rigo orizzontale, in
posizione leggermente obliqua39 .
Di seguito la traslitterazione del testo:
lâ ‘ilâh ‘ilâ Allâh
Muhammad
rasûl Allâh
Figura 4. La traslitterazione del testo.
42
IL MONTE ALTESINA NEL CONTESTO DELLA CONQUISTA ISLAMICA DELLA SICILIA
Figura 5. Il testo in arabo (particolare della figura 3).
Traduzione: “Non vi è altro Dio che Allâh, Muhammad è il Profeta di Allâh”.
L’epigrafe è realizzata in cufico semplice con labili tracce di apicature e sono assenti
segni diacritici o riempitivi di campo. Le lacune e le imprecisioni dell’epigrafe sono
dovute con ogni probabilità all’erosione della roccia e non ad errori ortografici commessi
dall’esecutore, come nel caso di ‘ilâh o della lam finale di Rasûl.
Sebbene l’epigrafe in arabo del monte Altesina sia in alcune parti lacunosa, non è del
tutto improbabile suggerire una datazione al IX secolo per confronto paleografico; infatti,
è molto interessante il confronto paleografico fra il gruppo lâm-alif e la parola Muhammad
dell’epigrafe dell’Altesina con le stesse parole e lettere riportate nel dirham di Ziyâdat
Allâh I dell’835 coniato in Sicilia40 e nei sigilli in piombo aghlabidi rinvenuti nell’isola41,
nello specifico con un sigillo dell’871-2 rinvenuto a Milocca-Milena42. Tuttavia, si rendono
necessari ulteriori studi specialistici utili alla datazione dell’epigrafe.
Contesto storico e topografico dell’Altesina nel periodo islamico
Come affermato precedentemente, è possibile mettere in relazione l’epigrafe su
menzionata con il contesto della conquista islamica della Sicilia. L’unico episodio relativo
al monte Altesina descritto da una fonte storica riconducibile con certezza al periodo
islamico è narrato nel Kitâb al-bayân al-mughrib fî âkhbâr mulûk al-Andalus wa’l-Maghrib
(1312) di Abû l-’Abbâs Ahmad ibn Muhammad ibn ‘Idhârî al-Marrâkushî (†1321):
“Nel [A.H.] 241 [855-6] […] ‘Abbâs ibn al-Fal […] rimase tre mesi su di un
monte inconquistabile43 colpendo tutti i giorni intorno ad Enna (Yânah) [e qui
i musulmani] uccidevano e depredavano44“ (traduzione G. Labisi).
39
Le prime parole dell’iscrizione sono situate infatti a 189,5 cm dal livello del suolo, l’ultima a 178 cm
dal livello del suolo.
40
DE LUCA 2014, 80-81 e n. 2; 2018, 6-7.
41
DE LUCA 2003, 239-241 e 252-256; 2012°, 11 e Figura 4; 2012b, 289-292.
42
BALOG 1979; DE LUCA 2003, 254 (S5); 2012b, 290-291 e foto 5a. Per le epigrafi aghlabidi si veda
anche ABDELJOUAD 2018.
43
Amari traduce mâni’ con «elevato» (AMARI 1881, II, 11); considerando la topografia del monte, si
preferisce tradurre il termine con «inconquistabile» (cfr. STEINGASS 1884, s.v. mâni¿, mana¿at).
44
Dal Kitâb al-bayân in AMARI 1988, I (rist.), 412.
43
GIUSEPPE LABISI
Figura 6. La rocca di Enna vista dalla sommità del monte Altesina (G. Labisi, 2020)
M. Amari associa il monte inconquistabile45 all’Altesina, distante «poco più di otto
miglia» da Enna (Figura 6), essendo l’unico monte a poter corrispondere alla descrizione
di Ibn ‘Idhârî. Sempre secondo Amari da questa montagna ‘Abbâs «o altro condottiero,
immaginò la divisione della Sicilia in tre valli, come poi si chiamarono»46.
Il monte Altesina è stato infatti uno dei centri geografici dei tre valli fino al XIX
secolo47. La presenza di un’iscrizione in arabo sul monte Altesina, probabilmente databile
al IX secolo, può essere riconducibile al contesto storico descritto nel Kitâb al-bayân:
non è del tutto improbabile ipotizzare, infatti, la realizzazione dell’epigrafe durante il
periodo di occupazione dell’Altesina da parte di ‘Abbâs ibn al-Fal e della sua armata.
Inoltre, la strategia di assedio di Enna da parte dell’armata di ‘Abbâs ibn al-Fal
sembrerebbe rientrare nel famoso topos riportato nella Sîra (la vita del Profeta
Muhammad): «andate e distruggete. Rompete tutto quanto è in pietra e muratura e
bruciate quanto vi è di legno»48. Tuttavia, al di là dei topoi letterari è probabile che
quanto riportato in Ibn ‘Idhârî rifletta quanto realmente accaduto a Enna e al suo territorio
nella metà del IX secolo. Infatti, le caratteristiche topografiche e difensive della città la
rendono inespugnabile e conquistabile solo attraverso assedi e stratagemmi, come quello
riportato – anche in questo caso – nel topos enfaticamente descritto dall’Amari49. Inoltre,
l’occupazione del monte Altesina consentì a ‘Abbâs e al suo esercito di poter conquistare
le principali rocche dell’area50, anche a causa del saldo controllo del territorio raggiunto
O elevato.
AMARI 1988, I, 326.
47
AMICO 1855, 108-109. Si vedano anche EPIFANIO 1938; BRESC 1992, 323-324; SANTAGATI 2012, 254.
È interessante notare come secondo quest’ultimo la suddivisione in valli della Sicilia (avente più una
connotazione geografica che amministrativa) possa risalire al periodo bizantino e derivare dalla suddivisione
della turma del thema di Sicilia in tre drungoi (Idem, 110-111).
48
IBN HISHÂM 1999, 529-530; si veda anche VANOLI 2012, 71-72.
49
AMARI 1988, I, 329-332. Sin dall’inizio della conquista islamica dell’isola le armate musulmane
posero sotto assedio Enna, caposaldo della resistenza bizantina (si veda anche SANTAGATI 2012, 221-222,
237-238)
50
SANTAGATI 2013, 132.
45
46
44
IL MONTE ALTESINA NEL CONTESTO DELLA CONQUISTA ISLAMICA DELLA SICILIA
già nei decenni precedenti51.
Ad ogni modo, la conquista di Enna e l’assedio dal monte Altesina sono stati il
preambolo per la conquista delle città e delle principali roccaforti della Sicilia52. Inoltre,
come ha giustamente notato l’Amari, dal monte Altesina ‘Abbâs ibn al-Fal poté:
«abbracciare con lo sguardo la configurazione del paese; notar le principali
catene di montagne; affissare su questa e quell’altra vetta le fortezze non
espugnate per anco, e giù le ubertose pianure ove fosse far preda»53.
L’analisi di intervisibilità fra l’insediamento del monte Altesina e quelli presenti nel
territorio circostante, considerando un raggio medio di 15 km (Figura 7) 54, rivela, infatti,
che dalla cima dell’Altesina è possibile controllare visivamente tutti gli insediamenti
documentati archeologicamente nell’area. Il calcolo di intervisibilità fra i punti cospicui
del territorio rivela il rapporto territoriale, storico e geografico fra le fortezze di Enna55,
Calascibetta56, Tavi57, Assoro58, Agira59, Nicosia60 e Sperlinga61.
Il controllo sulle pianure e sugli insediamenti aperti, così come citato da Ibn ‘Idhâri,
è inoltre notevole, come, ad esempio, per l’insediamento di contrada Canalotto62. È
interessante notare come l’insediamento del monte Altesina avesse una funzione di rilievo
anche nelle epoche precedenti a quella medievale: l’analisi di intervisibilità rivela infatti
che dall’insediamento dell’Altesina fossero visibili gli insediamenti di Realmese63 ,
Malpasso64, Polizzello, Serra del Vento65, monte Alburchia66, S. Agata67, Montagna di
Nissoria68.
L’occupazione del monte Altesina nel periodo della conquista islamica si inserisce,
inoltre, nel contesto topografico legato al controllo della viabilità. Occupando, infatti,
l’Altesina, ‘Abbâs e la sua armata poterono sfruttare e controllare la ricca rete di strade
intersecantesi in quest’area. Una delle strade più antiche è “la via interna da Alesa ad
Enna e Finzia”, databile almeno al periodo di Gerone II. Secondo G. Uggeri una delle
Si veda, ad esempio, SANTAGATI 2012, 240-255
VANOLI 2012, 77-78. Nonostante la morte del generale ‘Abbâs nell’861 (METCALFE 2009, 25).
53
AMARI 1988, I, 326.
54
Tale analisi è stata effettuata in collaborazione con il dott. Maurizio Bombace che gentilmente
ringrazio.
55
BEJOR – D’AGATA 1989; BONANNO 2013b; BONANNO – GUZZARDI – CANZONIERI 2020.
56
ALBANESE PROCELLI 1986; MAURICI 1992, 260.
57
MAURICI 1992, 375 e bibliografia relativa.
58
BEJOR – M OREL 1984.
59
BEJOR 1984; PATANÈ 1989; MAURICI 1992, 363.
60
MAURICI 1992, 335; SCIBONA 1993.
61
MAURICI 1992, 191-192 e 372; VALBRUZZI 2013.
62
AMATA 2001; GIANNITRAPANI 2013.
63
ALBANESE PROCELLI 1982; GIANNITRAPANI 2013.
64
ALBANESE PROCELLI 1992; AA.VV. Da Malpasso a Calcarella 2001.
65
BURGIO 2012 e bibliografia relativa.
66
TUSA 1992; CUCCO 2016.
67
BONANNO 2013a, 43-44.
68
BUSCEMI FELICI 2004.
51
52
45
GIUSEPPE LABISI
mulattiere citate da Cicerone, attraverso la quale il «frumentum Hennenses metiantur
vel Phintiam vel Halaesam vel Catinam, loca inter se maxime diversa, eodem die quo
iusseris deportabunt»69 passava 3 km a ovest del monte Altesina per la Portella
Malamogliera e le contrade Pietrelunghe, Magalufo, fino a Malpasso70.
Un’altra arteria importante che passava non molto distante dall’insediamento del
monte Altesina è la via interna Catania – Termini: secondo G. Uggeri l’arteria passava
per le contrade Parisi, S. Benedetto e Mistri71, 8 km a sud dell’Altesina. L’insediamento
del monte Altesina ricopriva, dunque, un ruolo di controllo importante sulla viabilità
interna dell’isola. Per quel che riguarda i periodi post-classici, lo stesso G. Uggeri ha
ipotizzato come la viabilità della Sicilia classica non sia stata abbandonata in età
medievale, ma riutilizzata e integrata nei sistemi territoriali delle varie epoche72 .
L’insediamento islamico del monte Altesina si situa, dunque, a controllo della viabilità
storica, confermando quindi quanto riportato da Ibn ‘Idhârî: dal monte inconquistabile
i musulmani poterono assediare Enna e gli altri kastra controllando un territorio strategico
e cruciale per la conquista dell’isola.
Figura 7. Analisi di intervisibilità fra il monte Altesina e i siti e le alture circostanti (M. Bombace, 2019).
69
70
CIC. II Verr. III, 83, 192.
UGGERI 2004, 279-282; per la viabilità in Sicilia in età bizantina si veda anche SANTAGATI 2012, 159-
162.
71
72
Idem, 249-250.
Idem, 287-296; si vedano anche ARCIFA 2005; SANTAGATI 2013.
46
IL MONTE ALTESINA NEL CONTESTO DELLA CONQUISTA ISLAMICA DELLA SICILIA
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50
IL “CAMMINO” DI ANTONIO DA PADOVA (1221) E MESSINA IN ETÀ SVEVA (1194-1266)
LUCIANO CATALIOTO*
Prima di entrare nel merito dell’intervento e descrivere Messina in Età sveva, pare
opportuno riferire alcune notizie, purtroppo poco documentate, relative al passaggio
dalla città dello Stretto di sant’Antonio da Padova e all’ordine francescano, che qui lo
avrebbe accolto per un breve periodo, nella primavera del 1221.
Sappiamo che all’inizio della primavera 1221 Antonio, partito dal Marocco, dove si
trovava dall’autunno dell’anno precedente, fu sospinto dai forti venti sul promontorio
milazzese in Sicilia1, sebbene il tradizionale approdo a Capo Milazzo non sia provato e
venga da altri individuato a Taormina o Cefalù2. Tra inizio marzo e fine aprile 1221
Antonio sarebbe comunque giunto a Messina3, da dove avrebbe intrapreso un viaggio
sino ad Assisi4, per partecipare al Capitolo generale dei Minori che si sarebbe aperto il
30 maggio 12215.
Nelle settimane successive Antonio si sarebbe incamminato dall’estremo lembo
meridionale della Calabria, percorrendo la via che conduceva ab Regio ad Capuam6,
ovvero la via Popillia (Popilia), che in età alto-medievale era “l’unica strada consolare
esistente lungo la costa tirrenica”7. Appare rilevante per la ricostruzione del coevo
cammino di Antonio come proprio Federico II, incoronato il 22 novembre 1220 a Roma
da papa Onorio III e passando poi da Cassino (14 dicembre 1220), Capua, Napoli e la
Capitanata, percorresse in quegli stessi giorni ed in senso inverso lo stesso tragitto del
frate lungo la via Popillia, per giungere in Sicilia nel maggio 12218.
* Università di Messina.
1
G. ABATE, La «vita prima» di S. Antonio, in «Il Santo», anno VIII, Padova 1968, cap. 6, par. 5, pp.
127-78.
2
I. C AVALLAR O , Antonio, l’uomo d el sì, in «Presenze antoniane», apr. 2012 (http://www.
santodeimiracoli.org/).
3
A. CALLEBAUT, Saint Antoine de Padou. Recherches sur ses trente premieres annees. Notes, Discussions
et Documents, in «Archivum Franciscanum Historicum», Anno XXIV (1931), pp. 441-94.
4
V. GAMBOSO, Vita di Sant’Antonio, in Messaggero di Sant’Antonio, Padova 2004 e ABATE, La vita
prima, cit., cap. 6, prf. 6).
5
P. VOLPE, Valutazioni e questioni preliminari intorno alla proposta del Cammino di Sant’Antonio
Capo Milazzo-Assisi-Padova, Padova 2018, p. 16, che peraltro (ivi, p. 54) sintetizza una cronologia
dell’insediamento francescano peloritano in relazione alla presenza di Antonio, dalla chiesetta di San
Leone ad “un conventino poco discosto da Messina” (GAMBOSO, Vita, cit.), nei pressi del torrente Boccetta.
6
W.R. SHEPERD, Historical Atlas, Henry Holt and Company, New York 1923.
7
P. DALENA, Strade e percorsi nel mezzogiorno d’Italia (secc. VI-XIII), Cosenza 1995 e ID., Percorsi
e ricoveri di pellegrini nel Mezzogiorno medievale in Fra Roma e Gerusalemme nel Medio Evo. Paesaggi
umani ed ambientali del pellegrinaggio meridionale, a cura di M. OLDONI, tomo I, Salerno 2005.
8
G. UGGERI, Da Jesi a Castel Fiorentino. Itinerari e strade in età federiciana in Federico II e l’Italia:
51
LUCIANO CATALIOTO
Sulla base di un’attenta valutazione, Pompeo Volpe descrive in modo convincente
l’itinerario che il Santo avrebbe seguito per giungere dal Capo di Milazzo a Messina,
passando forse dall’hospitale di S. Filippo del Mela e poi lungo la fiumara di Calvaruso,
sino a valicarne la sommità e discendere verso la chiesa di Santa Maria della Valle,
abbazia all’epoca sicuramente attiva, e infine al convento di San Francesco presso il
torrente Boccetta9.
Come conferma Salvatore Tramontana, illustre storico messinese, il primo
insediamento francescano in Sicilia sembra sia stato quello di Messina:
“E se è da scartare la stabilitas loci del 1212, che taluni vorrebbero nella chiesa
già basiliana di S. Leone, sembra quasi certo che nel 1221 Antonio da Padova,
che ritornava dall’Africa, sia stato ospite di un convento francescano del quale
purtroppo sconosciamo il nome. Ma che doveva probabilmente coincidere,
almeno in parte, con lo spazio in cui sorge l’attuale chiesa di San Francesco”10.
A questo proposito, la prima notizia documentata risale al 1240 e si riferisce
all’acquisto del terreno con alcuni stabili dove, nel 1252, i francescani avrebbero avviato
de novo la costruzione della chiesa di San Francesco, consacrata nel 1255 da Alessandro
IV e, allo scorcio del Quattrocento, raffigurata da una fonte iconografica di grande
rilievo, il Cristo in Pietà sorretto da tre Angeli di Antonello da Messina.
Velate da dubbi, d’altra parte, si presentano altre testimonianze, per via di
incongruenze cronologiche e alla luce della rapida diffusione del culto. E’ il caso, ad
esempio, del pozzo presente nel giardino del convento, la cui realizzazione è attribuita
al Santo di Padova, o del mattone che sarebbe intriso del suo sangue, o ancora il
riferimento al convento di San Francesco a Patti, la cui fondazione a opera di Sant’Antonio
di Padova è attestata da una lapide inserita nel portale. Il monastero, in effetti, sarebbe
stato fondato nel periodo compreso tra il 1222 e il 1225 per intervento diretto del Santo
d’Assisi, e presso la sua sede Antonius Paduensis operatus est miracula11.
Sicuramente, come riporta Pompeo Volpe12, “Messina è, agli inizi del XIII secolo, il
punto certo di convergenza di un sistema insulare di itineraria peregrinorum”, ma pure
“il punto di convergenza del sistema viario siciliano e il suo porto era il centro di
percorsi, luoghi, segni e strumenti, a cura del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Comitato
nazionale per le celebrazioni dell’VIII centenario della nascita di Federico II, Roma 1995.
9
VOLPE, Valutazioni, cit., pp. 43 sgg.
10
S. TRAMONTANA, Le Parole, le immagini, la storia, a cura di C. M. RUGOLO, Messina 2012, p. 292, il
quale rileva che a proposito dell’insediamento francescano nell’isola «lo studio più ampio e omogeneo
rimane quello di Giuseppe Leanti, pubblicato nell’ormai lontano 1937», anche se recenti ricerche sono
state condotte dai frati francescani Diego Ciccarelli, Mariano d’Alatri, Luigi Pellegrini e Filippo Rotolo.
11
R. PIRRI, Sicilia sacra disquisitionibus et notitiis illustrata, 3a ediz. a cura di A. MONGITORE e V. M.
AMICO , 2 voll., Panormi [Venezia] 1733 (rist. anast. Sala Bolognese 1987), II, p. 794; cfr. inoltre, R.
MAGISTRI, Il centro storico di Patti, Patti 1992, pp. 153-55. La struttura superstite del convento, ormai
quasi completamente in rovina, risale tuttavia agli inizi del secolo XVII, quando venne profondamente
rimaneggiata per intervento del vescovo Vincenzo Napoli (M. SPADARO, I Nebrodi nel mito e nella storia,
Messina 1993, p. 77).
12
VOLPE, Valutazioni, cit., p. 23.
52
IL “CAMMINO” DI ANTONIO DA PADOVA (1221) E MESSINA IN ETÀ SVEVA (1194-1266)
smistamento dei pellegrini provenienti da ogni parte della Sicilia e diretti a Gerusalemme,
Roma o Santiago”13.
A partire dagli anni Venti del Duecento, tuttavia, quando Antonio transitava da
Messina, l’atteggiamento di Federico II cominciava a farsi ostile nei confronti dei
francescani, accusati di eresia e di comportamenti ribelli, e una certa diffidenza nei loro
confronti era alimentata anche da parte del clero secolare. L’ostilità dello Svevo nei
confronti dell’ordine avrebbe raggiunto il culmine nel 1239, quando egli, come afferma
il cronista Nicolò da Calvi nella sua Vita di Innocenzo IV, “espulse e cacciò dal regno i
frati minori, e di loro alcuni furono torturati e altri passati a fil di spada”14.
E nella cronaca di Riccardo di S. Germano si dice anche che, dal novembre 1240,
tutti i Mendicanti avrebbero abbandonato il Regno per ordine di Federico, lasciando
solo due di loro in ogni convento, per custodirlo15. Tuttavia, fino al 1239 i documenti,
pur nella loro scarsità, parlano tutti a favore di un atteggiamento benevolo di Federico II
nei confronti dei nuovi Ordini. I Predicatori furono protetti e incoraggiati a proseguire
nella loro lotta contro l’eresia, che Federico aveva visto drammaticamente diffondersi
in Lombardia e fin nelle terre della Germania. “I Francescani, assai meno impegnati, in
quegli anni, nella lotta frontale contro l’eresia, pare abbiano attirato meno l’attenzione
imperiale”16 e significativa appare la richiesta di pregare per lui che Federico, nel maggio
del 1236, rivolse all’ordine dei Minori, attraverso la persona del loro ministro generale
Elia da Cortona. Secondo Salimbene da Parma, nella primavera del 1238, il generale
francescano era stato scelto da Gregorio IX, quale suo ambasciatore presso il sovrano
svevo, proprio perché persona grata all’imperatore. E Riccardo di San Germano
testimonia che, alla fine del 1239, Elia fu accolto benevolmente da Federico, che ne
prese apertamente le difese contro il papa. In definitiva, la permanenza e la diffusione
dei Mendicanti nelle terre del regno si spiega, implicitamente, con la concessione da
parte di Innocenzo IV, a Minori e Predicatori, di poter risiedere “ in terris
excommunicatorum et ab eis necessaria ad victum accipere”17.
Ma procediamo per ordine, cercando anzitutto di ricostruire le vicende politiche che
caratterizzarono la vita messinese fra Due e Trecento, ma anche con l’intento di evocare
il clima che si esprimeva all’interno della variegata e pulsante società di quegli anni,
quando Antonio attraversava la città e vi soggiornava18. Gli anni a cavallo tra XII e XIII
13
G. ARLOTTA, Santiago e la Sicilia: pellegrini, cavalieri e confrati in Santiago e l’Italia, Atti del
Convegno internazionale di studi, Perugia, 23-26 maggio 2002, a cura di P. CAUCCI V ON SAUUCKEN, Perugia
2005
14
F. P AGNOTTI, Niccolò da Calvi e la sua vita d’Innocenzo IV con una breve introduzione sulla
istoriografia pontificia dei secoli XIII e XIV, in «Archivio della Società romana di storia patria», XXI
(1898), pp. 76-120.
15
Cfr. Ryccardi de Sancto Germano Chronica priora, a cura di A. GAUDENZI, Napoli 1888, p. 380:
«Fratres Predicatores et Minores omnes de regno exeunt, imperatore mandante, duobus tantum relictis,
qui sunt de regno nativi, in singulis quibusque illorum domibus ad custodiam earundem».
16
G. BARONE , Federico II di Svezia e gli Ordini Mendicanti, in Mélanges de l’Ecole française de
Rome. Moyen-Age, Temps modernes, tome 90, n. 2 (1978), pp. 612 sg.
17
Ivi, p. 616.
18
Nell’esposizione delle vicende di Messina in età sveva si fa riferimento al saggio di L. CATALIOTO,
Messina nei mille anni del Medioevo, in ID ., «Gli occhi dello storico». Strutture e temi del Mediterraneo
53
LUCIANO CATALIOTO
secolo sono segnati dal passaggio della corona del regnum Siciliae dagli Altavilla agli
Hohenstaufen, un avvicendamento la cui drammaticità emerge emblematicamente dalla
Epistola ad Petrum del cronista Ugo Falcando. Messina fu in quegli anni teatro di
avvenimenti tumultuosi, che avrebbero avuto esiti significativi e duraturi all’interno
della struttura demica, incidendo profondamente sulle trasformazioni della società e dei
suoi orientamenti politici19. Dopo la radicale decapitazione della classe dirigente di
etnia greca, prodotta dall’azione di Riccardo Cuor di Leone fra il 1190 e il 119120 ,
avvenne una vera e propria mutazione di natura culturale e antropologica. Si generò,
infatti, un processo di latinizzazione del potere che avrebbe finito per stravolgere l’assetto
della macchina burocratica e la composizione dei suoi quadri. Gli effetti più marcati del
cambiamento si mostrarono nel rafforzamento di un nuovo ceto di maiores civium,
composto da uomini di cultura e di denaro, dal quale furono tenuti lontani gli aristocratici
e gruppi consistenti di mercatores.
Tuttavia, come opportunamente rilevato da Enrico Pispisa21, le esperienze maturate
dalla Città del Faro durante l’Età sveva risentirono della sostanziale differenziazione
degli atteggiamenti assunti di volta in volta dagli Hohenstaufen (Enrico VI, Federico II,
Corrado IV e Manfredi), sebbene non venisse mai meno in seno alla società messinese
la volontà di perpetrare orientamenti tracciati nei precedenti decenni e consolidare alcune
conquiste acquisite sino all’Età di Guglielmo il Buono, quali la costituzione di un solido
ceto amministrativo e la proiezione commerciale del proprio porto nel Mediterraneo e
verso Levante. D’altra parte, che Messina, clavis Siciliae della cronaca malaterriana,
continuasse in Età sveva a gravitare più verso la Calabria e i mercati mediterranei ed
orientali, piuttosto che nell’entroterra siciliano, è suggerito dalla reiterata e rafforzata
definizione di “clavis et custodia totius Siciliae”22 espressa da Saba Malaspina allo
scorcio del Duecento, quando cioè la sede messinese, “quasi in centro positam”
richiamava mercanti e visitatori “a diversis mundi partibus”23.
La centralità di Messina e la vitalità della sua composita e operosa cittadinanza era
emersa sin dalla prima età normanna, quando il Granconte “undecumque terrarum
medievale (XI-XVI sec.), Collana di testi e studi storici «Mare nostrum. Politica, economia, società e
cultura», Edizioni Leonida, Reggio Calabria 2011, vol. IV, pp. 1-53.
19
Epistola ad Petrum Panormitane Ecclesie Thesaurarium de calamitate Sicilie, in S. TRAMONTANA,
Lettera a un tesoriere di Palermo sulla conquista sveva di Sicilia, Palermo 1988, pp. 122-43; si veda
anche ID ., La monarchia normanna e Sveva, Torino 1986, pp. 212 sgg.
20
Si vedano A. R. LEVI, Riccardo Cuor di Leone e la sua dimora in Messina, in «Atti della R. Accademia
Peloritana», XV, 1899-1900, pp. 297-311 e E. ROTA, Il soggiorno di Riccardo Cuor di Leone in Messina
e la sua alleanza con re Tancredi, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», III, 1906, pp. 276-83.
21
E. PISPISA, Messina in età sveva, in ID ., Medioevo meridionale. Studi e ricerche, Messina 1994, pp.
397-411; ID ., Messina e Catania. Relazioni e rapporti con il mondo mediterraneo e l’Europa continentale
nelle età normanna e sveva, in ivi, pp. 323-75.
22
Cioè «chiave e custodia dell’intera Sicilia»: SABA MALASPINA, Rerum sicularum historia: 12501285, in Cronisti e scrittori sincroni napoletani, a cura di G. DEL RE , vol. II, Napoli 1868, p. 341.
23
Nella città zanclea, pertanto, «confluivano viandanti provenienti da tutte le parti del mondo, come se
fosse situata nel suo epicentro»: I Registri della Cancelleria Angioina, ricostruiti da R. FILANGIERI con la
collaborazione degli archivisti napoletani, VIII (1271-1272), Napoli 1957, p. 135.
24
Ivi, p. 78.
54
IL “CAMMINO” DI ANTONIO DA PADOVA (1221) E MESSINA IN ETÀ SVEVA (1194-1266)
artificiosis caementariis conductis”24, aveva dato avvio a un organico programma edilizio
che avrebbe marcato la topografia della città e, inevitabilmente, avrebbe impresso precise
connotazioni a rughe e quartieri.
Innanzi tutto, erano state rafforzate le strutture difensive murarie, che l’anonimo
autore della Epistola ad Petrum definiva una “cerchia di mura rafforzata dalla frequente
presenza di torri”25; fu in seguito realizzato l’arsenale e un grande palatium, che
sicuramente è il “propugnaculum immensae altitudinis” citato da Goffredo Malaterra
ed esemplato da Pietro da Eboli26. Il palazzo comitale e poi regio sorgeva, “bianco come
un colomba”27, di fronte al porto e sarebbe stato ampliato negli anni successivi. Nel
1096 era stata edificata, “cum turribus et diversis possessionibus”28, la prima cattedrale
di Messina, dedicata a San Nicolò e ubicata a poche centinaia di metri dall’attuale Duomo,
sorto a sua volta alla metà del XII secolo29. Presso la foce del torrente Boccetta, accanto
alla sede benedettina di San Giovanni Battista e ad una casa degli Ospedalieri di San
Giovanni di Gerusalemme, già dagli anni Settanta di quel secolo era operativa una
“Grancia, con annesso Ospedale, dove venivano curati specificatamente i pellegrini
che da Messina passavano per andare e tornare dalla Terra Santa, provenienti da tutta
Europa”30.
Un ruolo che fu pure svolto dall’Ospedale dei Templari, sorto nel 1096 presso la
chiesa di S. Marco31, e da quello che i Teutonici fondarono nel 1195 accanto la chiesa di
S. Maria Alemanna. Questo, in sostanza, fu il principale nucleo urbano, delimitato
dall’arsenale, dal quartiere detto Amalfitania e dalla loggia dei genovesi32, attorno al
«[…] murorum etiam ambitum densis turribus circumseptum» UGO FALCANDO , La Historia o Liber
de Regno Sicilie, a cura di G. B. SIRAGUSA, Fonti per la Storia d’Italia pubblicate dall’Istituto Storico
Italiano, Roma 1897, pp. 184 sg.; si veda Epistola ad Petrum, cit., pp. 130 sg.
26
Il palatium, quindi, pare fosse «un edificio difensivo di maestosa altezza»: GOFFREDO M ALATERRA,
De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, a cura di E.
PONTIERI, in Rerum Italicarum Scriptores2, V, Bologna 1927, tomo III, p. 77; PETRUS DE EBULO, Liber ad
honorem Augusti sive de rebus Siculis. Eine Bilderchronik der Stauferzeit aus der Burgerbibliothek Bern,
a cura di T. KÖOLZER e M. STÄHLI, Sigmaringen 1994, tav. XXVI.
27
Secondo la descrizione di Ibn Giubayr, in M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula. Raccolta di testi
arabici che toccano la geografia, la storia, la biografia e la bibliografia della Sicilia, 3 voll., Catania
1982 (rist. anast. dell’edizione Loescher, Torino-Roma 1880-1881), vol. I, pp. 144 sgg.
28
«Munita di torri e dotata di possedimenti terrieri»: GOFFREDO M ALATERRA, De rebus gestis, cit., vol.
V, tomo I, p. 77.
29
G. D I STEFANO, Monumenti della Sicilia normanna, Palermo 1979, pp. 56 sgg. Dopo la consacrazione
della cattedrale di Santa Maria, l’antico duomo, risanato solo in parte nel 1333 grazie alle cento onze
testate dall’arcivescovo Guidotto de Abbiate pro tecto operiendo de plumbo, decadde progressivamente
sino al suo radicale restauro ad opera dell’arcivescovo Pietro Bellorado nel 1506, Si vedano al riguardo C.
D. GALLO, Gli annali della città di Messina, Messina 1879 (rist. anast.: Sala Bolognese 1980), vol. II, pp.
10 e 247; I diplomi della Cattedrale di Messina raccolti da Antonino Amico pubblicati da un codice della
Biblioteca Comunale di Palermo ed illustrati, a cura di R. STARRABBA, Palermo 1888, p. 256; E. PISPISA,
La cattedrale di S. Maria e la città di Messina nel Medioevo, in ID ., Medioevo fridericiano e altri scritti,
Messina 1999, p. 267.
30
G. B RANCATO , La festa di san Giovanni nel tempio dei Gerosolimitani a Messina ricorrendo il
centenario del sisma del 1908, Messina 2010, p. 46.
31
B. CAPONE, Quando in Italia c’erano i Templari. Torino 1981.
32
L. R. MÉNAGER, Les actes latins de S. Maria di Messina: 1103-1250, Palermo 1963, pp. 116 e 135.
25
55
LUCIANO CATALIOTO
quale si andò coagulando la vita sociale ed economica della nova urbs normanna e poi
sveva.
Fortemente interessati alle nuove prospettive commerciali, soprattutto quelle offerte
dal traffico del grano33, furono i mercanti forestieri, innanzi tutto amalfitani (ma in
seguito anche veneziani, genovesi, toscani, provenzali e catalani), richiamati da
agevolazioni fiscali e commerciali entro le mura della città, dove fondarono logge e
fondaci e costituirono i propri quartieri in prossimità del porto34. Gli amalfitani, presenti
nell’isola sin dall’813, si insediarono in un quartiere, l’Amalfitania, che si sviluppò
attorno alla ruga Amalfitanorum, ma il loro rilievo, destinato poi ad ampliarsi in età
angioina 35 , decadde alla fine del XII secolo, quando emersero più attivi operatori
peninsulari, cioè genovesi, pisani e veneziani, tutti insediati più o meno stabilmente
nella Città del Faro con logge e fondaci e fortemente interessati alle rotte orientali36. I
genovesi, che a Messina ebbero un console già nel 116937 e istituirono un flusso bilaterale
continuo con l’isola dalla metà del XII secolo, avrebbero consolidato le proprie posizioni
commerciali soprattutto in età sveva38, come pure gli operatori pisani, i cui rapporti con
i liguri furono sempre caratterizzati da una forte rivalità39. Anche i mercanti veneziani,
seppure frequentatori meno assidui dello scalo peloritano, nella seconda metà del XII
secolo ebbero un fondaco in tarsianatu veteris civitatis, cioè presso l’arsenale della
città vecchia, e fruirono di significative agevolazioni commerciali, soprattutto sotto il
regno di Guglielmo II40.
Dobbiamo inoltre immaginare questi quartieri popolati da una folta schiera di
commercianti, artigiani e contadini provenienti anche dalle terre calabresi, cioè i
33
Significativo il fatto che GOFFREDO M ALATERRA (De rebus gestis, cit., vol. V, tomo I, p. 29) sostenesse
come il centro peloritano «a messe vocabulum trahens, Messana vocata est» («Messina trae la propria
denominazione dal sostantivo ‘messi’»).
34
E. P ISPISA, Stratificazione sociale e potere politico a Messina nel Medioevo, in ID ., Medioevo
meridionale. Studi e ricerche, Messina 1994, pp. 377-96. Si veda, inoltre, R. SABATINO LOPEZ, Storia delle
colonie genovesi nel Mediterraneo, Bologna 1938, pp. 163 sgg.
35
A proposito dell’espansione degli amalfitani, come mercanti, funzionari e “ceto mediano” di Messina
sotto il regno di Carlo I d’Angiò, si veda L. CATALIOTO, La Zecca di Messina e i suoi operatori in età
angioina, in Il Medioevo di Salvatore Tramontana. Memoria e Testimonianze, a cura di P. DALENA, L.
CATALIOTO, A. MACCHIONE, collana «Itineraria. Territorio e insediamenti del Mezzogiorno medievale», vol.
20, Mario Adda Editore, Bari 2017, pp.61-98.
36
D. ABULAFIA, Le due Italie: relazioni economiche fra il Regno normanno di Sicilia e i Comuni
settentrionali, Napoli 1991 (1a ed.: Cambridge 1977); E. PISPISA , Messina nel Trecento. Politica, economia,
società, Messina 1980, ad indicem; D. CICCARELLI, Il tabulario di S. Maria di Malfinò (1093-1337), 2
voll., Messina 1986-1987, vol. I, passim.
37
S. CUSA, I diplomi greci e arabi di Sicilia pubblicati nel testo originale, tradotti ed illustrati, vol. I,
Palermo 1868, p. 359.
38
J. M. L. A. H UILLARD -B REHOLLES, Historia diplomatica Friderici secundi, vol. I, tomo 1, Parigi
1852, pp. 64-7 e PISPISA, Messina nel Trecento, cit., pp. 137 e 295 sgg.
39
Annali Genovesi di Caffaro e de’ suoi continuatori, dal MXCIX al MCCXCIII, vol. I, a cura di L. T.
BELGRANO, Roma 1890, p. 24; Annales Pisani di Bernardo Maragone, in Monumenta Germaniae Historica,
XIX, p. 259; G. CASAPOLLO, Insediamenti pisani in Sicilia (ricerche su documenti inediti del sec. XIII), in
«Helikon», XI-XII, 1971-72, pp. 524-43.
40
G. B. SIRAGUSA, Il regno di Guglielmo I in Sicilia, Palermo 1929, pp. 377 sgg.; E. PONTIERI, Ricerche
sulla crisi della monarchia siciliana nel secolo XIII, Napoli 1950, p. 255.
56
IL “CAMMINO” DI ANTONIO DA PADOVA (1221) E MESSINA IN ETÀ SVEVA (1194-1266)
cosiddetti populares destinati, insieme alla plebs, a comporre il tessuto connettivo
urbano41. Messina, sotto gli svevi, rimase infatti proiettata verso la Calabria, i cui mercati
entrarono tra le mire degli operatori locali e le cui terre costituirono, almeno sino al
Vespro, il naturale sfogo di possidenti e piccoli feudatari peloritani, penalizzati
dall’assenza nell’isola di un retroterra in grado di assicurare agiatezza economica e
prestigio sociale42.
I rapporti commerciali con l’entroterra siciliano furono tenuti in vita dall’episcopato
messinese, sede metropolitica sotto il pontificato di Alessandro III (1159-1181), che
aveva allargato il proprio distretto sino a comprendere le sedi di Catania, Cefalù e LipariPatti43, e dalla capillare penetrazione, soprattutto nel Valdemone, delle sedi basiliane,
espressione, sino al 1190, di una chiara egemonia culturale di tradizione greca44. Di altri
operatori forestieri abbiamo sporadiche indicazioni e della loro presenza entro le mura
di Messina possiamo ricavare solo qualche notizia indiretta, come nel caso degli inglesi,
la cui incidenza commerciale può essere desunta dall’attestazione in età sveva della
ruga Anglicorum45, mentre coloro venuti dall’isola britannica al seguito di Riccardo
Cuor di Leone nel 1190 erano crociati e pellegrini in transito per la Terrasanta.
La presenza di questi operatori forestieri, pertanto, contribuì ad assegnare a Messina
una fisionomia particolare, la connotò cioè come una vera e propria megalopolis “per il
continuo andirivieni di viaggiatori” – annotava il geografo di Ruggero II –, per la
presenza di un arsenale particolarmente attivo e di un porto oltremodo vivace,
un’autentica meraviglia” dove “si raccolgono le grandi navi nonché i viaggiatori e i
mercanti dei più svariati paesi latini e musulmani”46.
E analoga immagine emerge dalle descrizioni di Ibn Giubayr e dello pseudo Ugo
Falcando, i quali, in riferimento agli ultimi anni della dominazione normanna, insistono
sul cosmopolitismo e sul carattere mercantile di Messina, “meta de’ legni che solcano il
mare venendo da tutte le regioni”47, [dove] “il sudiciume e il fetore sono la diretta
conseguenza di transazioni economiche continue e dell’ammassarsi di commercianti
41
E. PISPISA, Aspetti della storia di Messina in età normanna, in ID ., Medioevo Fridericiano, cit., pp.
222 sgg. 42 G. ROMANO, Messina nel Vespro siciliano e nelle relazioni siculo-angioine de’ secoli XIII e XIV
fino all’anno 1372, in «Atti della Regia Accademia Peloritana», XV, 1899-1900, pp. 227 sgg.
43
P. PIERI, La storia di Messina nello sviluppo della sua vita comunale, Messina 1939, p. 32; STARRABBA,
I diplomi della Cattedrale, cit., docc. I-III, VIII, XIV e XV, pp. 1-4, 11 sgg., 20 sgg. e 21-23; L. CATALIOTO,
Il Vescovato di Lipari-Patti in età normanna (1088-1194). Politica, economia, società in una sede
monastico-episcopale della Sicilia, Collana di testi e studi storici fondata da Carmelo Trasselli e diretta da
Salvatore Tramontana, vol. 12, Editore Intilla, Messina 2007, passim.
44
Si vedano, soprattutto, M. SCADUTO, Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale, Roma 1982
a
(1 ed. 1947) e C. A. GARUFI, Per la storia dei monasteri di Sicilia nel tempo normanno, in «Archivio
storico siciliano», VI, 1940 e anche L. C ATALIOTO , Monachesimo greco e Chiesa latina nella Sicilia
normanna: laboratorio culturale e sperimentazione politica, in «Religion in the History of European
Culture», Messina, 14-17 settembre 2009, Biblioteca Francescana - Officina di studi medievali, Palermo
2013, vol. 16, pp. 1-18.
45
D. CICCARELLI, Il Tabulario di S. Maria di Malfinò, 2 vol., Messina 1986-87, pp. 37-39.
46
IDRISI, Il libro di Ruggero, tradotto e annotato da U. RIZZITANO, Palermo 1966, p. 41 sg.
47
UGO FALCANDO , La Historia, cit., pp. 138, 144, 147 sgg. e 155. Si veda, inoltre, AMARI, Biblioteca,
cit., vol. I, pp. 144 sgg.
57
LUCIANO CATALIOTO
venuti da ogni dove”48. Oggi non rimane traccia di quell’impianto urbano, sicuramente
stravolto già dal violento sisma che si abbatté sulla Sicilia Orientale nel 1169, quando
“apud Messanam etiam maximus et manifestus terre motus fuit”49, e definitivamente
cancellato dai catastrofici eventi del 1783, del 1908 e dell’ultimo conflitto mondiale50.
Ma tornando alle delicate fasi dell’affermazione sveva nella Città dello Stretto, Enrico
VI, che in essa aveva trovato un solido sostegno alla sua azione politica, mostrò di avere
“particolarmente a cuore i ceti dirigenti ed i mercanti di Messina, i quali potevano
offrire un aiuto decisivo”51: giunto a Messina nell’ottobre 1194, lo Svevo, attraverso
una serie di provvedimenti normativi adottati tra il 1194 e il 1197, riordinò le competenze
dello stratigoto e dei giudici, le cui cariche furono escluse dal meccanismo dell’appalto
per divenire prerogativa regia. Allo stesso tempo intraprese un’opera di razionalizzazione
amministrativa che tese a risaltare la centralità del ceto burocratico nella gestione urbana,
consentendo ai gruppi amministrativi della città di assumere consistente autonomia
commerciale e di emergere anche sotto il profilo economico52. In questo breve lasso di
tempo, giunti al seguito di Enrico VI, si insediavano a Messina gli Ospitalieri teutonici,
presso la Chiesa di Santa Maria degli Alemanni. Anche la regina Costanza non fece
mancare la sua protezione alla cittadinanza messinese, confermando nel 1198 le
concessioni di Enrico, e proseguendo a favorire il centro peloritano anche negli anni
della reggenza del giovane Federico. Intorno al 1220 l’etnia latina controllava ormai
completamente i gangli amministrativi e giudiziari, il clero regolare era eminentemente
benedettino e sicuramente l’isola era interessata da un flusso di francescani i quali,
come afferma il vescovo di Acri Giacomo di Vitry53 , nel 1216 erano propagati nel
Mezzogiorno e in Sicilia. Intanto il ceto mercantile, composto soprattutto da operatori
forestieri, continuava a godere di notevoli esenzioni e privilegi, generando un benessere
diffuso presso tutte le componenti della società.
Questa felice stagione dei nuovi emergenti, tuttavia, fu di breve durata, interrotta
dagli indirizzi normativi, fortemente restrittivi delle libertates mercantili e delle
autonomie urbane, che Federico II aveva assunto con le assise di Messina e di Capua del
1220 e avrebbe ribadito con più vigore nelle Constitutiones melfitane del 123154. Sebbene
PISPISA, Aspetti della storia di Messina, cit., p. 227.
UGO FALCANDO, La Historia, cit., p. 144.
50
Sulle vicende di Messina in Età normanna e sveva si vedano, in particolare: S. TRAMONTANA, Messina
normanna, in «Nuovi annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina», 1, 1983, pp. 629-40;
PISPISA, Aspetti della storia di Messina, cit., pp. 221-38; ID ., Messina medievale. Uno sguardo d’insieme,
in ID ., Medioevo Fridericiano, cit., pp. 195-220; ID ., Messina medievale, Galatina 1996.
51
PISPISA, Messina in età sveva, cit., p. 399.
52
Capitoli e privilegi di Messina, a cura di C. GIARDINA, Messina 1937, pp. 21-30; I Privilegi di
Messina e di Trapani (1160-1355) con un’appendice sui consolati trapanesi nel sec. XV, a cura di C.
TRASSELLI, Messina 1992 (1a ed.: Palermo 1949), pp. 28 sgg.
53
Lettera di Giacomo da Vitry scritta a Genova nel 1216, in H. BÖHMER, Analekten zur Geschichte des
Franciscus von Assisi, Tübingen und Leipzig 1904, pp. 94-101, e G. GOLUBOVICH, Biblioteca biobibliografica
della Terra Santa e dell’Oriente francescano, s. IV: Studi, Roma 1954, I, pp. 5 sg. Edizione critica di R. B.
C. HUYGENS, Lettres de Jacques de Vitry, Edition critique, Leiden 1960, pp. 71-78.
54
Gli effetti dell’azione fridericiana sul nuovo assetto della società messinese sono estesamente esaminati
da TRAMONTANA, La monarchia, cit., pp. 244-57.
48
49
58
IL “CAMMINO” DI ANTONIO DA PADOVA (1221) E MESSINA IN ETÀ SVEVA (1194-1266)
la città mantenesse di fatto molte franchigie e, per via dell’abolizione delle zecche di
Amalfi e Palermo, ricevesse, assieme a Brindisi, un notevole impulso per il suo atélier,
nel giro di un decennio vide frammentato e svuotato di contenuti il proprio apparato
burocratico, svilita la capacità d’azione della sua curia stratigoziale sottoposta al rigido
controllo regio. Ma, soprattutto, si ritrovò privata di consistenti prerogative commerciali,
che negli anni precedenti avevano garantito un benessere esteso anche ai gruppi meno
abbienti della cittadinanza.
Nel malcontento che tali misure alimentarono presso ampi strati della società,
soprattutto in seno al ceto mercantile, sono da ricercare le cause della rivolta che nel
1232 esplose a Messina, estendendosi presto in molti centri della Sicilia Orientale, e
che fu orchestrata, oltre che dal ceto mercantile, anche dagli ambienti feudali. La rivolta
fu soffocata nel sangue dalla durissima reazione dello Staufer, che fece giustiziare il
capo del moto messinese, Martino Mallone (Bellone), insieme a molti altri, ma che non
si rivolse contro il ceto burocratico, per il quale si aprivano nuove prospettive di ascesa
grazie al drastico incremento degli uffici e delle connesse attività. Cominciò così ad
emergere un ceto di maiores civium composto da uomini di cultura e uomini di denaro,
un gruppo alquanto omogeneo di funzionari-amministratori che comprendeva anche
judices, magistri, notai, portolani, secreti e, almeno a partire dal 1230, “delegati preposti
alla vigilanza annonaria, stretti da giuramento alla retta esecuzione della delicata
funzione, e detti perciò giurati”55.
In questo senso, nell’ultimo quindicennio dell’Età sveva il ceto burocratico ampliò
le proprie competenze e si rafforzò, dal momento che l’assenza di controllo centrale
negli anni di Manfredi e la politica largheggiante di Corrado IV in materia mercantile
avevano fatto sì che i centri urbani si impadronissero “della sfera amministrativa a loro
delegata dai conti e dai maggiori baroni, i quali dominavano saldamente ogni parte del
Regnum, strumentalizzando a proprio vantaggio gli uffici regi”56.
Il baronaggio, infatti, ebbe agio di emergere solo dopo la scomparsa di Federico II,
sotto il cui dominio le forze nobiliari non erano state messe in condizione di esprimere
le proprie velleità egemoniche, e Messina, per un breve periodo (1251-1255), fu in
mano al feudatario calabrese Pietro Ruffo che, in opposizione a Manfredi e in ossequio
al papato, assunse il vicariato in Sicilia e Calabria57. Il contrasto tra il conte di Catanzaro
e Manfredi consentì momentaneamente al ceto dei populares di emergere, sotto la guida
del messinese Leonardo Aldigerio, e di tentare una singolare esperienza comunale “more
civitatum Lombardiae et Tusciae”58, la costituzione cioè di “una federazione di città
subordinata al fascino cupo della Chiesa e alla spirale della sua logica politica, e che
Bartolomeo da Neocastro, con felice espressione, chiamò repubblica di vanità”59.
PIERI, La storia di Messina, cit., p. 78.
E. PISPISA, Il regno di Manfredi. Proposte di interpretazione, Messina 1991, p. 402.
57
Sull’azione di Pietro Ruffo si veda E. PONTIERI, Ricerche sulla crisi della monarchia siciliana nel
secolo XIII, Napoli 1950, pp. 5-128.
58
Assumendo, quindi, come modello gli ordinamenti dei Comuni lombardi e toscani: N ICCOLO D I
JAMSILLA, Historia, in RIS2, vol. VIII, col. 579; si veda anche E. PISPISA, Nicolò di Jamsilla. Un intellettuale
alla corte di Manfredi, Soveria Mannelli, 1984.
59
S. TRAMONTANA, La Sicilia dall’insediamento normanno al Vespro (1061-1282), in AA. V V., Storia
55
56
59
LUCIANO CATALIOTO
Soffocata nel nascere dall’azione di Manfredi e avversata dalle forze feudali legate
al sovrano, tale sperimentazione autonomistica si mostrò ambigua e disorganica, in ultima
analisi effimera e sostanzialmente diversa dal fenomeno, apparentemente analogo, che
all’indomani del Vespro avrebbe portato Messina alla costituzione di una Communitas
Sicilie. La quale, però, non fu espressione dei ceti mediani e subalterni, ma fu orchestrata
in modo strumentale da un compatto gruppo di milites e grandi feudatari, i quali avrebbero
aperto le porte della città a Pietro III d’Aragona60.
Nell’Età di Manfredi, pertanto, le redini del potere economico furono nelle mani dei
ceti burocratici e dei milites, ai quali è possibile accomunare proprietari terrieri e ricchi
possidenti impegnati in spregiudicate transazioni immobiliari, ma soprattutto una folta
schiera di cives che al potere politico aggiungevano il prestigio culturale e la cui
rinomanza si sarebbe estesa ben oltre l’ambito locale, grazie all’attività del cosiddetto
laboratorio messinese. Questo si collegò alla Scuola poetica siciliana in modo originale,
perché espressione delle esperienze culturali della classe burocratica e non di un vivaio
di corte omologato e impersonale, ma anche perché il ceto dirigente peloritano, attraverso
l’impegno di questi funzionari/poeti, si accostò “ad un patrimonio letterario che si estende
alla letteratura in lingua d’oïl e ad altri apporti”61. E a questo proposito, occorre rilevare
come la felice stagione culturale attraversata da Messina nel XIII secolo lasciasse
un’impronta profonda anche grazie all’azione della Chiesa, anch’essa espressione dei
ceti emergenti, nei cui scriptoria operarono traduttori dal greco e dall’arabo di grande
spessore culturale, come Bartolomeo e Stefano da Messina, e la cui produzione figurativa
attinse risultati di rilievo nel panorama artistico europeo62.
In definitiva, possiamo affermare che, nel corso dell’Età sveva, Messina maturò una
serie di esperienze attraverso i rapporti di volta in volta instaurati con il potere regio,
passando dalla breve stagione di Enrico VI ai lunghi anni della politica fridericiana. La
prima Età fu caratterizzata dal rafforzamento della curia stratigoziale e da una maggiore
liberalizzazione delle attività mercantili; la politica di Federico, invece, svilì il governo
della città con un rigido controllo burocratico degli uffici e un drastico ridimensionamento
di qualsiasi forma di autonomia amministrativa e commerciale, sia urbana che feudale.
Sotto il dominio di Corrado IV e Manfredi, e nelle episodiche espressioni di forme di
governo alternative, la società messinese si evolse attorno a tre poli ben definiti, cioè la
della Sicilia, 10 voll., Napoli 1980, vol. III, p. 279.
60
Cfr. E. DUPRÉ THESEIDER, Alcuni aspetti della questione del Vespro, Messina 1954, L. GENUARDI, Il
comune nel Medioevo in Sicilia: contributo alla storia del diritto amministrativo, Palermo 1921, pp. 120
sgg. e E. PISPISA, Il problema storico del Vespro, in «Archivio storico messinese», XXXVIII, 1980, pp. 5782.
61
Occorre quantomeno menzionare, in questo milieu di burocrati-scrittori messinesi, Ruggero d’Amici,
Guido e Odo delle Colonne, Rosso di Messina, i fratelli Stefano, Bartolomeo e Jacopo Mostacci, Stefano
di Protonotaro, Mazzeo di Riccio, Bartolomeo e Tommaso de Sasso, il filosofo Teodoro (PISPISA, Messina
in età sveva, cit., pp. 404 e 409 sgg.). Si veda, inoltre, G. LIPARI, Per una storia della cultura letteraria a
Messina dagli Svevi alla rivolta antispagnola del 1674-78, in «Archivio storico messinese», XL, 1982,
pp. 68-79.
62
P. SANTUCCI, La produzione figurativa in Sicilia dalla fine del XII secolo alla metà del XIV, in AA.
VV., Storia della Sicilia, cit., vol. V, pp. 143 sgg.
60
IL “CAMMINO” DI ANTONIO DA PADOVA (1221) E MESSINA IN ETÀ SVEVA (1194-1266)
Chiesa, i mercanti stranieri e il ceto burocratico, intorno al quale si muovevano gli
interessi dei milites e di alcuni proprietari terrieri. L’incontro di queste forze, che produsse
nell’immediato l’affermazione di un gruppo rinnovato e ancora alquanto indistinto di
maiores civitatis, avrebbe dato frutti più maturi nel lungo termine e, pertanto, in questa
prospettiva possiamo affermare che Messina visse in Età sveva “una serie di decisive
esperienze che prepararono quel profilo di centro dominato da amministratori/affaristi,
che la città avrebbe pienamente assunto nel secolo seguente”63.
Messina nel Medioevo
63
PISPISA, Messina in età sveva, cit., p. 201.
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UGO FALCANDO, La Historia o Liber de Regno Sicilie, a cura di G. B. SIRAGUSA, Fonti
per la Storia d’Italia pubblicate dall’Istituto Storico Italiano, Roma 1897.
P. VOLPE, Valutazioni e questioni preliminari intorno alla proposta del Cammino di
Sant’Antonio Capo Milazzo - Assisi - Padova, Padova 2018.
65
66
DA OCCHIOLÀ
A
GRAMMICHELE:
PER UNA STORIA RELIGIOSA E DELLA CHIESA LOCALE
RAFFAELE MANDUCA*
Nel caso della storia religiosa di Grammichele, per molti versi per la storia cittadina
toutcourt, risulta difficile anche una semplice ricostruzione delle linee generali del
vissuto comunitario a causa della penuria di materiale archivistico e di studi editi
cui fare riferimento. Oltre alle preziose ma rare indicazioni di Giovanni
Gianformaggio ed a quelle, ancora più scarne, di Francesco Vacirca ci si trova di
fronte uno spazio rarefatto, nonostante alcuni lavori di spessore diverso, usciti a partire
dalla fine del ‘900 abbiano cominciato a colmare qualche vuoto. Manca soprattutto un
intenso accesso agli archivi e a una documentazione di prima mano nel quadro di un
questionario utile a orientare le ricerche. Le poche riflessioni che seguono non
intendono, di conseguenza, ricostruitre compiutamente il panorama religioso
cittadino; più modestamente tenterò di mettere a fuoco alcune problematiche,
abbozzando qualche pista di ricerca da seguire per tentare di fare luce su un versante
tanto importante nella vita di questa comunità1.
La prima domanda da porre mi pare relativa ai termini, alle affinità e alle diversità,
con cui la vicenda religiosa informa il vissuto locale, a Occhiolà e poi a Grammichele.
* Università di Messina.
1
F. VACIRCA, Grammichele, Tifeo Edizioni, Catania 1893, G. GIANFORMAGGIO , Occhiolà, Giannotta,
Catania 1928. Dagli anni ottanta hanno visto la luce diversi lavori soprattutto di studiosi locali in cui oltre
alla ricerca documentaria forte appare la dimensione del ricordo personale e della testimonianza cfr., G.
ROTA, Il Tumulto della Milizia urbana in Grammichele (7-10 febbraio), CUECM, Catania 1980; AA.VV,
Elementi per una storia del popolo di Grammichele e di Sicilia, Edizioni Pro-Loco Grammichele,
Grammichele (Ct), 1985 (ristampa 1988), LAROMICHECCALE, Ramicheli. La storia di lu ma paisi, Catania
1989; G. ALTAMORE, Anni di lotta, Cuecm Catania 1990; A. AMATO, Occhiolà. Indagine tra memorie storiche
e tradizione, Libro Italiano, Ragusa, 2001; N. MERLINI, Da Occhiolà a Grammichele. Quattro passi nella
storia per meglio conoscere la città, s.l., 2008; ID ., Le suore Vincenziane a Grammichele, in F. DI GRANDE
(a cura di), Presenza e opere delle Figlie della Carità nella diocesi di Caltagirone, Silvio De Pasquale
editore, Caltagirone (CT), 2012; S. SCACCIANTE, Chiese di Grammichele. Storia, arte e tradizioni religiose,
Grafiche Cosentino, Caltagirone (CT), 2010; ID ., Matrice San Michele Arcangelo e prime chiese di
Grammichele. Storia, arte, tradizioni, Grafiche Cosentino, Caltagirone (CT), 2012; ID., La chiesa viva di
Grammichele. Vescovi, presbiteri, religiosi e laici in azione, Grafiche Cosentino Editrice, Caltagirone
(CT) 2017; G. PALERMO, La città perfetta. Carlo Maria Carafa e Grammichele, 1693-1711. Le origini,
Caltagirone, 2011; S. GANDOLFO, Da Occhiolà a Grammichele. Fasti e misfatti, Bonfirraro, Barrafranca
(EN), 2014; Id., Carlo Maria Carafa ambasciatore e legislatore, Bonfirraro, Barrafrance (EN), 2019; S.
AMATO , Il Cristo alla Colonna di Grammichele, Puntostampe, Caltagirone (Ct), 2015. M. INZIRILLO ,
L’esagono Magico. Nuovi elementi per una storia del popolo di Grammichele e di Sicilia, Massimo
“Totò” Inzirillo editore, Grammichele (CT), 2017; P. MEDICO, Una donazione senza tempo. Fondazione
Giuseppe Umana Giandinoto, s.l. s.d.
67
RAFFAELE MANDUCA
A questo propostito va subito assunta la difficoltà di individuare a tutt’oggi il principio
dell’intera vicenda civile della città. Occhiolà, infatti, non viene menzionata nella bolla
di fondazione della diocesi di Siracusa del 1093, circostanza questa che induce a
propendere per l’assenza di un insediamento degno di nota in quel tempo. Solo nel 1298
si ha un primo accenno al castello e casale di Chila concesso, assieme al mero e misto
impero, da Giacomo d’Aragona a Fulcone Barresi. Privilegio questo, confermato dal
vicario Roberto d’Angiò il 10 settembre 1299 e da re Carlo II d’Angiò il 16 febbraio
dell’anno successivo. Sembra però che lo stesso Fulcone non abbia mai preso
possesso del suo feudo2.
Anche se, ancora nel 1310, il casale manca dalle Rationes Decimarum Siciliae, la
Descriptio feudorum del 1335 attesta, per il feudo di Alvila, un ricavo di 50 onze a
favore del miles Leo di Santo Stefano senior3. Nel 1347 Leone (residente a Mineo nel
1345), viene individuato da altre fonti come barone del castello di Kila (Occhialà); lo
stesso varrà per Enrico di Santo Stefano (barone di Alchila 1366-67)4. Questa famiglia,
originaria della Lombardia e legata alla potente dinastia dei Chiaromonte, terrà così il
castello con il casale per tutto il Trecento, fino a quando saranno confiscati a Leone di
Santo Stefano junior in seguito alla sua ribellione contro re Martino: il castro sarebbe
così stato assegnato a Giovanni Crudillis (Cruyllas) il 25 gennaio 13985.
Questo stato di cose dura però solo fino al 12 ottobre dello stesso anno quando
Occhiolà pervenne, per scambio, a Calcerando Santapau (mentre a Giovanni Cruyllas
andavano il castello e la terra di Monforte, vicino Messina) dopo la sua rinuncia alla
terra di Vizzini rivendicata dal re al suo demanio; passaggi questi sanzionati dal
Parlamento di Siracusa nello stesso anno. Da allora Occhiolà entrò per oltre un secolo
nell’orbita di questa schiatta di origini catalane venuta in Sicilia al seguito dei Martini.
Precisamente la signoria fu appannaggio del ramo cadetto col secondogenito Raimondo,
2
M. AMARI, Storia del vespro siciliano, 1969, I, 526; I. MIRAZITA, Documenti relativi all’epoca del
Vespro tratti dai manoscritti di Domenico Schiavo della Biblioteca comunale di Palermo, Assessorato ai
Beni Culturali, Biblioteca Comunale, Palermo 1983, 112). Ma ora cfr., A. MARRONE , Repertorio della
feudalità siciliana (1282-1390), 1. Mediterranea. Ricerche storiche; Quaderni, Palermo 2006, p. 76 n.96.
Altri anticipano al 1282 il primo accenno al castello «Il sito eÌ citato come Alchila in un documento
inviato dal re Pietro d’Aragona al Giustiziere del Val di Noto (1282) e come UcchialaÌ in un capitolo di
re Martino (1398)», Atlante Sicilia p. 126, in http://www.carlomarullodicondojanni.net/pubblicazioni/
Libri%20Rotary/Atlante%20città%20murate/IMPAGI%20%20SICILIA%20.pdf che si rifà a AA. V V .,
Grammichele, suppl. a «Kalòs. Luoghi di Sicilia», n. 2, anno 10, 1998 e AA. VV., Grammichele. Il parco
archeologico di Occhiolà e la valle dei Margi, Catania 2000.
3
Il dominus miles Leone di Santo Stefano, abitante a Caccamo, sarebbe il 14 febbraio 1305 e il 5
marzo 1305 procuratore della foresta della Curia chiamata Bagheria. Nel 1345 risulta domiciliato a Mineo,
corrisponde l’adoa per 6 cavalli armati (pari a onze 120) mentre il 26 aprile 1347 la figlia Elisabetta dello
stesso barone del castello Kila (Occhialà) e di Agata, risulta da poco sposata col milite Giacomo Lamia.
Ultimo signore del castello di Alvila (o Aquila) appartenente a questa famiglia fu Leo de Santo Stefano jr.
cui furono confiscati casale e castro per la sua ribellione contro re Martino che li assegnò a Giovanni
Crudillis il 25 gennaio 1398, A. MARRONE, Repertorio della feudalità …, cit., pp. 383-384.
3
Archivio di Stato di Palermo, As. Pa., Notai, Enrico De Citella, 56 N, 19v-20v.
4
Ivi, p. 384.
5
As. Pa, Archivio Trabia, Storia scritturale dello Stato e Signoria della Città di Grammichele, ff.4v5r.
68
DA OCCHIOLÀ A GRAMMICHELE: PER UNA STORIA RELIGIOSA E DELLA CHIESA LOCALE
che il 20 agosto del 1453
otteneva la conferma del suo
dominio su Occhiolà da re
Alfonso d’Aragona, dopo
essere stato nominato da
Calcerando erede particolare degli stati e dei beni
siciliani6 .
Dalla fine del ‘500 Occhiolà è interessata da altri
movimenti ereditari: da un
lato i Branciforte conti di
Mazzarino, in seguito al
Resti del castello di Occhiolà
matrimonio di Ponzio Santapau (che avrebbe acquistato il mero e misto imperio su tutti i suoi stati, compresa la
terra di Occhiolà il 4 agosto 1522 per 800 ducati d’oro) con donna Isabella figlia del
conte Branciforti e sua cugina di III grado, poi i Barresi, cui era andata in sposa donna
Dorotea Zunica, investita degli stati dei Santapau dopo la morte senza figli dello zio don
Francesco Santapau nel 1590.
Alla morte di Dorotea (1591) la baronia passò così a don Fabrizio Branciforte, figlio
di primo letto con Giovanni conte di Mazzarino; da questo momento la famiglia terrà gli
stati fino alla seconda metà del seicento quando giungeranno al ramo calabrese dei
Carafa, cui apparteneva quel Carlo Maria fondatore di Grammichele, che prese possesso
dei beni lasciati dal principe di Butera Giuseppe Branciforti, il 22 aprile 1675 e se ne
investì il 4 aprile dell’anno successivo7.
Nel XVI secolo le informazioni sulla piccola baronia dei Santapau cominciano ad essere
più precise, in particolare per le istituzioni ecclesiastiche disponiamo delle visite pastorali,
documentazione sempre più ricca a partire dal Concilio di Trento, che danno l’occasione ai
vescovi di constatare lo stato materiale delle strutture ecclesiastiche e forniscono pure
riferimenti sull’osservanza dei sacri canoni e sulla pratica del vissuto religioso.
6
Giuseppe Branciforti si era investito dei beni il 18 settembre 1661 tramite il procuratore sostituto
don Antonino Sinatra (il procuratore principale del principe era don Lionardo Brancasi). Probabilmente si
tratta dello stesso Antonino (morto nel 1663) investitosi del feudo di Camemi, con giurisdizione alta e
bassa, il 15 dicembre del 1659 dopo averlo comprato dal Deputato regio alla vendita per istanza dei
creditori di don pietro Bellia Ruffino cui il feudo apparteneva. F. SAN MARTINO D E SPUCCHEES, M. GREGORIO,
La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni, Scuola Tip. Boccone
del Povero, Palermo 1925, II pp. 127-128; Francesco Maria Emanuele e Gaetani Marchese di Villabianca,
Della Sicilia nobile, Stamperia de’ Santi Apostoli, Palermo, MDCCLIX, II p. 304.
7
Le visite di Occhiolà e poi di Grammichele, sono conservate presso l’Archivio Storico dell’arcidiocesi
di Siracusa, cui appartenevano fino al 1816 anno di erezione della diocesi di Caltagirone. Essendo lo
stesso archivio ancora non totalmente inventariato qui rinvierò al fondo e all’anno della visita.
8
Per i templi segnalati a questa data (1614) il vescovo ordina di collocare le croci in tutti gli altari
evidenziando una preoccupazione di normalizzazione del culto tutta tridentina. Monsignor Asdrubale
Termini, nell’ottobre del 1696, troverà il crocifisso nell’altare maggiore della matrice dove, nel frattempo,
era stata eretta una nuova ara dedicata a santa Maria dei Miracoli.
69
RAFFAELE MANDUCA
Una delle prime relazioni su Occhiolà, quella del vescovo Giovanni Orosco de Arzes
nel 1567, restituisce una struttura religiosa estremamente semplice, in un centro abitato
8
popolato, secondo i riveli del 1569, da 1390 anime : la chiesa madre di san Nicolò, ha
due rettori cappellani per la somministrazione dell’Eucaristia, mentre all’interno del
tempio si trovano alcuni altari (santa Maria della Grazia, santa Maria del Soccorso,
santa Maria di Monserrato) che testimoniano il peso della devozionalità mariana nel
territorio.
Agli inizi del seicento il panorama edilizio religioso restituito dalle visite diventa
più articolato mentre anche i Riveli attestano un certo incremento demografico che
porta la terra a 1699 abitanti nel 1616. Nella visita di due anni prima il vescovo Giovanni
Torres de Osorio ordina di rifare il quadro della Madonna del Soccorso nella chiesa
madre, dove troviamo i nuovi altari dedicati a santa Caterina, san Francesco, al SS.
Sacramento e alla Madonna del Carmine: un’iconografia, come si vede, che rimanda a
un accoglimento di importanti paradigmi cristologici espressioni della coeva spinta
tridentino-controriformista e di conferma della precedente traccia devozionale mariana.
Nel caso di santa Caterina, inoltre, l’accenno del vescovo potrebbe fare ipotizzare
una sua esaltazione a compatrona di Occhiolà proprio fra la seconda metà del Cinquecento
e i primi anni del Seicento. Il visitatore riconosceva, inoltre, la cura con cui erano tenute
le strutture fisiche degli edifici religiosi come l’altare maggiore ben ornato della chiesa
madre; rispetto al ‘500, si registra, invece, un solo cappellano per la somministrazione
dei sacramenti, con altri quattro sacerdoti abilitati alle confessioni: indizio forse di una
qualche stabilizzazione della cura di cui, allo stato delle ricerche, non vi è alcuna notizia.
Oltre la madrice viene visitata la chiesa di san Leonardo, già sede di una confraternita,
il che farebbe pensare a un’origine tardo cinquecentesca dello stesso sodalizio i cui
primi capitoli pervenutici sarebbero stati stabiliti nel 1659. Anche questo tempio vanta
altari ben ornati, ma manca di rendite stabili e vive solo dell’elemosina dei confrati. Fra
i suoi giugali uno stendardo di damasco ricamato d’oro, tre crocifissi, un’effige di
sant’Antonio, una della Madonna, altre due raffiguranti sant’Orsola e san Mercurio,
martiri della chiesa delle origini, oltre a una campana del peso di due cantara circa.
Nell’altro tempio di pertinenza di una confraternita, lo Spirito Santo, nei cui arredi sacri
spicca il rosso, si celebrava una messa quotidiana sempre con le elemosine dei confrati.
Ancora adesso la documentazione non ha traccia di altri templi, se non quelli di
santa Maria delle Grazie e santa Venera entrambi senza alcun reddito, possibile segno
questo a una loro origine non tanto remota ma che, comunque, avvalora l’impressione
Il caseggiato e la chiesa erano di proprietà del signore di Occhiolà, principe di Butera. Fino al 1946,
secondo la testimonianza di padre Giuseppe Altamore, rettore dello stesso santuario nella prima metà del
novecento, veniva custodita in chiesa una piccola campana, rubata proprio in quest’anno, dove era riportata
la scritta 1514 Madonna di lu Chianu. Per Gianformaggio, Occhiolà …, cit. p. 76, la data di fondazione
sarebbe quella del 1580. Secondo una relazione inviata al vescovo di Caltagirone il 10 febbraio 1935
«Nella campana piccola esistente attualmente nel campanile della Chiesa (rotta da tanto tempo) si legge
+ Santa Maria di lo Chiano. Don Antonuzzo di Polizzi 1581», Il documento sta in Archivio Santuario S.ta
Maria del Piano, cfr. M. P ENNISI, Il Santuario di Santa Maria Maggiore del Piano. Cenni Storici, pro
manuscripto. Sempre questa fonte, dove vengono riportati pure i nomi degli eremiti, fa cenno a un Breve
pontificio di papa Leone X al vescovo di Siracusa del 12 luglio 1515 sulla erezione della stessa chiesa.
8
70
DA OCCHIOLÀ A GRAMMICHELE: PER UNA STORIA RELIGIOSA E DELLA CHIESA LOCALE
della debolezza dell’impianto ecclesiastico
9
ancora ai primi del Seicento . La visita non
riporta nessuna altra indicazione neppure
sull’eremitorio di santa Maria Maggiore del
Piano di cui alcuni attestano la presenza dal
10
1514 o, almeno, dal 1580 . Qui vivevano
degli eremiti laici che assistevano ed
ospitavano i viandanti, promuovendo il
culto della Madonna. La presenza di altri
due piccoli romitori, quello della chiesa
della Croce, chiamato del Calvario (con due
eremiti nel 1780) e Santa Maria di Valverde
rilevabili anche da una xilografia a volo
d’uccello del centro di Occhiolà, di cui però
non vi è datazione certa e, anzi,
probabilmente posteriore al terremoto del
1693, appare però probabile nel corso della
prima metà del seicento11.
In questi anni appare anche l’unico
Stemma della città di Grammichele
istituto regolare presente ad Occhiolà, e poi
a Grammichele fino alla prima metà dell’ottocento, quel convento degli osservanti annesso alla chiesa sotto il titolo di santa Maria delle Grazie- fondato il 14 febbraio del
1634 da don Pietro Angelo Interlandi con una rendita di 60 scudi l’anno per servire alle
spese del tempio e al mantenimento del chiostro. Nel 1650, epoca dell’inchiesta ordinata
da papa Innocenzo X sui cosiddetti conventini l’edificio era ancora in costruzione e
ospitava 4 sacerdoti, un laico e un terziario mentre la chiesetta aveva quattro altari. Le
sue entrate per 225 ducati e le uscite pari a 145, rinviano a una condizione positiva che,
a giudicare dal saldo delle presenze nel 1696, immediatamente dopo il terremoto (14 fra
preti, laici e terziari), ha dovuto registrare un qualche sviluppo favorevole nel corso del
12
seicento .
Per il resto l’immagine della comunità grammichelese restituita da questi primi, scarni,
resoconti dei vescovi mette in evidenza alcune inosservanze dei canoni tridentini, del
P. MAGNANO, L’eremitismo irregolare nella diocesi di Siracusa, Siracusa 1983.
S. CUCINOTTA, Popolo e clero in Sicilia nella dialettica socio religiosa fra cinque-seicento, Edizioni
Storiche Siciliane, Messina 1986, p. 457.
11
Rimando solo al pioneristico lavoro per il Val di Noto di LILIANE D UFOUR, La reconstruction religieuse
de la Sicile après le séisme de 1693. Une approche des rapports entre histoire urbaine et vie religieuse,
«Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge-Temps Modernes» 93/2, (1981), 525-563.
12
Pianta del numero delle Anime del Regno di Sicilia delle Chiese …, ms. della Biblioteca Comunale
di Palermo, Qq H36; altro esemplare in Archivio di Stato di Palermo, fondo Notarbartolo di Villarosa b.
28. Per un’analisi dei dati relativi alla totalità del regno di Sicilia mi permetto di rinviare a R. MANDUCA,
Le chiese lo spazio gli uomini. Istitutuzioni ecclesiastiche e clero nella Sicilia moderna, Sciascia,
Caltanissetta-Roma 2009. Vi sono poi 13 regolari, 8 nel convento di san Francesco dei minori osservati e
5 nell’eremitorio del Piano.
9
10
71
RAFFAELE MANDUCA
resto abbastanza comuni per l’epoca. È il caso delle pratiche relative ai matrimoni con
la stipulazione dei contratti fatta, a volte, nonostante i promessi sposi non raggiungessero
il limite minino dell’età prescritta di 14 anni per gli uomini e 12 per le donne. Un caso
questo in cui, ad Occhiolà come altrove, i vescovi ribadivano con forza il dovere dei
sacerdoti di considerare nulle ipso facto le unioni.
Il passaggio dalla vecchia alla nuova città permette di riflettere sulle modalità e i
tempi della ricostruzione religiosa connettendoli alle più generali dinamiche di
strutturazione del nuovo spazio urbano esagonale13. Occorre intanto notare il persistere
di una continuità immateriale espressa dalle titolazioni degli edifici sacri, tutti ricostruiti,
ma anche l’importante novità del passaggio da san Nicola a san Michele nella titolazione
del tempio principale di cui dà conto la visita pastorale del 1696. Il rinvio all’evento
tellurico dell’11 gennaio pare inevitabile; oltre la funzione di protezione dai terremoti,
depone infatti in questo senso, la seconda giornata di festa (la prima è il 29 settembre)
dedicata a Grammichele all’arcangelo proprio nel giorno della catastrofe del 1693 (11
gennaio).
L’altro interrogativo verte sulle logiche della collocazione nel nuovo tessuto urbano
delle chiese per capire, intanto, quanto la stessa esiguità dell’apparato edilizio dipendesse
dalla preoccupazione di un uomo come il Carafa, tanto partecipe del clima culturale,
teologico e morale, della Riforma cattolica in cui era presente pure il riferimento a una
razionalizzazione del servizio ecclesiastico: finalità assolutamente coerente con la
presenza a Grammichele di una sola chiesa per ciascun quartiere. E comunque, a questo
proposito, va sottolineata la lentezza nell’edificazione dei templi, il loro rimanere tutto
sommato confusi con un orizzonte urbano modesto che trova un naturale correlato nella
stessa intelaiatura beneficiale: una struttura fragile espressione di una società debole e
di un potere feudale forse più distante dopo la morte del fondatore.
Alcuni altri indizi depongono in questo senso: nel 1734, secondo la Pianta delle
chiese siciliane redatta dal duca di Villarosa sotto il governo della dinastia borbonica
appena insediatasi sul trono dell’isola, il centro (4.287 anime) ha un beneficio curato
parrocchiale, nella madrice ancora in costruzione, con circa 60 onze dai frutti di stola,
oltre a 25 cappellanie e legati di messe di pertinenza di diversi jus patronati laicali che
garantiscono al clero rendite per più di 90 onze. Anche lo spessore del personale
ecclesiastico secolare, 14 sacerdoti e 11 chierici, mette in evidenza una qualche rarità
dell’apparato relativo al servizio della chiesa locale; il rapporto di 1 ecclesiastico ogni
171,5 laici (proporzione ai nostri giorni enorme cui corrisponderebbe la presenza di 7679 fra preti, diaconi, suddiaconi e chierici per un centro di circa 13.000 abitanti), non è,
infatti, minimamente comparabile sia con la media della diocesi di Siracusa, cui
Grammichele apparteneva fino al 1816 (quasi un ecclesiastico ogni 71 abitanti), né con
quella, ancora più impressionante, dell’intera isola dove, in questi anni, ci sarebbe poco
14
meno di un chierico ogni 56 abitanti .
La fine dei lavori viene variamente fissata fra gli anni sessanta e gli anni novanta del settecento dai
diversi autori.
14
Si accusavano il sacerdote Giuseppe Vaccaro e suo fratello don Salvatore, di aver trafugato una
somma di 3.000 onze alle stesse ignoranti sorelle Velardita.
13
72
DA OCCHIOLÀ A GRAMMICHELE: PER UNA STORIA RELIGIOSA E DELLA CHIESA LOCALE
Le visite pastorali successive, come quella di Francesco Testa del 19 agosto 1749
(ora il paese ha 4822 anime), segnalano il persistere di difficoltà nella ricostruzione
della matrice; dopo il lodevole entusiasmo iniziale l’edificio sarà così completato solo
15
nella seconda metà del Settecento . L’ordinario ricorda inoltre al parroco di esercitare
un controllo costante, soprattuto riguado il viatico, mentre emergono pure delle
irregolarità nell’amministrazione dell’opera di beneficenza istituita col legato del barone
Sinatra, famiglia cui appartiene anche l’unica cappella privata dell’abitato fatta costruire
da don Francesco.
I documenti segnalano, inoltre, a più riprese, interventi disciplinari nei confronti
del clero; è il caso del vescovo Gian Battista Trigona nel corso della nona visita
pastorale del 1798 quando a Grammichele si trovano sette predicatori approvati per la
spiegazione della divina parola. Il prelato richiama, così quei sacerdoti che hanno
cappellanie di 12 onze, ma celebrano messe per otto mesi l’anno solamente nei giorni
feriali, al loro dovere di officiare anche durante le feste. Lo sgomento del vescovo è
invece grande di fronte a una pratica per niente rara nel seicento, per cui alcuni sacerdoti
forse ignorando «le leggi della Chiesa nei giorni di Domenica e festa o altre di
particolare divozione dei fedeli mettono quasi all’incanto la limosina della Messa e
quasi facendo un mercimonio dell’azione più augusta della nostra santa religione»
(20 maggio 1798). Una denuncia riferibile, come ben si comprende, all’uso abbastanza
comune nei momenti di maggiore domanda di messe di aumentare il prezzo del servizio
liturgico stabilito nei sinodi, abitudine questa configurabile come vero e proprio peccato
di simonia.
Nonostante una certa complicazione il panorama clericale locale permane debole
ancora nei primi decenni dell’ottocento, come dimostrano i dati sul clero nel 1832 (27
sacerdoti, 2 diaconi, 4 suddiaconi e 4 chierici) con un aumento in valore assoluto, ma
una ulteriore rarefazione rispetto a una popolazione giunta l’anno prima a 8438 unità. Il
rapporto ecclesiastici/anime, di conseguenza, è pari ora a un secolare ogni 221,8 abitanti,
rispetto a uno su 171,5 di cento anni prima. Una situazione questa in grado, teoricamente,
di favorire ancora speculazioni sulla celebrazione delle messe in presenza di una
15
Il legale della confraternità nel 1834 scriveva all’intendente «Il Marchesino di Casalotto qual
Commissionato della Confraternita della Anime Purganti […] prega a lui Signore di sollecitare il rapporto
relativo alla proibizione della Cappella del SS. Crocifisso che il Parroco in dispezzo della inisteriale
vuole inalzare ed altro […] Concludendo finalmente il supplicante che nella chiesa della detta Confratenita
è stato fissato da un immemorabile un culto ed una festa con privativa su tutte le altre chiese, ed il
parroco volendo rispostare ed avvilire qulla confraternita pretende che in un altare di quello della Matrice
Chiesa ad altre Immagine destinato lo dedicasse al SS. Crocifisso. Ora il governo osservando l’astuzia di
detto parroco ordinò con sua ministeriale di proibirsi l’erezione di tale Cappella». Il patrizio del Senato
di Caltagirone all’Intendente che aveva chiesto chiarimenti, rispondendo 17 febbraio 1834 fa notare come
«per le notizie prese da persone degne di fiducia sono venuto in cognizione che realmente fu eretto nella
matrice Chiesa di detta Comune un altare al Santissimo Crocifisso in opposizione alla ministeriale del
Govero del 30 agosto 1834 (sic). Da parte dei confrati della Chiesa delle Anime Purganti furono avanzate
dei reclami a quel giudice ed a questo Vescovo perchè si demolisse l’Altare con detta immagine creduta di
pregiuditio a quella esistente ed eretta da tempi remoti in detta Confratenita. Il vescovo ne ordinò la
deolizione che fu eseguita ed attualente esiste l’Altare con un piccolo Crocifisso, Il Patrizio Cultrera»,
Archivio di Stato di Catania, b. 3437.
73
RAFFAELE MANDUCA
aumentata richiesta di servizi liturgici, ma comunque in linea con la secolare tendenza
vocazionale nel regno di Sicilia.
Anche l’assenza fino ai primi decenni dell’ottocento di una collegiata depone per un
impianto alto delle strutture ecclesiastiche. L’istituzione si deve a un lascito delle sorelle
Velardita che nel 1820 avrebbero voluto donare i loro beni per istituire un canonicato. Il
progetto però non andò in porto, in seguito al tentativo di raggirare le donne per carpirne
il patrimonio messo in atto da qualche ecclesiastico16. Le sorelle pensarono allora di
donare i loro beni al parroco Gianformaggio per l’acquisto di alcuni mulini su cui si
sarebbe dovuta costituire la rendita della fondazione a favore del clero che, per statuto,
si sarebbe dovuto scegliere per concorso inderogabilmente fra i residenti. Solo nel maggio
1834 si arriverà, pertanto, al riconoscimento della colleggiata da parte di Pio VII; di lì a
poco, comunque l’istituto verrà soppresso in conseguenza delle leggi imposte dal nuovo
stato unitario nella seconda metà del secolo.
La stessa lentezza nella edificazione dei templi sembra pure un naturale correlato di
un’economia marginale che faticava evidentemente a generare surplus da destinare a
questi scopi, oltre quelli che erano venuti dal feudatario, e da qualche altra personalità
locale di spicco, dopo la fondazione del centro abitato. Così anche per il principale
edificio religioso cittadino bisogna aspettare la fine degli anni ‘20 e gli anni ‘30
dell’ottocento perchè il parroco Rosario Fagapane, oltre a fare erigere il fonte battesimale
e la balaustra di ferro che lo custodisce, con la grata che prima cingeva l’altare del SS.
Sacramento, finisse i lavori della terza navata completando pure il pavimento, oggi
perduto, della navata centrale. Allo stesso ecclesiastico si deve pure l’erezione, e per
questo si sarebbe scontrato duramente con i confrati di san Leonardo, della cappella del
Cristo Redentore, con lo scopo di accrescere il culto al Crocifisso, lasciato languire da
un «prete gretto affatto, destitito di ogni scienza sacra», quale il procuratore di san
Leonardo17 .
Riguardo al grande capitolo del vissuto religioso occorre verificarne a Grammichele
le diverse modalità, a partire dal paradigma, ormai storiograficamente tutt’altro che
scontato, di una sua totale derivazione dal sincretismo magico-religioso di matrice
demartiniana, su cui si innesterebbe l’azione ufficiale della Chiesa, definendo una forma
di vera e propria identità culturale subalterna e, per certi versi alternativa: quella della
cosiddetta religiosità popolare alla dottrina e alla morale cattolica.
Certo, anche a Grammichele, non è difficile trovare elementi di una consuetudine
con la magia, e con i suoi operatori, in diverse occasioni ancora in pieno ottocento,
come ci avverte la biografia del pio parroco Fragapane in «aperta e incessante guerra
alle streghe che con le loro arti diaboliche gettavano il germe della discordia nelle
famiglie, e segnatamente nella plebe [...] più facili alle credenze superstiziose». Fenomeni
questi riscontrabili anche nella vicina Caltagirone, spesso denunciati dal clero locale
ma sempre legati a un pulviscolare microcosmo di plebi ignoranti e diseredate che ne
scorgevano soprattutto la funzione utilitaristica e strumentale per l’ottenimento di piccoli
vantaggi. Così sono, per esempio, da leggere le pratiche magiche, ma fortemente intrise
16
17
E. DE AMICIS, La vita militare: bozzetti, Le Monnier, Firenze 1869, pp. 299, 334-335.
N. DE LUCA, La festa della Colomba, «La Siciliana», a. XIV (maggio 1931).
74
DA OCCHIOLÀ A GRAMMICHELE: PER UNA STORIA RELIGIOSA E DELLA CHIESA LOCALE
di un rimando cristologico e mariano di certa medicina alternativa come la cernita de’
viermi o altre, riconducibili ad esigenze terapeutiche di una comunità agricola ricordate
oralmente ancora fino agli anni settanta del novecento: come i giri fatti fare ai muli
intorno alla croce in pietra di fronte la chiesa di santa Maria di Valverde, su cui si
lasciava pure un pezzo della criniera, ritenendo la pratica altamente taumaturgica contro
il mal di pancia degli animali.
In occasione del colera del 1867 queste superstizioni, assieme a un contesto
istituzionale ancora instabile e conflittuale tipico dei primi anni di affermazione dell’unità
statale, arrivarono a fungere da detonatore per l’assassinio di un carabiniere, che si
pensava fosse venuto a Grammichele a spargere il contagio, episodio questo ricordato
da Edmondo De Amicis in Vita Militare18.
Diverso è, invece, il caso di alcune cerimonie collettive, per giunta celebrate in chiesa
e in occasione di feste canonicamente riconosciute, che sembrano attestare un effettivo
deficit del popolo grammichelese nell’acculturazione religiosa rispetto ai parametri
canonici. Uno di questi episodi, dove il parossismo degli astanti sembrava raggiungesse
punte di vera e propria isteria collettiva, era la cosiddetta festa della Colomba che si
svolgeva nella chiesa dello Spirito Santo durante la funzione, con relativa messa cantata,
della domenica di Pentecoste. Eloquente il racconto fattone nei primi del novecento da
un testimone, probabilmente intriso anche di qualche porzione di ideologia positivista
come l’archivista della confraternita di san Leonardo Nicolò De Luca. A un dato momento
si
«”[...] mandava libero un bel piccione bianco, tenuto legato all’altare per
rappresentare nientemeno lo Spirito Santo”. Appena l’uccello cominciava a
svolazzare fra i fedeli questi salivano sulle sedie e scoprivano dei lunghi bastoni
che avevano portato con se e iniziavano a colpirlo. “Il tempio allora diveniva
un inferno, tantopiù che gli spiritati fedeli, per contendersi la preda facevano a
tirarsi l’un l’altro [...] e non di rado anche perchè fatto a bella posta, ne usciva
malconcia qualche testa, d’onde proteste, grida, imprecazioni, colluttazioni
feroci dentro la Chiesa. E intanto la funzione veniva sospesa per un bel pezzo
anche per la curiosità dei buoni officianti”»19
Altre manifestazioni sembrano più consone a una religiosità barocca dove la teatralità
e il gesto rituale diventa anche momento pedagogico per una qualche comprensione del
messaggio e del dogma cattolico; mi pare inquadrabile in questo contesto la festa
dell’Assunta, celebrata sempre nella chiesa dello Spirito Santo. Durante il novenario
l’effige della Madonna, ricavata imbottendo un pezzo di legno ricoperto da una ricca
veste serica con ricami in oro, accoglieva dall’altare a braccia aperte i fedeli che si
prostravano ai suoi piedi. Verso il settimo giorno essa veniva trovata distesa, sull’altare
come un’ammalata e il 15 agosto, giorno della festa, la Vergine era già distesa nel sepolcro.
Nel corso della messa cantata, frequentata da centinaia di fedeli, «[...] riappariva
18
19
ID ., Funzioni spettacolose, ibidem, XIII (Agosto 1930), n. 8.
ID ., U Paliu, ibidem, XIX (Marzo 1931), n. 3.
75
RAFFAELE MANDUCA
lentamente venendo su di dietro l’altare fra lo scampanellio delle campane e il fumo
dell’incenso, sfolgorante di grazia, attaccata a una grande aureola dorata [...] In quei
pochi minuti che l’Assunta impiega (per la “cchianata”) [...] è un pandemonio
indescrivibile: tutti gridano a scuarciagola per tutta la durata dell’assunzione “Viva a
bedda Matri cchiana ncielu, vivaa!”»20.
Alla medesima esaltazione mariana, rimando identitario oltre che momento spinto di
teatralità comunitaria, può essere ascritta la cosiddetta corsa dei nudi, vietata solo nel
XX secolo, dopo l’arrivo nella diocesi di Caltagirone del vescovo lombardo Giovanni
Bargiggia (1927-1937); una manifestazione durante la quale gruppi di uomini in mutande
agghindati con strisce di carta colorate si recavano a piedi scalzi di corsa dalla chiesa
dello Spirito Santo, all’uscita est del paese, alla Madonna del Piano distante circa 3
kilometri: qui, giunti con i piedi sanguinanti, lanciavano verso il quadro della madre di
Cristo mazzetti di fiori gridando Viva Maria.
Fra gli altri festeggiamenti popolari legati a ricorrenze religiose sant’Aloi (sant’Eligio
vescovo), il 16 agosto nella chiesa di san Leonardo, forniva l’occasione per la corsa del
cosiddetto Paliu, cessato nel 1888 in seguito a un incidente occorso a uno degli assistenti.
Si trattava di uno spettacolo che si svolgeva nei pressi dell’abbeveratoio della Portella
la cui particolarità, oltre a vedere concorrere degli asini al posto dei cavalli, consisteva
nel fatto che i concorrenti montavano gli animali degli avversari e vincitore sarebbe
risultato colui che fosse riuscito a fare arrivare, su un traguardo prestabilito, per ultimo
l’asino su cui stava in groppa21.
Oltre a questi momenti di teatrale civicità collettiva, le feste religiose costituivano
anche l’occasione per manifestazioni civili ed economiche di fondamentale rilevanza
nella vita comunitaria. Alcuni eventi del calendario liturgico coincidevano, infatti,
con importanti occasioni di scambi economici come erano le fiere. A Grammichele
nei primi anni ‘20 dell’Ottocento se ne tenevano otto. La prima, con commercio di
ogni sorta di animali, risale a una consuetudine immemorabile, e si celebrava nei
giorni 8, 9 e 10 maggio, in occasione della festività patronale (in un decurionato del
27 gennaio 1821 nel bilancio di previsione si assegnano a tale scopo 60 ducati, in
seguito diminuiti a poco più di 42) “che accade il giorno dell’ultima domenica di
Agosto venturo”.
La seconda, pure antichissima, aveva luogo il quindici (Assunzione) e il sedici di
agosto, innanzi al piano di san Rocco: si trattavano qui canape, lino, canovacci, animali
da cortile e altri generi commestibili. L’ultima domenica di agosto, invece, era riservata
al solo commercio di animali mentre nel mese successivo si svolgevano altri mercati: la
seconda domenica di settembre, in concomitanza con la festa dell’Addolorata, e la terza
domenica di settembre sempre il dopopranzo, con commercio di canape e lini. Di fronte
il convento dei minori si celebrava la festa, con la fiera, dell’Immacolata Concezione,
20
Archivio comunale Grammichele, Corrispondenza, il sindaco F. Cannizzo al sottointendente, 28
febbraio1820.
21
M. ROSA, Settecento religioso. Politica della Ragione e religione del cuore, Marsilio, Venezia 1999;
D. MENOZZI, Sacro Cuore. Un culto tra devozione interiore e restaurazione cristiana della società, Viella,
Roma 2001.
76
DA OCCHIOLÀ A GRAMMICHELE: PER UNA STORIA RELIGIOSA E DELLA CHIESA LOCALE
nei giorni sette e otto di dicembre; qui, oltre agli animali si trattavano canape, lino, ogni
sorta di legumi, frutta, creta e ferro; vi intervenivano pure diversi merceri con museliname
e zagarello oltre ad argentieri e ad altri mercanti locali (queste due ultime fiere
risalirebbero alla fine del XVIII secolo). Altro importante mercato era quello dell’otto
settembre innanzi all’eremitorio del Piano, istituito con un privilegio del principe Carlo
Maria Carafa del 1680.
L’ultima fiera si protraeva dal primo al 12 maggio nella piazza centrale, autorizzata
dal Tribunale del Real Patrimonio il 6 maggio 1801 con «mercato di tutte sorti di
manifatture, concorrendo pannieri, drappieri, mercieri, argentieri, droghieri, galanterie
e tutt’altro»22.
Soprattutto una di queste manifestazioni religiose, anzi la più importante poiché si
tratta della festa dei santi patroni, rende palese come il sacro tracimi all’esterno delle
chiese permeando di se lo spazio laico cittadino. Queste manifestazioni sbrigativamente
ridotte nell’area indistinta e generica della religiosità popolare, sono, in realtà, portatrici
anche di discorsi teologici rilevanti, oltre a valenze politiche significative. Emerge, inoltre,
come le cerimonie fossero tutt’altro che reperti fossili e immutabili rivelandosi come
costruzioni, per certi versi non prive di una loro dinamicità socio-religiosa, dove
sedimentano pure strati devozionali in apparenza incoerenti in una dialettica non scontata
fra nuovo e antico.
Se l’evento tellurico favorisce la sostituzione dell’originaria diade san Nicola - santa
Caterina, nel patronato della terra di Occhiolà, con il primo che cede il posto a san
Michele agli inizi del settecento, sia per volere dei feudatari ma anche perché l’arcangelo
è ritenuto più adatto a proteggere la nuova città dai rischi del terremoto che aveva spazzato
via Occhiolà, la svolta sui termini della celebrazione della festa prodottasi nel 1855
costuisce un segnale importante dal punto di vista sociale oltre che teologico. La
cerimonia infatti, a questa data, si arricchisce con l’ingresso nella processione
dell’Immacolata Concezione che determina pure un maggiore coinvolgimento dello
spazio cittadino periferico nel palcoscenico rituale rispetto al protagonismo esclusivo
del maggiore tempio cittadino.
Il culto dell’Imacolata rinvia inoltre, a parte le sue valenze religiose, a quella
«politicizzazione della devozione», di cui sono protagonisti principali nel corso del
XIX secolo con la Vergine il Sacro Cuore e Cristo Re: pratiche queste care alla
pietà sacer dotale e popolar e dalla valenza f or temente antimoder na e
antirivoluzionaria (elemento quest’ultimo, non a caso, ricordato, con riferimento ai
moti del ’48, anche dal Decurionato grammichelese fra i motivi che giustificano
l’aggiornamento della festa con l’intervento della Madonna), intesa ad avversare il
complessivo processo di secolarizzazione in atto nelle società occidentali con
22
Lo si ricava dal decurionala del 22 febbraio 1855 che in anni ormai assai lontani segnalai a monsignor
Michele Pennisi impegnato a distogliere il vescovo della diocesi di Caltagirone Vincenzo Manzella, dal
proibire la partecipazione dell’Immacolata alla processione patronale come si era fatto nei circa 150 anni
precedenti. Nel documento il civico consesso fissa i nuovi termini del corteo dei santi patroni cui, da
adesso, si aggiungerà la statua dell’Immacolata (festa già celebrata a Gramichele dalla fine del XVIII
secolo).
77
RAFFAELE MANDUCA
l’obbiettivo della ricostruzione di una società cristiana tipico dell’intransigentismo
cattolico ottocentesco23 .
Soprattutto, la processione dei santi patroni, sospetta agli occhi di qualche vescovo
ancora nei primissimi anni del III millennio, per il pericolo che nascondesse
manifestazioni lontane dall’ortodossia cristiana per l’accoppiamento a san Michele
e santa Caterina dell’Immacolata Concezione va, invece, riferita a una scelta politicoamministrativa dentro il puntuale rispetto delle direttive canoniche. Un momento di
ortodossia, quindi, con la diretta osservanza delle indicazioni magisteriali sviluppate
a questo proposito a metà dell’ottocento, il dogma dell’Immacolata Concezione da
pochissimo affermato da Pio IX, che le autorità civili cercano di veicolare nel
momento di massima partecipazione religiosa cittadina, la processione dei patroni
appunto24 .
Altro carattere di alcune feste religiose locali è la loro coincidenza con momenti di
pubblica beneficenza, come la ricorrenza di san Giuseppe il 19 marzo. Il tratto di effettiva
solidarietà comunitaria che in essa veniva manifestato, dava la possibilità a qualche
povero orfanello di gustare concretamente gli effetti del massimo comandamento
cristiano: l’amore per il prossimo, episodi anche questi inquadrabili nel grande fiume
della pedagogia cattolica post-tridentina.
Lo spazio locale non era del resto esente da altri, intensi momenti educativi e di
inculturazione religiosa in cui la partecipazione corale faceva diventare l’intero universo
urbano quasi un palcoscenico di pratiche religiose e atti di devozione. Paradigmatiche,
a questo proposito, le missioni della compagnia di Gesù. Nel corso della prima metà
dell’ottocento Grammichele è teatro di questi eventi almeno in due occasioni; in
particolare nel 1843, a ben 23 anni di distanza dalla precedente loro venuta, i religiosi
avrebbero registrato una risposta popolare entusiastica.
Massiccia l’assistenza alle prediche di giorno come di notte, la gente sarebbe stata
così tanta da non poter trovare interamente asilo nemmeno nella chiesa madre. Di
conseguenza diverse centinaia di persone si sarebbero rinchiuse, in tre ondate
successive, nel convento degli osservanti per fare penitenza e convertirsi. Secondo il
cronista, naturalente interessato ad esaltare positivamente l’azione dei padri, ciò era
«cosa colà inaudita e che fece trasecolare i forestieri d’intorno». Le restituzioni di
beni maltolti non si contarono come pure i «convalidamenti di sacrileghi matrimoni.
Intra li quali altissimo romore per ogni dove menò il fatto d’un principalissimo
personaggio, il quale pervenuto all’età di 70 anni ne aveva passati 30 in pubblico e
pacifico concubinato»25 .
Anche il calendario liturgico locale, assieme a tutta una serie di pratiche devozionali
e catechetiche, mostra, comunque, tutto l’impegno di cui lo spazio locale è fatto carico.
A partire da una documentazione risalente agli anni ‘30 del XIX secolo si possono
evidenziare una varietà di temi da approfondire su altre fonti analitiche che qui mi
A. NARBONE, Missioni sicole della compagnia di Gesù …., cit. Ritengo si faccia riferimento a un
appartenente alla famiglia Gianformaggio che avrebbe sposato una popolana di cognome Amore.
24
As. Pa., Direzione Centrale di Statistica, v. 114, Stato della diocesi di Caltagirone 1833.
25
Fra le feste, quella, in onore di Gesù derubato, per cui vengono destinate 3 onze.
23
78
DA OCCHIOLÀ A GRAMMICHELE: PER UNA STORIA RELIGIOSA E DELLA CHIESA LOCALE
limito solo ad elencare26. Intanto anche a questo riguardo la chiesa madre risulta il fulcro
dell’azione pastoral-sacramentale oltre che catechetica.
Dentro l’unico edificio curato di Grammichele fino al 1783, quando lo Spirito Santo
diverrà sacramentale, oltre l’amministrazione dei sacramenti e la spiegazone del Vangelo
si fa il catechismo, l’esposizione del Divinisimo i giovedì e le terze domeniche, il
Quaresimale e la pratica di vari esercizi spirituali. Inoltre, con le principali solennità
riconducibili al calendario liturgico: Natale, Pasqua, domenica delle Palme, Ascensione
di Cristo, la matrice conferma, come ad Occhiolà, la sua già ricordata valenza mariana
(Maria SS. del Carmine e del Rosario)27.
A sant’Anna si somministra la penitenza e l’eucarista, si fa la benedizione al Divissimo
ogni serà e il catechismo tutte le domeniche. Le feste celebrate sono quelle dedicate alla
titolare del tempio, a san Gioacchino, san Biagio e san Luigi Gonzaga, esempio di quella
santità controriformistica che produsse figure come quelle di Carlo Borromeo, Filippo
Neri, Giuseppe Calasanzio, Francesco Borgia, Pietro Canisio e Roberto Bellarmino,
passando da Teresa d’Avila a Giovanni della Croce, Felice da Cantalice e Camillo de’
Lellis. Un simile indirizzo devozionale verso i santi sembra prevalere ancora allo Spirito
Santo: qui, con le feste di san Francesco di Paola, di san Pietro e Paolo, di san Giovanni
Evangelista troviamo, in occasione dell’Ascensione, quella cerimonia della Colomba,
cui si è già accennato. Alcuni di questi tratti tornano per le feste principali nell’eremo di
santa Maria di Valverde (SS. Nome di Maria, arcangelo Raffaele e sant’Onofrio).
Un apparato di forte impronta cristologica è presente, invece, nella chiesa della
confraternita di san Leonardo: oltre a sant’Antonio di Padova, qui si solennizzano la
domenica dell’infra ottava del Corpus Christi, il venerdì Santo e il primo lunedì di
novembre e i venerdì di marzo. Il Quarant’ore, nel mese di maggio, e l’esposizione del
Divinissimo tutti i venerdì dell’anno e ogni primo lunedì del mese oltre alla benedizione
serale, completano le pratiche di un tempio che può contare su una rendita modesta di
26 onze (10 legate dal barone Sinatra il 31 agosto 1661 per la festa del Crocifisso).
Pure la predicazione sembra essere abbastanza frequente non solo nella chiesa curata
ma anche in un tempio confraternale come san Leonardo dove viene fatta tutte le
domeniche e i venerdì, oltre ai primi lunedì del mese mentre, anche nell’eremo di
Valverde, il prete si rivolge ai fedeli dal pulpito ogni martedì.
Rilevante, ma non eccezionale, appare l’accesso alla pratica liturgico-intercessiva,
tratto questo tipico della religiosità d’antico regime. Nella chiesa madre si celebrano
intorno a cinque servizi al giorno per un totale di 1876 messe lette e 68 cantate l’anno
26
Qualche sodalizio fu anche soppresso negli anni venti dell’ottocento salvo essere poi, di nuovo,
approvato dal governo dopo la revisione degli statuti; le nuove regole, fra l’altro, prevedevano la
contribuzione volontaria per le quote, il divieto della questua fuori dalla chiesa, l’ammissione di donne e
il limite massimo (100 unità) per gli associati. Inoltre le confessioni si sarebbero duvute fare di giorno,
non ci doveva essere obbligo di mantenere il segreto. I nuovi capitoli dello Spirito Santo furono presi “per
la maggior parte” da quelli della confraternita del Purgatorio della terra di Militello, cfr. Archivio di Stato
di Catania., Intendenza, Confraternite e opere pie, b. 3605. A metà degli anni venti nei due sodalizi si
contavano 100 confrati allo Spirito Santo e 82 a San Leonardo, ivi, b. 3605.
27
Le 88,20 onze vengono assegnate dal comune come supplemento di congrua, i proventi del lascito
Gianformaggio sono variabili e dipendono pure dall’andamento dei prezzi.
79
RAFFAELE MANDUCA
mentre a sant’Anna, senza nessun legato o rendita stabile e sole 8 onze di elemosina, le
messe sono 611. Ancora più leggero risulta il patrimonio liturgico nell’eremo di santa
Maria di Valverde, dove le messe sono appena 150 l’anno. Come ad Occhiolà sono, di
conseguenza, soprattutto le confraternite i maggiori serbatoi di questa pratica: a san
Leonardo si superano i 2700 servizi e allo Spirito Santo, chiesa sacramentale dell’altra
confraternita, il loro numero arriva a 242028.
La struttura economica sottesa a tutto l’apparato liturgico, risulta comunque, come
già negli anni trenta del settecento, esile e precaria; persino a san Leonardo, nonostante
le 24 onze di rendite ben 20 provengono da elemosine. Allo Spirito Santo siamo a livelli
ancora più bassi (16 onze) mentre altre 14 arrivano da diversi legati, fra cui le fondazioni
del sacerdote Sebastiano Mammana, di don Francesco Sinagra e del barone Cosmo
Casabene (le ultime due dalle elemosine dei fedeli).
Solo il beneficio curato gode di una certa stabilità: 60 onze dai frutti di due molini
donati dal defunto parroco don Antonino Gianformaggio nel suo testamento del 12 agosto
1830 (notaio Giuseppe Manduca): un cespite questo da cui derivano anche altre 18 onze
per la celebrazione di messe in suffragio dell’anima dello stesso fondatore. Vi sono poi
circa 25 onze per la fabrica della chiesa, mentre altre 40 onze sono ripartite fra 8 cappellani
sacramentali e quattro coristi; tutte somme, assieme alle 88,20 onze a carico del comune,
che costituiscono l’intera rendita della matrice29.
In realtà secondo la relazione che fa il parroco Gianformaggio al decurionato per
chiedere un aumento della congrua il sette luglio 1821, il bilancio del maggiore tempio
cittadino vanta 94 onze di entrate con 48 per surroga di aboliti diritti mortuari in virtù di
una transazione e 46 per decima. A fronte, però, vi sono spese molto superiori; solo il
parroco e i quattro cappellani coadiutori per i sacramenti e i moribondi hanno 66,20 e
32 onze, altre 13 vanno a cinque cappellani coristi e 20 ai tre sacrestani; altre 10 onze al
personale, coristi, cantori e predicatore quaresimale che fanno Natale e altre feste; 4,18
onze al parroco per la messa pro populo e ancora ostie, vino, cera, pulizia e olio santo,
biancheria ornamenti e per oscurare la chiesa due volte l’anno: il sabato della passione
e nel tempo degli esercizi di sant’Ignazio. Infine occorre considerare gli acconci, i
confessionali e altri lavori oltre gli impiegati a Caltagirone, Catania e Palermo per arrivare
a 262,12,10 onze di uscite con uno sbilancio di 168,12,10 onze.
La congrua che il comune doveva alla matrice, come si desume dal decurionale del
22 giugno 1822, era stata stabilita nel 1782-‘83 dal Tribunale del Real Patrimonio nella
misura di 48 onze per il parroco e di 50 onze per la fabbrica della chiesa, la cui
costruzione sarebbe stata ormai «terminata da più anni»; inoltre nel 1817 la «commissione
28
Né mancano le divisioni all’interno del clero da cui occorre partire per studiare anche le fratture fra
famiglie all’interno dei gruppi dirigenti locali. Il 30 ottobre 1820, ad esempio, il decurionato esamina una
supplica del sacerdote don Pasquale Callari, procuratore e il cappellano della chiesa di S. Leonardo, dove
si dice che il parroco Gianformaggio lo aveva citato, il 25 ottobre, per impedirgli di continuare la fabrica
della chiesa poichè essa “induce varie servitù”” sulla matrice “sia di lume che di stillicidio e che impedisce
il libero uso dello scolo delle acque”, chiedendo perfino che si abbattessero o almeno riducessero le
fabbriche di pregiudizio alla chiesa parrocchiale.
29
R. M ANDUCA, La diocesi di Caltagirone nell’inchiesta sui regolari di Sicilia, Il Grano, Messina,
2011.
80
DA OCCHIOLÀ A GRAMMICHELE: PER UNA STORIA RELIGIOSA E DELLA CHIESA LOCALE
stabilita in Palermo» avrebbe assegnato altre 96 onze per i diritti dei morti e per il
mantenimento dei cappellani. In seguito la congrua, con decurionale del 27 ottobre
1839, sarà aumentata a 88,21 onze30.
Riguardo la struttura conventuale, occorre in primo luogo sottolineare il carattere di
lunga durata, da Occhiolà fino alle leggi di soppressione post-unitarie, della presenza
francescana osservante rispetto alla novità, tutto sommato abbastanza recente, del
convento dei Cappuccini, costruito nel 1828 (l’ordine prenderà possesso della casa l’8
dicembre dello stesso anno): uno dei due soli cenobi, l’altro si trova a Ramacca, eretto
nel territorio dell’odierna diocesi di Caltagirone dopo il 1734 da questa famiglia regolare.
La chiesa, donata dalla principessa di Butera era l’antico eremo del Calvario sotto il
titolo dell’Addolorata; il vescovo Trigona che, in primo tempo, avrebbe chiesto la riserva
di un altare, cedette poi il tempio alla sola condizione che i religiosi celebrassero due
messe l’anno nella madrice in occasione delle feste dell’arcangelo Raffaele, il 29
settembre, e di santa Caterina, il 25 novembre. L’edificio ospitava la confraternita
dell’Addolorata, estintasi per la fondazione, ad opera degli stessi religiosi, della
congregazione del Terz’ordine, e un antico quadro che rappresentava la deposizione del
Nazareno e un simulacro del Redentore.
Con la caratterizzazione tutta francescana nelle sue declinazioni più popolari, occorre
sottolineare quanto poco ancora sappiamo della qualità e dell’utilità del clero che viveva
nei conventi grammichelesi. Un’inchiesta, condotta su tutte le case siciliane per desiderio
del papa Pio IX, verso la metà del’800 ci dà alcune indicazioni che andrebbero
approfondite a partire da un lavoro condotto sugli archivi provinciali dei religiosi con
una prospettiva temporale lunga per capire gli influssi dei cenobi sul vissuto socioreligioso locale. Negli anni cinquanta dell’ottocento il vescovo di Caltagirone Benedetto
Denti, cui la Santa Sede aveva demandato il compito di riferire sullo stato dei conventi
della sua diocesi, ritiene che la casa dei Capuccini sia «utilissima agli abitanti, mentre
quei padri si prestano alle confessioni e alla predicazione con sommo zelo ed
edificazione»31. Per gli Osservanti il prelato sostiene una loro «qualche utilità al Paese
per la Predicazione e per le Confessioni, essendo due Padri abilitati per ambi i sessi;
non vi sono disturbi e abusi vi è l’osservanza regolare, non perfetta vita comune, non vi
sono Apostati»32. E tuttavia, Grammichele, non sembra essere, in questo periodo, un
luogo molto fecondo neppure per le vocazioni regolari, come dimostra il fatto che su
201 individui oriundi del calatino degenti nei chiostri della diocesi solo 10 provengono
dalla cittadina esagonale. Interessante è, invece, notare il coinvolgimento del convento
degli osservanti nella rete settaria e liberale durante la Rivoluzione del 1848, nonchè di
religiosi originari di Grammichele, come il frate Gaetano Casabene, apostrofato come
esaltato dalla polizia riguardo il sommovimento rivoluzionario. Un aspetto questo di
Ivi.
Cfr. I lavori di SALVATORE SCACCIANTE alla nota 1.
32
Il regio decreto di approvazione dei capitoli delle Anime purganti trasmesso dall’Intendente il 10
maggio del 1830 si legge in Archivio di Stato di Catania, Intendenza b. 3605. I confrati avevano ratificato
questi capitoli che sarebbero stati stabiliti in Occhiolà fin dall’anno 1659 nel 1828. Come già detto gli
stessi capitoli sarebbero stati per la maggior parte estrapolati da quelli della confraternita del Purgatorio
della terra di Militello.
30
31
81
RAFFAELE MANDUCA
cui la storiografia ha da tempo sottolineato l’importanza in generale per il clero siciliano
e che andrebbe approfondita anche riguardo la cittadina esagonale.
Un capitolo rimasto a lungo completamente sconosciuto riguarda l’arte sacra ad
Occhiolà e Grammichele, non solo in riferimento alle opere collocate nelle chiese del
paese rispetto alle grandi correnti stilistiche italiane e siciliane ma come rimando alle
pratiche religiose e ai modelli devozionali di cui esse sono espressione. La storia
della casa di Dio non può esaurirsi, infatti, nella semplice analisi della sua sola vicenda
fisica, al massimo artistica. I luoghi sacri, gli spazi dedicati al culto, grondano e
rimandano, e questo vale in maniera particolare, ma non esclusiva, per i secoli che si
usa definire di età moderna (XV-XVIII), alle vicende del popolo che quegli stessi
luoghi ha prima edificato, poi riempito e informato, quindi utilizzato e vissuto sia
come spazio teologico, liturgico che anche artistico ed estetico, per cui risulta
indispensabile una loro piena storicizzazione. Ecco perché guardare al patrimonio
fisico delle chiese non può coincidere con un’operazione, tutto sommato scontata, di
classica storia dell’arte che, al massimo, collochi il panorama locale nell’orizzonte
minore di stili e maniere, di autori e committenti. Occorre sforzarsi di vedere altari,
statue e dipinti con gli stessi occhi con cui essi erano visti nei tempi passati, non solo
nei rimandi scontati a quella che si definisce come religiosità popolare: dalle novene
mattutine prima del lavoro nei campi ai digiuni dei venerdì di marzo, dalla tila da
Risuscita alle luminarie di san Giuseppe.
Questi spazi non sono nozioni date una volta per tutte: le chiese costituiscono centri
vivi, soggetti non solo a cambiamenti fisico-edilizi ma continuamente informati,
modificati e vissuti nella liturgia e nelle feste, oltre che attraverso presenze confraternali
e laicali di cui occorre rendere conto in chiave storica e sociale; esse si inseriscono su
un tessuto urbano la cui stessa configurazione, così come fu pensata dal principe fondatore
della nuova città, rinvia a un originario intento di sacralizzazione di stampo
controriformistico tradotto nella divisione urbana in sestrieri con le loro dediche ai
santi protettori.
L’arte religiosa, soprattutto in un piccolo e marginale centro del regno di Sicilia, più
che per la sola valenza estetica, appare dunque una via per andare oltre, a partire dal
carattere di muta predicatio da essa assunto dopo il concilio di Trento. Al di là delle
necessarie attribuzioni e datazioni dei manufatti presenti nelle chiese cittadine: occorre,
di conseguenza, un approfondimento iconografico e, se possibile, anche qualche accenno
iconologico. Si potrà così ripercorrere la storia della veicolazione di quei paradigmi
teologico-liturgici cattolici, rivolti alla moltitudine che gremiva le chiese romane o
palermitane, calatine o grammichelesi. Gli altari, gli affreschi, le statue narrano, infatti,
le modalità con cui il popolo cristiano è stato ammaestrato secondo le linee della grande
opera di evangelizzazione e inculturazione della fede, di cui sono in primo luogo
protagonisti ordini religiosi assieme ai vescovi e al movimento confraternale, che ha
plasmato, soprattutto a partire dalla fine del concilio di Trento a metà cinquecento, tratti
significativi della religiosità siciliana, cui spesso si fa riferimento quasi come a condizioni
ontologiche e senza tempo, sempre nel grande e indistinto calderone della religiosità
popolare.
82
DA OCCHIOLÀ A GRAMMICHELE: PER UNA STORIA RELIGIOSA E DELLA CHIESA LOCALE
Le prime ricognizioni ci consegnano successive sovrapposizioni dei culti non
compatibili, sempre e comunque, con panorami fissi e scontati33. Vi sono templi che
racchiudono il cuore della religiosità locale, non solo perché si configurano in maniera
più spiccata di altri come depositi della memoria da cui si diramano le fila che portano
alle radici profonde, e più antiche, del sentire religioso nella terra di Occhiolà. Questi
spazi, tuttavia, registrano pure alcuni dei fondamentali passaggi della pietà cattolica dal
settecento al novecento.
Nella Matrice convivono così i culti più antichi di santa Lucia, san Nicola e santa
Caterina tutti provenienti da Occhiolà con quelli della Madonna del Carmelo, la cui
festa fu estesa a tutta la Chiesa nel 1726, e della Madonna del Rosario della seconda
metà del settecento, che indicano la partecipazione di Grammichele ai grandi movimenti
della devozionalità cattolica del tempo, mentre di estrema importanza appare il richiamo
a sant’Alfonso de’ Liguori, non solo per il suo ruolo nella formazione della religiosità
popolare in Sicilia e nel Mezzogiorno. Allo stesso modo di rilievo è il posto del maggior
tempio cittadino nell’accoglienza e nell’organizzazione delle principali novità riguardanti
il laicato nel novecento, oltre all’Unione Antiblasfema soprattutto l’Azione Cattolica.
Nell’iconografia presente nella chiesa dell’Immacolata (Santa Maria delle Grazie a
Occhiolà) agli altari e ad altre tele, non a caso spostate in sacrestia, di chiara derivazione
francescana (sant’Antonio di Padova, san Francesco, la Madonna col Bambino), si
aggiungono motivi direttamente riconducibili a una più moderna spiritualità francese e
vincenziana (san Vincenzo de’ Paoli, santa Luisa de Murillac e santa Caterina Labouré).
Allo stesso modo significativo è il passaggio da forme di associazionismo confraternale
di ascendenza bizantina, la Madonna di Odigitria, verso raggruppamenti dedicati a san
Luigi Gonzaga o, ancora, dalla confraternita dell’Addolorata alla congregazione del
terz’Ordine e poi alla confraternita della Passione nella chiesa del Calvario. Segni questi,
che pure raccontano il coinvolgimento nelle coeve forme di religiosità italiane ed europee,
mentre si rafforza anche l’antico segno cristologico con la devozione verso il Cuore di
Gesù e si accolgono nuovi culti come quello della Madonna di Pompei.
Il legame con l’antica Occhiolà, continuamente riproposto anche attraverso i
pellegrinaggi fino ai giorni nostri, si concretizza nell’eremitorio della Madonna del Piano,
che assieme all’altro della Madonna di Valverde e a quello del Calvario, rivelano a
Grammichele il persistere della rete dell’eremitismo irregolare di cui è segnato l’antico
territorio della diocesi di Siracusa. Questa memoria religiosa dello spazio distrutto dal
terremoto del 1693, torna prepotente pure nelle due chiese confraternali dello Spirito
Santo e di san Leonardo, sedi delle confraternite del SS. Sacramento e delle Anime
Purganti34. I templi attestano, ancora, lo spessore cristologico della pietà locale, di cui
sono evidente manifestazione oltre i culti pasquali e il simulacro del Cristo alla colonna
(Spirito Santo), soprattutto quel Crocifisso, traslato dalla chiesa della confraternita di
Occhiolà e conservato a san Leonardo: un polo irrinunciabile del vissuto religioso locale,
almeno dalla seconda metà del seicento quando Antonino Sinatra, diventato barone di
33
Solo di recente è stata proposta una seria attribuzione per quella che si reputa l’opera d’arte più
significativa conservata in città: il Crocifisso di san Leonardo cfr., L. GISMONDO , Il crocifisso di frate
Umile, Bonfirraro, Barrafranca (EN), 2014.
83
RAFFAELE MANDUCA
Camemi (1658), esalta questa devozione con la fondazione della cappella del Crocifisso,
in linea con i comportamenti tipici della nobiltà provinciale tesi a dare alla sua promozione
civile anche una referenza religiosa, senza per questo escluderne una sincera devozione35.
Ma anche qui il passato non è tutto: vi sono infatti altri spazi di devozione in forte
progressione, per esempio verso san Francesco di Paola, che assumerà un’importante
funzione cittadina almeno dai primi dell’ottocento.
Il novecento si sviluppa in parallelo con l’emergere di una presenza religiosa
femminile mai sperimentata prima dallo spazio cittadino. Le Figlie della Carità dell’asilo
Marino dell’istituto di san Vincenzo de’ Paoli, le Salesiane e le Ancelle Riparatrici
rivelano, anche a Grammichele, la forza della spinta delle congregazioni religiose
femminili, che in Sicilia avevano avuto uno sviluppo intenso già dalla seconda metà
dell’ottocento, in questo periodo. Sempre nella prima metà del XX secolo si affermano
poi, con forme diventate classiche di organizzazione del laicato (l’Azione cattolica),
anche rinnovate attestazioni dell’antico legame mariano della città, per esempio la Milizia
dell’Immacolata, fondata a Roma dal padre Massimiliano Maria Kolbe, presente a san
Giuseppe. Le vicende delle tre chiese (san Giuseppe, Gesù Adolescente e Madonna di
Lourdes) di più recente impianto, infine, rimandano allo stretto legame fra struttuzione
ecclesiastica e moderna espansione edilizia cittadina, riproponendone però una certa
debolezza, per esempio nel breve attecchire di esperienze di promozione sacerdotale
come i padri vocazionisti, che lasciano la città nel 1993 appena una trentina d’anni dopo
il loro arrivo. Permane, infine, la capacità delle istituzioni religiose a generare pure
degli apparati prima definiti come caritativo assistenziali passati poi, soprattutto dalla
seconda metà dell’ottocento nella sfera della beneficenza pubblica. A parte alcuni legati
per orfani e maritande o l’opera pia san Giuseppe, altre opportunità non secondarie
nello scarno panorama locale, saranno fornite dall’antico legato Sinatra, tipico lascito
devoto e caritativo della piccola nobiltà provinciale seicentesca, teso a favorire la famiglia
stessa del donante (monacazione, sacro patrimonio o laurea), poi tracimato anche nella
sfera di assistenza per le orfane maritande. Un istituto, per la sua stessa natura prima
che per la sua entità, diventato un luogo di scontro anche fra i discendenti. Ben altrimenti
rilevanti, invece, risulteranno i portati della donazione del decano don Michele Marino
per un ospedale dei poveri o per un istituto di donzelle curato dalle suore di san Vincenzo
de’ Paoli, all’origine dell’istituzione alla fine dell’ottocento dell’asilo infantile (1883).
La maggiore novità in questo panorma verrà però dalla donazione della signora Marianna
Barbuzza a favore delle Figlie di Carità di san Vincenzo de’ Paoli (1857) che, nonostante
l’opposizione della famiglia Fragapane, sfocerà nel 1904 nella trasformazione dell’opera
pia in quell’ospedale Barbuzza che ha costituito l’unica istituzione del genere in paese
fino a tutto il novecento.
84
LE NUOVE GERARCHIE TERRITORIALI E LA
RIVOLUZIONE DEL
1820-21
IN
SICILIA
GIUSEPPE BARONE*
Premessa
Il Bicentenario dei moti del 1820-1821, evento planetario che coinvolse tutta l’Europa
e l’America latina, offre l’occasione per una rilettura storiograficamente aggiornata degli
eventi rivoluzionari che interessarono la penisola italiana (Piemonte e Regno delle Due
Sicilie), ma il cui maggiore impatto si concentrò in Sicilia con conseguenze drammatiche
sotto il profilo politico-sociale e delle relazioni internazionali. A caratterizzare
l’interpretazione tradizionale della rivoluzione siciliana sono stati i giudizi nettamente
negativi di Benedetto Croce e di Rosario Romeo che hanno definito come reazionaria
quell’esperienza, frutto delle resistenze conservatrici del baronaggio isolano contro le
riforme antifeudali dello Stato borbonico. Pubblicate a distanza di un ventennio, le due
monografie di Nino Cortese e Francesco Renda hanno in parte rettificato il tiro.
La prima rivoluzione separatista siciliana del 1820-1821 di Cortese comparve nel
1951, ancora a ridosso delle lotte politiche del secondo dopoguerra segnate nell’isola
dal movimento indipendentista di Finocchiaro Aprile e dalla repressione del brigantaggio.
Allievo della storiografia liberale napoletana, lo studioso ha cercato di smorzare il duro
giudizio crociano sottolineando i guasti provocati da un’applicazione troppo rigida della
legislazione murattiana nell’isola e la differenziazione territoriale tra la Sicilia occidentale
dominata dall’aristocrazia palermitana gelosa di una plurisecolare autonomia e la Sicilia
orientale caratterizzata da borghesie favorevoli alla trasformazione costituzionale del
regno borbonico. Risorgimento e classi popolari in Sicilia 1820-1821 di Renda vide la
luce nel 1968 e riprendeva invece l’impostazione gramsciana della questione meridionale,
sottolineando l’emergere delle lotte di classe nelle campagne e il protagonismo dei
democratici come ceto politico alternativo al separatismo baronale. Con i loro pregi e
con i loro limiti le due monografie hanno condizionato a lungo l’interpretazione delle
vicende siciliane, finché negli anni ’80 si è inaugurata una nuova stagione di studi che
ha analizzato l’impatto modernizzatore della monarchia amministrativa e le
trasformazioni economiche indotte nell’isola dalla rivoluzione commerciale. Nel 1992
l’uscita del volume di Antonino De Francesco, La guerra di Sicilia. Il Distretto di
Caltagirone nella rivoluzione del 1820-21 ha spostato l’asse della ricerca sulla
dimensione sociale dei conflitti fazionali e sulle reti sovralocali di clientela e patronage
come chiave di lettura dei processi di selezione e mobilità dell’élite promossi dal
riformismo borbonico.
* Già Università di Catania.
85
GIUSEPPE BARONE
In quest’ottica di revisione critica si pone il mio contributo, che allargando l’attenzione
all’intero quadro geopolitico dell’isola mette soprattutto in evidenza il carattere
prevalentemente urbano dei moti rivoluzionari ed il mutamento degli equilibri sociali e
di potere connessi alle nuove gerarchie territoriali emerse dalla riforma amministrativa
del 1816-17. Nella ricostruzione qui proposta le vicende siciliane non possono essere
considerate con le etichette del separatismo baronale o dei movimenti contadini
anticipatori delle riforme agrarie del XX secolo. Gli avvenimenti del 1820-1821 meritano
oggi di essere studiati sulla base di paradigmi storiografici più complessi. In primo
luogo essi offrono un’inedita testimonianza della mobilitazione politica inaugurata dalla
Rivoluzione francese, continuata lungo l’età della Restaurazione del 1815, all’indomani
della quale conobbe anzi un’ulteriore accelerazione. In secondo luogo quei moti si
collegano alle esperienze liberali e costituzionali che attraversano il Mezzogiorno
d’Europa, da Cadice a Lisbona, da Napoli a Torino e alla Grecia, seguendo un percorso
geopolitico e culturale basato sulla circolazione di uomini ed idee di respiro mediterraneo.
In tal senso le società segrete, la stampa, i luoghi della sociabilità costituiscono i punti
nevralgici di una comunicazione allargata e di relazioni vissute in chiave transnazionale.
Sotto il profilo più strettamente siciliano, la rivoluzione del 1820 esprime una
drammatica guerra civile che non si sostanzia nella semplice contrapposizione tra
Palermo separatista e Messina e Catania filonapoletane, con cui si tende a rappresentare
la spaccatura territoriale West/East dell’isola. Lo studio delle fonti rivela infatti una ben
più diffusa e trasversale conflittualità, capace di opporre città e paesi molto vicini tra
loro, in ragione dei nuovi assetti istituzionali delle riforme amministrative del 18161817. Ciascuna delle sette Intendenze risultò letteralmente lacerata dai Comuni limitrofi
che si schierarono in modo difforme, chi per Palermo e chi per Messina; insurrezioni e
scontri armati si moltiplicarono a macchia d’olio, trovando origine nella volontà dei
gruppi dirigenti locali di consolidare, oppure di ribaltare, le gerarchie urbane e territoriali
disegnate dalle riforme borboniche. Al di là dei pochi casi analizzati dalla storiografia
(si pensi al Distretto calatino) molte altre storie meritano di essere narrate per ricomporre
una più ampia geografia sociale e politica dei moti, le mutevoli relazioni centro-periferia,
le rotture e le alleanze multilivello tra Napoli e la Sicilia. Non minore interesse suscita
la questione dell’ordine pubblico e della violenza politica, che nel biennio sembra
anticipare per analogia o per differenza la grande rivoluzione del 1848: si pensi al ruolo
delle guerriglie organizzate dalla Giunta di Palermo come esercito siciliano sul modello
spagnolo, o alla formazione di Guardie civiche nelle città a difesa della proprietà e
dell’ordine borghese. Questi ed altri temi, come quelli del decentramento e
dell’autonomia regionale, trovano in una monografia di prossima pubblicazione ulteriori
approfondimenti, a conferma di come questo biennio periodizzante rappresenti uno snodo
cruciale della storia contemporanea della Sicilia.
1. Capovalli di successo
Nella pubblicistica e nella stessa letteratura storica Catania è definita per antonomasia
città democratica, un vulcano di patriottismo che da sempre avrebbe combattuto l’odiata
tirannia dei Borboni, dalle congiure giacobine di fine Settecento all’intellettualità radicale
86
LE NUOVE GERARCHIE TERRITORIALI E LA RIVOLUZIONE DEL 1820-21 IN SICILIA
di primo Ottocento (Giovanni Gambini, Emanuele Rossi, Vincenzo Gagliani), dalla rivolta
del 1837 innescata dall’epidemia di colera alla rivoluzione del 1848 guidata da Gabriello
Carnazza e dai giovani professori dell’Università, dalle cospirazioni clandestine degli
anni ’50 alle radiose giornate del maggio-giugno 1860 vissute e descritte come
liberazione ed entusiastica adesione al nuovo Regno d’Italia. Questo carattere originale,
insieme all’immaginario collettivo che ne è derivato, presenta senza dubbio elementi
storicamente fondati, soprattutto per ciò che attiene al profilo economicamente più
dinamico e antinobiliare delle élites catanesi rispetto al blocco aristocratico dominante
a Palermo, ma sottovaluta ulteriori aspetti di una vicenda storica ben più complessa
rispetto alle deformanti narrazioni tramandate dalla tradizione risorgimentista. In
particolare, l’Ottocento borbonico è rimasto a lungo schiacciato tra gli studi corposi
degli storici dell’architettura sulla ricostruzione della città dopo il sisma del 1693
(Boscarino, Dufour e Raymond) ed i contributi dei contemporaneisti sul periodo
postunitario. Sono state le più recenti ricerche di Ernico Iachello, Antonino De Francesco
ed Alfio Signorelli, oltre ai precedenti lavori di Giuseppe Giarrizzo e di Enzo Sciacca
sugli intellettuali democratici, ad avere finalmente illuminato le zone d’ombra che
avevano oscurato la prima metà del XIX secolo1.
In realtà, questi decenni possono considerarsi una stagione assai fruttuosa per Catania.
Ancora alla fine del Settecento Domenico Tempio nel suo poema vernacolare La Carestia
(1783) aveva potuto descrivere un crudo scenario urbano costellato da popolani affamati
e speculatori senza scrupoli, in un contesto drammaticamente segnato dal contrasto tra
la miseria della plebe e la cinica ricchezza della nobiltà (con l’eccezione dell’illuminato
principe di Biscari a cui l’opera è dedicata). Ma nel 1829 la Storia di Catania di Francesco
Ferrara registrava con lucidità i profondi mutamenti intervenuti nel quadro economico
e istituzionale. L’insistita attenzione sul grande patrimonio archeologico e sugli antichi
monumenti (dalle terme achillee al teatro greco) da offrire ai colti viaggiatori del Grand
Tour esprimeva l’orgoglio consapevole di una nuova classe dirigente, selezionata tra gli
elementi migliori dell’aristocrazia e della borghesia, che intendeva promuovere un
modello virtuoso di crescita urbana. L’aumento costante della popolazione, il cantiere
diffuso della ricostruzione edilizia, le manifatture tessili e l’espansione dei traffici
marittimi legati alla naturale feracità della Piana e delle terre forti dell’Etna confermavano
così le scelte oculate del Decurionato cittadino, dedito al buon governo e fedele alla
monarchia borbonica. L’immagine di Catania felicissima e devota alla dinastia veniva
rilanciata nel 1835 dalle Osservazioni sopra la storia di Catania di Vincenzo Cordaro
E. IACHELLO, Catania nella prima metà dell’Ottocento: poteri e pratiche dello spazio urbano, in
AA.VV., La grande Catania. La nobiltà virtuosa e la borghesia operosa, a cura di E. Iachello, Domenico
Sanfilippo editore, Catania 2010. V. pure IDEM, Centralisation et pouvoire locale en Sicile au XIXeme
siécle, in «Annales ESC», 1994, pp. 241-246; A. DE FRANCESCO, Anni inglesi, anni francesi, mesi spagnoli.
Classi dirigenti e lotta politica a Catania dall’antico regime alla rivoluzione 1812-1821, in «Rivista
Italiana di studi napoleonici» (28), 1991; IDEM, Vulcano di patriottismo. Catania nella politica rivoluzionaria
dell’Ottocento, in AA.VV., La grande Catania, cit., pp. 323-331; A. SIGNORELLI, Tra ceto e censo. Studi
sulle élites urbane dell’Ottocento, Franco Angeli, Milano 1999; E. SCIACCA, Riflessioni del costituzionalismo
europeo in Sicilia (1812-1815), Bonanno, Catania 1966. Per un profilo generale della storia della città
dopo l’Unità cfr. G. GIARRIZZO, Catania, Laterza, Roma – Bari 1986.
1
87
GIUSEPPE BARONE
Clarenza, stimato docente dell’Ateneo. La sua tesi asseriva che il successo economico,
sociale e culturale della città etnea fosse strettamente connesso alla riforma
amministrativa del 1816-17 e con la riorganizzazione del territorio siciliano in 7 valli e
23 distretti. L’elevazione a capovalle era stata la molla principale del rapido decollo di
Catania come terzo polo urbano dell’isola2.
La svolta riformatrice della monarchia amministrativa stava provocando vittime illustri
e promozioni insperate. Soprattutto piangeva Palermo, per aver perduto improvvisamente
il plurisecolare ruolo di capitale trascinando nella rivolta del 1820 altri paesi declassati
o delusi, mentre rideva Messina che per quattro secoli aveva rappresentato l’alternativa
mercantile e borghese alla feudale Palermo e che ora vedeva riconosciuta con promesse
di sgravi fiscali e di nuovi privilegi commerciali la propria leadership territoriale. Ma
non meno grata ai Borboni doveva essere Catania le cui direttrici di espansione
conquistavano il Val di Noto. Le classi dirigenti della città etnea non temevano certo la
concorrenza di Siracusa, anch’essa promossa a capovalle ma ancora rinserrata tra le
mura spagnole della fortezza di Ortigia, né apparivano preoccupate di Noto e della
cintura urbana dell’ex-contea di Modica prive di stabili collegamenti marittimi e stradali
col resto dell’isola. Con lungimiranza il Decurionato catanese puntò piuttosto ad allargare
l’influenza politica e commerciale sia nell’area ionica a danno della rivale Acireale,
attraverso strategie mercantili acquisitive e alleanze matrimoniali e di parentela volte
alla pacifica conquista di Giarre/Riposto (unite fino al 1841) e dell’intera linea costiera
fino a Giardini, sia penetrando in profondità nella Piana verso i bacini zolfiferi di Enna
e Caltanissetta grazie al fitto reticolo di strade regie finanziato coi fondi provinciali dal
Consiglio d’Intendenza3 .
A pilotare questa nuova stagione riformatrice era stato nominato come primo
Intendente di Catania nel 1818 Stefano Notarbartolo duca di Sammartino, nobile
palermitano e genero del principe di Cassaro, che per dare braccia e gambe al suo
programma designò come segretario Vincenzo Gagliani ed ebbe tra i suoi collaboratori
giuristi come Emanuele Rossi e Pasquale Ninfo, esponenti di spicco della corrente
democratica. Questa inedita alleanza tra Corona e democratici servì a sbloccare le
resistenze dell’oligarchia aristocratica ancora arroccata nella vecchia mastra nobile e a
selezionare un nuovo ceto politico locale. La lista degli eleggibili del 1819 rappresentò
perciò un vero e proprio terremoto, grazie alla promozione di centinaia di emergenti
non solo della possidenza fondiaria ma anche dell’imprenditoria, delle libere professioni
e dei livelli più alti della mercatura e dell’artigianato. Da questo momento Catania non
era più nelle mani esclusive della nobiltà ma poteva essere governata solo col consenso
della sua borghesia. L’esperimento del Consiglio civico nel 1813 aveva fatto da battistrada
F. FERRARA, Storia di Catania sino alla fine del XVIII secolo, Catania 1829; V. CORDARO C LARENZA,
Osservazioni sopra la storia di Catania cavata dalla storia generale di Sicilia, Catania 1834.
3
G. BARONE, Le piccole patrie. Élites urbane e territorio nella Sicilia borbonica. Il caso di Giarre
(1815-1860), in AA.V V., Giuseppe Macherione, Atti del Convegno nazionale di studi, Giarre 1992, pp.73115; Idem, Giardini nell’Ottocento. Da borgo “industrioso” a polo agro-industriale, in AA. VV., Giardini.
Dalla fondazione del borgo ai primi decenni del Comune autonomo, a cura di D. LIGRESTI, Edicom,
Mascalucia 1998, pp. 95-105.
2
88
LE NUOVE GERARCHIE TERRITORIALI E LA RIVOLUZIONE DEL 1820-21 IN SICILIA
all’ampliamento dell’élite urbana, ma dal 1817 l’elevazione a capovalle e la più ampia
cooptazione dei ceti medi nel governo cittadino chiariscono i reali motivi per cui nella
rivoluzione del 1820 Catania non seguisse Palermo e rimanesse lealmente fedele ai
Borboni e al governo costituzionale di Napoli4.
Le funzioni di capovalle andavano addensando un ricco ventaglio di attività terziarie
e la città si riempiva di uffici pubblici, a cominciare dalla stessa Intendenza con le sue
ripartizioni burocratiche, come pure con la complessa macchina giudiziaria della Gran
Corte Civile e Criminale, con lo stuolo d’impiegati del Consiglio Generale degli Ospizi
(che vigilava sulla rete assistenziale delle opere pie e della beneficenza), la Deputazione
alla Salute e la Giunta marittima, la Ricevitoria delle imposte e dei dazi, la Direzione
del Registro e delle ipoteche. Sotto la guida autorevole del duca Sammartino e del suo
successore principe di Manganelli, Catania registrò un notevole incremento demografico
che la portò a raddoppiare la sua popolazione da 38.000 a 70.000 abitanti alla vigilia
dell’Unità, ma soprattutto si affermò come città-guida di un vasto comprensorio.
L’obiettivo venne raggiunto grazie al piano di strade provinciali secondo un sistema a
raggiera finalizzato ad accentrare i traffici mercantili sul baricentro del capovalle.
L’avvio dei lavori per la strada consolare Catania-Messina (completata nel 1833)
permise il collegamento rapido tra i due centri più popolosi della Sicilia orientale, così
come la costruzione della strada provinciale Catania-Adernò consentì la penetrazione
diagonale nella piana etnea e l’attacco più breve con la consolare per Palermo. Sempre
nel 1820 il Decurionato e il Consiglio d’Intendenza deliberarono di cofinanziare la via
del Bosco etneo come asse prioritario di connessione con l’area pedemontana, la più
popolosa e ricca dell’intera valle, allo scopo di rendere rotabili le antiche regie trazzere
e canalizzare la mobilità di uomini e merci dei casali etnei verso il porto del capoluogo5.
Anche questa fondamentale infrastruttura venne progettata in tandem da Decurionato e
Consiglio provinciale con la consulenza tecnica dell’architetto Zahara Buda, che nel
1820 presentò il piano di ampliamento e prolungamento del vecchio molo.
A tale espansione gravitazionale esterna si affiancò la ristrutturazione interna del
centro storico, in particolare dopo il terremoto del 1818. Cantieri edilizi pubblici e privati,
rifacimento di palazzi nobiliari e maramme ecclesiastiche, livellamento e lastricatura di
via Stesicorea e delle altre strade principali testimoniano quantità e qualità delle
trasformazioni urbanistiche in continuità con la ricostruzione settecentesca, laddove la
città cominciava ad espandersi a macchia d’olio verso le periferie del Borgo a nord e di
Ognina ad oriente in un graduale processo di ricucitura col vecchio cuore dell’urbs me4
M. C. MADAFFARI, La resurrezione economica di Catania sotto l’Intendenza del duca di Sammartino
all’aprirsi del XIX secolo, in «Archivio storico della Sicilia Orientale», 1924, nn.1-3, pp. 193-241. V. pure
i recenti contributi di G. BARONE, Il “risorgimento” di Catania prima dell’Unità (1815-1860), in IDEM (a
cura di), Catania e l’Unità d’Italia, Bonanno, Acireale – Roma 2011, pp.11-36 e E. FRASCA, “Questa sì
deliziosa e cospicua parte dell’isola”. Il Valle di Catania nei discorsi degli Intendenti (1819-1854), «Annali
della Facoltà di Scienze della Formazione», Università degli Studi di Catania, n.13, 2014, pp. 59-107.
5
E. GIANNONE, Le strade borboniche: la formazione di una rete viaria in provincia di Catania (18201860), in «Memorie e Rendiconti dell’Accademia dei Dafnici e degli Zelanti», vol. IX, Acireale 1989, p.
400 sgg. V. pure S. VINCIGUERRA, L’isola costruita. Stato, economie, trasformazioni del territorio nella
Sicilia borbonica, Sciascia, Caltanissetta – Roma 2002, pp. 85-90.
89
GIUSEPPE BARONE
dievale e moderna6.
In piena Restaurazione, dunque, Catania godeva di un autentico risorgimento
antecedente all’Unità e nutriva giustificato timore che l’eventuale vittoria della rivolta
palermitana le potesse far perdere le conquiste appena raggiunte. Si spiega così il generale
entusiasmo con cui la città accolse la svolta costituzionale del 7 luglio a Napoli e si
affrettò con una pubblica cerimonia al giuramento della Carta di Cadice. Il Senato il 20
luglio sottoscrisse all’unanimità un Indirizzo al vicario di leale attaccamento alla dinastia
e di adesione incondizionata all’indivisibilità del Regno:”saprà questo vostro popolo
mostrarsi degno della felice rigenerazione sopra tante solide basi costituita e con voti
uniformi saprà sostenere quell’elevato rango a cui è stato innalzato”. Con uguale
soddisfazione la massima istituzione cittadina si rivolse al Senato di Messina per
esternargli sentimenti di “buona armonia e leale amicizia”, ottenendo una pronta risposta
che confermava i vincoli reciproci di solidarietà.
Si respirava un’atmosfera di grande unità politica tra nobili e borghesi, tra liberali e
democratici, mentre cresceva l’affiliazione carbonara tra gli impiegati pubblici e
professionisti. Emanuele Rossi, leader del giacobinismo catanese, scrisse al nipote Andrea
il 17 luglio che il fiocco tricolore, azzurro rosso e nero, simbolo della Carboneria, era
esibito con orgoglio: “qui tutti si sono procurati la coccarda e tutti la porteranno”7.
Nello stesso tempo il Patrizio, Raimondo Sammartino, principe di Pardo, e i senatori
della città etnea indirizzarono un Proclama agli amici della Patria che esaltava i diritti
di uguaglianza e libertà sanciti dalla Costituzione di Cadice e metteva in guardia i siciliani
dai nemici dell’unione con Napoli: “sia impresso nei nostri cuori il contegno virtuoso
dei nostri confratelli Napoletani, con i quali abbiamo tante amichevoli relazioni che
unica Nazione formiamo e formeremo! E chi diverge per altro sentimento, e chi apre la
pestifera bocca per dirigersi ad altro scopo, sia costui riguardiato come il vero nemico
della Patria”8.
L’atmosfera si surriscaldò quando alla fine del mese giunsero inaspettati ospiti gli
emissari inviati dalla Giunta di Palermo per ottenere dalle autorità cittadine l’adesione
al programma d’indipendenza. La folla eccitata si radunò davanti al municipio ed i
malcapitati duca di Sperlinga, avvocato Nicolosi e console Caruso, nonostante i legami
di parentela vantati in città, furono arrestati, sottoposti a un duro interrogatorio di polizia
6
E. IACHELLO , Costruzione del porto e identità urbana a Catania nell’Ottocento in A. Coco - E.
Iachello (a cura di), Il porto di Catania. Storia e prospettive, Lombardi, Siracusa 2003, pp. 116-126. V.
pure il recente contributo di G. CRISTINA, Il porto di Catania nel lungo Ottocento. Infrastrutture, traffici,
territorio (1770-1920), Angeli, Milano 2019. Sulle trasformazioni urbanistiche cfr. G. DATO, La città di
Catania. Forma e struttura (1693-1833), Officina, Roma 1983.
7
Emanuele Rossi al nipote Andrea Rossi, 17 luglio 1820, cit. da E. SCIACCA, Riflessi del costituzionalismo
cit., pag. 303. Sulla diffusione della Carboneria cfr. V. FINOCCHIARO, Catania e il Risorgimento politico
nazionale nelle memorie inedite di Carlo Gemmellaro, in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale»,
1922-23, pp. 167-202. Per un aggiornato profilo interpretativo v. pure A. SIGNORELLI, Catania borghese
nell’età del Risorgimento. A teatro, al circolo, alle urne, Angeli, Milano 2015.
8
L’Indirizzo al vicario è pubblicato sul «Giornale Costituzionale del Regno delle Due Sicilie», Napoli,
n.18, 28 luglio 1820. Il Senato di Catania era composto da Raimondo San Martino principe di Pardo
(patrizio), dai baroni Francesco Paolo Tedeschi, Della Bruca e Orazio Recupero, da Mario Gravina, Tommaso
Ardizzone e Luigi Pericantati.
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LE NUOVE GERARCHIE TERRITORIALI E LA RIVOLUZIONE DEL 1820-21 IN SICILIA
e quindi trasferiti come prigionieri nella fortezza di Gaeta. Una vera e propria
mobilitazione ideologica alimentò la pubblicazione di numerosi scritti d’occasione e
pamphlet polemici che mantenendo l’anonimato stigmatizzarono con prosa violenta la
secessione palermitana. Sotto forma di Lettere o di Osservazioni questi opuscoli
denigratori videro la luce nella Stamperia dell’Università, a conferma del ruolo attivo di
molti docenti dell’Ateneo nella diffusione della cultura antifeudale e del pensiero
democratico.
La principale contestazione riguardava l’indipendenza come carattere originario della
storia dell’isola, dal momento che tranne brevi parentesi l’isola era stata sempre soggetta
a vicerè e amministrata come dominio di potenze straniere. Quella che ora si voleva
imporre era piuttosto una falsa chimera apportatrice di lutti e schiavitù per i siciliani ad
esclusivo vantaggio di Palermo “sede e stanza del baronaggio” e dove si volevano
concentrare tutti gli uffici e i tribunali “che per secoli hanno dato luogo all’arbitrio e
alla venalità”. Più che una pretesa di indipendenza mai esistita, la Storia insegnava
un’altra verità: troppo a lungo Palermo si era arricchita sulle spalle degli altri Comuni
esigendo rendite e diritti fiscali che avevano succhiato sudore e sangue per ingrassare i
baroni ed un esteso ceto di giudici, avvocati e funzionari. Le riforme antifeudali dei
vicerè Caracciolo e Caramanico alla vigilia della Rivoluzione francese erano state il
primo colpo di maglio allo strapotere dell’aristocrazia palermitana che da quel momento
aveva iniziato a seminare odio contro i napoletani. Il baronaggio con la falsa Costituzione
del 1812 aveva tentato di eludere l’abolizione dei diritti feudali, mantenere gli antichi
privilegi e l’accentramento dei tribunali. Ma la nuova Costituzione di Spagna giungeva
finalmente come la testa d’ariete capace di scardinare quel feudale retaggio e ad eliminare
ogni distinzione di ceto e di fori riservati nel segno dell’uguaglianza di tutti i cittadini9.
Quasi certamente della stessa penna era lo scritto intitolato Un Siciliano alla Giunta
provvisoria di Palermo nel quale si sottolineava l’estrema debolezza di uno Stato siciliano
indipendente senza esercito e senza flotta che sarebbe diventato presto una semicolonia
alla mercé dell’Inghilterra o della Francia, laddove l’isola unita al continente
rappresentava un’entità statuale ragguardevole in Europa. Napoli capitale dell’unico
Regno non aveva nulla da invidiare a Londra, Parigi e Madrid per taglia demografica e
prestigio culturale, inoltre non vi risiedeva più una nobiltà potente ed arrogante come
quella palermitana, cosicché sarebbe stato preferibile farsi governare dai Musulmani o
dai Tartari ma non dai baroni nemici della Costituzione di Spagna e del popolo siciliano10.
Non c’era solo Catania ad essere fedelissima, ma anche Messina che come nessun’altra
città siciliana ha così tanto sofferto l’intreccio tra calamità politiche e naturali. La morte
civile delle sue classi dirigenti, decretata dopo la repressione della rivolta antispagnola
9
Il testo senza titolo di queste Osservazioni si conserva in ASNA, Fondo Borbone, b.703 (carte Medici).
L’opuscolo è riprodotto anche sul «Giornale Costituzionale del Regno delle Due Sicilie», n. 38 del 18
agosto 1820.
10
Un siciliano alla Giunta provvisoria di Palermo, ivi, n. 37 del 17 agosto 1820. V. pure gli opuscoli
Un cittadino di Catania ai virtuosi napoletani, Stamperia dell’Università, Catania 1820; Lettera di un
catanese ai suoi concittadini siciliani, Stamperia dell’Università, Catania 1820; Agli amici della patria,
Stamperia dell’Università, Catania 1820. Per il ruolo politico dell’Ateneo cfr. G. BALDACCI, L’Università
degli studi di Catania tra XVIII e XIX secolo, Bonanno, Acireale-Roma 2008.
91
GIUSEPPE BARONE
del 1674-78, la peste del 1743 e il terremoto del 1783 avevano inferto colpi durissimi al
tessuto manifatturiero e commerciale centrato sulle attività marittime e sull’industria
della seta, ma non ne avevano scalfito l’antica vocazione mercantile, il prestigio culturale
e la tradizione civica dell’autogoverno. La concessione del portofranco nel 1784 era
stato il primo segnale positivo di quella lunga risalita che avrebbe fatto riconquistare
nell’Ottocento alla città dello Stretto una centralità mediterranea indiscussa fino alla
nuova catastrofe del 1908. Nel primo quindicennio del XIX secolo, in particolare, la
presenza della corte borbonica in Sicilia sotto l’ombrello protettivo della flotta britannica
aveva favorito il consolidamento delle attività di import/export e la formazione di
un’imprenditoria straniera (inglese soprattutto) legata da vincoli finanziari e parentali
con la borghesia autoctona. Una città in piena ripresa, dunque, difesa da un imponente
Presidio militare che la metteva al riparo dal murattiano Regno di Napoli almeno fino
alla riunificazione del 181511.
Messina era la città dove maggiormente si era diffusa la Carboneria, sia per la
contiguità con la Calabria dove le vendite si erano insediate nel ventennio precedente,
sia per la presenza dei militari napoletani di stanza nella fortezza della Cittadella. E tra
gli ufficiali ed i soldati della guarnigione si rivelò efficace il proselitismo del colonnello
Gaetano Costa che al comando del reggimento Principessa era giunto ai primi di giugno
nella città dello Stretto. Siracusano di nascita, brillante carriera nell’esercito, egli era
partito da Torre Annunziata per la nuova destinazione e come esponente di spicco della
Carboneria napoletana aveva tenuto diverse riunioni segrete con le vendite lucane e
calabre che nel mese di maggio si erano preparate per una sollevazione popolare12.
Le relazioni pericolose dell’ufficiale non erano sfuggite all’occhio vigile della polizia
borbonica e in seguito a numerose denunce il generale Nunziante aveva dato ordine di
arrestarlo, ma le pavide autorità locali non se la sentirono di affrontare un comandante
dell’esercito alla testa di 1.500 uomini armati. Così indisturbato nella città peloritana
Costa si mosse alacremente per costruire una solida organizzazione settaria, che fu estesa
anche in provincia attraverso fidi emissari latori di larghe promesse di impieghi e onori
nei vari Comuni visitati. A Messina, tuttavia, fuori dall’ambito militare, la ricezione
delle idee carbonare era assai modesta, nella misura in cui possidenti, commercianti e
uomini d’affari continuavano a guardare con sospetto qualunque turbamento dell’ordine
11
Nella vasta bibliografia sulla storia della città mi limito a segnalare per l’età moderna i contributi di
S. BOTTARI, Post res perditas. Messina 1678-1713, Sfamemi, Messina 2005; G. RESTIFO, Peste al confine.
L’epidemia di Messina del 1743, Epos, Messina 1984; A. PLACANICA, Il filosofo e la catastrofe. Un terremoto
del Settecento, Einaudi, Torino 1985. Per la ripresa ottocentesca cfr. Messina nell’Ottocento, a cura di S,
Battaglia, Messina 1994; A. C HECCO - L. C HIARA, Borghesie urbane del XIX secolo. Messina e la sua
ricchezza, Facoltà di Scienze Politiche, Messina 1997; L. C HIARA, Messina nell’Ottocento. Famiglie,
patrimoni, attività, Sfamemi, Messina 2002; S. B OTTARI, Stampa e opinione pubblica a Messina
nell’Ottocento, in Messina 1860 e dintorni, a cura di R. BATTAGLIA, L. CAMINITI, M. D’ANGELO, Le Lettere,
Messina 2011, p. 227 sgg.
12
Non disponiamo di una biografia aggiornata di Gaetano Costa, uno dei principali protagonisti del
1820 in Sicilia. Su di lui si veda M. D’AYALA, Vite dei più celebri capitani e soldati napoletani, Napoli
1843, pp. 319-343, e i riferimenti alla sua carriera precedente in N. CORTESE, L’esercito napoletano e le
guerre napoleoniche, Napoli 1928, passim. Numerosi suoi manoscritti si conservano nell’Archivio della
Società napoletana di Storia Patria, fondo D’Ayala.
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LE NUOVE GERARCHIE TERRITORIALI E LA RIVOLUZIONE DEL 1820-21 IN SICILIA
sociale. Diversa propensione mostravano le classi popolari e i tanti disoccupati provati
dalla lunga crisi economica che aveva colpito la città dopo il terremoto del 1783 e per la
paralisi dei traffici dovuta al blocco continentale, e su questi ceti era penetrata la
propaganda sovversiva di Candeloro La Barbera, Gran Maestro della setta segreta La
virtù premiata, e pronto a stabilire i contatti col Costa13.
Non appena trapelò la notizia che a Napoli era stata concessa la Costituzione, soldati
e carbonari chiesero di pubblicarla al comandante della Cittadella, Antonio Ruffo principe
di Scaletta, ma si videro opporre un rifiuto motivato dalla mancanza di comunicazioni
ufficiali. Era una posizione attendista, sostenuta anche dalle altre autorità civili e dalla
borghesia mercantile, che rischiava di mettere in forse il piano di conquista del potere
locale al punto da spingere la Carboneria messinese a dare il via alla sollevazione
popolare. Scaletta rispose ordinando alle truppe a lui fedeli di reprimere i tumulti, ma
anche questi soldati si unirono ai ribelli e tutti insieme circondarono il palazzo del
principe per saccheggiarlo e incendiarlo. Per salvare la vita a Scaletta non restò altra
scelta se non quella di pubblicare la Costituzione e da questo momento l’alleanza tra
militari e popolo depose le autorità civili, cacciò funzionari ed impiegati che vennero
sostituiti da carbonari, abolì tasse e dazi civici. L’atto rituale dell’apertura delle carceri
e della liberazione dei prigionieri gettava la città peloritana nell’anarchia sociale:
paradossalmente sullo stesso piano di Palermo, anche se dalla parte di Napoli.
Costa però non tollerò più oltre i disordini e richiamò i suoi soldati alla lealtà
istituzionale, guidandoli nella repressione dei sediziosi e persuadendo i maggiorenti
locali ad allinearsi subito sulle posizioni del governo costituzionale di Napoli. Per ottenere
il consenso l’abilità del colonnello fu tuttavia politica e consistette nella promessa di
trasportare la capitale della Sicilia da Palermo a Messina col trasferimento di uffici
amministrativi, fiscali e giudiziari, oltre alla concessione di franchigie doganali e di
lavori pubblici per l’ampliamento del porto. Su queste basi il blocco sociale dominante
della città si gettò nelle braccia di Napoli14.
Diventato ormai il mattatore unico sulla scena politica di Messina, Costa, il 18 luglio,
istituì la Guardia di sicurezza interna composta da possidenti, imprenditori e maestranze
che sfilò tra le vie del centro attraverso file festanti di popolo: “illuminazione dell’intera
città per più notti - scrisse l’Osservatore Peloritano – spari e musica per le strade,
festa al teatro e ringraziamento all’Altissimo reso dalle truppe e dai capi militari, dalle
autorità civili e giudiziarie, dal clero regolare e secolare, da tutte le classi dei cittadini,
salve di artiglieria dei Forti, scariche di fucilerie, dovunque festeggiamenti”15. Quattro
giorni dopo il sindaco Pasquale Santi ed i senatori Antonio Villadicani, Pasquale Moleti,
Giuseppe Rosso, Michele Spadaro, Carmelo La Farina e Mario Avarna duca di Belsito
inviarono per mezzo di Tommaso Donato un fervido Indirizzo di gratitudine al sovrano
V. la circostanziata memoria manoscritta anonima Pochi cenni sulla rivolta di Messina nell’anno
1821, conservata in D. Scinà, Raccolta di notizie e documenti della rivoluzione siciliana del 1820, in
Biblioteca Comunale di Palermo (BCP), manoscritto Qq. 14.138.
14
«Il Corrispondente Costituzionale», 27 luglio 1820.
15
«L’Osservatore Peloritano», 19 luglio 1820. V. pure la cronaca dell’avvenimento riportata sul
«Giornale Costituzionale del Regno delle Due Sicilie», 26 luglio 1820.
13
93
GIUSEPPE BARONE
che si era reso protagonista “di uno di quegli avvenimenti che sogliono illustrare la
storia delle Nazioni”, rallegrandosi di vedere “due popoli riuniti in uno” ma nello stesso
tempo richiamando l’urgenza di mantenere le promesse: “Messina, felice per posizione
topografica e però povera di dovizie territoriali ed oppressa da varie passate sciagure,
sente più di ogni altra città il bisogno di essere protetta, per far rivivere quello spirito
d’industria che resa aveala una delle più opulenti città d’Italia”. Da Napoli gli fece
immediatamente eco il ministro Zurlo con una missiva piena di elogi per l’”invitta
Zancle” nella quale confermò “il diritto a un avvenire migliore, a vedere ripristinata la
sua antica gloria, protetta per il suo commercio, favorite le sue manifatture”16.
Un’accurata regia pilotò l’adesione di Messina al governo costituzionale. La città
era un tassello strategico per il controllo militare e politico della Sicilia, una diga sicura
da opporre al programma indipendentista di Palermo. Lo sottolineò lo stesso colonnello
Costa in un Indirizzo ai Messinesi in cui ricordava i loro sforzi per abbattere l’aristocratica
Costituzione del 1812 e li eccitava a resistere “alle seduzioni di un sedicente governo
prodotto dalla violenza e dall’anarchia installata a Palermo dai servi di pena, dai
delinquenti e dai malvagi”. La città fedelissima ai Borboni aspirava a più alte ricompense,
e queste giunsero con un altro Proclama del vicario del 26 luglio, col quale si nominava
il principe Scaletta Luogotenente in Sicilia e si fissava “lo stabilimento di un nuovo
centro di attività in Messina”: sembrava così avverarsi la promessa di trasferire nella
città dello Stretto la capitale dell’isola17.
Al plauso dei maggiorenti non si unì tuttavia quella parte di popolo più esposta alla
crisi economica e che era stata mobilitata dalle vendite carbonare con piani sovversivi
di ribaltamento sociale. Quello stesso giorno un corteo di 400 persone si era mosso
minacciosamente con l’intenzione di mettere a sacco uffici e negozi, costringendo la
forza pubblica a disperdere i manifestanti. Scaletta e Costa, ora diventati alleati, non
nascosero al governo di Napoli le difficoltà di mantenere l’ordine, ma per occultare il
malcontento della plebe urbana non lesinarono spese e fatiche destinate al giuramento
collettivo della Costituzione spagnola.
Si trattò di una cerimonia sfarzosa, che il 6 agosto vide tutte le autorità civili e
militari partecipare al rito del solenne giuramento fatto dal Luogotenente dopo una
messa celebrata nel Duomo dall’arcivescovo. Nella piazza antistante al Duomo la folla
poté assistere alla marcia trionfale del Reggimento Principessa all’alzabandiera in onore
del generale Florestano Pepe giunto da Napoli davanti ai 4000 membri della Guardia
civica18. Forte del consenso ottenuto, il principe Scaletta, il 9 agosto, diramò un Manifesto
ai Popoli di Messina col quale dispose la riduzione a metà del dazio sul macino e la
diminuzione di alcuni balzelli, ma nello stesso tempo vietò ogni pubblica manifestazione
16
L’Indirizzo al Re è pubblicato sul «Giornale Costituzionale del Regno delle Due Sicilie», 7 agosto
1820. La risposta di Zurlo è riportata in V. Castelli principe di Torremuzza, Memorie storiche e documenti
della rivoluzione di Sicilia del 1820, manoscritto conservato nella Biblioteca Comunale di Palermo al
segno Qq. H. 186, pp.128-129.
17
L’Indirizzo del colonnello Costa ai Messinesi in «Giornale Costituzionale del Regno delle Due
Sicilie», 28 luglio 1820. V. pure ivi, 31 luglio 1820.
18
V. l’ampio resoconto nel giornale messinese «Il Corrispondente costituzionale», nn. 6 e 7 del 5 e 9
agosto 1820.
94
LE NUOVE GERARCHIE TERRITORIALI E LA RIVOLUZIONE DEL 1820-21 IN SICILIA
mettendo in stato d’assedio la città, segno inequivocabile della tensione sociale esistente.
Con una Manifestazione agli abitanti della Sicilia mise pure in guardia dal dare credito
a coloro i quali cercavano di mettere a soqquadro i paesi “con inganno, terrore e
traviamenti”, pregando gli Intendenti e i sindaci “a istruire il popolo, ad illuminarlo,
ad allontanarlo dai perfidi evangelizzatori palermitani, a stringerlo in unione col
confratello napoletano per non rischiare lo scoppio terribile dei fulmini della giustizia
punitrice”. E per dimostrare che si faceva sul serio, a somiglianza di Catania, fece
arrestare il principe di Belmonte, il marchese De Gregorio, don Lorenzo Ciprì e il console
Francesco Impallomeni come membri della delegazione giunta da Palermo19.
Catania e Messina nel versante orientale dell’isola sostennero in questa circostanza
la monarchia amministrativa e il governo costituzionale del 1820, ma nei decenni
successivi avrebbero guidato l’opposizione ai Borboni e le lotte per l’unificazione italiana,
sempre da protagoniste nei mutevoli contesti dei risorgimenti economici e politici del
XIX secolo.
2. Piccole patrie
Figlie della riforma amministrativa del 1816-17, le nuove élites a cui la monarchia
borbonica aveva affidato il potere locale non sempre e non dovunque si stabilizzarono
nelle posizioni acquisite, ma spesso dovettero subire o rilanciare la sfida di fronte alle
frequenti variazioni territoriali che rimettevano in discussione le circoscrizioni
amministrative dei Comuni. Le pressioni e i conflitti per allargare i confini o per ottenere
l’elevazione a Comune autonomo furono l’inevitabile corollario della rivoluzione
commerciale e delle profonde modifiche nella rappresentanza politica degli interessi;
nel loro mutevole intrecciarsi essi costituivano tuttavia la spinta più forte per rimodellare
le gerarchie spaziali in sintonia con le polarità economiche emergenti.
Nella Sicilia orientale, tradizionale terra di città, il nodo delle autonomie comunali e
delle circoscrizioni amministrative mobilitò patriziati urbani e oligarchie paesane in
uno scontro “trasversale” di famiglie e clientele che legarono strettamente le loro
aspirazioni di ascesa sociale e di dominio al controllo della dimensione spaziale. Il
nesso amministrazione-territorio non solo riaprì il dibattito sulle questioni demaniali e
sulla fiscalità municipale, ma si qualificò come campo privilegiato d’osservazione per
verificare i processi di formazione del mercato e dell’egemonia sociale dei nuovi gruppi
dirigenti. Sulle lotte intestine tra quartieri o città rivali per la delimitazione dei confini
territoriali si costruì soprattutto un immaginario collettivo che si condensò negli stampi
ideologici del nazionalismo municipale. Ha osservato Hobsbawm che prima della
modernizzazione ottocentesca i termini ancora vaghi di patria e di nazione avessero il
significato assai ristretto del paese natale o di organizzazioni professionali chiuse come
le gilde e le corporazioni. Con radici ben piantate nei luoghi d’originario insediamento,
le borghesie locali costruivano la loro identità sociale elaborando linguaggi e rituali
attorno ai simboli e ai miti della piccola patria. Il rimodellamento funzionale degli
spazi amministrativi, rappresentò un frammento essenziale della nazionalizzazione delle
19
I manifesti del Luogotenente Scaletta sono riportati in V. CASTELLI
131-140.
95
DI
T ORREMUZZA, Ms. citato, pp.
GIUSEPPE BARONE
periferie20 .
L’espansione demografica e la favorevole congiuntura economica sin dalla metà del
XVIII secolo avevano innescato un intenso sviluppo mercantile nell’area ionico-etnea
della Sicilia. Il motore della trasformazione fu il vigneto, la cui diffusione a raggiera dal
mare verso la zona collinare era stata accelerata dalle concessioni enfiteutiche della
mensa vescovile di Catania e dalle usurpazioni che avevano completato il processo di
privatizzazione della terra mediante il disboscamento e la colonizzazione delle fertili
lave. L’agricoltura vitivinicola nel corso del XIX secolo proseguì la pacifica conquista
del territorio in una triplice direzione: verso le cosiddette terre forti (i vini bianchi di
Misterbianco e Motta S. Anastasia), verso le pendici vulcaniche di Pedara e Zafferana
fino a Bronte e Adrano (i vini del bosco) ed infine nella piana di Mascali con mosti di
più forte gradazione alcoolica, utilizzati per produrre vini da taglio. A cavallo tra i due
secoli l’ex-contea presentava i tratti tipici della specializzazione zonale; la rivoluzione
commerciale polarizzava i suoi effetti positivi soprattutto sull’asse costiero tra Giarre e
Riposto, il cui ritmo di crescita distanziò nettamente il contiguo comprensorio di Acireale
privo di entroterra e senza un adeguato scalo marittimo. Sulla costa ionica e lungo la
pianura che inglobava medi e piccoli centri abitati fino a lambire il grande mercato di
Catania si consolidò un robusto polo territoriale, la cui struttura produttiva si basava
sull’integrazione tra colture arboree, commercio vitivinicolo ed attività marinare, per
iniziativa di un ceto imprenditoriale di proprietari, negozianti ed armatori pronti a cogliere
le opportunità economiche legate alla domanda internazionale di derrate agricole
pregiate21 .
Le trasformazioni fondiarie e dei quadri ambientali incisero sui secolari equilibri fra
città e campagna ed imposero una diversa gerarchia funzionale nelle terre dell’ex-contea.
Agli inizi dell’ottocento Mascali aveva già esaurito il suo ruolo di centro amministrativo,
ed ai viaggiatori appariva come un villaggio scosceso ed alpestre, fatto di poche umili
case spesso senza tegole e abbandonate; nel 1820 i suoi abitanti si erano ridotti ad
appena 3500 (di cui solo 1800 nel paese, mentre 1700 risiedevano nel villaggio della
Nunziata), occupati in una povera agricoltura di sussistenza ma sempre più attratti ad
emigrare verso l’area urbana costiera22. I motivi che spiegano la decadenza di Mascali
furono gli stessi che promossero la crescita urbana del piccolo borgo delle giarre. Le
coltivazioni arboree e la vicinanza del mare spostarono il baricentro dei circuiti mercantili:
arroccata sulla collina ed assediata da paludi e malaria, alla fine del Settecento Mascali
20
E. HOBSBAWM, Nazioni e nazionalismo, Einaudi, Torino 1991, pp. 21-22. Sul tema v. G. GIARRIZZO,
Borghesia e “provincia” nel Mezzogiorno durante la Restaurazione, in Atti del 3° Convegno di studio sul
Risorgimento in Puglia, Bari 1983, pp. 21-33; E. DI CIOMMO, Piccole e medie città meridionali tra antico
regime e periodo napoleonico, in Villes et territoire pendant le période napoléonienne. Francie et Italie,
Roma 1984, pp. 355-421. Inoltre cfr. le stimolanti osservazioni di A. S PAGNOLETTI , Territorio e
amministrazione nel Regno di Napoli (1806-1815), in «Meridiana» 9, 1991, pp. 79-101.
21
Sui processi di trasformazione economica e sociale cfr. il contribuito di E. IACHELLO , Il vino e il
mare. Trafficanti siciliani tra ‘700 e ‘800 nella contea di Mascali, Catania 1991.
22
Cfr. la relazione dell’architetto Vincenzo Musso del 23 novembre 1816 in Archivio di Stato di
Catania (ASCT), Fondo Intendenza Borbonica, b. 4226. V. pure i riferimenti in S. FRESTA, Da Mascali a
Giarre. La borghesia nella contea, Acireale 1969.
96
LE NUOVE GERARCHIE TERRITORIALI E LA RIVOLUZIONE DEL 1820-21 IN SICILIA
si spopolava, mentre l’esodo verso le più fertili aree costiere finì per concentrare a
Giarre oltre 4000 residenti. L’inesorabile discesa dal monte al piano risultò inoltre favorita
dalla nuova articolazione delle vie di comunicazione.
La decisione di spostare su Giarre il percorso della strada consolare per Messina e la
costruzione nel 1794 della rotabile per Riposto facevano di Giarre non solo un luogo
privilegiato di sosta per le truppe regie, ma anche un importante centro per il commercio
di transito sull’asse viario tra Catania e Messina. La descrizione dell’architetto Musso
nel 1816 ci restituisce l’immagine di un paese in rapida espansione, pieno di botteghe,
locande e trattorie, la cui ricca borghesia locale si sentiva già matura per assumere la
direzione politico-amministrativa del territorio. Oltre ai vini che affluivano nel suo
riposto, Giarre si attrezzò come emporio mercantile del versante orientale dell’Etna:
qui giungevano e si scambiavano i cereali e le lane di Castiglione e Francavilla, il legname
e le nocciole di Randazzo e Linguaglossa, i bozzoli di seta di Calatabiano e Piedimonte,
le mandorle di Mascali. Frutteti, canapa, lino e soprattutto la vite davano forma e volto
al paesaggio costruito dell’hinterland, con una popolazione che si sgranava lungo le
campagne intensamente coltivate e tornava a ripopolare gli antichi casali. Nel 1820
Giarre superò i 15000 abitanti e vent’anni dopo con 20.000 avrebbe raggiunto per taglia
demografica Acireale e Caltagirone23.
Le pressioni per trasferire a Giarre la sede amministrativa della contea e per ottenere
l’autonomia municipale risultarono vincenti quando coincisero con le grandi svolte della
storia isolana. La Costituzione del 1812 e l’abolizione della feudalità sancirono le nuove
gerarchie territoriali. Con l’alleanza di Riposto e dei villaggi di S. Giovanni e S. Alfio,
la borghesia giarrese nel 1815 si vide riconoscere una parziale autonomia e tre anni
dopo ottenne un Decurionato di 30 membri e proprie magistrature locali. Nello scontro
che contrappose i due centri rivali ciascuna élite municipale mobilitò letterati e poeti a
sostegno delle rispettive rivendicazioni, cosicché non sorprende se ad uno scrittore
illuminato come Domenico Tempio la borghesia giarrese affidò il compito di ironizzare
sulle decadenti fortune dei mascalesi e di esaltare invece i valori moderni della ricchezza
e del merito individuale24. L’orgoglio municipale di Mascali, tuttavia, non fu vinto tanto
facilmente dalle torbidezze giarrote, poiché i notabili di quel paese si erano appellati
contro la sentenza della Gran Corte dei Conti di Palermo che aveva attribuito a Giarre
tutti i casali sparsi per la ricca pianura, chiedendo almeno la restituzione dei villaggi di
S. Alfio e di S. Giovanni. A sciogliere la controversia territoriale venne chiamato
l’Intendente della valle, duca di Sammartino, che nel marzo 1820 spedì il consigliere
Antonio Ardizzone Amato a “raccogliere il voto delle due contrade”. Si trattò di un
vero e proprio referendum. L’assemblea degli abitanti venne convocata di domenica
nella chiesa parrocchiale: su 209 capifamiglia di S. Alfio e 312 di S. Giovanni se ne
Cfr. La documentazione inedita raccolta in Archivio di Stato di Palermo, Intendenza Borbonica,
Direzione generale di Statistica, b. 157, fasc. Circoscrizione territoriale della provincia di Catania. Anno
1840.
24
Sulla nascita del nuovo comune cfr. S. FRESTA, Una comunità agricola nelle terre della contea di
Mascali (Giarre 1681-1823), Catania s.d. Per gli aspetti letterari del conflitto tra i due paesi v. pure S.
CORRENTI, Le origini storiche di Giarre, Giarre 1965.
23
97
GIUSEPPE BARONE
presentarono rispettivamente 68 e 121, che all’unanimità dichiararono di volersi unire a
Giarre. Fu un risultato scontato, poiché a Palermo e a Napoli la forte borghesia giarrese
manteneva legami e relazioni influenti che le consentirono l’annessione dei villaggi e il
trasferimento della fiera agricola di S. Leonardo.
La rivoluzione del 1820 bloccò tuttavia l’espansione territoriale di Giarre, perché
sotto le insegne dell’aquila palermitana sorgeva il municipalismo concorrente di Riposto,
che mandò in frantumi l’apparente compattezza dell’élite ionico-etnea. Antico caricatoio
della contea e sede di magazzini a mare sin dal 1578, il quartiere del riposto era decollato
come molo d’imbarco vinicolo agli inizi del XIX secolo, quando la presenza delle truppe
inglesi in Sicilia e il commercio di cabotaggio con Messina e Malta avevano sviluppato
un ceto mercantile autoctono che si era specializzato nell’industria armatoriale e nel
trasporto marittimo dei vini: nel 1820 la marina ripostese contava già una Scuola nautica
e 28 velieri per oltre 1.000 tonnellate. Nella lunga disputa tra Giarre e Riposto ebbero
certamente un peso i contrasti campanilistici tra le due sezioni, agraria e marinara, della
borghesia locale; più che dal retaggio di discordie d’ancien régime, tuttavia, una così
aspra rivalità nasceva dalla difficoltà di mediare tra i divergenti progetti politici di una
élite socialmente composita e con un ampio ventaglio di interessi economici. Nel 1820
la storia politica europea si riverberava ancora una volta negli equilibri delle dinamiche
periferie25 .
La richiesta di collettazione del quartiere di Riposto trovò orecchie attente nella
Giunta Provvisoria di Palermo che in cambio della adesione all’indipendenza siciliana
si affrettò a promettere la separazione da Giarre e l’elevazione a comune autonomo.
Palermo era tuttavia molto lontana geograficamente e politicamente rispetto al conflitto
interno tra Giarre e Riposto, le cui classi dirigenti restavano fedeli al governo di Napoli
e alle autorità borboniche di Catania e Messina. La stessa élite ripostese vantava origini
peloritane, da quando numerose famiglie si erano trasferite nel borgo marinaro dopo la
rivolta di Messina del 1674-78. Lo scontro si concentrò dunque nella capitale del regno
e vide nel 1820 la temporanea vittoria della comunità ripostese, le cui affollate vendite
carbonare riuscirono a far breccia sul governo costituzionale, che nel mese di dicembre
approvò il decreto di erezione a Comune autonomo. I Fiamingo e i Tomarchio con gli
altri maggiorenti pagarono a peso d’oro i procuratori legali che dimostrarono ai ministri
napoletani la necessità della separazione amministrativa, nella misura in cui “Giarre si
è rivelato sempre come un socio in malafede e prepotente anche negli affari morali e
religiosi”: all’arcivescovo di Messina fu consegnata una petizione con centinaia di firme
nella quale si accusava il clero di Giarre di avere imposto S. Isidoro come patrono
quando invece i ripostesi erano devoti a S. Pietro protettore del mare26.
Se la ricchezza dei ceti mercantili del riposto legittimava la domanda di autogoverno
del territorio, il conflitto interno alla “forzata comune” si polarizzò attorno a tre nodi
cruciali: struttura del bilancio, lavori pubblici e regolamenti sanitari. Le famiglie più
25
Oltre ai lavori già citati di Iachello v. pure le notizie riportate nel volume di S. CORRENTI, Riposto
nella storia, nell’arte e nella vita del suo popolo, Tringale, Siracusa 1985.
26
Sugli aspetti politico-religiosi del conflitto cfr. G. BARONE, Le piccole patrie. Elites urbane e territorio
cit.
98
LE NUOVE GERARCHIE TERRITORIALI E LA RIVOLUZIONE DEL 1820-21 IN SICILIA
cospicue del borgo marinaro (Fiamingo, Tomarchio, Ligresti, Grassi, Patanè) lamentarono
nei loro memoriali lo squilibrato rapporto tra gettito fiscale e spesa pubblica nei diversi
quartieri, cosicché per servizi e sussidi Riposto avrebbe ricevuto appena l’ottava parte
di quelli riservati a Giarre. Le proteste riguardavano anche lo stato di abbandono delle
strade, la mancata arginatura del torrente che straripava fino a mare, nonché “tutte le
negate comodità” di cui non poteva più privarsi un fiorente centro commerciale; il
Decurionato nelle mani dei giarresi aveva boicottato anche la riparazione del grande
orologio sulla piazza a mare, strumento di misurazione indispensabile del “regolato
ordine dei negozi”. La vertenza sulla Deputazione della salute era però la più emblematica
per decifrare gli interessi contrapposti delle due comunità. I notabili giarresi mantenevano
uno stretto controllo sulla composizione della Deputazione, che svolgeva compiti di
vigilanza annonaria e di lotta al contrabbando, ma secondo i ripostesi la lontananza dal
mare dei deputati giarresi impediva loro di essere sempre presenti sul molo e sulla
spiaggia “locché produce inciampo grave al commercio”. Questi ultimi, tuttavia, non
volevano mollare la presa, per il fondato sospetto che negozianti e padroni di barca
manipolassero arbitrariamente le procedure sanitarie e evadessero i diritti doganali. A
sua volta Sebastiano Fiamingo denunciava “l’immorale condotta” di sindaci e cassieri
comunali nella gestione delle gabelle e dei dazi civici, che alcuni anni dopo avrebbe
dato vita a un clamoroso processo davanti alla Gran Corte civile di Catania, a conferma
della frattura insanabile tra le due sezioni della borghesia locale27.
La fine dell’ottimestre costituzionale, la repressione dell’associazionismo carbonaro
e la restaurazione dell’assolutismo monarchico posero termine anzitempo all’autonomia
municipale di Riposto. Il Consiglio di Intendenza riunitosi nell’aprile del 1822 tentò di
stabilire una concordia tra le due comunità, ma i notabili di Giarre che rappresentavano
l’élite agraria e le professioni liberali resistevano all’accordo poiché “l’attuale
pretensione nacque in tempo delle odiose oscillazioni del 1820" ed essendo incompatibili
gli eventuali eleggibili di quel quartiere in quanto “come classe dei negozianti il loro
interesse si metterebbe in collusione con la salute pubblica”.
Svaniti i fumi della rivoluzione, dunque, la solida borghesia terriera e professionale
delle giarre decise di non dare spazio alcuno agli industriosi del riposto: come
giustificazione etica essa tirò in ballo il tema dell’incompatibilità, ma molto più
concretamente cercò di preservare cariche pubbliche e potere politico alla propria rete
allargata di parentele e clientele. Con grande fatica l’Intendente riuscì a fare accettare
una soluzione di compromesso basata sulla nuova carica di un Eletto particolare di
Riposto con funzioni di ufficiale dello stato civile e sulla residenza delle magistrature
ad anni alterni nei due quartieri, in attesa di costruire nuovi edifici pubblici lungo lo
stradone di collegamento. La nomina del primo sindaco unitario nella persona di
Sebastiano Fiamingo, il più ricco commerciante ripostese, fu però duramente contestata
dai giarresi timorosi di perdere il controllo non solo della marina ma dell’intero territo27
Rapporti e relazioni del 1820-21 sono conservati nel fasc. Avviso del Consiglio d’Intendenza di
Catania per la concordia tra Giarre e Riposto, 8 aprile 1822, in ASCT, Intendenza Borbonica, b. 4224.
Sulle successive vicende della contesa amministrativa e territoriale fino alla separazione del 1841 cfr. la
copiosa documentazione archivistica con allegate carte topografiche sempre ivi, b. 4226..
99
GIUSEPPE BARONE
rio28.
Il rescritto regio del 27 settembre 1826 annullò tutte le procedure della “collettazione”
e ripristinò lo status quo ante. Sembrò una sconfitta definitiva per Riposto, ma non lo
era. Per ribadire il parere negativo sulla separazione a maggioranza il Decurionato
cittadino stigmatizzò “gli orrorosi scompigli” della rivoluzione, quando “le buone
persone vennero confuse coi ribelli” e l’autonomia di Riposto “fu estorta col
tradimento”. L’argomentazione principale per convincere il Consiglio di Intendenza e
il ministero degli Interni a Napoli consistette nella sottolineatura dei vantaggi di una
grande città unita e dei meriti politici di Giarre “cheta e ubbidiente” alla monarchia
borbonica rispetto all’infedele rivale, espressione di un “ceto incivile, di un ambiente
rozzo e selvaggio” ancora da educare “secondo i principi di civile economia e di
osservanza dei pubblici doveri”. Una tale narrazione partigiana poté funzionare ancora
per un decennio, per venire smontata dopo le rivolte per il colera del 1837, allorché
Ferdinando II decise di modificare in senso riformatore la politica verso la Sicilia,
avviando un’interlocuzione diretta con le élites locali e potenziando i lavori pubblici
nell’isola 29 .
I trafficanti di Riposto, al culmine di una rapida e collettiva ascesa sociale, raggiunsero
l’obiettivo di potenziare le funzioni urbane dello scalo marittimo così da farne l’emporio
mercantile dell’hinterland etneo. I vini dell’Etna furono i protagonisti di una
specializzazione territoriale che valorizzò l’agricoltura intensiva dell’ex-contea di
Mascali coniugandola con le “economie del mare”. La polemica contro “gli oziosi
possidenti” di Giarre dediti a “banchettare sulle spoglie del lavoro altrui” servì come
contenitore ideologico di quel particolare patriottismo municipale che contribuì ad
alimentare forme nuove di identità collettiva. Il decreto reale del 27 aprile 1841 sancì la
nascita di una piccola patria come spazio vitale di una borghesia in ascesa. Gli eventi
rivoluzionari del 1820 avevano funzionato da detonatori di un conflitto fazionale che
nulla aveva a che fare con le antiche faide intercomunali dell’ancien régime, poiché era
il riflesso moderno dell’ampliamento della sfera politica e dell’inserimento dell’aria
ionico-etnea ad alta vocazione agromercantile nei circuiti della dimensione-mondo
dell’economia.
L’autonomia comunale della marina ripostese fu inizialmente percepita come una
sconfitta dai notabili giarresi, ma sul medio periodo quella delusione risultò compensata
dalla crescita impetuosa di entrambe le comunità trainate dalle esportazioni vinicole e
dallo sviluppo commerciale. Il territorio mascalese da uno si era trasformato in trino, e
alla blasonata ma decaduta Mascali si erano affiancati due dinamici centri urbani, Giarre
e Riposto, le cui classi dirigenti avrebbero pilotato insieme nel 1848-1860 le lotte
risorgimentali per l’unificazione italiana30. La storiografia non ha prestato finora la dovuta
attenzione alla rimodulazione delle circoscrizioni amministrative come riflesso delle
G. BARONE, Le piccole patrie, cit.
Memoriali, relazioni statistiche e verbali del Consiglio d’Intendenza fino alla concessione
dell’autonomia comunale di Riposto con decreto reale del 27 aprile 1841 sono consultabili in ASCT,
Intendenza Borbonica, bb. 4224 e 4226 cit..
30
G. BARONE, Le piccole patrie, cit.
28
29
100
LE NUOVE GERARCHIE TERRITORIALI E LA RIVOLUZIONE DEL 1820-21 IN SICILIA
nuove gerarchie urbane. Spesso considerata come esercizio burocratico di ingegneria
territoriale, essa invece rappresentò una leva istituzionale manovrata abilmente dalle
borghesie emergenti per ridefinire lo spazio fisico e politico del potere in sintonia con i
processi di sviluppo. La rivoluzione del 1820 costituì uno spartiacque decisivo
accelerando la de-costruzione e la ri-costruzione di interi quadri ambientali caratterizzati
da nuove egemonie urbane31.
3. Alleate e nemiche
Per molti aspetti Siracusa risulta un osservatorio esemplare per comprendere il ruolo
delle città meridionali come agenzie di sviluppo locale e di mutamento sociale, luogo
simbolico della formazione millenaria di élites potenti e colte. Con un illustre passato
alle spalle, testimoniato dallo straordinario patrimonio archeologico, la città aretusea
approdava al XIX secolo come centro demaniale di modesta dimensione demografica
(14.000 abitanti del 1806, rispetto ai 50.000 dell’antichità) e soprattutto come piazzaforte
militare strategica del Mediterraneo. Fortezza inespugnabile dai tempi di Carlo V, come
Augusta e la Cittadella di Messina, essa non poteva però competere per popolazione,
territorio e risorse economiche né con le ex-capitali Palermo e Messina né con Catania,
il cui decollo come centro manifatturiero ed agromercantile avrebbe distanziato tutte le
altre città dell’isola. Fu piuttosto nel versante sud-orientale che l’elevazione a capovalle
nel 1817 le offrì l’opportunità di riconquistare l’antica egemonia areale, venendo a
sanzionare il declassamento temporaneo sia di Noto e della sua aristocrazia e sia dell’excontea di Modica con le sue abolite preminenze d’ancien régime. Si trattò di una sfida
politica e culturale per la città aretusea, che fino a quel momento si era pigramente
adagiata nel ruolo esclusivo di fortezza rinchiusa tra le cinquecentesche mura spagnole
dell’isolotto di Ortigia32.
Giustificati appaiono perciò l’entusiasmo con cui la popolazione accolse la notizia
della promozione a capovalle e il Proclama di ringraziamento a Ferdinando I sottoscritto
nel dicembre del 1817 dal senato aretuseo: “Sua Maestà nell’innalzare Siracusa ad una
delle sette stabilite Intendenze ha avuto di mira di richiamarla al suo antico splendore
e di eccitarla alla riproduzione di quei sublimi ingegni che in ogni campo di arte e
scienza fiorirono all’ombra di Platone e di Eschilo qui ospiti dalla culta Grecia” 33.
Come ricordò nel 1879 lo storico locale Serafino Privitera “fu questa veramente l’epoca
del risorgimento della città dacché ebbe perduto l’insigne privilegio della Camera
reginale”. Come sede di Intendenza Siracusa estendeva ora la propria giurisdizione su
un vasto territorio comprendente 36 Comuni e nonostante lo smembramento della sua
Un ulteriore esempio del cortocircuito tra la rivoluzione del 1820 e l’autonomia amministrativa è
quello di Zafferana Etnea che fu elevata a Comune nel 1826. Per notizie più estese rimando alla monografia
di A. PATANÈ, Pagine della “Zafarana”. Origine e vicende varie del comune di Zafferana Etnea (17531860), Distretto Scolastico di Acireale, Acireale 1998.
32
L. TRIGILIA, Siracusa. Distruzioni e trasformazioni urbane dal 1693 al 1942, Officina, Roma 1985;
T. CARPINTERI, Siracusa città fortificata, Palermo 1983; L. DUFOUR, Siracusa tra due secoli: le metamorfosi
dello spazio, Ediprint, Siracusa 1998.
33
S. P RIVITERA, Storia di Siracusa antica e moderna, vol. III, Napoli 1879, ristampa Lussografica,
Caltanissetta 1984, pp. 310-311.
31
101
GIUSEPPE BARONE
vastissima diocesi in seguito all’istituzione dei nuovi vescovadi di Caltagirone e Piazza
Armerina nel 1817, l’impianto dell’articolata organizzazione amministrativa rappresentò
un eccellente volano di crescita che si coniugava con le aspirazioni dei maggiorenti
locali a potenziare l’attrezzatura portuale e i flussi commerciali.
All’espansione demografica e mercantile si affiancò la dilatazione dei circuiti politici
attraverso la diffusione della Massoneria e della Carboneria: la prima con la Loggia
attiva nell’abitazione di Vincenzo Oddo frequentata da ufficiali, nobili e alto clero sotto
la direzione del Gran Maestro barone di Milocca e del segretario Domenico Camardelli,
la seconda nata per iniziativa del poeta Bartolomeo Sestini e dei fratelli Abela con la
partecipazione di civili ed artigiani distribuiti in numerose vendite 34 . La svolta
costituzionale della monarchia borbonica nel luglio 1820 incontrò l’unanime adesione
del popolo siracusano e delle sue autorità civili all’unità col governo di Napoli, in sintonia
con le contemporanee scelte di Messina e Catania. Sotto la guida dell’Intendente principe
di Reburdone il Decurionato si attestò subito su posizioni lealiste ed invano il barone di
Pancali, Emanuele Francica, si partì da Palermo (dove risiedeva) con alcuni sodali per
convincere i suoi concittadini a sciogliere la fedeltà a Napoli e aderire al partito
dell’indipendenza. A Siracusa incontrò una così tenace opposizione che minacciato di
morte fu costretto a fuggirsene. Nell’occasione si manifestò evidente il contrasto tra la
loggia massonica Timoleonte, dallo stesso Pancali fondata e favorevole alla Giunta
palermitana, e le vendite carbonare di cui era magna pars Mario Adorno, schierata sulle
posizioni filo-borboniche dei fratelli napoletani. Complice di Francesco Paolo Di Blasi
nella congiura giacobina del 1795, amico di Gaetano Abela, Francica nel 1820 non
riuscì a smuovere le salde convinzioni lealiste dell’élite aretusea. La delusione della
città sarebbe maturata quindici anni dopo e il barone Pancali sarebbe tornato a svolgere
un ruolo cruciale nelle vicende risorgimentali del 1837 del 184835.
L’apparente tranquillità fu tuttavia interrotta alla fine di luglio, quando circa 500
soldati dei cosiddetti corpi provvisori (militari con precedenti penali) con la complicità
dei prigionieri rinchiusi nel Presidio si ammutinarono e al grido Libertà! si dispersero
per le campagne dopo aver seminato il panico in città con l’uccisione di un ufficiale e il
ferimento di altri. Si disse allora che fossero tornati a riunirsi dopo qualche giorno con
l’audace intenzione di prendere d’assalto Catania per punirla della sua adesione a Napoli.
Per prevenire il pericolo incombente, dalla città etnea uscì la Guardia civica con
l’appoggio della poca truppa disponibile ed affrontò con coraggio i disertori, che vennero
sconfitti e ricondotti in buon numero prigionieri a Siracusa. “Erano laceri, polverosi,
mezzo ignudi - scrisse Privitera - e coperti di ferite che destavano pietà a vederli, tanto
più che come disertori li aspettarono le più severe punizioni”. La Deputazione di
pubblica sicurezza di Catania in un Proclama ai cittadini magnificò l’impresa come
una gloriosa vittoria contro “l’indisciplinata soldatesca che minacciava la vita e la
proprietà degli onesti e dei probi siciliani”, ammonendo tutti all’obbedienza verso il
Ivi, pp. 313-314. Per più ampi riferimenti cfr. S. SANTUCCIO , Governare la città. Territorio,
amministrazione e politica a Siracusa (1817-1865), Angeli, Milano 2010.
35
V. l’aggiornata biografia di S. SANTUCCIO, Un protagonista del Risorgimento siciliano. Emanuele
Francica barone di Pancali (1783-1868), Verbavolant, Siracusa 2012.
34
102
LE NUOVE GERARCHIE TERRITORIALI E LA RIVOLUZIONE DEL 1820-21 IN SICILIA
saggio sovrano36 . Le città capovalli si confermavano l’unico vero baluardo della
monarchia borbonica. Ma le altre città ribollivano come il mare in tempesta, le cui onde
avrebbero travolto nel 1848 e nel 1860 l’esistenza del Regno delle Due Sicilie.
Alla crescita politica ed economica del capoluogo Siracusa faceva da sensibile
contrappunto l’abbandono istituzionale in cui era stata lasciata Noto, le cui élites nobiliari
si erano intestate nel corso del Settecento quella spettacolare rifondazione del tessuto
urbanistico che aveva trasformato la città ricostruita dopo il sisma del 1693 in un giardino
di pietra e nella capitale del tardobarocco siciliano. A lungo Noto aveva goduto dei
favori della dinastia borbonica, da quando Carlo III nel 1742 vi aveva stabilito il Consolato
del Commercio accompagnando con lavori pubblici e donazioni a chiese e conventi la
rinascita della città dopo il trasferimento dal vecchio al nuovo sito. La decisione regia di
assegnare il titolo di capovalle a Siracusa risultò penalizzante per Modica e ancor più
per Noto, il cui Decurionato formulò una dura Memoria di protesta che invitava
Ferdinando I a rivedere una scelta definita “improvvida” poiché quella città “serrata in
uno scoglio” era soltanto una fortezza militare, mancante di adeguate vie di
comunicazione con l’entroterra e priva di personalità colte e nobili capaci di governare
un così ampio territorio37. Come nel caso di Modica, l’esposto non ebbe risposta ma
alimentò il risentimento diffuso tra tutti i ceti sociali verso la città rivale e verso Napoli.
Alla vigilia della rivoluzione Noto pullulava di associazioni settarie che coinvolgevano
a vari livelli nobiltà, clero, borghesia e maestranze. La loggia massonica La Provvidenza
raccoglieva soprattutto esponenti del primo ceto che tramavano per ottenere il capoluogo
ma attenti soprattutto a preservare la pubblica tranquillità e l’ordine sociale. Secondo il
regio giudice la Carboneria locale era invece nelle mani dei preti secolari e del clero
religioso e la vendita si riuniva segretamente nei conventi di S. Antonino e di S. Domenico:
ne era Gran Maestro il domenicano padre Vasquez, che però era stato denunciato dagli
altri monaci e relegato in un convento a Taormina, cosicché ne aveva fatto
temporaneamente le veci il cappuccino Antonio Brancati, che fu però scoperto e confinato
a Favignana. La rete carbonara si estendeva ai ceti popolari, diffondendo idee di libertà
ed uguaglianza nel nome di un cristianesimo evangelico che restituiva dignità ai poveri,
alimentava il malcontento contro la coscrizione obbligatoria e gli esorbitanti dazi civici.
Massoneria e Carboneria presentavano una differente struttura sociale, ma rendevano
entrambe teso il clima politico, costringendo il Decurionato a formare una Deputazione
di pubblica sicurezza nella quale spiccavano i nomi del sindaco, il barone Andrea Astuto,
dei marchesi di Canicarao e del Castelluccio, del barone Corradino Piraino e di altri noti
gentiluomini, come pure venne rafforzata la Compagnia d’Arme affidata al capitano
Biagio Politi38.
S. PRIVITERA, op. cit., p. 315.
Cfr. la documentazione in ASP, Ministero Affari di Sicilia, Interno, filze 1 e 3. Per la storia netina v.
l’agile sintesi di F. BALSAMO , Città ingegnosa. Sintesi di storia netina, Arti grafiche S. Corrado, Noto
1992.
38
Archivio di Stato di Siracusa (ASSR), Fondo Intendenza borbonica, b. 3533, rapporto alla
Commissione di Pubblica sicurezza di Noto all’Intendente di Siracusa in data 8 agosto 1820.
Sull’associazionismo massonico e carbonaro cfr. G. GIAMMANCO, Memorie storiche netine, ISVNA, Noto
1997, p. 10 sgg.
36
37
103
GIUSEPPE BARONE
Il 13 agosto era il giorno del solenne giuramento della Costituzione di Cadice, ma la
cerimonia pubblica al cospetto delle autorità venne interrotta dalla notizia sediziosa che
corse come un lampo tra la folla, secondo cui il Monte frumentario di Noto per ordine
dell’Intendente sarebbe stato trasferito a Siracusa. Ad incitare il popolo alla rivolta era
stato un patrocinatore legale, Vincenzo Belleri, che con infuocate parole accusò i
siracusani di voler depredare i piccoli risparmi e i lasciti di beneficenza dei netini. Dalla
celebrazione alla rivoluzione il passo fu brevissimo: oltre al Belleri, il barbiere Fortunato
Pintaldi e il contadino Giovanni Diamanti sobillarono una folla di muratori, braccianti,
facchini, piccoli artigiani che dopo aver linciato un “maneggiatore di pupi” correvano
per la strada principale del Cassaro spaccando vetrate e arredi di botteghe, e
saccheggiarono diverse case tra cui quelle del notaio Mariano Perricone, del possidente
Antonino Di Pietro, del canonico Antonino Mazza, del sarto Vincenzo Pintaldi.
L’intervento e della Compagnia d’Arme fu tempestivo e quasi tutti i rivoltosi vennero
arrestati dopo un breve ma intenso scontro a fuoco. L’indomani la riunione della
Deputazione della pubblica sicurezza si trasformò in una polveriera di polemiche
reciproche tra i nobili che accusavano i carbonari di fomentare la sedizione e Belleri
con Pintaldi ed alcuni preti che contestarono l’immobilismo dei maggiorenti, “anime
passive” di fronte alla “scostumata rapina” del Monte frumentario unico “patrimonio
del povero”. La discussione affrontò anche lo stato discusso approvato dal Decurionato:
i capipopolo rinfacciarono ai nobili di essere debitori insolventi verso il bilancio del
comune mentre i dazi civici si scaricavano esclusivamente sulle spalle delle classi
subalterne. Un labile compromesso pose fine alla movimentata seduta: l’operato del
Belleri venne giustificato come difesa degli interessi cittadini e dopo alcuni giorni tutti
gli arrestati furono rimessi in libertà39.
La tregua non resse alla minaccia delle squadre palermitane inviate per gettare lo
scompiglio nella Sicilia orientale. Il 29 agosto si presentò al giudice di Circondario,
Carmelo Bonfanti, lo scrivano Girolamo Grienti che denunciò l’esistenza di una segreta
congiura “per tagliarsi a pezzi tutti i nobili e i civili della città non esclusi i bambini e
le donne, e impadronirsi delle loro ricchezze per dividerle a metà, parte per i cospiratori
e parte a favore del comune per i bisognosi”. Secondo il racconto, il commando armato,
composto da 400 palermitani e 300 paesani, avrebbe assalito Noto il 2 settembre e
chiuso le porte del paese per impedire l’intervento dei contadini dei fondi circostanti a
difesa dei loro padroni. Il complotto sarebbe stato organizzato in casa di don Sebastiano
Zacco dai massari Michele Leone e Corrado Cutrona alla presenza di capi grossi indicati
nello stesso Zacco, nel Belleri e di don Simone Tedeschi che era in contatto con i
palermitani. La strage doveva estendersi alle famiglie dei marchesi di Castelluccio, S.
Alfano e Floro, ai cavalieri Emanuele Salonia e Corrado Sirugo, ai canonici Giambattista
Tedeschi e Corrado Sbano, ai fratelli Cultrera, al notaio Corrado Valvo, ed infine al
capitano Politi ed ai suoi soldati qualora si fossero rifiutati di consegnare le armi. I
congiurati - sempre secondo il Grienti - non escludevano di depredare anche conventi e
39
Gli atti del processo sono conservati in ASSR, Fondo Gran Corte Criminale, bb. 110, 113, 116. La
vicenda è ricostruita da C. SIRENA, All’ombra del Barocco. Noto nell’Ottocento borbonico, Bonanno,
Acireale – Roma 2013, pp. 149-152.
104
LE NUOVE GERARCHIE TERRITORIALI E LA RIVOLUZIONE DEL 1820-21 IN SICILIA
monasteri, ma avrebbero deciso di risparmiare i marchesi Della Ferla e Canicarao perché
benefattori del popolo. Una volta scoperto, il piano venne però abbandonato e per non
incorrere nei rigori della legge il 31 agosto il Belleri si presentò alle autorità protestando
la propria innocenza. Spariti i capi grossi, fuggiti gli altri capipopolo e liberato il territorio
dalla presenza dei palermitani ritiratisi verso l’interno, non fu impresa difficile per il
capitano Politi reprimere il dissenso interno con l’arresto di oltre 100 netini della “bassa
gente”40.
Le vicende di Noto si prestano ad una breve riflessione. A differenza di altre città, la
delusione per la mancata elevazione a capoluogo di provincia non spinse le sue classi
dirigenti ad aderire alla Giunta provvisoria di Palermo in opposizione al governo di
Napoli. La nobiltà netina restò invece attaccata alla dinastia borbonica pur sentendosi
tradita nelle sue aspettative. Una tale fedeltà si spiega in parte con la paura di dover
fronteggiare il pericolo di una rivoluzione popolare caldeggiata dalle frange più radicali
della Carboneria locale alleata paradossalmente con l’aristocrazia palermitana che aveva
ordinato una spedizione punitiva di 400 guerriglieri. Questo atteggiamento
apparentemente remissivo non mutò però di una virgola l’obiettivo politico di richiedere
l’assegnazione del titolo di capovalle, come dimostra la Memoria presentata nel gennaio
del 1821 al Parlamento napoletano con una raccolta di firme presso altri Comuni, a
cominciare da quello di Avola, che indignò il Decurionato aretuseo fino a chiedere al
Luogotenente la rimozione dai loro incarichi del capitano Politi e del giudice di
Circondario. La fine dell’ottimestre costituzionale bloccò le manovre di Noto, ma solo
per poco. Il colera del 1837 e la rivolta antiborbonica di Siracusa avrebbero convinto
Ferdinando II a trasferire il capovalle a Noto, finché l’Unità d’Italia avrebbe restituito
ancora una volta a Siracusa l’ambito titolo41.
4. Il mare e il vino
Nella Sicilia occidentale Trapani fu la prima a schierarsi apertamente a favore della
svolta costituzionale della monarchia borbonica e contro la rivolta separatista di Palermo.
Le riforme amministrative del 1816-17, infatti, non solo avevano elevato la città a sede
di Intendenza provinciale ma avevano contribuito a consolidare le direttrici di sviluppo
dell’economia locale. Con la fine del Blocco continentale e con la ripresa dei traffici
mediterranei la marineria trapanese aveva riallacciato i collegamenti marittimi con i
principali scali italiani ed europei, con Tunisi e col Levante, dove si indirizzavano le
crescenti esportazioni di sale, tonno, vino e corallo. Dopo la crisi recessiva del 18071815 le economie del mare stavano rilanciando la leadership territoriale del polo trapanese
grazie alle capacità imprenditoriali e agli investimenti produttivi di una borghesia
commerciale che già nel corso del Settecento si era affermata come classe dirigente
rispetto alla ristretta oligarchia nobiliare d’ancien régime. Gli studi di Orazio Cancila e
di Francesco Benigno hanno ricostruito i processi di trasformazione produttiva
ASSR, Intendenza borbonica, b.113. V. pure C. Sirena, op. cit., pp. 151-162.
Sulla lunga controversia relativa al capoluogo tra Siracusa e Noto cfr. G. BARONE, Il tramonto dei
gattopardi. Gruppi dirigenti e potere locale (1861-1890) in Matteo Raeli. L’uomo, il patriota, lo statista,
a cura di G. BARONE, Bonanno, Acireale – Roma 2013, pp. 225-250.
40
41
105
GIUSEPPE BARONE
dell’economia urbana, così come le ricerche di Salvatore Costanza hanno sottolineato il
ciclo espansivo dopo il 1815 trainato dall’industria salifera e dalla pesca del tonno42.
Il nuovo assetto amministrativo aveva perciò suggellato l’ascesa sociale di una
rampante borghesia urbana, composta da negozianti, possidenti, sborsanti e cambisti,
gabelloti di saline, professionisti, patruni di varca, impiegati e maestranze artigiane che
cominciarono a riempire le liste degli eleggibili e ad occupare le cariche amministrative
del potere locale. L’alleanza politica con gli esponenti più dinamici ed autorevoli del
patriziato stabilizzò gli equilibri interni all’élite cittadina: Pietro Morello barone di S.
Giovanni diventò sindaco nel 1817, mentre i nobili Antonio e Giovanni Fardella di
Torrearsa furono chiamati a presiedere rispettivamente il Consiglio provinciale e quello
distrettuale. È questo il coriaceo blocco sociale che nel 1818 si oppose con successo al
progetto del governo di demanializzare le saline e che riuscì ad ottenere privilegi fiscali
e finanziamenti per opere pubbliche in virtù dell’inedito ruolo di capovalle43.
Le prime notizie giunsero da Napoli la sera del 16 luglio e il segretario funzionante
da Intendente, Gaetano Sartorio, si affrettò a pubblicare il Proclama di re Ferdinando.
Due giorni dopo fu nominata una Deputazione di pubblica sicurezza composta dal sindaco
Mocharta, dal marchese Antonino Fardella, dal barone delle Chiuse Giuseppe Staiti,
dall’arciprete De Luca e da altri maggiorenti (Beltrani Scalia, Lombardo) coadiuvati
dal Procuratore della Gran Corte Civile e Criminale Francesco Fortunato. Alle notizie
dei tumulti scoppiati a Palermo si rispose col pattugliamento delle strade interne ed
esterne, con la sorveglianza dei luoghi fortificati e con la vigilanza armata del porto e
delle coste per impedire il contagio rivoluzionario. Il pronunciamento filo-napoletano
delle autorità non poté tuttavia evitare alcune manifestazioni pubbliche di adesione alla
causa palermitana: il 18 luglio i primi nastri gialli comparvero tra la popolazione, in
coincidenza con l’annuncio dato dal frate Natale Salvo del convento di S. Rocco di un
improvviso prodigio nella chiesa di S. Antonio, dove era fiorito il giglio nelle mani
della statua del santo come premonizione di radicali cambiamenti.
Nel timore che il povero frate volesse emulare le gesta di padre Vaglica nella capitale,
la Deputazione lo allontanò subito dalla città insieme agli altri confratelli trasferiti in
vari conventi della Diocesi. Nel pomeriggio di quel giorno ad alimentare la tensione si
aggiunse la diserzione di 50 soldati napoletani, che abbandonarono il presidio militare
per portarsi a Messina, da dove imbarcarsi per il continente: giunti in prossimità di
Alcamo, che si era già professata a favore di Palermo, vennero scambiati come
un’avanguardia di truppe inviate da Trapani per reprimere la cittadina ribelle e da quegli
abitanti in parte trucidati e in parte imprigionati. Nel capoluogo, viceversa, si sparse la
voce che i disertori fossero piuttosto i forzati evasi dal carcere di S. Anna pronti a
congiungersi con i detenuti liberati durante i disordini nella capitale: in effetti diversi
O. CANCILA, Aspetti di un mercato siciliano. Trapani nei secoli XVII-XIX, Sciascia, Caltanissetta –
Roma 1972; F. B ENIGNO, Il porto di Trapani nel Settecento. Rotte, traffici, esportazione (1674-1800),
Trapani 1982; IDEM, Il porto di Trapani agli inizi del XIX secolo: rotte, traffici, merci, in «Libera Università
di Trapani» 12, 1982, pp. 29-62; S. COSTANZA, Trapani città capovalle: economia e potere, in Città capovalli
nell’Ottocento borbonico, a cura di C. TORRISI, Sciascia, Caltanissetta – Roma 1995, pp. 129-160.
43
S. COSTANZA, Tra Sicilia e Africa. Trapani, storia di una città mediterranea, Corrao editore, Trapani
2015.
42
106
LE NUOVE GERARCHIE TERRITORIALI E LA RIVOLUZIONE DEL 1820-21 IN SICILIA
tra costoro erano trapanesi colà prigionieri che furono intercettati dalle squadriglie a
cavallo nelle campagne e tradotti subito agli arresti. Né sorte migliore toccò ai delegati
inviati dalla Giunta di Palermo (il principe di Buonfornello di origine trapanese, il
canonico Milo, l’avvocato Todaro) che furono rimandati indietro prima di sbarcare44.
Nonostante gli allarmi e qualche incidente, Trapani si mantenne fedele ai Borboni. La
città era stata appena promossa a sede di Intendenza, qui erano allocati gli uffici, il
tribunale, le nuove istituzioni amministrative che supportavano la favorevole congiuntura
economica. Nobili, borghesi, maestranze e popolo erano fermamente convinti
dell’adesione al governo di Napoli e per il rifiuto di ogni seduzione separatista. La
Deputazione controllò l’ordine pubblico attraverso la riduzione dei principali dazi
comunali e l’appalto di opere e lavori in grado di sostenere i livelli di occupazione
operaia.
Più che dall’interno le preoccupazioni maggiori derivavano dalle forze ostili esterne,
che non avevano digerito l’elevazione di Trapani a capovalle. Le gare e le scissure tra i
comuni della provincia erano un retaggio dell’ancien régime, ma tornavano a rinfocolarsi
come conseguenza recente delle riforme amministrative che avevano deluso le aspettative
di mobilità sociale di paesi popolosi come Mazara e Marsala dove gruppi dirigenti
anch’essi emergenti ed ambiziosi contestavano la leadership territoriale del nuovo
capoluogo. Entrambe le città registravano un vivace dinamismo agromercantile trainato
dalle trasformazioni dell’agricoltura arborea e dalle esportazioni. Soprattutto Marsala
disponeva di migliori collegamenti stradali con i Comuni dell’entroterra e presentava
uno sviluppo locale simmetrico e concorrente (saline, tonnare, stabilimenti enologici)
con quello di Trapani ma privo di adeguati supporti istituzionali. Non a caso, la Giunta
di Palermo trovò terreno fertile nella popolazione marsalese e nelle agrotowns contigue
per organizzare una strategia d’attacco volta a sottomettere politicamente il capovalle.
Ai primi di agosto un maestro crivaro di S. Ninfa ma residente a Marsala, Antonio
Corso, stava preparando una congiura per massacrare tutti i cittadini più ricchi di Trapani
d’intesa col calzolaio Vincenzo Scuderi ed altri popolani attratti dal mito
dell’indipendenza siciliana; negli stessi giorni era penetrato in città Giuseppe Greco,
evaso dalla Vicaria di Palermo, e col fratello Vincenzo aveva cominciato a corrompere
i soldati di guardia al castello con denaro e promesse di carriera. Scoperte appena in
tempo, le due sommosse furono represse, il Corso e lo Scuderi vennero arrestati, ma i
Greco riuscirono a sfuggire alla cattura e si aggregarono alle bande che infestavano le
campagne.
Da Palermo la Giunta presieduta da Villafranca aveva dato il via all’offensiva contro
le città unioniste e sotto la denominazione roboante di Esercito spedito contro Trapani
una guerriglia guidata dal curiale Cuzzaniti aveva attraversato Alcamo, Calatafimi e
Salemi fino a penetrare nel territorio marsalese dove questa truppa improvvisata si era
abbandonata a ruberie ed incendi di case coloniche. Da Palermo si cercò di correre
subito ai ripari ed una colonna mobile al comando del barone Di Maria si precipitò a
Marsala per sostituire l’infido Cuzzaniti e chiedere ufficialmente il sostegno dei
44
S. RUSSO FARRUGGIA, I quattro mesi dell’anni 1820 luglio, agosto, settembre e ottobre. Storia degli
avvenimenti nella città e Valle di Trapani, Stampe del Senato, Trapani 1820, pp. 65-70.
107
GIUSEPPE BARONE
maggiorenti locali per la conquista di Trapani: a loro fu comunicata la promessa firmata
da Villafranca di elevare la città al ruolo di capovalle in sostituzione della traditrice
Trapani, e nello stesso tempo si chiese una lista di valenti giuristi e probi patrioti da
tenere presenti per la nomina dei nuovi magistrati. Sfruttando abilmente le rivalità
municipali la guerriglia palermitana ingrossò le proprie fila con l’arrivo di gente armata
dell’agro marsalese pronta a sferrare l’attacco decisivo45.
A Trapani non si restò certo inermi. La saldezza del patriziato urbano e l’alleanza
con la forza militare guidata dal colonnello Flugy consentirono la tenuta del blocco
sociale, la cui resistenza al nemico esterno venne amplificata col ricorso ai dispositivi
simbolici dell’identità civile e religiosa. L’8 agosto una grande manifestazione collettiva
celebrò il solenne giuramento della Costituzione da parte delle autorità civili, del clero,
delle maestranze e della truppa; una settimana dopo, nella tradizionale processione del
16 agosto, i simulacri tanto venerati della Madonna e di S. Alberto furono trasferiti dal
convento carmelitano fuori le mura in cattedrale, in modo da rappresentare coram populo
la fedeltà alla monarchia costituzionale, l’unità interclassista della comunità e la sacra
protezione sulla città. Nello stesso tempo si fece appello all’orgoglio municipale degli
abitanti perché si allistassero nei ranghi della Guardia civica e la Deputazione di sicurezza
pubblica provvide a rafforzare le difese marittime con una flottiglia di lancioni, mentre
si attendevano notizie da Napoli dove era stata inviata la richiesta urgente di soccorsi e
denaro46 .
La guerriglia palermitana del barone Di Maria aveva però deciso di affrettare i tempi
e sin dal 13 agosto era stata ricevuta con i dovuti onori a Marsala, dove era stata scortata
da don Benedetto Mezzapelle e dall’abate Morso per gli ultimi approvvigionamenti e
per coordinare il piano d’attacco. Una colonna si diresse verso Monte S. Giuliano e
un’altra cercò di occupare l’isola di Favignana, incontrando entrambe accanita resistenza.
Più agevole risultò l’ingresso nei piccoli paesi di Xitta e Paceco, da dove però gli abitanti
cercarono la fuga presentandosi alle porte di Trapani. Il capoluogo fu posto sotto assedio
ed i guerriglieri palermitani tagliarono le condutture idriche per assetare la città, non
esitando a fomentare la rivolta popolare contro i maggiorenti: sempre nel pomeriggio
del 13 il montese Andrea Agosta e un evaso dalla Vicaria entrarono al galoppo nel
centro storico annunciando l’imminente invasione della città, e la mattina dopo il
popolano Vito Aloe, denominato Manuzza, cercò di arringare la folla al grido Buon
ordine e Santa Rosalia!. La Guardia civica guidata dal barone Adragna arrestò l’evaso e
il Manuzza, ma il clima di paura e la tensione sociale rischiavano di compromettere
l’ordine pubblico senza una pronta controffensiva47.
I fuochi d’artificio della festa patronale coincisero nella notte del 16 con l’ingresso
in porto di una flottiglia napoletana che portava un reggimento di linea, denaro e
abbondanti munizioni. I rinforzi incoraggiarono la reazione dell’élite locale, che chiamò
45
Il decreto di elevazione di Marsala a capovalle fu pubblicato ufficialmente il 17 agosto: cfr. «Giornale
La Fenice», n. 15, 1 settembre 1820.
46
S. RUSSO FARRUGGIO, op. cit., pp. 71-75. V. pure V. FARDELLA DI T ORREARSA, Ricordi sulla Rivoluzione
siciliana degli anni 1848 e 1849, Sellerio, Palermo 1989 (ristampa), pp. 11-16.
47
S. RUSSO FARRUGGIO, op. cit., pp. 75-81.
108
LE NUOVE GERARCHIE TERRITORIALI E LA RIVOLUZIONE DEL 1820-21 IN SICILIA
il popolo a correre alle armi per contrattaccare “i briganti assassini nemici della Patria”:
lo stesso Adragna, Antonino D’Alì, il baronello delle Chiuse e Nunzio Augugliaro
mobilitarono una squadra di operai e marinai che coadiuvati da 50 soldati con due pezzi
di artiglieria fecero una prima sortita fuori le mura uccidendo 14 briganti e arrestandone
altri. Con l’aiuto di montesi e pacicoti, l’indomani, una seconda incursione scompaginò
le bande nemiche provocando oltre cento morti, ed una terza mise in rotta la guerriglia
forte di 500 armati, molti dei quali preferirono arrendersi e furono trascinati in prigione.
Il successo di questi blitz di cavalleria civica e di miliziani volontari era il risultato
dell’unità interclassista della cittadinanza trapanese cementata dall’ideologia del
patriottismo municipale e dalla solidarietà degli abitanti di Monte S. Giuliano, Paceco e
Xitta aderenti al partito napoletano48.
Nel drammatico scenario di quell’estate riemergevano i conflitti intercomunali, nella
misura in cui alle antiche rivalità tra paesi demaniali e feudali si intrecciavano adesso le
aspettative o le frustrazioni prodotte dal recente assetto amministrativo. Più che il passato,
era semmai la Nuova Politica a generare sordi contrasti o fragili alleanze in relazione
agli instabili equilibri tra poteri locali e Stato centrale. Nello scontro del 17 agosto, ad
esempio, una trentina di arrestati tradotti a Favignana dichiararono di essere tutti abitanti
di Camporeale e mostrarono una speciale patente rilasciata da quel sindaco, che con la
qualifica di combattenti per l’indipendenza siciliana li esonerava dal pagamento dei
dazi civici49.
Per la vittoria finale del capovalle sui paesi ribelli occorreva a questo punto un
intervento delle truppe di linea accresciute dai rinforzi giunti da Napoli. Come atto di
pressione politica la Deputazione di Trapani decretò l’espulsione immediata di tutti i
palermitani dimoranti in città, mentre il colonnello Flugy mise a punto un attacco
concentrico su Marsala utilizzando i mezzi da sbarco napoletani e le forze di terra
composte da militari, Guardia civica e volontari dei comuni viciniori. All’avvicinarsi
delle truppe di terra e di mare Marsala chiese una tregua che fu accordata. Flugy ne
approfittò per dirigere a quei cittadini un proclama nel quale li invitava a recedere
dall’insano accordo con Palermo ed insieme a tutti i comuni della Valle a godere dei
benefici della democratica Costituzione di Cadice; qualora fossero stati però sordi
all’invito e non avessero dato una positiva risposta entro tre ore avrebbe usato la forza e
bombardato la città50.
La replica non si fece attendere: le autorità marsalesi ribadirono la fedeltà al
programma palermitano dei due regni separati sotto l’unica dinastia e domandarono un
ulteriore prolungamento della tregua, col chiaro intento di mobilitare a loro soccorso le
squadre degli altri paesi. Furono momenti di grande concitazione da ambo le parti.
Flugy si mostrò più esitante, perché ordinò al comandante della flottiglia, Luigi La
Farina, di puntare i cannoni ma di non bombardare senza suo ordine, mentre il reggimento
dei bersaglieri guidato dal colonnello Guerini venne mantenuto in stato di allerta a
Ivi, p.82
«Giornale La Fenice», 21 agosto 1820.
50
G. ALAGNA, Storia di Marsala, Torre del Vento, Marsala 2018, vol. II; A. GENNA, Storia di Marsala,
Rotary Club, Marsala 1994 (ristampa).
48
49
109
GIUSEPPE BARONE
qualche miglio dalla città. Il tempo perduto da Trapani si rivelò così tempo guadagnato
per Marsala, alla cui difesa accorsero centinaia di volontari di Mazara, Campobello e
Castelvetrano richiamati da improvvisati corrieri e dal suono a stormo delle campane.
Per due giorni, il 12 e 13 settembre, la battaglia si accese furiosa con atti di violenza
inaudita e di eroiche gesta degli opposti schieramenti, finché la difesa prevalse sull’offesa
costringendo le milizie trapanesi a ritirarsi. Nel baldanzoso rapporto inviato al Villafranca
dal presidente della Giunta di Marsala, Isidoro Spanò, si stigmatizzò “la fuga ignominiosa
dei gentiluomini di Trapani” accusati di furti di bestiame e di barbare razzie ai danni dei
“villici marsalisi”, ma la realtà appare ben diversa dal racconto di Spanò. Fu piuttosto
il timore della rapida avanzata delle truppe di Florestanto Pepe e del colonnello Costa
verso Palermo a convincere Villafranca a sospendere le operazioni delle guerriglie allo
scopo di intavolare trattative di pace con Napoli. Più che la vittoria o la sconfitta sul
campo fu l’ordine di sospendere ogni ostilità giunto da Palermo il 14 settembre a
interrompere il combattimento fratricida. La guerra civile tra Trapani e gli altri comuni
della Valle si chiudeva senza vincitori né vinti, ma lasciando morte, devastazione e
spirito di vendetta che solo il tempo avrebbe lentamente cancellato51.
5. Un capoluogo conteso
Nel suo celebre Viaggio in Sicilia Johann Wolfgang Goethe annotò le sue impressioni
sulla visita a Girgenti, dove era arrivato nell’aprile del 1787 inseguendo il mito di Akragas
e degli splendidi monumenti greci. Nettissima gli era sembrata la distanza tra le glorie
del passato e le miserie del presente: arroccata nell’acropoli che si affacciava sulla Valle
dei Templi, la città gli apparve povera ed inospitale, priva di strade e di locande, dominata
da un clero ricco e potente, da un’aristocrazia parassitaria, da una borghesia litigiosa, da
un popolo minuto lacero e affamato. La sua delusione è comune agli altri viaggiatori del
Grand Tour, come il barone Von Riedsel che vi aveva soggiornato nel 1767 e lo scrittore
Vivant Denon giuntovi nel 1778. Lontana sembrava la stagione dei vescovi illuminati
Lorenzo Gioieni Cardona (1730-1754) e Andrea Lucchesi Palli (1755-1768) che avevano
dotato la città di opere pubbliche, di una ricca biblioteca e di un seminario celebre per lo
studium di teologia. Eppure in questa città di 15.000 abitanti sotto l’egida di doviziose
confraternite e nobili massoni l’industria zolfifera e la riforma amministrativa dei Borboni
avrebbero introdotto un’improvvisa e traumatica iniezione di modernità52.
L’elevazione di Girgenti a capovalle nel 1817 modificò gli equilibri territoriali della
Sicilia sud-occidentale, dove le città costiere di Licata e Sciacca ambivano allo stesso
riconoscimento istituzionale. Un aspro contenzioso si era aperto a Palermo e a Napoli
contro una decisione che alterava le gerarchie urbane dell’area, ma la monarchia
G. BIANCO, La rivoluzione siciliana del 1820 con documenti e carteggi inediti, Reber, Firenze 1905,
pp. 139-141, in particolare per il Rapporto del Presidente della Giunta di Marsala Isidoro Spanò del 16
settembre 1820 conservato nell’Archivio Villafranca (oggi depositato nell’Archivio di Stato di Palermo e
in fase di riordino). V. pure al riguardo V. FARDELLA DI T ORREARSA, op. cit., pp. 21-24.
52
P. CILONA, J. W. Goethe nella città dei Templi, Agrigento 1999. V. pure A. LAURICELLA, I vescovi
della Chiesa agrigentina, Girgenti 1896, ristampato a cura di V. Lombino col titolo Vescovi e cardinali di
Agrigento. Note storiografiche, Lussografica, Caltanissetta 2015.
51
110
LE NUOVE GERARCHIE TERRITORIALI E LA RIVOLUZIONE DEL 1820-21 IN SICILIA
borbonica mantenne l’impegno assunto con i vescovi Saverio Granata e Baldassarre
Leone di far coincidere la sede dell’antica diocesi con il nuovo capoluogo amministrativo,
anche sulla base del Concordato tra Stato e Chiesa stipulato nel 1818. Oltre alle proteste
delle città rivali non poche difficoltà si erano frapposte all’installazione dell’Intendenza
e degli altri uffici per la mancanza di locali idonei che nel centro storico erano tutti
occupati da conventi e monasteri. Il Decurionato con una raffica di costose deliberazioni
dal 1818 al 1820 si assunse l’onere di ristrutturare alcuni di questi edifici ecclesiastici
per destinarli ad usi civili, come ad esempio la Casa degli Oblati vicino al duomo che fu
attrezzata per ospitare la Gran Corte Civile e Criminale, laddove per le altre istituzioni
trovò sedi provvisorie nell’attesa di costruire ex-novo strutture adeguate. Questo notevole
impegno finanziario ebbe tuttavia un duplice contraccolpo negativo. Innanzitutto i potenti
ordini religiosi che dominavano la vita sociale a Girgenti si rifiutarono di sloggiare dai
loro conventi per dar posto agli uffici statali e cominciarono ad alimentare una sorda
polemica tra i devoti, nonostante il vescovo Leone avesse elargito 600 onze al Comune
prelevandole dalle pingui rendite della Diocesi. In secondo luogo nel Consiglio
d’Intendenza gli altri comuni capitanati proprio da Licata, Sciacca e Terranova negarono
i contributi dovuti per sostenere le spese d’impianto del capovalle, giustificandosi con il
pesante deficit dei loro bilanci e con le misere condizioni delle rispettive popolazioni53.
A pacificare gli animi ed a comporre i dissidi fu chiamato il marchese Palermo,
nipote del principe Scaletta e primo Intendente della provincia. Egli si mostrò inflessibile
nell’applicazione delle nuove leggi, e in particolare nell’esazione dei dazi civici per
dare respiro alle dissestate finanze comunali e nel rigido controllo della coscrizione
militare obbligatoria che veniva evasa con diserzioni di massa: nel luglio del 1819 re
Ferdinando gli concesse un pubblico encomio per l’elevato numero di coscritti forniti
dalla Valle, anche se nelle campagne continuavano a scorrere bande di malfattori e
disertori. A fare da corona all’Intendente si stringeva l’élite urbana composta da nobili,
professionisti, esponenti del clero secolare, intellettuali, come il marchese Sala, il ciantro
della cattedrale Giuseppe Panitteri e l’avvocato Michele Sanzo che erano stati eletti nel
Parlamento del 1812 insieme all’illustre giurista Filippo Foderà autore dei Principi di
Legislazione criminale e legato da vincoli di amicizia con il principe di Belmonte54.
Circondati da paesi ostili, malvisti dai ceti popolari che li ritenevano responsabili
dell’arretratezza economica in cui versava la città e dell’eccessivo carico fiscale, i notabili
di Girgenti difendevano con le unghie e con i denti il titolo recente di capovalle come
unica occasione di riscatto, cosicché alla notizia della concessa Costituzione di Cadice
si affrettarono a fregiarsi della coccarda tricolore come segno di fedeltà al legittimo
governo di Napoli. Ma in città il fuoco covava sotto la cenere, attizzato dai cappuccini
guidati dal frate Giosuè Pénnica e dagli emissari palermitani giunti in gran numero per
diffondere il programma indipendentista della Giunta provvisoria. Quando un corteo
popolare il 24 luglio percorse le vie del centro con i manifestanti che si erano attaccati
Notizie della rivoluzione di Girgenti, «Giornale La Fenice», foglio straordinario del 14 agosto 1820.
G. PICONE, Memorie storiche agrigentine, Industria grafica Sarcuto, Agrigento 1984, pp. 584-587.
Per l’encomio reale all’Intendente Palermo cfr. il «Giornale del Regno delle Due Sicilie», n. 150 del 19
luglio 1820.
53
54
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GIUSEPPE BARONE
al petto il nastro giallo separatista, il marchese Palermo ordinò subito di togliere quel
“immondo simbolo dell’anarchia” e con l’ausilio della maggioranza del Decurionato
istituì una Deputazione di sicurezza pubblica e alcune pattuglie civiche, mentre da
Messina lo zio Luogotenente gli consigliò di espellere i palermitani prima che avessero
montato un pericoloso tumulto. Un ultimatum di 24 ore fu perciò lanciato perché stranieri
e non residenti lasciassero la città, ma alcuni ufficiali del presidio boicottarono
l’esecuzione dell’ordine, mentre nelle carceri i detenuti tentavano di evadere per unirsi
ai sostenitori della ribelle Palermo. A fatica l’Intendente ed i maggiorenti lealisti
riuscirono in questa fase iniziale a reprimere i disordini e i detenuti furono rinchiusi a
forza nelle fosse, gli antichi e putridi depositi di granaglie dove 23 di loro perirono per
asfissia: una decisione di inumana violenza che finì per eccitare ancor più la plebe
urbana e il basso clero55.
La calma apparente, ma carica di tensione, durò fino al 9 agosto, quando ad un
segnale convenuto una marea di popolo col nastro giallo appuntato invase ogni angolo
della città al grido Indipendenza o Morte!. La guidava su un bianco destriero il cappuccino
Giosuè Pénnica, “vestito della tunica di albagio e cinti il capo di un cappello militare e
di lucente sciabola il fianco”, che cavalcò tra due bandiere giallo-oro inneggiando alla
libertà ed urlando Fuori i cappelli! li accusava di avidità di potere e di immiserire artigiani
e contadini. Fra la folla tumultuante si fecero largo altri due religiosi, frate Celestino e
frate Bonaventura, che anch’essi a cavallo ora eccitavano ora calmavano i rivoltosi
finché le pattuglie civiche vennero travolte e i magistrati municipali destituiti. Al loro
posto fu nominata una Giunta di pubblica sicurezza di cui Pénnica si autoproclamò
presidente: ne facevano parte il ciantro Panitteri, il giudice Spoto ed altri possidenti che
risultavano esclusi dalle liste degli eleggibili. Non tutti i membri di questa Giunta
condividevano il radicalismo sociale dei cappuccini, ma in quei drammatici frangenti
nessuno osò ostacolare il novello Vaglica incontrastato dominatore. L’11 agosto Girgenti
era di nuovo in fiamme: furono incendiati l’Ufficio del Registro, le case del Secondo
Eletto e del delegato di polizia Carlo Catalisano, i mobili e le carte dell’Intendenza; lo
stesso marchese Palermo fuggitivo venne catturato alla marina di Porto Empedocle dai
facinorosi, torturato per alcune ore e sul punto di essere fucilato fu strappato da morte
sicura da frate Evangelista, un altro cappuccino meno scalmanato, e da alcuni cittadini
che lo chiusero prigioniero in convento56.
Neppure il partito filopalermitano poteva però sopportare oltre il millenarismo
rivoluzionario dei cappuccini girgentini. I membri più moderati della Giunta di pubblica
sicurezza ricostituirono con ampio esborso di denaro una Guardia civica sotto il comando
dei possidenti Angelo Sala e Francesco Sileci con l’obiettivo di eliminare i frati
capipopolo e riprendere il controllo sociale della città. Un abile sotterfugio aiutò
l’impresa. Si persuasero infatti i più agitati ribelli a tradurre l’Intendente Palermo nella
capitale dell’isola per essere processato da quella Giunta con esemplare punizione, e
con la promessa di ottenere al loro ritorno un lauto compenso, e in molti partirono
55
Notizie della rivoluzione di Girgenti, «Giornale La Fenice», foglio straordinario del 14 agosto 1820,
56
«Giornale Costituzionale del Regno delle Due Sicilie», 16 agosto 1820.
cit.
112
LE NUOVE GERARCHIE TERRITORIALI E LA RIVOLUZIONE DEL 1820-21 IN SICILIA
insieme allo stesso Pénnica. In realtà, Panitteri, Spoto e gli altri sodali erano riusciti ad
informare attraverso corrieri segreti il principe Villafranca, che si prestò al piano facendosi
consegnare l’Intendente ma facendo arrestare subito dopo il frate rivoluzionario e i suoi
sodali. La vicenda dimostra chiaramente l’indirizzo della Giunta di Palermo di contrastare
il sovversivismo delle guerriglie paesane per incanalare il movimento indipendentista
su binari di apparente legalità: tentativo destinato al fallimento nella misura in cui proprio
dalla Giunta Villafranca era stato dato il via alle spedizioni armate di S. Cataldo, Palmieri
ed Abela. Se ne accorsero i possidenti filopalermitani di Girgenti, che si erano appena
liberati dei loro più violenti ex-alleati, quando si trovarono a fronteggiare la banda del
concittadino Onofrio Castagna proveniente da Caltanissetta dove aveva partecipato al
saccheggio e alle stragi colà accadute. Castagna era il prototipo dei guerriglieri sanguinari
che nell’estate del 1820 giravano campagne e paesi dell’isola, e manifesta fu la sua
intenzione di penetrare nel capoluogo, eccitare le classi più disagiate per assaltare ed
uccidere i ricchi possidenti. Anche in questo caso si usarono la forza e l’astuzia. I membri
più influenti e coraggiosi della Giunta (Ferdinando Bianchini, Francesco Biondi,
Salvatore Seminerio) si abboccarono col Castagna, gli promisero di aiutarlo in cambio
di una parte della preda e dopo un’abbondante cena in una bettola suburbana lo fecero
ubriacare e lo uccisero insieme ad altri banditi con l’intervento armato di alcuni contadini
fatti venire dalle loro proprietà vicine all’abitato. Solo dopo questa violenta
normalizzazione Girgenti restò per qualche tempo una sicura alleata di Palermo57.
Ma a circa trenta miglia di distanza lungo la costa sud-occidentale si stagliava un
centro urbano ricco di storia e di ambizioni commerciali, pronto a sfidare i piani egemonici
della capovalle. Antica città demaniale, fregiata nel 1234 da Federico II del titolo di
Dilectissima e nel 1447 da Alfonso il Magnanimo di quello di Fidelissima, Licata era
stata distrutta nel 1553 dalle scorrerie dei pirati barbareschi di Dragut, ma nel corso del
XVII e del XVIII secolo era stata ricostruita con prestigiose architetture sulla spinta dei
crescenti flussi commerciali del suo porto elevato a regio Caricatore di grano a cui
approdavano velieri operanti su rotte mediterranee. Nel 1806 re Ferdinando le concesse
il titolo di Senato e l’onore della toga ai suoi giurati. Lo sviluppo mercantile della città
si intensificò nell’età della Restaurazione grazie allo sfruttamento dei giacimenti minerari
e all’industria zolfifera che cominciò a concentrare l’esportazione del minerale nei porti
della costa sud-occidentale, Licata e Terranova in particolare, dove un’élite emergente
di possidenti, sborsanti e magazzinieri, conquistò il controllo dei Consigli civici (181215) e dei Decurionati (dal 1818). A Licata una delle più ricche case commerciali fu
quella dei Vecchio Verderame, nel cui splendido palazzo barocco nasceva una delle
prime logge massoniche di Sicilia ad opera del giovane Matteo, patriota indipendentista58.
Con la riforma amministrativa il Decurionato elesse come primo sindaco Neri Linares,
un colto proprietario (padre dello scrittore Vincenzo Linares), laddove a rappresentare
la città nel Consiglio di Intendenza venne nominato il marchese Girolamo Frangipane.
G. PICONE, op. cit., pp.589-593.
Rimando ai contributi di C. CARITÀ , Licata tra ‘800 e ‘900. Sviluppo urbanistico, risanamento,
architetture liberty, La Vedetta, Licata 1985; IDE m, I Vecchio Verdirame tra ‘800 e ‘900, La Vedetta,
Licata 2018. V. pure M. VECCHIO V ERDIRAME, Ricordi patriottici, De Pasquali, Licata 1911 (ristampa 1988).
57
58
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GIUSEPPE BARONE
L’umiliazione subita per la mancata promozione a capovalle aveva suscitato però non
poca acredine verso la rivale Girgenti e contro il governo di Napoli, cosicché, alle notizie
sugli avvenimenti di Palermo, civili e maestranze scesero in strada col nastro giallo al
petto scandendo i consueti slogan a favore dell’indipendenza, nonostante i reiterati divieti
dell’Intendente che temeva una marcia ostile dei licatesi su Girgenti. L’arrivo da Messina
di una lancia con alcuni ufficiali di marina, il 29 luglio, accrebbe la tensione sociale e
stava per scoppiare un tumulto se il sindaco non si fosse piegato a sottoscrivere un
Indirizzo di adesione alla Giunta di Palermo. Neri Linares non intese sottostare, tuttavia,
all’ulteriore richiesta dei manifestanti di sciogliere le magistrature municipali ed eleggere
una Giunta di Sicurezza che stabilisse rapporti di corrispondenza con la capitale dell’isola.
Riuscì nottetempo a mobilitare una forza armata di 150 persone a lui devote per arrestare
i capi dell’agitazione e reprimere l’opposizione, ma il blitz fallì perché i sostenitori
della causa palermitana, avvertiti in tempo, si diedero alla fuga nei Comuni vicini. Si
trattò di un gesto sconsiderato che scatenò la folla contro il sindaco e ne disperse la
forza; il popolo si impadronì della guarnigione militare, cacciò gli amministratori ed
elesse la nuova Giunta in accordo con le autorità di Palermo59.
La conquista del potere locale da parte della fazione indipendentista guidata da Matteo
Vecchio Verderame e dai mercanti di zolfo che aspiravano al ribaltamento delle gerarchie
urbane non conseguì i risultati sperati, perché un Proclama della Giunta Villafranca
dichiarò che non ci sarebbero stati mutamenti nella composizione dei capoluoghi
provinciali. Fu una mossa temporanea per tranquillizzare le altre città capovalle e
spingerle ad aderire a Palermo, ma a Licata la delusione si diffuse tra le maestranze e la
bassa gente, che si rifiutarono di pagare i dazi civici appena reintrodotti e il 3 settembre
diedero l’assalto alla casa del prosegreto incendiando mobili e scritture. Uguale sorte
avrebbe avuto la sede del Municipio se la Guardia civica di Vecchio Verderame non
fosse riuscita a far desistere la folla60.
Anche la contrapposizione tra Girgenti e Licata suggerisce l’interpretazione secondo
cui nella rivoluzione del 1820 non influirono tanto i motivi ideologici connessi
all’indipendentismo dell’isola, quanto piuttosto le concrete strategie di rimettere in
discussione o conservare gli equilibri di potere sanciti dalla monarchia amministrativa.
Più che definire l’appartenenza o meno delle élite locali al partito palermitano o a quello
napoletano, la ricerca consente di cogliere il complesso intreccio di spinte e resistenze
al cambiamento di una società tutt’altro che arretrata e rurale, ma pienamente impegnata
a sfruttare le opportunità della modernizzazione economica ed istituzionale avviata dalle
riforme borboniche. Le identità multiple del policentrismo urbano siciliano configurano
gli eventi del 1820 non già come un retaggio arcaico dell’ancien régime ma come
occasioni cruciali per inserirsi nel grande gioco dello sviluppo sociale61.
Relazione sui fatti accaduti in Licata il 29 luglio 1820 e i primi giorni del mese di agosto, «Giornale
La Fenice», n. 15 dell’1 settembre 1820.
60
Relazione della Giunta provvisoria di Licata al principe Villafranca del 7 settembre 1820, in Carte
Villafranca citate da G. Bianco, op. cit., pp. 116-118. Il Proclama relativo al mantenimento delle città
capovalli sul «Giornale La Fenice, n. 4 del 7 agosto 1820.
61
In tal senso cfr. A. DE FRANCESCO, Church e il nastro giallo. L’immagine della rivoluzione del 1820
in Sicilia nella storiografia del XIX secolo, «Rivista Italiana di Studi Napoleonici», 1991.
59
114
ORIGINI E SVILUPPI DELLA CAMERA
DEL
LAVORO DI MESSINA
IN ETÀ GIOLITTIANA
ANTONIO BAGLIO*
Distinguiamo tre momenti nella vita della Camera del Lavoro di Messina in età
giolittiana, di cui Rolf Wörsdörfer ci offre una vivida e analitica ricostruzione nel suo
ormai classico saggio su Movimento operaio e socialisti a Messina (1900-1914)1. Il
primo è rappresentato dalla fase delle origini, segnato dallo sforzo di costruzione
dell’organismo camerale da parte di anarchici e socialisti, coinciso a livello nazionale
con il periodo di svolta giolittiana mentre, in sede locale, si assisteva al termine delle
lotte dei Fasci siciliani, al superamento delle divisioni e alla chiarificazione interna in
seno al movimento socialista cittadino tra i due leader carismatici, Giovanni Noè2 (primo
deputato socialista messinese eletto nel 1900) e Nicola Petrina3. Una spinta verso la
costituzione della Camera del Lavoro veniva data dal nuovo clima contraddistinto dalla
vittoria dei partiti popolari in seno al Comune4.
* Università di Messina.
1
R. WÖRSDÖRFER, Movimento operaio e socialisti a Messina (1900-1914), Gangemi editore, Reggio
Calabria 1990. Accanto a questo lavoro, sulla fase delle origini della C.d.L. di Messina si leggano i riferimenti
contenuti nei seguenti saggi: G. PROCACCI, Movimenti sociali e partiti politici in Sicilia dal 1900 al 1904,
in «Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea», volume XI, 1959, Roma
1961, pp. 107-206; G. CERRITO (a cura di), I periodici di Messina. Bibliografia e storia, ristampa anastatica
con saggio introduttivo di A. BAGLIO, Istituto di studi storici Gaetano Salvemini, Messina 2004; A. CICALA,
Il movimento operaio tra radicalismo e socialismo: il fulcismo, in ID ., Partiti e movimenti politici a
Messina. Dal fulcismo al fascismo (1900-1926), Rubbettino, Soveria Mannelli 2000, pp. 51-81, ora anche
in ID ., Messina dall’Unità al fascismo. Politica e amministrazione (1860-1926), Il Grano, Messina 2016;
ed ancora mi sia consentito rinviare al mio contributo, Movimento operaio e socialista, in A. BAGLIO, S.
BOTTARI (a cura di), Messina dalla vigilia del terremoto del 1908 all’avvio della ricostruzione, Istituto di
studi storici Gaetano Salvemini, Messina 2012, pp. 27-40. Per un quadro d’assieme sulla storia cittadina
in quel periodo, si rimanda alla penetrante ricostruzione fattane da GIUSEPPE B ARONE nel saggio Egemonie
urbane e potere locale (1882-1913), in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità ad oggi. La Sicilia, a cura di
M. AYMARD e G. GIARRIZZO, Einaudi, Torino 1987, in particolare alle pp. 355-361; ed ancora, per un agile
e documentato profilo, si veda M. D’ANGELO , Un “lungo Ottocento”: 1783-1908, in Messina. Storia,
cultura, economia, a cura di F. MAZZA, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pp. 183-232.
2
Su Noè si vedano le seguenti voci biografiche redatte, rispettivamente, da M. T. DI P AOLA, Noè
Giovanni, in F. ANDREUCCI, T. D ETTI (a cura di), Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico
1853-1943, Volume terzo, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 689-692; e da A. BAGLIO, in Dizionario biografico
degli anarchici italiani, diretto da M. ANTONIOLI, G. BERTI, S. FEDELE, P. IUSO , Vol. II, BFS edizioni, Pisa
2004, pp. 249-251.
3
Su Petrina si rimanda alla scheda biografica di M. T. DI PAOLA, Petrina Nicolò, in F. ANDREUCCI, T.
DETTI, op. cit., volume quarto, pp. 104-107.
4
Sull’esperienza e sul programma dell’Unione dei partiti popolari si rimanda, tra gli altri, al contributo
di P. AMATO , M. D’ANGELO , Radici del socialismo riformista a Messina, Messina 1982.
115
ANTONIO BAGLIO
Una seconda tappa, decisiva per il consolidamento della CdL in sede locale, fu la
direzione assunta dall’avvocato nasitano Francesco Lo Sardo, divenutone segretario nel
maggio 1906, figura destinata a ricoprire un ruolo di assoluto rilievo nella storia del
movimento operaio messinese5. Sotto il suo impulso, infatti, l’organismo camerale
avrebbe raggiunto la massima espansione quantitativa e una maggiore coesione interna
nel biennio 1907-1908, puntando proprio sull’organizzazione dei lavoratori per ridare
slancio e vigore all’azione socialista, nel momento in cui la locale sezione del partito
appariva lacerata da contrasti personali.
La terza fase, seguita alla drammatica cesura del sisma del 28 dicembre 1908, fu
quella della sua ricostituzione, nel novembre 1909, contrassegnata dai riflessi delle
divisioni interne al partito socialista, quando lo scontro politico tra i massimi dirigenti
recava con sé le conseguenze di una scissione. Così l’ala intransigente, capeggiata da
Lo Sardo e dall’operaio Domenico Viotto, andava a guidare quella che venne
comunemente denominata come la Vecchia Camera del Lavoro (nata nel gennaio 1910,
contava 5.500 circa, con 29 sezioni dipendenti; affiliata alla Confederazione Generale
del Lavoro, aveva come organo di stampa «Il Riscatto»), mentre Giuseppe Toscano,
espulso dal PSI, aveva fondato e dirigeva la Nuova Cdl (sorta nell’agosto del 1910, ne
dipendevano 73 sezioni; il suo organo di stampa era «Germinal!»), ben presto divenuta
più forte numericamente, con 6.500 soci circa. Per un certo periodo le due organizzazioni
tentarono la carta della riconciliazione, anche se il momentaneo successo arriso con
l’intesa faticosamente raggiunta nell’ottobre 1914 era destinato a fallire in occasione
dell’elezione della commissione esecutiva, il 15 febbraio 1915, che vide le due
componenti ancora in conflitto, con accuse reciproche di brogli e scorrettezze. Logica
conseguenza di questo stato di cose fu la nuova scissione tra le correnti, che da quel
momento avrebbero percorso strade differenti6. Nel 1919, ai due organismi di classe già
esistenti si sarebbe aggiunta la Borsa del Lavoro, fondata dall’on. Giovanni Baratta,
esponente del partito socialista riformista italiano.
Cercherò in questo contributo di approfondire i tre momenti che hanno contrassegnato
le origini e gli sviluppi della C.d.L. nell’età giolittiana.
Nel nuovo clima inaugurato agli inizi del Novecento dalle aperture di Giolitti nei
confronti del mondo del lavoro e dei socialisti, gli organismi sindacali avevano trovato
il terreno fertile per nascere e moltiplicarsi. I cambiamenti prodotti nella vita
amministrativa di molte città, con l’affermazione dei blocchi democratico-popolari,
5
Sulla figura di Lo Sardo, originario del comune nebroideo di Naso (ME), socialista, autorevole
dirigente del movimento sindacale messinese e poi divenuto il primo deputato comunista nell’Isola, nel
1924, che avrebbe pagato con la vita la sua fiera opposizione al fascismo, si vedano: G. MICCICHÈ, Francesco
Lo Sardo. Dai Tribunali alle galere fasciste per il riscatto dei lavoratori, La Grafica, Messina 1981; F. LO
SARDO JR., Nessuno lo dimentichi. Vita/discorsi/memoriali/lettere/inediti di Francesco Lo Sardo, con una
nota introduttiva di S. Saglimbeni, Edizioni del Paniere, Verona 1982; F. LO SARDO, Epistolario dal carcere
(1926-1931), con introduzione di Sebastiano Saglimbeni, Edizioni del Paniere, Verona 1988; D. BRIGNONE,
Francesco Lo Sardo, Archivio Concetto Marchesi, Cardano al Campo 2006.
6
Per la ricostruzione di queste vicende si veda la documentazione custodita in Archivio Centrale di
Stato, Ministero Interno, Direzione generale pubblica sicurezza, Affari generali e riservati, categoria G. 1,
busta 106.
116
ORIGINI E SVILUPPI DELLA CAMERA DEL LAVORO DI MESSINA IN ETÀ GIOLITTIANA
l’assegnazione dei lavori pubblici e la ventata riformista avevano conferito una spinta
sostanziale alle lotte operaie e alla creazione delle Camere del Lavoro, per le quali si
aprivano inediti spazi di azione. Nella città dello Stretto, la CdL sorse nel 1900 per
iniziativa dell’avv. Salvatore Visalli e del tipografo Tommaso De Francesco, con la
presenza di socialisti, repubblicani e di una cospicua componente anarchica. Fu
organizzata durante la campagna elettorale politica del 1900 senza l’intervento diretto
del Partito socialista, che solo verso la fine dell’anno partecipava al consolidamento del
sodalizio proletario. Presto vi trovarono rappresentanza diverse categorie, tra le quali
quelle dei fornai, bottai, tipografi, cocchieri, macellai, conciapelli, camerieri, cuochi,
pastai e commessi. Si trattava di gruppi di lavoratori che avevano già percorso l’esperienza
delle società di mutuo soccorso, mentre in questa fase iniziale ne rimanevano fuori, pur
mantenendo contatti di natura personale, alcune categorie di primo piano nel panorama
del mondo del lavoro cittadino, ovverosia i ferrovieri e i tranvieri7. Come evidenziava la
testata socialista «Il Proletario» – che accanto al settimanale «L’Avvenire Sociale», di
marca anarchica, riportava fedelmente le cronache dei primi passi dell’organismo
camerale – erano gli artigiani a costituire il nerbo della classe operaia cittadina e, di
conseguenza, a trovar maggior spazio nella C.d.L.. Presto si registrarono problemi di
convivenza – come sottolinea Cerrito – per la distanza tra il metodo legalitario dei
socialisti e la componente anarchica, più propensa ad escludere ogni partecipazione
degli operai alle lotte elettorali politiche ed amministrative.
Il dissidio sarebbe esploso nelle elezioni camerali del novembre 1901, quando in
seguito alla vittoria dei socialisti, la componente anarchica, che si era presentata con
una lista di concentrazione comprendente anche qualche socialista indipendente, si
dimise. Uscivano così dalla C.d.L., oltre agli anarchici, anche alcuni esponenti socialisti,
tra cui il fondatore avv. Visalli, Domenico Faucello e Luigi Lombardo. Questi contrasti
si ripercuotevano negativamente sul terreno concreto delle lotte. Gli scioperi del 1901,
che coinvolsero fornai, lavoratori delle due filande cittadine e ferrovieri, si svolsero
7
In merito allo sviluppo delle società di mutuo soccorso nella realtà locale a cavallo tra la seconda
metà dell’Ottocento e i primi anni del secolo successivo, si veda ora: A. B AGLIO , A. G. N OTO ,
L’associazionismo mutualistico in provincia di Messina (1861-1904), in ID ., Tra solidarismo, assistenza
e istruzione popolare. Le Società di Mutuo Soccorso in Sicilia dall’Unità ai primi del Novecento, Ediesse,
Roma 2018, pp. 179-224. Sempre sul versante dell’associazionismo popolare rimandiamo al contributo di
G. RESTIFO, Il proletariato e le associazioni democratiche elemento dinamico della società messinese dal
1876 ai Fasci, in I Fasci siciliani, vol. II, La crisi italiana di fine secolo, De Donato, Bari 1976, pp. 365373. Sulle vicende del socialismo nel contesto peloritano, accanto ai lavori di Cerrito, Wörsdörfer, Cicala,
Amato e D’Angelo richiamati in precedenza, è necessario fare riferimento almeno ai seguenti contributi:
sempre di G. CERRITO, Un esempio di trasformismo politico meridionale: il movimento socialista messinese
dalle sue origini al fascismo, in «Movimento operaio e socialista», a. X, n. 1, gen.-mar. 1964; D. POMPEJANO,
Riformisti e intransigenti nel socialismo messinese dal 1908 alla Grande Guerra, in «Nuovi Quaderni del
Meridione», saggio pubblicato in due parti, rispettivamente nei nn. 63 e 64, a. XVI, lug.-sett. e ott.-dic.
1978; ID ., Movimento popolare e PSI a Messina nel biennio rosso, in «Incontri Meridionali», n. 1, gen.mar. 1977. Sull’esperienza locale dei Fasci, si veda ancora di G. CERRITO, Il processo di formazione e lo
sviluppo dei Fasci dei Lavoratori nella provincia di Messina, in «Movimento operaio», VI, n. 6, 1954, pp.
951-1006, ora ristampato con il titolo I Fasci dei lavoratori nella provincia di Messina, a cura di NATALE
MUSARRA, Sicilia Punto L Edizioni, Ragusa 1989; P. AMATO , R. BATTAGLIA, Messina e i Fasci siciliani, in
I Fasci siciliani, vol. II, La crisi italiana di fine secolo, cit., pp. 377-402.
117
ANTONIO BAGLIO
senza l’intervento della C.d.L., la quale peraltro evidenziava tutta la sua debolezza anche
in occasione dello sciopero generale del settembre 1904, quando tenne un contegno
incerto, temporeggiando mentre già i lavoratori delle altre città siciliane avevano
proclamato lo sciopero. Neppure il rinnovo del direttivo camerale, avvenuto qualche
mese prima, nel giugno del 1904, che aveva visto l’affermazione della lista guidata da
Liborio Mulè, era servito a mutare la situazione, per il riemergere di rigidità operaistiche
e di spinte anarchiche, orientate ad imporre una linea di esclusività proletaria, di
limitazione ai soli operai delle rappresentanze sindacali e di isolamento dalla lotta
politica8 .
È a partire dal 1906 che la C.d.L. avrebbe compiuto un salto di qualità, grazie alla
direzione, assunta nel mese di maggio, dell’avv. socialista Francesco Lo Sardo. Nella
memoria dell’antifascismo, Lo Sardo, eletto nel 1924 al Parlamento nazionale nelle file
comuniste, sarebbe stato ricordato come il Gramsci siciliano, accomunato al leader
sardo dalla militanza politica, dalla medesima intransigenza mostrata nei confronti del
regime fascista e dalla sofferenza patita nelle carceri fasciste, sino al sacrificio della
vita.
Con il ricambio, favorito dal neosegretario, dei quadri dirigenti, messi sotto accusa
per i loro metodi clientelari e lo scarso impegno, la C.d.L. avrebbe vissuto un periodo
particolarmente positivo, testimoniato dal felice esito di alcune manifestazioni
rivendicative portate avanti dalle leghe e dall’incremento delle adesioni, almeno fino a
quando l’evento traumatico del terremoto non ne avrebbe azzerato per più di un anno
l’attività. Intanto, dal punto di vista politico, dopo la fine dell’amministrazione popolare
del repubblicano Antonino Martino, nel 1904, e il passaggio ad assetti più conservatori,
riprendeva nel 1906 la politica di alleanza popolare che vedeva Lo Sardo attivamente
coinvolto all’interno del blocco fulciano contro il fronte clerico-moderato. All’impegno
politico si accompagnò l’infaticabile opera di organizzatore sindacale, nella quale Lo
Sardo profuse il massimo sforzo con successo, tanto che nel giro di due anni, fino al
terremoto, la C.d.L. di Messina crebbe nel numero di iscritti e si impose nella direzione
di una serie di scioperi.
In una realtà economica quale quella messinese caratterizzata da una struttura
produttiva di tipo artigianale o piccolo-industriale, legata alla trasformazione e alla
commercializzazione dei prodotti agricoli, ci si trovava di fronte ad una classe lavoratrice
poco compatta ed omogenea, con prevalenza della manodopera generica, spesso a
carattere stagionale o precaria. I nuclei operai più consistenti erano rappresentati dai
lavoratori agrumari e dai portuali, divisi in varie categorie, cui si aggiungevano tipografi
e ferrovieri – i gruppi più politicizzati –, tranvieri e lavoratori del gas; in diminuzione
erano i lavoratori delle concerie e dei cotonifici, ormai in declino, mentre l’occupazione
figurava in crescita nelle industrie molitorie. Un buon numero di artigiani risultava
impegnato nella produzione di mobili, di botti e nella lavorazione del ferro9. In questo
A. CICALA, Partiti e movimenti politici a Messina. Dal fulcismo al fascismo (1900-1926), cit., p. 63.
A. CICALA, Partiti e movimenti politici a Messina. Dal fulcismo al fascismo (1900-1926), cit., pp. 5455; ora anche in ID ., Messina dall’Unità al fascismo. Politica e amministrazione (1860-1926), cit., pp.
106-107.
8
9
118
ORIGINI E SVILUPPI DELLA CAMERA DEL LAVORO DI MESSINA IN ETÀ GIOLITTIANA
contesto, Lo Sardo aveva puntato alla sindacalizzazione delle categorie più numerose
ed importanti nel mercato del lavoro cittadino, agrumari e portuali in primis, che assieme
agli operai delle officine ferroviarie erano destinati a configurarsi come le colonne portanti
del movimento di classe messinese.
Gli scioperi di quegli anni vedevano al centro della loro piattaforma rivendicativa la
riduzione dell’orario di lavoro, il riconoscimento del riposo domenicale e festivo,
l’introduzione del riposo notturno, la concessione delle ferie, l’organizzazione del lavoro,
la questione dell’organico, l’istituzione della cassa malattia e gli aumenti del salario. A
dare l’input agli scioperi era l’applicazione della legislazione sociale giolittiana. L’elenco
delle categorie scese in agitazione è lungo e non è qui il caso di soffermarcene. Basti
accennare soltanto allo sforzo fatto dalla C.d.L., come ricorda lo stesso Wörsdörfer, per
l’organizzazione dei lavoratori agrumari – in particolare per i dipendenti dei vari depositi
di esportazione e degli stabilimenti di produzione dei derivati – quando in occasione del
convegno tenutosi a Palermo nel settembre del 1908, con la partecipazione delle più
importanti camere del lavoro siciliane, si giunse alla costituzione della Federazione
agrumaria dell’Isola e a Lo Sardo venne affidato l’incarico di redigerne lo statuto10.
La C.d.L. raggiungeva proprio nel 1908 una effettiva stabilità organizzativa e politica;
poi ricostituita alla fine del 1909 sotto la guida dello stesso Lo Sardo, ma costretta a
fronteggiare la concorrenza della Nuova Camera del Lavoro varata dal socialriformista
Giuseppe Toscano a seguito dell’espulsione dal PSI – che non aveva gradito la sua
presentazione come candidato protesta alle elezioni provinciali suppletive del giugno
1910 – avrebbe vissuto una significativa fase di protagonismo nel primo dopoguerra, a
sostegno dei moti contro il carovita e delle rivendicazioni salariali avanzate da numerose
categorie di lavoratori; sino a quando la diffusione del fascismo, con l’uso della violenza
e della coercizione, non ne ridusse sino ad azzerarli i margini di manovra.
Tornando alla cesura del terremoto del 1908, bisogna evidenziare come l’immane
disastro avesse prodotto a Messina decisivi cambiamenti sul piano economico e nei
processi sociali, creando nuovi bisogni e il coagularsi di crescenti interessi nella gestione
dei notevoli flussi di denaro che lo Stato assegnava per fronteggiare l’emergenza e dare
corso alla ricostruzione cittadina. Al declino del suo tradizionale ruolo economico
commerciale e mercantile, ruotante principalmente intorno al porto, faceva riscontro
l’espansione dell’apparato burocratico chiamato a gestire i fondi stanziati dallo Stato, il
cui controllo diventava prioritario da parte dei nuovi mediatori politici e di una borghesia
affaristica fortemente attratta dal vorticoso giro di appalti e commesse legati alla vicenda
della ricostruzione.
In questo contesto, Lo Sardo si affannava a denunciare le speculazioni edilizie e la
schiacciante presenza degli appaltatori del Nord nel grande affare della ricostruzione.
Si faceva inoltre latore del progetto fulciano fondato sull’esproprio totale e generale
delle aree terremotate e del loro passaggio al demanio pubblico, in maniera tale che lo
Stato potesse procedere a ricostruire rapidamente, assegnando poi gli alloggi ai vecchi
proprietari; proposta destinata a rimanere inattuata, visto che il Governo preferì il sistema
10
R. WÖRSDÖRFER, Movimento operaio e socialisti a Messina (1900-1914), cit., in particolare alle pp.
101-110.
119
ANTONIO BAGLIO
dei diritti a mutuo in favore dei privati11.
La morte nel disastro del 1908 di alcuni dei leader più autorevoli del socialismo
messinese, quali Noè e Petrina – mentre lo stesso Lo Sardo aveva perduto il figlioletto
– lasciava spazio al protagonismo di Toscano, direttore di «Germinal!», uscito dal PSI e
postosi a capo di una Nuova Camera del Lavoro. Poi la definitiva rottura del fronte
democratico fulciano sancita dalla guerra di Libia, contro la quale si era schierato il
gruppo socialista guidato da Lo Sardo, avrebbe indebolito il movimento dei lavoratori.
Transitava nelle file del nuovo organismo camerale guidato da Toscano la Lega dei
lavoratori del mare, che raccoglieva la maggior parte dei portuali: tra questi figuravano
i trasportatori carbon fossile, legati alle attività di carico e scarico della ditta Stinnes,
amministrata dall’imprenditore Giuseppe Battaglia, non a caso principale finanziatore
di Toscano sotto forma di sovvenzioni pubblicitarie sulle pagine del «Germinal!». Ben
presto si sarebbero aggiunte le leghe dei cementisti, dei gassisti, dei carrettieri e dei
pastai, accanto ai tranvieri, ferrovieri, dazieri, maestri e bottai12.
Se le categorie dei fornai, tipografi, muratori, carpentieri e pastai costituivano, come
sottolinea Wörsdörfer, il nucleo centrale della Nuova Camera del Lavoro, non bisogna
trascurare la rappresentanza in essa di ampi settori del proletariato marginale che, al
pari di numerosi gruppi di commercianti e rivenditori ambulanti, offrivano un terreno
nuovo sul versante della sindacalizzazione13. Rimanevano invece nella Vecchia Camera
del Lavoro il grosso dei lavoratori agrumari, legati a Lo Sardo, i conciapelli e i tipografi.
Altre categorie tradizionali di lavoratori, quali fabbri, metallurgici, muratori e
falegnami, unitamente alle leghe di pescatori, contadini e salariati provenienti dalla
provincia, si ripartirono in ambedue le Camere. Come ha sottolineato Antonio Cicala, in
generale possiamo notare «come alla Nuova Camera del Lavoro passarono quasi tutte
quelle categorie di lavoratori dipendenti da società che avevano avuto rapporti con
Enti pubblici, verso i quali il ruolo di interlocutore mediatore di Toscano aveva una
particolare efficacia ed era frutto della maggiore incidenza che il ruolo politico veniva
sempre più assumendo nel contesto sociale ed economico del dopo terremoto»14.
In fondo, anche il passaggio alla Nuova C.d.L. di una fetta consistente dei lavoratori
portuali era stato influenzato da logiche di schieramento e si spiegava nell’ottica
dell’accresciuto peso politico assunto da Toscano nel dopo terremoto. Facendo leva sul
11
Cfr. G. BARONE, Sull’uso capitalistico del terremoto: blocco urbano e ricostruzione edilizia a Messina
durante il fascismo, in «Storia urbana», a. VI, n. 19, aprile-giugno 1982, in particolare alle pp. 47-52.
Dello stesso autore, su questo tema, si vedano pure: Stato, società e gerarchie urbane nel terremoto del
1908, in A. BAGLIO, S. BOTTARI (a cura di), Messina dalla vigilia del terremoto del 1908 all’avvio della
ricostruzione, Istituto di studi storici Gaetano Salvemini, Messina 2012, pp. 411-424; Terremoto di Stato.
Politici e imprenditori a Messina tra le due guerre, in G. CAMPIONE (a cura di), La furia di Poseidon.
Messina 1908 e dintorni, Silvana editore, Cinisello Balsamo 2009, pp. 41-60. Accanto ai saggi di Barone,
per un quadro dei progetti e degli interessi ruotanti intorno alla ricostruzione cittadina si veda ancora: A.
CHECCO, Messina dal terremoto del 1908 al fascismo. La ricostruzione senza sviluppo, in «Storia urbana»,
n. 46, 1989, pp. 161-192.
12
A. CICALA, Partiti e movimenti politici a Messina. Dal fulcismo al fascismo (1900-1926), cit., pp.
72-73.
13
R. WÖRSDÖRFER, Movimento operaio e socialisti a Messina (1900-1914), cit., pp. 190-192.
14
A. CICALA, Partiti e movimenti politici a Messina. Dal fulcismo al fascismo (1900-1926), cit., p. 73.
120
ORIGINI E SVILUPPI DELLA CAMERA DEL LAVORO DI MESSINA IN ETÀ GIOLITTIANA
ruolo di intermediazione politica acquisito in quella fase, a garanzia di un vasto fronte
di interessi – dall’imprenditore Battaglia ai por tuali, dalle organizzazioni
cooperativistiche a larghi strati di sottoproletariato -, Toscano era riuscito nell’intento
di ridimensionare l’influenza della Vecchia Camera del Lavoro e di rompere il fronte
democratico fulciano; offrendo uno sbocco politico alle vertenze sindacali, aveva inoltre
acquisito quel consenso necessario per ottenere un seggio in Parlamento nelle elezioni
del 1913.
La vertenza che avrebbe coinvolto, nell’ottobre 1913, gli operai del carbone contro
il tentativo della Stinnes di scaricare sugli addetti, riducendone il salario, i maggiori
costi della meccanizzazione dei servizi con la gru, avrebbe segnato il primo passo verso
la fine del rapporto privilegiato tra Toscano e Battaglia. Ad approfondire il solco tra i
due sopraggiunse il primo conflitto mondiale, che mise in luce la divaricazione di interessi
tra le spinte interventiste del partito socialriformista di Toscano a favore dei paesi
dell’Intesa e la posizione filotedesca incarnata dalla Stinnes. Da qui la cessazione delle
sovvenzioni a «Germinal» e la liquidazione della cooperativa toscaniana La Portuaria,
con l’affido dei lavori di carico e scarico della Stinnes a una nuova società di fiducia15.
L’incalzare della crisi economica produceva per un breve periodo, tra l’agosto del
1914 e il febbraio del 1915, la momentanea riunificazione, sotto la spinta di Lo Sardo,
dei due organismi camerali, destinata tuttavia ad infrangersi sotto i colpi delle reciproche
accuse e diffidenze16. La Grande Guerra, con le sue ricadute negative sull’economia in
termini di rincaro dei prezzi, penuria dei generi di prima necessità ed accresciuta
disoccupazione, cagionata dall’arresto delle attività edilizie e di quelle legate al porto,
avrebbe rappresentato uno spartiacque decisivo anche per il lavoro sindacale. Numerosi
iscritti e dirigenti sindacali venivano chiamati al fronte e le limitazioni imposte dalle
autorità avrebbero condotto allo scioglimento di molte organizzazioni proletarie e alla
stasi dei due organismi camerali. La stessa Casa del Popolo, divenuta la sede della
vecchia C.d.L., era stata requisita, divenendo sede di un comando militare. Se Toscano
e i socialriformisti passavano nel giro di pochi mesi da un atteggiamento di neutralità al
sostegno aperto all’intervento in guerra dell’Italia sin dal gennaio 1915, anche sull’altro
versante si registrava un clima di incertezza, con l’espulsione di esponenti di primo
piano, quali Domenico Viotto e l’ing. Piccoli, e la sofferta decisione maturata da Lo
Sardo, dopo una decisa campagna a favore della neutralità, di arruolarsi volontario nel
giugno 1915, motivando la sua scelta con il desiderio di dimostrare che «il pacifismo
socialista non era ispirato da vigliaccheria»17. Terminata la guerra, l’azione organizzativa
e sindacale di Lo Sardo avrebbe conosciuto una fase di rilancio a partire dalla
Ivi, pp. 76-77.
Sulla vicenda della momentanea riunificazione e successiva scissione dei due organismi camerali di
fronte alla Grande Guerra si rimanda a: D. POMPEJANO, Riformisti e intransigenti nel socialismo messinese,
cit., p. 433; A. Cicala, Partiti e movimenti politici a Messina. Dal fulcismo al fascismo (1900-1926), cit.,
pp. 78-79.
17
G. MICCICHÈ, Francesco Lo Sardo. Dai Tribunali alle galere fasciste per il riscatto dei lavoratori,
cit., p. 19. Sempre in merito alle motivazioni addotte da Lo Sardo per giustificare la decisione personale di
partecipare alla guerra, si veda ancora: D. POMPEJANO, Riformisti e intransigenti nel socialismo messinese,
cit., pp. 436-437.
15
16
121
ANTONIO BAGLIO
ricostituzione della C.d.L., uscita rafforzata dalle lotte intraprese contro il caro-viveri e
a sostegno delle rivendicazioni salariali di quelle categorie particolarmente colpite
dall’inflazione.
122
II. ARCHITETTURA E ARCHEOLOGIA
123
124
I ROSTRI DELLA BATTAGLIA DELLE EGADI. OMAGGIO A SEBASTIANO TUSA
JEAN PAUL BARREAUD* E STEFANO ZANGARA**
In occasione di questa nuova collaborazione con il gruppo Ricerche nel Val Demone
e con l’architetto Filippo Imbesi, mi preme ricordare che sin dal precedente convegno
Sicilia millenaria, la nostra Isola ha perso un suo ambasciatore di eccellenza, il rimpianto
professore Sebastiano Tusa.
Per questa ragione preferisco oggi mettere da parte i miei lavori personali per rendere
un omaggio al creatore della Soprintendenza del Mare, colui il quale ha permesso uno
dei più emozionanti ritrovamenti archeologici nel Mediterraneo, quello riguardante i
rostri della battaglia delle Egadi del 241 a.C.
JEAN PAUL BARREAUD
Ringrazio per l’invito l’amico Jean-Paul e rivolgo un saluto all’architetto Filippo
Imbesi e a tutti gli organizzatori e agli illustri ospiti che partecipano al convegno. La
prematura scomparsa del carissimo prof. Sebastiano Tusa ha lasciato un vuoto incolmabile
in quanti hanno avuto la fortuna e l’onore di lavorare con lui, e l’invito a partecipare
anche con un semplice ricordo mi riempie di commozione1.
Rimane però in me traccia forte dei suoi insegnamenti e oggi, nella mia nuova veste
di direttore del parco di Himera, Solunto e Iato, non posso non ricordare la fantastica
esperienza vissuta in quasi un ventennio di ricerche per i mari.
Ma ciò che mi unisce di più alla sua memoria è soprattutto l’esperienza legata alla
battaglia delle Egadi.
STEFANO ZANGARA
Il contributo è stato diviso in tre parti: la prima riporta alcune riflessioni di Jean Paul
* Conferenziere nazionale in Francia e guida in Italia, vive da trent’anni in Sicilia. Produce documentari,
filmati e pubblicazioni con il marchio Sicilia Svelata.
** Già dirigente nella Soprintendenza del Mare, è l’attuale direttore del Parco archeologico Himera,
Solunto e Monte Iato. È stato il direttore operativo delle attività che hanno portato alla scoperta dei rostri
e degli elmi della battaglia del 241 a.C. che avvenne al largo di Levanzo.
1
Con Sebastiano Tusa, nel 1999, abbiamo elaborato il progetto di creare una struttura regionale che si
occupasse del mare e delle ricerche sottomarine, il G.I.A.S.S. (Gruppo Indagine Archeologiche Sottomarine
Sicilia). Questo gruppo di lavoro era formato da pochi dirigenti e funzionari dell’amministrazione regionale,
in seno al Centro regionale per la Progettazione e il Restauro. Nel 2000 venne istituito, alla luce delle
grandi scoperte e dell’immagine che eravamo riusciti a dare, lo SCRAS (Servizio Coordinamento Ricerche
Archeologiche Sottomarine), che rimase operativo fino al settembre 2004 quando venne ufficializzata la
costituzione della Sopmare, la Soprintendenza del Mare.
125
I ROSTRI DELLA BATTAGLIA DELLE EGADI. OMAGGIO A SEBASTIANO TUSA
Barreaud sulla prima guerra punica; la seconda riguarda una testimonianza di Stefano
Zangara sulla genesi del progetto Archeorete Egadi; la terza contiene un’intervista al
compianto professore Sebastiano Tusa, prodotta da Sicilia svelata per il documentario
Mozia, i rostri della battaglia delle Egadi (2012).
LA PRIMA GUERRA PUNICA. R IFLESSIONI E PERPLESSITÀ
JEAN P AUL BARREAUD
Sono noti a tutti gli eventi che preludono alle famose guerre tra Roma e Cartagine e
che possono essere letti attraverso le versioni ufficiali. Insisterò in questa mia riflessione
su taluni aspetti trascurati in genere dai riassunti storici, cosi schietti ad esempio da non
rendere giustizia né agli Etruschi, grandi marinai, né alla straordinaria personalità di
Ierone II (o Gerone), 306-215 a.C, stratega e poi re di Siracusa.
Diceva il cinico Churchill, esagerando come era suo solito, ma non senza pertinenza:
“La verità storica è la somma delle menzogne su cui tutti si accordano”. Una lettura
attenta dei fatti porta sempre a maggiore finezza analitica. Parlando della prima guerra
punica, io mi stupisco ancora spesso, per esempio, del cliché dei carpentieri Romani
impegnati sui lidi del Latium a recuperare legni di navi affondate per copiarle. Così
sarebbero sorti i primi bastimenti -scadenti- della prima flotta militare Romana nel secolo
terzo a.C.!
Da Candido mi chiedo: ma in quei tempi (270/260 a.C.) non erano forse gli Etruschi
- esperti navigatori2 - a fare ormai parte della koiné romana? Etruschi tanto esperti da
aver inventato il rostro3, così importante per la battaglia delle Egadi, tema di questa
riflessione. A loro sembra dovuta perfino la tromba marina!4
Magari aver solo inventato il rostro potrebbe non bastare, ed è chiaro che all’inizio
delle guerre puniche gli Etruschi vantarono una notevole esperienza sul suo uso. Lontano
nel tempo, ricordiamo nel 540 a.C. la battaglia di Alalia, colonia dei Focei in Corsica,
durante la quale lo speronamento delle loro navi distrusse quaranta delle sessanta navi
ingaggiate dai Greci5. È interessante notare in tale occasione - quella della prima battaglia
navale documentata di tutti i tempi - che l’invenzione etrusca figura già
nell’equipaggiamento normale di una nave da guerra punica, mentre i Focei vantarono
speroni lignei o comunque scarsi al punto da uscire storti dagli scontri.
Più vicine alle guerre puniche, ricordiamo le battaglie del V secolo a.C. - navali e
campali - che misero fine all’egemonia militare etrusca sul mare Tirreno: Himera nel
480 e Cuma nel 464. Gli Etruschi, alleati di Cartagine, subirono due sconfitte nette da
parte degli alleati Sicelioti, Siracusa ed Akragas. Appena sei anni dopo la mitica vittoria
“La potenza degli Etruschi era così grande che la loro fama non era solo sulla terraferma, ma anche
sul mare, in tutta Italia, dalle Alpi allo Stretto di Messina”; TITO LIVIO, Storie, V, 33 7-11, traduzione di
Italo Lana, Utet, Torino 1998. Dall’archeologo Svizzero Michel Fuchs ho appreso i luoghi degli scambi
commerciali etruschi in Svizzera, e l’uso del Rodano per giungervi. É ben nota da varie fonti la
specializzazione etrusca sulle risorse minerarie, tra cui il cinabro estratto dalle cave di Tartessos (Spagna).
3
“Tra le grandi invenzioni navali, un certo Pisaeus Tyrrheni [...] aggiunse un rostro alla nave rotonda
per farne una nave da guerra”; GAIUS PLINIUS SECUNDUS, Naturalis Historia, libro VII, 209.
2
126
JEAN PAUL BARREAUD E STEFANO ZANGARA
di Himera, è Siracusa a portare l’attacco in mare aperto davanti a Cuma. Ripetutamente,
in seguito, Siracusa bersaglia Elba e la Corsica con i suoi attacchi con l’obiettivo di
garantirsi l’approvvigionamento dei metalli, senza intermediari nell’area controllata da
Populonia.
Mi sembra evidente che i Greci abbiano rapidamente - in un secolo - imparato a
padroneggiare a loro uso il rostro, ma anche le strategie dell’arte navale basata sul
numero di rematori, acquisendo inoltre furbizia per la cattura del vento nelle vele e sul
rapporto chiglia/timone di origine Fenicia.
Dobbiamo considerare che alla fine del V secolo a.C. le forze in presenza nel
Mediterraneo erano di uguale competenza navale, con tecniche di guerra e degli
armamenti assai simili. É solo buon senso accettare che due secoli dopo, all’inizio delle
guerre puniche, questi popoli abbiano per forza aumentato il loro know-how! Solo Roma
allora non figurava tra le flotte di guerra, bensì era tra quelle di commercio.
Contrariamente all’idea tenace di una Roma priva di esperienza marittima, sappiamo
di ben tre patti tra Cartagine e Roma, nel 5096, 348 e 3067. C. Non si fanno patti nel
commercio marittimo se non con chi non possiede una flotta. Pertanto è legittimo pensare
che ai termini di tali trattati l’identità di Roma si sovrapponga a quella degli Etruschi. A
riguardo, Jacques Heurgon rammenta “che Roma, prima di darsi un porto proprio a
Ostia, utilizzava la flotta di Caere - la Cisra etrusca - per la sua nascente politica
marittima”8.
E ancora, il chiaro riassunto nell’enciclopedia Treccani:
4
R. REBUFFAT, Naissance de la marine étrusque, deux inventions diaboliques: le rostre et la trompette,
in «Dossiers de l’archéologie», 24, sept-oct 1977, pp. 50-57. Lo stesso Piseo sarebbe anche l’inventore
della tromba marina per dare ordini, segnalare la propria presenza e spaventare il nemico (fonti: Tito
Livio, Eschilo, Diodoro Siculo).
5
“Ma visto che derubavano e depredavano tutte le popolazioni limitrofe, Tirreni e Cartaginesi di
comune accordo mossero contro di loro, entrambi con una flotta di sessanta navi. Anche i Focei
equipaggiarono delle imbarcazioni, in numero di sessanta, e affrontarono la flotta avversaria nelle acque
del mare chiamato di Sardegna. Si scontrarono in una battaglia navale e ai Focei toccò una vittoria
cadmea; infatti delle loro navi quaranta furono affondate e le restanti venti risultarono inutilizzabili,
avendo i rostri torti all’indietro. Allora navigarono fino ad Alalia, imbarcarono le donne, i bambini e
tutto ciò che le navi potevano trasportare, e abbandonarono Kyrnos dirigendosi verso Reggio. I Cartaginesi
e i Tirreni si spartirono gli uomini delle navi affondate: gli abitanti di Agilla (Caere), ai quali toccò il
gruppo più numeroso, li condussero fuori città e li lapidarono. Più tardi ad Agilla ogni essere che passava
accanto al luogo in cui giacevano i Focei lapidati diventava deforme, storpio o paralitico, fossero pecore
o bestie da soma o uomini, senza distinzione. Allora gli Agillei, desiderosi di rimediare alla propria
colpa, si rivolsero all’oracolo di Delfi. E la Pizia impose loro un obbligo che adempiono ancora oggi:
infatti offrono imponenti sacrifici e bandiscono giochi ginnici ed equestri in onore dei morti. Ed ecco
cosa toccò a questi Focei; quelli invece fuggiti verso Reggio, muovendo di là si impadronirono di una
città nella terra di Enotria, città oggi chiamata Iela (Elea, poi Velia)”; ERODOTO, Storie, I, 166.
6
Si proibì ai Romani di navigare al di là del Bel Promontorio (Capo Bon). É permesso di commerciare
con la Sardegna, la Sicilia cartaginese e l’Africa ad Est del Promontorium pulcrum. Cartagine s’impegnò
a non aggredire le città protette da Roma.
7
“Si vietò ormai a Roma il commercio con la Sardegna e l’Africa. Cartagine e Roma entrarono in
una diffidenza storica durata nel tempo.”
8
J. HEURGON, Rome et la Méditerranée occidentale jusqu’aux guerres puniques, PUF, 1980, p. 110.
127
JEAN PAUL BARREAUD E STEFANO ZANGARA
“L’egemonia etrusca su Roma conduce questa nel quadro della vita commerciale
dell’Etruria e dei suoi scambi marittimi con le città della Magna Grecia, con le
isole del Tirreno, con la colonia focese di Marsiglia, infine soprattutto con i
Cartaginesi: e forse il primo trattato di commercio fra Roma e Cartagine, che
Polibio riporta al primo anno della repubblica, è ancora il riflesso dei rapporti
creatisi fra l’una e l’altra città nell’ultimo periodo della dominazione etrusca
su Roma”.
Per quanto riguarda il tardo sorgere di Roma ad una dimensione militare della sua
presenza navale nel mare non ancora nostrum, sembra che le versioni ufficiali facciano
passare ingiustamente gli Etruschi nel dimenticatoio della storia, mentre la loro
importanza nel crescere marittimo di Roma è ben nota agli storici.
In sintesi, stimo non sia ragionevole pensare che Roma, già attore fattivo del
commercio mediterraneo tramite la componente etrusca della sua koyné, avesse potuto
cominciare da zero per dotarsi di una flotta militare. Sia in termini di costruzione navale,
sia in termini di pilotaggio, gli Etruschi furono necessariamente tra i protagonisti di
primissimo piano.
Più che difettare nella cantieristica navale, com’è opinione comune, il limite di Roma
si rivelava nella qualità dei suoi combattenti: fanti abituati alle battaglie campali con le
loro logiche di opliti e cavalieri, con strategie dipendenti dall’orografia del territorio e
dalle sue risorse.
Dal mio punto di vista, ecco quanto si può evincere dall’invenzione delle palizzate
tutt’attorno al ponte di ogni nave romana a Mylae.
È ben nota in effetti la storia secondo la quale, nel 260 a.C., Gaio Duilio sia mandato
in sostituzione di Gneo Cornelio Scipione Asina (fatto prigioniero dai Cartaginesi) a
dirigere la flotta romana sconfitta pesantemente nelle acque di Meligunis (Lipari).
Gaio Duilio avvolse le proprie navi di palizzate tra le quali figurano dei korax (corvi)9,
ossia delle passerelle mobili pronte ad abbattersi sul ponte nemico, ormai saldamente
ancorato alla nave nemica con un solidissimo uncino metallico. I soldati non hanno più
da temere un combattimento di imbarcazioni in movimento. La battaglia consiste
essenzialmente in un arrembaggio in condizioni, se non terrestri, quantomeno gestibili
da una fanteria scarsamente preparata alla guerra marina.
Perché i Cartaginesi non hanno speronato queste navi? Secondo me, il loro
avvicinamento rivela innanzitutto la loro curiosità: mai si erano viste finora le torri
galleggianti. Non avranno pensato a navi, bensì a costruzioni.
Sappiamo che Annibale Giscone - già vincitore poche settimane prima a Lipari con
20 imbarcazioni contro 17 - salpò da Panormos (Palermo) con 130 unità alla volta delle
Isole Lipari (Eolie). Passato il primo stupore alla vista dei torrioni di legno galleggianti,
sembra che le prime trenta imbarcazioni cartaginesi si siano lanciate all’attacco. Perché
I corvi erano già comunemente in uso all’epoca e non possono destare né curiosità né sorpresa. Di
conseguenza l’atteggiamento cartaginese di avvicinarsi anziché lanciare le navi per lo speronamento non
si può spiegare se non con la tesi delle palizzate, la vera idea geniale di Duilio, contestata tuttavia nello
stato attuale delle conoscenze.
9
128
I ROSTRI DELLA BATTAGLIA DELLE EGADI. OMAGGIO A SEBASTIANO TUSA
non risulta dalle fonti alcun ingaggio finalizzato a speronare? Non era forse un’altra
l’idea, quella di prendere d’assalto gli strani torrioni, in quanto esigeva un affiancamento
delle nave alle pareti di legno per disporvi le scale?! Conosciamo la scaltrezza e la
rapidità di manovra dei marinai Punici, nonché la loro esperienza secolare: se costoro
avessero capito che i torrioni nascondevano le navi nemiche, non le avrebbero mai
avvicinate così da favorire l’abbattimento dei corvi sul proprio ponte.
In sostanza, l’astuto Gaio Duilio sembra proporre a Mylae, nel 260 a.C., una versione
marittima del cavallo di Troia, invenzione verificatasi dieci secoli prima e largamente
diffusa nella cultura mediterranea.
Per concludere la prima parte di questo contributo dedicato al ruolo degli Etruschi
nella vocazione marittima di Roma e volto ad indagare certe imprecisioni, rimane a
Candido un’ultima perplessità: la battaglia di Mylae ha luogo quattro anni dopo l’inizio
delle ostilità tra Roma e Cartagine, che cominciano con il necessario attraversamento
dello Stretto di Messina da parte romana.
In buona sostanza fu una prima e considerevole operazione navale, considerando la
presenza dei Cartaginesi a Messana, le difficili condizioni di transito ben note ancora
oggi nello Stretto di e (Cariddi e Scilla), e la missione di portare
due legioni -forse quattro- e con ciascuna legione forte di 5.200 fanti e 300 cavalieri,
non menzionando gli animali, gli artigiani, i vari rifornimenti, ecc.
Una domanda allora sorge spontanea: come mai l’esperta flotta militare cartaginese
non impedì alla flotta romana di trasportare l’esercito tra la Calabria e la Sicilia?
Stando alla convinzione -errata- che Roma non sappia nulla di mare nel 264 a.C.,
non si può trattare che di una flotta mercantile di biremi e/o triremi lenti e pesanti, con
un massimo di 200 persone imbarcate, che devono remare poiché non sono previsti
passeggeri. Sappiamo che l’operazione impegnò 54 imbarcazioni10 per le due legioni
che dovevano approdare insieme, ovviamente per costituire una forza coerente.
Non siamo ancora all’epoca di una Roma ormai padrona del mare, capace di
diversificare la flotta tra naves onerariae e attuarie per il trasporto delle truppe, ippagoghe
per quello dei cavalli, veloci per i collegamenti, o speculatorie per le esplorazioni. Quanti
progressi in un secolo circa!
Nel 264 a.C., che segnò l’inizio della prima guerra punica, Annone e la flotta
cartaginese, posti a Messina, ebbero un’occasione irripetibile per eliminare fisicamente
il nemico con un colpo sicuro, tanto diverse erano le forze in presenza, loro velocissimi
con esperti marinai militari contro un nemico non capace. E invece non si mossero!
A riguardo alcune fonti indicano la volontà di Cartagine di evitare il conflitto con
Roma. Lo stesso Annone funse a Messina da mediatore tra Ierone II e i Mamertini, con
successo. Roma non tenne conto di questa nuova situazione, la quale vanificava il suo
intervento. E così imbarcò le sue legioni.
La volontà di pace dei Cartaginesi si verificò una volta ancora quando, dopo una
tempesta, alcune navi romane caddero in loro possesso ed Annone le restituì
immediatamente a Roma.
10
Saranno le città dell’antica Magna Grecia, ormai federate, a fornire la flotta: Neapolis, Locri e
Taranto.
129
JEAN PAUL BARREAUD E STEFANO ZANGARA
In buona sostanza le guerre puniche furono una chiara volontà di Roma e del popolo
romano, poiché la decisione su questa guerra non fu emanata dal Senato, assai diviso
sull’argomento, bensì dall’assemblea democratica della Repubblica Romana.
Quanto esposto fino a questo punto è a mio parere parte del bagaglio cognitivo che
ritroveremo nel 241 a.C. nella famosa battaglia navale di Levanzo. E importante in
termini di esperienza, di astuzia, di contenziosi storici che appellano alla rivalsa, ma
anche di limiti imposti dalla situazione politica ed economica dei contendenti.
Così per quanto riguarda i marinai Etruschi d’origine, passati alla storia come perdenti
per colpa di Siracusa, trovano nei primi passi di Roma marittima l’occasione di far
valere le loro qualità, ma pure di prendere la rivalsa sull’antico nemico, essendo Siracusa
un primario obiettivo dei Romani, risolto il problema della presenza cartaginese a
Messana. É interessante notare en passant che Siracusa, così forte sul mare nel V secolo
a.C., perse in due secoli questo suo predominio. Ierone II sembrò non disporre di una
marina da guerra sufficiente, contrariamente ai suoi antenati Dinomenidi Gelone,
vincitore a Himera, e Gerone, suo fratello, vincitore a Cuma.
Così, invece, considerando il caso di Cartagine, non possiamo ignorare la sua
debolezza legata sia ad un sistema politico oligarchico sia ad una minoranza di nativi
Punici i quali subappaltano a dei (Meteci) parte della loro economia e poggiano
su mercenari per i servizi militari. Roma invece seppe federare un’infinità di popoli in
una sola nazione e dotare la Repubblica di una rappresentazione popolare la quale spesso
si sostituiva al Senato come precisamente nel caso delle guerre puniche.
La lacuna di una debole flotta siracusana potrebbe indurci a leggere in modo più
preciso la strategia di Ierone II, forse più articolata di quanto non lo lasci pensare la
storia ufficiale, a condizione di valutare la sua personalità in modo ben diverso. Ma
questa è un’altra pagina che forse sveleremo in un’altra occasione.
La genesi del progetto Archeorete Egadi
STEFANO ZANGARA
L’importanza dello scontro navale che caratterizzò la fine della prima guerra punica
e le importanti ricerche poste in essere per l’esatta individuazione del luogo dello scontro
hanno sin da subito destato vivo interesse. La rievocazione dei fatti reali e la conseguente
loro divulgazione ha dato risalto a un evento che ha cambiato la storia della nostra isola
e del bacino del Mediterraneo intero. Il conflitto punico-romano si può definire come
una delle pagine più importanti della storia della Sicilia antica, una sorta di rivoluzione
militare.
La vittoria della flotta romana nel 241 a.C. obbligò i Cartaginesi a cedere i territori
più nevralgici per il commercio navale dell’epoca dando via libera alla vera espansione
dell’impero romano nel Mediterraneo. Gli sconfitti vennero così privati dei loro migliori
territori di conquista impegnandoli a non farvi più ricorso, ma non solo.
L’individuazione del campo della battaglia delle Egadi non è stato un fatto casuale.
Le fonti storiche portavano fuori pista. Polibio, lo storico Romano che ha maggiormente
e più dettagliatamente narrato l’evento, racconta dello scontro navale nelle acque che
130
I ROSTRI DELLA BATTAGLIA DELLE EGADI. OMAGGIO A SEBASTIANO TUSA
dividono Favignana e Levanzo, parlando anche di Cala Rossa tinta dal sangue dei soldati.
La realtà è un’altra.
I racconti e le testimonianze direttamente vissute dai pescatori locali e dai pionieri
della subacquea siciliana, primo tra tutti Cecè Paladino, ma anche Enzo Sole, i fratelli
Beppe e Giovanni Michelini, Ubaldo Cipolla, Sergio Rocca, Nitto Mineo e altri, hanno
cambiato la storia. Infatti, la nostra ricerca è partita da Capo Grosso di Levanzo e l’ipotesi
iniziale è nata grazie alle loro preziose informazioni.
Per tanti anni in questo luogo e nei suoi fondali, anche ampiamente ridossati da un
alto promontorio, sono stati recuperati ceppi e contromarre in piombo, elementi di ancore
romane che si trovavano perfettamente allineati lungo un’unica direttrice.
Da qui nasce Archeorete Egadi, il progetto legato all’idea di ripercorrere gli esatti
luoghi dello scontro del 10 marzo 241 a.C. fra Romani e Cartaginesi, e che dal 2005, in
partenariato con la fondazione statunitense RPM Nautical Foundation e con la
collaborazione di archeologi subacquei di fama mondiale, produce le indagini subacquee
strumentali nelle acque profonde dell’arcipelago egadino.
Il progetto, sviluppato con strumentazioni sonar, interessa un’area di ricerca di oltre
250 km2, posta a tre quarti di miglia a nord-ovest di Levanzo. Lo sviluppo delle indagini
ha dato conferma sull’esatta collocazione del luogo dello scontro tra la flotta cartaginese
e quella romana.
Lo scontro avvenne in questo specchio di mare piuttosto che nell’area centrale
dell’arcipelago, e cioè più a sud, come fu sempre descritto nelle fonti storiche, tra l’antica
Phorbantia (Levanzo) e Cala Rossa di Favignana, per i Fenici Katria.
Durante i primi anni dedicati prevalentemente alla mappatura strumentale dei fondali,
le indagini sistematiche hanno consentito una dettagliata conoscenza della morfologia
topografica dell’intera area sottomarina.
Si è potuto constatare che una vasta zona -soprattutto nelle porzioni a nord-ovest- è
pianeggiante e sabbiosa, e solo nelle parti laterali e più estreme (zone più ad ovest) il
fondale risulta costellato di affioramenti rocciosi intervallati da pianori con banchi di
sabbia.
L’area più centrale, scarsamente interessata da radi e poco pronunciati affioramenti,
è stata inesorabilmente devastata dalle reti della pesca a strascico, che hanno interessato,
disturbando, questo tratto di mare, e questa zona è oggi priva di interesse archeologico
proponendosi come una piatta distesa di sabbia con pochissima sopravvivenza di
conformazione biogenica ad eccezione della sua più prossima periferia.
Negli anni alcuni reperti sono stati oggetto di fortuiti recuperi, e altri invece furono
temporaneamente recuperati dalle reti e poi perduti durante la pescata spostandoli in
maniera casuale e depositati a ridosso delle vicine aree rocciose. É proprio nelle aree
più periferiche, dove è maggiore l’esistenza di miscellanee rocciose, che sono state
segnalate le più evidenti anomalie e dove è stato utilizzato il Veicolo Remoto Filoguidato
(ROV) in dotazione della nave oceanografica R/V Hercules.
Le corse mirate, indirizzate proprio su quei modelli di ricerca, hanno ispezionato
centinaia di bersagli che in molti casi si sono rivelati di notevole interesse archeologico.
Durante le campagne sono stati segnalati e geo-referenziati centinaia di esemplari di
131
JEAN PAUL BARREAUD E STEFANO ZANGARA
reperti anforacei (prevalentemente anfore del tipo greco-italiche). Alcuni esemplari,
come già evidenziato, incrociati in prossimità del bordo più occidentale e nella zona
rocciosa, sono stati recuperati. Erano parte del carico delle navi da trasporto scortate da
Annone verso Erice e depositate sul fondo dopo i naufragi o gettate fuoribordo durante
la fuga verso Cartagine.
Oltre agli importanti ritrovamenti appena descritti se ne aggiungono altri ancora più
straordinari: i rostri bronzei e gli elmi di Montefortino. Anche questi, segnalati dalle
strumentazioni sonar, confermano senza ombra di dubbio che l’epico scontro avvenne
proprio in queste acque.
In conclusione, le ricerche nelle acque delle Egadi che hanno consentito il
ritrovamento, soprattutto dei rostri di bronzo e degli Elmi di Montefortino, e di centinaia
di anfore, armamenti e suppellettili, sono state fondamentali per lo studio delle
testimonianze storiche ed archeologiche che ci riconducono senza più incertezze ai luoghi
esatti dello scontro finale della battaglia delle Egadi avvenuto il 10 marzo del 241 a.C.
È indubbio che questi tesori, tornando a vivere alla luce del sole, danno una giusta
collocazione agli antichi eventi11.
Intervista al prof. Sebastiano Tusa durante la mostra I rostri della battaglia delle
Egadi al Museo Whitaker di Mozia, il 20/11/201212
“Si tratta di oggetti di enorme importanza dal punto di vista storico, soprattutto, ma
anche tecnologico, che danno una nuova luce sul modo di fare battaglia, perché si
sapeva che esistevano i rostri e si sapeva che i rostri furono protagonisti di tante battaglie,
soprattutto dal periodo ellenistico in poi, però fino alla scoperta dei rostri delle Egadi
noi avevamo un solo rostro noto al mondo che era quello trovato in Israele casualmente.
Ci siamo convinti che quello che dicevano, e che poi ancora trovate sia nei depliant
turistici, talvolta, sia nei manuali di storia romana, cioè che lo scontro tra i Romani e
Cartaginesi fosse avvenuto nella zona tra Levanzo e Favignana e segnatamente a Cala
Rossa, non è vero. Il luogo della battaglia, come vedete da quella carta che è in quel
pannello, avvenne circa due miglia e mezzo a nord-ovest di Levanzo.
La flotta cartaginese veniva da Marettimo, e all’alba del 10 marzo 241 l’ammiraglio
cartaginese Annone capì che il vento era favorevole per fare il balzo verso la Sicilia,
«Questa ricerca archeologica sottomarina in alto fondale è curata dalla Soprintendenza del mare,
il progetto si chiama Archeorete Egadi. Partito nel 2005, è fino ad oggi ancora in piena attività di ricerca
e studio tanto strumentale che visivo. I mezzi che utilizziamo sono mezzi messi a disposizione da una
fondazione americana no profit, nella fattispecie per quanto riguarda la ricerca nelle Egadi, trattasi
della RPM Nautica Foundation. Con questa fondazione abbiamo individuato l’area che si trova tra Levanzo
e Marettimo a nord-ovest nello spazio-acqua tra queste due Isole. E qui su un fondo di 80 m abbiamo
mappato 250 km2 di fondale. Su quella mappatura, battuta a tappeto con verifiche puntuali e sistematiche,
abbiamo fatto poi la verifica dei bersagli. Questi furono individuati in 10 rostri di cui 8 già recuperati.
Poi abbiamo individuato una quindicina di Elmi montefortini e delle anfore greco-italiche coeve. Sono
circa 150 tra anfore puniche ed altre anfore che potrebbero essere catalogate quale appartenenti a quel
periodo» (Intervista al Dottor Stefano Zangara durante la mostra I rostri della battaglia delle Egadi,
Museo Whitaker di Mozia, 20/11/2012.
12
Dal documentario Mozia. I rostri della battaglia delle Egadi. Sicilia Svelata, ©2012.
11
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I ROSTRI DELLA BATTAGLIA DELLE EGADI. OMAGGIO A SEBASTIANO TUSA
ma non verso Drepanum, come dicono le fonti, ma per Drepanum (si deve intendere la
zona a nord) e quindi la baia di Bonaggia era l’unico punto da cui potevano raggiungere
le guarnigioni di Amilcare che erano assediate sulla cima del San Giuliano. Quindi
questo grosso convoglio di 700 navi parte, e Gaio Lutazio Catulo ebbe una grande
intuizione: capi certamente che il convoglio non passava tra Levanzo e Favignana ma
che sarebbe passato a nord e quindi nascose le sue navi sulla riva destra dell’isola di
Levanzo. Dà l’ordine di attaccare e attacca la flotta cartaginese provocando lo
scompiglio e questi sono i protagonisti della battaglia: i due rostri romani, 1 e 2, e un
rostro cartaginese. Lo si capisce dall’iscrizione. Le iscrizioni sono queste in latino e
quella in caratteri punici.
Ad un certo punto i Romani e anche i Cartaginesi tentarono il colpo finale. I Romani
lo tentarono facendo forza a se stessi: le casse dello Stato erano ormai esauste e quindi
il Senato chiamò a raccolta i vecchi romani che misero soldi, fecero un prestito vero e
proprio, che poi sarà restituito dopo la guerra con il bottino, per armare l’ultima forza
e dare il colpo finale, per vincere la guerra. Lutazio Catulo viene incaricato come
console per allestire la flotta e raduna tutte queste navi che probabilmente danno le
diverse città che componevano già l’oecumene romana della penisola. I nomi che vedete
riportati nelle didascalie dei rostri romani sono i personaggi che quindi non solo
pagarono l’opera con i loro soldi e anche la nave, ma poi provarono che tutto era fatto
a regola d’arte. Il rostro cartaginese invece ha una concezione completamente diversa
che ci dà l’idea della differenza tra i due popoli, perché quello cartaginese invoca la
divinità principale del pantheon fenicio-punico, cioè Baal, e dice che Baal possa far
penetrare questa arma nel ventre della nave nemica”
Sicilia Svelata: “Viene spontaneamente una curiosità. Poiché sappiamo di un’altra
grande battaglia navale in Sicilia, la battaglia di Milazzo, ove sembra i Romani abbiano
inventato l’arrembaggio, ritroviamo in questa situazione cose simili che possano far
pensare alla pratica medesima di un abbordaggio o meno?”
Sebastiano Tusa: “Per la verità sì, perché insieme ai rostri, insieme agli elmi, insieme
alle anfore, insieme alla ceramica che facevano parte della dotazione di bordo, abbiamo
trovato tanti oggetti in metallo, sia in bronzo che in ferro, tuttora in corso di restauro e
che sono oggetti che non conoscevamo prima. Quindi non abbiamo un riscontro
tipologico per potere dire che sono uguali a quelli. Però alcuni di questi oggetti in
ferro, soprattutto quelli a uncino, mi hanno fatto venire l’idea che si tratti proprio degli
uncini che erano all’estremità delle passerelle dei cosiddetti corvi che servivano per
agganciare le navi nemiche e quindi far passare i soldati sulle passerelle e combattere
corpo a corpo. Però ancora sono in corso di restauro, quindi è un’ipotesi. Quello che
facciamo è importante dal punto di vista storico-archeologico, ma soprattutto potrebbe
avere una ricaduta nella società. Allora come ci stiamo muovendo? Innanzitutto nella
zona esiste una grande realtà architettonica che è l’ex stabilimento Florio di Favignana,
questa grande struttura chiamata impropriamente tonnara perché era uno stabilimento
per la verità dove si lavorava il tonno, che è stata acquisita dalla Regione e restaurata.
L’idea è quella di prendere una di queste grandi sale della tonnara, dello stabilimento,
e lì dentro mettere i reperti ma anche una sezione introduttiva che porti il visitatore e il
133
JEAN PAUL BARREAUD E STEFANO ZANGARA
1) Intervista al professore Sebastiano Tusa (Sicilia Svelata, ©2012).
2) I rostri recuperati, due romani e uno
cartaginese (Sicilia Svelata, ©2012).
3) Particolare di un rostro romano (Sicilia
Svelata, ©2012).
4) Mappa che illustra la battaglia delle Egadi (Sicilia Svelata, ©2012).
134
I ROSTRI DELLA BATTAGLIA DELLE EGADI. OMAGGIO A SEBASTIANO TUSA
turista ad immergersi nella battaglia, in quello che avvenne. Ci stiamo muovendo in
questo senso e spero che già l’anno prossimo potremo realizzare questa mostra
permanente multimediale sulla battaglia dove i rostri, gli elmi, gli altri oggetti possono
essere collocati.
Poi ovviamente ci vuole quello in cui noi, intendendo per noi i siciliani e gli italiani,
siamo un po’ carenti, cioè la comunicazione. Ci stiamo anche attrezzando affinché il
settore turismo-comunicazione dialoghi molto con noi perché altrimenti che contenuti
ci mettono dentro? Quindi i contenuti li dobbiamo dare noi, ci vuole una maggiore
integrazione proprio con gli americani che stanno sponsorizzando questa ricerca:
abbiamo in animo di fare una mostra itinerante dei rostri, che vada anche negli Stati
Uniti ovviamente; loro lo chiedono perché la loro sponsorizzazione, devo dire
onestamente, è stata sempre molto disinteressata, e loro chiedono solamente di potere
pubblicare insieme a noi, e noi abbiamo già pubblicato su riviste scientifiche quello che
troviamo. Però ci hanno anche chiesto di potere avere un riscontro pubblico sui media
di questa ricerca e quindi vorrebbero che questa mostra potesse girare per gli Stati
Uniti nelle principali città, in modo da dare anche risalto a questa attività e io penso
che sia un’idea giusta”.
135
136
IL
TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA.
I
RIFLESSI NELLE QUBBÂT
SICULO -ARABE
ALESSANDRO DI BENNARDO*
L’architettura della qubbat costituisce un etimo alquanto iconico dell’eterogeneo
linguaggio artistico islamico. Un incastro di volumi puri solo in apparenza semplice e
che in realtà, almeno nei suoi esempi più aulici, esprime una sintesi di assiomi teologici
e simbolici fondativi dell’Islam, spesso trasversali alle sue diverse anime mistiche,
resistenti al mutare dei tempi, delle egemonie politiche e delle funzionalità, tanto da
apparire come modello versatile, applicabile alle architetture funerarie, cultuali,
rappresentative e di sollazzo, anche per committenze non esclusivamente arabofone,
sovente entro contesti ad egemonia cristiana o ebraica.
Costante è la sua diffusione entro tutto l’universo artistico islamico, dalla
desertica Jazira alle sponde del Mediterraneo, trovando in Sicilia applicazioni nelle
Cube di Vicari (figura 1) e Mineo (figura 2), nella più celebre Cubula di Palermo
(figura 3) oltre che in altre meno note Cube delle contrade alcamesi (figura 4).
Nel panorama storiografico e letterario del repertorio islamico appaiono già consolidati
i connotati tipologici delle qubbât e delle sue varianti, grazie ai persistenti aggiornamenti
di studi presso differenti aree geografiche1. Tuttavia, poche sono ancora le ricerche
sulla semiologia delle sue forme archetipiche, tanto da palesarsi ampi margini di sviluppo
per metodologie incentrate sulla semiotica interpretativa dell’architettura, indaganti
l’origine simbolica e teologica di un simile prototipo costruttivo.
1.1 Tra genesi cristiano-orientale ed assimilazione coranica della qubbat
L’origine dell’archetipo della qubbat, inteso nella sua stretta dicotomia cubosemisfera, va ben oltre la gestazione islamica. La tradizione romana d’età repubblicana
e imperiale costruiva la cupola direttamente sopra l’unità volumetrica di base poligonale
o cilindrica (cosiddette cupole a tutto cilindro), annullando o limitando l’importanza di
* Architetto, Dottore di Ricerca in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici.
1
Sull’origine teologica delle qubbât, cfr. J.F. MERI, The cult of saints among Muslims and Jews in
medieval Syria, Oxford University Press, Oxford, 2002; S. JESSUP, The Wady Barada. Picturesque Palestine,
Sinai, and Egypt, Division II, D. Appleton & Co., New York, 1881, pp. 444–452. Sulle strutture a qubbat
medievali tra Sicilia e Maghreb cfr. L. H ADDA, Le Cube: piccole architetture a cupola tra Sikilliya e
Ifriqiya (XI-XII secolo), in «Lexicon. Storie e Architettura in Sicilia e nel Mediterraneo», n. 21 (2015), pp.
7-12 e G. ANTISTA, Le cupole in pietra d’età medievale nel Mediterraneo (Sicilia e Maghreb), Ed. Caracol,
Palermo, 2016. Per la cultura costruttiva delle campate cupolate cfr. J. M. GUERRERO V EGA, Bóvedas
centralizadas en la arquitectura árabe-normanda de Sicilia: notas sobre construcción y control formal en
los elementos de transición en piedra, in «Lexicon. Storie e Architettura in Sicilia e nel Mediterraneo», n.
19 (2014), pp. 7-20.
137
ALESSANDRO DI BENNARDO
1
(in ordine orario)
1. Cuba Ciprigna, Vicari, IX-XII sec. (?), angolo
sud-est. Foto G. Lo Brutto.
2. Cuba del Convento di San Vito, Mineo, IXXII sec. (?), fronte nord-orientale. Foto D.
Barucco, 2008.
3. Cubula, Palermo, XII sec., fronte orientale.
4. Cuba delle Rose, Alcamo, VIII-IX sec. (?),
angolo sud-orientale. G. CULMONE, A. FERRARELLA
2015.
3
138
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
quei raccordi angolari alla semisfera tanto identificatori delle qubbât (figura 5). Solo in
età tardo antica, sotto la spinta patristica dell’identità teologica cristiana, la cupola inizia
ad essere impostata sopra un’unità volumetrica cubica di base, affidando particolare
risalto ai quattro pennacchi di raccordo. L’architettura cristiana, nelle sue diverse
tradizioni (bizantina, latina, copta, siriaca, ecc.), già nei primi decenni del VI sec. raffigura
nella morfologia statica dei presbiteri cupolati la sintesi della relazione Uomo-Dio
ispirandosi al modello geometrico del gammadion2 o croce gammata (figura 6): la chiave
sommitale della cupola celeste, trono in excelsis dell’Altissimo sorretto dagli arcangeli
(figure 7 a/b), propaga in terra il suo Verbo per mezzo dei quattro evangelisti. Difficile
datare la formulazione del gammadion, antesignano dell’archetipo della qubbat, di certo
esso costituì già nel 532 modello progettuale e teologico nella Hagia Sofia (chiesa di
Santa Sofia) di Costantinopoli, seppur consapevoli degli anticipi cronologici testimoniati
in Siria dalla cattedrale di Bosra (costruita da Giustiniano vent’anni prima)3 (figura 8) e
dalle coeve chiese di Sant’Elia e San Giorgio a Ezra’a nel 515 (figura 9). Tali innovazioni
costruttive nei padiglioni cupolati trovarono diffusione in tutto il Mediterraneo anche
grazie all’infaticabile azione apostolica e culturale del monachesimo siriaco, impegnato
a diffondere in Occidente la luce d’oriente4, anticipando il paradigma geometrico sfera/
cubo delle successive qubbât islamiche. Nella Sicilia bizantina, P. Orsi rilevò i segni di
tale azione evangelica orientale nei diffusi esempi di sale cupolate (definite Cube in
siciliano) costruite fin dal VI-VII secolo sino al basso medioevo5.
Attraverso le primigenie costruzioni a cupola di Ezra’a e Bosra la tradizione siriacobizantina dei territori dell’Hauran (Siria meridionale), cerniera territoriale islamicocristiana anche perché contesto formativo del giovane Maometto, potrebbe aver offerto
il riferimento costruttivo originario alla qubbat musulmana. Un riferimento che appare
tanto più fondato quanto più ne esaltiamo i connotati tipici morfologici: il suo essere
padiglione assestante, autonomo nello spazio, esternamente dichiarato dal semplice
incastro tra prisma e sfera, proprio come nelle volumetrie delle citate costruzioni sirobizantine dell’Hauran. D’altronde, l’origine della qubbat islamica rifletterebbe con
coerenza la formazione teologica del Profeta, legata alla dottrina cristiana siro-orientale
dell’Hauran. Ivi, presso la città di Bosra, la tradizione biografica di Maometto narra del
suo incontro sul finire del VI sec. con Bahîrâ, mistico siriaco che riconobbe
Per una sintesi dell’influenza del gammadion nei modelli costruttivi centrici cupolati della tradizione
cristiana cfr. R. GUÈNON, Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, Milano, 1975, pp. 255, 256.
3
H. C. BUTLER, Syria. Publications of the Princeton University Archaeological Expeditions to Syria in
1904 and 1909. Architecture. Southern Syria, Brill, Laiden, 1919, p.286.
4
Sul ruolo siriaco nella diffusione dei modelli orientali tardo antichi e altomedievali: I. P EÑA, La
straordinaria vita dei Monaci Siri (IV-VI secolo), San Paolo Edizioni, Milano, 1990. Sulle relazioni siculosiriane, cfr. A. DI BENNARDO, Pietre orientate. La luce nelle chiese di Siria e Sicilia (VI-XII secolo),
Meltemi, Roma, 2004, pp. 164/179.
5
Ricordiamo le Cube presso la Torre di Cassibile, nella contrada Masseria presso Milazzo, a Malvagna
in contrada S. Michele presso S. Venerina, ecc.. Sintetizza P. Orsi: “… tutte le chiese […] sono bizantine
nello stile, nella forma, nella distribuzione delle parti, […] fatte per il rito orientale, né adatte a quello
latino. Ciò dimostra quanto profondamente greca anche nel culto fosse rimasta la Sicilia fino all’epoca
normanna …”, v. P. ORSI, Sicilia Bizantina. Architettura, Pittura, Scultura, Edizioni Clio, San Giovanni
la Punta, 2001, p.38.
2
139
ALESSANDRO DI BENNARDO
6
7a
5
7b
in ordine orario:
5. Cubula, Palermo, articolazione dell’intradosso di
copertura con l’utilizzo dei
raccordi angolari di imposta
della cupola. R. SANTORO, 1986.
6. Schema simbolico del
gammadion.
7a. - Modello di gammadion
applicato alle geometrie della
cupola cristiana.
7b. - Chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio, Palermo, 1143,
esempio medievale di applicazione del gammadion nel
presbiterio cupolato.
8
8. Cattedrale di Bosra (512). Ipotesi ricostruttive di H. C. Butler (1919).
140
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
9. Chiesa di San Giorgio,
Ezraa, 515. Foto di G.
Gazzetti, Gruppo Archeologico Romano.
11. Lo schema geometrico
delle cinque essenze primigenie (rukn al-arkân) nell’iconografia raffigurante la
Shari’a, Libro degli antidoti,
1199, Parigi, Bibliothèque
nationale.
10. Ka’ba, Mecca, tenda di rivestimento del sacro
cubo. Foto Pinterest.
12. Lo schema geometrico delle cinque essenze
primigenie (rukn al-arkân) nell’iconografia di
una fatwâ. Pagina calligrafata da Mehmed Sevki
Efendi, 1829-87, Istanbul, Museo delle Calligrafie.
141
ALESSANDRO DI BENNARDO
nell’adolescente la forte valenza profetica durante il suo indottrinamento cristiano6 .
D’altronde, l’influenza siro-bizantina sull’arte islamica delle origini è ampiamente
dimostrata e condivisa in letteratura attraverso la gestazione omayyade, così come
testimoniano le primigenie moschee cupolate di Gerusalemme (687-91) e Damasco (70615), palesi assimilazioni dei canoni cristiani in termini islamici corroborate dalla
condivisione dello spazio di preghiera da parte delle due comunità religiose.
Tuttavia, l’arte islamica dei secoli successivi ha rigenerato l’originario archetipo
cristiano, affrancandosi dagli accenti simbolici evangelici attraverso una re-significazione
iconografica del rapporto cubo-sfera nei termini propri della mistica musulmana,
alimentando le forme di una nuova architettura con l’evoluzione della giurisprudenza e
della teologia musulmana (Kalam) maturata tra l’VIII e il X, sino poi a definire nel
tardo medioevo un raffinato simbolismo costruttivo sulla spinta esoterica delle visioni
geometriche di grandi šuyûkh (sceicchi) come Ibn ‘Arabî e ‘Abd Allâh Ansarî, definendo
il momento di massima relazione artistico-filosofica tra Sufismo e architettura islamica.
Proprio nel maturo medioevo la tradizione islamica riconosce e decodifica, attraverso
la letteratura del viaggiatore persiano ‘Ali ibn Abi Bakr al-Harawi, le tipologie di mausolei
cupolati o qubbat in funzione di tre diverse centralità di culto e di pellegrinaggio7:
I. costruite su tombe di persone degne di esempio per i fedeli, come santi, eroi,
teologi, ecc.;
II. erette presso località di particolare testimonianza divina in quanto contesto di
eventi coranici o legati comunque alla vita di Muhammad, dei suoi discendenti e/o
califfi;
III.innalzate sopra siti oggetto di visioni celesti da parte di profeti.
L’alta desinenza simbolica della qubbat appare intrinseca già nella stessa origine
etimologica riferita all’unità spaziale mobile della tenda rivestita di pelli, secondo
l’ipotesi del lessicografo medievale arabo Ibn Manzûr8. Ciò non può passare inosservato
ad un’analisi semiologica dell’architettura, in quanto, nel contesto delle più ampie
tradizioni semitiche, la tenda cosmica9 rappresenta l’incipit costruttivo della tradizione
beduina alla stregua della tenda nell’Esodo israelitico; la tenda come cortina di veli,
come spazio scientemente ritagliato dal caos del deserto garante all’uomo dell’intimo
6
Cfr. A. ABEL, voce Bahîrâ, in The Encyclopaedia of Islam, Brill, Leiden, 2007; W. WATT, Muhammad:
Prophet and Statesman, Oxford University Press, Oxford, 1964, p. 1-2; S.H. GRIFFITH, The legend of the
Monk Bahira; the Cult of the Cross and lconoclasm, in P. CANIVET, J.P. REY (a cura di), Muhammad and
the Monk Bahira: Reflections on a Syriac and Arabic text from early Abbasid times, «Oriens Christianus»
79, 1995, pp. 146–174.
7
J. F. MERI, Lonely Wayfarers Guide to Pilgrimage: Ali ibn Abi bakr al-Harawi’s Kitab al-Isharat ila
ma rifat al-Ziyarat, Darwin Pr, Princeton, 2005, pp. 23 e ss.
8
IBN AL-MANZUR, Lisan al-‘Arab, Dar Sader, Beirut 2000, 5.3507. Per l’etimologa: J. F. Meri, The
cult of saints …, cit., pp. 264 e ss.; E. D IEZ, voce Kubba, in Encyclopaedia of Islam, cit. É obbligo
ricordare altre ipotesi sull’origine del termine qubbat, come quella dal termine latino cupa (botte) e le
arabiste legate ai significati di fossa, deposito o cupola. Cfr. S. VALPREDA, Le Cube di Sicilia. Edifici di
culto a pianta centrale in età bizantina, in www.mediterraneoantico.it/articoli/magazine/le-cube-siciliaedifici-culto-pianta-centrale-eta-bizantina, 04/11/2020, p.3.
9
Per i significati architettonici e simbolici della tenda semitica nella tradizione israelita (Mishkan)
vedi la voce Tabernacle, in AA. VV ., Jewish Encyclopedia, Funk & Wagnalls, New York, 1901.
142
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
rapporto meditativo con Dio, proprio secondo i precetti coranici:
“E quando tu (Muhammad) reciti il Corano, noi poniamo tra te e coloro che
rinnegano la vita futura un velo disteso”.
“A nessun uomo Dio può parlare altro che per rivelazione, o dietro un velame,
o invia un messaggero il quale riveli a lui col suo permesso quel che egli vuole”.
“O voi che credete! Non entrate negli appartamenti del Profeta senza permesso,
per pranzare con lui, senza attendere il momento opportuno! [...] E quando
domandate un oggetto alle sue spose, domandatelo restando dietro una tenda:
questo servirà meglio alla purità dei vostri e dei loro cuori.”10.
Dietro il velo coranico (hijâb) si nasconde l’opportunità di purezza per il fedele,
all’interno della tenda cosmica dei nomadi semiti11 Dio manifestava all’Uomo le leggi
del Cosmo affinché egli replicasse in terra la medesima cosmogonia, concetto di spazio
sacro intrinseco nello stesso cubo velato della ka’ba (figura 10). Nella tenda islamica,
l’Uomo, sotto la guida del Verbo rivelato, è certo di mantenersi fuori dal peccaminoso
arbitrio della casualità, apprendendo il costruire secondo ierofanìa, secondo il volere di
Dio manifestato in purezza. Pertanto, l’archetipo della qubbat, almeno nella sua accezione
lessicale di tenda cosmica pietrificata, appare identificabile quale spazio ritagliato
dall’Uomo (nel più vasto contesto del Creato) atto a definire un intimo medium
contemplativo di Dio e della sue leggi regolanti il Cosmo, leggi che certamente supportano
anche la seconda estensione etimologica di qubbat nel più noto concetto di cupola12.
1.2 I riflessi della cosmogonia islamica nelle geometrie dell’archetipo della qubbat
Nell’ipotesi etimologica del concetto simbolico di tenda semitica, la qubbat riflette
il modello cosmogonico universale comune alle altre tradizioni abramitiche, una struttura
compositiva centrica costituita, come per le Cube siciliane di Mineo, Vicari e Palermo,
da una circolarità entro cui si iscrive un quadrilatero, un poligono regolare che si trasforma
in ottagono per via rotatoria. Si tratta di un modello geometrico dinamico incentrato su
un obiettivo mistico ben preciso: la congiunzione per via centripeta del fedele alla Verità
islamica, il tawhîd, dogma attestante l’unicità di Dio13. Tale metamorfosi geometrica
nella tradizione costruttiva avviene sia nei termini delle due che delle tre dimensioni,
traducendo il tutto nella trasformazione del quadrato in cerchio e del cubo in sfera per
via ottagona. L’architettura si modella sulla dinamica della quadratura del cerchio,
ripetendo nelle sue forme le cosmogonie e le mistagogie di Allâh il pantocratore.
Lo stato di cose terrestri è a modello di quello celeste a cominciare dal Corano stesso,
Corano, rispettivamente XVII,45 / XLII, 51 / XXXIII, 53.
Cfr. I. ZILIO GRANDI, Dalla tenda di Abramo alle dimore dei credenti. La sacralità dell’ospite nella
tradizione islamica in «Politica e Religione», vol. 2016, pp. 131-142
12
J. F. Meri, The cult of saints …, cit., p. 264. In generale, cfr. E.B. SMITH, The Dome, A Study in the
History of the Ideas, Princeton University Press, Princeton, 1950.
13
Cfr. A. HOURANI, Storia dei popoli arabi, da Maometto ai nostri giorni, Oscar Storia Mondadori,
Milano 1992.
10
11
143
ALESSANDRO DI BENNARDO
13a. - La ka’ba e il modello celeste composto da
veli portato in terra dai quattro Kholafà,
miniatura del XII secolo, Parigi, Bibliothèque
Nationale.
13b – Schema compositivo geometrico dell’archetipo al-haqq.
14. Schema cosmogonico islamico, relazione tra
ciò che è stato creato (al-kalq) e ciò che è verità
(al-haqq), centralità terrestre della ka’ba.
15. La via ascensionale all’interno dello schema
cosmogonico islamico.
144
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
“… dettato dall’arcangelo Gabriele al Profeta […] rispecchiante un archetipo celeste”14,
per cui tutto ciò che è stato creato (al-kalq) è a modello di ciò che è verità (al-haqq).
Come per il cristiano gammadion, i punti attorno cui si struttura il modello cosmogonico
da replicare sono cinque (figure 11 e 12), ognuno dei quali è inteso come pietra angolare
in quanto portante del sistema geometrico, rukn al-arkân15, congegno quadrimorfo scrigno
dei quattro elementi convergenti nella quintessenza mistica, haqîqah, suprema quanto
primigenia. Tale è il significato originario dello schema icnografico di tutte le qubbât
(seppur applicato nelle varianti diverse a base quadrata o ottagonale), comprese la Cubula
di Palermo e le Cube di Vicari e Mineo, tutti riflessi più o meno consapevoli del rapporto
tra i concetti primitivi di al-kalq ed al-haqq.
Nel modello celeste, da Allâh stesso si dirama una quaterna di angeli vicari, i quattro
Kholafà (Ghibrîl, Rufâ’il, Mîkâ’il, Isrâfîl) (figura 13 a/b) rotanti intorno al Trono (Corano
29,75) così come anticipato dalla biblica visione di Ezechiele16. Tale seggio divino poggia
la sua base quadrangolare sul circolo Khatt-al-Istima17, circonferenza dell’orizzonte
supremo, essa, nell’essere la quinta e più importante pietra angolare dell’archetipo alhaqq, rappresenta anche la soglia attraverso cui è possibile l’uscita dal Cosmo in quanto
limite che separa al-kalq da al-haqq, confine che divide il terrestre dal celeste18. La
decodificazione architettonica di tale archetipo celeste vede pertanto un’omologia di
significati mistici e simbolici tra i concetti di pietra d’angolo e soglia iniziatica.
Per imitazione, il modello costruttivo terrestre ha così una pietra angolare centrale
fisicamente individuabile nella pietra nera (Al-Hajar al-Aswad) custodita dalla ka’ba
nel suolo in cui Allâh ordinò al penitente Abramo (nuovo Adamo) di ricostruire la Casa
Antica distrutta dal Diluvio. La cosiddetta al-Bayt al-’atîq, archetipo primordiale calato
in terra da Allâh dal paradiso celeste, fu così avvolta entro una tenda attorno cui
quotidianamente girare per sette volte, ad imitazione della venerante prassi dinamica
dei quattro arcangeli. Proprio la pietra nera, unico reperto post-diluviano della Casa
Antica19, dimostra l’omologia islamica dei concetti pietra d’angolo e soglia, in quanto
incastonata all’angolo orientale dello scrigno ka’ba, probabilmente per opera di Abramo.
La pietra nera determina il baricentro islamico terrestre, in quanto lanciata direttamente
al suolo da Dio (figura 14): nella caduta di al-Bayt al-’atîq, lo sfondamento della volta
celeste rivelò agli uomini la stella polare (porta del cielo); nel suo discendere manifestò
A. BAUSANI, L’Islam. Una religione, un’etica, una prassi politica, Garzanti, Milano 1999, p. 15.
R. GUÈNON, I simboli …, op. cit., pp. 255/257. Per la relazione tra il concetto di pietra d’angolo e i
cinque pilastri della fede islamica, cfr. infra paragrafo 1.3.
16
Per le diverse interpretazioni letterarie coraniche del Trono di Allâh, vedi A. BAUSANI, L’Islam …,
op. cit., p. 18.
17
In senso ampio e moderno, il termine variante Quwat al-Ijtima include il senso stesso di società
araba o (in senso laico) società nazionale. Cfr. F. ZEMMIN, Modernity in Islamic Tradition. The concept of
“society” in the journal al-Manar (Cairo 1898/1940), De Gruyter, Boston/Berlin, 2018.
18
Per tale proprietà rukn al-arkân è detta anche ar-rûh, cioè spirito in contrapposizione alla materia.
Cfr. R. Guènon, I simboli …, op. cit., p. 258.
19
Secondo la tradizione la Casa Antica fu fatta erigere da Adamo per custodire una pietra bianca
d’intercessione con Dio, portata dall’arcangelo Gabriele; divenne nera per i peccati dell’Umanità prediluviana, portata in salvo da Noè, fu nascosta in una caverna presso la Mecca, in seguito riusata da
Abramo e Ismaele nella ricostruzione della Casa Antica.
14
15
145
ALESSANDRO DI BENNARDO
all’Islam l’asse del mondo, la via ascensionale Cielo-Terra-Inferi che Muhammad
percorse nel suo viaggio notturno dalla Mecca a Gerusalemme (isrâ’), prima di scendere
agli inferi e poi infine risalire alle sette sfere planetarie ultracelesti (mi’râj)20 (figura
15). Muhammad purificò la ka’ba dai preesistenti culti21 richiamando i capi delle quattro
tribù: dal sud gli Yemeniti, dal nord gli Adnaniti, dall’est i Mudar e dall’ovest i Râbi’a,
come ripetizione della primordiale discesa dell’archetipo celeste operata da Dio con i
suoi arcangeli22 . La cosmogonia alla ka’ba riflette sull’architettura della qubbat la
geometria di congiunzione sfera/cubo per mezzo dell’ottagono lungo l’asse cardine
ascensionale cielo/terra sfociante al suolo in una centralità diramata ai quattro angoli
del Creato.
Questo schema geometrico della cosmogonia islamica, alla stregua delle altre
tradizioni abramitiche, include anche l’accezione fluviale, tema molto caro alle
iconografie seriche persiane23 (figura 16). L’acqua è medium progettuale sacro, il giardino
dell’Eden è la massima espressione del Cielo in Terra, “E gareggiate per il perdono del
Signore e per il Giardino largo come i cieli e la terra”24, il suo archetipo costituisce
riferimento per la costruzione del giardino quanto dell’oasi25. La coincidenza dei concetti
di pietra angolare e soglia sorgente si riscontra anche nel territorio, cosicché alla
centralità della ka’ba si associa la vicina fonte ismaelitica zam zam, il pellegrino a
compimento del suo hagg la raccoglie per sé in un’ampolla, garantendo la perpetua
propagazione ai quattro angoli del Creato dell’acqua sacra, simbolo del Verbo di Dio.
Di questa valenza simbolica del centro della qubbat intesa come sacra sorgente si
potrebbero rilevare i riflessi anche nella Cubula di Palermo, in quanto, così come appare
nell’iconografia di H. Gally Knight (figura 17), probabilmente incardinata in origine su
una vasca centrale26 e inserita nel parco regale definito Paradiso in Terra dal suo stesso
appellativo arabo (Jannat al-ar)27, il Genoardo dei sovrani Normanni di Sicilia, miniatura
del Creato da contemplare a partire da questo piccolo padiglione cupolato aperto ai
quattro angoli geografici. Al medesimo modello di qubbat a centralità acquatica si rifanno
anche la Qubbat al-Bârûdîyin di Marrakesh (prima metà del XII secolo) (figura 18) e la
20
Cfr. R. COOK, The Tree of Life. Image for the Cosmos, Avon Books, New York, pp. 25, 26 e G. DE
CHAMPEAUX, S. STERCKX, I simboli del Medioevo, Jaca Book, Milano, p. 198.
21
Vedi A. BAUSANI, L’Islam …, op. cit., pp. 55, 56. La tradizione ricorda anche come, nella sua azione
di purificazione, Muhammad mantenne soltanto le immagini della Vergine e di suo figlio Gesù.
22
D. CHEVALLIER, A. MIQUEL (a cura di), Gli Arabi. Dal messaggio alla storia, Salerno Editrice, Roma,
1998, p. 26.
23
R. Cook, The Tree of Life …, op. cit., p. 23.
24
Sûra 3, 133.
25
P. LAUREANO, Tra Persia e Europa. Struttura e simbolica delle oasi e dei giardini, in Atti del IV Convegno
Internazionale di Iranistica, Bologna, 8-9/11/2018, Centro Essad Bey, Seattle, 2019, pp. 141-174.
26
I recenti scavi archeologici condotti da J. Navarro Palazón hanno evidenziato l’esistenza di una
vasca circolare di fattura sette-ottocentesca che non esclude del tutto l’ipotesi di una originale fontana
medievale collocata nella Cubola di età normanna o nella preesistente qubbat di età islamica rinvenuta.
Cfr. G. Giallombardo, La scoperta alla Cuba soprana: trovate mura e vasche arabe, in
www.magazine.leviedeitesori.com/la-scoperta-alla-cuba-soprana-trovate-mura-e-vasche-arabe/, 16/11/
2020. Di certo, il posizionamento della fontana al centro della qubbat è tema iconografico ampiamente
accettato dall’architettura islamica medievale.
27
G. CARONIA, V. NOTO , La Cuba di Palermo (Arabi e Normanni nel XII secolo), Edizioni Giada,
Palermo 1988, pp. 99-102, 165-171.
146
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
16. Lo schema geometrico dei quattro fiumi nel
giardino dell’Eden, tappeto persiano XVII secolo.
17. Cubula di Palermo, ricostruzione ideale di
H. Gally Knight con al centro la fonte d’acqua.
Disegno della prima metà del XIX secolo.
18. Qubbat al-Bârûdîyin, Marrakesh, prima
metà del XII secolo.
19. Qubbat della moschea di Ibn Tulun, il Cairo,
tardo XIII secolo.
147
ALESSANDRO DI BENNARDO
Qubbat posta al centro della moschea di Ibn
Tulun al Cairo (tardo XIII sec.) (figura 19),
entrambi padiglioni dedicati al rito delle
abluzioni nel contesto iniziatico del ciclo
della purificazione e della preghiera
quotidiana ad Allâh.
Lo schema geometrico della cosmogonia islamica è parimenti ripercorso dalla
diffusione del Verbo, che si propaga come
fiumi dell’Eden attraverso l’azione dei
quattro al-Khulafâ’ ar-Râsidûn (Abû Bakr,
‘Umar ibn al-Khattâb, ‘Uthmân ibn ‘Affân,
‘Alî ibn Abî) (figura 20) diramata ai quattro
angoli della Terra: un quadrato inscritto
nella circonferenza del mondo come nella
generale tradizione semitica. Tuttavia,
nell’Islam, l’interno di ciò che è creato (alkalq) è ripartito in tre regioni mistiche da
altrettanti quadrati concentrici28 . Dâr alIslâm è la prima regione, la più grande,
racchiude l’insieme dei territori fedeli. Al
suo interno, la seconda e più piccola regione
sacra, il cosiddetto Harâm, limitrofa alla
Mecca, fin dall’antichità segnalata nel suo
perimetro ai pellegrini attraverso la
collocazione di segmenti in pietra.
Oltrepassata questa regione si entra nella
terza e più sacra regione della Casa 20. Schema iconografico dei quattro al-Khulafâ
dell’Islam, il quadrato più ieratico in quanto (Abû Bakr, ‘Umar ibn al-Khattâb, ‘Uthmân ibn
‘Affân, ‘Alî ibn Abî), miniatura ottomana, XVI
contenente il piano della congiunzione, il secolo. Il Cairo, Biblioteca Nazionale.
recinto della Mecca (al-Haram aš-Šarîf)
dove avviene il passaggio terra-cielo incardinato sulla pietra ka’ba. Ivi, i percorsi di
pellegrinaggio (hagg) smettono di essere idealmente rettilinei, trasformandosi in circolare
e centripeto attorno la pietra nera avviando in tal modo il tawâf, sette giri in senso
antiorario ad imitazione degli angeli nell’archetipo celeste29. Questo moto centripeto fa
ruotare il quadrato più interno del Dâr al-Islâm congiungendo terra e cielo e
trasformando, nei termini esoterici, il quadrato in cerchio. Il segno di questa transizione
iniziatica verso al-Arkân è dunque l’ottagono, il mutamman al-arkân30 (l’ottagono dei
pilastri), una condizione poligonale testimoniata dalla stessa forma perimetrale pseudo
A. BAUSANI, L’Islam …, op. cit., p. 57.
Ivi, pp. 43 e 58.
30
V. STRIKA, Note sulla terminologia araba dell’arte, in «Oriente moderno», Anno 43, N. 10/12 (OttobreDicembre 1963), Istituto per l’Oriente C. A. Nallino, Roma, pp. 799-814.
28
29
148
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
21A - Al-Masjid al-Harâm, la icnografia pseudo-ottagonale del piano della congiunzione.
quadrata del sacro recinto della Mecca (figura 21 a/b). Se infatti appare impossibile
nell’Islam la raffigurazione antropica di Dio, di contro appare fondata la rappresentazione
geometrica dell’ottagono in concomitanza della trascendenza del suo scranno, figura
prescelta per rappresentare l’incontro tra cielo e terra, così come testimonia l’iconografia
de Il trono trascendente come oggetto immanente (1543) (figura 22).
La qubbat, dunque, come costruzione replicante la ka’ba, come miniaturizzazione
simbolica del suo congegno mistico, rituale e cosmogonico. La tradizione costruttiva
non potendo possedere una pietra nera per ogni architettura sacra ne materializza al suo
interno le caratteristiche iniziatiche e congiungenti tramite una replica esoterica delle
sue geometrie genitrici. Il sahn riproduce la spianata della ka’ba, in esso trova spazio la
centralità di una piccola costruzione avente per tema la trasformazione del cubo in sfera
(del quadrato in cerchio) per passaggio ottagono. È la qubbat-fontana delle abluzioni,
presente nelle icnografie delle moschee delle origini al centro del sahn, così come
testimoniano i templi di Muhammad a Medina e degli Omayyadi a Damasco e Aleppo.
La metamorfosi (o ricongiunzione) terra-cielo, tradotta in geometria nella sequenza
quadrato-ottagono-cerchio, viene esaltata anche nella ricerca mistagogica dei Sufi (e
Ismaili), nonostante tale forma di ascetismo determini una variante più criptica del
modello cosmogonico islamico finora descritto: i concetti teologici di al-haqq e di alkalq si fondono nella Shari’a, nucleo circolare sintetico delle leggi cosmiche ed umane,
incardinato sulla haqîqah, la Verità divina irraggiungibile alla moltitudine se non
attraverso l’estasi ascetica introspettica praticata unicamente dal sufismo.
La tarîqat (via dei Sufi), trova appunto nel rito della danza centripeta attorno a alhaqq la sua ripetizione della cosmogonia divina, quindi il passaggio da terra a cielo e
la smaterializzazione (o ritorno) del corpo al puro spirito originario perseguito dal
Sufismo31 . La diversa concezione geometrica del Cerchio dei turuq (figura 23) si
149
ALESSANDRO DI BENNARDO
manifesta in una diversa forma
dell’architettura, attraverso un elenco
funzionale iniziatico degli ambiti spaziali
differente dai canoni delle moschee
islamiche osservanti il modello predominante della ka’ba, differenza
architettonica spiegabile unicamente
attr averso una diversa visione dell’archetipo originario32 .
Anche se nell’architettura della ka’ba
risiede la miliare osservanza del modello
cosmogonico è pur vero che nelle molteplici
forme di qubbât derivanti si riscontrano
diversità interpretative che, nonostante la
cronologia della loro evoluzione, dimostrano da un lato il mantenimento del
concetto essenziale di tawhîd e dall’altro
(attraverso il linguaggio artistico in
evoluzione e/o involuzione) l’approdo a
sintassi compositive sovente cangianti sotto
influenze variabili.
Gli esempi siciliani di cuba a Mineo,
Vicari e Palermo fanno riferimento alla 21b. La simbologia della congiunzione tra cielo e
terra nella qubbat islamica: il ruolo dell’ottagono
medesima variante del modello costruttivo (mutamman al-arkân); le cinque pietre angolari
di qubbat, un’architettura identificata nella (rukn al-arkân); la propagazione del Verbo come
relazione alchemica di cubo/ottagono/sfera fiumi dell’Eden; il rito della rotazione (tawâf) nel
che svela nella sua stereometria esterna un piano della congiunzione terra/cielo (harâm/
sahn).
semplice incastro volumetrico scevro della
componente ottagonale, incubando il tamburo entro la cassa muraria cubica rimanendo
visibile solo all’interno della cuba. Si tratta di una variante che arriva ad affermarsi solo
nel maturo medioevo, nel momento di massima spinta della mistica sufi, evolvendo la
primigenia icnografia a prevalenza ottagonale inaugurata dalla Qubbat as-Sakhrat di
Gerusalemme (691-92) (figura 24). La sua volumetria ottagonale si spiega con l’originaria
funzione concorrente alla ka’ba voluta dal califfo ‘Abd al-Malik, mirata a concedere ai
fedeli un edificio attorno cui elargire la ritualità islamica dei sette tawâf seppur
nell’opposto senso orario, giusto per non intaccare l’unicità della ka’ba33. In realtà, la
Cupola sulla Roccia costituisce una diversa applicazione del grande archetipo celeste
del tawhîd incentrato sulla sequenza cubo/ottagono/sfera, un esempio costruttivo islamico
A. SCARABEL, Il Sufismo. Storia e dottrina, Carocci editore, Roma, 2007.
A. SHAHAB, What is Islam? Importance of Being Islamic, Princeton University Press, Princeton,
2015, pp. 378-385.
33
E. ESER, The First Islamic Monument Kubbet’üs-Sahra (Dome of the Rock): A New Proposition, in
«Pesa International Journal of Social Studies», volume 3 (June, 2017), pp. 135-147
31
32
150
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
23. La concezione geometrica sufi secondo il
cerchio dei turuq. A. SCARABEL, 2007.
22. La primordiale discesa dell’archetipo celeste
del Trono ottagonale di Dio, miniatura della
scuola di Shiraz, 1543, San Pietroburgo, Istituto
di Storia Orientale.
24. Qubbat as-Sakhrat, Gerusalemme, 691-92,
assonometria.
25. Qubbât a schiera di Banû Khattâb,
Zueila (Libia), VIII o IX sec.
151
ALESSANDRO DI BENNARDO
più unico che raro, dove il tema della centralità della qubbat entro il sahn diviene
predominante sulla moschea stessa, giustificato dalla centralità cultuale custodita, la
roccia Moriah di Abramo, Ezechiele e Maometto (Monte Majid). Nel complesso cultuale
della Spianata del Tempio vengono apparentemente meno le alternanze tra sahn, qubbat,
fontana e sala delle preghiere in funzione del tema cardine dell’ottagono, una versione
monumentale del concetto di mutamman al-arkân che spinge alla costruzione della sala
delle preghiere vera e propria in una moschea autonoma (quasi distaccata) seppur sempre
inscritta entro il medesimo sahn: al-Aqsâ (VIII sec.), nota anche come Moschea lontana
o ultima, lega in forte assialità esoterica la vetta di Moriah alla propria qiblat. Nell’alto
Medioevo, ritroviamo la medesima volumetria ottagonale cupolata nella Qubbât alKhaznat eretta nel 789 entro il sahn della Moschea Omayyade di Damasco, nella Qubbat
as-Sulaybiyyat, il mausoleo costruito a Samarra nell’862 dal califfo abbaside al-Muntasir;
in entrambi, il ruolo simbolico del quadrato viene parimenti affidato al contesto
architettonico e/o urbanistico entro cui si trovava inserito.
Proprio la funzione funeraria e/o cultuale dei santi musulmani oggetto di
pellegrinaggio incentiverà, a partire dall’VIII secolo, la definizione di volumetrie sempre
più cubiformi. Le testimonianze del segmento evolutivo funerario della qubbat sono
sparse in tutto l’Islam, così come si rileva in Libia nelle Tombe a schiera di Banû Khattâb
a Zueila (figura 25) (antica regione di Murzuch, VIII o IX sec.?)34, nell’odierno Uzbekistan
presso la Qubbat Samanide di Bukhârâ (inizio X sec.), in Egitto nel complesso dei
Mausolei di Al-Qarâfa al Cairo, avviato in età fatimide (X sec.), quanto, soprattutto,
nelle diverse costruzioni funerarie disseminate tra le sponde di Tigri ed Eufrate andate
distrutte a seguito dei contrasti tra sunniti e sciiti in virtù della diversa importanza
attribuita ai culti funerari in ambito islamico. L’attenzione della religione islamica al
culto funerario si acuì nel Maghreb durante il tardo medioevo, sulla scia del fenomeno
religioso-popolare legato ai santi locali musulmani, un contesto culturale che in
architettura determinò l’intensa produzione delle costruzioni centrico-cupolate dei
marabutti. Sempre nel XIV, in Palestina, l’età mamelucca vide il proliferare di qubbât
con le medesime volumetrie sovente presso siti di derivazione biblica condivisi con la
tradizione cultuale ebraica e cristiana (maqâm), così come testimoniano, ad esempio, i
mausolei di Nabi Sawarka (figura 26) e Kfar Saba35.
1.3 Considerazioni sulle desinenze simboliche nelle Cube medievali di Sicilia
La tradizione funeraria delle qubbât ha goduto di un’ampia diffusione presso tutti i
territori toccati dal dominio islamico, Sicilia compresa36. La Cuba entro il cimitero di
Mineo risulta parzialmente inglobata nel convento secentesco di San Vito (figura 27),
D. J. MATTINGLY, M.J. STERRY, D.N. EDWARDS, The origins and development of Zuwîla, Libyan Sahara:
an archaeological and historical overview of an ancient oasis town and caravan centre, in «Azania:
Archaeological Research in Africa», volume 50 (2015), pp. 27-75.
35
A. PETERSEN, A Gazetteer of Buildings in Muslim Palestine, Oxford University Press, Oxford, 2001;
T. CANAAN, Mohammedan Saints and Sanctuaries in Palestine, Luzac & Co, Londra, 1927.
36
Sugli insediamenti funerari islamici siciliani, cfr. A. BAGNERA, E. PEZZINI, I cimiteri di rito musulmano nella
Sicilia medievale. Dati e problemi, in «Mélanges de l’école française de Rome», t.116, Roma, 2004, pp. 231/302.
34
152
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
nell’antica contrada conosciuta come Rabato 37 , nel tempo ha subito la radicale
cancellazione dei caratteri originari di copertura con la rescissione di cupola e pennacchi
angolari in favore di un lastrico terrazzato. Lo stato dei contributi storiografici indurrebbe
ad intravedere in essa una delle più antiche tra le qubbât siciliane conservatisi sulla
scorta di un contesto urbano precocemente arabizzato, adibito ad usi cimiteriali islamici
già nel IX secolo38. L’ipotesi appare solo suffragata dal rinvenimento di un vaso bronzeo
con iscrizioni cufiche39 avvenuto nella zona del convento di San Vito durante la prima
metà del XIX secolo. Pur consapevoli del perdurare decorativo degli stilemi cufici anche
in età normanna, la morfologia degli apparecchi murari della Cuba di Mineo sembrerebbe
ad alcuni piuttosto assonante alla pratica costruttiva del periodo ante-normanno40 ,
nonostante il ringrosso dei pilastri angolari (paraste) poco aderente alla stereometria
islamica vera e propria. La costruzione è stata eretta entro uno schema iconografico
perfettamente quadrato, avente lato pari a circa 6,48 m. (misura molto vicina a quella
della Cubula normanna di Palermo), ed un’altezza di circa 5,20 m.41. La Cuba di Mineo,
rispetto alle sue ipotetiche ascendenze nord-africane, mostrerebbe una maggiore tendenza
ad una sintesi serrata delle stereometrie, evidenziata dalla ricercata rasatura
dell’epidermide muraria riscontrabile presso le tessiture pseudo isodome dei conci delle
paraste angolari e degli archi acuti, quant’anche presso le rimanenti murature a sacco di
conci informi misti a malta, tecnica già presente in Sicilia nella pratica bizantina. Gli
scarsi indizi disponibili, unitamente all’aridità delle fonti, rendono impossibile ogni
embrione di ipotesi attinente la personalità a cui doveva essere dedicata tale mausoleo.
Trattandosi ipoteticamente di qubbat funeraria, possiamo solo supporre che si riferisca
ad un santo, oppure ad un uomo di riferimento morale della locale comunità di Mineo;
risulta anche arduo ipotizzare il suo originario ruolo di stazione di pellegrinaggio così
da aderire ai tipici connotati funerari islamici descritti dal già citato esploratore ‘Alî ibn
Abî Bakr al-Harawî42.
Proprio le tre tipologie di qubbât riconosciute dal viaggiatore persiano sembrerebbero
non rispecchiare le istanze funzionali e simboliche della maggior parte degli esempi
Siciliani conosciuti, in quanto legati al culto antropico dell’acqua e della sua diffusione
quadripartita; veri e propri piccoli templi dedicati al mito del paradiso in terra, Jannat
al-ard, tema molto radicato nella comunità arabo-siciliana medievale tanto da essere
oggetto di riproposizione dei sovrani normanni nel celebre parco del Genoardo fuori le
mura di Palermo. Lo testimonia la piccola Cuba di Ciprigna a Vicari43 (figura 28),
Toponimo abbastanza diffuso in tutta l’Isola, notoriamente derivato dal termine arabo rabat: piccolo
agglomerato extraurbano, posto a cerniera tra città murata e campagna.
38
Sempre nel territorio di Mineo si trovano testimonianze dell’uso funerario insediativo islamico
anche lungo la sella di accesso a Monte Catalfaro, vedi A. BAGNERA, E. PEZZINI, I cimiteri di rito musulmano
…, op. cit., pp. 238, 280.
39
C. TAMBURINO MERLINI, Le antiche Mene, in «Giornale di Scienza, Lettere ed Arti», LXXIII (1841),
p. 39.
40
L. HADDA, Le Cube …, op. cit., pag. 9.
41
L’altezza rilevata risulta poco aderente al dato originario a causa del disfacimento della copertura a
cupola.
42
J. MERI, Lonely Wayfarers …, op. cit., pag. 23.
37
153
ALESSANDRO DI BENNARDO
26. Maqâm di Nabi Sawarka, Palestina, XIV
secolo. MADAIN PROJECT, 2017.
27. Cuba del Convento di San Vito, Mineo, IXXII secolo (?). Foto D. Barucco, 2015.
28. Cuba Ciprigna, Vicari, IX-XII sec. (?), fronte
orientale. Foto V. Castelli, 2018.
30. Cuba Ciprigna, Vicari, rilievi
geometrici. Canzoneri, Anzalone, 1998.
29. Struttura irrigua araba medievale: miniatura
raffigurante Il re
Bâbûr supervisore
di un giardino .
Londra, Victoria
and Albert Museum.
154
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
costruzione di datazione incerta, non corredata da fonti alcune ad eccezione della
consolidata tradizione storiografica che addebita al periodo dell’emirato di Siqilliyya la
radicale ristrutturazione del sistema irriguo nei grandi e piccoli centri e soprattutto nei
territori extra urbani, sulla spinta dell’intensiva politica agricola promulgata e garantita
dalla esperta maestria idraulica dei muqanni locali44, oltre che dalla maturazione di
tradizioni più antiche provenienti dagli altri territori islamici:
“L’irrigazione de’ giardini si fa più comunemente per mezzo di canali; chè
molti giardini va, oltre i campi non irrigui, si come in Siria e in altri paesi” 45
(figura 29).
La Cuba di Vicari venne eretta probabilmente come vasca di raccolta e decantazione
dell’acqua proveniente da una sorgente limitrofa, un invaso di derivazione nevralgico
delle campagne esterne all’antico centro. Essa, a differenza delle Cube di Mineo e
Palermo, manifesta nella sua approssimata geometria cubica (palesemente imperfetta)
una certa ascendenza rurale, tutt’altro che aulica; aspetto testimoniato anche dalle poco
sviluppate dimensioni del lato del quadrato a cui si iscrive (circa 4,30 m.) e dell’altezza
poco superiore ai tre metri. Matrice rurale evidenziata anche dalla struttura muraria di
pietre informi posate a sacco, poco rafforzata agli angoli da conci di pezzatura maggiore
senza alcuna pregevole soluzione isodoma. Gli archi poco acuti sono realizzati con
elementi litoidi a guisa di laterizio (sottili, posti a coltello), probabile locale reminescenza
bizantina accentuata dalla soluzione della coroncina d’attico già nota all’architettura
tardo-antica e cristiano-orientale dell’Isola. Anche la geometria poco perfetta della cupola
confermerebbe la valenza popolare della piccola fabbrica (figura 30); tuttavia la sua
sezione leggermente ogivale trova poco riscontro negli esempi siciliani arabi e medievali
pervenutici, rimandando a tipologie bizantine di cupola originarie della Siria,
principalmente della regione dell’Hauran.
L’interno attuale è costituito da un lastrico litico avente quota ribassata di circa un
metro rispetto al calpestio esteriore. L’analisi del lessico costruttivo indurrebbe ad alzare
la datazione della Cuba Ciprigna ai primi decenni di dominazione araba, momento in
cui si registrò l’intenso contatto con la tradizione bizantina siciliana pienamente attiva
nel contesto di fondazione dell’Emirato, quindi riferibile alla prima metà del IX secolo.
L’ipotesi troverebbe ulteriore validazione nella tecnica di posa a taglio dei sottili elementi
litici della cupola assonante con le qubbât libiche di Banû Khattâb a Zueila di origine
altomedievale oltre che con i diversi esempi della originaria tradizione bizantina; tecnica
43
La Cuba di Vicari è detta anche di Ciprina o più semplicemente cuba araba. Cfr.: S. FAVARÒ, Vicari.
Dalle origini all’alba del XX secolo, Armando Siciliano Editore, Messina, 2003, pp.14-18; AA. VV ., L’arte
siculo-normanna. La cultura islamica nella Sicilia Medievale, Electa, Vienna, 2004, pp. 240-241; L.
HADDA, Le Cube …, pp. 9, 10.
44
S. BOUROUGAAOUI, Le tracce e l’influenza della cultura araba medievale nei confronti della cultura
siciliana, in http://www.italiamedievale.org/portale/le-tracce-e-linfluenza-della-cultura-araba-medievalenei-confronti-della-cultura-siciliana/, 04 novembre 2020; C. PASCA, Ricerche intorno le coltivazioni delle
campagne di Palermo, dagli arabi sino ai nostri tempi, Stamperia di Giovanni Lorsnaider, Palermo, 1868.
45
Così, ad esempio, descrive Ibn Hawqal la cultura irrigua sviluppata a Palermo già nel 973.
155
ALESSANDRO DI BENNARDO
molto dissonante da quella palesata nella successiva Cubula di Palermo, com’è noto,
intessuta da conci prismatici.
Tuttavia, la sua desinenza popolare non deve tradire le aspettative sulla potenziale
valenza simbolica legata al culto delle acque, sull’ipotetico originario inserimento in un
giardino islamico. Suffraga tale logos simbolico l’orientamento quasi perfetto della
struttura ai quattro assi cardinali, una soluzione che parrebbe emulare lo schema
cosmogonico della sorgente primigenia del paradiso in Eden, quadripartita in corsi fluviali
orientati ai quattro angoli del Creato (al-kalq). La peculiarità dell’esempio vicarese
trova assonanza nei modelli di padiglioni cubiformi aperti da archi e logge ai quattro
angoli geografici, verso cui diramano canali idrici sgorganti dal proprio epicentro, così
sintetizzati da P. Laureano:
“le architetture con le volte a crociera, gli affacci rivolti nelle quattro direzioni,
con logge, verande, balconate (bayqan) poste sul perimetro, al centro, sui bacini
e al termine dell’asse d’acqua in cui si rispecchiano”46.
L’ipotesi più comune tende a riconoscere nella Cuba Ciprigna una versione
particolarmente celebrativa di gebbia, un pozzo o una vasca di decantazione e derivazione
(in siciliano risittaculu) ai successivi condotti (saje, cunnutti, ecc.) della campagna
vicarese, ipotesi supportata sia dalla memoria locale (ancora viva nel ricordo di una
generosa sorgente ivi presente) e sia dal riferimento classico enucleato dal toponimo
Ciprigna che continua ad identificare la zona47, reminescenza cultuale greco-antica legata
probabilmente a un tempio dedicato alle fertili acque di Afrodite48: in antichità la sacra
ciprina, liquido secrezione vaginale della dea, era idealizzato come fiume della fertilità
celeste, identificativo dei culti legati alla Grande Madre. Di certo, la riconosciuta fertilità
della terra di Vicari (assieme alla forte persistenza toponomastica di antichi etimi greci
e fenici) continuò ad essere degna di nota per il Dizionario Topografico di V. Amico49.
A rafforzare l’ipotesi originaria di gebbia sacra, inoltre, evidenziamo i resti di paratie
presso le soglie dei quattro archi resi particolarmente leggibili nel rilievo di Anzalone e
Canzoneri del 1998, non valorizzati dal restauro del 201250. In definitiva, nella Cuba di
Ciprigna si intravede un esempio cultuale diverso dalle tipologie funzionali funerarie
islamiche seppur aderente per stereometria ai prototipi di qubbât noti nel Maghreb e in
Medioriente, una variante siciliana riferita all’immaginario simbolico semitico della
fonte in Eden, organicamente in continuum con gli antichi culti popolari della cipride
dea (di cui l’epicentro ericino fu certamente catalizzatore religioso dell’Isola), culti
conservatisi in Sicilia nel corso dei secoli grazie all’alveo protettivo della liturgia criP. LAUREANO, Tra Persia e Europa. Struttura e simbolica …, op. cit., p. 142.
Già nell’Ottocento l’Amico sottolinea la persistenza dei toponimi greci: “… e specialmente in molte
contrade della città, usano i nomi punici e grecanici ..”, V. AMICO, Dizionario topografico della Sicilia,
vol. II, Tipografia Pietro Morvillo, Palermo 1859, p. 654.
48
Dal greco kyprios, latinizzato in cyprius, appellativo della dea cipriota.
49
V. AMICO, Dizionario …, op. cit., p. 656.
50
Al medesimo intervento va attribuita la posa del rivestimento a cocciopesto della cupola.
46
47
156
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
stiano-orientale.
La funzione delle qubbât siculo-arabe nelle campagne come riferimento evocativo
della sorgente d’acqua sacra è testimoniato anche in altri esempi delle contrade di Alcamo.
La cosiddetta Cuba delle Rose51 (figura 31) si trova in aperto territorio presso la contrada
Serra Conzarri nei pressi dell’antico castello di Calatubo (Qal’at Awbî, castello o terra
di tufo). Come oggi appare a seguito di recenti restauri52, l’edificio mantiene il tipico
impianto a base quadrata (lato circa 4,50 m.) pur presentando una diversa morfologia di
copertura (altezza massima 3,70 m.) con volte a botte (dammuso) (figura 32).
Internamente alla camera si raccoglie l’acqua di una sorgente che origina nella falda
freatica nord-orientale di Monte Bonifato53, una vasca incassata per circa un metro di
profondità funziona da recipiente di decantazione (risittaculu) (figura 33) per poi,
attraverso il principio dei vasi comunicanti, tracimare nel grande bevaio esterno accostato
alla Cuba lungo il suo lato minore prima di servire la rete irrigua di saje e cunnutti nei
terreni della vallata sottostante.
La Cuba aveva in origine due aperture poste lungo l’asse dei venti prevalenti, in
modo da mantenere costantemente fresca la temperatura delle acque della vasca interna
e contrastare i ristagni batterici. Nella sua presenza si intravede l’unico edificio residuo
di quel grande agglomerato urbano che fin da tempi antichi avvolgeva il Castello di
Calatubo; la sua posizione, alla stregua della Cuba di Vicari e della Cubula di Palermo,
poteva considerarsi esterna all’abitato e fulcro strategico funzionale per la rete irrigua
delle fertili valle dell’area, un sistema insediativo perduto, solo genericamente
riscontrabile nella testimonianza di al-Idrîsî:
“Calatubo è valida fortezza e paese grande, [provveduto] di territorio vasto,
buono da seminare e molto produttivo. […] ha un porto dove si viene a caricar
di molto frumento al par che delle altre granaglie. Giace in questo luogo una
cava di pietra molare da acqua e di [pietra molare] persiana»54.
A differenza della Cuba di Ciprigna, non si conoscono attribuzioni cultuali alla fonte
della Cuba delle Rose ad eccezione di una vaga desinenza derivante dalla tradizione
orale che in essa riconosce il ruolo tipico delle sorgenti omphalos elleniche (),
l’epicentro rivelatore di eventi importanti per la Comunità locale: “Si narra che la Cuba
I contributi sull’edificio convergono nell’origine settecentesca del nome della Cuba, relativa alla
coltivazione di rose ivi curata all’inizio del XVIII secolo da donna Gaetana De Ballis, baronessa di
Calatubo.
52
Cfr.: S. CATALANO , La “Cuba delle Rose” l’acqua di Calatubo (Leggende, Storia e descrizione
giardino), in «Sicilia Archeologica», n.106, (2012); E. A. P ARRINO , P. MINÀ , R. FARACI (a cura di), La
Cuba delle Rose. L’abitato di Calatubo e la gestione delle risorse idriche, New Print, Fossalta di
Portogruaro, 2015; E.A. PARRINO, La cuba delle rose: l’abitato scomparso di Calatubo e il modello arabo
di gestione delle acque, in G. CULMONE, A. FERRARELLA (a cura di), Le vie dell’acqua. I mulini ad acqua nel
territorio del Golfo di Castellammare, Arti Grafiche Abbate, Cinisi, 2015, pp.59-84; E.A. P ARRINO , P.
MINÀ, R. FARACI, M. BONFIGLI, M. CONSOLE (a cura di), Alcamo: la Cuba delle Rose e la Fontana araba,
Arti Grafiche Abbate, Cinisi, 2015.
53
E.A. PARRINO, La cuba delle rose …, op. cit., p. 82.
54
Dal Libro di Ruggero, 1154, nella traduzione di M. Amari.
51
157
ALESSANDRO DI BENNARDO
31. Cuba delle Rose, località Calatubo, Alcamo,
VIII-IX secolo (?), fronte NO.
32. Cuba delle Rose, fronte SE. Foto GAL, 2019.
33. Cuba delle Rose, vasca interna (risittaculu).
34. Fontana araba o di San Vito, Alcamo, IX-XII
secolo (?), fronte E.
35. Fontana araba o di San Vito, immagine
satellitare con l’allineamento all’asse
equinoziale. GoogleMaps, 2020.
37. Fontana S.Vito, angolo SE.
36. Fontana San Vito, vasca decantazione esterna.
158
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
fosse famosa tra i viandanti e la gente del posto per le sue riconosciute proprietà di
profetizzare l’incombente futuro 55 ". Il rimando a tradizioni antiche pre-islamiche è
ipotizzato da recenti studi a causa dell’intensa e remotissima antropizzazione che
identifica l’area di Calatubo. Proprio nell’esempio alcamese, potrebbe destare ulteriore
dubbio circa l’originaria attribuzione araba la stessa morfologia volta a botte in copertura,
abbastanza estranea alle tipologie cupolate delle qubbât islamiche seppur perfettamente
assimilata già in età omayyade56, ovvero nel momento di massima influenza bizantina
dell’arte musulmana. In tal senso, è interessante l’ipotetica relazione etimologica ripresa
da S. Valpreda57 sull’assimilazione lessicale siciliana del termine cuba dal latino cupa,
significante botte o per estensione volta a botte, etimo da cui deriva seppur in forma
diminutiva il medesimo cupûla, volta circolare o ellittica. Di conseguenza, la datazione
della piccola Cuba delle Rose permane quale quesito storiografico di non facile soluzione,
anche se le argomentazioni attinenti il lessico costruttivo, la sua tipologia funzionale, la
toponomastica e l’antica caratura antropica del sito indurrebbero ad avvalorare datazioni
ricadenti tra l’VIII e il IX secolo.
Il territorio alcamese custodisce anche un’ulteriore testimonianza della valenza
funzionale idrica delle qubbât siciliane. La cosiddetta Fontana araba o di San Vito (figura
34) è ritenuta un raro frammento della rete idraulica urbana costruita durante il presidio
arabo di Al-Qa’imat nel quartiere di San Vito, un esempio di ingegneria ancora quasi
integralmente funzionante nonostante le invasive modifiche ricevute nel corso dei secoli,
rilevante è il suo perfetto orientamento lungo l’asse equinoziale (figura 35). Pur non
rilevando memorie locali atte a riferire l’appellativo di Cuba, la costruzione presenta
connotati assonanti alla Cuba delle Rose come l’andamento cubico della scatola muraria,
la custodia di una prima vasca di decantazione dell’acqua (risittaculu) proveniente dalla
vicina sorgente, la presenza di aperture lungo l’asse dell’edificio per il rinfrescamento
delle acque tramite venti prevalenti, i canali litici esterni per la derivazione e distribuzione
dell’acqua alla rete idrica del distretto territoriale di competenza (figura 36). Il piccolo
edificio è stato probabilmente distrutto nel tardo XV secolo da un terremoto, rimanendo
privo delle originarie strutture di copertura: alla ricostruzione eseguita nel periodo
successivo potrebbe attribuirsi il rifacimento dell’arco d’ingresso con sesto pieno, forse
a sostituzione dell’originario a sesto acuto. Non è da escludere che l’insieme complessivo
delle modifiche alla struttura (incluse la sua annessione all’isolato urbano, il rivestimento
a paraste del prospetto sud con la dotazione di due vasche a cannoli) (figura 37) abbia
inciso sulla perdita definitiva dell’identità originaria variando suo appellativo da cuba a
fontana. Questa semantica funzionale e cultuale che in Sicilia mutuerebbe il concetto di
qubbat all’acqua trova ulteriore continuità territoriale in un sito non molto distante da
Alcamo, nella cosiddetta Sorgente della Cuba, presso le contrade rurali a ridosso dei
margini sud-orientali di Partinico. Ivi, ai piedi dei Colli Cesarò e di Romitello la cultura
E. A. PARRINO, La cuba delle rose …, op. cit., p. 65.
Vedasi le sale voltate presso la cittadella di Amman e di Qasr Amr (prima metà dell’VIII secolo). È
pur vero che nella regione araba giordana la tradizione delle volte a botte risulta già radicata sin dall’età
classica e nabatea.
57
S. VALPREDA, Le Cube di Sicilia. …, op. cit., p.3.
55
56
159
ALESSANDRO DI BENNARDO
39. Cubula, l’area di Villa Napoli, la strada assiale di collegamento con i
resti della Torre Alfaina. GoogleMaps, 2020.
38. Cubula, Palermo, seconda metà del XII secolo.
40. Torre Alfaina,
Palermo, XII secolo
(?), resti entro il
fronte orientale di
Villa Napoli.
41. Sorgente del Gabriele, Palermo. (foto
di V. De Paola, 2018).
160
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
popolare ha eretto in un periodo di difficile decifrazione una piccola struttura a volta
parzialmente innestata direttamente all’orografia del sito a protezione della fonte58.
La simbologia legata all’acqua e alle sue funzionalità territoriali, riscontrabile nelle
cube siciliane sin qui descritte, costituisce parte integrante dell’originario contesto
culturale entro cui Guglielmo II eresse, nell’ultimo quarto del XII secolo, l’aulica piccola
Cuba o Cubula (figura 38) all’interno del Viridarium Genoard di Palermo59. Questa
costruzione, pur essendo oggetto di una consistente letteratura storiografica60, risulta
ancora intrisa di significative incognite che presto potrebbero trovare soluzioni negli
esiti dell’attuale indagine archeologica diretta da J. Navarro Palazón e che al momento
palesano la forte incidenza delle preesistenze arabe61: la Cubula normanna risulta fondata
su una precedente struttura di età islamica di dimensioni leggermente maggiori e con
diverso orientamento, maggiormente prossimo all’asse equinoziale (E-O).
In precedenza, sono stati rilevati i riflessi del medesimo modello insediativo del
Genoardo nel più piccolo giardino medievale di Villa Rufolo a Ravello62, un continuum
spaziale tra architetture interagenti nel Viridarium simbolico (le fontane, il Padiglione
dei Cavalieri, la Torre d’ingresso e la Torre maggiore), legate da un percorso incardinato
sulla celebrazione funzionale e ieratica dell’acqua: un’ipotesi che trova assonanze tanto
nelle deduzioni di P. Laureano sulle costanti architettoniche del Giardino e dell’Oasi
nelle società arabo-persiane quanto nella tradizione insediativa extraurbana almohade
indagata da J. Navarro Palazón63.
G. SAVARINO, I mulini ad acqua nel settore orientale del Golfo di Castellammare, in G. CULMONE, A.
FERRARELLA (a cura di), «Le vie dell’acqua…, op. cit., p.14. Ivi la fonte viene descritta come rigogliosa e
tale da contribuire con la sua portata l’alimentazione di tre mulini della valle partinicese.
59
Di riferimento sulla conformazione del Parco normanno: F. SANTORO, I giardini di delizie arabonormanni nella Conca d’Oro a Palermo, in «Bioarchitettura», n.59 (2009); F. CARDINI, M. MIGLIO, Nostalgia
del Paradiso: il giardino medievale, Laterza, Roma-Bari 2002; P. TODARO, Guida di Palermo sotterranea,
Soc. Editrice L’Epos, Palermo 2002; G. BELLAFIORE, Parchi e giardini della Palermo normanna, Flaccovio,
Palermo 1996; H. B RESC, I giardini palermitani, in Federico II. Immagine e potere, Marsilio, Venezia
1995; G. PIRRONE, L’isola del sole. Architettura dei giardini di Sicilia, Electa, Milano 1994. Per una sintesi
sugli avanzamenti di simbolici e infrastrutturali legati al complesso insediativo della Favara, cfr. D. KATZ,
A Changing Mosaic: Multicultural Exchange in the Norman Palaces of Twelfth-Century Sicily, tesi del
Doctor of Philosophy Graduate Department of Art University of Toronto, 2016, pp. 95 e ss. Per il rapporto
architettura/territorio/acqua in età Sveva, cfr. M.S. CALÒ MARIANI, L’acqua nelle residenze e nei castelli
federiciani. L’utilità e il diletto, in G. FALLACARA e U. OCCHINEGRO (a cura di) Atti del Primo Convegno
Interdisciplinare su Castel del Monte, Politecnico di Bari, 18-19 giugno 2015, Roma, 2015; M. S. CALÒ
MARIANI, Utilità e diletto. L’acqua e le residenze regie dell’Italia meridionale fra XII e XIII secolo, in
«Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen-Age, Temps modernes», T. 104, n° 2 (1992), pp. 343-372.
60
Tra questi: G. CIOTTA, La cultura architettonica normanna in Sicilia, Soc. Messinese di Storia Patria,
Messina, 1992, pp. 48, 212, 316; U. STAACKE, La cubula di Palermo e le sorelle del mondo islamico, in
«Kalos», n.1, Palermo, 1991; G. DI STEFANO, Monumenti della Sicilia normanna, Società Siciliana per
Storia Patria, Palermo 1979, pp. 110-111; G. CARONIA, V. NOTO, La Cuba …, op. cit., pp. 99-102, 165-171;
AA. VV . L’arte siculo-normanna …, op. cit., pp. 80, 81.
61
Per una panoramica iniziale (aggiornata al 10 novembre 2020) sui primi esiti della campagna di
scavo avviata presso l’area di Villa Napoli dalla Sovrintendenza di Palermo sotto la direzione scientifica
della Scuola di Studi Arabi di Granada, vedi G. GIALLOMBARDO, La scoperta alla Cuba soprana …, op. cit.
62
R. SANTORO (a cura di), Italia Romanica. La Sicilia, Jaca Book, Milano, 1986, p. 157.
63
P. LAUREANO, Tra Persia e Europa. Struttura e simbolica …, op. cit., pp. 141-142 e ss.; J. NAVARRO
58
161
ALESSANDRO DI BENNARDO
Allo stato attuale è possibile supporre le strutture simboliche che in origine legarono
la piccola Cuba alla prospiciente Torre Alfaina o Cuba soprana (figure 39 e 40), al
vicino Palazzo della Cuba sottana e alla rete idrica sgorgante dalle non lontane Aquae
Cribelli (oggi sorgenti del Gabriele) (figura 41), citate nel diploma di fondazione del
1176 della chiesa di S. Maria Nova di Monreale64 : una fonte quadripartita come
nell’archetipo dell’Eden, posta ai piedi di Monte Caputo, costituita dagli affioramenti
Gabriele, Campofranco, Nixio e Cuba65 (quest’ultimo consolida anche l’etimo idricoarchitettonico già rilevato presso la sorgente omonima di Partinico). Secondo il
Villabianca, l’origine etimologica araba di Al Garbal conduce al concetto sacrale di
Grotta Irrigante66, tema appartenente ad una delle strutture simboliche più sofisticate
della mistica Sufi e islamica più in generale.
Il potenziale simbolico delle Aquae Cribelli, forte della loro pertinenza al Jardinus
Marandi dell’Abbazia monrealese, potrebbe allargare di molto le prospettive
interpretative della Cubula coinvolgendo l’intero complesso benedettino costruito
dallo stesso Guglielmo II in cima a Monte Caputo, catalizzatore naturale delle Aquae
Cribelli, probabile fulcro del congegno territoriale sacro voluto dall’ultimo re degli
Altavilla di Sicilia, non a caso, secondo V. Von Falkenhausen67 , famiglia genitrice
della stessa parola Jardinum nel lessico tardo-latino europeo (contrapposto al termine
hortus), vertice di un contesto culturale siciliano intriso di rimandi alle strutture
simboliche cosmogoniche di livello territoriale, ascendenti dal mito ieratico del
giardino in Eden68 .
Da un semplice riscontro satellitare, si evidenzia in linea d’aria un preciso segmento
legante la grotta sorgiva del Gabriele, la Torre Alfaina e la Cubula (figura 42 a/b), una
retta lunga circa 2.260 m, orientata verso un punto dell’orizzonte levantino di azimut
pari a 81°, tendente ma non coincidente all’Est geografico equinoziale a causa di un
amplitudine ortiva di circa 9° verso NE, una direzione amplificata dal parallelismo
topografico rilevabile in parte nella limitrofa Via Nave.
La perfetta assialità insediativa dei tre epicentri architettonici potrebbe segnalare uP ALAZÓN , F. GARRIDO C ARRETERO , J.M. T ORRES C ARBONELL, El Agdal de Marrakech. Hidráulica y
producción de una finca real (ss. XII-XX), in II Encuentros Internacionales del Mediterráneo. Uso y
gestión de recursos naturales en medios semiáridos del ámbito mediterráneo, Phicaria, Mazzarón, 2013,
pp. 53-116
64
G.L. LELLO, Descrizione del reale Tempio e Monastero di S. Maria la Nuova di Monreale, Palermo,
1596, ristampa a cura di M. Del Giudice, Palermo 1702, p. 16.
65
P. TODARO, Sistemi di captazione e gestione dell’acqua nella piana di Palermo nel Medioevo, in Atti
del Seminario Internazionale Giardini Islamici, Convento della Magione, 12-14 ottobre 2006, Paysage,
Palermo, 2006.
66
Il riferimento va ai quaderni settecenteschi del Villabianca, la prima notazione attinente l’origine
etimologica della Sorgente del Gabriele dall’appellativo arabo Al Garbal (Garbel o Gabelle), grotta
irrigante.
67
V. VON FALKENHAUSEN, L’incidenza della conquista normanna sulla terminologia giuridica e agraria
nell’Italia meridionale e in Sicilia, in V. FUMAGALLI, G. ROSSETTI (a cura di) Medioevo rurale. Sulle tracce
della civiltà contadina, Il Mulino, Bologna 1980, pp. 221-245 ed in particolare pag. 238.
68
M. SPOSITO, La Zisa e Palermo. Geografia culturale di un bene territoriale, Dario Flaccovio Editore,
Palermo, 2003, pp. 77-90.
162
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
42. a/b - Allineamento assiale tra la Sorgente del
Gabriele, la Torre Alfaina e la Cubula, Palermo.
GoogleMaps, 2020.
43. a/b - Villa Napoli, Palermo. Rinvenimenti
archeologici del novembre 2020 durante le indagini
condotte dalla Soprintendenza di Palermo sotto la
direzione scientifica del prof. J. Navarro Palazón:
a) la vasca centrale sette-ottocentesca rinvenuta
al centro della Cubula;
b) uno dei tre massi ai piedi della Torre Alfaina.
163
ALESSANDRO DI BENNARDO
44. Palazzo della Zisa, Palermo, seconda metà XII sec., ricostruzione ideale della Sala della Fontana
di H. Gally Knight, disegno della prima metà del XIX secolo.
45. Il primigenio comando della Creazione Divina
secondo la concezione Sufi di Ibn ‘Arabî. S.
Akkach, 2005.
46. La Rivelazione Meccana (Futûhât Makkiyya)
di Ibn ‘Arabî.
164
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
na ricercata composizione allusiva di significati assonanti al tema della Grotta Irrigante,
com’è noto, una simbolica islamica legata ai termini coranici della sûra della Caverna,
struttura simbo-lica metafisica basata sul primigenio elemento natu-rale, ivi palesato
dalla funzione dell’acqua del Gabriele, dalla sua grotta sorgiva, quant’anche di altri
importanti elementi rinve-nuti a seguito dei recenti scavi archeologici, come i tre grandi
massi posti alla base della Torre Alfaina, lasciati a vista attraverso appositi archi fino al
‘500 (secondo J. Navarro Pala-zón di valenza sacra anche in termini preislamici), e la
già citata vasca circolare incassata al centro della Cubula, al momento databile tra XVIII
e XIX secolo69 (figure 43 a/b).
Com’è noto, la Grotta Irrigante trova una trasposizione in architettura nel tema
compositivo della fontana a nicchia sormontata da volta a Muqarnas, composizione
iconica maestosamente esemplificata dall’architettura Normanna di Sicilia, giusto
all’interno del Genoardo, presso la Sala della Fontana del Palazzo della Zisa70 (figura
44): l’acqua come vettore terrestre del Verbo di Dio, viene rivelata all’Uomo da una
Grotta Irrigante artificiale (nicchia a Muqarnas), attraverso il suo canale assiale alimenta
la Sala, quadrata e voltata come miniatura del Creato e/o dell’Eden recintato, da lì si
diffonde alla Terra propagandosi in città. Si tratta di un tema simbolico congeniale
all’ambiente polireligioso e abramitico della corte degli Altavilla a causa della sua
escatologia derivante dal racconto dei Sette dormienti di Efeso di tradizione cristiana e,
di riflesso, giudaica71.
Al contempo, questo schema territoriale riscontrabile tra la sorgente del Gabriele e
la Cubula rimanda alla visione metafisica dei Sufi che, com’è noto, legò proprio nel
Medioevo le simboliche islamiche e cristiane anche attraverso l’architettura: nella
ricostruzione del primigenio comando della Creazione Divina, l’acqua è vettore
dell’Essenza (dhât), si propaga dal centro del Creato attraverso una direzione assiale,
tracciando la retta orientata (tawajjuh) della cosiddetta Volontà (irâda) diretta all’Essere
(kun)72 (figura 45).
Durante l’età normanna di Sicilia, il percorso da Palermo verso il Duomo di Monreale
attraversava il Paradiso in Terra del Genoardo, passando per il sistema delle Cube,
significando in apparenza il cammino “personale e spirituale sulla via di Dio”73, offriva
ai pellegrini l’essenza dell’auspicio dei mistici sufi, la materializzazione dello scopo
ultimo e più nascosto dei racconti coranici, l’intento pedagogico e iniziatico al
ricongiungimento con l’origine della vita dell’Uomo stesso, un ritorno all’unicità divina
del tawhîd custodita nella sûra della Caverna. Nella sua essenza sufi, tale tematica
teologica palesa una simbiosi cristiano-islamica ben riflessa nell’antropizzazione del
Notizie riportate nell’articolo G. GIALLOMBARDO, La scoperta alla Cuba soprana …, op. cit.
U. STAACKE, Un palazzo normanno a Palermo, La Zisa. La cultura musulmana negli edifici dei re,
Arti Grafiche Siciliane, Palermo 1991, pp. 173-176; M. SPOSITO, La Zisa e Palermo ..., op. cit., pp.49-68.
71
G. SCARCIA, Nelle terre dei (Sette) Dormienti. Sopralluoghi, appunti, spunti, Graphe.it, Perugia,
2018, p. 254.
72
S. AKKACH, Cosmology and Architecture in Premodern Islam. An Architectural Reading of Mystical
Ideas, State University of New York Press, New York, 2005, p. 72.
73
N. T ABBARA, L’itinéraire spirituel d’après les commentaires soufis du Coran, Librairie de Paris,
Paris, 2018, p. 67.
69
70
165
ALESSANDRO DI BENNARDO
contesto palermitano extra moenia; sotto l’egida degli Altavilla, la cultura insediativa
locale impresse un’originale struttura simbolica entro un ambito del territorio dedito
alle attività produttive agricole e di sollazzo.
La Cubula potrebbe costituire parte integrante di un sistema insediativo simbolico,
alimentato dalla Grotta Irrigante del Gabriele, animato dalla contrapposizione tra zâhir
e bâtin, fondamento della mistica Sufi che intravede nell’Islam l’essenza della dicotomia
tra l’apparente e il nascosto, tra il significato in superficie e il significato cripticoesoterico.
1.4 Note sull’incidenza della mistica sufi nella stereometria delle qubbât in età
tardo medievale
Le geometrie delle qubbât di Sicilia risentono di un momento culturale di rinascenza
islamica alla stregua di quelle almoravidi e fatimide dell’Ifrîqiya, testimoniano il
medioevo della fioritura filosofica, scientifica e culturale derivata dalla grande simbiosi
sincretica tra gli intellettuali musulmani e le fonti classiche. Grazie alla linfa di tale
contesto storico, a cui tanto attinse la corte normanna di Sicilia, l’escatologia islamica
attraverso il sufi Ibn’Arabî manifestò all’Uomo i precetti coranici per via geometrica,
descrivendo nel primo ventennio del 1200 con le sue Rivelazioni Meccane (Futûhât
Makkiyya) le dinamiche della Creazione Divina attraverso grafici simbolici già impliciti
nell’archetipo medievale stesso della qubbat (figura 46).
Nella visione dello šaykh andaluso il primo stadio della manifestazione divina si
rappresenta con una composizione geometrica di quattro cerchi disposti a croce74 ,
incardinati sul primordiale (nonché quinto) cerchio della Presenza divina da cui si
diramano le quattro relazioni dell’esistenza: vita/conoscenza/volontà/potere (figura 47
a/b), una progressione geometrica che quasi anticipa la sequenza di genesi quantistica
della materia.
La rivelazione di Ibn ‘Arabî segue il modello della sorgente sacra, per cui, quasi in una
genesi esoterica del mondo, la geometria quadripartita moltiplica per due, progredendo
nel secondo stadio della Creazione determinando la serie anima/intelletto/natura/questione
universale per poi successivamente cui sfociare nella terza fase della manifestazione con
le altre quattro essenze del Creato: fuoco/terra/acqua/aria75 (figura 48 a/b/c), una
progressione geometrica che quasi anticipa la sequenza di genesi quantistica della materia.
L’archetipo della qubbat, nell’essere il punto più alchemico della spazialità sacra
islamica, rappresenta la sintesi suprema del modello dinamico di cammino del fedele
verso la Verità. Già soltanto nelle piccole dimensioni di una qubbat sono enucleati i
fondamenti iniziatici musulmani, le sue forme lo manifestano esplicitamente, seguendo
Per uno studio approfondito delle geometrie di Ibn’ Arabî nel contesto dell’architettura islamica,
vedi S. AKKACH, Cosmology and Architecture …, op. cit., pp. 74 sgg.
75
Per l’approccio a tali modelli geometrici ed esoterici cfr.: IBN ‘ARABÎ, Il Trattato dell’Unità, edizioni
Life Quality Project Italia, Roma, 2011; IBN ‘ARABÎ, L’interprete delle passioni, (ediz. a cura di R. Rossi
Testa, G. De Martino), Urra-Apogeo, Milano, 2008; H. CORBIN, L’immaginazione creatrice, Laterza, Bari,
2005; H. CORBIN, R. MANHEIM, Creative Imagination in the Sufismo of Ibn Arabî, Princeton Legacy Library,
Princeton 1969, p. 184 e sgg.
74
166
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
47a. Rappresentazione del
circolo della
Presenza Divina secondo la
concezione Sufi. S. Akkach,
2005.
47b. Primo stadio della Manifestazione divina secondo Ibn ‘Arabî.
48a/b. La progressione degli schemi geometrici della Manifestazione
Divina secondo Ibn ‘Arabî: a) secondo stadio, creazione della sequenza
“anima/intelletto/natura/questione universale”; b) terzo stadio,
creazione della sequenza “fuoco/terra/acqua/aria”.
Figura 48c. Cubula di Palermo, progressione geometrica generatrice in planimetria.
167
ALESSANDRO DI BENNARDO
49. L’icnografia della qubbat in funzione dei cinque pilastri della
fede islamica.
il concetto teologico della
miniaturizzazione simbolica
dell’archi-tettura definita
nel Sufismo da Galâl al-Dîn
Rûmî, secondo cui anche
nel minuscolo granello di
sabbia sono custodite
(replicate) le dinamiche
cosmiche universali. Così il
tawhîd nel rappresentare
l’unicità di Dio non può che
essere manifestato ai fedeli
dalla sfera, l’unicità divina
sospesa e protesa al suolo
attr averso i cinque atti
distinguenti il fedele
islamico, i cosiddetti pilastri
della fede (professione di fede, preghiera
rituale, elemosina legale, digiuno nel mese
di Ramadan e pellegrinaggio alla Mecca)76
(figura 49), allusione simbolica assunta
anche nei cinque principi fondamentali
della fede 77 , un rapporto sovente
manifestato dall’arte islamica attraverso le
decorazioni geometriche, come ad esempio
quelle delle ceramiche parietali della
Moschea dello Shah ad Isfahan (XV sec.)
(figura 50). I cinque pilastri della qubbat
sono da intendere costruttivamente come
la somma 4+1; alle quattro testate d’angolo
sommiamo il centro, non a caso postazione
di fonte d’acqua, così come sorgiva della 50. Moschea dello Shah, Isfahan, XV sec.,
Verità in terra è Maometto e fonte della iconografia dello schema teologico dei cinque
Verità unica in cielo è Dio, ne consegue che pilastri della fede islamica nelle decorazioni
tale e-picentro rappresenta anche il punto geometriche.
di passaggio terrestre dell’asse ascensionale terra/cielo, culminante nel concio di chiave
della cupola.
Nella qubbat almoravide di Marrakesh, ad esempio, la centralità geometrica e
funzionale è costituita dalla fonte delle abluzioni, il passaggio iniziatico che segna
A. BAUSANI, L’Islam …, op. cit., p. 43.
Credere nell’unicità di Dio / Credere nell’esistenza degli angeli / Credere nel contenuto di tutti i libri
sacri / Credere in tutti i profeti e nella profezia / Credere nel giorno del Giudizio finale e nella vita future.
76
77
168
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
51. Qubbat Hamrân, Arabia meridionale, XV secolo (?).
l’ingresso del fedele dal mondo materiale al luogo di congiunzione col cielo, la
moschea. Il momento iniziatico è palesato dalla stessa iscrizione della camera
cupolata, un raro momento letterario pensato in astratto quasi a dare voce
all’architettura: “Sono stata creata per la scienza e per la preghiera, dal Comandante
dei credenti, discendente del Profeta, ‘Abd Allâh, il più glorioso di tutti i califfi.
Pregate per lui quando entrate dalla porta, in modo da poter soddisfare le vostre
speranze più alte”78 .
Nelle applicazioni funerarie, come ad esempio nella produzione architettonica delle
tombe dei santi musulmani mete di pellegrinaggio, la volumetria 4+1 approda ad una
variante concettuale; in esse la centralità è il sarcofago, nelle quattro testate d’angolo
trovano riscontro simbolico gli elementi della cosmologia terrestre79, è il modello a cui
fanno riferimento, ad esempio, certi mausolei cubici coperti da quattro cupole come la
Qubbat Hamrân (probabile XV secolo) dell’Arabia meridionale (figura 51): “I mausolei
non sono semplicemente luoghi consacrati all’inumazione e alla commemorazione, ma
giocano anche un ruolo importante nella religione popolare”80, essi hanno ruolo di
catechesi, manifestando agli occhi dei fedeli la sintesi del tawhîd e la sua organica
relazione con i cinque pilastri della fede e i cinque principi fondamentali, almeno in uno
stadio di racconto del tawhîd inteso in senso ampio e pluralista (zâhir, quindi anteesoterico).
Pertanto, ai sensi della dicotomia sufica tra il significato apparente e il significato
nascosto, esiste anche un contenuto teologico del tawhîd ancora più intimo e iniziatico
(bâtin), un’afferenza alla dimostrazione della sua sostanziale non rappresentabilità in
termini umano-geometrici (sfera compresa), una concezione interna alla concezione
sufi e formalizzata in teologia durante il medioevo da diverse anime filosofiche. Tra
G. DEVERDUN, Inscriptions arabes de Marrakech, Éditions techniques nord-africaines, Rabat, 1956, pp. 26–30.
Cfr. U. STAACKE, La Cubula, l’enigma di un Padiglione, Arti Grafiche Siciliane, Palermo, 1991.
80
AA. VV ., Pellegrinaggi, Scienza e Sufismo: L’arte islamica in Cisgiordania e a Gaza, Museum With
No Frontiers, Universitat Politècnica de Catalunya, Barcellona, 2003, pag. 74
78
79
169
ALESSANDRO DI BENNARDO
queste troviamo un’eloquente sintesi nella definizione che il mistico persiano ‘Abd
Allâh Ansârî (1006-1088) rilasciò sul significato di Unità intrinseco al tawhîd a
conclusione delle sue Dimore degli itineranti:
“L’Unità dell’Unico nessuno l’afferma: chiunque l’affermi la nega.
L’affermazione dell’Unità, in chi parla di tale Sua qualità, è vano discorso che
l’Unico annienta. L’affermazione della Sua Unità a Sé stesso è l’affermazione
vera della Sua Unità”81.
L’ineffabilità del senso profondo del tawhîd giustifica buona parte dell’arte e
dell’architettura islamica, compresi gli esempi di qubbat tendenti ad una alchemica
trasformazione dal quadrato in cerchio per via ottagona, seppur con un risvolto tendente
all’infinito, o meglio, alla smaterializzazione della stessa geometria attraverso il
dinamismo rotatorio esaltato dalle Muqarnas.
Proprio questo elemento solo apparentemente decorativo, in realtà di profonde radici
mistiche e filosofiche sufi, risulta efficace nel trasmettere otticamente l’ineffabilità del
tawhîd attraverso l’esplosione delle superfici sferiche in infinite micro-superfici poste
in assetto centrifugo. Un effetto architettonico magistralmente esemplificato nelle cupole
della Madrasa Yakutia di Erzurum (XIV sec.), della Moschea Jameh di Natanz (XIV
secolo) (figura 52) oltre che della Sala a qubbat del Palazzo dei Leoni di Granada:
queste architetture testimoniano come persino il centro sommitale della cupola viene
smaterializzato, diremmo al limite del vuoto, di certo lontanissimo al fedele comune,
giusto a rappresentare l’ineffabilità del Sé divino, concetto che rappresenta il vero nucleo
del tawhîd: “Il Sé, infatti, non potendo mai essere considerato come un “oggetto” […],
viene designato col pronome di “persona assente” (al-gâ’ib, alla lettera “colui che non
è oggetto di visione diretta”), il Huwa appunto”82, un’assenza del divino già conosciuta
dall’iconografia cristiana dell’etimasìa, la rappresentazione apocalittica del trono vuoto
del grande giudice. Ne consegue, che la migliore rappresentazione del Sé divino secondo
la musica sufi è il silenzio; così come in architettura Huwa possiede la sua più coerente
costruzione nella smaterializzazione delle geometrie pure e finite in superfici infinite
tendenti al vuoto, da qui l’evoluzione massima della qubbat a Muqarnas, l’architettura
riesce a dimostrare l’ineffabilità di Dio all’occhio della razionalità umana.
Le Cube di Sicilia, seppur intese nel loro assetto combinato islamo-cristiano, contribuiscono all’interpretazione universale del modello cosmogonico musulmano alla base
della qubbat archetipica, riflettendo nelle loro geometrie e funzionalità le radici simboliche legate alla genesi della materia e della vita stessa, utilizzando dinamiche già in
nuce nella cultura medievale mediterranea e tuttavia teologizzate in chiave islamica
solo nel XIII secolo attraverso vere e proprie meccaniche geometriche dalle più avanza81
Tra gli innumerevoli commenti alla dimensione ineffabile dell’unicità del Tawhid vedi: P. URIZZI (a
cura di), KALABADI, Il Sufismo nelle parole degli antichi, Officina di Studi Medievali, Palermo, 2002, p.22
e ss.; C. CASSELER (a cura di), Ibn ‘Arabî. Il libro del Sé divino, Il Leone Verde, Torino, 2004.
82
È l’efficace sintesi di Paolo Urizzi sul significato del Sé divino nell’Islam, cfr. la sua introduzione in
C. CASSELER (a cura di), Ibn ‘Arabî. Il libro …, op. cit.
170
IL TAWHÎD E LE GEOMETRIE DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. I RIFLESSI NELLE QUBBÂT SICULO-ARABE
te maturazioni sufiche di Ibn al ‘Arabi e ‘Abd Allah Ansari. Piace rilevare entro tale
processo evolutivo islamico dell’architettura il ruolo della corte normanna di Sicilia, un
momento dialettico policulturale che, seppur vissuto entro l’egemonia cristiana, arriverà a sviluppare temi fondativi della mistica islamica, alimentandosi dalla più ampia e
antica tradizione abramitica.
52. Moschea Jameh, Natanz, XIV secolo.
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176
SIMBOLI, RITI E CREDENZE DELLE COMUNITÀ NEO-ENEOLITICHE SICILIANE
SIMoNA ModEo*
Come è ormai noto da tempo, grazie ai notevoli passi avanti compiuti dalle ricerche
e dagli studi sulla Preistoria, le grandi novità del periodo neo-eneolitico, rispetto all’epoca precedente, si possono certamente considerare la sedentarizzazione e l’insorgere e lo sviluppo di attività produttive agro-pastorali e artigianali: passando dal
nomadismo all’insediamento stanziale, da cacciatore-raccoglitore l’uomo diventa
produttore delle specie animali e vegetali, inventa la ceramica, nuovi modi di levigare i materiali e la tessitura, inizia a lavorare i metalli (il rame) e costruisce i primi
villaggi in cui sono raggruppate le abitazioni.
Questa nuova tappa della vita umana non costituisce però soltanto un notevole e
subitaneo progresso tecnico-economico, ma rappresenta anche uno stadio culturale
e religioso della crescita di h o m o s a p ie n s s a p ie n s .
Relativamente alla sfera del sacro per il periodo neo-eneolitico, che in Sicilia si
colloca cronologicamente tra il VI e il III millennio a.C., disponiamo di una documentazione archeologica più consistente soprattutto a partire dalla seconda metà del
IV millennio a.C., in quanto, al momento, le testimonianze del Neolitico siciliano1
connesse a culti e riti sono piuttosto scarse e sporadiche.
* Archeologa
e Presidente Regionale di S ic iliA n tic a .
Le indagini archeologiche e la fortunata messa in luce di sequenze stratigrafiche complete (soprattutto a Lipari, nelle Isole Eolie, ma anche all’interno del Monte Kronio presso Sciacca nell’agrigentino, ed entro la Grotta dell’Uzzo) hanno consentito di prospettare un attendibile quadro,
cronologico e culturale, dell’età neolitica in Sicilia, che può così articolarsi: 1) Neolitico Antico (VI
millennio a.C.), con certezza documentato soprattutto, anche se non soltanto, nel settore nord-occidentale dell’Isola, e comunque esclusivamente in insediamenti in grotta con precedenti frequentazioni
mesolitiche. È caratterizzato da ceramiche a decorazione impressa di tipo arcaico, con motivi prodotti
spesso dalle unghie o dai polpastrelli del ceramista nonché dal bordo di valve di molluschi commestibili pressate sull’argilla ancora molle; 2) Neolitico medio (prima metà del V millennio a.C.), attestato soprattutto nelle province sud-orientale e centro-occidentale della Sicilia (ove i villaggi risultano
caratterizzati dalla presenza di trincee, recinti e simili strutture difensive) e nella zona etnea. La caratteristica ceramica a decorazione incisa e impressa (c.d. “stentinelliana o “dello stile del Kronio”),
dai fantasiosi motivi composti in sintassi più o meno articolate, si associa ora a piccole quantità di
ceramica bicromica e successivamente tricromica, cioè a decorazione dipinta in due o tre colori, con
motivi in rosso a volte profilati di nero su fondo chiaro. Sul finire del Neolitico Medio (seconda metà
del V millennio a.C.) compare anche la ceramica detta dello stile di Serra d’Alto, con raffinatissime
decorazioni a motivi meandro-spiralici e con complesse anse plastiche a molteplici riavvolgimenti;
3) Neolitico Tardo o Finale (prima metà del IV millennio a.C.), caratterizzato dalla ceramica dello
1
177
SIMoNA ModEo
Tra quelle più note, sinora venute alla luce, si segnalano innanzitutto le evidenze
della coroplastica:
1) le statuette, definite da S. Tusa “antropo-zoomorfe” (figura 1), rinvenute alla
Grotta dell’Uzzo, al villaggio di Piano Vento (Palma di Montechiaro, Agrigento) e
nel sito di Serra del Palco (Milena, Caltanissetta)2, databili tra la fa c ie s della ceramica
impressa e quella stentinelliana (5700-5500 a.C.); a questo gruppo si deve probabilmente aggiungere anche una figurina molto lacunosa proveniente dagli scavi di
Stentinello (Siracusa) di cui restano piccole porzioni3. Questi manufatti, dall’aspetto
piuttosto singolare, hanno un corpo cilindrico schiacciato e molto allungato su cui
si imposta il collo; la maschera facciale è ben costruita, con una netta caratterizzazione di testa e naso che formano un arco continuo. In tutti gli esemplari il naso è
molto sviluppato e a sezione arcuata, come una sorta di becco d’uccello, da cui deriva la nomenclatura di “figure aviformi” entrata nella letteratura di riferimento. In
alcuni casi i caratteri sessuali delle figurine sono ben evidenziati, come il seno sporgente, mentre un esemplare frammentario della Grotta dell’Uzzo presenta sul petto
due bande lisce incrociate, che potrebbero alludere ad un abito oppure ad un ornamento portato sul collo. Un ulteriore elemento di caratterizzazione è la presenza di
sottili incisioni sull’intera superficie del corpo, fino alla testa, documentata in tutti
i reperti. L’accostamento del profilo a becco d’uccello di queste statuette con le figure maschili incise della “scena dei danzatori” della Grotta dell’Addaura e con il
personaggio centrale della triade antropomorfa della Grotta di Cala dei Genovesi di
Levanzo, ha spinto S. Tusa a riconoscere un collegamento diretto tra queste figurine
e la tradizione dell’arte rupestre paleo-mesolitica. Peraltro, secondo lo studioso, le
Figura 1. Piano Vento (Palma di Montechiaro, AG). Dal villaggio neolitico. Statuette antropomorfe (da
TUSA 1997, p. 189).
stile di diana, a superficie monocroma rossa, spesso lucidata, con tipiche anse a rocchetto, dapprima
voluminose e, in fasi inoltrate, sempre più insellate o ridotte. Questa ceramica sembra avere una diffusione assai ampia che contribuisce a individuare un momento di omogeneità culturale nell’Isola:
al riguardo cfr. GUzzoNE 2002, pp. 14-15, TINé-TUSA 2012, pp. 66-74.
2
Cfr. TUSA 1997a, p. 189, fig. 10; CULTRARo 2019, pp. 103-104, fig. 2, nn. 4, 5, 6, 7.
3
oRSI 1890, tav. VI.14, ANToNIELLI 1925, fig. 1.3, CULTRARo 2019, p. 105 e p. 104, n. 3.
178
SIMBoLI, RITI E CREdENzE dELLE CoMUNITÁ NEo-ENEoLITICHE SICILIANE
striature verticali che ricoprono interamente il corpo di questi manufatti rappresenterebbero il piumaggio, raffigurando chiaramente dei personaggi mascherati da uccelli. Sulla base di queste considerazioni egli è giunto alla conclusione che:
“L a
re lig io s ità s ic ilia n a , d a l P a le o litic o s u p e r io re a l N e o litic o , h a in d u g ia to s u ll’ e le -
m e n to v o la tile , r iv o lg e n d o a q u e s to tu tta la p ro p r ia a tte n z io n e m a g ic a e r itu a le . In a ltre
p a ro le s a re m m o in p re s e n z a d i c re d e n z e c h e r ip o n e v a n o n e g li u c c e lli, o in q u a lc h e u c c e llo p a r tic o la re , u n s ig n ific a to o p iù s ig n ific a ti d e te r m in a n ti e fo n d a m e n ta li p e r l’ im m a g in a r io re lig io s o d i q u e lle p o p o la z io n i. E r a , q u in d i, l’e le m e n to “ a r ia ” e n o n “ te r r a ” ,
a d a v e re u n r u o lo d o m in a n te c o m e s e d e d e lle e s s e n z e e d e lle fo r z e e g e m o n i d e l p a n th e o n
d e i c a c c ia to r i- r a c c o g lito r i p a le o - m e s o litic i e d e i p ro to - a g r ic o lto r i n e o litic i ”4.
Un’ipotesi molto interessante e suggestiva, ma non del tutto convincente in quanto
l’affinità formale non necessariamente implica una derivazione diretta da un modello
più antico risalente, in questo caso, all’epoca paleo-mesolitica; infatti la testa desinente a protome ornitomorfa potrebbe ricollegarsi alle ben note iconografie volatiliformi del Neolitico dell’Europa centro-orientale, codificate da M. Gimbutas nel
tipo della B ird G o d d e s s 5, mentre l’ampia estensione del fitto tratteggio potrebbe
avere un valore puramente simbolico e non alludere al piumaggio, come sostenuto
da Tusa. Un possibile confronto in tal senso sarebbe offerto da una statuetta fittile
trovata a Cucuteni in Romania, databile intorno al 4500 a.C., il cui corpo è interamente ricoperto da segni profondamente incisi6 o, ancora, da un esemplare geograficamente più vicino rinvenuto a Martocchio (Potenza), riferibile a un contesto
cronologicamente affine alle produzioni figuline del Neolitico medio dell’Italia meridionale e caratterizzato da un esteso decoro a incisione, dal probabile valore simbolico, costituito da linee semplici e a zig-zag che ricoprono l’intera superficie7.
Quanto al significato da attribuire a questi segni, che sembrano sfuggire a qualsiasi
sforzo interpretativo, va rilevato che essi sono presenti anche sulla ceramica neolitica
a decorazione impressa e incisa e si ritrovano peraltro su quella dipinta, bicromica,
tricromica e meandro-spiralica (o dello stile di Serra d’Alto), unitamente ad altri decori più articolati e complessi come triangoli, losanghe, rombi, linee serpentiformi,
croci, motivi a reticolo o a scacchiera, spirali, che secondo M. Gimbutas e M. Eliade8
sono considerati a b a n tiq u o simboli di unione sessuale, di nascita, di rigenerazione
e di rinascita e, in contesti cultuali e funerari, diventano espressione della speranza
di sopravvivere alla morte (reale o rituale) e di rinascere a vita nuova nel mondo terreno o ultraterreno;
2) due figurine antropomorfe, di cui non è stato possibile stabilire il genere, provenienti dall’insediamento neolitico di Pizzo Caduta (Licata, Agrigento), in assoTUSA 1997a, pp. 189-190.
GIMBUTAS 1974, pp. 112-150.
6
RIES 2012, p. 145, fig. 8.
7
FUGAzzoLA dELPINo-TINé 2002-2003, p. 32, fig. 11; CULTRARo 2019, p. 110 e p. 109, fig. 5.
8
GIMBUTAS 1990; ELIAdE 2016, vol. II, p. 11.
4
5
179
SIMoNA ModEo
ciazione a ceramiche dello Stentinello evoluto (5500-5000 a.C.), che pur presentando
una certa somiglianza con le statuette prese precedentemente in esame (la struttura
sub-circolare del corpo, lo sviluppo continuo del collo e il profilo ad arco di testa e
naso), si differenziano da esse per una maggiore calligrafia nella resa del volto e potrebbero essere di poco posteriori, perché, pur nella persistenza della volumetria a
cilindro, non presentano la fitta decorazione a incisione9. Se la recenziorità cronologica di questi manufatti dovesse essere confermata, ciò testimonierebbe, anche
per la Sicilia, una progressiva tendenza verso un maggiore naturalismo nella costruzione delle figure, con il definitivo abbandono delle incisioni estese sul corpo, in
pieno allineamento con la trasformazione della plastica antropomorfa rilevata per i
gruppi del Neolitico medio delle regioni sud-orientali della penisola10;
3) due testine antropomorfe sono venute alla luce al Castello di Lipari, dai livelli
con ceramica dipinta tricromica (5200-4500 a.C.)11 e a Naxos (Messina), sul piano
di calpestio di una struttura abitativa a pianta circolare, in associazione con ceramica
della fase tardo-neolitica di diana (4500-4000 a.C.)12. Le due piccole teste sono costituite da un cilindro schiacciato, con una marcata posizione obliqua rispetto all’asse
del corpo. Nell’esemplare di Lipari la caratterizzazione dei dettagli del volto è ben
definita, con occhi a contorno amigdaloide e naso assai pronunciato. In entrambi i
casi la bocca è ottenuta mediante un taglio orizzontale. Anche per questi manufatti
non si è in grado di isolare elementi di definizione del genere, mancando la restante
parte del corpo. Le due testine sono state classificate come pertinenti a statuette, ma
non si può escludere che fossero protomi plastiche di vasi configurati. Il volto allungato, accuratamente caratterizzato nella maschera facciale e il profilo obliquo rimandano alle raffigurazioni femminili delle fasi a ceramiche dipinte del Neolitico
del Tavoliere delle Puglie, come Masseria La Quercia e Passo Corvo13;
4) quattro idoletti, tipologicamente identici fra loro (figura 2), sono stati ritrovati
nella Grotta IV di Monte Grande presso Milena (Caltanissetta)14 in un contesto che
l’evidenza ceramica, escludendo due reperti databili rispettivamente al Neolitico
medio (olla globulare a decorazione dipinta tricromica) e all’Eneolitico iniziale (orciolo nello stile di San Cono-Piano Notaro), assegna ad orizzonti neolitici tardi e
per lo più alla fa c ie s di diana. Tre di essi riproducono soggetti femminili (recano,
infatti, sull’addome l’indicazione schematica dei seni), mentre il quarto raffigura un
personaggio maschile, contraddistinto dalla rappresentazione sommaria dell’attributo sessuale, oltre che dalla contestuale assenza dei seni15. Elementi stilistici e iconografici comuni ai quattro idoletti sono l’assenza di caratterizzazione dei volti, lo
GULLì 2013, pp. 190-192, figg. 3-4; CULTRARo 2019, p. 105 e p. 104, fig. 2, nn. 1 e 2.
CULTRARo 2019, pp. 110-111.
11
BERNABò BREA-CAVALIER 1980, p. 444, tav. LXXIIIa; CULTRARo 2019, p. 105 e p. 104, fig. 2,
n.11.
12
LENTINI 2018; CULTRARo 2019, p. 105 e p. 104, fig. 2, n.12.
13
Cfr. FUGAzzoLA dELPINo-TINé 2002-2003, p. 29, figg. 8-9; CULTRARo 2019, p. 111.
14
Cfr. GUzzoNE 2012.
15
IBId., p. 583, fig. 2.
9
10
180
SIMBoLI, RITI E CREdENzE dELLE CoMUNITÁ NEo-ENEoLITICHE SICILIANE
slancio e l’esagerato allungamento del collo cilindrico, il rendimento convenzionale del torso
dalla sagoma trapezoidale e appiattita, fortemente rastremato
alla vita e svasato, invece, in corrispondenza delle spalle dal profilo caratteristicamente apicato.
In tutti è assente la rappresentazione delle braccia. Le differenze
riguardano il rendimento della
metà inferiore del corpo, caratterizzata dalla rappresentazione
sommaria ma inequivocabile
delle gambe e dei piedi (oltre che
del sesso) nel personaggio maschile, che è dunque stante, mentre
risulta
compatta
e
indifferenziata nei tre soggetti
femminili, configurandosi ancora
una volta come un trapezio o
come un triangolo dal vertice
volto in basso. Ancora una sostanziale differenza è indispensaFigura 2. Grotta IV di Monte Grande di Milena (Caltanis- bile evidenziare considerando la
setta). Idoletti fittili (da GUZZONE 2012, p. 583).
parte posteriore dei quattro idoletti e cioè la presenza di una caratterizzazione plastica, di un articolato rilievo sul
retro della testa (una sorta di chignon o copricapo?) condivisa dai tre soggetti femminili e del tutto assente nel personaggio maschile. Il dettaglio è ancora più sorprendente se comparato alla totale assenza di definizione fisiognomica del volto, che
dovrebbe costituire l’elemento di maggiore interesse. I confronti che è possibile evocare per questi idoletti sono sostanzialmente riconducibili alla grande famiglia degli
idoli “a violino” o “a clessidra”, come le figurine litiche di Camaro nel messinese,
di ascendenza anatolico-cicladica, assegnati alla cultura eoliana di Piano Conte (inizi
del III millennio a.C.) che però presentano esiti di schematizzazione ancora maggiore
e di più spinta astrazione16. Restando in ambito siciliano, un’ulteriore, non eludibile
citazione riguarda la versione pittorica di questa tradizione formale degli idoli a violino, quale ben ci documenta la Grotta di Cala dei Genovesi a Levanzo, un complesso di straordinario interesse che analizzeremo più avanti17. In Sardegna converrà
invece fare senz’altro riferimento agli idoletti marmorei cruciformi o a traforo di
ascendenza cicladica, rispettivamente dei tipi Senorbì e Porto Ferro (IV-III millen16
17
BACCI 1997, pp. 295-297; GUzzoNE 2012, pp. 584-585.
Cfr. in fr a pp. 159-160.
181
SIMoNA ModEo
nio a.C.)18. In Italia settentrionale, il richiamo alla statuina ritrovata da M. Bernabò
Brea a Vicofertile, presso Parma, in un contesto riferibile alla cultura dei Vasi a
Bocca Quadrata, appare pertinente solo in riferimento alla rappresentazione triangolare o “a clessidra” del torso19. Più calzante appare il confronto, al momento isolato, con un esemplare fittile frammentario della Caverna delle Arene Candide,
conservato limitatamente alla testa cilindrica appiattita recante l’indicazione del solo
naso a rilievo ed inquadrabile nella fase delle Ceramiche Graffite Liguri20. Se estendiamo, invece, lo sguardo alla Grecia continentale, all’Egeo e al Mediterraneo centrale, la documentazione più significativa per dei puntuali confronti sembra
concentrarsi in Tessaglia e nelle Cicladi, ma coinvolge anche la Grecia centrale e
quella del Nord Est, Creta e Malta. Troviamo qui ampiamente attestata la tradizione
figurativa dei corpi “a violino” in versioni più o meno naturalistiche o stilizzate, con
frequente indicazione dei seni, e quella dei lunghi colli cilindrici, sebbene spesso
conclusi da testine ornitomorfe (raffiguranti presumibilmente la B ird G o d d e s s cui
si è accennato in precedenza) o altrimenti caratterizzate. Troviamo soprattutto documentata la rappresentazione di copricapi e di complesse acconciature della chioma
con riccioli appiattiti ai lati o c h ig n o n raccolti sul retro, così come accade per gli
idoletti di Milena21.
A questo articolato e vario c o r p u s coroplastico, bisogna aggiungere anche alcuni
esemplari che, come vedremo, risultano molto diversi da quelli appena descritti,
sotto vari profili. Si tratta di tre “idoli” aniconici, due su ciottolo, l’altro su pietra
tenera, dall’insediamento di Pirrone, lungo il corso del fiume dirillo (Ragusa), rinvenuti sul piano di campagna, ma certamente in relazione a un abitato la cui fase di
sviluppo si colloca tra il periodo di diffusione delle ceramiche impresse evolute del
tipo Kronio II e la fase tardo neolitica, per i quali, al momento, non è possibile trovare adeguati confronti22 e di una testina ornitomorfa in giadeite o diorite, tardo-neolitica o del momento di Serra d’Alto (figura 3),
proveniente dalla Grotta del Kronio - Stufe
di San Calogero (Sciacca, Agrigento), che
sembrerebbe richiamare ancora una volta il
culto della B ird G o d d e s s 23.
In particolare, i tre “idoli” sorprendono per
la loro estrema schematizzazione: il primo,
Figura 3. Grotta del Kronio - Stufe di San Calogero (Sciacca, AG). Idoletto zoomorfo in gia- realizzato su ciottolo, presenta un corpo aldeite o diorite (da TUSA 1997a, p. 190).
lungato e fusiforme e una coppia di scanalaCASTALdI 1985, pp. 838 e ss., fig. 3; ATzENI 1978, pp. 58, 65-69, tavv. XXXIII,1 e XXXVI, 1-2;
GUzzoNE 2012, p. 585.
19
BERNABò BREA 2006, pp. 197-199, fig. 1.
20
TINé 1999, pp. 321-322.
21
Cfr. GUzzoNE 2012, p. 586 con bibliografia precedente.
22
dI STEFANo 1983; CULTRARo 2019, p. 104, fig. 2, n. 11.
23
TINé 1971; TUSA 1997a, p. 189; VIGLIARdI 1997, p. 131; GUzzoNE 2012, p. 584.
18
182
SIMBoLI, RITI E CREdENzE dELLE CoMUNITÁ NEo-ENEoLITICHE SICILIANE
ture su ciascun lato di esso che mettono in risalto i fianchi, mentre un quadrato inciso
sulla testa rimane di incerta interpretazione; il secondo, sempre su ciottolo, è acefalo
e presenta una lavorazione dei fianchi per far rilevare le due appendici delle braccia;
il terzo, ricavato da calcarenite tenera, risulta accuratamente lavorato, con uno snellimento dei fianchi e due protuberanze ai lati, ad imitazione delle braccia.
Per completare l’analisi condotta finora sulle statuette antropomorfe del Neolitico
siciliano, occorre prendere in esame anche il contesto di rinvenimento per cercare
di comprendere quale fosse la loro destinazione d’uso. I casi di giacitura primaria
non sono pochi (Grotta dell’Uzzo, Serra del Palco e Grotta IV di Monte Grande a
Milena, Piano Vento, Naxos, Lipari, e Grotta del Kronio) e la maggior parte di essi
convergono a favore di una collocazione di questi manufatti all’interno di abitazioni.
Se il caso dei contesti della penisola italiana appare meglio indagato, rivelando associazioni tra le statuine e specifiche aree dello spazio domestico (forni, banchine e
spazi per la lavorazione), per la Sicilia, allo stato attuale della ricerca, non è possibile
aggiungere ulteriori elementi di valutazione. Si può però ipotizzare che questi oggetti
avessero un impiego prevalentemente domestico, in stretta relazione con attività di
culto legata alla sfera familiare; è però altrettanto probabile che, in alcuni casi, esse
venissero prodotte all’interno delle abitazioni, in uno spazio destinato a tale attività
artigianale, per essere poi utilizzate come e x - v o to nei luoghi destinati al culto, come
le grotte24.
E infatti proprio in due cavità naturali, connesse presumibilmente alla sfera del
sacro, sono stati recuperati i quattro idoletti fittili della Grotta IV di Monte Grande
di Milena e la testina ornitomorfa in giadeite o diorite della Grotta del Kronio. Nel
primo caso, il rinvenimento, in associazione con le statuette in terracotta, di grumi
di ocra rossa e la presenza di piccoli oggetti rituali come le minuscole asce in pietra
levigata, i punteruoli in osso e i pendagli litici o costituiti da valve forate di molluschi
e la collocazione di almeno uno di questi idoletti su un piano appositamente predisposto, possono complessivamente considerarsi quali indizi credibili di un utilizzo,
almeno temporaneo, della grotta con finalità rituali25. Nel secondo caso, l’aspetto
naturalistico oggettivamente straordinario della Grotta del Kronio, caratterizzato
dalla presenza di fenomeni termali riconducibili a vulcanesimo secondario, noti
come “Stufe di San Calogero”, che si manifestano con emanazione di sali sulfurei
a temperature mediamente elevate, potrebbe costituire la prova dell’esistenza di culti
in cui venivano venerate le forze endogene ed esogene della natura.
durante il Neolitico fu frequentata anche l’area antistante la grotta del santuario
dei Palici a Rocchicella (Mineo, Catania), come attestano sia le ceramiche dipinte
bicromiche e tricromiche e quelle degli stili di Serra d’alto e diana sia le strutture
pertinenti a tale periodo costituite da un bel piano pavimentale in terracotta, che presenta tracce di diversi rifacimenti, sul quale sono impostate due piattaforme connesse
L’assenza di statuette tra i corredi funerari, non solo in Sicilia, ma anche in altri complessi neolitici dell’Italia centro-meridionale, sarebbe un ulteriore elemento a sostegno di tale interpretazione:
cfr. CULTRARo 2019, p. 112 con bibliografia precedente.
25
Cfr. GUzzoNE 2012, p. 584.
24
183
SIMoNA ModEo
ad attività domestiche e destinate molto probabilmente alla macellazione e alla preparazione di pasti26.
Non tanto diversa da quella cultuale si presenta la situazione in campo funerario,
per il numero alquanto ristretto di sepolture portate finora alla luce. Le poche evidenze tombali disponibili forniscono comunque alcuni interessanti dati sulle pratiche
funerarie del Neolitico siciliano27.
Tipologicamente le sepolture non si differenziano molto da quelle paleo-mesolitiche, trattandosi infatti di corpi inumati in fosse poco profonde o, più raramente, collocati nelle cosiddette “ciste litiche”, cioè delle vere e proprie casse realizzate con
lastroni di pietra che venivano sepolte nel terreno. Le tombe sono solitamente a carattere individuale e soltanto nella fase più tarda del Neolitico (fa c ie s di diana) iniziano a comparire delle deposizioni collettive che però non si possono ancora
considerare delle vere necropoli, in quanto si trovano sempre all’interno dello spazio
abitativo.
Nella maggior parte dei casi il corpo veniva deposto coricato sul fianco sinistro e
con le gambe rannicchiate, quasi a voler ricordare la posizione fetale che simboleggiava forse il ritorno alla “madre”, in questo caso la Terra, generatrice di vita. Gli
elementi di corredo, non sempre sono presenti, e mentre nelle tombe più antiche
sono caratterizzati da un cospicuo numero di vasi che sembrano scelti più che altro
per il pregio intrinseco, come una sorta di s ta tu s s y m b o l , nelle sepolture più recenti
invece sono costituiti da pochi vasi contenitori, spesso di piccole dimensioni, che si
possono considerare la proiezione simbolica di recipienti funzionali usati in ambito
domestico. Un elemento di continuità rituale, con il periodo precedente (paleo-mesolitico) e con quello successivo (eneolitico), è certamente l’uso del letto di ocra
(rossa per lo più) sul fondo della sepoltura. Il corredo, l’ocra e la posizione fetale
dei corpi, potrebbero essere indizi di una simbologia religiosa incentrata sulla rigenerazione e la rinascita e, quindi, sulla credenza di una vita p o s t m o r te m .
A partire dalla seconda metà IV millennio a.C. ha inizio nell’Isola un nuovo periodo di trasformazione e sviluppo di h o m o s a p ie n s s a p ie n s denominato Eneolitico
(o età del Rame), in quanto proprio in questa fase della Preistoria viene introdotto
per la prima volta il metallo, inizialmente appunto il rame, quale nuova materia
prima, in sostituzione, o quasi, della pietra per la fabbricazione di strumenti, utensili,
armi.
Al riguardo va però rilevato che mentre nell’Italia peninsulare l’affermarsi durante
l’età del Rame di una classe guerriera dedita, al tempo stesso, alla pastorizia e all’accrescimento del patrimonio armentario, sembra evidente nella caratterizzazione
MANISCALCo 2008, pp. 66-75.
Le testimonianze più interessanti provengono dal villaggio stentinelliano di Gisira, presso Brucoli, e da quello coevo, o di poco precedente, del Petraro di Melilli, nel Siracusano, dal riempimento
di uno dei fossati di Stretto-Partanna (Trapani), in contrada Paolina nel Ragusano, dalle Salinelle di
San Marco (Paternò), dalla necropoli tardo-neolitica di contrada Balze Soprane di Bronte (Catania)
e dall’Antro Fazello di Monte Kronio: cfr. TUSA 1997, p. 188, MANISCALCo 2012, p. 21, PRIVITERA
2012, TRAVERSo 2012, p. 494.
26
27
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SIMBoLI, RITI E CREdENzE dELLE CoMUNITÁ NEo-ENEoLITICHE SICILIANE
complessiva delle relative culture di Remedello, Rinaldone e Gaudo, in Sicilia invece gli echi di queste profonde trasformazioni giunsero relativamente attenuati:
l’assenza di filoni metalliferi (eccezion fatta forse per il “distretto minerario” di Fiumedinisi, nella regione dei Nebrodi) e la circolazione estremamente limitata di manufatti metallici (un pugnaletto a lama triangolare dalla Grotta della Chiusilla presso
Isnello, due pugnaletti con codolo a base semilunata dalla Grotta della Chiusazza a
Canicattini Bagni e da una tomba a Sciacca e altri piccoli oggetti ornamentali) ridussero infatti notevolmente la portata dei rivolgimenti determinatisi nelle aree di
prima insorgenza del fenomeno28.
In realtà, pur nella continuità di forme di economia e di sussistenza ancora legate
al modello degli agricoltori-allevatori di tradizione neolitica, la vera novità e il segnale del cambiamento si colgono nel frazionamento culturale che si registra nell’Isola in corrispondenza del III millennio a.C. e che interrompe la relativa uniformità
caratterizzante il momento finale del Neolitico stesso, corrispondente alla fa c ie s di
diana29.
Ma gli elementi più innovativi e appariscenti dell’Eneolitico siciliano sono quelli
connessi alla sfera funeraria: è in questo periodo infatti che si diffonde l’uso di seppellire i defunti al di fuori dello spazio abitativo formando in tal modo le prime necropoli e viene introdotto un nuovo tipo sepolcrale, la tomba “a forno” o “a pozzetto”
che appare contemporaneamente anche nell’Italia peninsulare, in Sardegna e a Malta.
Le sepolture, scavate nella tenera roccia calcarenitica, comune a molte aree della
Al riguardo cfr. MCCoNNELL 1997, p. 281 e pp. 288-289; GUzzoNE 2002, pp. 21-22.
Il quadro di distribuzione delle culture eneolitiche isolane, quale è stato possibile ricostruire soprattutto col formidabile sussidio delle sequenze stratigrafiche offerte dalle grotte siracusane della
Chiusazza e del Conzo, vede infatti ora affermarsi nella Sicilia centrale e orientale la fa c ie s detta di
San Cono-Piano Notaro, mentre nella fascia occidentale si diffonde l’orizzonte della Conca d’oro,
entrambi a vario titolo improntati ad influssi culturali di estrazione medio-orientale e anatolica. Predominano, in generale, nel momento più antico dell’Eneolitico, ceramiche a superficie monocroma
grigia, ben levigata o lucidata, con caratteristiche coppie di solcature ondulate, spesso formanti incroci, associate a file di punti e a doppi cerchi impressi; frequentemente compaiono anche incrostazioni in ocra rossa o in sostanza gessosa. Mentre inoltre l’orizzonte occidentale della Conca d’oro
abbraccia, con variazioni più o meno sensibili anche le fasi media e tardo-finale dell’Eneolitico, si
diffondono, in corrispondenza, nel resto dell’Isola, rispettivamente, la fa c ie s di Serraferlicchio, dall’elegante ceramica dipinta a fantasiosi motivi lineari su fondo rosso lucente, e la fa c ie s di Malpasso,
in cui torna a prevalere una ceramica monocroma a fondo rosso e a superficie più o meno raffinata
e lustra, caratterizzata da tipiche anse acuminate con appendici a piastra o asciformi. Nelle Isole
Eolie compaiono dapprima,durante l’Eneolitico medio, la cultura detta di Piano Conte (contemporanea a quella di Serraferlicchio), essa stessa sensibilmente permeata da elementi orientali, soprattutto
egeo-anatolici, e successivamente quella di Piano Quartara, ormai riferibile all’Eneolitico tardo, con
ceramica affine a quella del contemporaneo orizzonte siciliano di Malpasso. della fa c ie s di Sant’Ippolito, riferibile all’Eneolitico finale, e della sua ceramica a decorazione egualmente dipinta, con
sintassi semplice e lineare ben aderente alla struttura delle forme vascolari, sono state in pari misura
messe in risalto le influenze culturali di derivazione cipriota e la stretta parentela con le più antiche
manifestazioni dello stile locale di Castelluccio, già assegnabile all’antica età del Bronzo: cfr. GUzzoNE 2002, pp. 22-23; CAzzELLA-MANISCALCo 2012, pp. 96-97.
28
29
185
SIMoNA ModEo
Sicilia, erano composte da un pozzetto centrale che dava accesso ad una o più camere, consentendo così la sepoltura in un unico luogo di diversi individui, presumibilmente appartenenti allo stesso gruppo familiare. È evidente che l’adozione della
tomba a pozzetto, che consente la riapertura della cavità per la collocazione di successive inumazioni, sembra segnare nell’Isola, come altrove, il passaggio da un nucleo familiare ristretto ad uno più allargato, ben visibile adesso anche nelle cosiddette
lo n g -h o u s e degli altipiani (strutture abitative caratterizzate da pianta lunga e absidata,
pareti definite da trincee continue o da tratti di buchi e la presenza di tre fosse lungo
l’asse centrale dell’edificio)30. A Roccazzo (Mazara del Vallo, Trapani), la scoperta
di tombe raggruppate attorno alle abitazioni, forse appartenenti alla stessa famiglia,
richiama il fenomeno tipicamente neolitico di seppellire i (propri?) morti nel pavimento delle capanne e costituisce, al tempo stesso, un primo passo verso la definizione di necropoli distinte topograficamente dagli insediamenti che avrà inizio
nell’Eneolitico e diventerà la norma a partire dall’antica età del Bronzo31.
All’interno delle camere i defunti venivano
ricoperti di ocra rossa (della cui valenza simbolica si è detto in precedenza); talvolta l’ocra
veniva sparsa anche sul fondo della camera e
deposta dentro i vasi che venivano messi a
corredo.
Un culto dei defunti sembra adombrato dai
pozzetti contenenti ceramiche e, in qualche
caso, figurine fittili, documentate a Piano
Vento accanto alle tombe, tra cui si segnalano,
in particolare, un piatto da cerimonia con decorazione incisa costituita da motivi lineari,
Figura 4. Piano Vento (Palma di Monte- puntiformi e serpentiformi dal probabile vachiaro, AG). Dalla necropoli dell’età del
Rame. Piatto rituale con decorazione incisa lore simbolico (figura 4), un modellino fittile
con rappresentazione plastica di un essere te(da CASTELLANA 2006, p. 114).
Al riguardo cfr. MCCoNNELL 1997, pp. 281-284; CAzzELLA-MANISCALCo 2012, p. 87; GULLì
2014. La maggior parte delle tombe a pozzetto, raggruppate a volte in grandi necropoli, si trovano
nella Sicilia occidentale: a Sciacca (contrada Tranchina), Ribera (contrada Castello), Favara (contrada
Scintilia), nel Mazarese (Roccazzo e Roccazzella), nell’area della Conca d’oro, con finora isolati
esempi a Santa Margherita Belice (contrada Giacaria), Sant’Angelo Muxaro (‘Mpisu) e Partanna;
tombe a pozzetto sono però presenti anche nella Sicilia orientale: a Militello in Val di Catania (contrada Fildidonna, ossini/San Lio), a Licodia Eubea (San Cono) e ad Avola. Le sepolture possono essere singole o plurime, queste ultime documentate nella fase più tarda. Accanto alle tombe a pozzetto
nell’Eneolitico antico sono attestate anche tombe a fossa, foderate da lastroni di tipo neolitico: a contrada Valdesi (Mondello, Palermo), a Piano Notaro e in contrada Molino a Vento (Gela), al Monastero
dei Benedettini di Catania. A Piano Vento (Palma di Montechiaro, Agrigento), una necropoli di ventotto sepolture comprende sia tombe a fossa sia, almeno in quattro casi, tombe a camera. Un fenomeno
isolato rimangono le sepolture ad e n c h y tr is m o s (inumazioni in p ith o i sotto un tumulo di pietrame),
segnalate in contesti eneolitici a Marianopoli (Caltanissetta).
31
MCCoNNELL 1997, p. 284.
30
186
SIMBoLI, RITI E CREdENzE dELLE CoMUNITÁ NEo-ENEoLITICHE SICILIANE
riomorfo ad effige forse umana (figura 5)
e una statuetta in terracotta raffigurante una
divinità ibrida dai caratteri umani e taurini
i cui frammenti, recuperati da fosse votive
distanziate di alcuni metri le une dalle altre,
sembra che siano stati intenzionalmente dispersi32. Questo essere divino, “accompagnando” gli uomini nel loro ultimo
“viaggio” verso l’aldilà, doveva forse garantire ai defunti la resurrezione e la rinascita e, quindi, un’altra vita dopo la morte.
In questa necropoli è attestato peraltro un
complesso rituale funerario definito “rituale
delle sepolture collettive” che compare
nella fase più antica dell’età del rame (fine
Figur 5. Piano Vento (Palma di Montechiaro, del IV - inizi del III millennio a.C.) e conAG). Dalla necropoli dell’età del Rame. Model- siste nell’uso di tombe ipogee, o di grotte e
lino di terracotta con raffigurazione di un essere
ripari sotto roccia per la deposizione di più
teriomorfo (da CASTELLANA 2006, p. 115).
individui che dopo l’inumazione, una volta
ridotti allo stato scheletrico, subivano una serie di trattamenti articolati in susseguenti
interventi di manipolazione delle ossa33. Veniva inizialmente alterato l’ordine anatomico, poi le ossa venivano spostate più volte e infine rideposte in ossari. Le ripetute
manipolazioni dei resti non erano dunque finalizzate ad una comune operazione di
svuotamento delle tombe allo scopo di riutilizzarle, ma a determinare la graduale
perdita dell’individualità del defunto fino al definitivo distacco dal mondo dei vivi
e alla sua unione a quello dei morti. Le sepolture, infatti, venivano riaperte più volte
non solo per le nuove inumazioni ma anche per gli adempimenti del trattamento
delle spoglie, probabilmente fissati da regolari scadenze e accompagnati da cerimonie, le cui tracce più evidenti si riscontrano proprio negli ossari, dove si concludeva
il processo di destrutturazione dell’identità del singolo defunto che veniva a riunirsi
all’insieme indistinto dei predecessori fatto oggetto di un vero e proprio culto degli
antenati.
Nelle ventotto tombe scavate a Piano Vento sono state identificate tutte le pratiche
dell’articolato rituale appena descritto: alcune contenevano uno o più individui in
deposizione primaria, altre scheletri in connessione e resti sconnessi, altre ancora
soltanto ossa disarticolate di più individui o i soli crani unitamente a ossa selezionate
e disposte secondo un determinato ordine34.
di recente un’altra importante necropoli, in cui è documentato lo stesso rituale, è
stata portata alla luce, sempre nel territorio agrigentino, in contrada Scintilia (Favara,
Agrigento). Essa ha restituito tombe riferibili sia alla prima età del Rame sia all’anCASTELLANA 1995; MCCoNNELL 1997, p. 290; CAzzELLA-MANISCALCo 2012, p. 87.
Sul “rituale delle sepolture collettive” cfr. CoCCHI GENICK 2014.
34
IBId., p. 45.
32
33
187
SIMoNA ModEo
tica età del Bronzo. Le sepolture
riferibili al periodo eneolitico
sono, al momento, soltanto tre
ma, secondo gli scavatori, la necropoli databile all’età del Rame
si estende molto probabilmente
oltre i limiti imposti dall’attuale
trincea di scavo35. delle tre
tombe rinvenute durante le indagini archeologiche, due erano integre e hanno pertanto consentito
Figura 6. Necropoli eneolitica di Contrada Scintilia. Modello di ricavare dati di grande inte3d misto wireframe/texturizzato della tomba 4 (da GULLÌ
resse scientifico (figura 6) che,
2014, p. 100, fig. 2).
messi a confronto con quelli
della necropoli di Piano Vento, hanno evidenziato precise corrispondenze sia nel rituale sia nella tipologia degli oggetti deposti nelle tombe, in particolare ceramiche
della fa c ie s di San Cono-Piano Notaro che, in alcuni casi, presentano addirittura gli
stessi motivi decorativi36.
La stessa completa sequenza del rituale è inoltre documentata in molte regioni
dell’Italia peninsulare: nelle necropoli della fa c ie s del Gaudo in Campania, nei tumuli di Salve nel Salento (Puglia), nelle necropoli di tombe ipogee della fa c ie s di
Rinaldone, estesa dalla Toscana meridionale al Lazio, nelle strutture megalitiche
della Valle d’Aosta, del Piemonte e del Trentino-Alto Adige37.
L’esame di tutte queste testimonianze, ci permette di esprimere alcune considerazioni sul significato da attribuire al complesso “rituale delle sepolture collettive”:
nella destrutturazione dell’identità del defunto si riflette un contesto sociale incentrato su un forte senso comunitario, la cui esaltazione trovava una sede ideale proprio
negli ambienti destinati a sepolture dove, celebrando il mondo degli antenati, le comunità intendevano rafforzare la coesione tra i viventi. Questi luoghi, deputati alle
pratiche funerarie e cultuali assumono così anche il significativo ruolo di importanti
punti d’incontro, connettendosi all’aspetto socio-politico.
Non meno interessanti sono le testimonianze provenienti da altre aree della Sicilia,
come la stele “antropomorfa” della tomba 27 della già citata necropoli di Roccazzo,
così definita in quanto, secondo alcuni studiosi, rappresenterebbe un’estrema astrazione della figura umana caratterizzata da un profondo solco orizzontale che separerebbe la testa dal corpo, e da una concavità centrale che potrebbe simboleggiare
un grande occhio38, mentre secondo altri, il manufatto troverebbe immediati confronti con un “corno o fallo” litico (figura 7), scoperto nella tomba 2 della necropoli
Sulla necropoli dell’età del Rame di contrada Scintilia cfr. GULLì 2014.
CoCCHI GENICK 2014, p. 45.
37
IBId., pp. 46-50 con bibliografia precedente.
38
Cfr. TUSA 2006, pp. 30-32.
35
36
188
SIMBoLI, RITI E CREdENzE dELLE CoMUNITÁ NEo-ENEoLITICHE SICILIANE
Figura 7. Molino a Vento (Gela, CL). Corno o
fallo litico dalla tomba 2 della necropoli eneolitica ( da GUZZONE 1998, p. 4).
eneolitica di Molino a Vento (Gela, Caltanissetta)39: in un caso o nell’altro l’oggetto
sembrerebbe avere una valenza apotropaica, a protezione del defunto; o, ancora,
la sepoltura (assegnabile, in base all’evidenza ceramica, alla fa c ie s di San ConoPiano Notaro), posta alle spalle e a ridosso
del muro nord del maggiore dei recinti neolitici dell’insediamento di Serra del Palco,
in prossimità della quale si rinvennero due
piccole fosse circolari al cui interno, su
compatti livelli di ocra rossa, erano collocati minuscoli vasetti colmi dello stesso
pigmento minerale40.
Anche a Camaro, alla periferia di Messina, si sono individuate tre fosse contenenti ceramiche ed ossa, due focolari e una
sepoltura. dall’area attorno a queste strut-
MCCoNNELL 1997, p. 291 e GUzzoNE 1998, p. 4. All’esemplare di Gela vanno aggiunti anche i
sette “corni o falli” fittili, esposti presso il Museo di Adrano (Catania), che presentano, in prossimità
della base, un foro passante e di cui purtroppo non sono note le circostanze di ritrovamento (LAMAGNA
2012). Verosimilmente, sono stati tutti raccolti durante le ricognizioni che precedettero la campagna
di scavi condotta agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso da Madeleine Cavalier nel villaggio
dell’età del rame tardo e finale di Poggio dell’Aquila, un insediamento posto al limite occidentale
del territorio di Adrano al confine con quello di Biancavilla. La loro cronologia può essere fissata ad
un momento finale dell’Eneolitico (fa c ie s di Malpasso). Riguardo al significato da attribuire a questi
cosiddetti “corni o falli”, nel corso degli anni sono state avanzate diverse teorie. Ad una prima loro
interpretazione come oggetti magici e profilattici (avanzata in origine da orsi 1907, pp. 92-94), si è
in seguito aggiunta l’ipotesi che vede in questi manufatti la raffigurazione di simboli fallici connessi
a rituali della fertilità (SLUGA MESSINA 1973, pp. 48-49) e poi quella che li ritiene una variante in
forma aniconica di un tipo di statuette di età castellucciana ritrovate in alcuni siti siciliani (MCCoNNELL 1995, pp. 76-77). Un’ultima più recente teoria è quella che propone di riconoscere in questi oggetti un tipo di sostegno da fuoco per reggere le pentole durante la cottura dei cibi, anche in
considerazione del fatto che ben il 62,5% degli esemplari rinvenuti nel villaggio del Bronzo antico
di Manfria (Gela), proviene da zone di forni e focolari (PRoCELLI-ALBERGHINA 2005, p. 342). Quest’ultima ipotesi non riguarda comunque certamente il caso isolato dell’esemplare di Gela, il cui contesto di rinvenimento peraltro sembra far propendere per un’interpretazione di carattere
magico-simbolico e probabilmente nemmeno i corni o falli fittili di Poggio dell’Aquila in quanto il
luogo in cui vennero trovati (un fossa terragna contenente anche resti ossei animali), l’omogeneità
morfotecnica degli oggetti, le tracce di bruciato e il foro nella parte centrale, sono elementi che depongono a favore di un’interpretazione in chiave cultuale del contesto. Potrebbe trattarsi di modellini
pensili che venivano sospesi mediante corde o forse legati in gruppo, per poi essere deposti all’interno
di una fossa; inoltre, le evidenti tracce di bruciato inducono a pensare che dopo la loro collocazione
l’intero gruppo di offerte sia stato sigillato mediante l’azione del fuoco (CULTRARo 2020, p. 50).
40
GUzzoNE 2002, p. 27.
39
189
SIMoNA ModEo
ture provengono ceramiche assegnabili alla cultura eoliana di Piano Conte (inizi del
III millennio a.C.) e due idoletti litici estremamente schematizzati del cosiddetto
tipo “a violino” di ascendenza anatolica ed egeo-cicladica41. A questi può aggiungersi
ancora quello, ulteriormente semplificato, proveniente dall’esterno della grotta sepolcrale di contrada Marca di Castiglione, in area etnea, anch’esso probabilmente
da assegnarsi alla fa c ie s di Piano Conte42.
La caratterizzazione generale di tali apprestamenti, difficilmente riconducibile ad
una funzione utilitaria o strettamente pratica, sembra piuttosto spiegarsi in chiave
simbolico-rituale, come sembrano del resto sottolineare l’uso dell’ocra e la presenza
di idoletti.
Un significato diverso sembrano avere le fosse rinvenute presso il santuario dei
Palici al di sotto e nelle vicinanze del pavimento di una stoà di V sec. a.C., alcune
delle quali, contenenti frammenti vascolari e ossa, sono state interpretate come butti,
mentre altre con vasi interi databili alla tarda età del Rame possono essere considerate delle vere e proprie deposizioni votive in un’area che in età storica sarà sede di
un importante luogo di culto43.
Sempre alla sfera del sacro rimandano i ritrovamenti effettuati nel 2004 sotto il
piano di calpestio del santuario punico-ellenistico-romano del Lago di Venere nell’isola di Pantelleria, dedicato alla dea Tanit. Nel corso di queste indagini archeologiche è emersa una struttura di forma ellittico/circolare, interpretata come b o th ro s ,
che delimitava una pozza di acque calde, alimentata da sorgenti idrotermali sottostanti. Al suo interno si rinvenne una grande quantità di reperti, assegnabili per lo
più al periodo eneolitico, che sono stati considerati rappresentativi di deposizioni
votive per un probabile culto delle acque praticato nello stesso spazio in cui sarebbe
sorto il santuario di epoca più tarda, testimoniando così una religiosità protrattasi
nel tempo e, apparentemente, senza soluzione di continuità44.
Una fase eneolitica è attestata anche nel noto insediamento castellucciano di Monte
Grande (Palma di Montechiaro, Agrigento)45 che, con i suoi monumentali santuari
distribuiti nelle tre grandi piattaforme presenti nel sito, può essere considerato una
vera e propria montagna sacra. Queste aree cultuali sono caratterizzate da grandi recinti circolari costruiti in tecnica megalitica e consacrati a divinità afferenti alla sfera
della fertilità e della prosperità, come lasciano intendere i numerosissimi oggetti voCfr. BACCI-MARTINELLI 2001.
Cfr. PRIVITERA 2012.
43
MANISCALCo-VACIRCA 2012.
44
Al riguardo cfr. TUSA-URSINI 2012.
45
Cfr. CASTELLANA 1990. Il monte si erge in prossimità del litorale di Punta Bianca al confine tra
il territorio di Palma di Montechiaro e quello di Agrigento e domina in maniera assoluta un’ampia
fascia di territorio costiero e peri-costiero che va da Marina di Palma fino oltre la “Scala dei Turchi”
presso Realmonte, comprendendo in tal modo il territorio pianeggiante di Agrigento e l’ampia baia
di Porto Empedocle. Il sito di Monte Grande peraltro è stato celebrato dal Fazello in poi per i suoi
ricchi giacimenti di zolfo e per la straordinaria purezza di questo minerale estratto dalle numerose
miniere che sono state attive fino alla grande crisi che portò alla chiusura di gran parte delle miniere
siciliane tra la Prima e la Seconda Guerra mondiale.
41
42
190
SIMBoLI, RITI E CREdENzE dELLE CoMUNITÁ NEo-ENEoLITICHE SICILIANE
tivi rappresentati soprattutto da corni fittili, modellini di tempietto e da statuine femminili di terracotta. In particolare, il santuario dell’età del Rame si trova in località
Baffo Inferiore e presenta due grandi recinti circolari, tangenti fra di loro con muri
perimetrali di notevolissimo spessore; attorno a questi recinti si estende una vasta
superficie acciottolata destinata a cerimonie sacre con resti carboniosi probabilmente
da pasto rituale e con raggruppamenti di vasi eneolitici raffinati decorati ad incisione
nello stile di S. Cono-Piano Notaro e a solcature profonde nello stile di Piano Vento.
All’interno dei recinti sono state rinvenute alcune statuette femminili in terracotta46.
Una particolare caratteristica dell’Eneolitico è certamente la frequentazione di
grotte. Va infatti rilevato che in Sicilia la maggior parte delle cavità naturali fu utilizzata in un periodo compreso tra la fine del Neolitico e la prima età del Bronzo.
L’evidenza archeologica attesta che durante l’età del Rame le grotte furono utilizzate
soprattutto a scopo funerario e se usi diversi, ad esempio come ricovero temporaneo
“stagionale” per le attività di transumanza, sono ben possibili, deve essersi trattato
di aspetti del tutto secondari. Talvolta accanto alla grotta è documentato un insediamento capannicolo all’aperto, come ben evidenziato nel caso della Grotta zubbia
(Palma di Montechiaro, Agrigento), circostanza che dimostra come la grotta non
fosse utilizzata a fini abitativi e avesse probabilmente una destinazione cultuale47.
La motivazione predominante resta comunque quella funeraria documentata, però,
soprattutto per la fa c ie s di Malpasso e spesso connessa anche alla sfera del sacro. È
questo il caso del complesso delle Stufe di San Calogero, di cui abbiamo già parlato,
dove un’attività cultuale è attestata fino ad età greca48, della Grotta dell’Acqua Fitusa
(San Giovanni Gemini, Agrigento), che prende il nome dalla presenza di sorgenti di
acqua sulfurea, dove alla componente funeraria si associa quella cultuale, documentata da pregevoli ceramiche di epoca eneolitica poste in una delle aree più interne e
di difficile accesso49, della Grotta Palombara di Raffadali, dove un gruppo di vasi
interi delle fa c ie s di Malpasso e S. Ippolito erano stati deposti in posizione verticale
sotto tronconi di stalattiti50 e, molto probabilmente, della Grotta Capreria 2 di Sant’Angelo Muxaro (Agrigento) che ha restituito una ricca documentazione databile
dall’Eneolitico antico fino ad età storica51. Una frequentazione di queste cavità naturali per motivi meramente cultuali sembra invece attestata, in particolare, durante
la prima fase dell’Eneolitico, come dimostrano, ad esempio, i rinvenimenti ceramici
in stile San Cono-Piano Notaro provenienti dalle Grotte I, II, e III del complesso
pseudo-carsico, precedentemente citato, di Monte Grande a Milena dove, peraltro,
l’uso abbondante di ocra rossa e gialla, spesso conservata anche all’interno di vasi,
l’adozione di simbologie spiccatamente ctonie (quale quella del serpente a volto
umano stilizzato rappresentato plasticamente sulle anse di alcuni vasi), conferiscono
Sul santuario di Baffo Inferiore cfr. CASTELLANA 1997, p. 378.
GULLì 2013, p. 259; TINé 1960-1961; MANISCALCo-VACIRCA 2012, p. 89.
48
TINé 1960-1961; TINé 1994; GULLì 2013, pp. 263-264.
49
GULLì 2013, pp. 259-260.
50
Cfr. GULLì 2000 e 2011.
51
GULLì 2013, pp. 262-263.
46
47
191
SIMoNA ModEo
a queste testimonianze la fisionomia di un complesso quasi “da cerimonia”, non
certo finalizzato all’uso quotidiano52 o, ancora, le testimonianze restituite dalla
Grotta dei Pipistrelli di Raffadali, caratterizzata peraltro dalla presenza di un fiume
interno ipogeico53.
Un carattere rituale, oltre che funerario, è stato riconosciuto anche alle grotte di
scorrimento lavico dell’area etnea, il cui utilizzo inizia proprio nell’età del Rame e
continua fino all’antica età del Bronzo54.
Per comprendere meglio le motivazioni che spinsero le comunità neo-eneolitiche
siciliane a frequentare le grotte a scopo cultuale e funerario occorre evidenziare la
ricorrenza e la ripetitività di alcuni elementi che le caratterizzano: la difficoltà di accesso e di percorribilità interna, la mancanza di fonti luminose, la presenza di acqua
e di particolari fenomeni naturali. Il vasellame è sempre di buona qualità e si trova
nei punti più profondi e nascosti, ai quali si accede attraverso angusti e tortuosi passaggi.
L’acqua, elemento vitale per eccellenza, è presente sia allo stato liquido, sotto
forma di stillicidio, sia allo stato di vapore. Lo specifico interesse per le acque di
stillicidio è rivelato, come abbiamo visto, dalla presenza di vasi, in genere di pregevole fattura, deposti al di sotto delle fonti di stillicidio, cui poteva essere attribuita
una funzione terapeutica o comunque benefica. A proposito delle ceramiche, della
loro qualità e delle modalità di deposizione, è difficile prospettare alcuna spiegazione
funzionale, essendo improponibile l’ipotesi della raccolta delle acque di stillicidio
per uso quotidiano. Non si può fare a meno, pertanto, di parlare di depositi votivi e
di segni rituali, entrare cioè in un campo interpretativo che attiene esclusivamente
alla religione e alla credenza.
Riguardo alla presenza di sepolture all’interno delle grotte, vale la pena ricordare
che S. Tiné, a proposito della Grotta Scaloria (Manfredonia, Foggia) avanzò l’ipotesi
che vi si potessero svolgere riti legati al culto delle acque di stillicidio e che i resti
scheletrici si potessero riferire a sepolture di “p e r s o n a g g i d i r a n g o s p e c ia le o im p lic a ti n e l c u lto s te s s o ”: un uso funerario quindi non esteso a tutti i componenti della
comunità ma a determinate categorie di individui55.
d’altra parte un uso cultuale delle grotte, viste come punto di aggregazione di rituali, è chiaramente documentato dalle figure astratte e/o antropo-zoomorfe dipinte
sulle pareti di alcune di esse, costituendo, in alcuni casi, un ricco e articolato complesso pittorico.
In particolare, vanno sicuramente segnalate le singolari raffigurazioni a contorni
neri del Riparo della zà Minica, databili molto probabilmente all’Eneolitico iniziale,
che rappresentano una piccola figura antropomorfa estremamente schematizzata e
GUzzoNE 2002, pp. 25-26.
Cfr. GULLì 2000.
54
Cfr. PRIVITERA 2007. Appartengono all’età del Rame, almeno una delle grotte di Barriera, le
grotte Pezza Mandria e Quadrararo di Misterbianco, la Grotta Maccarrone e la Grotta del Santo di
Adrano, la Grotta origlio di Biancavilla, la Grotta Marca di Castiglione, la Grotta Petralia di Catania.
55
Cfr. TINé-ISETTI 1975-1980; GULLì 2013, p. 265.
52
53
192
SIMBoLI, RITI E CREdENzE dELLE CoMUNITÁ NEo-ENEoLITICHE SICILIANE
un originalissimo disegno che è stato interpretato da G. Mannino come “fia s c a
c o n m o tiv i m e to p a li ”56. In realtà essa sembrerebbe rappresentare una struttura divisa internamente in spazi regolari (figure
8a e b), riempiti da motivi lineari, che richiama molto da vicino le cosiddette “capanne rituali” presenti frequentemente
nelle incisioni rupestri della Valcamonica.
Secondo E. Anati questi edifici riflettono
una precisa concezione nella quale la capanna si identifica con l’emblema dell’universo, per cui ogni linea e ogni segno
hanno una loro ragion d’essere57.
Ma le rappresentazioni più complesse
ed enigmatiche sono certamente quelle
dipinte sulle pareti della già menzionata
Grotta di Cala dei Genovesi di Levanzo,
della Grotta dei Cavalli (San Vito Lo
capo, Trapani), del Riparo di Polifemo
(Erice, Trapani) e del Riparo Cassataro
(Centuripe, Enna).
Le pitture rupestri di Levanzo sono
quasi tutte raggruppate in tre aree della
grotta. I soggetti si possono distinguere in
tre categorie principali: antropomorfi,
zoomorfi e idoli58. Le figure umane, pretFigure 8a e b. Riparo della Zà Minica (Carini, PA).
Figura dipinta in nero (Eneolitico iniziale ?) (da tamente maschili, sono rese con formule
MANNINO 2017, pp. 110-111).
varie nell’ambito di rappresentazioni
schematiche. Esse sono raffigurate tutte nello stesso atteggiamento, con braccia allargate, piegate al gomito e volte in basso, gambe allargate e piegate al ginocchio,
sesso sempre ben rappresentato; vi si coglie inoltre una graduale trasformazione
morfologica in senso filiforme e “insettiforme”. Queste figure antropomorfe così
schematiche presentano un modulo generale che trova confronti in vari ambienti, a
cominciare dalle pitture rupestri scoperte nel riparo sotto roccia di Luzzanas (Sassari)
ed inquadrate nella cultura eneolitica di ozieri59. La graduale trasformazione in figure di “insetti” riflette un simbolismo di cui ci sfugge il significato.
Le figure di animali, realisticamente riprodotte anche se in modo semplice e a tinta
Cfr. MANNINo 2017, pp. 93-94, p. 109, fig. 22.2, pp. 110-111, figg. 22.3 e 22.4.
Cfr. ANATI 1982, p. 313; Id. 2002, p. 270, fig. 215.
58
Sulle pitture rupestri di Levanzo cfr. VIGLIARdI 1997, pp. 132-133 e p. 128, fig. 7; MANNINo
2017, pp. 259-260, pp. 275-276, figg. 66.10 e 66.11, pp. 277-278, figg. 66.12 e 66.13.
59
Cfr. BASoLI 1992.
56
57
193
SIMoNA ModEo
Figure 9a e b. Grotta dei Cavalli (San Vito Lo Capo,
TP). Motivi geometrici e astratti e figure antropomorfe dipinti in nero e in rosso (Eneolitico iniziale?)
(da MANNINO 2017, pp. 210-211).
piatta, rappresentano un cane, due pesci
(forse delfini), un suide ed un probabile
mammifero, quest’ultimo con corpo rettangolare, zampe sommariamente indicate, testa mancante e sostituita da un
lungo filamento che va ad unirsi ad una
delle figure di “oggetti” interpretati
come “idoli”. Alcuni di essi, infatti,
come si è detto in precedenza, sembrano
riprodurre il cosiddetto “idolo a violino”, realizzato in pietra o in terracotta,
e diffuso, tra il IV e il III millennio a.C.,
dall’area egeo-anatolica alla penisola
iberica. Le evidenti analogie riscontrate
fra queste figure e gli idoletti di Camaro
e della Grotta IV di Monte Grande di
Milena, consentono di assegnare tali raffigurazioni a un periodo compreso fra la
fine del Neolitico e gli inizi dell’età del
Rame60.
Un altro complesso pittorico molto
ricco e articolato è certamente quello
rinvenuto presso la Grotta dei Cavalli,
dove sono stati scoperti due gruppi di
pitture (rosse e nere) (figure 9a e b): un
gruppo di disegni di tipo astratto e simbolico consiste in figure lineari parallele
formanti bande sinuose, figure sinusoidi,
cerchi concentrici contornati da punti,
spirali, simboli solari. Si tratta di elementi iconografici difficili da decifrare
che potrebbero forse rappresentare una
“mappa” topografica e/o astrale oppure,
più verosimilmente, un mitogramma in
cui le figure dipinte potrebbero essere
dei veri e propri ideogrammi tracciati
dagli uomini che frequentavano la grotta
per raccontare una “storia” connessa ad antichissime entità divine, uraniche e ctonie;
l’altro gruppo è costituito da figure antropomorfe schematiche, filiformi, itifalliche,
con braccia rivolte verso l’alto (probabilmente degli oranti) o “a croce”61. Secondo
60
61
VIGLIARdI 1997, p. 133.
VIGLIARdI 1997, p. 133 e p. 128, fig. 8; MANNINo 2017, pp. 197-200, pp. 210-216, figg. 49.1-7.
194
SIMBoLI, RITI E CREdENzE dELLE CoMUNITÁ NEo-ENEoLITICHE SICILIANE
S. Tusa, alcune figure geometriche e
astratte ricordano i motivi della decorazione vascolare della fa c ie s di S. Cono
- Piano Notaro, per cui è presumibile
l’appartenenza del complesso della
Grotta dei Cavalli all’Eneolitico iniziale62.
Altrettanto problematica risulta l’interpretazione della “scena” dipinta con
ocra rossa su una parete del Riparo di
Polifemo (figura 10)63 che pare rappresentare una figura umana, molto schematica, con le braccia alzate (un
orante?, uno sciamano?) e rivolte verso
un’immagine costituita da ellissi parallele, identificabile, secondo S. Tusa, con
una figura animale, estremamente stilizzata, dalle corna esageratamente ripetute; è dunque molto probabile che chi
ha dipinto tale figura volesse rappresentare una ierofania o una cratofania. da
confronti stilistici con le pitture della
Figura 10. Grotta o Riparo di Polifemo (Erice, TP). Grotta dei Cavalli, è probabile che
Figura antropomorfa e immagine astratta dipinte in
rosso (Eneolitico iniziale?) (da MANNINO 2017, p. anche questo disegno sia databile alla
245).
prima fase dell’Eneolitico.
Alquanto difficile invece risulta stabilire con certezza a quale periodo appartengano
le pitture in ocra rossa del Riparo Cassataro64: si tratta di otto figure, sette antropomorfe65
Cfr. TUSA 1992.
TUSA 2001, p. 151; MANNINo 2017 pp. 241-242 e p. 245, fig. 62.2. Un’indagine recente ha permesso di individuare altre due figure dipinte e molti altri segni all’interno della cavità naturale. La
prima figura è stata localizzata nella stessa superficie delle raffigurazioni già note ed è stata interpretata da G. Mannino come “u n e le m e n to a n tro p o - z o o m o r fo , fo r s e u n u o m o s u d i u n a n im a le d a
s o m a ”; la seconda figura, un soggetto antropomorfo semi-schematico, è stato identificato in una piccola fessura adiacente. Sulla base di un nuovo rilievo, dall’analisi delle sovrapposizioni pittoriche e
sulla base di osservazioni di carattere storico-topografico, si è ritenuto di attribuire queste pitture a
due distinte fasi: la prima assegnabile ad un generico momento neo-eneolitico o addirittura più recente; la seconda al periodo pre-coloniale: cfr. FILIPPI 2017a e b; MANNINo 2017, pp. 241-242.
64
Sul Riparo Cassataro cfr. BIoNdI 2002.
65
MANNINo 2017, p. 45 e p. 47, figg. 4.1 e 4.2. Tra queste vanno segnalate in particolare due raffigurazioni: la prima sembra essere una figura femminile rappresentata in posizione frontale e caratterizzata da una linea verticale sottile che ne definisce il tronco e da un ingrossamento dell’estremità
che rappresenterebbe la testa. Le gambe divaricate sono delineate a Y capovolta; le braccia arcuate,
rivolte in basso, si congiungono con una linea orizzontale presente all’altezza del bacino. L’ingros62
63
195
SIMoNA ModEo
e una non chiaramente interpretabile66, assolutamente originali che non sembrano
trovare confronti con le altre manifestazioni artistiche dipinte scoperte nell’Isola. Il
complesso pittorico si trova all’aperto ed è pertanto soggetto all’azione esogena
degli agenti atmosferici che hanno alterato il loro stato di conservazione. La ceramica
raccolta nei pressi del riparo documenta una lunga continuità di vita del sito, dal periodo neolitico ai nostri giorni. Tale dato e la pressoché totale assenza di confronti
con figurazioni similari portano a cronologie incerte. Gli studiosi comunque tendono
a collocare queste pitture tra il Neolitico e l’antica età del Bronzo.
dunque, il carattere di luogo ipogeo, profondo, privo di luce, chiuso ma al contempo aperto in anfratti e cunicoli esplorabili, le difficoltà di accesso e permanenza,
sono elementi che restituiscono la percezione della grotta come luogo altro, lontano
e diverso, per la sua stessa caratterizzazione naturale, dai luoghi deputati alle normali
attività quotidiane.
Allo stesso modo i ripari, come quelli della zà Minica, di Polifemo e del Cassataro,
dovevano essere frequentemente destinati ad un’attività di tipo rituale, testimoniata
peraltro dalle pitture fortemente simboliche che ci hanno restituito.
Pertanto, le figure dipinte sulle loro pareti si possono considerare la manifestazione
di un’arte “magica”, atta a risvegliare i poteri occulti all’interno di un antro frequentemente stretto e buio, un’arte che era probabilmente strumento di comunicazione
tra il mondo dei vivi e l’aldilà.
samento della mano destra fa pensare che il soggetto trattenga un piccolo fardello. La seconda figura
è rappresentata pure frontalmente in modo molto schematico: due linee sottili che si incrociano costituiscono le gambe e il corpo, su quest’ultimo è tracciato un segmento orizzontale (le spalle ?), al
centro del quale è tracciato un piccolo semicerchio che sembra rappresentare la testa, da cui si dipartono due linee (le braccia ?) congiunte ad arco. Gli altri soggetti raffigurati pur essendo nel complesso
molto simili tra di loro, presentano delle leggere differenze: alcune figure sono quadrate, altre trapezoidali; in tutte è presente un oculo centrale disegnato su segmento rettilineo o arcuato dal quale si
dipartono due linee congiunte verso l’alto a formare un segmento chiuso. Probabilmente queste figurazioni più che rappresentare soggetti antropomorfi estremamente schematizzati, erano simboli,
ideogrammi di una ritualità connessa alla sfera della fertilità e della fecondità e rappresentavano forse
l’unione dell’elemento maschile (uranico) con quello femminile (ctonio).
66
Paolo Graziosi ha definito questa figura “pettiniforme”; secondo Giovanni Mannino invece essa
rientrerebbe tra quelle definite a “ reticolo” o a “griglia”: cfr. MANNINo 2017, p. 45 e p. 47, fig. 4.2.
Se quest’ultima interpretazione fosse corretta, ci troveremmo di fronte a un altro soggetto iconografico con una forte valenza simbolica (cfr. s u p r a p. 145).
196
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MARTANo
200
IL
CANTIERE DELLA CHIESA DI
CINQUECENTO: ARCHITETTURA,
S AN DOMENICO
A
CALTANISSETTA
TRA
QUATTRO
E
PROGETTO E COMMITTENZA
GIUSEPPE GIUGNO*
L’insediamento domenicano nel Quattrocento
La fondazione del convento di San Domenico di Caltanissetta sarebbe avvenuta
secondo la tradizione nel XIII secolo ad opera del beato Reginaldo d’Orléans. È lo
stesso Francesco Pulci, nell’Ottocento, ad attribuirgli l’impianto attingendo il dato
all’opera di Vito Maria Amico1. La notizia, tuttavia, non è storicamente suffragata, poiché
rappresenta esclusivamente il riflesso di una prassi assai diffusa a partire dal medioevo,
che soleva attribuire a Reginaldo la fondazione in Sicilia di diversi conventi. Il
collegamento con la figura del beato potrebbe essere stato suggerito dal suo effettivo
passaggio nell’isola nel 1218, durante il ritorno dalla Terra Santa2.
Più precisamente, appare oggi abbastanza chiaro che il documento da cui Amico
trasse il riferimento al personaggio vada identificato con una relazione databile alla
prima metà del Seicento, con la quale i Predicatori tentarono di delineare la loro storia
nella cittadina. Essa muove il filo della narrazione a partire da una data postuma al
1236: periodo in cui viene collocata la fondazione domenicana, così come era stato
trasmesso da un padre di nome Floreno, morto a Caltanissetta nel 16323. Secondo la sua
testimonianza, Reginaldo avrebbe fondato il cenobio dopo aver eretto quelli di Augusta
e Piazza Armerina. Occorre, tuttavia, sottolineare che il riferimento temporale tramandato
non può in alcun modo essere ritenuto attendibile, dal momento che il beato muore a
Parigi nel 1220. È noto, inoltre, che gli unici conventi domenicani presenti in Sicilia nel
XIII secolo - tutti appartenenti in quel tempo alla Provincia Romana - sono quelli di
Messina, Siracusa, Catania, Palermo, Piazza Armerina ed Augusta4.
* Architetto e Dottore di Ricerca (Unipa), membro della Società Sicilia.
1
Sulla storia dei Domenicani a Caltanissetta si rimanda a. F. PULCI, Lavori sulla storia ecclesiastica di
Caltanissetta, Edizioni del Seminario, Caltanissetta 1977, pp. 378-381; V. M. AMICO, Dizionario topografico
della Sicilia, vol. I, tradotto dal latino ed annotato da GIOACCHINO D I M ARZO, Tipografia di Pietro Morvillo,
Palermo 1855, p. 209.
2
È possibile affermare che quanto attestato nell’isola per il beato Reginaldo d’Orléans trovi un suo
esatto parallelo in Puglia nella figura di Nicola Paglia, al quale la tradizione, legata alla letteratura di
impronta agiografica, attribuisce la fondazione di diversi complessi conventuali come quello di Trani.
Sull’argomento si veda L. CINELLI, Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 80, 2014, Paglia, Nicola di
Giovinazzo, beato, ad vocem.
3
Il rinvenimento della relazione seicentesca sul convento di San Domenico di Caltanissetta si deve a
Rosanna Zaffuto.
4
Cfr. G. CIOFFARI, M. MIELE, Storia dei Domenicani nell’Italia meridionale, Editrice Domenicana Ita-
201
GIUSEPPE GIUGNO
Accanto alla tradizione legata al nome
di Reginaldo, parrebbe che nel Quattrocento
Tommaso Schifaldo, noto commentatore di
classici, ebbe ad attribuire a fra Rodorico
Teutonico - probabilmente Rodorico
Lemanno compagno di San Domenico diverse fondazioni nell’isola. Tra queste
vengono citate quelle di Messina, Augusta
e Palermo, tutte duecentesche. Manca nel
novero quella nissena, dal momento che,
come visto, risulta assente tra i conventi
attestati nel XIII secolo5. La presenza di una
seconda tradizione giustapposta, per certi
versi, a quella legata al nome di Reginaldo
attesta, di fatto, la debolezza di alcune
posizioni storiografiche sinora trasmesse,
da r ivedere alla luce di nuove fonti
bibliografiche e archivistiche.
La lettura di entrambe le tradizioni offre,
tuttavia, lo spaccato di un quadro dinamico
di diffusione dell’ordine dei Predicatori
Figura 1. Albero genealogico dell’ordine
nell’isola, dovuto probabilmente al loro
domenicano. Xilografia, colorata a mano, 1473.
ruolo nella lotta alle eresie e nella nascita
Londra, British Museum, stampe e disegni.
della predicazione in volgare 6 . Tale
espansione si inserisce pienamente nella moltiplicazione della presenza domenicana
registrata nelle 18 province italiane nel Trecento, nelle quali si contavano ben 590
conventi7. Complessivamente in Sicilia, nel Seicento, vengono enumerati 67 conventi,
così come si legge nel Compendium Historiæ Ordinis Prædicatorum del padre Angelus
Maria Walz8. (Figura 1)
liana, Napoli 1993, pp. 21-38. Si rimanda anche a G. CIOFFARI, La presenza domenicana nel sud. Inizi e
sviluppo della presenza domenicana nel mezzogiorno, con riferimento alla bibliografia sull’argomento
della nota 12, raggiungibile on line [http://www.domenicani.net/page.php?id_cat=4&id_sottocat1
=382&titolo=La%20presenza%20domenicana%20nel%20sud].
5
Tommaso Schifaldo marsalese (Sicilia, 1430 - dopo il 1500) commentò l’Ars poetica di Orazio e
scrisse in età giovanile anche dei commenti a Persio, a Ovidio, a Giovenale e ai Salmi. Sull’argomento si
veda G. BOTTARI, Tommaso Schifaldo e il suo commento all’«Arte poetica» di Orazio, in Umanità e storia.
Scritti in onore di Adelchi Attisani, II, Letteratura e storia, Messina 1971, pp. 221-259. Si veda anche A.
HUIJBERS, Zealots for souls, Dominican Narratives between Observant Reform and Humanism, c. 13881517, Radboud Universiteit, Berlin 2015, pp. 293-299.
6
Cfr. L. FENELLI, L’ordine dei frati Predicatori, in «Reti Medievali Rivista», 14, 1 (2013), Firenze
University Press, p. 375.
7
Cfr. ID ., op. cit., p. 376.
8
Cfr. A.M. WALZ, Compendium Historiæ Ordinis Prædicatorum, Libreria Herder, Romæ MCMXXX,
p. 424.
9
Archivio di Stato di Palermo, Fondo Moncada, reg. 123, f. 226r.
202
IL CANTIERE DELLA CHIESA DI SAN DOMENICO A CALTANISSETTA TRA QUATTRO E CINQUECENTO
Per tali r agioni, in
assenza di dati documentari,
occorre ritenere che la
fondazione del convento
nisseno avvenne poco prima
del 1465. In quell’anno,
infatti, il cenobio viene
attestato nel testamento del
conte Guglielmo Raimondo
Moncada: documento che
fissa un legato di 30 onze
«in beneficium Ecclesie
dicti conventus in ornamentis fabrice»9. Il legato Figura 2. Rappresentazione del convento di San Domenico nel
potrebbe giustificarsi col Piano Regolatore e di Ampliamento della città di Caltanissetta,
fatto che a quella data la particolare.
chiesa, ancorché compiuta nel suo assetto generale, non lo fosse all’interno. (Figura 2)
Il sito ove venne edificato l’edificio si poneva nel tessuto edificato dell’abitato medievale,
come afferma peraltro la cronaca seicentesca. Esso, però, assunse carattere periferico quando
l’abitato, tra Cinque e Seicento, si espanse arricchendosi di nuovi quartieri10.
Va attribuita probabilmente alla necessità di garantire nuova centralità alla presenza
domenicana in città la decisione di trovare una nuova area ove edificare un secondo
convento negli anni sessanta del Cinquecento. In quel tempo, infatti, il convento già
esistente non solo risultava insufficiente per far fronte alle esigenze dei frati, ma versava
anche in stato di abbandono. Non è chiaro, a tal proposito, se i religiosi prevedessero di
abbandonare la loro prima struttura o se, come accade anche a Palermo, avessero deciso
di potenziare la loro presenza urbana, edificando una nuova casa senza però dismettere
la precedente. È significativo, a sostegno di questa seconda ipotesi, che nel 1564 si
registri il primo intervento di ampliamento delle fabbriche antiche.
Il sito, dove al tempo si pensava di far sorgere il secondo convento, venne identificato
con l’altura di Santa Venera. Il quel luogo, era in progetto la costruzione di un nuovo
complesso che avrebbe dominato dall’alto la città. Il riferimento all’area emerge nel
legato testamentario disposto nel 1569 dal magnifico Doroteo Terramacra a beneficio
dei Predicatori:
«dittam religionem de proximo fundaturam conventum in ecclesia et loco sancte
Vennere extra hanc terram Calatanixette»11.
Non sono note, tuttavia, le ragioni che impedirono lo sviluppo dell’iniziativa.
Sulle scelte insediative degli ordini mendicanti si rimanda a E. GUIDONI, Città e ordini mendicanti.
Il ruolo dei conventi nella crescita e nella progettazione urbana del XIII e XIV secolo, in «Quaderni
Medievali», 4 (1977), pp. 69-106.
11
Archivio di Stato di Caltanissetta (d’ora in poi ASCl), Not. B. Bruno, reg. 273, f. 592r.
10
203
GIUSEPPE GIUGNO
L’appetibilità del sito, come luogo in cui fissare uno stanziamento religioso, emergerà
nuovamente più avanti, quando sull’altura si insedieranno i Benedettini fondandovi
un’abbazia dedicata a Santa Flavia12.
Intanto, procede nel convento quattrocentesco il restauro delle vecchie fabbriche
assieme al suo piano di ampliamento mediante l’annessione di nuovi immobili. Nel
1565, infatti, con permesso di padre Eustachio Lucatella, vicario generale dell’ordine in
Sicilia, furono impegnate 20 onze per l’acquisto di diverse case poste intorno
all’edificio13. L’anno seguente, venne ceduta da Mattiotta di Forti al priore Giovanni
Battista de Jurato una casa posta nel quartiere del Santissimo Salvatore, di fronte alla
costruzione domenicana, in prossimità di uno degli angoli della piazza dell’abitato: «in
cantoneria platee dicte terre»14.
Il sistema di annessioni portato avanti dai domenicani è utile per far luce sul rapporto
urbanistico intessuto tra il complesso architettonico e la città. Va ricordato, a tal proposito,
che l’edificazione della struttura conventuale avvenne in un contesto già ampiamente
segnato da un fitto reticolo di case e vicoli medievali.
L’occupazione di suolo pubblico da parte dei religiosi, così come documentano le
fonti, avvenne grazie alle concessioni ottenute dai giurati della città. È tuttavia attestato,
nel 1614, un episodio che obbligò i religiosi a interrompere le opere eseguite in assenza
di regolare licenza15.
La chiesa di San Domenico si apre su una piazza trapezoidale, della quale costituisce
con la sua ampia facciata la base minore. L’immagine del trapezio dai lati convergenti
sulla prospettiva dell’edificio dilata, di fatto, la spazialità esigua dell’invaso. A tale
espediente fanno da complemento i due imbocchi della piazza su via San Domenico,
anch’essi trapezoidali, ma dai fronti laterali divergenti verso la facciata della chiesa,
percepita di profilo nella scansione del succedersi delle sue forme concave e convesse16.
Il ridisegno urbanistico dell’area in chiave barocca potrebbe essere datato alla seconda
metà del Settecento, vale a dire allo stesso periodo in cui si porta a compimento
l’ampliamento e ricostruzione della chiesa: fatto che comportò la demolizione della
fabbrica chiesastica cinquecentesca. (Figure 3-5)
La ricostruzione a inizio Cinquecento
Nel tentativo di ricostruire idealmente l’immagine della chiesa attraverso i
suggerimenti e le notizie emergenti dalle fonti archivistiche, è bene osservare che
l’architettura del tempio domenicano non risponde ad un preciso modello progettuale
codificato dai Predicatori. Per tale ragione, essa non è riconducibile ad un tipo
Cfr. G. CAROVELLO GRASTA, In honorem Divae Flaviae. Storia e storie dell’Abbazia di Santa Flavia
in Caltanissetta dalla fondazione ai giorni nostri, Caltanissetta 2019, passim.
13
ASCl, Not. B. Bruno, reg. 268, f. 309r.
14
ASCl, Not. B. Bruno, reg. 269, f. 41r.
15
ASCl, Not. F. La Mammana, reg. 366, f. 55r.
16
Sull’uso della forma trapezoidale nella progettazione dello spazio urbano si veda A. CASAMENTO, La
qualità del progetto urbano in Sicilia tra Sei e Settecento, in Pompeo Picherali Architettura e Città fra
XVII e XVIII secolo in Sicilia, «Annali del Barocco in Sicilia», II (1997), pp. 71-83.
12
204
IL CANTIERE DELLA CHIESA DI SAN DOMENICO A CALTANISSETTA TRA QUATTRO E CINQUECENTO
Figura 3. Il sistema dei trapezi della piazza
conventuale.
Figure 4, 5. La facciata della chiesa di San
Domenico vista dalla via e piazza antistante. (Foto
G. Giugno).
architettonico. Fa eccezione
in ciò il carattere sobrio e
umile delle loro fabbriche
chiesastiche, col quale si
rifletteva la volontà di
rendere visibile l’annuncio
della povertà evangelica17.
La chiesa quattrocentesca, di dimensioni assai
ridotte rispetto all’edificio
attuale, aveva uno schema
ad aula con altari laterali e
tribuna absidale. La sua
prima ricostruzione parrebbe essere stata eseguita nel 1512 su decisione della famiglia feudale Moncada, nel
rispetto però dello schema d’impianto quattrocentesco. La data della trasformazione
compariva, secondo la cronaca domenicana seicentesca, in un’iscrizione posta su uno
degli architravi interni assieme alle armi gentilizie dei conti.
Nella ricostruzione viene evidenziato il ruolo svolto dall’inedito fra Giacomo
Battaglia, in quel tempo priore. La cronaca domenicana afferma che il religioso offrì
assistenza durante i lavori, volendo con ciò forse evidenziarne anche il ruolo svolto
come esperto di architettura durante il cantiere. È noto, del resto, che i domenicani,
17
V. FERRUA, Alle origini dell’architettura domenicana, in Una chiesa, la sua storia. Momenti storici e
sviluppo artistico della Chiesa di San Domenico a Chieri, Chieri 1-3-5 ottobre 1990, Alba 1991, pp. 7-22.
205
GIUSEPPE GIUGNO
così come accade per molti altri ordini religiosi, si servissero di loro tecnici di fiducia
interni alla congregazione, a cui venivano affidati i cantieri conventuali. La fonte aggiunge
anche che nella chiesa cinquecentesca era visibile un ritratto dello stesso religioso, posto
accanto ad una lapide che attestava la ricostruzione dell’edificio medievale.
Da un documento del 1519 si apprende che la struttura aveva un tetto ligneo, assunto
a modello dagli intagliatori Antonino Russo e Matteo Botta per la copertura della matrice
di Santa Maria la Nova18.
La chiesa domenicana cinquecentesca aveva anche una sua torre campanaria innalzata,
secondo un documento settecentesco, sul sito di una casa di pertinenza del beneficio
ecclesiastico di Santa Sofia, appositamente demolita per la sua costruzione: «domus
predicta redacta in campanile Ecclesie ejusdem conventus»19.
Il primo rimando temporale certo al campanile si ha nel 1570, in occasione dei lavori
di consolidamento ed ampliamento dell’edificio sacro condotti sotto il priorato di Martino
di Pietro dai mastri Giovanni Tommaso de Messina e Sigismondo De Juliana. Questi si
obbligarono, in quella circostanza, a «dirrupari la tila dilo muro dilo magazeni allo
campanaro di ditto convento»20.
Occorre osservare, infine, in riferimento alle maestranze menzionate, che Sigismondo
De Juliana è probabilmente membro di un’importante famiglia di fabbri murari, attivi in
città tra Cinque e Seicento in cantieri di architettura sacra e specializzati anche
nell’esecuzione di opere idrauliche. Tra questi si ricordano: Vincenzo e Antonuzo De
Juliana, rispettivamente capomastro della città nel 1578 e mastro dell’acqua nel 1579, e
Asmundo e Michele Juliana, quest’ultimo attivo nei primi anni del XVII secolo nel
completamento del chiostro domenicano.
Le cappelle e l’ammodernamento di fine Cinquecento
Subito dopo la ricostruzione della chiesa a inizio Cinquecento, i religiosi decisero di
eseguire, sul finire del secolo, un secondo ampliamento dell’edificio secondo uno schema
differente rispetto a quello precedente. Il riattamento si basava, infatti, su un impianto
ad aula con tribuna e cappelle laterali sfondate, che si poneva in evidente controtendenza
rispetto all’affermazione in Sicilia, in quel tempo, di chiese colonnari sul modello
normanno.
Il programma architettonico attuato dai Predicatori potrebbe essere stato ispirato
dalla volontà di ammodernare la chiesa, adeguandola alla spinta trasformista mossa
Antonio Russo potrebbe essere parente di quell’Andrea Russo di Castelbuono nel 1528 abitante di
Petralia Soprana, forse nonno del più famoso architetto e intagliatore Andrea Russo. Sull’argomento si
veda R. TERMOTTO, Pittori, intagliatori lignei e decoratori a Collesano (1570-1696). Nuove acquisizioni
documentarie, in «Bollettino della Società Calatina di Storia Patria e Cultura», 7-9, 1998-2000, pp. 221298. Sulla prima chiesa madre di Santa Maria la Nova si rimanda a G. GIUGNO, Caltanissetta dei Moncada.
Il progetto di città moderna, Lussografica, Caltanissetta 2012, pp. 42-43.
19
ASCl, Corporazioni Religiose Soppresse (d’ora in poi CC.RR.SS.), San Domenico, reg. 16, 18/2. Il
riferimento alla casa compare in un atto notarile del 1753 relativo ad una serie di scritture seicentesche, la
prima delle quali datata al 1689 agli atti del notaio Giuseppe Falci.
20
ASCl, Notaro G. Zanga, reg. 118, f. 280v.
18
206
IL CANTIERE DELLA CHIESA DI SAN DOMENICO A CALTANISSETTA TRA QUATTRO E CINQUECENTO
Figura 6. Modello di edificio a
croce latina con cappelle
laterali tratto da S. S ERLIO ,
Quinto libro d’architettura, nel
quale si tratta di diverse forme
di tempij sacri, secondo il
costume Christiano & al modo
antico, De l’Imprimerie de
Michel de Vascosan, Parigi
1547, pp. 217-218.
dalla Controriforma. Non a
caso, a fine Cinquecento e
inizio Seicento anche in
altre parti dell’isola, come
si registra nel convento
domenicano di Palermo, vengono promossi
interventi che ridefiniscono l’assetto
chiesastico21. Nel riattamento domenicano,
si può individuare l’elemento essenziale del
modello tipico della Controriforma: la
navata unica attraverso la quale viene
garantita all’edificio spazialità unitaria
sull’esempio della chiesa del Gesù di Roma
di Jacobo Barozzi da Vignola.
L’organizzazione della navata con
cappelle laterali sfondate avvicina, inoltre,
l’immagine della chiesa al modello di
edificio sacro descritto nel Libro quinto delli
Tempii di Sebastiano Serlio22. (Figure 6-7)
Le cappelle della chiesa domenicana
vengono realizzate secondo un modulo
quadrato di venti palmi per lato, detto
quatro, così come era stato stabilito in un
progetto da ricondurre alla mano di
Francesco Nicolosi. Il disegno della
fabbrica, purtroppo non rinvenuto,
prevedeva complessivamente otto cappelle,
di cui sette sfondate. La riorganizzazione
dell’edificio rimandava nella sua conFigura 7. Pianta della chiesa del Gesù a Roma di Jacobo Barozzi da Vignola, pubblicata in A.C. DAVILER,
Cours d’architecture, qui comprend les ordres de Vignole, Chez Nicolas Langlois, Paris MDCXVI, p. 250.
21
Cfr. D. SUTERA, La ricostruzione seicentesca: progetto e cantiere, in AA.VV., La Chiesa di San
Domenico a Palermo. Quattro secoli di vicende costruttive, Fondazione Salvare Palermo onlus, Palermo
2012, pp. 25-29.
22
Cfr. S. SERLIO, Quinto libro d’architettura, nel quale si tratta di diverse forme di tempij sacri, secon-
207
GIUSEPPE GIUGNO
cezione generale ad un modello diffuso a Palermo a inizio secolo con la costruzione di
chiese con cappelle laterali, spesso intercomunicanti, come nel caso dello Spasimo,
della Gancia, di Santa Maria di Gesù e di San Francesco di Paola23.
Nello sviluppo del cantiere, ebbero un ruolo fondamentale i notabili locali, che
riuscirono ad ottenere spazi di visibilità e prestigio sociale acquisendo il diritto di
patronato sulle cappelle. Proprio ai notabili venne affidato l’onere della realizzazione
delle cappelle, nelle quali era concessa la possibilità di ricavarvi una fossa per la propria
sepoltura e quella dei familiari.
L’ampliamento dell’edificio sacro si avviò a partire dalla vecchia abside, demolita
nel 1585 per consentire il tracciamento di un nuovo cappellone24 . L’opera proseguì,
dunque, con la riedificazione delle cappelle, in particolare quelle danneggiate dal
rifacimento absidale. Il riferimento va a quella dell’Arcangelo Raffaele, negli anni
precedenti assegnata a Geronimo De Forti. Essa venne sostituita da una nuova cappella,
dedicata al Santissimo Sacramento, il cui modulo quadrato andava però eseguito della
profondità di sedici palmi, e non venti, per la presenza sul retro di una strada:
«de novo facere et edificare dittam cappellam intus dittam Ecclesiam […]
incomensando di la cantonera di ditto muro undi era lu altaro maiorj ad mano
manca trasendo la porta grandj di detta Ecclesia et quella poi fari di quatro
palmj sidicj cum retirarsj darrerj undj chi e la strata chiusa mettercj in detta
capella et situarce lo venerabile Santissimo corpo dello Sacramento»25.
Più avanti, si legge che anche la cappella del magnifico Gaspare de Forte venne
distrutta a causa della ricostruzione della tribuna. Per tale ragione, sempre nel 1585 il
priore Vincenzo Tagliarinj concesse al notabile una nuova cappella posta accanto al
cappellone. Essa andava riedificata con una profondità di venti palmi, «appresso la
trivona dello altarj majurj quali habia di essirj di longiza intra e quatra vintj palmj». Al
suo interno doveva essere posto il simulacro del crocifisso, oggi perduto, e realizzato un
altare sul modello di quello previsto per la cappella del Rosario: «habia di farj lo altaro
conformj et allo loco chi verrà lo altaro della cappella dello Rosario»26. Il luogo venne
ornato, nel 1597, da mastro Santoro Simafonti di Pietraperzia, probabilmente uno
stuccatore noto al tempo, pagato per la decorazione dell’arco della cappella e per la
macchina d’altare del crocifisso27.
do il costume Christiano & al modo antico, De l’Imprimerie de Michel de Vascosan, Parigi 1547, pp. 217218.
23
Cfr. M. R. NOBILE, La chiesa di San Domenico tra Quattro e Cinquecento, in AA.VV., La Chiesa di
San Domenico a Palermo. Quattro secoli di vicende costruttive, Fondazione Salvare Palermo onlus, Palermo
2012, p. 21. Vedi nota 21.
24
ASCl, Not. V. Mangiaforti, reg. 408, f. 949r
25
ASCl, Not. V. Mangiaforti, reg. 408, f. 949r
26
ASCl, Not. V. Mangiaforti, reg. 417, f. 1071v. La cappella della Madonna del Rosario potrebbe
essere stata costruita intorno al 1569, come attesta in quell’anno la donazione di 4 onze stabilita da un tale
Giovanni Vincenzo Maddalena per la sua realizzazione (ASCl, Not. G. Zanga, reg. 127, f. 293v).
27
ASCl, Not. G.F. Zanga, reg. 152 f. 187r II. Don Gaspare de Forti affida nel suo testamento del 1597
208
IL CANTIERE DELLA CHIESA DI SAN DOMENICO A CALTANISSETTA TRA QUATTRO E CINQUECENTO
La tribuna absidale, oltre ad ospitare l’altare maggiore, era anche il luogo dove si
attesta sin dal tardo Quattrocento la sepoltura dei Moncada. Vi era stato deposto, infatti,
come emerge da un documento del 150228 il conte Antonio Moncada, padre di Contissella
Moncada, morto nel 1480. Allo stesso conte viene attribuito secondo Rocco Pirri il
merito di aver fondato il convento nel XV secolo29.
Le sepolture feudali sono attestate nell’area del cappellone sino al 1569, anno in cui
don Alonso de Moncada chiede nel suo testamento d’essere seppellito nella parte sinistra
dell’altare maggiore «ubi sunt sepulti domini de Moncata»30.
Anche la cronaca domenicana accenna all’esistenza di sepolture gentilizie nella chiesa,
verosimilmente nell’area absidale, una delle quali potrebbe aver ospitato nel 1566 il
corpo del conte Francesco I. Fu, infatti, il figlio Cesare ad ordinare che il cadavere del
padre venisse riposto nella cappella della famiglia, in vista della sua definitiva
sistemazione o a Paternò nella chiesa di Nostra Signora d’Itria o nella cappella del
palazzo nisseno: luoghi in quegli anni in costruzione31.
Nel 1588, lo stesso priore Tagliarinj concede ai fratelli Giovanni Vincenzo e Giovanni
Battista Chitardo (o Guitardo) una cappella dedicata alla Madonna della Grazia, posta
accanto a quella della Madonna del Rosario. Ancora una volta la profondità della fabbrica
da realizzare doveva essere di venti palmi, sul modello delle concessioni effettuate sino
a quel momento. Tale conferimento avvenne in cambio della cappella che i Chitardo già
possedevano nella chiesa in prossimità della parte interessata dalle demolizioni, «nello
partjmento quali fu dirupata»32.
Nel 1591, si costruisce nella cappella del Santissimo Rosario - nella quale era ospitata
l’omonima confraternita - una sepoltura ad opera di Vincenzo Parla. Essa aveva uno
schema tripartito e si sviluppava per una profondità di dieci palmi:
«tri fossi nella ditta cappella partutj intri di altiza di palmj diecj et larghi quanto
e la cappella murati di petra et gisso indamusatj et imbisulatj interra et habia di
imblanchiari larco di fori et dintro condarcj ditti retturj lo gisso, petra et acqua»33.
al fratello don Marsione il compito di ultimare i lavori nella cappella secondo il progetto di Francesco
Nicolosi. Chiede, inoltre, d’esservi sepolto «alu muru», probabilmente in un sarcofago, assieme al corpo
del figlio Alonso che era stato sistemato nel coro della chiesa. Ordina, infine, la costruzione di una fossa
per la sepoltura della madre Catinella di Forti, del fratello Giuseppe, del padre Girolamo, di Giovanni
Tommaso di Forti, dei suoi figli piccoli morti prematuri e della sorella Ramundetta di Naso (ASCl, Not. F.
Calà, reg. 308, f. 728r). Nuovi lavori interesseranno la cappella nel 1618, commissionati da Vincenzo di
Forti, figlio di Gaspare (ASCl, Not. G. Maddalena, reg. 996, f. 280r). A Santoro Simafonti si deve anche la
costruzione di una fossa per la sepoltura eseguita secondo un disegno del Francesco Nicolosi.
28
ASCl, CC.RR.SS., San Domenico, reg. 9, s.n.c.
29
Cfr. F. PULCI, op. cit., p. 209.
30
ASCl, Not. B. Bruno, reg. 274, f. 413r. Don Alonso de Moncada è suocero di don Gaspare de Forti.
31
ASCl, Not. B. Bruno, reg. 270, f. 455v.
32
Nel 1726, donna Rosalia Guitardo e Delfino dona alla cappella i quadri raffiguranti Maria Vergine
della Stella, San Geronimo e Santa Rosalia, un Bambin Gesù «di palmi due in circa di mistura con quelli
giugali che sopra lo circondano ed un boffettino di legno dorato e sopra riccamato di seta» (ASCl, Not.
B. Fantauzzi, reg. 3236, f. 113r III).
33
ASCl, Not. V. Mangiaforti, reg. 422, f. 546r.
209
GIUSEPPE GIUGNO
Prossima alla cappella era la sacrestia dell’omonima confraternita, i cui lavori di
costruzione si attestano tra il 1594 e il 1598. Due anni più tardi, padre Vincenzo Magro,
provinciale dell’ordine di San Domenico, consente alla confraternita di aprire una porta
nella sacrestia sull’orto del convento. Il permesso avrebbe consentito ai confrati di
raggiungere la strada durante le processioni attraverso un varco diverso da quello
principale della chiesa, «pozano apriri una porta nello muro della sacristia de ditta
confraternita che duna nel orto de ditto convento»34.
Le notizie sulle cappelle e sulle famiglie che ne detenevano il patronato proseguono
nel 1598, quando il priore Giuseppe Gallegho concede a Paolo Vigna una cappella sul
lato destro accanto al fonte battesimale. Essa, posta verosimilmente in prossimità della
porta principale della chiesa, era dedicata ai Diecimila Martiri35.
L’anno seguente, lo stesso Vigna commissionerà a Francesco Nicolosi la costruzione
di due archi e di un pilastro per la contigua cappella del SS. Rosario, sul modello del
pilastro della sua stessa cappella:
«ut dicitur duj archj di duj cappellj nello conventu di Santo Dominico di questa
terra cioè farcj uno pilastro in menso dili duj capellj conforme alo pilastro
dell’altra cappella de ditto de Vigna et appogiare con la ditta cappella delo
rosario»36.
Se risulta chiara la sequenza degli altari lungo il lato destro dell’edificio, lo stesso
non si può affermare per il fronte opposto. Si conosce, come visto, che in prossimità
dell’altare maggiore ci fosse la cappella del Santissimo Sacramento concessa ai De
Forti. Seguivano, ma non è noto in quale ordine, le cappelle della Madonna della Catena,
di San Pietro Martire e di San Vincenzo Ferreri37. (Figura 8)
Si ricorda, infine, la presenza nella chiesa di una cappella dedicata a San Domenico,
posta sotto il patronato della famiglia Morillo, documentata a partire dal 1723. Il dato
emerge dal testamento di Anna Ninfa Calì e Morillo, moglie del chierico Ignazio Calì e
Aronica barone di San Nicolò La Molara, in cui si stabilisce la sua sepoltura «dentro la
cappella di ditto Glorioso San Domenico chiamata delli Morilli Antenati di ditta testatrice
con il suo tabuto»38. (Figura 9)
Ultimata la ricostruzione del quadro delle cappelle interne alla chiesa non resta che
ASCl, Not. V. Mangiaforti, reg. 443, f. 484r.
ASCl, Not. V. Mangiaforti, reg. 440, f. 27r. Paolo Vigna finanzia, nel 1599, l’esecuzione della
cornice del quadro dei Diecimila Martiri «di nucj staxonata et nigra», affidandone l’incarico al «faber
lignarius» nisseno Vincenzo Cremona, sul modello della cornice elaborata probabilmente dallo stesso
intagliatore per il quadro del La Natività nella chiesa di Santo Spirito (ASCl, Not. V. Mangiaforti, reg.
439r).
36
Nella cappella, Nicolosi avrebbe dovuto realizzare le sole murature, come documentato per la cappella
di Gaspare De Forti, «itachì lo servizo habia di essirj di rustico conforme alla cappella delli heredi di lo
quondam Gasparo di Fortj» (ASCl, Not. V. Mangiaforti, reg. 439r).
37
Nel 1536, Pietro Di Natale lega una rendita annuale alla cappella di Santa Maria della Catena
(ASCl, CC.RR.SS., San Domenico, reg. 9, s.n.c.).
38
ASCl, Not. B. Fantauzzi, reg. 3236, f. 251r.
34
35
210
IL CANTIERE DELLA CHIESA DI SAN DOMENICO A CALTANISSETTA TRA QUATTRO E CINQUECENTO
Figura 8. Incisione raffigurante San Pietro
Martire, pubblicata in De viris illustribus ordinis
praedicatorum libri sex, 1517, del predicatore
Leandro Alberti Bonomiensis.
Figura 9. Incisione raffigurante San Domenico,
Divo Dominico Prædicatoriæ familiæ parenti
optimo, pubblicata in De viris illustribus ordinis
praedicatorum libri sex, 1517, del predicatore
Leandro Alberti Bonomiensis.
accennare all’immagine della controfacciata, segnata dalla presenza di un organo con
suo lettorino.
Conclusioni
Benché la ricerca storica e bibliografica abbia contribuito a far luce sull’arrivo dei
Predicatori a Caltanissetta, in riferimento alle diverse tradizioni orali che accennano
agli insediamenti di Sicilia durante il medioevo, molte sono ancora le questioni irrisolte
sul tema. A tal proposito, dimostrata l’inattendibilità della tradizione che rimandava al
beato Reginaldo la fondazione del convento, ci si chiede quale sia l’esatta data di arrivo
dei religiosi in città. Inoltre, resta ancora da capire se la mancata costruzione di una
seconda casa domenicana sull’altura di Santa Venera sia da addebitare alla volontà o
meno di concentrare gli sforzi economici della comunità sul recupero dell’edificio
quattrocentesco.
Per quanto attiene al quadro delle maestranze intervenute durante la ricostruzione
della chiesa nel primo Cinquecento, occorre che la ricerca fornisca nuovi elementi sulla
figura di fra Giacomo Battaglia. Era soltanto il priore del convento nel 1512 o - come
sembrerebbe emergere dalla lettura della documentazione - possedeva anche competenze
e conoscenze architettoniche maturate forse in altri cantieri dei Predicatori?
Nonostante la vicenda domenicana evidenzi la necessità di insistere mediante nuove
211
GIUSEPPE GIUGNO
disamine archivistiche sulle questioni esposte, così da far luce sulla chiesa conventuale
cinquecentesca distrutta nella prima metà del Settecento con la ricostruzione dell’edificio
voluta dai Predicatori, è indubbiamente interessante il quadro di relazioni urbane intessute
dalla comunità religiosa con i notabili della città39. La munificenza privata diviene in
tale contesto determinante, assieme al contributo feudale, nel compimento dell’immagine
del tempio. Essa aiuta anche a capire le diverse dinamiche di attribuzione del patronato
sulle cappelle messe in atto dalla comunità religiosa. Se, infatti, nella chiesa madre di
Santa Maria La Nova il conferimento del diritto di patronato non obbligava i notabili
alla costruzione delle cappelle, a San Domenico la vicenda è totalmente differente40 .
Quasi tutti i notabili, infatti, finanziano l’ampliamento della chiesa mediante la
costruzione di nuove cappelle, secondo il progetto della fabbrica.
La prassi descritta, dovuta probabilmente alla scarsezza di rendite conventuali, porta
però avanti molto lentamente il programma di rinnovamento della chiesa, parcellizzandolo
nel tempo. Conseguenza del quadro frammentario di interventi restituito dalle fonti è la
necessità di tornare più volte sulle opere eseguite, per ricondurre ad un’immagine unitaria
l’architettura interna del tempio.
39
Sui legami dei Predicatori con la città si rimanda a G. V ITOLO , Ordini Mendicanti e dinamiche
politico-sociali nel Mezzogiorno angioino-aragonese, in «Rassegna storica salernitana», XXX (1998),
pp. 67-101. Distribuito in formato digitale da Reti Medievali.
40
Cfr. G. GIUGNO, Caltanissetta, gli altari di Santa Maria la Nova. Nuove acquisizioni documentarie
sugli altari appadronati della Cattedrale Nissena, in «Agorà», 52, 2015, pp. 24-27.
212
IndagInI per la rIcerca dI un complesso paleocrIstIano a rometta
FiliPPo imbeSi*
santa maria dei cerei e le indagini eseguite dal 2010 al 2017
la chiesa Santa maria dei Cerei di rometta (definita nei secoli anche Badia antica, della Candelora e Gesù e Maria), sita vicino la porta milazzo e lungo la via
Ardizzone, nella prima metà del XiV secolo fu inglobata in un monastero femminile
di clausura dedicato a Santa Chiara che, dopo essere stato inizialmente edificato “in
quodam Casali dicto Basico” della piana di milazzo, fu trasferito a rometta1 a causa
dei saccheggi dell’esercito angioino2.
le monache rimasero a rometta fino al 1345, e in seguito si trasferirono sul colle
* Architetto, fondatore e coordinatore del gruppo Ricerche nel Val Demone e membro della Società Sicilia.
1
“S. Clarae de Basico regii ac celebris Monasterii prima jecit fundamenta Rex Fridericus in
quodam Casali dicto Basico in Planitie Milatii, deinde in oppidum Ramectae idem Fridericus transtulit” (Pirro 1733, p. 449). Si veda anche SAntoro 2017, pp. 159-161.
2
“Antica, e miracolosa Imagine della Santissima Vergine Annuntiata, la quale con molta veneratione si conserva nella Chiesa del Monasterio di Basicò, sotto la Regola di Santa Chiara, mi porge
opportuna occasione d’investigare l’Etimologia del nome di Basicò, la fondatione del Monasterio,
e tutto quello, che a questo, & alla Sacra Imagine s’appartiene, per la memoria de’ posteri. Si chiama
dunque il Monasterio, e Tempio di Basicò, nome, che per lo trascorrimento degli anni si è abbreviato,
e corrotto dal volgo, dalla parola greca ΒΑΣΙΛΙΚΟΝ, che tanto suona, quanto Tempio, o Cappella
Reale, per haver fondato questo luogo, dotatolo, & elettolo, per Cappella Reale, i Re di Sicilia. Così
Federico II havendo assegnato sofficiente entrata, per lo mantenimento del vitto e vestito di quelle
Madri, dichiara in un Privilegio dato nel 1320, che vuole, che siano di Sua Maestà Reale Perpetue
Oratrici; così anche gareggiando con la paterna pietà Pietro II Figlio di costui confermò la donatione
del Padre, e v’aggiunse altre entrate, come appare per un Privilegio spedito nell’anno 1339. Fu fondato questo Monasterio ne’ primi fervori della nascente Serafica Religione di San Francesco, quando
S. Chiara co’ splendori della sua Santità, e dottrina attraheva il sesso donnesco alla penitenza, e disciplina religiosa. Non ho potuto sin hora precisamente risapere l’anno della sua prima fondatione,
ma vado con probabili conietture argomentando, che ciò sia stato verso i tempi del Francese reggimento, imperochè leggo in un libro del Monasterio scritto a penna che l’antiche Madri di quel primo
Monasterio fossero state di Natione Francese. Fu dunque nella sua prima origine fondato nella
Piana di Milazzo, non lungi dalla Terra detta Casal Nuovo, nella foresta, ove sin a nostri tempi si
veggono le ruine dell’antico edificio, & i vestigi dell’habitatione, e volgarmente si chiama hoggi
quel luogo da’ contadini, l’Abbadiazza di Basicò […] Ma, come vogliono alcuni, essendo nelle rivolte
di Sicilia, saccheggiato, e destrutto dall’esercito Francese, mentre da Milazzo veniva per assediar
Messina, sen’andarono quelle Madri ad habitare in Rametta; e cessate le guerre, non si curarono
più di ritornare all’antico Monasterio, o perché non si fosse potuto, se non con molta spesa riparare,
o perché in quella Piana aperta fosse di nuovo esposto a pericoli, o fosse per le cattive qualità di
213
FiliPPo imbeSi
della Capperina di messina, dove avevano edificato un nuovo complesso religioso3.
nei pochi decenni che rimasero a rometta, le religiose ricevettero in dotazione da
re Federico iii e da suo figlio Pietro ii un reddito annuo e ricchi introiti4.
nel 1514, i giurati di rometta, essendo il “monasterio di donni” di basicò “tucto
aruvinato”, chiesero al re “lo reparo” delle fabbriche e “di mandari abbadissa et
monachi”5.
quell’aria poco benigna, e men salubre, che si chiama comunemente sepoltura de’ Messinesi; o fosse
per le scommodità, che seco reca la solitudine, specialmente alle Donne Religiose; si supplicò la
Maestà Reale di Federico verso l’anno 1320, che per le dette ragioni rimanesse il Monasterio fondato
nella Università di Rametta; dove o per la disciplina religiosa, o per la commodità del ben vivere,
haverebbero quelle Madri potuto attendere con meno sollecitudine alla vita Monastica, e pregare
per la Real Maestà al Signore de’ Signori, con maggiore fervore. Si contentò il Re Federico, e si stabilì il Monasterio in Rametta, con l’autorità Pontificia, e perché quel Feudo, e poderi nomati Basicò
assegnati da’ suoi Predecessori, per dote della fondatione, che hoggidì sono del Principe di Monforte,
non erano troppo utili all’hora al Monasterio, glieli cangiò il Re in più spedita entrata, assegnandoli
in gabella delle Vittovaglie del regio Campo della Città di Messina” (SAmPeri 1644, p. 373).
3
“Non gittò profonde radici in Rametta quel Monasterio, ma essendo morti li Protettori di esso
Federico, e Pietro suo figliolo Re di Sicilia, e rimanendo di costui vedova la Regina Elisabetta, non
si portò questa inferiore al marito, nel mostrar chiari segni di benevolenza verso il Monasterio di
Basicò, imperochè nell’anno 1342 impetrò a Clemente VI essendo in Aragona un Breve, per lo quale
si concedea che si potesse da Rametta trasportare in Messina, non parendo cosa decevole che quel
Monasterio ch’era Cappella Reale se ne stesse in Rametta picciola popolazione e lontana dalla
Corte. Onde col favore della medesima Regina, l’Abbadessa Suor Gratia comprò da un certo Matteo
Gallo Cittadino Messinese un ampio sito confinante con le mura della Città, verso la parte occidentale in luogo eminente, nella contrada della Caperrina, sotto il colle di S. Maria dell’Alto; ove tosto
si trasferirono quelle Madri regnando in Sicilia Ludovico d’Aragona, à 21 di Maggio dell’anno
1345, come afferma il Buonfiglio nella Messina, essendosi spesi tre anni in circa intorno alla fabbrica
del Monasterio, tirata innanzi per le facoltà di Suor Cameola Turinga” (SAmPeri 1644, pp. 373374; si veda anche SAntoro 2017, p. 162).
4
CriSPi 1881, pp. 53-58; Pirro 1733, p. 449; SAmPeri 1644, p. 373; SAntoro 2017, p. 161.
5
“Item supplica la dicta universitati pirchì in la terra di ramecta fu fundato anticamenti unu
certu monasterio di donni nominato sub vocabulo sancte marie de basico lu quali fu fundatu in uno
loco di la dicta terra di ramecta a la porta di li mura di la dicta terra chi quasi fui per una fortiliza
et in quello habitavano molti donni et fu dotato di certi renditi li quali si pagano per diversi personi
di la dicta terra di manera chi quando rendi un certo bosco chi teni dicto monasterio li renditi superano plus di onze 50 per anno, quali al presenti non si habitano monachi di manera chi lo dicto monasterio di ramecta per non haver havuto ni ingubernari neni chi habitari si havi tucto aruvinato et
tali fortiliza si veni adcondiri et pertanto tanto per la commodità di vari di li habitaturi di la dicta
terra comu ancora per non si ruinari dicta fortiliza si supplica V. Ill. S. si digni voleri per vui diri et
comandari chi li renditi chi teni dicto monasterio si hagiano ad convertiri in lo reparo et conza di lo
dicto monasterio et chi la dicta grande abbadissa chi ve in la dicta nobili civitati di missina hagia
adconsindiri di mandari abbadissa et monachi a lo dicto monasterio per putirisi rehedificari lo dictu
monasterio pirchi stando in quello abbadissa et monachi dia commodo a li habitaturi di la dicta
terra di fari loro figli religiusi in lo dicto monasterio et ancora cunveniriano ad augmentari a quello
chi fachissi bisogno per lo reparo di lo dicto monasterio et quando la dicta reverenda abbadissa non
pudissi di mandari chi li officiali di la dicta terra et iurati possano reciviri et inparhari li renditi di
214
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
Figura 1. Il prospetto occidentale, sulla via ardizzone, della chiesa santa maria dei cerei (definita nei secoli anche Badia antica, della Candelora e Gesù e Maria).
il complesso monastico romettese, chiamato anche “Abbadiazza vecchia”, nel
1644 era ancora sotto la giurisdizione del monastero di Santa maria di basicò di
messina e la sua chiesa, dedicata a “Santa Maria della Candelora”, era amministrata
da un cappellano ed era dotata “di sacra supellettile per lo divin culto”6.
nel 1760, come attestava Vito Amico, nella chiesa della Candelora, “grecamente
costruita”, sita vicino “la porta Borbonia” e detta anche “S. Maria dei Cerei”, era
officiato il culto divino ed era usanza “distribuire al popolo le candele nel secondo
giorno di febbraro”7. (figura 1)
nel 1782 la chiesa fu interessata da vari lavori e acquisì il titolo di Gesù e maria,
lo dicto monasterio per convertirsi a lo reparo di quello” (merCeDeS 1514-1515, ff. 69r-70v). Questo
documento fu menzionato da Carmelo trasselli (trASSelli 1982, p. 134).
6
“[…] rimanendo sin a nostri tempi in Rametta quell’antico edificio, e si chiama Abbadiazza
vecchia, la cui Chiesa rimase Iuspatronato di questo Monasterio, sotto titolo di S. Maria della Candelora, provedendola di Cappellano, e di sacra supellettile per lo divin culto, con far le spese per
quella solennità, mandandole ogni anno certa quantità di cera” (SAmPeri 1644, p. 374).
7
“È costante tradizione, essere stato l’antichissimo monastero sotto la regola di S. Chiara edificato un tempo nel territorio per la munificenza dei re, poi trasferito in Rametta verso la porta Borbonia nella chiesa di s. Maria dei Cerei, volgarmente della Candelora, la quale grecamente costruita,
si appella sin’ora badia antica; da quello si raccolsero le monache in Messina e fabbricarono il monastero di s. Maria di Basicò, dove oggi dimorano; ma non si sono aboliti nella nostra chiesa il culto
divino ed il costume di distribuire al popolo le candele nel secondo giorno di febbraro” (Di mArzo
1859, pp. 408-409; si veda anche AmiCo 1760, p. 202).
215
FiliPPo imbeSi
appartenente ad un vetusto luogo di culto romettese che fu abbandonato e demolito
in quell’anno8.
Santa maria dei Cerei subì nel corso dei secoli numerosi interventi che alterarono
quasi interamente le sue caratteristiche storiche e architettoniche9.
la struttura sopravvissuta, tuttavia, evidenzia ancora oggi peculiarità storico-architettoniche molto rare attraverso la pianta a croce equilatera inscritta in un quadrato, che è sovrastata da volte a botte e a crociera (nei bracci della croce e nelle
quattro campate d’angolo) e da un prisma sommitale a base ottagonale culminante
esternamente in una cupola a gradoni. (figure 3 e 6)
Queste caratteristiche, unite all’arcaicità degli archi a testa di chiodo10 e all’esonartece11 (figure 2 e 6), pongono il monumento, che è documentato come chiesa
negli ultimi secoli, nell’ambito dell’architettura tardoromana o bizantina e collocano
la sua realizzazione in un periodo compreso tra il V e il Vi secolo12. (figure 3 e 6)
Figura 2. I resti dell’esonartece visti dall’alto.
Queste informazioni si desumono da un volume d’esito che è stato rinvenuto dal romettese Vincenzo leone Giordano (ArChiVio StoriCo romettA, “Esito fatto da me cappellano D. Francesco
Saja principiando dal primo settembre 1782”). in esso si riporta che nel mese di settembre del 1782
la chiesa dedicata a Gesù e maria di rometta fu trasferita nella “Bacia vecchia” (“Mese settembre
1782. Spese fatte per la restaurazione della Venerabile Chiesa di Gesù e Maria trasportata nella
Chiesa olim della Bacia vecchia, che poi le religiose del suddetto Monastero furono trasportate nel
Venerabile monastero di Basicò nella Città di Messina”). tra le spese affrontate per l’adattamento
della “Bacia vecchia” vi furono quelle “Per sterro del piano di fuori e dentro”, “Per restaurare
l’astracato sopra della chiesa”, “Per rizzare e bianchiare detta chiesa” e “Per trasportare la porta
da Gesù e Maria”.
9
Di bennArDo 2009, pp. 44-106; Di bennArDo 2017, pp. 127-153.
10
GiGlio 2003, pp. 59-61; GiGlio-lo CUrzio 1990, p. 73.
11
i resti del narthex furono scoperti dall’archeologo Giacomo Scibona nella seconda metà del
secolo scorso (SCibonA 1976, p. 281). Si veda anche imbeSi 2017, pp. 246, 252.
12
Per l’origine del monumento, principalmente, si vedano: Di bennArDo 2016, pp. 97-133; GiGlio-lo CUrzio 1990, pp. 55-78; imbeSi 2017, pp. 247-253.
8
216
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
Figura 3. Il prospetto orientale e le caratteristiche architettoniche della chiesa.
la chiesa è stata interessata da due campagne di indagini interne, eseguite nel
201013 e nel biennio 2016-2017, e originate da prove geofisiche con la tecnica georadar e da alcune deduzioni, che avevano permesso il rinvenimento di una escavazione ubicata sotto la sala cupolata e di un canale centrale ad essa collegato che si
sviluppa con senso discendente dall’ingresso principale14. (figure 4, 5, 6).
l’orientamento occidentale della fabbrica, che contrasta con la destinazione chiesastica e con le le rigide disposizioni cultuali del primo cristianesimo, e i rinveni13
14
imbeSi 2013, pp. 62-66.
imbeSi 2017, pp. 239-243, 246-250.
217
FiliPPo imbeSi
Figure 4 e 5. l’escavazione che è stata rinvenuta sotto la sala cupolata e il canale centrale ad essa collegato.
menti operati avevano portato ad ipotizzare che in un’antica stratificazione il monumento romettese fosse stato un battistero15 e che ad esso fosse annessa una basilica
paleocristiana, considerando soprattutto che la struttura presenta affinità planimetriche con il battistero di Caričin Grad (iustiniana Prima, Serbia), databile al Vi secolo, il quale era collegato attraverso l’esonartece, nella ricostruzione che è stata
operata, a una chiesa episcopale (basilica A) avente nella parte antistante un atrio e
una vasca-cantharus per le abluzioni. (figura 7)
tutte le particolarità e le affinità tipologiche che sono state riscontrate e i rinveni15
imbeSi 2017, pp. 250-253. Si veda anche GiGlio-lo CUrzio 1990, pp. 75-78.
218
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
Figura 6. pianta della chiesa s. maria dei cerei con le strutture
sepolte che sono state rinvenute. esternamente, sul versante
orientale, sono presenti i resti dell’esonartece (colore rosso) che
furono individuati dall’archeologo giacomo scibona. all’interno
della chiesa sono stati portati alla luce una escavazione nella sala
cupolata e un canale centrale ad essa collegato (colore giallo).
menti operati fino al 201716
hanno reso dunque necessarie
nuove indagini e dettagliate ricerche storiografiche, di seguito
descritte, attraverso le quali
sono state ricavate specificazioni e informazioni sia sul monumento sia sulla sua area
circostante (che nello stato attuale non evidenzia vetustà o
particolarità rilevanti). (figure 1,
8, 9, 10)
la documentazione storica e
fotografica rinvenuta, e in gran
parte inedita, che descrive le
modifiche che furono operate
nella chiesa e nel suo spazio circostante dal 1895 al 1927, permette inoltre di ricostruire e di
delineare, in alcuni casi con veridicità e in altri con molta approssimazione, la strutturazione
ottocentesca del complesso monastico romettese di basicò e
una sua precedente facies storico-architettonica.
Figura 7. ricostruzione (a=popovič, B=Vasič) della basilica e del battistero di caričin grad (duVal 1984,
pp. 405, 415).
16
imbeSi 2013, pp. 62-68; imbeSi 2017, pp. 239-255.
219
FiliPPo imbeSi
Figura 8. l’area meridionale prossima alla chiesa in cui è presente, a sinistra, una profonda cisterna.
Figura 9. l’area settentrionale esterna alla chiesa.
Figura 10. l’area orientale prossima alla chiesa in cui è presente uno spiazzale.
220
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
la vertenza pollicino
Una fondamentale trasformazione dell’area in cui ricade la chiesa fu avviata nel
1855, quando Giuseppa Sindoni, moglie di michele Saija e madre di leone Saija
(che diverrà qualche tempo dopo arciprete di rometta), donò all’altro figlio Pietro,
con un aleatorio testamento e un codicillo, il possesso di un orto, di una casa e di un
mangano “attigui alla Chiesa di Gesù e Maria” e confinanti con la via Ardizzone17.
nel 1884, ventinove anni dopo la donazione, l’arciprete romettese leone Saija,
aveva occupato l’area e l’edificio che la madre aveva donato al fratello. Pietro Saija
fu così costretto a intentare giudizio per ottenere la restituzione del lascito. la causa
si chiuse nel 1886 con una sentenza, con cui fu stabilito che l’arciprete leone Saija,
oltre a cedere l’edificio e il terreno al fratello Pietro, doveva anche pagare per danni
e per interessi legali la somma di 2400 lire, che fu devoluta, come riporta un atto
del 28 aprile 1887, con “una fede di credito del Banco di Sicilia”, con vari “biglietti
bancali” e con la proprietà di un piccolo fondo attaccato al terreno che era stato donato dalla madre18.
la chiesa in alcuni documenti fu erroneamente definita del SS. Salvatore. Per la corretta identificazione si veda SCibonA 1976, pp. 279-285.
18
“Regnando Umberto primo per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia. Il dì ventotto Aprile milleottocentottantasette 1887 in Rometta nello studio di me notaio, via Sabauda. Innanti
a me Andrea Saija, Notaro residente in Rometta, iscritto presso il Consiglio Notarile del Distretto di
Messina ed assistito dai testimoni noti, idonei e richiesti, Signori Pietro Gazzara del fu Giacomo industrioso e Rosario Ciotto di Antonino macellaio, entrambi nati e domiciliati in Rometta, sono presenti: il Reverendo Arciprete Don Leone Saija del fu Michele da una parte, ed il di lui fratello Signor
Pietro Saija del detto fu Michele dall’altra parte, entrambi proprietari nati in Rometta e domiciliati
il primo qui in Rometta, via Umberto primo, e l’altro in Saponaravillafranca, villa Gurchi, ed a me
notaio e testimoni noti. Premettono essi comparenti che il detto Signor Pietro Saija con citazione
del venticinque Marzo milleottocentoottantaquattro promosse giudizio innanzi il Tribunale Civile di
Messina, chiedendo contro l’altro comparente Signor Arciprete Saija il rilascio di un orto, casa e
mangano siti in Rometta, attigui alla Chiesa di Gesù e Maria, strada collo stesso nome, ed oggi detta
Ardizzone, più il supplimento di onze centosettanta o lire duemilacentosessantasette e centesimi cinquanta, gli interessi legali e le opere del giudizio, il tutto come disposto nel testamento e codicillo
della comune genitrice fu Giuseppa Sindoni, rogati dal fu mio padre Notaio Francesco Saija di questa
sotto i giorni ventitré Maggio e sedici Giugno milleottocentocinquantacinque, qui registrati il primo
lì sette Luglio detto anno al N. 1581, e l’altro lì cinque Aprile 1884 al N. 158. Dopo un lungo giudizio
il Tribunale sudetto con sentenza definitiva del ventisette dicembre milleottocentottantasei pubblicata
lì trentuno lo stesso, registrata in Messina lì cinque Gennaro milleottocentottantasette al N. 1142,
condannò il comparente Sacerdote Saija al rilascio dei predetti immobili, al pagamento di lire millecinquecentosettanta per supplemento del legato come sopra, a lire cento per danni, agli interessi
legali dal dì della domanda, compensando le spese del giudizio. Nonostante che la succennata sentenza non sia stata pienamente conforme ai dritti pretesi dal Signor Pietro Saija, e per cui questi voleva appellarla, pure ad evitare ogni ulteriore contestazione, e per ripristinare l’amore e la pace tra
stretti congiunti, si è addivenuto da entrambi alla seguente contrattazione. I comparenti fratelli Saija,
mercè il presente atto autentico, danno volontariamente esecuzione alla succennata sentenza del Tribunale Civile del 27 e 31 dicembre 1886, e per cui da oggi innanti il Signor Pietro Saija può immettersi nel materiale possesso degli immobili costituiti in legato dalla defunta madre Giuseppa Sindoni
17
221
FiliPPo imbeSi
nel mese di novembre del 1888, Pietro Saija vendette le sue proprietà poste vicino
alla chiesa di Gesù e maria al romettese Giuseppe Pollicino.
l’atto di vendita riporta che a ridosso della chiesa erano presenti “un orto con
entro i ruderi di un’antica casa ed una cisterna o stagnone ad uso un tempo di Mangano di seta”19. (figura 11)
a nome della ripetuta sentenza, cioè dell’orto, casa e mangano come dietro attaccati alla Chiesa di
Gesù e Maria di questa Comune, e può di conseguenza disporne da assoluto proprietario. Più il
menzionato Signor Arciprete Saija volontariamente cede e trasferisce al fratello Signor Pietro Saija
che accetta in compenso e pagamento delle £ 100 per danni liquidati in detta sentenza un piccolo
spazio di terreno attaccato allo orto anzicennato, strada Gesù e Maria o Ardizzone, di proprietà
dello stesso Signor Arciprete, e che non era stato compreso nel legato della madre e che non eccede
il valore sudetto di £ 100, confinante col detto orto, colla strada e roccia pubbliche e con orto degli
eredi Cordosa, oggi di Francesco Gazzara. Fatto poi un computo della somma dovuta dal Signor
Arciprete Saija per ragione di supplimento al legato, poi interessi e spese, a norma della ripetuta
sentenza del Tribunale del 27 e 31 dicembre 1886, le parti d’accordo l’hanno fatto ascendere in tutto
a lire duemila quattrocento (£ 2400), la quale somma il detto Signor Arciprete Saija oggi stesso a
vista di me notaro e testimoni l’ha pagata e consegnata al fratello Signor Pietro Saija, cioè in quanto
a lire milletrecento in una fede di credito del Banco di Sicilia del ventisei volgente mese di Numero
7909, girata per ultimo al detto Signor Pietro Saija; ed il resto in lire millecento in biglietti bancali
e consegnati contanti in 3 razioni che lo stesso Signor Pietro Saija si ha verificato, ritirato ed intascato con piena sua soddisfazione e di tutto ciò rilascia ampia ed autentica quietanza a peso del solvente di lui fratello. In vista della superiore convenzione e pagamento le parti rispettivamente
dichiarano di non avere più nulla a pretendere relativamente all’oggetto della contesa per cui fu
spinta la citazione del 25 Marzo 1884, ed ebbe luogo la ripetuta sentenza del 27 e 31 dicembre 1886;
anzi il comparente Signor Pietro Saija dichiara per come parimenti lo dichiara l’altro comparente
Sig. Arciprete Saija di rinunziare a qualsiasi gravame che avrebbero potuto produrre avverso la
stessa sentenza. Le spese di quest’atto sono a carico del Signor Arciprete Saija e pella sua esecuzione
i comparenti si eliggono il dietro espressato loro rispettivo domicilio. Del presente atto da me notaio
si è avuta la data lettura chiara in presenza dei predetti testimoni ai comparenti fratelli Saija, i quali
sulla mia richiesta hanno dichiarato che il contenuto in esso è conforme alla loro volontà ed in conferma vanno a inscriversi coi testimoni e esso notaro come appresso. Il presente consta di due fogli
di carta da bollo scritti di carattere di esso notaro in quattro intere pagine e di cui consiste parte
della presente. Fratelli Leone Saija Arciprete, Pietro Saija. Pietro Gazzara teste. Rosario Ciotto
teste. Andrea Notar Saija del fu Notaro Don Francesco residente in Rometta. Specifica totale £ 71.61
Sac. Saija. Registrato a Rometta 3 Maggio 1887, libro Atti pubblici Vol. 75 N. 460” (SoPrintenDenzA
meSSinA, n. 58.3, fasc. iii-1).
19
“N. 655 Copia vendita. Lì 1° Novembre 1888. Notar Andrea Saija, notaro residente in Rometta.
Il Sig. D. Pietro Saija Sindoni del fu Michele, proprietario, nato in Rometta, domiciliato in Saponara
Villafranca, nella contrada Gevena, e Giuseppe Pollicino, figlio di Francesco, nato e domiciliato in
Rometta. Il prenominato Saija Sindoni vende e trasferisce al Pollicino un orto con entro i ruderi di
un’antica casa ed una cisterna o stagnone ad uso un tempo di Mangano di seta, sito qui in Rometta
quartiere Gesù e Maria ossia oggi detta Ardizzone, consistente in terreno ortaggiero e tre piedi di
albero al limitare della roccia confinante coi muri della chiesa Gesù e Maria e di questa comune,
con orto di Antonino Gazzara di Francesco, con le rocce e strada pubblica, cinto da quest’ultimo
lato da muro, ov’è l’ingresso. Dichiara il venditore che l’annunciato orto co’ suoi accessori gli pervenne in massima parte dall’eredità materna, ed in minore parte per cessione del di lui fratello, ar222
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
Figura 11. 1895 circa. la chiesa santa maria dei cerei e a destra l’antica casa che fu acquistata da giuseppe pollicino (soprIntendenza messIna, n. 56.2).
Giuseppe Pollicino, qualche anno dopo l’acquisto, iniziò a modificare l’antico
edificio esistente, e ingrandendolo si addossò alla chiesa di Gesù e maria senza rispettare le distanze legali. (figure 12, 13, 14)
il 27 novembre del 1912, il nuovo arciprete di rometta, Antonino barbaro, presentò un esposto contro Giuseppe Pollicino alla Soprintendenza ai monumenti20. la
contestazione portò ad una diffida con cui il sindaco di rometta vietò la prosecuzione
dei lavori21. nonostante vari avvertimenti, però, Giuseppe Pollicino continuò con
ciprete D. Leone Saija, giusto quell’atto da me notaro rogato lì 28 Aprile 1887, qui registrato lì tre
maggio detto anno, N. 460 e che intende venderlo franco e libero d’ogni peso, ipoteca o servitù;
tranne del contributo fondiario che da oggi innanti sarà a carico del compratore. La presente vendita
procede d’accordo fra le parti ed a corpo, pel prezzo netto del capitale fondiario di £. 800,00. Il venditore promette la propria garanzia per ogni caso di futura evizione o molestia” (SoPrintenDenzA
meSSinA, n. 58.3, fasc. ii-1).
20
“Rometta - Antica chiesa di Gesù e Maria. Nuove costruzioni di privati lungo il lato Nord. Sig.
Soprintendente Monumenti Palermo. Messina 27 Novembre 1912. Il parroco di Rometta sacerdote
Antonino Barbaro è venuto oggi in Ufficio ad informare che il Sig. Giuseppe Pollicino fu Francesco
da Rometta, proprietario di un terreno confinante col lato Nord di quella antica chiesa di Gesù e
Maria, ha iniziato una costruzione nel terreno sudetto, intendendo appoggiarsi al muro della chiesa,
e solo in seguito alle proteste del parroco aderisce modificare il progetto primitivo della costruzione
intrapresa, scostandosi dal muro della chiesa della distanza legale di un metro e mezzo. Si fa presente
inoltre a V. S. il desiderio espresso dal sudetto parroco, che le piccole riparazioni disposte da V. S.
per quella chiesa siano eseguite al più presto, almeno per quello che riguarda i restauri della tettoia.
L’Ispettore E. Miraglia” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 1). l’esposto contiene a margine
il parere di Francesco Valenti (“Al Sig. Soprintendente, a parte che la distanza legale è di tre metri,
come monumento credo non sia il caso di consentire alcuna nuova costruzione troppo vicina al pregevole edificio. F. Valenti”).
21
“Sig. Giuseppe Pollicino fu Francesco. Rometta. D’ordine del R. Sopraintendente dei monumenti in Palermo, diffido V. S., quale proprietario del terreno confinante con questa antica chiesa di
223
FiliPPo imbeSi
Figura 12. 1913 circa. le opere abusive che furono addossate al prospetto orientale della chiesa (soprInn. 56.2).
tendenza messIna,
varie fasi la realizzazione della sua costruzione.
i lavori di isolamento delle coperture che in quel periodo si dovevano eseguire
nella chiesa di Gesù e maria, richiamarono a rometta l’architetto Francesco Valenti,
che si era occupato qualche anno prima del restauro della chiesa madre Santa maria
Assunta dopo i danni che essa aveva subito dal terremoto del 1908.
il 23 gennaio del 1914, il Soprintendente ai monumenti denunciò all’Avvocatura
erariale di Catania la ripresa dei lavori del Pollicino22, accludendo una planimetria
Gesù e Maria, che non può eseguire alcuna costruzione in prossimità della chiesa stessa, in virtù
dell’art. 14 legge 20 Giugno 1909 N. 364 per le antichità e le belle arti, modificato dall’art. 3 legge
23 Giugno 1912 N. 688. Ove V. S. vorrà fare una nuova costruzione nel terreno di sua proprietà,
dovrà preliminarmente presentare all’ufficio della R. Sopraintendenza dei monumenti in Palermo il
relativo progetto con la pianta planimetrica, dove dovrà essere segnata l’ubicazione della Chiesa
ed attendere che il superiore Ministero della Pubblica Istruzione si pronunzi su tale progetto. Rometta
18 Dicembre 1912. Il Sindaco. Firmato A. Saja” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 3-15-3).
22
“Rometta, Isolamento della Chiesa di Gesù e Maria. Alla R. Avvocatura Erariale Catania. Palermo, 23/1/1914. Il Sig. Pollicino Giuseppe fu Francesco in data 18 Dicembre 1912 fu diffidato dal
Sindaco di Rometta, per conto di quest’Ufficio dei Monumenti, a non innalzare alcuna nuova costruzione nel terreno di sua proprietà confinante con la monumentale Chiesa di Gesù e Maria in Rometta, senza aver prima presentato il relativo progetto delle opere che intendeva eseguire. E ciò in
224
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
Figure 13 e 14. 1913 circa. le opere che furono realizzate da giuseppe pollicino a nord e a est (soprIntendenza messIna, n. 56.2). la fotografia a sinistra documenta la demolizione dell’antica casa che era
presente nell’area.
dei luoghi che fu redatta da Francesco Valenti (figura 15), e alcuni giorni dopo il
regio Soprintendente chiese al sindaco23 e all’arciprete24 di rometta informazioni
sulle opere difformi che si stavano eseguendo e specificazioni sulle fasi cronologiche
della loro realizzazione.
applicazione dell’art. 14 della legge 20 giugno 1909 sulle antichità e belle arti riguardante le distanze
da prescriversi nei casi di nuova costruzione, per non danneggiare la prospettiva o la luce richiesta
dai monumenti. Quest’Ufficio adesso apprende che il predetto Sig. Pollicino, nonostante la diffida
avuta, ha iniziato delle fabbriche che si alzano per ora m. 2,50 dal suolo, addossandole alla Chiesa
(come si rileva dall’unita pianta planimetrica). Prego pertanto cotesta R. Avvocatura Erariale di
esperire d’urgenza le opportune pratiche affinchè il Pollicino, in osservanza dell’art. 14 della citata
legge, modificato dall’art. 3 della legge 23 giugno 1912, scosti le sue costruzioni dalla Chiesa, lasciando la distanza di almeno tre metri. Ciò è necessario per poter riaprire le finestre originarie del
monumento. Il Soprintendente” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 24).
23
“Rometta - Chiesa detta di Gesù Maria. Informazioni. Al Signor Sindaco Rometta. Palermo,
31 gennaio 1914. Prego la S. V. Illustrissima volermi dichiarare se il sig. Giuseppe Pollicino fu Giacomo denunziò alla S. V. Illustrissima l’opera costruenda addossata a codesta chiesa detta di S.
Maria del Gesù, a norma dell’art. 224 del testo Unico delle leggi emanate in conseguenza del terremoto 28 dicembre 1908, approvato con R. D. 12 ottobre 1913 n° 1261. E nell’affermativa dirmi se
nella opera costruenda fu osservato il disposto dell’articolo 207 del suddetto T. U. Il Regio Soprintendente” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 27). Un’altra richiesta simile fu inoltrata al sindaco di rometta il 22 aprile 1914 (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 34).
24
“Rometta – Chiesa del SS. Salvatore detta di Gesù e Maria. Vertenza Pollicino. Al signor Arciprete Rometta. Palermo, 31 gennaio 1914. Prego la S. V. Reverendissima di volermi fare avere una
225
FiliPPo imbeSi
Figura 15. 1913. la planimetria dell’area con le opere (campite in rosso) che furono realizzate da
giuseppe pollicino (soprIntendenza messIna, n. 58.3, doc. 23). l’antica casa (figura 11), come si
evince dal rilievo di Francesco Valenti, fu demolita nella zona ovest (dalla mezzeria della chiesa fino
al prospetto orientale) e ingrandita ad est e a sud (figure 13 e 14). nella planimetria furono anche
indicati il pozzo o stagnone sito a nord, la cisterna posta a sud (ancora oggi esistente) e due antiche
sostruzioni murarie (a e b). le fabbriche realizzate da giuseppe pollicino inglobarono a nord una
parte dell’antica casa che esisteva nel sito.
226
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
le indagini espletate dai due titolati romettesi evidenziarono che i lavori avviati
da Giuseppe Pollicino non erano stati dichiarati25, che erano iniziati verso il 1895 e
che dopo il terremoto del 1908 continuavano in una parte, nonostante la sospensione
ordinata dal sindaco26.
la Soprintendenza ai monumenti di Palermo, dopo aver interpellato più volte il
ministero della Pubblica istruzione e il Genio Civile e dopo aver tentato un bonario
accordo per far distaccare le fabbriche dalla chiesa, decise di procedere in giudizio
contro Giuseppe Pollicino tramite l’avvocato michele Crisafulli27.
dichiarazione sottoscritta tanto da lei che da altre personalità del paese, dalla quale risulti l’epoca
in cui il sig. Pollicino iniziò i lavori della costruenda casa addossata a cotesta chiesa detta di Gesù
e Maria, e nello stesso tempo dire se e quando furono sospesi e ripresi i lavori stessi e quali di essi
erano stati eseguiti al momento della sospensione. Il Regio Soprintendente” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 29).
25
“Provincia di Messina Municipio di Rometta. Prot. N 659. Risposta alla nota N° 869 del 22
aprile 1914. Chiesa di Gesù e Maria. Informazioni. Illustrissimo Sig. R. Soprintendente ai Monumenti
Palermo. Rometta, lì 24 aprile 1914. In evasione alla nota controsegnata, pregiami informare la S.
V. Ill.ma che Pollicino Giuseppe fu Francesco e non fu Giacomo, come certamente per errore scrive
Vossignoria, non fece la denunzia prescritta dallo articolo 224 del testo unico delle leggi emanate
pel terremoto del 1908. C’è soltanto una dichiarazione fatta il 25 novembre 1913, che riguarda altra
casa vicina in detta via Gesù e Maria o Ardizzone e non quella addossata alla Chiesa di Gesù e
Maria. Il Pollicino Giuseppe la cui paternità è fu Francesco non fu Giacomo nella costruzione in
parola non ha osservato il disposto dell’art. 207 del sudetto testo unico. Coi più sentiti ossequi e
perfetta osservanza. Il Sindaco A. Saija” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 35).
26
“Illustrissimo Sign. Soprintendente. Mi pregio accludere la dichiarazione come richiestami
con la nota N. 231 di codesto ufficio addì 31 gennaio 1914. Noi qui sottoscritti, dichiariamo: 1) Che
i lavori della costruenda casa, addossata alla Chiesa del SS. Salvatore detta di Gesù e Maria in Rometta, furono iniziati dal signor Giuseppe Pollicino verso il 1895. 2) Che, ripresi dopo il terremoto
del 28 dicembre 1908, furono sospesi, dietro avviso della R. Soprintendenza ai monumenti in Palermo, durante l’anno millenovecentotredici. 3) Che tuttavia sono sospesi per una zona di circa tre
metri distante da’ muri perimetrali di detta Chiesa, pur essendo stati ripresi oltre detta zona nel gennaio 1914. Rometta 14 febbraro 1914. Sacerdote Antonino Barbaro Arciprete, Arnò Francesco teste
dichiarante, Antonino Saija, Antonino Magazù” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 33).
27
le fasi della vertenza Pollicino, che consta di numerosi documenti (in parte pubblicati in questo
saggio), furono riassunte in un memoriale che così si riporta: “Rometta - Chiesa del SS. Salvatore
detta di Gesù e Maria. Vertenza Pollicino. ● 1912, 27 novembre. L’Ufficio Monumenti Messina scrive
a Palermo avere ricevuto denunzia dal parroco di Rometta dell’inizio della costruzione da parte del
Pollicino. ● 1912, 14 dicembre. La Soprintendenza Monumenti Palermo scrive al Sindaco di Rometta
di diffidare il Pollicino a non eseguire alcuna nuova costruzione richiamandolo all’osservanza dell’articolo 14 legge 20 giugno 1909 n. 364, modificato dall’articolo 3 legge 23 giugno 1912 n. 688.
● 1912, 14 dicembre. Al parroco di Rometta è trascritta la lettera del Sindaco. ● 1912, 18 dicembre.
Il Sindaco di Rometta invia copia della diffida. ●1913, 22 dicembre. L’architetto Valenti informa che
il Pollicino ha cominciato delle fabbriche. ● 1914, 23 gennaio. La Soprintendenza Monumenti Palermo informa l’Avvocato Erariale di Catania perché faccia di urgenza le pratiche per indurre il
Pollicino a scostare di almeno tre metri le sue fabbriche dal monumento. ● 1914, 28 gennaio. L’Avvocato Erariale di Catania chiede se il Pollicino ha iniziato le sue fabbriche da oltre un anno; se ha
denunziato al Sindaco l’opera costruenda in osservanza dell’articolo 224 del Testo Unico. Fa pre227
FiliPPo imbeSi
Durante questa vertenza furono eseguite alcune indagini per cercare di ricostruire
le caratteristiche che l’area presentava prima delle opere abusive.
le ricerche condotte dalla Soprintendenza e collegate alla planimetria che fu redatta da Francesco Valenti (figura 15) non permisero di rinvenire consistenti tracce
di vetustà, ma consentirono soltanto di stabilire che attorno alla chiesa era anticasente che a norma dell’art. 207 del Testo Unico la distanza da mantenere è di metri cinque. ● 1914,
31 gennaio. La Soprintendenza Monumenti Palermo scrive al Sindaco di Rometta per avere tali informazioni. ● 1914, 31 gennaio. La Soprintendenza Monumenti Palermo scrive all’arciprete di Rometta chiedendo una dichiarazione di personalità del paese per stabilire quando fu iniziata la
fabbrica del Pollicino, quando fu sospesa e quando ripresa. ● 1914, 14 febbraio. L’arciprete di Rometta invia una dichiarazione di tre cittadini che attestano: che la casa addossata alla chiesa del
Salvatore fu iniziata verso il 1895 - Poi ripresi dopo il 28 Dicembre 1908 furono sospesi nel 1913
per ordine della Soprintendenza ai Monumenti di Palermo - Ripresi nel gennaio 1914 tranne in una
zona di circa 3 metri dai muri perimetrali della chiesa. ● 1914, 22 aprile. La Soprintendenza Monumenti Palermo al Sindaco di Rometta sollecita risposta alla nota 31-1-914. ● 1914, 24 aprile.
Sindaco di Rometta dichiara che Pollicino Giuseppe fu Francesco non fece denunzia prescritta art.
224 T. U. e non ha osservato disposto art. 207 T. U. ● 1915, 22 gennaio. Ufficio Monumenti Messina
informa che arciprete di Rometta denunzia che malgrado precedente divieto Soprintendenza, Pollicino ha ripreso costruzione casa addossata chiesa SS. Salvatore. ● 1915, 27 gennaio. Soprintendenza
Monumenti Palermo all’Avvocato Erariale Catania denunzia la ripresa lavori e richiama lettera 231-914 per procedere contro Pollicino, acclude le dichiarazioni 14 febbraio 914 dell’arciprete ed
altri, e 24 aprile 914 del Sindaco di Rometta, accludendo planimetria. ● 1915, 27 gennaio. Soprintendenza Monumenti Palermo all’Ispettore Monumenti Messina assicura avere scritto all’avvocato
Erariale. ● 1915, 1 febbraio. Soprintendenza Monumenti Palermo manda rapporto al Ministero dal
quale non risulta la sospensione della pratica dal 24 aprile 914 - in cui pervenne il rapporto del
Sindaco di Rometta chiesto dall’Avvocato Erariale di Catania il 28 gennaio 1914 - al 22 gennaio
1915 in cui l’Ufficio Monumenti Messina informa della ripresa dei lavori. ● 1915, 1 febbraio. L’Avvocato Erariale Catania consiglia di rivolgersi al Genio Civile per violazione art. 224 T. U. Ove il
Genio Civile non creda far denunzia al Magistrato penale, si provvederà ad iniziare azione petitoria
in base alle leggi 1909 e 1912 Antichità e BB. Arti. ● 1915, 23 febbraio. Ministero approva operato
Soprintendenza e attende esito giudizio a carico del Pollicino. ● 1915, 26 febbraio. La Soprintendenza Monumenti Palermo informa l’avvocato Erariale Catania che il Genio Civile ha constatato
(manca tale lettera - conferenza verbale vedi lettera 11-3-915) che non può procedere a contravenzione contro il Pollicino per inosservanza all’art. 224 T. U. 12 ottobre 1913 - Che perciò ha tentato
un bonario accordo col Pollicino, che si contenterebbe per lire 400 di distaccarsi di m. 1,85 dal lato
Est; e m. 1,50 dal lato Nord, che fossero riaperte nel cortile di risulta le due finestre murate del monumento, nel quale il Pollicino aprirebbe finestre munite di grate fisse - Siccome per tale distanziamento dal Monumento si incorrerebbe nell’art. 224 T. U. si chiede se più tardi ad accordo avvenuto
potrebbero venire molestie alla Soprintendenza da parte del Genio Civile. ● 1915, 6 marzo. L’avvocato non giudica conveniente la transazione, crede che il Genio Civile non possa procurare molestie
alla Soprintendenza e nel caso che si intendesse venire al bonario accordo, consiglia di sentire il
parere del Genio Civile. ● 1915, 11 marzo. La Soprintendenza Monumenti Palermo trascrive al
Genio Civile la lettera 26 febbraio 1915 all’Avvocato Erariale Catania, e chiede se il bonario accordo col Pollicino per la diminuzione delle distanze volute dall’art. 224 T. U. sarebbe tollerata. ●
1915, 29 marzo. Il Genio Civile non riconosce vantaggiosa la transazione col Pollicino. Prevede
che il Pollicino cercherà di rivalersi contro la Soprintendenza quando sarà chiamato dal Genio
228
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
mente presente un terreno libero di pertinenza28, sia per l’esistenza di finestre e accessi, aperti o murati su tutti i lati, sia perché la cisterna a sud e lo stagnone a nord,
posti quasi a ridosso della chiesa, avrebbero impedito la costruzione degli edifici.
Venne inoltre accertato che la chiesa e il suo spazio circostante avevano fatto parte
del monastero di Santa maria di basicò e che dopo il trasferimento delle monache
a messina tutta l’area era stata dapprima acquisita dal municipio e in seguito, “verso
il 1700”, trasferita alla parrocchia29.
Civile all’osservanza dell’art. 224 T. U. Consigliato di acquistare una striscia di terreno larga più
di m. 2,50 (art. 207 comma F del T. U.) o impegnare il Pollicino a ricostruire alla distanza di m. 5
dalla chiesa. ● 1915, 16 aprile. La Soprintendenza Monumenti Palermo al rettore della chiesa del
Salvatore di Rometta richiamando la conversazione avuta col Pollicino per un bonario accomodamento, visto il parere del Genio Civile dice che l’accordo potrebbe avvenire qualora il Pollicino si
impegnasse a ricostruire la sua fabbrica a 5 metri dalla Chiesa - Gli dà perciò il Mandato di trattare
col Pollicino. ● 1915, 27 aprile. La Soprintendenza Monumenti Palermo all’Avvocato Erariale Catania comunica il parere del Genio Civile del 29 Marzo e prega di procedere contro il Pollicino. ●
1915, 18 maggio. L’Avvocato Erariale Catania comunica avere incaricato l’avvocato Michele Crisafulli, delegato Erariale a Messina, di rappresentare e difendere l’Amministrazione. Chiede gli si
invii la diffida notificata al Pollicino il 18 dicembre 1912 e un attestato della Soprintendenza comprovante che la Chiesa del Salvatore è monumentale” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 73
- allegato). la seconda parte di questo memoriale è pubblicata nella nota 31.
28
“All’Illustrissimo R. Soprintendente ai monumenti Palermo. Vertenza Pollicino. Chiesa Monumentale in Rometta. Messina 28 Maggio 1915. Dalla pianta che la S. V. mi ha fornito non solo rilevo due muri appoggiati alla Chiesa, ma altresì che uno de’ muri si allinea sopra la prima porta
della stessa Chiesa. Or è strano tutto ciò. Ordinariamente le Chiese si fanno nelle piazze, od in luoghi
larghi, sia per l’estetica, sia per la natura dell’edificio, sia pel facile accesso del pubblico. Anco una
Chiesa privata circondata da tre lati da terreno privato, ha per lo meno completamente libero il lato
della facciata. Non è comprensibile che la facciata, per lo meno, anche di una Chiesa privata, sia in
parte ostruita da terreno privato. Nel caso trattasi di una Chiesa pubblica che nacque sicuramente,
o se non altro è da presumersi per buona logica, libera da tutti i quattro lati. Ritengo che il terreno
che circonda la Chiesa, per una data estensione debba costituire usurpazione. Sicchè reputo cosa
ottima il divisamento della S. V. di recarsi sui luoghi per farne una pronta constatazione ed in tale
occasione io la prego di volere attingere informazioni dal Rettore della Chiesa intorno al terreno
che circonda la Chiesa medesima. E sarebbe opportuno chiamare quel Ricevitore del Registro perché
studiasse il Catasto in proposito. Dietro quanto la S. V. mi riferirà io scriverò la citazione, la quale
dev’essere fatta con ogni attenzione, stabilendo la base del giudizio. Con ogni ossequio. Avv. M. Crisafulli” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 65).
29
“R. Soprintendenza ai Monumenti in Palermo. Risposta a Nota del 28-5-915. Palermo, 15 Giugno 1915. Rometta Chiesa monumentale di S. Salvatore. Vertenza Pollicino. Ill.mo signor Delegato
Erariale Prof. Cav. Uff. Michele Crisafulli Via Monza N. 3 Messina. Poiché nella mia recente visita
costà fatta, la S. V. Ill. non potè accompagnarmi a Rometta per la pratica in oggetto, feci da solo la
missione. E prima di tutto ottenni dal Pollicino una copia dell’atto 1° Novembre 1888, rogato dal
Notaro Andrea Saija in Rometta, relativo allo acquisto da lui fatto del terreno attorno la Chiesa di
S. Salvatore, detta di Gesù e Maria. Da esso si rileva, che il terreno in parola gli fu venduto dall’Arciprete del tempo e dal fratello di costui, senza giustificare la provenienza; ed è quindi da sospettare
che l’immobile appartenne alla Chiesa, ed il venditore ne avesse abusivamente usato come cosa propria. Ad ogni modo, sarebbe opportuno che Ella si provvedesse della copia dell’atto 28 aprile 1887,
229
FiliPPo imbeSi
Furono infine individuate due antiche sostruzioni murarie e venne anche stabilito
che lo spiazzale orientale era stato anticamente utilizzato come “zona cimiteriale”.
(figura 15)
Si arrivò dunque alla conclusione che l’arciprete leone Saija aveva ceduto illegalmente alla madre e al fratello uno spazio che era di pertinenza della chiesa. Anche
il nuovo arciprete Antonino barbaro, interpellato sulla questione, con una lettera del
18 agosto 1918, dopo aver eseguito indagini a rometta, comunicava che si era convinto “che l’Arciprete Leone Saija avesse permesso al fratello Pietro di appropriarsi” del terreno posto a ridosso del luogo di culto e che non vi fosse nessuna
possibilità di provare l’illecito30.
Reg. al N° 460, del quale è cenno nella copia dell’atto 1° novembre 1888 sopra citato che qui accludo
anche in copia. L’avverto intanto, che al tempo del Sampieri, autore della iconologia della Gloriosa
Vergine etc., la Chiesa di cui trattasi come si rileva dal libro III, Cap. X di essa opera si chiamava
Badia Vecchia ed era un monastero di quelle stesse monache che avevano il monastero a Basicò,
nella piazza di Milazzo, e poi a Basicò di Messina, ed era di ordine Benedettino. La Chiesa di Rometta, sotto il titolo di S. Maria della Candelora, rimase in padronato del Monastero di Basicò di
Messina, che provvedette al Cappellano, ed alle spese di culto, arredi sacri, mobili, etc. A Rometta
si dice che tutti i beni terreni circostanti etc di essa Chiesa, passarono a quel Municipio, e da questo,
verso il 1700 passarono, non si sa come, all’Ente Parrocchia: ed ecco come il Parroco dovette usarne
come cosa propria. Oggi non può rilevarsi in quale sito sorgevano le fabbriche del Monastero, perché
non esistono vestigia sicure; né mi è stato possibile fare studi, saggi ed altro nel terreno che ora appartiene al Pollicino; ma sembra però, dalla esistenza di due cisterne a nord e sud della Chiesa, che
vi dovesse essere attorno di essa del terreno libero. Alcune tracce di muro di precinzione esistono
ancora nel lato orientale della Chiesa, verso la cantonata settentrionale, ed il Pollicino in via di appoggiare la sua fabbrica al detto muro e tenersi alla stessa altezza di esso, portò avanti la fabbrica
(come si vede nella fotografia annessa) dapprima costruendo la parte inferiore, e poscia mano mano
è venuto a rialzarla sino a poco tempo addietro. Da essa si rileva altresì che il Pollicino, appoggiando
la sua fabbrica al muro orientale della Chiesa, abbia nascosto una parte dell’arco di scarico di una
porta antica, il che impedisce anche il restauro della porta medesima. Dal lato nord, poi, ha iniziato
altre fabbriche, mentre dalla esistenza della cisterna e di alcuni pilastri risulta evidente che in quel
sito doveva esistere un orto. Con tali elementi tecnici e di fatto e colle altre notizie sullo stato della
pratica, già comunicata, la S. V. Ill. certamente si troverà in grado di poter ristorare le ragioni di
questa Amministrazione dichiarate buone dalla R. Avvocatura di Catania, alla quale con premura
potrà rivolgersi per l’altre notizie legali e difensive. Con la massima osservanza. Il R. Soprintendente” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 66).
30
“Risposta alla Nota N. 209 del 19 Giugno. Vertenza Pollicino. Rometta 18 Agosto 1918. Dagli
atti di questa Arcipretura nulla risulta in merito a quanto V. S. mi chiede con la nota a margine.
Dalle informazioni assunte mi son formato il concetto che è probabile che l’Arciprete Leone Saija
avesse permesso al fratello Pietro Saija, che aveva un orto confinante, l’appropriazione di quel tratto
di terreno. Ma come provarlo? Come già consigliai alla Soprintendenza de’ Monumenti di Messina
torno a suggerire all’Avvocatura Erariale un amichevole componimento della quistione, tanto più
che il Pollicino è disposto, dispostissimo. Con osservanza. Sacerdote Antonino Barbaro Arciprete di
Rometta” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 3-3-25 - allegato). Analizzando la documentazione di questa vertenza, si evince che i notai che stipularono gli atti del 1855 e del 1887 (Francesco
Saija e Andrea Saija, padre e figlio) e i proprietari dei beni limitrofi alla chiesa (Pietro Saija e l’arci230
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
la causa che la Soprintendenza avviò contro Giuseppe Pollicino portò nel 1916
a due sentenze: la prima dispose la demolizione delle opere abusive addossate alla
chiesa; la seconda stabilì che il terreno che un tempo era di proprietà della madre e
del fratello dell’arciprete leone Saija, non poteva essere restituito alla parrocchia31.
prete leone Saija) avevano tutti lo stesso cognome. inoltre, una parte del testamento che fu compilato
nel 1855 da Giuseppa Sindoni, madre di Pietro Saija e dell’arciprete romettese leone Saija, fu registrata il 5 aprile del 1884, cioè 29 anni dopo la sua redazione (si veda la nota 18).
31
“Vertenza Pollicino. Catania, 9 settembre 1916. Regia Soprintendenza ai Monumenti in Palermo. Si rimettono a cotesta Onorevole Soprintendenza gli atti della causa Pollicino. Innanzi al Tribunale vennero svolte due istanze, con una si chiedeva che il Pollicino venisse condannato a demolire
le fabbriche addossate alla Chiesa del SS. Salvatore in Rometta, e con l’altra la restituzione del terreno adiacente alla Chiesa. Il Tribunale, con la sentenza 15-30 maggio 1916, accolse la prima domanda e respinse la seconda. Condannò poi il Pollicino a metà delle spese. Ritiene quest’Avvocatura
che convenga all’Amministrazione accettare la sentenza, ad essa favorevole per il capo principale
della causa, cioè per la demolizione delle fabbriche; mentre la domanda relativa alla restituzione
del terreno (e che venne proposta per iniziativa del Delegato Erariale Crisafulli) sembra insostenibile. Questo in merito alla sentenza. Riguardo poi alle proposte di bonario componimento, avanzate
dal Pollicino, quest’Avvocatura, visto il parere dell’Ufficio Speciale del Genio Civile di Messina,
trascritto nella nota del 26 luglio 1916, non ha difficoltà a che l’Amministrazione addivenga alla
definizione della vertenza, nei sensi espressi in detta nota. Qualora, invece, il Pollicino avanzasse
altre pretese, specie per il terreno da cedere alla Chiesa allora converrebbe notificare, senz’altro, la
sentenza del Tribunale. Però delle pratiche dovrebbe essere informato il Parroco del SS. Salvatore,
a cui appartiene la Chiesa, ed a cui favore si farebbe la cessione del terreno. Si resta in attesa di riscontro. Il Vice Avvocato Erariale Bianca” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 73). le varie
fasi della vertenza Pollicino furono riassunte in un lungo memoriale che, nel periodo compreso tra
il 20 maggio 1915 e il 9 settembre 1916, così riporta: “● 1915, 20 maggio. La Soprintendenza Monumenti di Palermo trascrive all’avvocato Michele Crisafulli la lettera 27 aprile 1915 n. 994, all’avvocato Erariale di Catania la lettera 18 maggio 1915 n. 12/32 di detta avvocatura, gli invia
copia conforme della diffida notificata al Pollicino il 31 dicembre 912, ed un certificato sulla monumentalità della chiesa del SS. Salvatore. ● 1915, 21 maggio. L’avvocato Crisafuli chiede di conoscere
«quale era lo stato delle cose prima delle opere lamentate - che cosa ha praticato il Pollicino». ●
1915, 25 maggio. Il Soprintendente di Palermo risponde che dovendo prossimamente recarsi in Messina si recherà a trovarlo per dargli tutte le informazioni necessarie per la difesa. Gli propone di
fare insieme un sopralluogo. ● 1915, 26 maggio. La Soprintendenza Monumenti Palermo rimette
all’avvocato Crisafulli sette copie conformi di lettere riguardanti la vertenza Pollicino. ● 1915, 27
maggio. L’avvocato Crisafulli aderisce al sopralluogo. ● 1915, 29 maggio. Detto accusa ricezione
delle sette copie conformi. ● 1915, 28 maggio. L’avvocato Crisafulli alla Soprintendenza dei Monumenti scrive che «ritengo che il terreno che circonda la chiesa per una data estensione debba costituire usurpazione» - Consiglia di attingere informazioni dal rettore della Chiesa - e di fare ricerche
al Catasto dal Ricevitore del Registro. ● 1915, 15 giugno. La Soprintendenza Monumenti Palermo
all’avvocato Crisafulli rimette copia dell’atto 1 novembre 1888 in Notar Andrea Saija - con cui D.
Pietro Saija Sindoni fu Michele vende e trasferisce a Giuseppe Pollicino di Francesco un orto con
entro i ruderi di una antica casa ed una cisterna sita in Rometta quartiere Gesù e Maria - Dichiara
che tale orto ed accessori gli pervenne in massima parte dall’eredità materna, ed in minore parte
«per cessione del di lui fratello arciprete D. Leone Saija giusto quell’atto da me notaro rogato lì 28
aprile 1887 qui registrato lì 3 maggio detto anno n. 460». Fa rilevare anche che all’epoca del Sam231
FiliPPo imbeSi
Fu così necessario stabilire un accordo o bonario componimento con Giuseppe
Pollicino, che portò, come ancora oggi si rileva nei luoghi, alla realizzazione di un
edificio posto a cinque metri di distanza dalla chiesa (figure 9, 10) e alla creazione,
sul lato nord, di uno spazio di isolamento largo tre metri che includeva anche una
parte del pozzo o stagnone (figure 16, 17).
nell’accordo, stipulato il 24 luglio 1919, fu anche disposto che la Soprintendenza
ai monumenti di Palermo avrebbe costruito a sue spese il muro settentrionale di isolamento e che Giuseppe Pollicino avrebbe lasciato a disposizione sui luoghi “il matepozzo o
stagnone
Figure 16 e 17. lo spazio di isolamento sul lato nord e il muro di
delimitazione (in parte poi sopraelevato con un edificio) che furono
stabiliti con il bonario componimento. nella parte finale dello spazio
di isolamento, a destra e quasi a ridosso della via ardizzone, è ancora presente il pozzo o stagnone che fu in parte perimetrato con
un basso muro.
chiesa
peri la chiesa chiamavasi Badia Vecchia ed apparteneva alle Benedettine di Basicò di Milazzo e di
Messina - che in seguito i beni di detta chiesa passarono al Municipio di Rometta, il quale nel 1700
li passò all’Ente Parrocchia e soggiunge: «ed ecco perché il parroco dovette usarne come cosa propria». ● 1915, 29 ottobre. La Soprintendenza Monumenti di Palermo all’avvocatura Erariale di Catania chiede di essere informata dell’andamento della vertenza non avendo avuto più alcuna notizia
dall’avvocato Crisafulli. ● 1915, 17 dicembre. L’avvocatura risponde che il delegato Erariale avvocato Crisafulli assicura che la causa sarà trattata all’udienza del 4 gennaio 1916. ● 1916, 5 giugno. La Soprintendenza Monumenti Palermo all’Ufficio Spec. Genio Civile di Messina informa che
il Pollicino fa vive insistenze per venire ad un bonario componimento della vertenza - e prima di riprendere tali bonarie trattative desidera conoscere se crede conveniente di proporre che sia ceduta
alla chiesa una zona di terreno libera di tre metri attorno ai lati Nord ed Est di essa, e ciò senza aggiungere alcuna clausola che possa in qualunque modo compromettere l’Amministrazione relativamente alle norme stabilite dalle leggi relative alla regione terremotata. ● 1916, 17 giugno. L’Ufficio
Spec. Genio Civile di Messina alla Soprintendenza Monumenti di Palermo è di parere che sia conveniente addivenire ad un bonario componimento cioè che sia ceduta alla chiesa una zona di terreno
libera di tre metri senza aggiungere nessuna clausola che possa compromettere l’Amministrazione
relativamente alle Norme obbligatorie nei paesi colpiti dal terremoto. Così facendo il Pollicino sarà
obbligato ai termini art. 207 comma F del T. U. di costruire a distanza di metri cinque dalla Chiesa,
232
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
riale di resulta” delle fabbriche che doveva abbattere32.
la vertenza Pollicino e il bonario componimento alterarono e modificarono irrimediabilmente l’intera area settentrionale prossima alla chiesa, cancellando per sempre importanti tracce storiche e architettoniche.
e qualora contravvenisse non avrebbe alcuna ragione di rivalersi contro l’Amministrazione dei danni
che gli verrebbero in conseguenza di un possibile verbale di contravvenzione. ● 1916, 26 luglio. La
Soprintendenza Monumenti di Palermo all’Avvocato Erariale di Catania riferisce le insistenze del
Pollicino per venire ad un bonario accordo, trascrive la lettera 17 giugno del Genio Civile Uff. Spec.
di Messina e desidera conoscere dall’Avvocatura: 1° se la causa col Pollicino sia stata trattata all’udienza del 4 gennaio 1916 e quale esito abbia avuto; 2° il parere se deve trattare il bonario accordo in base alle proposte sottomesse al Genio Civile. ● 1 agosto 1916. La R. Avvocatura di Catania
alla Soprintendenza Monumenti dice che il delegato Erariale Sig. Crisafulli con lettera 3 Luglio
1916 comunicò che l’Amministrazione era risultata vittoriosa e che con lettera 12 Luglio detto si invitò il Sig. Crisafulli a rimettere copia del dispositivo della sentenza, il che non avea fatto. ● 9 settembre 1916. La R. Avvocatura di Catania alla Soprintendenza rimette gli atti della causa Pollicino.
Fa osservare che al Tribunale vennero fatte 2 istanze: una per demolizioni delle fabbriche e l’altra
per restituzione del terreno adiacente alla Chiesa. Il Tribunale accolse la 1° e respinse la 2° - l’avvocatura ritiene che convenga accettare la sentenza per le demolizioni, del terreno, e crede che la
domanda per la restituzione del terreno sembra insostenibile. Per le proposte di bonario componimento visto il parere del Genio Civile non ha difficoltà che l’Amministrazione addivenga alla Definizione bonaria della vertenza nei tempi espressi nella lettera del 17 Giugno 916 del Genio Civile.
Qualora il Pollicino avanzasse converrebbe notificare senz’altro la sentenza del Tribunale. In questo
caso avverte di informare il Parroco del S. Salvatore a cui appartiene la Chiesa e al cui favore si farebbe la cessione del terreno” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 73 - allegato). la prima
parte di questo memoriale è riportata nella nota 27.
32
“L’anno millenovecentodiciannove, il giorno ventiquattro del mese di Luglio in Rometta. Innanzi a me con la presente scritta privata si sono presentati il Sig. Cav. Ing. Francesco Valenti Direttore del R. Ufficio Monumenti di Messina e provincia, ivi domiciliato, autorizzato alla stipula del
presente atto dall’On. Ministero dell’Istruzione giusta dispaccio del giorno due Maggio millenovecentodiciannove numero 5119; e dall’altra il Signor Pollicino Giuseppe fu Francesco domiciliato e
residente in Rometta, i quali addivengono al presente contratto per la cui migliore intelligenza si
premette in fatto quanto appresso. La Chiesa del SS. Salvatore (detta di Gesù e Maria) in Rometta,
raro esempio di costruzione di epoca bizantina in Sicilia, per il suo valore storico-archeologico-artistico è sottoposta alle disposizioni della legge 20 Giugno 1909 N. 364. Il Signor Pollicino, intanto,
in diverse volte, ma in epoche recentissime ebbe a costruire delle fabbriche addossandole alla Chiesa
stessa. L’Amministrazione delle Belle Arti, rappresentata prima dal R. Soprintendente ai Monumenti
in Palermo, e poscia dal locale Direttore dei Monumenti in Messina, allo scopo di garantire l’insigne
Monumento, con atto del nove novembre 1915 chiamò in giudizio innanzi al Tribunale di Messina il
Signor Pollicino chiedendo che lo stesso venisse condannato a demolire infra un breve termine ogni
opera come sopra praticata in ispreto alle disposizioni del Codice Civile e delle leggi speciali, e rilasciare il terreno usurpato. Il Tribunale aditò con sentenza 15-30 Maggio 1916, mentre respinse la
domanda tendente al rilascio di terreno, così, per il resto della contestazione decise: accoglie per
quanto di ragione la domanda proposta dal Soprintendente ai Monumenti con atto di citazione 9 novembre 1915, ed all’effetto ordina la demolizione della fabbrica del convenuto posta a distanza non
maggiore di metri due e cinquanta dai muri della Chiesa di Gesù e Maria di Rometta, da eseguirsi
tale demolizione entro il termine di due mesi dal passaggio della presente in giudicato. Condannò il
233
FiliPPo imbeSi
Anche la chiesa ricevette stravolgimenti e modifiche con tre inopinati interventi
che furono effettuati tra il 1913 e il 1927.
le modifiche operate nella chiesa da Francesco Valenti
Fondamentali modifiche nella chiesa furono prodotte a partire dal 1912, quando
il nuovo arciprete Antonino barbaro, in occasione della denuncia delle opere abusive
di Giuseppe Pollicino, aveva chiesto alla Soprintendenza “i restauri della tettoia”33.
Pollicino a metà delle spese a favore dell’Amministrazione. Di seguito a tale sentenza che non venne
mai notificata perché nessuna delle parti intendeva accettarla, si svolsero diverse pratiche di bonaria
definizione della vertenza, pratiche che non ebbero buon esito. Più tardi, in base a nuove proposte
fatte a mezzo del locale Arciprete Rev. Antonino Barbaro, l’Amministrazione sentito il parere della
R. Avvocatura Erariale di Catania giusta nota del 23 gennaio 1919 N. 12532 ha deciso di accogliere
le proposte di bonario componimento, e pertanto fra le parti sopraindicate, oggi si conviene e stabilisce quanto appresso: 1° Il signor Giuseppe Pollicino si obbliga costruire il suo edificio ad una
distanza non minore di metri tre dal muro perimetrale della Chiesa che guarda settentrione, e precisamente dove esiste la cisterna. Il Signor Pollicino si obbliga perciò abbattere le fabbriche che si
possono trovare dentro lo spazio di tre metri, esclusa però la cisterna che rimarrà nello stato in cui
si trova, anche se ad una distanza minore di tre metri. Però il Pollicino non potrà fare uso della cisterna, se non dal lato della sua proprietà, e cioè nello spazio che resta oltre i tre metri dal muro
della Chiesa. 2° Sarà facoltà del Signor Pollicino di aprire nel suo edifizio delle finestre senza sporti
o davanzali, purchè munite di grata di ferro, ma senza invetriata fissa, ed a qualsiasi altezza dal
suolo o dal pavimento. 3° Il Signor Pollicino si obbliga distaccarsi dal muro perimetrale della Chiesa
di Gesù e Maria che guarda levante metri cinque, e quindi si obbliga demolire a sue spese tutte le
costruzioni che dentro detto spazio ha costruite, e che allo stato si appoggiano alla chiesa sudetta,
e precisamente sino alla parte della casa già completata che rimarrà invece nello stato in cui attualmente si trova. 4° Il terreno che rimarrà nello spazio di tre metri dal muro a tramontana e di
cinque dal muro a levante della Chiesa rimarrà nel libero uso dell’Amministrazione e questa si obbliga costruire a sue spese il muro di clausura, secondo arte richiede per simili costruzioni, e per
l’altezza di metri due e lo spessore o grossezza di centimetri cinquanta. Il Pollicino dovrà lasciare
a disposizione dell’Amministrazione tutto il materiale di resulta per l’abbattimento delle fabbriche
sopraindicate; mentre l’Amministrazione faculta il Pollicino a sopraelevare, ove lo creda, sui detti
muri di clausura. 5° Le demolizioni che dovranno eseguirsi dal Pollicino, giusta quanto precedentemente si è detto, dovranno eseguirsi infra due mesi dal giorno in cui la Soprintendenza gli avrà
comunicata l’approvazione del presente contratto. In caso contrario rimane facultata l’Amministrazione ad eseguire le dette demolizioni, a spese e per conto del Pollicino. Le parti rinunziano a tutt’altre domande ed eccezioni proposte nel giudizio, e si dichiarano compensate reciprocamente le
relative spese, e quindi il Pollicino non dovrà corrispondere le spese prenotate a debito. Il presente
contratto nell’esclusivo interesse dell’Amministrazione è sottoposto alla Superiore approvazione e
prescritta registrazione giusta l’articolo 110 del Regolamento per l’Amministrazione del patrimonio
e per la Contabilità generale dello Stato. Si approvano le delete 1 e 2 della prima facciata. Pollicino
Giuseppe Ing. Francesco Valenti Direttore Uff. Monumenti nel nome. Autentica di firma. Numero
del Repertorio 3179. Vittorio Emanuele Terzo per grazia di Dio e per volontà della Nazione” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, fogli sciolti).
33
Si veda la nota 20. i documenti pubblicati in questo saggio che descrivono le opere eseguite
nella chiesa dal 1913 al 1927 e la vertenza Pollicino, sono oggi custoditi presso l’Archivio storico
della Soprintendenza di messina in un fondo inedito (Chiesa SS. Salvatore detta di Gesù e Maria,
234
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
la sua istanza portò nel maggio del 1913 a una perizia preventiva e a una relazione
dell’architetto Valenti con le quali, dopo aver attestato che i recentissimi interventi
fatti dell’arciprete barbaro sulle coperture della chiesa non avevano prodotto effetti
positivi, fu manifestata la necessità di realizzare urgenti opere di isolamento. la relazione che accompagna i lavori fa risaltare la convinzione di Francesco Valenti che
il monumento fosse stato anticamente una chiesa bizantina (dotata “della protesi e
del diaconico”, poi trasformati nei “sacrari posti ad occidente”), in cui erano presenti una moderna “porta d’ingresso rivolta a ponente”, tre ingressi “tompagnati
nel fronte rivolto ad oriente” e una “cupola emisferica che impostava direttamente
sul tamburo cilindrico senza pennacchi” attorniata da un “ottagono circoscritto alla
stessa”34. (figure 18, 19, 20)
Vertenza Pollicino per una costruzione abusiva addossata alla chiesa; lavori di riparazione, isolamento e restauro, n. corda 58.3) che contiene, in parte, gli stessi documenti che sono custoditi nel
cosiddetto fondo Valenti della biblioteca Comunale di Palermo e che sono stati pubblicati per la
prima volta dall’architetto Alessandro Di bennardo (Di bennArDo 2009; Di bennArDo 2017, pp.
127-153).
34
“R. Soprintendenza dei Monumenti in Palermo. Provincia di Messina antichità di Rometta.
Lavori urgenti per la rifazione dei battuti dei lastrici terrazzi di copertura della pregevole chiesa
del SS. Salvatore, detta di Gesù e Maria in Rometta. Relazione. La chiesetta di S. Salvatore, detta di
Gesù e Maria in Rometta, è certamente per la sua caratteristica costruzione un monumento di eccezionale importanza. Benché ricoperta internamente di moderno intonaco rivela subito la sua struttura
arcaica: la pianta è una croce greca perfetta inserita in un quadrato di m. 14,60 di lato che ne forma
il perimetro esterno. I quattro bracci uguali coperti da volte a botte determinano all’incrocio il campo
circolare sul quale si eleva la cupola emisferica che imposta direttamente sul tamburo cilindrico
senza pennacchi. L’assenza di questi e la duplice curvatura degli archi su cui si eleva il tamburo
sono rari esempi dell’architettura delle chiese primitive della Sicilia. I quattro spazi che restano agli
angoli del quadrato costituiscono altrettanti corpi quadrati coperti da volte a crociera di sesto ogivale
poco pronunziato. Quelli del lato occidentale conservano nella parte di fondo due graziosi sacrari
terminati superiormente da un aggiustamento a frontone di forma classica. Indubbiamente l’attuale
porta d’ingresso rivolta a ponente è moderna poiché la chiesetta dovea avere tre ingressi oggi tompagnati nel fronte rivolto ad oriente. Così viene a determinarsi per i due corpi con i sacrari l’ufficio
della protesi e del diaconico. Il forte spessore dei muri (ottanta centimetri) e la limitata altezza della
costruzione cioè m 6,00 pei corpi angolari, e m 10,00 massimo alla sommità della cupola la salvarono
dai danni prodotti dal tremuoto del 28 Dicembre 1908, ma l’azione dell’acqua piovana che s’infiltra
abbondantemente dai lastrici terrazzi di copertura e cola all’interno attraversando le masse murali
tende a disgregare le murature. Recentemente l’arciprete di Rometta nell’intento di riparare le coperture fece rivestire d’intonaco di cemento la cupola, i paramenti esterni dell’ottagono circoscritto
alla stessa e le terrazze attorno. Ma i lavori non riuscirono: l’intonaco non aderendo alle murature
si è screpolato e le acque piovane intaccandosi nelle intercapedini filtrano all’interno gocciolando
sempre anche molto tempo dopo che cessano le piogge. Si è perciò compilata la perizia allegata
nella quale i lavori principali sono: 1° lo scostamento generale dell’impianto di cemento inopportuno
e deteriorato. 2° Il taglio del materiale moderno di riempimento che trovasi sul sottostrato dei lastrici
terragni per sostituirlo con buon calcestruzzo di calcare in malta semidraulica in maniera da ottenere
l’impermeabilità e dare le opportune pendenze per arrivare le acque alle grondaie antiche di cui si
vedono le vestigia. 3° Il battuto di minutissimi frantumi laterizi con malta di calce grossolana e sottile
235
FiliPPo imbeSi
Figure 18 e 19. Il prospetto meridionale e quello orientale della chiesa prima degli interventi che furono
realizzati da Francesco Valenti (soprIntendenza messIna, n. 56.2).
Figura 20. Il prospetto orientale della chiesa prima degli interventi che furono realizzati da Francesco
Valenti (dI Bennardo 2017, p. 137).
236
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
il computo metrico che fu allegato alla perizia preventiva evidenzia imprecisioni
e molto pressapochismo, soprattutto per la descrizione di “otto finestre” nelle pareti dell’ottagono (in realtà quattro, evidenziate anche da numerose fotografie) e
per le aleatorie e vaghe descrizioni del “materiale moderno” e delle parti ritenute
antiche35.
i lavori, iniziati dopo l’approvazione della perizia da parte del ministero dell’istruzione e dopo varie procedure e rettifiche, furono eseguiti dall’appaltatore
“Giovanni Cardillo” (con supplente “Luigi Cardillo”) e si conclusero il 15 novembre del 1913.
in aggiunta alle lavorazioni commissionate fu anche “eseguito lo stonaco delle
pareti e delle volte nell’interno della chiesa” che portò al rinvenimento di “un affresco antico rappresentante la Madonna col Bambino”36. (figura 28)
curato a perfezione sino a che non presenti screpolature per rimestare tanto la cupola che i terrazzi
a pie’ dell’ottagono. Il paramento dell’ottagono non aveva originariamente intonaco e perciò se ne
lascerà visibile la struttura antica di pietrame calcareo e mattoni. È pertanto urgente di eseguire i
lavori prima che sopravvenga la stagione estiva per assicurare un ottimo risultato agli impasti e ai
battuti. La spesa prevista è di £ 1681.32 oltre a £ 158.68 per impreveduti e lire 160 per un assistente
straordinario. Lì 7 maggio 1913. L’architetto Francesco Valenti” (SoPrintenDenzA meSSinA, n.
58.3, doc. 4, minuta 2).
35
il computo metrico, con l’atto di sottomissione, che fu allegato alla “Perizia preventiva dei lavori per la rifazione dei battuti e lastrici terrazzi di copertura della pregevolissima Chiesa del SS.
Salvatore in Rometta”, recante la data “7 marzo 1913” e redatto dall’architetto Francesco Valenti,
prevedeva i seguenti lavori: “Scrostamento generale dello strato di malta di cemento lesionato che
riveste tutta la superficie con gradini formante la copertura della cupoletta centrale, nonché dei lati
esterni dell’ottagono che sostiene detta cupola e della pavimentazione soprastante le otto volte”,
“Scrostamento delle pareti dell’ottagono dove trovansi le otto finestre cercando di non danneggiare
l’opera antica e ripulendo la muratura originaria”, “Scrostamento come al N. 1 nella superficie
del terrazzo di copertura delle otto volte”, “Taglio e sgombro del materiale moderno allo spessore
medio di 0,20 che trovasi sotto lo strato di cemento lesionato formante il sottostrato del lastrico terrazzo sulle dette volte”, “Calcestruzzo di pietrisco calcareo minuto delle cave della contrada Serro
e malta semidraulica di calce e pozzolana da distendere e ben pigiare sulle volte del terrazzo” per
“regolare le pendenze e preparare il sottostrato”, “Battuto da eseguirsi con minutissimi frantumi
laterizi”, “Zana di gocciolatoio da formare in prolungamento dell’ultimo piano inclinato che sta
sulle pareti verticali dell’ottagono con cornicetta a forma di ovolo di altezza circa 0,10 come quella
antica barbaramente tagliata”, “Tubi in argilla per raccogliere le acque piovane e scaricarle nella
strada da collocare nei solchi antichi al posto delle antiche linee di gronda” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 4, minuta 1). Su questi lavori si vedano: Di bennArDo 2009, pp. 55-71; Di bennArDo 2017, pp. 132-138.
36
“Illustrissimo Signor Ispettore Monumenti Messina. Messina 16 Novembre 1913. Informo V.
S. che in data di ieri 15 andante ho terminato i lavori di riparazione alla chiesa di Gesù e Maria in
Rometta. Venne inoltre eseguito lo stonaco delle pareti e delle volte nell’interno della chiesa stessa,
mettendo in evidenza un affresco antico rappresentante la Madonna col Bambino; nella parte bassa
del pilastro a sinistra entrando. Con ciò si dimostra chiaramente che originariamente la chiesa era
intonacata non solo ma anche decorata. Tanto per norma della S. V. Con ogni osservanza Devot.
Firmato Giovanni Cardillo” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 21, allegato).
237
FiliPPo imbeSi
nel conto finale dei lavori - ammontante in totale a “₤ 1803.12” (anziché le preventivate l. 2000.00), munito del certificato di regolare esecuzione, recante la data
“5 maggio 1914” e vistato dall’architetto G. rao (direttore della Soprintendenza ai
monumenti di Palermo) e dall’architetto Francesco Valenti - scomparvero alcune
erronee e grossolane descrizioni della perizia preventiva e furono stornate e rettificate alcune lavorazioni e gran parte delle originarie quantità previste37.
l’isolamento delle coperture diede avvio al restauro della chiesa e al recupero
del suo spazio circostante, in cui ancora ricadevano le opere abusive di Giuseppe
Pollicino, che furono richiesti con urgenza alla Soprintendenza da Francesco Valenti
nel dicembre del 191338.
il “Conto finale dei lavori eseguiti dall’impresario sig. Giovanni Cardillo per la rifazione dei
battuti dei lastrici terrazzi di copertura della pregevolissima Chiesa del SS. Salvatore detta di Gesù
e Maria in Rometta” riporta le seguenti voci: “Scrostamento dello strato di malta di cemento lesionato
che rivestiva la superficie con gradini formante la copertura della cupoletta centrale e della pavimentazione soprastante le otto volte e sgombro dei materiali”, “Scostamento delle pareti dell’ottagono su cui imposta la cupola con accuratezza per mettere in evidenza l’opera antica”,“Taglio e
sgombro del materiale moderno che trovavasi sotto lo strato di cemento lesionato formante il sottostrato e dare le pendenze originarie”, “Calcestruzzo di pietrisco minuto delle cave della contrada
Serro e malta di calce e pozzolana per regolare le pendenze e preparare il sottostrato al battuto”,
“Muratura di mattoni pantofoloni uso Livorno per formare la parte rilevata del bordo sui muri della
Chiesa”, “Battuto eseguito con minutissimi frantumi laterizi allo spessore medio di m. 0,05, impastato
con malta di calce pozzolana e sabbia grossa”, “Zana di gocciolatoio con cornicetta sagomata a
forma di ovolo di altezza circa m. 0,10 formata con getto di cemento e ghiaietta minutissima”, “ N.
3 tubi di argilla per lo sbocco delle gronde del coperto”, “Ponticelli speciali di servizio occorsi nei
diversi tratti della cupola” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 4, minuta 6).
38
“Per l’isolamento della chiesa bizantina del S.S. Salvatore in Rometta. Illustrissimo Soprintendente dell’Ufficio dei Monumenti Palermo. Palermo, 22 dicembre 1913. Rendo noto alla S. V.
Ill.ma che i lavori per la rifazione dei lastrici terrazzi di copertura della pregevolissima Chiesa del
S.S. Salvatore detta di Gesù e Maria in Rometta, eseguiti dall’assuntore Sig. Giovanni Cardillo in
base alla perizia 7 maggio 1913, sono stati ultimati. Lo scrostamento dei paramenti interni ha posto
in evidenza solo un resto di pittura murale molto danneggiata, nello smusso nord-ovest, del quadrato
su cui imposta la cupola. Dalla fattura e dal disegno sembrami resto di affresco originario raffigurante la Madonna col bambino in grembo a grandezza naturale. Or data l’importanza storica del
monumento è urgente porlo in buon assetto riaprendo le porte e le finestre antiche. Per raggiungere
questo scopo e per evitare ulteriori deterioramenti alle fabbriche antiche occorre: 1° Scrivere al comune perché esso faccia eseguire lo sturamento di tutto il materiale depositato nel piazzale davanti
la facciata principale est, dove ha creduto stabilire un pubblico scarico, con grave danno del monumento che ne soffre pel terrapieno addossatosi. 2° Completare le pratiche per isolare il monumento
dai lati nord ed est, dove il proprietario Giuseppe Pollicino ha cominciato delle fabbriche in un orto
che formava confine da questo lato. Le costruzioni arbitrariamente fatte addossandole al monumento
non permetterebbero il restauro delle finestre del lato nord (B e C della pianta) e deturpano la visuale
dello stesso. Dal lato sud esse sconfinano dall’allineamento e si sovrappongono per m 2,15 alla cantonata nord est del monumento dove si trova una sostruzione di muro antico. Il Pollicino con le sue
fabbriche (per ora alte all’interno circa m. 2,00) non ha nemmeno rispettate le distanze prescritte
dalla legge comune. Quanto allo spazio di terreno che sta davanti i lati sud ed est della Chiesa, è da
ritenere che esso dovea formare un recinto chiuso appartenente alla Chiesa stessa le cui tre porte
37
238
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la perizia preventiva della seconda fase dei lavori, redatta il 30 luglio 1919 dopo
il bonario componimento e approvata dal ministero dell’istruzione “con decreto ministeriale 22 agosto 1919”, prevedeva esternamente, a nord, la realizzazione del
muro di confine con la proprietà Pollicino (per il quale doveva essere impiegato
anche il pietrame “ricavabile dalle demolizioni delle fabbriche moderne” della
chiesa) e le opere per il consolidamento della cisterna o stagnone e per la divisione
della sua proprietà. le lavorazioni nella chiesa, invece, secondo le considerazioni
di Francesco Valenti, riguardarono soprattutto la demolizione della decorazione
esterna che si elevava nel prospetto ovest, il ripristino (“con doppio ordine di mattonacci”) della cornicetta del tamburo ottagonale, la chiusura della porta di accesso
sul lato ovest, la riapertura delle tre porte poste ad est e delle finestre laterali, il “Restauro degli altari della protasi e del diaconico” e gli interventi atti a “conservare
i resti di pittura antica” che si vedevano “in qualche punto delle pareti”39.
antiche, ora murate, erano rivolte ad oriente. Le sostruzioni antiche dei muri del recinto (a e b) lo
dimostrano chiaramente. Ivi, sono dei loculi antichi come riferisce il Sig. Arciprete. Per tale concetto
fu impedito al proprietario della fabbrica a sud (Concetta Midiri) di aprire la porta (A) di uscita nel
piazzale. Invece il Giuseppe Pollicino ha eseguito due vani di porta nel muro sud della nuova costruzione per uscire nel piazzale. Tanto comunico alla S. V. Illustrissima per le pratiche di seguito.
L’architetto F. Valenti” (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 23). Per la planimetria descritta da
Francesco Valenti si veda la figura 15.
39
il “Progetto dei lavori urgenti per l’isolamento e il restauro della Chiesa bizantina del SS. Salvatore (detta di Gesù e Maria) in Rometta. Perizia preventiva”, recante la data “30 luglio 1919”, redatto da Francesco Valenti e vistato dallo stesso Valenti come soprintendente, ammontava in totale a
“diecimilacinquecento” lire (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, doc. 3-3-25, allegato 2). i lavori
previsti furono divisi in due capitoli. il primo (“Lavori per l’isolamento della Chiesa dai lati nord
ed est nonché per la formazione del recinto stabilito in base al bonario componimento stipulato il
24 Luglio 1919 fra l’Amministrazione Antichità e Belle Arti ed il Signor Giuseppe Pollicino”) prevedeva le seguenti fasi:“Spianamento di roccia da eseguirsi al confine della proprietà Pollicino, a
nord del monumento per impiantarsi il muro di chiusura”, “Muratura di mattoni pantofoloni uso
Livorno e malta di calce, sabbia e miscela di cemento per la formazione di un arco a sesto ribassato
da impostare sulla spalla ovest della cisterna al confine di proprietà Pollicino e nel muro moderno
della casa Pollicino per sovrastare il moto della cisterna e sostenere il peso del muro di cinta”, “Muratura di mattoni pantofoloni” (“per la formazione dei cantonali del muro di cinta”), “Muratura di
pietrame del luogo ricavabile dalle demolizioni delle fabbriche moderne da farsi nella Chiesa monumentale, di cui appresso, e malta ordinaria per la formazione del muro di cinta dello spazio d’isolamento a nord del monumento”, “Muratura di pietrame come al N. 4 per il secondo tratto di muro
di cinta più ad est, dove il suolo si abbassa, e sino ad attaccare col corpo di fabbrica moderno della
casa Pollicino che rimane integra in base al bonario componimento”, “Conformazione del suolo in
pendenza verso est per avviare le acque verso lo spiazzale e per la formazione dei gradini dove il
terreno fa un salto”. il secondo capitolo del computo (“per restauro del monumento”) prevedeva le
seguenti lavorazioni: “Demolizione del muro moderno che sopraelevasi sul lato ovest del monumento
e trasporto del materiale a spalla nel terreno a nord per servire alla costruzione del muro di recinto”,
“Muratura con mattoni pantofoloni e malta di calce e cemento” e “Impasto di coccio pesto allo
spessore di 0.10 e malta di calce” (“per confromare il ciglio del muro dopo detta demolizione” e
“per renderlo impermeabile”), “Smalto di minutissimi frantumi laterizi curato per diversi giorni
239
FiliPPo imbeSi
Figure 21, 22, 23. da sinistra: un arco a testa di chiodo dopo la stonacatura, l’altare dedicato a s. antonino
prima dei lavori interni e una delle finestre della sala cupolata (soprIntendenza messIna, n. 56.2).
per sistemare il lastrico terrazzo dal lato ovest dopo la demolizione del muro moderno sopraelevato”), “Sistemazione delle gronde che trovansi incastrate nel muro sud e immettono l’acqua nella
cisterna”, “Scostamento dell’intonaco in cima al tamburo ottagonale della cupola e ripristino della
cornicetta originaria con doppio ordine di mattonacci a tegola adoperando mattoni speciali simili
a quelli degli archi sulle aperture del monumento”, “Per il lavoro occorrente nel tamburo della cupola all’oggetto di porre in buon assetto le quattro finestre antiche”, “Muratura di pietrame del
luogo, mista a schegge di laterizi, imitando la tecnica antica per chiudere il vano di porta moderna
che trovasi nel lato ovest del monumento e che serve in atto per ingresso alla Chiesa, la quale invece
ha gli ingressi originari dal lato orientale”, “Demolizione accuratissima della muratura moderna
che chiude i seguenti vani antichi mettendo in evidenza le spalle monumentali e curando di non danneggiare i particolari architettonici originari” (“Porta principale d’ingresso ad oriente”, “Porte
laterali”, “Finestre dal lato nord”, “Per le due finestre rimaste nel lato sud essendo stata quella
centrale modificata per la costruzione di una porta posteriore del secolo XIV”, “Per le quattro finestre interne che si aprono nei muri intermedi formando i bracci della croce nel senso est-ovest”),
“Per il ripulimento accurato degli sguanci e delle soglie delle dette finestre”, “Demolizione dell’impalcatura moderna che trovasi nel braccio di croce ad ovest nonché dello altare moderno che
trovasi nel braccio di croce ad est e degli altarini agli estremi del braccio di croce normale al precedente”, “Taglio di terra nel piazzale per sistemare le pendenze per lo scolo delle acque ed abbassare il piano esterno in correlazione col livello del pavimento interno originario della Chiesa e
sgombro del materiale”, “Demolizione del pavimento moderno di mattoni di cemento che trovasi
nella Chiesa nelle due braccia della croce e sgombro dei materiali”, “Ripristino del pavimento in
carattere con mattonacci speciali” (nei “due bracci di croce” e nei “quattro corpi angolari”), “Porte
di legno castagno a due mezzine a larghe doghe”, “Trafori nelle finestre della cupola e nelle finestre
dei muri nord e sud della Chiesa”, “Restauro degli altari della protasi e del diaconico completando
la muratura della mensa e ripristinando gli appoggi dei frontoni che stanno sugli armadietti per la
conservazione degli arredi sacri e del pane”, “Ripristino dell’ara antica nel braccio di croce ad
ovest dove verrà abolita la porta d’ingresso per ripristinare il santuario originario eseguendo il lavoro con muratura di conci intagliati simili a quelle delle mense antiche della protasi e del diaco240
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
Gli interventi previsti, che con modifiche operative appaiono anche in una “bozza
privata” del 1924 (priva di visti e firme)40, produssero ostacoli per la pulizia del
nico”, “opere di completamento dell’ara per la parte superiore sagomata”, “Per ulteriori scostamenti e riprendimenti nell’interno del monumento, per mettere meglio in evidenza l’opera a mattoni
degli archi e per conservare i resti di pittura antica che si vedono in qualche punto delle pareti”
,“Per ponti di servizio occorrenti per i sudetti lavori”. la perizia fu approvata dal ministero dell’istruzione “con decreto ministeriale 22 agosto 1919”. Su questi lavori si vedano: Di bennArDo
2009, pp. 72-90; Di bennArDo 2017, pp. 139-147.
40
la rendicontazione (“Misura dei lavori eseguiti dallo assuntore Signor Ignazio Cardillo di
Giovanni per l’isolamento e il restauro della Chiesa bizantina del SS. Salvatore detta di Gesù e
Maria in Rometta”), ammontante a “diecimilaquattrocentonovantadue” lire e recante la data “giugno
1924”), fu divisa in due parti (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, fogli sciolti). la prima (“Lavori
eseguiti per l’isolamento della Chiesa dai lati nord ed est nonchè per la formazione del recinto stabilito in base al bonario componimento stipulato il 24 luglio 1919 fra l’amministrazione delle Antichità e Belle Arti e il Signor Giuseppe Pollicino proprietario dello stabile a settentrione del
monumento”) descrive i seguenti lavori: “Taglio di roccia in taluni posti molto emergenti e spianamento generale eseguito nella zona larga m 0.70 al confine di proprietà Pollicino per ottenere il
piano di fondazione del muro divisorio a nord del monumento nella posizione stabilita dalla transazione”, “Muratura con pietrame di tufo calcareo listata a doppio filare di mattoni e malta ordinaria,
conformando i tratti degli stipiti di finestre in corrispondenza dei vani abbisognevoli al Pollicino,
per la costruzione del muro a nord del monumento all’oggetto di recingere la zona d’isolamento”,
“Conglomerato di ghiaietta e cemento per la formazione di una trave di cemento armato occorsa
per scaricare la volta della cisterna che trovasi sulla linea del muro di confine”, “Ferri tondini di
millimetri 18 per l’ossatura principale della trave e ferri tondini di mm 8 per le staffe dell’armatura”,
“Muratura di grossi mattoni speciali e malta di calce, sabbia e cemento compresa l’informatura per
formare uno scarico sulla trave di cemento armato e porre al sicuro il muro di confine anzidetto che
per un’estesa zona grava sul vuoto della sottostante cisterna”, “Muratura di mattoni pantofoloni
posti in piano” (“per circoscrivere il collo della cisterna che viene a ricadere sotto il muro di confine”), “Demolizione di tratti di muri moderni nel terreno a nord del monumento e all’angolo est
della piazza per liberarlo dai manufatti che ne disturbano la visuale e sgombro dei materiali con
carri”, la seconda parte della rendicontazione (“Lavori per restauro del monumento”) riporta i seguenti interventi: “Demolizione accuratissima delle sopraelevazioni di muratura moderna che trovavansi sul fronte ovest del monumento e formavano un prospetto barocco nel lato occidentale da
dove si accedeva alla chiesa quando furono chiuse le porte originarie del lato orientale oggi ristorate
all’antica funzione”, “Muratura mista di pietrame e mattoni eseguita sul dorso del muro dopo la
demolizione su descritta”, “Impasto di cocciopesto allo spessore di centimetri dieci” (“per la protezione del dorso di muro anzidetto”), “Taglio della muratura moderna e dismissione di due grondaie
vecchie che trovavansi incastrate nel fronte sud del monumento”, “Ricostruzione delle dette grondaie
con nuovi tubi di argilla incastrati nei solchi su descritti”, “Ripristino della muratura sul fronte degl’incavi delle dette grondaie imitando la tecnica antica”, “Demolizione accuratissima della muratura moderna che chiudeva i rami originari d’ingresso alla Chiesa rivolti ad oriente”, “Demolizione
di un’impalcatura di legno moderno che si trovava in fondo al santuario cioè dietro la porta settecentesca oggi murata”, “Muratura di pietrame del luogo mista a scheggie di mattoni, imitando la
tecnica antica, per rinsaldare il muro ovest del monumento, chiudendo l’apertura moderna che trovavasi nel centro di quella parete”, ”Archi ribassati eseguiti ad incastro con conci di pietra tufacea
grigia alternati con triplo assestamento di mattoni speciali fatti eseguire su misure, per ripristino di
241
FiliPPo imbeSi
piazzale esterno da parte del comune41, difficoltà per la realizzazione del muro che
doveva dividere dalla proprietà Pollicino42 e critiche alle opere che si stavano eseguendo43.
l’ultima fase dei lavori fu dapprima avviata con una “Perizia preventiva di ulteriori lavori occorrenti nella Chiesa bizantina del SS. Salvatore”, redatta il 26 maggio
1927 e avente un importo di “L. 15000.00”. il progetto, finanziato dal ministero
quelli antichi deturpati che formano discarico e decorazione degli architravi delle porte d’ingresso
alla Chiesa, poste in evidenza in seguito alle demolizioni delle murature moderne che le chiudevano”,
“Imposte di legno castagno a due battenti con ossatura generale a riquadri formanti cassettoni con
bordo sagomato, “Taglio di terra parziale eseguito nel piazzale davanti gl’ingressi ripristinati dal
lato orientale per conformare le giuste pendenze per lo smaltimento delle acque piovane”,“Ponti di
servizio” (per l’interno e per l’esterno).
41
nel gennaio del 1918 fu fatto presente al sindaco di rometta che era necessario liberare lo
spiazzale antistante la chiesa dai materiali di rifiuto presenti (“Messina, 23 gennaio 1918. Rometta
– Chiesa del SS. Salvatore detta di Gesù e Maria. Sgombro di materiali di rifiuto dal piazzale ad
Est. Illustrissimo Signor Sindaco Rometta. Nella ispezione da me eseguita recentemente in cotesta
chiesa Monumentale del SS. Salvatore, detta di Gesù e Maria, ho constatato che il piazzale davanti
la facciata principale Est della chiesa è usato come pubblico scaricatoio. Poiché i materiali di rifiuto
che vi sono accumulati da tempo hanno formato un terrapieno addossato all’importante Monumento,
al quale reca grave sconcio e danno, questa Direzione interessa vivamente la S. V. Ill.ma a volere
ordinare, come l’urgenza del caso richiede, lo sgombero immediato di tutti i materiali di rifiuto, sino
a ritrovare l’antico piano del piazzale, che questo Ufficio, data l’alta importanza storica del Monumento, si propone di restituire alla sua funzione originaria. Sarò grato a V. S. di un cortese cenno di
assicurazione del provvedimento. Con perfetta osservanza. Il Direttore”; SoPrintenDenzA meSSinA,
n. 58.3, num. 34). lo spiazzale fu sgomberato dai materiali di rifiuto, dopo varie richieste, con l’intervento del Prefetto.
42
Giuseppe Pollicino, in un primo momento, pretese di ridurre la larghezza (m 3.00) del terreno
che secondo il bonario componimento doveva separare la chiesa dalla sua proprietà, come riferiva
in una lettera l’impresario Giovanni Cardillo (“Messina, 14/10/1923. Ill.mo Sig. Commendatore.
Giuste Sue istruzioni avevo disposto la costruzione del muro d’isolamento della Chiesa di Gesù e
Maria in Rometta con la proprietà Pollicino, a tre metri di distanza dalla Chiesa stessa, cioè lasciare
una striscia di terreno libero di ml. 3.00 e lo spessore del muro oltre. Sento ora dai miei operai che
il Sig. Pollicino si oppose a detta costruzione intendendo avere costruito il muro infra i tre metri
vale a dire lasciare una striscia di terreno libero di ml. 2.50 anziché di ml. 3.00. Il Reverendissimo
Canonico Barbaro che in atto trovasi a Rometta aveva quasi aderito alla richiesta di Pollicino tanto
che aveva detto ai miei operai di eseguirlo a m. 2.50 assumendone le responsabilità. Però è naturale
che in atto tutto è sospeso e nulla si è eseguito. Vi premuro perciò informare V. S. per darmi con
qualche sollecitudine istruzioni sul riguardo. Con Osservanza Devotissima Giovanni Cardillo”; (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, fogli sciolti). Con un telegramma del 16 ottobre 1923, Francesco
Valenti ordinò il mantenimento della distanza (3 metri) che era stata stabilita nell’accordo del 1919.
43
il 7 novembre del 1923 la “Gazzetta di Messina e delle Calabrie” criticò con un articolo i
lavori che si stavano eseguendo nella chiesa (“Onorevole Soprintendenza Monumenti Palermo. Messina, 7 novembre 1923. Urgente. La Gazzetta di Messina e delle Calabrie nel numero odierno - che
accludo alla presente - fa una critica aspra ai lavori che presentemente si eseguono nella chiesa monumentale in oggetto. Conoscendo la provata capacità tecnica e la scrupolosa diligenza dell’assuntore dei lavori Sig. Giovanni Cardillo nell’eseguire restauri nei Monumenti, una critica così aspra
242
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
dell’istruzione l’8 giugno 1927 e in cui si descrivono i “resti di pittura antica che
si trovano in vari punti delle spalle della cupola dell’intradosso di questa e negli
sguanci delle finestre”44, subì significative variazioni con una nuova perizia contenente gli “ultimi lavori occorrenti per porre in buon assetto e completare il rinsaldamento della Chiesa bizantina del SS. Salvatore”, avente lo stesso importo (“L.
15000.00”) e recante la data 10 ottobre 1927.
i lavori rendicontati nella seconda perizia, che fu approvata dal Corpo reale del
Genio Civile di messina il 18 ottobre 1927, prevedevano la definitiva trasformazione
della struttura in una chiesa bizantina, anche attraverso un altare marmoreo centrale
realizzato “secondo l’antica forma” (“con basi e capitelli bizantini”), la definitiva
sorprende. Credo pertanto necessario recarmi domattina sul posto per riferire subito a V. S. Con ossequi. Il Funzionario Delegato E. Miraglia”; SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, 3-3-25, fogli
sciolti). nel sopralluogo che venne effettuato il giorno dopo dal funzionario e. miraglia fu appurato
che i lavori procedevano in maniera corretta e che le critiche, con molta probabilità, riguardavano
soltanto la chiusura della porta di accesso posta ad ovest (“Onorevole Soprintendenza Monumenti
Palermo. Messina, 9 novembre 1923. Facendo seguito alla lettera controindicata, riferisco a V. S.
Ill.ma quanto ho constatato nella ispezione compiuta ieri al monumento in oggetto. Premetto che da
una settimana i lavori sono stati sospesi perché si attende la cottura dei mattoni speciali ordinati
espressamente sul tipo antico per la restituzione degli archi di scarico soprastanti alle porte del prospetto, e perché si attende la consegna delle imposte delle porte stesse. Nella ispezione del Monumento ho constatato: 1° che la muratura della porta secentesca è stata eseguita in conformità alle
istruzioni date, ed imitando perfettamente la tecnica antica. 2° che i risarcimenti nella cantonata SE nello stipite della porta centrale, e nel muro Sud non sono stati portati a compimento a causa della
sospensione dei lavori, e perciò manca la rifinitura che deve imitare la erosione della malta, e manca
la patinatura a vecchio. É mia impressione che la critica fatta nel giornale esprima il malumore per
il disturbo di non potere entrare in chiesa dalla porta secentesca «che dà su d’una via principale
del paese». Basta questa sola frase a rivelare il malumore, il quale, s’intende bene, non valuta le ragioni storico-artistiche che hanno consigliato la restituzione della funzione alle antiche porte. Il
resto della critica non è che il giudizio anticipato su di un lavoro non compiuto, e V. S. vedrà quanto
sia da prendere in considerazione. Con ossequi. Il Funzionario Delegato E. Miraglia”; SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, 3-3-25, fogli sciolti).
44
la “Perizia preventiva di ulteriori lavori occorrenti nella Chiesa bizantina del SS. Salvatore
(detta di Gesù e Maria) in Rometta”, recante la data “26 Maggio 1927” e firmata da Francesco Valenti come architetto e soprintendente, ammontava a “L. 15000.00” (SoPrintenDenzA meSSinA, n.
58.3, 3.45.2, fogli sciolti). il computo prevedeva le seguenti voci: “Dismissione accurata di due palli
settecenteschi che trovansi negli altari moderni addossati alle pareti nord e sud del monumento e
trasporto di essi nella Madre Chiesa”, “Taglio della muratura di pietrame del nucleo dei due altari
barocchi su detti e sgombro dei materiali”, “Taglio accuratissimo della muratura vecchia consolidata
che trovasi nelle finestre bizantine del lato nord rispondente nella zona di proprietà dello Stato affiancata alla casa Pollicino”, “Muratura a piccoli tratti col pietrame ricavato dalla demolizione su
detta e malta di calce e cemento per togliere le scivole interne moderne esistenti nelle finestre del
lato sud e ridurre le soglie orizzontali”, “Lavoro accuratissimo per regolare la superficie degli
sguanci delle finestre della zona inferiore all’oggetto di ricevere le transenne”, “Lavoro simile per
quello dell’ordine superiore nel tamburo ottagonale”, “Fornitura e collocazione di tutti gli architravi
di legno formanti succieli delle finestre con legno quercia rovere a doghe”, “Ripristino della edico243
FiliPPo imbeSi
conversione dei due sacrari occidentali nella prothesis e nel diaconicon e la “collocazione delle transenne di tipo bizantino nelle finestre dell’ordine inferiore ed in
quelle dell’ordine superiore della cupola”45.
le fasi costruttive operate nella chiesa e le aleatorie ed erronee interpretazioni di
Francesco Valenti stravolsero quasi interamente il monumento romettese (figura 24),
generando in esso nuove caratterizzazioni storiche e architettoniche che, alla luce
della documentazione fotografica e descrittiva anteriore agli interventi, risultano in
letta bizantina del diaconico, barbaramente tagliata (ambiente quadrato all’angolo nord-ovest) imitando perfettamente l’altra ben conservata che trovasi nella protasi cioè rispristinando le due mensolette di calcareo e la muratura sovrastante con archetto e frontone formato di pietrame e mattoni
alternati disposti in senso radiale”, “Ricostruzione del nucleo di muratura di pietrame alternato
con filari di mattoni per le tre are” (“in quella della protesi dove esistono i resti inferiori”, “In quella
del diaconico completamente tagliata” e “Per l’ara da costruire nel braccio della croce ad ovest”),
“Risarcimento accurato delle spallette dei due armadietti o sacrari sopra le due arette della protesi
e del diaconico”, “Formazione dei tavoloni di succiello di legno castagno”, “Sportelli di chiusura
dei detti due sacrari con ossatura a riquadri di legno castagno”, “Strato di stucco patinato da eseguire senza sesti con la massima accuratezza per rivestire le superfici interne della Chiesa usando
la tecnica originaria e contornando il nuovo strato in prossimità dei resti di pittura antica che si trovano
in vari punti delle spalle della cupola dell’intradosso di questa e negli sguanci delle finestre”, “Chiusure artistiche delle finestre (transenne) con trafori d’impasto ad imitazione di pietra calcarea bianca
armati con ferri tondini”, “Telarini fissi interni di ferro ad angolo di lato 0.03 e vetratine da porre a
battente in detti telai con nottole di bronzo”, “Taglio di rasaglia murata per abbassare il piano dell’ambiente a Nord-Ovest (diaconico) per riportarlo al livello originario e versamento nel pavimento
adiacente”, “Riempimento allo spessore di 0.15 degli altri campi del pavimento della Chiesa che
furono abbassati dal livello originario con rasaglia murata di pietrame minuto” (“Nei tre campi angolari” e “Nel campo della croce”), “Strato di calcestruzzo di ghiaietta” (“da distendere sulla detta
superficie per preparare il sottostrato del mattonato speciale”), “Ponti di servizio” (interni ed esterni).
Su questi lavori si vedano: Di bennArDo 2009, pp. 91-98; Di bennArDo 2017, pp. 147-149.
45
la“Perizia preventiva degli ultimi lavori occorrenti per porre in buon assetto e completare il
rinsaldamento della Chiesa bizantina del SS. Salvatore (detta di Gesù e Maria) in Rometta”, recante
la data “10 Ottobre 1927” e ammontante a “quindicimila” lire, fu firmata dall’“Ingegnere Capo F.
Pignoni del Corpo Reale del Genio Civile di Messina” e da Francesco Valenti come architetto e soprintendente. le opere previste (SoPrintenDenzA meSSinA, n. 58.3, fogli sciolti) furono divise in
due parti. la prima rendicontazione (“Lavori per proteggere dall’umidità il monumento”) prevedeva
i seguenti lavori: “Scostamento del vecchio intonaco idraulico della cisterna che trovasi addossata
al lato nord del monumento presso la proprietà Pollicino e che lascia infiltrare l’umidità nella
chiesa”, “Nuovo intonaco di cemento nelle dette pareti della cisterna”, “Scostamento parziale e
rinzaffo con malta cementizia in quelle superfici dell’interno della Chiesa che presentavano cavernosità per dar luogo al distendimento dello strato di stucco”. la seconda tipologia (“Lavori di completamento allo interno e chiusura delle finestre”) prevedeva i seguenti interventi: “Muratura per
eseguire la platea nella solea e per ricostruire il nucleo dell’ara antica barbaramente tagliata allorquando venne aperta la porta d’ingresso moderna all’estremo ovest del braccio di croce abolendo
le tre porte originarie oggi riaperte nel muro orientale della chiesa”, “Taglio della muratura che
trovasi all’invito della porta moderna d’ingresso alla Chiesa anzidetta” (e la sistemazione esterna
dei suoi gradini), “Ripristino della edicoletta bizantina del diaconico barbaramente tagliata (ambiente quadrato all’angolo nord ovest) imitando perfettamente l’altra meglio conservata che trovasi
244
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
gran parte prive di riscontri scientifici e mancanti di corretti criteri filologici e della
dovuta tutela delle antiche peculiarità che erano state mantenute dal monumento.
Figura 24. la chiesa durante i lavori che furono realizzati da Francesco Valenti (dI Bennardo 2017, p. 143).
le ultime indagini
le perizie e le relazioni di Francesco Valenti sulla chiesa, dal 1913 al 1927, descrissero la presenza interna di “resti di pittura antica” in vari punti della struttura46
e l’esistenza di una “cupola emisferica” (attorniata da un “ottagono circoscritto
alla stessa”)47 e di “due graziosi sacrari” nei due vani angolari occidentali (poi trasformati nella prothesis e nel diaconicon)48.
nella protesi cioè ripristinando le due mensolette di calcareo e la muratura sovrastante con archetto
e frontone formato di pietrame e mattoni alternati disposti in senso radiale”, “Restauri all’altra edicoletta della protesi supplendo la muratura tagliata”, “Supplimento delle travature di legno castagno” da effettuare “nei succieli delle finestre antiche per riprodurre la caratteristica struttura di
sostegno originaria”, “Costruzione e collocazione delle transenne di tipo bizantino nelle finestre
dell’ordine inferiore ed in quelle dell’ordine superiore della cupola con due tipi diversi, l’uno a cerchietti e croci e l’altro a quadrati intrecciati”, “telai interni di legno castagno fissi agli sguanci delle
finestre”, “Vetri doppi da situare nei detti telai”, “Altare marmoreo da ricostruirsi nella solea di dimensioni in pianta 1.50 x 0.80 secondo l’antica forma” rivestito in marmo e con sagome scavate
(“fugetti a treccia, colonnine d’angolo con basi e capitelli bizantini e pallio con la croce e le due
palme affiancate compresa la formazione della predella”), “Trasporto del detto materiale marmoreo
da Palermo a Rometta”, “opere di sistemazione delle piccole are della protesi e del diaconico”.
46
Si vedano le note 39 e 44.
47
Si veda la nota 34. Per le indagini sull’estradosso della cupola si veda imbeSi 2017, pp. 244246.
48
Si vedano le note 34 e 45.
245
FiliPPo imbeSi
Figura 25. l’escavazione esterna che fu rinvenuta dall’archeologo giacomo scibona nella seconda metà
del secolo scorso (ImBesI 2017, p. 241).
esternamente, i documenti sulla vertenza Pollicino, le fotografie antiche e lo
scavo operato da Giacomo Scibona, dal 1855 fino alla seconda metà del secolo
scorso, rilevarono l’esistenza dei “ruderi di un’antica casa” (avente nel suo spazio
antistante “una cisterna o stagnone ad uso un tempo di Mangano di seta”) e di una
escavazione nello spiazzale orientale (che fu utilizzato come cimitero), e attestano
inoltre che il muro di isolamento posto a nord, ancora oggi esistente, fu realizzato
utilizzando la “Muratura di pietrame del luogo” ricavata dalla demolizione delle
“fabbriche moderne” della chiesa49 e che “il materiale di resulta per l’abbattimento
delle fabbriche” di Giuseppe Pollicino doveva essere lasciato nei luoghi a disposizione della Soprintendenza50.
Partendo da tutte queste informazioni, sono state recentemente eseguite alcune
indagini per ricercare vetustà e antiche peculiarità nel monumento e nello spazio ad
esso circostante51.
la prima indagine ha riguardato il corpo interrato che fu scavato nello spiazzale
dall’archeologo Giacomo Scibona nella seconda metà del secolo scorso. (figure 2,
25) Per ottenere informazioni su di esso sono state eseguite dal geologo Sebastiano
G. monaco alcune indagini geofisiche con la tecnica delle tomografie elettriche, che
Si vedano le note 18, 19 e 39.
Si veda la nota 32.
51
le indagini nell’area e nella chiesa, stimolate dall’arciprete Salvatore Perdichizzi (legale rappresentante del monumento), sono state effettuate sotto forma di volontariato dal gruppo Ricerche
nel Val Demone e dall’Associazione regionale SiciliAntica (sede di messina) il 29 febbraio 2020. le
tomografie elettriche sono state eseguite dal geologo Sebastiano G. monaco.
49
50
246
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
hanno permesso di intercettare una escavazione posta in riferimento al prospetto
orientale della chiesa, profonda circa 1,20-1,30 metri e lunga circa 5 metri. (figure
26, 33) la struttura sepolta che è stata individuata è ubicata anche in corrispondenza
dell’ingresso centrale, sul cui asse si sviluppa il canale interno che conduce al corpo
scavato posto sotto la cupola. Questa correlazione lascia intendere, in mancanza di
opportuni scavi, che vi possa essere un collegamento tra l’escavazione esterna e
quella interna, e che possa essere presente un complesso e antico sistema idrico.
tomografie elettriche
eseguite dal geologo
sebastiano g. monaco.
Figura 26. sezione tomografica (resistività) nello spiazzale esterno.
Altre indagini hanno riguardato lo spazio interno, in elevazione e sepolto, della
chiesa.
nelle pareti sono oggi visibili soltanto le tracce di due affreschi (figure 27, 28) e
non sono percepibili a occhio nudo i “resti di pittura antica” che Francesco Valenti
descrisse esistenti nel 1927 in “vari punti delle spalle della cupola dell’intradosso”
Figure 27 e 28. le tracce di due affreschi oggi visibili nella chiesa. l’affresco a destra raffigura la madonna
con il Bambino.
247
FiliPPo imbeSi
e “negli sguanci delle finestre”. le infiltrazioni dell’acqua piovana e l’umidità, corrodendo le superfici, hanno
causato macchie compatte nell’intradosso della cupola (figura 3, in basso a
sinistra) e soltanto appropriate tecniche
e metodologie potranno verificare l’esistenza di stratificazioni pittoriche e consentire il loro recupero.
Altre indagini all’interno dell’escavaFigura 29. tracce di cocciopesto all’interno del- zione-vasca posta sotto la sala cupolata
l’escavazione centrale.
hanno permesso di rinvenire tracce di
cocciopesto (figura 29), composto usato fin dai tempi antichi come rivestimento impermeabilizzante.
la grande cavità centrale (dimensioni: ml 2,13 x ml 1,07 circa) evidenzia poi,
nella forma, due diverse fasi utilizzative (figura 30): una originaria con sviluppo rettangolare e rigidamente geometrica che era connessa al lungo canale centrale, e una
successiva in cui fu creato sul lato settentrionale un piccolo allargamento che, essendo
di piccole dimensioni, non appare indicare un cambiamento funzionale.
la forma rettangolare primitiva dell’escavazione richiama
chiaramente
le
caratteristiche del bagno rituale purificatorio ebraico
(mikveh), che già Giovanni
Crisostomo, nelle Catechesi
Prebattesimali (344/354-404),
assimilò al più nobile “lavacro
della grazia” (vasca battesimale) che purificava la reale
impurità52. e inoltre, come è
stato più volte attestato, anche
Figura 30. l’escavazione che caratterizza la sala cupolata.
attraverso varie testimonianze
“C’è un lavacro comune a tutti gli uomini, quello delle sale da bagno, che è solito detergere lo
sporco del corpo; c’è pure un lavacro giudaico, più nobile di quello, ma molto inferiore al lavacro
della grazia: questo infatti deterge lo sporco del corpo, e non semplicemente quello del corpo, ma
pure quello relativo alla coscienza debole. Infatti ci sono molte cose che per natura non sono impure,
ma lo diventano per la debolezza della coscienza […] Il bagno giudaico purificò questa macchia; invece quello della grazia purificò non questa, ma la reale impurità, la grande macchia che dopo il
corpo si pone anche sull’anima: rende puri non coloro che hanno toccato i corpi morti, ma questi
che hanno avuto contatto con cattive azioni. Anche se uno è effeminato, fornicatore, idolatra ed ha
commesso qualsiasi male, anche se è pieno di ogni malvagità umana, dopo essere disceso nella piscina
delle acque risale dalle divine sorgenti più puro dei raggi del sole” (CereSA-GAStAlDo 1982, pp. 4546; si veda anche zAPPellA 1998, pp. 150-152, A-i-9,10).
52
248
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
archeologiche, i “fonti battesimali primitivi avevano le stesse caratteristiche delle
miqwa’ot”53.
Alla prima fase utilizzativa dell’escavazione sono legati una pedarola e un’altra
piccola cavità simile ad essa sottostante, ed è quindi deducibile che in origine la vasca,
per la poca praticità, fosse fruita saltuariamente. Ad una seconda fase appare invece
connesso il piccolo allargamento che, in collegamento con l’uso dell’acqua e con le
preesistenti peculiarità, può trovare giustificazione con un uso più frequente dell’escavazione e con l’inserimento di una scala o di una struttura attraverso cui facilitare la
discesa e la risalita.
la regolarità e le definizioni formali della chiesa, poi, cozzano chiaramente con
l’aspetto rupestre (o privo di apprezzabile accuratezza) che caratterizza l’escavazione,
il canale centrale e il piano di imposta. e inoltre le modifiche operate nella struttura
durante i secoli, gli sterri, le sostituzioni pavimentarie e l’uso funerario hanno contribuito a cancellare informazioni utili ed elementi chiarificatori sulla fruizione della cavità e sulle pratiche ad essa collegate
tuttavia, considerando i dati raccolti (dimensioni, ubicazione centrale, pedarole,
tracce di cocciopesto, canale di adduzione con senso discendente), l’icnografia della
chiesa e le corrispondenze alle caratteristiche dell’antico rito battesimale-bagno divino
per immersione54, è possibile, anche alla stregua delle altre analisi che sono state eseguite nel biennio 2016-201755, ritrovare nella prima fase fruitiva della vasca-piscina
- che poteva anche essere presente nel sito prima della realizzazione della struttura pratiche purificatorie di derivazione ebraica e un’utilizzazione limitata a poche persone, e nella fase seguente, legata all’allargamento, un frequente uso e la ricerca di
maggiore praticità, forse dovuti alle mutate disposizioni del rito battesimale che prevedevano la presenza del battezzando e dei ministri durante la triplice immersione,
come fu descritto anche nella Traditio Apostolica (iii secolo)56 e nelle Catechesi Pre53
“Non deve inoltre meravigliare che un battistero venga scambiato per un bagno rituale ebraico,
perchè le informazioni archeologiche sui battisteri per quanto scarse, inducono a «chiedersi se anche
alcuni elementi dei battisteri cristiani non siano vestigia di regolamenti ebraici». I fonti battesimali
primitivi avevano le stesse caratteristiche delle miqwa’ot, come risulta appunto da testimonianze archeologiche, per esempio dal confronto tra le miqwa’ot di Masada, dell’Herodion, della Spianata del
Tempio e i battisteri di Nazaret in Israele; anche il battistero delle catacombe di Priscilla a Roma ha
le stesse caratteristiche di un bagno ebraico” (SCAnDAliAto-mUlè 2002, p. 71).
54
imbeSi 2017, pp. 247-250. Per la pedarola si veda imbeSi 2017, p. 250.
55
imbeSi 2017, pp.241-247. nell’escavazione centrale sono stati rinvenuti i resti ossei di numerosi
individui (imbeSi 2017, p. 246).
56
“Et hoc modo tradat eum episcopo nudum vel presbitero qui stat ad aquam qui baptizat. Descendat autem quo eo diaconus hoc modo. Cum ergo discendi qui baptizatur in aquam, dicat ei ille
qui baptizat manum imponens super eum sic: «Credis in Deum patrem omnipotentem?». Et qui baptizatur etiam dicat: «Credo». Et statim manum habens in caput eius inpositam baptizet semel. Et
postea dicat: «Credis in Christum Iesum filium Dei qui natus est de Spiritu Sancto ex Maria virgine
et crucifixus sub Pontio Pilato et mortuus est et sepultus et resurrexit die tertia vivus a mortuis et
ascendit in caelis et sedit ad dexteram patris venturus iudicare vivos et mortuos?». Et cum ille dixerit:
«Credo», iterum baptizetur. Et iterum dicat: «Credis in Spiritu Sancto et sanctam ecclesiam et carnis
resurrectionem?». Dicat ergo qui baptizatur: «Credo». Et sic tertia vice baptizetur” (trADitio APo-
249
FiliPPo imbeSi
battesimali da Giovanni Crisostomo tra il iV e il V secolo57.
Particolare attenzione durante le recenti indagini è stata rivolta al sacrario posto
a nord-ovest, che Francesco Valenti trasformò con vari interventi nella prothesis.
(figure 31, 32) Una tomografia elettrica, eseguita lungo l’asse che collega il sacrario
all’ingresso laterale sinistro, ha intercettato una escavazione sepolta posta centralmente nel braccio della croce. la stratificazione rocciosa che è stata individuata
dalla sezione tomografica discende dal sacrario verso l’escavazione (figure 33, 34,
35) e dunque, in attesa di opportuni saggi di scavo, sembrerebbe far mettere in relazione funzionale i due elementi.
Figure 31 e 32. un sacrario prima (dI Bennardo 2017,
p. 144) e dopo i lavori di Francesco Valenti.
sacrario
Figura 33. planimetria dell’area con lo sviluppo
interno ed esterno delle due sezioni tomografiche.
escavazione
tomografie elettriche
eseguite dal geologo
sebastiano g. monaco.
Figura 34. sezione tomografica (caricabilità) condotta lungo l’asse che collega il sacrario post a sud-ovest
con l’ingresso laterale sinistro.
StoliCA,
XXi, 12-18; CirSone 2012, pp. 10-12).
“Dopo questa unzione quindi non resta che recarsi alla vasca delle sante acque. Il ministro, allora, dopo averti tolto la veste, lui stesso ti fa scendere nelle onde. Per quale motivo dunque nudo?
Ti ricorda la primitiva nudità, allorchè ti trovavi nel paradiso e non ne provavi vergogna: Adamo ed
Eva infatti – dice [la Scrittura] – erano nudi e non se ne vergognavano, finchè indossarono la veste
del peccato, carica di molta vergogna. Tu dunque neppure qui ti devi vergognare: la vasca infatti è
molto meglio del paradiso” (zAPPellA 1998, A-iii-8, pp. 206-207; CirSone 2012, pp. 17-18).
57
250
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
sacrario
escavazione
tomografie elettriche
eseguite dal geologo
sebastiano g. monaco.
Figura 35. sezione tomografica (resistività) condotta lungo l’asse che collega il sacrario post a sud-ovest
con l’ingresso laterale sinistro.
Figure 36, 37, 38. alcuni grandi e piccoli conci grossolanamente squadrati che caratterizzano la parte a faccia vista
del muro di isolamento.
251
Altre indagini hanno riguardato l’antica casa (Figura 11) un
tempo esistente a fianco della
chiesa, che fu demolita e in parte
incorporata, a partire dal 1895,
nella nuova costruzione di Giuseppe Pollicino. (figure 11, 12,
13, 14, 15).
Dopo il bonario componimento, la muratura proveniente
dalla parte superiore del prospetto occidentale della chiesa fu
utilizzata per costruire il muro di
isolamento posto a nord, ancora
oggi esistente, e il materiale di risulta che si generò dall’abbattimento delle fabbriche abusive era
nei luoghi a disposizione della
Soprintendenza.
Analizzando la composizione
del muro di isolamento nella sua
parte a faccia vista, risaltano in
maniera evidente numerosi piccoli e grandi conci grossolanamente squadrati, alternati con
frammenti di laterizi, mattoni e
pietrame grezzo informe. (figure
36, 37, 38).
Conci grossolanamente squa-
FiliPPo imbeSi
drati e pietre informi si evidenziano anche in tutti i prospetti della chiesa (Figure 3, 8,
9, 11, 12, 18, 19, 20, 24, 25), e la stessa tipologia era presente sia nelle parti superiori
barocche (o “fabbriche moderne” secondo il Valenti) che furono aggiunte in un secondo tempo nella facciata occidentale (figura 39), sia nel “materiale di resulta” che
si generò dopo l’abbattimento delle fabbriche di Giuseppe Pollicino (che modificarono,
incorporandola in parte, anche l’antica casa esistente a nord). Una fotografia del nuovo
edificio che Giuseppe Pollicino stava realizzando, infatti, presenta nella chiusura dei
varchi di una porta e di una finestra anche numerosi conci grossolanamente squadrati
(figura 40); essi, non essendo ancora stato demolito il muro superiore della chiesa,
erano stati chiaramente ricavati dall’edificio che insisteva sui luoghi prima del 1895.
Ciò rende plausibile che l’antico edificio esistente prima dell’intervento di Giuseppe
Pollicino e la chiesa avessero avuto la stessa tipologia-caratterizzazione muraria esterna
o che quantomeno fossero state testimonianze storiche coeve.
l’antica casa esistente nei
luoghi, poi, essendo posta a
ridosso della chiesa e dello
spiazzale (Figure 11, 41) ed
essendo stata anticamente di
proprietà della parrocchia,
rappresentava sicuramente,
per le evidenti caratteristiche
di clausura (dovute alle
poche bucature e alla corte di
pertinenza delimitata da alte
mura), quanto sopravvissuto
Figura 39. la parte superiore del prospetto ovest della chiesa (indell’antico monastero rometgrandimento della figura 18), prima degli interventi di F. Valenti,
tese che fu dedicato a Santa
nella quale risaltano numerosi conci grossolanamente squadrati.
maria di basicò.
l’antico edificio inoltre
presentava due falde di copertura con diverse larghezze e
altezze di imposta, e il muro
che delimitava la sua corte
evidenziava un notevole spessore e un livellamento sommitale. (Figure 11, 41, 42)
Queste caratteristiche, abbastanza anomale, rimandano
sicuramente ad un precedente
e diverso impianto costrutFigura 40. grandi e piccoli conci grossolanamente squadrati e tivo, di cui si può ipotizzare la
pietre informi che furono inseriti nell’edificio di giuseppe pollicino per chiudere i varchi di una porta e di una finestra (ingran- consistenza e la distribuzione
utilizzando i pochi indizi didimento della Figura 14).
252
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
Figura 41. la chiesa e l’antico edificio in una fotografia che fu pubblicata il 17 giugno 1936, in un articolo,
dal “giornale di sicilia” (archIVIo storIco della soprIntendenza dI messIna, patrimonio documentario, Vertenza Pollicino, cit., fogli sciolti). nella fotografia sono quasi interamente presenti le mura di delimitazione della corte.
sponibili. lo spessore del muro di delimitazione (che induce a ritenere che esso avesse
funzione strutturale o anche che fosse più alto) e l’intero prospetto longitudinale (antica casa e corte) sembrerebbero indicare una originaria, imponente costruzione lunga
circa 20 metri (dalla mezzeria della chiesa fino alla fine dello spiazzale). Un’ipotesi
più dettagliata - considerando l’originaria presenza di due falde uguali con identiche
quote di imposta e di colmo (ordinarie nelle tipologie costruttive) e il basso muro livellato di delimitazione della corte - riconduce ad un impianto con un corpo centrale
più alto e due corpi laterali più bassi58. (figura 42)
le ultime indagini hanno riguardato il pozzo rilevato da Francesco Valenti (Figura
15) che era posto anteriormente all’antica casa e che gli atti notarili descrissero come
uno stagnone. esaminando questa escavazione, nella parte sud-est rimasta di proprietà della chiesa e parzialmente isolata con mura, è emerso che essa è profonda
circa 2,30 metri dal piano di calpestio esterno e che fu interamente scavata nel tufo.
le sue caratteristiche, nella parte che è stata analizzata, la uniformano ad una vera
Figura 42. Ipotesi ricostruttiva prevedendo la presenza di due falde uguali e con identiche quote di imposta
e di colmo.
A nord-est, vicino all’edificio che fu realizzato dopo il bonario componimento, è stato individuato da lontano un brano murario molto spesso. non è stato possibile indagare le sue caratteristiche
poichè il terreno è di proprietà privata.
58
253
FiliPPo imbeSi
Figure 43, 44, 45, 46. Il pozzo o stagnone che fu diviso nel bonario componimento evidenzia la forma quadrilatera nella parte visibile che rimase di proprietà della parrocchia.
e propria grande vasca idrica quadrilatera (figure 43, 44, 45 , 46), allo stesso modo
di come fu rappresentata planimetricamente da Francesco Valenti.
conclusioni
la mappa che fu redatta da Francesco Valenti, la vertenza Pollicino e gli elementi
e le forme planimetriche che emergono dalle vecchie fotografie restituiscono una
antica conformazione dell’area caratterizzata da una chiesa posta a ridosso di un antico edificio che aveva una vasca idrica nella sua parte antistante. (figura 47)
l’antica casa (la quale, secondo l’inchiesta del secondo decennio del secolo
scorso, ricadeva su un terreno che fu usurpato alla parrocchia) e la chiesa, in parte
delimitati da un recinto di mura e da scarpate (figura 48), erano testimonianze, per le
evidenti caratteristiche di clausura e di isolamento, di quanto era sopravvissuto dell’antico monastero romettese che fu dedicato a Santa maria di basicò, avente anticamente l’aspetto di una “fortiliza” e che già nel 1514 era “tucto aruvinato.
254
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
Figura 47. la chiesa e la sua area circostante prima degli interventi di giuseppe pollicino e di Francesco
Valenti (si veda anche la figura 15).
Figura 48. santa maria dei cerei vista dal versante orientale.
la strutturazione medievale del complesso romettese di basicò, come è emerso
da tutte le indagini effettuate, modificò e
adattò un precedente impianto, a cui ancora
oggi riconducono l’icnografia e le caratteristiche tardoromane o bizantine della chiesa,
i resti del portico-esonartece e la vasca posta
sotto la sala cupolata con il lungo canale
centrale ad essa collegato.
l’antico edificio esistente nell’area fino
alla fine del XiX secolo, che presentava l’ingresso sul lato occidentale e terminava sul
versante orientale, tradiva poi, attraverso le
sue caratteristiche, l’adattamento di una
preesistente e imponente costruzione caduta
in disuso. e inoltre il portico-esonartece, non
trovando collegamenti e riscontri funzionali
255
FiliPPo imbeSi
sui lati est e ovest (dove nella
limitata area disponibile è presente una profonda cisterna),
appare chiaramente disposto
in riferimento al versante settentrionale e all’antica e vicinissima casa.
le indagini eseguite e queste considerazioni permettono
dunque di fare configurare
nell’area, prima dell’insediamento delle monache di basicò, l’esistenza di un
battistero che era collegato attraverso l’esonartece ad un’anFigura 49. schema contenente gli elementi e le forme planime- tica e imponente struttura di
triche che sono stati ricavati dalle fonti, dalle antiche fotografie
forma rettangolare avente una
dell’area e da tutte indagini condotte a rometta.
vasca idrica nella sua parte antistante. (figura 49) Questa distribuzione richiama in maniera abbastanza evidente le
caratteristiche basilicali paleocristiane, che si ritrovano anche nell’impianto di Caričin
Grad (Vi secolo) che evidenziava, nella ricostruzione che è stata effettuata, la presenza
di una basilica, avente nella parte antistante un atrio con una grande vasca-cantharus
per le abluzioni, annessa, tramite l’esonartece, al battistero. (figure 50, 51)
Anche in altri complessi è possibile ritrovare genericamente e nonostante le diver-
BattIstero
BasIlIca
atrIo con Vasca
nartece
Figura 50. Justiniana prima di caričin grad, ricostruzione tridimensionale (romissch-germanisches
zentralmuseum, Vladan zdravkovic architect, arc digital production, 2011).
256
inDAGini Per lA riCerCA Di Un ComPleSSo PAleoCriStiAno A romettA
Figura 51. ricostruzione (M. Jeremic) della basilica e del battistero di caričin grad (duVal 1984, p. 407).
Figura 52. la basilica di tebessa (testInI 1980, p. 704).
sità icnografiche, la stessa organizzazione dei percorsi
di rometta e analogie con la configurazione distributiva
delle strutture, come nel caso degli impianti paleocristiani di tebessa59 (iV-V secolo) (figura 52), tigzirt (V
secolo)60, Armitha di rodi (V-Vi secolo)61 e Qal’at
Sem’an (476-490)62.
tutte le informazioni, le indagini e gli elementi individuati, dunque, in attesa degli scavi e di altre appropriate
indagini63, consentono di materializzare a rometta la
conformazione planimetrica, funzionale e distributiva di
un complesso basilicale paleocristiano comprendente
anche un battistero, poi adattato a chiesa.
teStini 1980, p. 704.
lAPorte 1994, p. 253.
61
teStini 1980, p. 738.
62
biSCoP-SoDini 1989, pp. 1683-1685.
59
60
63
Particolare importanza rivestono sia alcuni corpi sepolti che sono stati individuati dalle prospezioni georadar (imbeSi 2017, p. 242). sia il rapporto dei sacrari con due cavità corrispondenti poste nei bracci della croce,
tra cui quella che è stata individuata nella zona meridionale (figure 34, 35).
257
FiliPPo imbeSi
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259
260
ANTICHI APPROVVIGIONAMENTI IDRICI NELLA VALLE DELL’ALCANTARA E NEL TERRITORIO
DI
CASTIGLIONE
DI
SICILIA
GIUSEPPE TIZZONE* E FRANCESCO VECCHIO**
1. Pozzi, fonti e approvvigionamenti idrici della valle dell’Alcantara
GIUSEPPE TIZZONE
L’acqua è una risorsa essenziale per la vita di tutti gli esseri viventi.
Nella storia dell’umanità, le maggiori civiltà si svilupparono lungo i corsi dei fiumi
e presso le sorgenti e i pozzi, dove nacquero anche culti legati all’acqua poichè era
considerata un elemento sacro.
Nella valle dell’Alcantara, così chiamata
perché attraversata dall’omonimo fiume,
l’antico Akesines, numer osi reperti
testimoniano la presenza dell’uomo fin dal
Neolitico1 .
A Castiglione di Sicilia, in contrada S.
Maria la Scala, nel territorio della valle
dell’Alcantara, sono presenti due antichi
pozzi-ipogei con gradini (figure 1-4),
costruzioni forse protostoriche o forse più
recenti, ma assai simili a quelle nuragiche
dei popoli del Mare della Sardegna, di
Noega a Campa Torres (Penisola Iberica)
e della Bulgaria. Nelle contrade vicine sono
anche presenti tombe a grotticella.
Un altro pozzo-ipogeo simile con scalini
si trova in contrada Balsamà, nome che
potrebbe derivare Busa-Mar, un condottiero
saraceno2, e anche nelle vicinanze di questo
sito sono presenti tombe a grotticella.
Un altro antico pozzo è quello della
contrada Colle Armenia, nome che forse Figura 1. Santa Maria La Scala, pozzo con
gradini.
* Pro Loco di Castiglione di Sicilia.
** Geologo, libero professionista di Sant’Agata li Battiati.
1
I reperti archeologici sono visibili nel Museo Vagliasindi di Randazzo (Catania).
2
VINCENZO SARDO SARDO, Castiglione città demaniale e città feudale, Nicotra, Palermo 1909, p. 38.
261
GIUSEPPE TIZZONE E FRANCESCO VECCHIO
Figura 2. Santa Maria la Scala, pozzo con gradini
visto dall’interno.
Figura 4. Santa Maria la Scala, un altro pozzo
con scalini di misura inferiore.
Figura 3. Santa Maria la Scala, interno del pozzo.
richiama l’arrivo nella valle dell’Akesines,
durante il III secolo d.C., di S. Nicone e di
altri novantanove monaci provenienti
dall’Armenia 3. Inoltre l’acqua ha contribuito nei secoli a migliorare la vita e i
rapporti sociali dell’uomo, il quale ha
anche associato ai fiumi o ai corsi varie
divinità maschili e femminili4. In Sicilia
sono numerose le immagini delle divinità
fluviali nelle monete del per iodo
ellenistico.
In riferimento alla valle dell’Akesines,
nella monetazione dell’antica Naxos,
troviamo Assinos, la divinità fluviale del
torrente oggi divenuta Santa Venera5, che
Chiesa di San Pancrazio, Taormina.
https://www.treccani.it/enciclopedia/acqua/,
01/11/2020.
5
C ARMELO C RASSI, Notizie Storiche di Motta
Camastra della Valle dell’Alcantara, vol. II, Alfio
Siracusa, Catania 1905, p. 39.
3
4
262
ANTICHI APPROVVIGIONAMENTI IDRICI NELLA VALLE DELL’ALCANTARA
tuttora scorre nelle adiacenze del sito
archeologico dell’antica Naxos; e forse una
divinità fluviale che rappresentava
l’Akesines si ritrova anche nella moneta di
Piakos6.
Nella valle dell’Alcantara spicca il
territorio di Castiglione di Sicilia che ha
origini molto antiche, attestate anche da vari
reperti del periodo romano.
Il sacerdote Lamonaca riferiva che
all’interno della chiesa parrocchiale di San
Marco era presente un’urna mortuaria,
convertita in fonte per l’acqua lustrale, che
per una iscrizione e per la sua speciale
conformazione fu attribuita al periodo
romano. E inoltre gli acquedotti in mattoni
e in piombo ritrovati in diverse zone, alcune
monete e vasi e qualche oggetto in bronzo,
come riferiva sempre il sacerdote Lamonaca,
provano la presenza romana a Castiglione
di Sicilia.
Nell’antico quartiere Camene di Figure 5 e 6. Contrada Balsamà, l’ingresso del
pozzo e l’esterno.
Castiglione è ancora presente una fontana
che anticamente era denominata fonte delle
Camene e oggi è detta fontana vecchia7. Le
Camene nella religione romana erano
divinità delle sorgenti o ninfe a cui erano
attribuite facoltà profetiche e ispiratrici8.
Sempre all’interno di Castiglione di
Sicilia è presente, vicino alla porta della
Pagana, una fonte d’acqua trasformata in
lavatoio, collocata al di sotto di un ponte
forse di costruzione medievale (figure 10 e
11).
Ad est dell’abitato c’è un’altra antica
fonte chiamata Tirone, nome che richiama
la recluta dell’esercito romano che veniva
BIAGIO PACE, Arte e Civiltà della Sicilia antica,
Società Editrice Dante Alighieri, 1935- XIII, p. 582.
7
V INC ENZO S ARDO S ARDO , Castiglione città
demaniale, cit., p. 14.
8
https://www.treccani.it/enciclopedia/camene/,
07/11/2020.
6
263
GIUSEPPE TIZZONE E FRANCESCO VECCHIO
Figura 7. Colle Armenia, pozzo per la raccolta
d’acqua.
Figura 8. Sul mascherone rimanente della fonte
delle Camene è visibile una V, segno che si ritrova
anche nei putti rappresentati nei mosaici della
Villa del Casale di Piazza Armerina.
Figura 9. Fonte delle Camene o fontana vecchia.
264
ANTICHI APPROVVIGIONAMENTI IDRICI NELLA VALLE DELL’ALCANTARA
Figure 10 e 11. Lavatoio di Santa Caterina.
istruita per un anno nell’età repubblicana,
prima di diventare miles (milite)9.
Un antico proverbio locale riferendosi
all’acqua che sgorga da questo fonte così
recita: “Chi beve l’acqua del Tirone non
va più via da Castiglione”10. La fontana
(figura 12) pubblica che era alimentata
dalla fonte del Tirone purtroppo oggi non
esiste più, abbattuta alcuni decenni fa.
Nella parte sottostante di una torre di
avvistamento detta Cannizzo scorre il
torrente S. Giacomo.
L’origine del toponimo Cannizzo è
incerta, e potrebbe derivare o dalla sua
forma cilindrica che raffigura un canniccio
(recipiente costruito con canne spaccate e
intrecciate e usato per tenere il frumento)11,
oppure dalla parola araba cAyn (fonte
ovver o canna o cannizzola nel suo
diminutivo siciliano) che indica una
piccola sorgente, e probabilmente doveva
essere l’antico nome del vicino torrente
https://www.treccani.it/enciclopedia/milite/, 09/11/2020.
VINCENZO SARDO SARDO, Castiglione città demaniale, cit., p. 127.
11
Ivi, p. 28.
9
10
265
GIUSEPPE TIZZONE E FRANCESCO VECCHIO
Figura 12. Fontana che era alimentata dall’acqua di contrada Tirone, oggi non più esistente.
dato che gli arabi non erano soliti utilizzare il nome dei santi12.
Una fonte molto ricca nella valle dell’Alcantara è quella che sorge nella contrada
Iannazzo (da cAyn-nazz che significa piccolo fiume)13 , che fu così descritta nel XVI
secolo da Filoteo degli Omodei: “Entrano nel fiume molte acque da certe gran
sorgenti dette le Favare di Giannazzo; territorio di Castiglione; le quali con somma
freddezza zampillano l’Estate principalmente, che dal Mongibello per sotterranee
discendono”14.
Un’altra antica fontana chiamata Paradiso è pr esente nel ter ritor io di
Linguaglossa, ai confini con quello di Castiglione. In uno degli affreschi che si
trovano all’interno del vano dove si trova questa fontana è presente Gesù al pozzo
con la samaritana: “Rispose Gesù: chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo
sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua
che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna”
(Giovanni 13,14).
12
La presenza araba nella valle dell’Alcantara è testimoniata dai nomi di diverse contrade: Carranco
(forse da kharag, tributo), Saracino, Zafarana, Balze di Mira (forse da emiro) e Gaitu (condottiero o nobile).
13
Ibidem.
14
GIULIO (ANTONIO) FILOTEO DEGLI O MODEI, Descrizione della Sicilia, in GIACOMO D I M ARZO, Biblioteca
Storica e Letteraria di Sicilia, vol. VI, Arnaldo Forni Editore, Palermo, p. 51. Il termine favara deriva
dall’arabo fawwara che vuol dire sorgente.
266
ANTICHI APPROVVIGIONAMENTI IDRICI NELLA VALLE DELL’ALCANTARA
Figura 13. Piramide soprastante le
Favare di Iannazzo.
Figura 14. Linguaglossa, Contrada Bosco
Monaco, Fonte Paradiso.
Figura 15. Fonte Paradiso.
Figura 16. Cannizzo, antica torre
d’avvistamento.
267
GIUSEPPE TIZZONE E FRANCESCO VECCHIO
Tra le strutture della valle dell’Alcantara legate all’acqua spicca infine una galleria
drenante, che è stata recentemente scoperto nella contrada Orgale15.
2. Una galleria drenante, di probabile epoca araba, a Castiglione di Sicilia
FRANCESCO VECCHIO
L’acqua è stata sempre un motivo di sopravvivenza per gli esseri viventi. Gli animali
migrano quando la stagione delle piogge finisce e istintivamente vanno alla ricerca di
nuovi pascoli e prede perché l’acqua diventa il luogo dell’incontro. Gli esseri umani
non agiscono diversamente, e possono inventarsi soluzioni ingegnose per appropriarsi
di questa essenziale fonte di vita.
Quasi tutti gli insediamenti preistorici avevano accanto un fiume, un ruscello, un
laghetto o una presenza idrica, e nei secoli le soluzioni per il trasporto,
l’approvvigionamento e l’utilizzo dell’acqua furono svariate: vasi, cisterne, canali, pozzi,
acquedotti e combinazioni di essi per generare forze che creavano dinamicità.
La valle dell’Alcantara è percorsa dall’omonimo fiume (figura 17), che rappresenta
una ricchezza indiscutibile per gli insediamenti posti sulle sue sponde, partendo da
Randazzo fino ad arrivare a Giardini Naxos. L’esistenza del fiume è determinata, in
massima parte, dal lento scioglimento delle nevi sul massiccio etneo che vanno ad
alimentare la complessa morfologia sotterranea del basamento lavico fino a sfociare in
diversi punti.
Nel mese di ottobre del 2020 la maggior parte del suo alveo è rimasta asciutta, per
carenza di eventi piovosi e di neve. Questo ha generato quasi un danno ambientale alla
flora e alla fauna che si erano adattate negli ultimi decenni, e solo in alcuni tratti, come
nelle famose Gole, vi è ancora la presenza idrica.
Nella valle dell’Alcantara sono anche presenti decine di pozzi che soddisfano il
fabbisogno idrico, potabile ed irriguo, dei comuni limitrofi fino ad alimentare, anche, la
città di Messina.
Recentemente Giuseppe Tizzone ha comunicato la scoperta di una galleria drenante
dentro una collina argillosa, denominata Monte Olgari (contrada Orgale), a nord
dell’abitato di Castiglione di Sicilia.
Questa è simile al sistema persiano utilizzato per approvvigionare gli abitati e
anche per irrigare i campi, diffuso in Sicilia dagli arabi, che diede un grande apporto
allo sviluppo dell’agricoltura, molto diffusi nell’Isola, ed in particolare a Palermo,
Catania, Siracusa ed in altre città. La galleria scoperta a Monte Olgari sembra quasi
un’assurdità (figure 18, 19 e 20), perché i litotipi argillosi sono per definizione
impermeabili.
In realtà il manufatto individuato non è altro che una galleria drenante che intercetta
le acque sorgive e, convogliandole, le porta all’esterno (figura 21). La differenza con i
qanat palermitani consiste nel fatto che questi avevano dei pozzi, sulla verticale, in
modo che si potesse attingere dalla superficie esterna, ed in alcune zone i pozzi
diventavano condotti di aria fresca convogliata in diversi ambienti.
15
SALVATORE ZAPPULLA, in La Sicilia, 8 novembre 2020, p. 15.
268
ANTICHI APPROVVIGIONAMENTI IDRICI NELLA VALLE DELL’ALCANTARA
Figura 17. Il percorso del fiume Alcantara.
La galleria di Monte Olgari fu realizzata a 500 m di altitudine per irrigare il versante
di una collina che, per lunga tradizione popolare, sin dalla fine dell’Ottocento era coltivata
a grano.
Galleria drenante
Figura 18. Geologia della zona di Castiglione e dell’Alcantara.
269
GIUSEPPE TIZZONE E FRANCESCO VECCHIO
Galleria drenante
Figura 19. Ubicazione topografica della galleria drenante.
Galleria drenante
Figura 20. Ubicazione satellitare della galleria drenante.
270
ANTICHI APPROVVIGIONAMENTI IDRICI NELLA VALLE DELL’ALCANTARA
Figura 21. Dentro la galleria drenante.
Il manufatto si sviluppa, per circa 50 metri, dentro la collina, con un percorso irregolare
ad uncino, verso est, che si generò con molta probabilità per intercettare le varie vene
sorgentizie. Ha forma a capanna, con il tetto costituito da blocchi di pietra lavica che
poggiano lungo i muri perimetrali. É’ alto circa due metri al colmo interno, ed è largo
80-90 cm.
Nei primi 20 metri il tetto è stato impermeabilizzato con calcestruzzo armato, che fu
realizzato nel 1928, come si evince da un’iscrizione che fu apposta sulla parete.
L’ingresso si trova a quota 500 m s.l.m. dentro un’asta fluviale di primo ordine (figura
22).
L’acqua drenata è convogliata all’aperto attraverso un canale (figura 23) di circa 20
metri che riempie un laghetto artificiale.
La realizzazione dell’impermeabilizzazione, che annullava la funzionalità di drenaggio
(figura 24), potrebbe essere stata dovuta o alla necessità di destinare la galleria drenante
a rifugio durante il secondo decennio del secolo scorso, o anche all’esigenza di effettuare
una bonifica poiché il primo tratto era povero di infiltrazioni e quindi inservibile.
L’aspetto sorprendente della galleria drenante è però la realizzazione del tetto a falde
(figura 10) con blocchi lavici (100x20x20 cm), distanti tra di loro circa 5-10 cm, in
modo da far drenare le acque dei terreni soprastanti impregnati dalle acque meteoriche.
271
GIUSEPPE TIZZONE E FRANCESCO VECCHIO
galleria
galleria
Figura 22. Lo sviluppo della galleria drenante.
Figura 23. L’ingresso della galleria drenante.
272
ANTICHI APPROVVIGIONAMENTI IDRICI NELLA VALLE DELL’ALCANTARA
Figura 24. L’impermeabilizzazione nei primi 20 metri e l’iscrizione 1928.
Figura 25. Tratti del percorso, da 3 a 6 metri verso est.
Figura 26. Particolare del tetto formato da blocchi lavici.
273
GIUSEPPE TIZZONE E FRANCESCO VECCHIO
I muri laterali sono realizzati in blocchi di pietra arenaria, con feritoie laddove si
incontrava una sorgiva, ricavati dagli affioramenti arenacei esistenti sul posto.
I blocchi lavici del tetto sono stati prelevati e lavorati in qualche area del fiume
Alcantara, unica presenza lavica, e trasportati da quota 400 a quota 500 m e con una
pendenza media dell’8%.
Inoltre in passato parecchi terreni erano coltivati a grano, come attestano almeno 6
mulini posti a valle e sui fianchi del fiume Alcantara.
Dopo i primi 23 metri, il percorso della galleria si snoda, per tratti lungi da 3 a 6
metri, con angolazioni diverse (figura 25), sicuramente seguendo i percoli idrici che
guidavano i fossori.
E’ interessante evidenziare la sua perfetta staticità dopo tantissimi anni dalla sua
realizzazione e la mancanza di cedimenti o dissesti nell’ultimo tratto dove lo scavo
poteva ancora continuare.
Il litotipo riscontrato nella parte finale non è dato dalle argille scagliose dei Peloritani
ma, a mio modesto parere, la galleria è stata realizzata dentro il Flysch di Capo d’Orlando
nella sua veste di alternanza arenaceo-marnosa, centi-decimetrica, intensamente fratturata
e caoticizzata (figura 29), che riesce ad assorbire le acque meteoriche che, circolando
nelle indefinite fratture interne, affiorano, sotto forma di sorgive, in un punto qualsiasi
del terreno.
Spesso si cerca di aumentare la portata dell’acqua scavando in profondità, ma si
viene beffati in quanto non si fa altro che ostruire l’indefinito percorso interno. In questo
caso la sorgente trova un altro percorso e scompare. Questo i contadini lo sanno
perfettamente, e lo sapevano anche i costruttori della galleria, e per questo motivo, con
molta saggezza, sono costruite piccole vasche attorno alla sorgente per raccogliere l’acqua
sorgiva.
Figura 27. Pozzetto di raccolta.
274
ANTICHI APPROVVIGIONAMENTI IDRICI NELLA VALLE DELL’ALCANTARA
Figura 28. Feritoia con concrezioni calcaree di circa 8 cm a pavimento.
Figura 29. Alternanza arenaceo marnosa centi-decimetrica intensamente fratturata e caoticizzata
del Flysch di Capo d’Orlando.
275
GIUSEPPE TIZZONE E FRANCESCO VECCHIO
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276
POSSIBILI ORIENTAMENTI ASTRONOMICO/RITUALI DEI DOLMEN
(BRONTE)
DI CONTRADA
CUNTARATI
ALFIO MAURIZIO BONANNO*
La ricerca archeologica degli ultimi anni ha messo a fuoco l’importanza e gli aspetti
peculiari del megalitismo in Sicilia. Diversti studi hanno dimostrato essere il risultato
di relazioni con ambiti geografici differenti che, se da un lato hanno portato a coniare il
termine di megalitismo ridotto, soprattutto se comparato con espressioni coeve dello
stesso fenomeno in ambiti geograficamente limitrofi, dall’altro ne hanno sottolineato
elementi propri della elaborazione culturale delle culture locali. In effetti, nella parte
occidentale dell’isola, a partire dalla fine dell’età del Rame (2500 a.C. ca.), gli elementi
di contatto con il megalitismo europeo sembra siano avvenuti nell’ambito della diffusione
della cultura del Bicchiere Campaniforme (TUSA 2001; GUILAINE, TUSA, VENEROSO 2009).
In modo specifico, le influenze presenti in questa parte dell’isola rimandano alla Francia
meridionale e alla Penisola Iberica, probabilmente attraverso la mediazione della
Sardegna (T USA 1998a; P ROCELLI 2012). Nel settore orientale, invece, il fenomeno
megalitico sembra essere comparso in una fase più tarda, nell’antica età del Bronzo
(2200-1400 a.C.), e le testimonianze rinviano ad altre aree del Mediterraneo centrale,
come l’arcipelago maltese (EVANS 1956) e l’Italia sud-orientale, e mostrano anche
importanti elementi di confronto con la fascia settentrionale del continente africano, tra
il Marocco e la Libia (MINIAOUI 2012).
Per quanto strutture megalitiche siano note in Sicilia già a partire dalle ricerche di
Paolo Orsi, per esempio le strane tombe a cista di Monte Racello, a Ragusa (ORSI 1898),
o il dolmen di Monte Bubbonia, a nord di Gela, CL (PANCUCCI 1972-1973), Sebasiano
Tusa ha utilizzato la definizione di “megalitismo ridotto” o minore per mettere in evidenza
le piccole dimensioni delle costruzioni e la modesta diffusione sull’isola del fenomeno
(TUSA, 1997a, 2014). Oggi, tuttavia, le attestazioni di costruzioni eseguite con tecnica
megalitica sono sensibilmente cresciute, con una significativa concentrazione nell’antica
età del Bronzo (2300-1450 a.C.). Tali costruzioni sono, per la maggior parte, collegate
alla sfera funeraria (CAZZELLA, RECCHIA 2013), come sostenuto da Tusa (che ribadisce
quanto detto da ORSI 1899), che anzi considerava alcune importanti manifestazioni del
fenomeno, come i Sesi di Pantelleria, la versione epigeica delle tombe a grotticella
artificiale diffuse, come è noto, in Sicilia.
Sicuramente a questo ambito si possono associare i corridoi costruiti con lastroni
verticali e coperti pure da lastroni, davanti all’ingresso di tombe a grotticella artificiale
* Istituto Nazionale di Astrofisica, Catania.
277
ALFIO MAURIZIO BONANNO
scavate nel banco roccioso. Tali testimonianze sono attestate soprattutto nella Sicilia
occidentale, come i casi delle tombe di contrada Marcita (TUSA 1998b) o quelle di contrada
Pergola di Salaparuta (MANNINO 1971), databili in una fase tra la fine dell’età del Rame
e l’inizio del Bronzo Antico, e sono presenti anche, seppure in modo ridotto, nella Sicilia
Sud-Orientale, come a Ognina di Siracusa (BERNABÒ BREA 1966), a Castelluccio di Noto
(PROCELLI 2012), a Poggio Croce di Militello (MANISCALCO 1997-1998).
Nell’area ragusana, invece, abbiamo la presenza di elementi costruiti per
monumentalizzare la facciata dei sepolcri: stipiti e architrave dell’ingresso della tomba
formati da blocchi in pietra, strutture ad ortostati nelle quali si apre il portello della
tomba e che fanno da fondale ad uno spazio antistante all’ingresso della tomba stessa,
come nel caso delle sepolture di località Paolina e di Castiglione (P ROCELLI 1981),
entrambe nel territorio di Ragusa. Si tratta, evidentemente, di una variante delle facciate
architettoniche scavate nella roccia delle tombe a grotticella artificiale, assai diffuse nel
contesto della facies archeologica di Castelluccio (TERRANOVA 2007).
Sull’isola sono pure attestate strutture interamente costruite, anche in questo caso a
lastroni verticali, che formano dei veri e propri dolmen. Possiamo ricordare quelli a
pianta curvilinea, come le strutture di Cava dei Servi o quella di Cava Lazzaro, o quelli
a pianta rettangolare, assai più diffuse in varie zone della Sicilia sia orientale che centrale.
Finora era possibile ipotizzare un uso funerario solo per il dolmen di Cava dei Servi, al
cui interno sono stati ritrovati i resti, seppure scarsi, di diversi individui sepolti (DI
STEFANO 1978).
Sicuramente legate alla sfera funeraria, ma da considerare a parte, sono diverse
strutture esistenti sempre nell’area ragusana che presentano la caratteristica di essere
parzialmente interrate. A contrada Paolina, all’interno di una sorta di recinto sepolcrale
formato da lastroni verticali, sono stati recuperati i resti selezionati (solo i crani) di
diversi individui (DI STEFANO 2014); a Monte Racello, invece, in tombe a cista formate
da lastroni posti a foderare le pareti di una fossa era deposto un unico defunto in posizione
rannicchiata (ORSI 1898).
2. I dolmen di Contrada Cuntarati
Le ricerche più recenti nel territorio di Bronte continuano a rivelare una significativa
presenza di strutture megalitiche. In località Cuntarati (37°46’49’’ N, 14°48’29’’ E) a
SO del centro abitato di Bronte, su una terrazza che si affaccia sul fiume Simeto, è
presente un complesso megalitico a carattere sepolcrale/cultuale. Le due strutture meglio
conservate sono collegate da un muro costituito da blocchi, riutilizzato in epoca moderna
come muro di contenimento. La prima costruzione, quella a Est, è formata da tre lastre
di pietra, spesse circa 0,50 m e alte 1,20 m, sulle quali è appoggiata una lastra in pietra
lavica che ne costituisce il tetto, la cui faccia superiore presenta lave “a corda”; tra il
tetto e i blocchi portanti sono posti piccoli blocchetti di pietra lavica per livellare e
rendere stabile il punto di appoggio del lastrone di copertura (Figura 1).
L’orientamento dell’entrata del dolmen è facilmente determinabile, in maniera non
ambigua, poiché le strutture portanti formano un corridoio ben allineato, dalla geometria
molto semplice e regolare, ed appare quindi orientata verso il meridiano.
278
POSSIBILI ORIENTAMENTI ASTRONOMICO/RITUALI DEI DOLMEN DI CONTRADA CUNTARATI (BRONTE)
Adiacente al dolmen
sono presenti tracce di una
seconda costruzione di cui
rimane un corridoio formato
da alcuni blocchi posti in
sequenza che costituiva,
forse, l’accesso ad una cella
circolare; anche il corridoio
risulta orientato a Sud come
il dolmen.
Il secondo dolmen è
situato a circa trenta metri a
Ovest del primo ed è caratterizzato da un ingresso
monumentale (più stretto Figura 1. Contrada Cuntarati, il dolmen est.
che nel primo caso) che in
origine permetteva l’ac Figura 2. Contrada Cuntarati, il dolmen ovest.
cesso ad un vano circolare,
successivamente crollato
(Figura 2). Anche in questo
caso, sebbene l’ingresso sia
poco profondo, è possibile
affermare che l’apertura è
rivolta verso Sud.
I centri (approssimativi)
delle due costruzioni
indicano un azimut di 265°,
compatibile con la direzione
del sorgere/tramontare del
sole all’e quinozio di
primavera.
L’intenzionalità della
direzione dei due dolmen è certamente significativa da un punto di vista statistico. Anche
assumendo un errore fino ad una decina di gradi, la probabilità che entrambi i dolmen
siano stati posti casualmente lungo la direzione del meridiano è circa 0,0016, che tale
quindi da escludere l’ipotesi nulla. Non è certamente ovvio comprendere i motivi di
questa scelta, sebbene valga la pena osservare che l’analisi statistica dei Sesi di
Pantelleria proposta in TUSA et alii, 1992, sembra mostrare una leggera preferenza
per la direzione meridiana, e non una distribuzione uniforme, come concluso dagli
autori.
È interessante, nelle immediate vicinanze dei megaliti, la presenza di una grotta di
scorrimento lavico, il cui ingresso era caratterizzato da uno stretto corridoio e un muro
di grandi blocchi ai lati. All’interno della grotta, e soprattutto sul terreno circostante,
279
ALFIO MAURIZIO BONANNO
Figura 3. La spirale megalitica di Bronte, e in basso i blocchi caduti
della seconda spirale.
giacevano numerosi frammenti ceramici databili al
Bronzo Antico (pithoi,
vasche di coppe su piede),
e strumenti in pietra.
Gli orientamenti delle
strutture considerate, evidentemente non casuali,
potr ebbero attestar e la
funzione rituale di questo
sito, forse connessa con
l’attività funeraria ipotizzabile almeno per la grotta
e forse anche per le strutture
megalitiche.
3. Conclusioni
Il territorio di Bronte fino a questo momento risulta l’unico dell’area etnea e in generale
della cuspide nord-orientale della Sicilia, a conservare testimonianze megalitiche, per il
resto concentrate nella Sicilia sud-orientale e nell’area agrigentino-trapanese. Il sito di
Cuntarati, come anche quello di Balze Soprane (PALIO 2015, Figura 3, sempre nello
stesso territorio) ha una collocazione topografica privilegiata, adagiato su un ampio
terrazzo che si affaccia su valli fluviali (quella del Simeto per Cuntarati, e quella del
torrente Saracena, affluente del Simeto, per Balze Soprane) (Figura 4). Tale scelta
costituisce una indicazione ulteriore per l’interpretazione della funzione dei siti, punto
Figura 4. Il territorio di Bronte con indicato il sito di contrada Cuntarati e la valle fluviale del
Simeto.
280
POSSIBILI ORIENTAMENTI ASTRONOMICO/RITUALI DEI DOLMEN DI CONTRADA CUNTARATI (BRONTE)
di riferimento simbolico per i gruppi umani che vivevano nel territorio. Il megalitismo
siciliano va quindi inteso come un fenomeno culturale e non semplice risposta alle
caratteristiche geomorfologiche degli ambienti in cui si sviluppa, nel senso che la
particolare natura della roccia vulcanica rende poco agevole l’escavazione delle grotticelle
artificiali, che nel resto dell’Isola costituiscono la tipologia tombale maggiormente
diffusa. Possiamo citare alcuni casi in cui diversi tipi tombali coesistono in un medesimo
territorio: così come a Cava Lazzaro (Rosolini), a contrada Paolina (Ragusa), o a Monte
Racello (Ragusa), le tombe scavate nella roccia coesistono con quelle costruite in blocchi
di pietra, anche nell’area trattata, sia a Balze Soprane, sia a Cuntarati, si registra l’uso
delle grotte di scorrimento lavico insieme a quello delle strutture megalitiche.
Il carattere rituale del sito di Cuntarati appare evidenziato dagli orientamenti dei
domen, che in entrambi i casi hanno l’ingresso orientato verso la posizione del sole
all’equinozio di primavera. Tale evidenza si spiega, probabilmente, con una
frequentazione stagionale del sito, dovuta sia alla pratica della pastorizia, possibile solo
durante la bella stagione, sia all’attività agricola dei gruppi che vivevano nelle vicinanze.
Figura 5. La spirale.
281
ALFIO MAURIZIO BONANNO
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283
284
III. TERRITORIO E
285
VIABILITÀ
286
LE QUATTRO MASSE (MESSINA): DATI PRELIMINARI D’ANALISI STORICO-TERRITORIALE E
VALORIZZAZIONE
EUGENIO CARATOZZOLO*
L’entità storico-territoriale delle Quattro Masse messinesi, o Casali di Tramontana,
costituisce un unicum nella trasformazione del paesaggio attraverso i secoli.
Questo sistema, apparentemente avulso dalle grandi dinamiche storico-politiche
inerenti Messina (sviluppatasi fra collina e mare), ha garantito alla città dello Stretto un
florido retroterra agricolo e produttivo. L’essenza stessa dell’ambiente messinese si riflette
in questi casali, ma con una tendenza al perpetuarsi di elementi culturali più arcaici,
così cristallizzati e non obliati del tutto. Le caratteristiche geo-morfologiche e storiche,
tutte costituenti una bio-diversità basilare per la conoscenza e la valorizzazione del
patrimonio in esame, possono rappresentare particolarmente finalità scientifiche e socioculturali, valori educativi da comunicare e preservare quale substrato di entità storicopaesaggistiche uniche e difficilmente rinnovabili.
Il presente contributo, occupandosi di un argomento così poco vagliato dal punto di vista
storico-scientifico1 e della valorizzazione del patrimonio, ha lo scopo di porre le basi per
future e dettagliate ricerche, venendo così suddiviso in due segmenti per la trattazione. La
prima parte costituisce un’analisi storico-topografica del comprensorio, vagliando
particolarmente le dinamiche insediative e agricole che hanno legato le quattro Masse
all’importante fenomeno del monachesimo italo-greco, spesso definito basiliano in una
sostanziale inesattezza storica avallata da diversi studiosi negli ultimi secoli dell’età moderna2.
* Archeologo e Presidente di SiciliAntica Messina.
1
Esistono solo alcune pubblicazioni storiche locali più incentrate su nozioni parziali e frammentarie:
non s’evince un panorama documentario completo e scientificamente vagliabile sull’intera storia delle
Masse, s. v. A. FERNANDEZ, Monografia economico-agraria e cronistoria religiosa del villaggio Massa S.
Giovanni del Comune di Messina, Messina 1964; A. TORRE, S. Lucia V. e M. venerata in Massa S. Lucia
(ME) con notizie della frazione dal 1700 al 1972, Messina 1973 (estratto di monografia più ampia rimasta
inedita); N. B ERENATO , Terra di Massa, Messina 1999; F. C HILLEMI, I Casali di Messina. Strutture
urbanistiche e patrimonio artistico, Messina 2004; F. CHILLEMI, Messina. I quarantotto casali, Messina
2015 (s’intende citare d’ora in avanti - per praticità - solo quest’ultimo testo dell’autore, essendo un’edizione
aggiornata del precedente); G. LA CORTE CAILLER, Comune e provincia di Messina nella storia e nell’arte:
appunti presi nelle varie escursioni: con fotografie eseguite da Gaetano La Corte Cailler, a cura di G.
Molonia, prefazione di F. Chillemi, in «Quaderni dell’Archivio storico comunale Nitto Scaglione e della
Biblioteca comunale di Messina Tommaso Cannizzaro» 1, Messina 2017, vd. in part. pp. 8-14 e 121-123;
F. TODESCO, Architettura Territorio Conservazione. Insediamenti religiosi di rito greco nel Valdemone
altomedievale, Nardini Editore, 2018, in part. s. v. pp. 158-163.
2
Sul monachesimo italo-greco, il suo sviluppo in Sicilia ed Italia meridionale e le dinamiche di
progressiva trasformazione e assoggettamento in ordine basiliano si vedano: S. BOTTARI, Chiese basiliane
287
EUGENIO CARATOZZOLO
Al recupero della memoria storica segue una parte di strategie territoriali e proposte
di valorizzazione, promozione e una visione d’impatto economico per il fenomeno in
esame. La lettura storica e diacronica delle trasformazioni del comprensorio ha consentito
di registrare l’evoluzione tipologica dei beni storici e paesaggistici, elementi concorrenti
e fondamentali per una value proposition territoriale3.
della Sicilia e della Calabria, in «Bollettino Storico Messinese» 1 (1936-1938), pp. 1-51; L. TOWNSEND
WHITE , Latin Monasticism in Norman Sicily (The Medieval Academy of America, Monograph 13),
Cambridge (MA) 1938; C. A. GARUFI, Per la storia dei monasteri di Sicilia nel tempo normanno, in
«Archivio Storico Siciliano» VI, 1-96, Palermo 1940; E. CALANDRA, Chiese siciliane del periodo normanno,
in «Palladio», V (1941), pp. 232-239; L. R. MÈNAGER, La «byzantinisation religieuse de l’Italie meìridionale
(IXe- XIIe sieÌcles) et la politique monastique des Normands d’Italie, in «Revue d’histoire eccleìsiastique»,
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Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 1963; A. GUILLOU, Il monachesimo greco in Italia meridionale
e in Sicilia nel Medioevo, in L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII, “Atti della della Seconda
Settimana Internazionale di Studio, Mendola 1962, «Miscellanea del centro di Studi Medioevali» 4, Milano
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Convegno Itinerari Basiliani, 24-25 marzo 2006, Messina 2006; L. CATALIOto, Monachesimo greco e Chiesa
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European culture, Palermo 2013, pp. 383-396; G. G. MELLUSI, Il clero greco a Messina e del Valdemone
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3
É doveroso menzionare un importante report geologico-geomorfologico svolto su incarico della
Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Messina, ovvero il Piano Territoriale Paesistico Ambito
288
LE QUATTRO MASSE (MESSINA): DATI PRELIMINARI D’ANALISI STORICO-TERRITORIALE
Sul versante tirrenico a monte della fiumara dei Corsari sono dislocati i villaggi
delle Masse, collegati da Capo Rasocolmo a Capo Peloro tramite un considerevole tratto
di costa, caratterizzato da spiagge che lambiscono imponenti alti morfologici, veri e
propri capi aggettanti sul mare4. La varietà geomorfologica del territorio ha naturalmente
inficiato, nel corso dei millenni, la sua antropizzazione e le dinamiche insediative di
gran parte della Sicilia centro-orientale dall’età preistorica5.
Poco si conosce sulle origini di questi casali ed alcuni autori e storici amatoriali
messinesi hanno finora ritenuto d’identificare il sito con la massa Maratodis (di proprietà
del patricius Iulius) citata in una epistola di S. Gregorio Magno6, dato appena accennato
9 “Area della catena settentrionale Monti Peloritani” (POR Sicilia 2000-2006, Misura 2.02 Azione C).
Nell’analisi storico-paesaggistica preliminare, finalizzata all’individuazione del patrimonio ambientale e
artistico-culturale delle Masse, sono stati selezionati dati per la descrizione dei beni e delle realtà, reperiti
presso uffici comunali, pubblicazioni specifiche, opuscoli, siti internet, relazioni dei P.R.G., ecc. I centri
sono stati valutati sulla cartografia precedente il 1940 e la lettura dei toponimi ha consentito l’identificazione
di quei nuclei già consolidati nel 1890 o in via di formazione fino al 1941. Nella cartografia storica – come
in quella del 1860 – v’è maggior riferimento ai toponimi più vetusti, mentre le carte successivamente
prodotte sono più dettagliate, pur contenendo meno toponimi. Gli stessi risulterebbero anche diversi da
quelli effettivamente noti sul territorio, plausibilmente tramandati oralmente. Il vaglio della cartografia
storica ha consentito non solo l’individuazione di beni isolati dal forte interesse culturale e in mano ai
privati (ed evidenziati dai toponimi stessi), ma anche di registrarne l’evoluzione nel tempo.
4
L’area è caratterizzata da un forte idrodinamismo intrinseco e da considerevoli accumuli costieri.
L’evoluzione della linea di costa è stata fortemente influenzata anche dall’insediamento di piccoli centri
costieri che hanno favorito l’elemento antropico. La successiva e progressiva realizzazione di strade litoranee
ha provocato il completo irrigidimento della fascia costiera, il che ha innescato processi erosivi in diversi
tratti della costa. L’azione antropica ha portato questo stato al peggioramento, ed anche lo sfruttamento
delle dune costiere ha contribuito all’aggravarsi dell’erosione, venendo quindi a mancare una naturale
riserva di sedimenti.
5
Dai tempi più remoti i Peloritani ed i Nebrodi hanno offerto un ampio territorio di caccia agli abitanti
del Paleolitico Superiore e del Mesolitico offrendo ripari in grotte. L’esistenza di specie animali ormai
estinte (in base ai cambiamenti di clima e di paesaggio) è largamente documentata dai depositi paleontologici
rinvenuti presso i ripari. Interessante sovente il riutilizzo di questi insediamenti rupestri in diverse epoche
storiche, fino all’esperienza monastica medievale che ha fortemente influenzato questi territori e che
costituirebbe - allo stato attuale delle ricerche – l’avvio al successivo insediamento delle masserizie.
6
Citando la lettera si segue l’edizione S. Gregorii Magni Registrum epistularum I-XIV, ed. D. Norberg,
CCSL 140-140 A, Turnhout 1982, trad. it. A cura di V. Recchia, Lettere, Opere di Gregorio Magno V/1-4,
Città Nuova Editrice, Roma 1996-1999: “Scientes magnitudinem caritatis uestrae toto Dominun corde
diligere, ob hoc ea quae in massis de iure quondam patriciae recordationis Iuli contra praecepta Dominica
contraque canonum regulam commissa esse didicimus, ad eius necesse duximus referre notitiam, quatenus
haec quae perpetrata sunt corrigi debeant, et alii deinceps temptare non praesumant. Insinuatum igitur
nobis est in massa quae nuncupatur Maratodis ab abbate monasterii sancti Georgii quod in eadem situm
est duos monachos refugisse, et unum quidem ex ei siam coniugem accepisse, alium autem laicum effectum
saeculariter uiuere, cum nec ex familia massae homines ipsi sed esse liberi asserantur et, uel si condicionem
debuissent, contra Deum erat ut, post adeptum diuini officii cultum, ad saecularem uitam atque habitum
remearent. Vnde hortor ut, habita iudicis aeterni consideratione, monachos ipsos retradi sine dilatione
faciatis, uti ne eorum in exemplo cum uestro, quod absit, peccato ceterorum monasteriorum districtio
dissipetur, sed magis ut in magnitudinis uestrae solaciis aliis monachis spes gerendi talia submouatur.
Asseruit etiam praedictus abba presbyterum supradictae massae nouas monasterio ipsi consuetudines
uelle ponere, quae ex tempore conditi monasterii per tricennale tempus hactenus non fuerunt; si quid
enim illic munificentiae gratia a fidelibus uiris oblatum fuerat, portionem se debere percipere. Quod
289
EUGENIO CARATOZZOLO
e non corroborato da prove dimostrabili7. Le prime testimonianze materiali risalirebbero
al periodo normanno, in seguito alla fondazione del cenobio di S. Maria dell’Austro, i
cui avanzi architettonici sono ancor oggi visibilmente integri e ricchi d’informazioni
preziose per gli studiosi specialisti. Di detto complesso monastico si sa che fu costruito
per volontà di Niccola Graffeo nel 1099 8 , ancora autonomo nel 1133 (benché
l’Archimandrita del SS. Salvatore ne rettificasse le nomine a rettore), dipese nel 1177
dal SS. Salvatore di Bordonaro per venire poi definitivamente accorpato nel 1538 in
unità economica e fiscale al nuovo complesso del SS. Salvatore dei Greci, per la cui
ricostruzione ne furono usati pure i proventi9.
A parte questi riferimenti storico-istituzionali non v’è menzione particolare del
monastero negli eventi della storia locale di Messina, salvo sapere che esso fosse ancora
in funzione nel XIX secolo10, nonostante l’oblio progressivo dell’elemento clericale
magnitudo uestra studeat diligenter agnoscere, et si hoc ab initio non fuit, etiam labentibus temporibus
aliquid nouiter imponi non condeceat, quam maxime cum exquae sbstantiae et monasterium pauperum
esse didicimus, et abbatem ipsum hospitalem omnino esse multorum attestatione didicimus. Data die
XIIII Kalendarum Iuniarum indictione X”.
7
Alcuni studiosi ritengono d’identificare in altri siti il monastero sancti Georgii e la massa stessa
menzionati nell’epistola gregoriana: chi con la località di S. Giorgio presso Lentini (A. Messina), chi con
un possedimento incuneato nel patrimonio imperiale palermitano (L. Cracco Ruggini, R. Rizzo). Cfr. A.
GUILLOU, La Sicilia bizantina. Un bilancio delle ricerche attuali, in «Archivio Storico Siracusano», n. s. 4
(1975-1976), pp. 45-89, in part. p. 63; A. MESSINA, Le chiese rupestri del siracusano, Palermo 1979, s. v.
p. 76; L. CRACCO RUGGINI, Il primo cristianesimo in Sicilia (III-VII secolo), in V. M ESSANA- S. PRICOCO
(Edd.), Il cristianesimo in Sicilia dalle origini a Gregorio Magno, Soveria Mannelli, 1987, pp. 85-125, in
part. pp. 115-116; R. RIZZO, La cristianizzazione della Sicilia attraverso il «Registrum epistularum» di
Gregorio Magno, in Atti del I Congresso Internazionale di Archeologia della Sicilia bizantina [Corleone,
28 luglio-2 agosto 1998], (Quaderni dell’Istituto di Studi Bizantini e Neoellenici, 15), Palermo 2002, pp.
119-146, in part. pp. 133-137; EAD., Papa Gregorio Magno e la nobiltà di Sicilia, Palermo 2008, in part.
p. 70; O. BELVEDERE, Dal Medioevo alla Tarda Antichità: gli esiti di una ricerca, premessa in M. S. RIZZO,
L’insediamento medievale nella Valle del Platani, Roma 2004, pp. 1-11, in part. p. 9 nota 90. Per quanto
riguarda l’economia fondiaria ed il sistema delle masse agricole in Sicilia al tempo di Gregorio Magno si
vedano V. RECCHIA, Gregorio Magno e la società agricola, Roma 1978; E. CALIRI, Per la Storia della
Sicilia nell’età di Gregorio Magno, Messina 1997; EAD., Società ed economia della Sicilia di VI secolo
attraverso il Registrum Epistularum di Gregorio Magno, Messina 1997; D. VERA, Massa fundorum. Forme
della grande proprietà e poteri della città in Italia fra Costantino e Gregorio Magno, in «MEFRA», 111
(n° 2 1999), pp. 991-1025.
8
Gli storici propendono tutti per l’anno 1099: Graffeo, fratello di Scholarios (fondatore a sua volta
dell’eremo di S. Pantaleo presso Messina), avrebbe indossato così la cocolla monastica col nome di
Nicodemo. Cfr. V. M. AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, tradotto dal latino ed annotato da G. Di
MARZO, Palermo, 1855, p. 59; R. PIRRO, Sicilia Sacra, 3ª ed., vol. 2°, Palermo, 1733, p. 1007; M. SCADUTO,
op. cit., pp. 69, 121-122, 186.
9
Probabilmente sulla base di un decreto di Paolo III e la connivente volontà politica di Carlo V, cfr. C.
FILANGERI, op. cit., p. 20; F. CHILLEMI, op. cit., p. 173.
10
Testimonianza certa sull’esistenza del cenobio in quest’epoca, nonché fonte preliminare - ma
importante - per informazioni storiche sulle attività e la conduzione economica dello stesso, può considerarsi
una seduta del 16 aprile 1843, ove si presentava la causa fra i monaci “basiliani” del monastero ed il
Comune di Messina, quest’ultimo in rappresentanza degli abitanti di Massa S. Giorgio, i quali richiedevano
la possibilità di cogliere felci ed eriche nei dintorni dell’ “ex-feudo”, oltre che di seminare e pascolare
animali da soma e bovini con pagamento di decima (circa otto tarì pro capite). Interessante notare, in seno
alla disputa, come la risposta dell’abate di S. Maria di Massa a tali richieste fosse negativa in base
290
LE QUATTRO MASSE (MESSINA): DATI PRELIMINARI D’ANALISI STORICO-TERRITORIALE
greco-orientale – dal tardo medioevo all’età moderna – in favore di una latinizzazione
opportunamente volta ad eclissare quel retaggio cultuale11.
Le complicate e travagliate vicende secolari sembrerebbero rispecchiarsi negli avanzi
strutturali del cenobio stesso: scarne tracce della redazione medievale a cui si
sovrappongono interventi di maestranze locali nei secoli XVII e XVIII, forse ascrivibili
a lavori dopo il sisma del 178312. Lo stato attuale palesa elementi eterogenei e non
immediatamente visibili, considerando anche i danni del 1908 e le successive
manomissioni d’età contemporanea. Il corpo di fabbrica della chiesa, ad unica navata e
forse dotata di tre altari, restituisce nel suo prospetto un campanile, un portico con
ingresso ad arco, sormontato da un’iscrizione13 ed una finestra: ciò potrebbe accostarsi
alla tipologia adottata anche nel SS. Salvatore dei Greci.
Dell’edificio ecclesiastico ben poco è rimasto: la facciata addossata al portico
(elemento aggiunto forse nel XVII secolo alla fase più antica) ed il muro destro, su cui
è attualmente collocata un’epigrafe del 179514, la quale copriva originariamente la cripta
e potrebbe costituire un terminus cronologico dei lavori eseguiti dopo il cataclisma del
1783. Al monastero s’accedeva da una porta più ridotta e vicina a quella principale del
portico addossato alla chiesa: sono immediatamente visibili i resti del chiostro su pilastri
in muratura, di cui rimangono solo due archi e le basi di alcuni pilastri, tracce in elevato
del secondo piano, ma il resto è stato abbattuto per la suddivisione delle proprietà fra i
privati, mediante un muro di mattoni e la costruzione di una casa (forse causa principale
anche dello smembramento della chiesa) in tempi abbastanza recenti, definitivo segno
di compromissione strutturale e di frammentaria lettura del complesso15.
all’autodefinizione “proprietà allodiale, e non mai ex-feudale” ed in base anche a menzionati riveli e
prove documentarie, la cui analisi specifica si rimanda a prossimi e imminenti studi sull’origine e sviluppo
di S. Maria dell’Austro. Cfr. Decisioni della G. Corte de’ Conti di Palermo per lo scioglimento della
Promiscuità, par. II, vol. III, Palermo, 1847, pp. 265-274.
11
S’è riscontrata una sostanziale difficoltà nel reperire informazioni storiche attendibili tramite atti
notarili e materiale archivistico, grazie ai quali, però, è stato possibile stabilire almeno pochi punti fermi
cronologici. Non sono stati pubblicati, del resto, studi specifici storico-architettonici e pubblicazioni
scientifiche in merito, cosa che ha contribuito ad un quasi totale oblio del monastero e dell’entità economicoproduttiva ad esso legata.
12
Probabilmente il monastero era cinto da mura, parzialmente esistenti e rimaneggiate nel XIX secolo
con un paramento di laterizi sovrapposto alle fasi precedenti. L’ingresso andrebbe identificato in una
rampa che porta allo spiazzale antistante la chiesa.
13
L’epigrafe forse venne collocata sulla facciata principale della chiesa di Santa Maria a seguito di un
restauro del complesso monastico con dedica all’abate Antonio Zirilli nel 1684: ABBAS D. ANTONIUS
ZIRILLI / 1B84 (sic). Il dato epigrafico è stato interpretato per una datazione al 1384 (Todesco) ed al 1684
(Chillemi), proposta quest’ultima più plausibile giacché la stessa data è ricorrente in una trave-battente
lignea, curiosamente conservatasi, alloggiata dentro un archivolto dell’ingresso al complesso monasteriale,
quindi lateralmente la facciata principale. Cfr. F. CHILLEMI, op. cit., p. 227 nota 135; F. TODESCO, op. cit., p. 158.
14
Di seguito il testo: FACILE / CONTEMNIT OMNIA / QUI / ESSE SE MORITURUM / SEMPER
COGITET / ANNO DOMINI / 1795. Cfr. F. CHILLEMI, op. cit., p. 227 nota 136.
15
Sembrano condivisibili alcune osservazioni di F. Chillemi e F. Todesco sul monastero, ma le recenti
ed evidenti alterazioni architettoniche denotano una visione d’insieme ancora più allarmante, in riferimento
all’integrità materiale del complesso. Cfr. F. CHILLEMI, op. cit., pp. 173-175; F. TODESCO, op. cit., pp. 158159. Si rimanda pertanto un giudizio definitivo ad altra sede, occasione d’analisi specifica e rilievo delle
strutture ancora presenti.
291
EUGENIO CARATOZZOLO
Un’ipotetica, ma logica, spiegazione sull’origine dei casali, potrebbe invece essere
data dall’occupazione araba che ha causato un generale esodo della popolazione dai
centri della riviera verso luoghi più sicuri e mimetizzati, quindi collocati nelle anse dei
torrenti e nascosti alla vista dal mare.
Successivamente lo sviluppo del monastero avrebbe favorito l’insediamento dei
contadini nelle zone limitrofe, quindi il generarsi dei villaggi. Del resto, la denominazione
Massa deriva dal latino e significa proprio l’insieme dei campi e possedimenti
paragonabili ai fundia romani d’età tardo-antica ed alle successive grange dei monaci16.
Gran parte del periodo storico tardo medievale e rinascimentale sembra esser trascorso
senza particolari avvenimenti importanti legati a tali luoghi17. A parte questi scarni
resoconti, certi storici locali hanno generato confusione nell’interpretare riferimenti ed
atti notarili riguardanti la cessione delle Masse al duca di Furnari in seguito alla rivolta
antispagnola del 1674-1678. Il suddetto duca sarebbe divenuto quindi Barone delle
Quattro Masse e la famiglia tenne il titolo e la proprietà fino al 1728, allorché il territorio
sarebbe rientrato nuovamente in mano alla Curia messinese.
Questa vulgata di studi ha creato un sostanziale errore, poiché i casali in questione
furono assegnati dalla Regia Corte a Don Antonio Furnari tramite atto di transazione
del 1691, come bene allodiale (modo eversionis) in compenso della privazione di Furnari
e del feudo di Ranieri18. Il Feudo delle Quattro Masse fu quindi sempre posseduto dallo
stesso Furnari e dai suoi successori fino a Don Pietro Stagno Asmundo Principe
d’Alcontres (prima metà secolo XIX).
Dal 1860 s’evincono atti di pignoramento dal Monte di Prestanza di Sant’Agata di
Catania, che portarono a compravendite e a lottizzazioni varie fra presidii militari e usi
civili di villeggiatura per tutto il XX secolo. Probabilmente in quest’ultimo periodo il
monastero di S. Maria venne annesso alla particella privata e divenne Villa Trombetta19,
come testimoniato da visure catastali e dalla cartografia del periodo. Ancora nel 1902
Giuseppe La Farina descriveva la gradevole ubicazione, le tradizioni locali e l’amenità
dei casali nella sua guida Messina e dintorni, definendoli Svizzera di Messina.
Nelle ultime decadi del XX secolo v’è stato alla fine un incremento delle acquisizioni
dei lotti per scopi privati di villeggiatura, spesso nella totale ignoranza della memoria
passata, scomoda ai fini di espansione edilizia e rimaneggiamenti del tutto personali e
poco coerenti con la natura storica del paesaggio. Cominciando l’analisi dei quattro
villaggi in questione20 non si può che partire da Massa S. Giorgio, risalente all’XI secolo
16
È interessante un’altra teoria di E. Pispisa che fornisce ulteriore spiegazione sull’origine dei casali:
un aspetto molto importante della vita economica di Messina era costituito dall’agricoltura, ed avendo la
città dello Stretto uno sviluppo territoriale e morfologico poco adatto agli scopi agricoli, si dovette cercare
sulle colline e lungo le fiumane ambiti territoriali più idonei alle colture. Cfr. E. P ISPISA, Messina nel
Trecento. Politica economia e società, Intilla, Messina 1987.
17
Solo secoli dopo l’antiquario C. D. Gallo avrebbe riferito sulle incursioni di Ariadeno Barbarossa e
sulle scorribande attuate da soldati reduci dalla guerra contro lo stesso Barbarossa e licenziati senza soldo
nel 1538; episodi successivi ed elementi cronachistici del genere saranno evidenziati ultra.
18
Si vedano in tal senso Atti della Gran Corte dei Conti Delegata, Palermo 1842, pp. 159-164.
19
Di cui s’effettuò una planimetria in scala 1:10.000 fra il 1968 ed il 1969.
20
Ricordando però che l’Amico menziona una quinta massa, Massa S. Michele, del tutto scomparsa o
292
LE QUATTRO MASSE (MESSINA): DATI PRELIMINARI D’ANALISI STORICO-TERRITORIALE
a seguito della fondazione del monastero di S. Maria dell’Austro, che condusse l’attività
agricola della zona.
La chiesa parrocchiale, dedicata a San Giorgio martire, fu costruita nel XVI secolo e
venne distrutta dal terremoto del 1908; quindi l’attuale configurazione dell’edificio si
deve alla ricostruzione in stile romanico attuata da Vincenzo Vinci fra il 1928 ed il 1930
sulla stessa area della chiesa antica21. Leggermente più ampio, a tre navate, l’edificio
precedente era datato 1608 nell’arco absidale maggiore, le sepolture rimandavano al
1745 ed il tutto venne restaurato nel 1898 per crollare rovinosamente nel 1908, salvandosi
solo l’abside affrescata, che fu poi demolita22.
Al suo interno furono però recuperate importanti opere d’arte, riutilizzate per la
nuova parrocchiale: tre grandi altari intarsiati del XVIII secolo, di cui quello a destra
datato 176623; la statua policroma processionale di S. Giorgio e il quadro raffigurante lo
stesso santo del 1718; una tela neoclassica raffigurante S. Stefano; un ciborio del 1565
coi santi Pietro e Paolo a rilievo, forse attribuibili a scuola montorsoliana24; una Madonna
con bambino firmata da Rinaldo Bonanno25. Risultano perdute purtroppo le tele su Gesù
e Maria e quella di S. Gaetano, mentre in sacrestia trova ancora posto un presepe
ottocentesco e nel campanile è presente un campanone seicentesco26.
Altra chiesa di notevole interesse è intitolata a Sant’Antonio Abate27, edificata nel
XVI secolo e gravemente danneggiata dal terremoto del 1908, la quale presenta elementi
decorativi esterni di chiaro rimando a maestranze gotico-catalane o ad esse fortemente
legate28 .
assorbita da una delle altre masse; cfr. V. AMICO, op. cit., p. 59; F. CHILLEMI, op. cit., p. 164.
21
Cfr. G. FOTI, Storia, arte, tradizioni nelle Chiese dei Casali di Messina, Messina 1992, pp. 396-398.
22
Si conservano scarsi resti dell’impianto antico, ossia il tratto del muro laterale destro (adattato a
recinzione) che documenterebbe l’ampiezza originaria, quattro colonne frammentarie, due capitelli corinzi
e due basi di colonna.
23
Vi si può leggere: ARAM ISTAM ORNAVIT MARMORE BALTHASSAR SERGI / ANNO 1766.
24
Si legge chiaramente nel ciborio: HIC PANIS VIVUS CAELO / DEMISSUS AB ALTO / AETERNUM
VIVENT / QUOS ALIT ISTE CIBUS / MDLXIIII.
25
Cfr. A. MIGLIORATO, Una maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del Cinquecento nella
Sicilia orientale e in Calabria, Messina 2010, pp. 272-273.
26
L’esemplare, databile 1660, presenta i tondi con S. Giorgio e la Madonna col bambino (ispirata al
tipo di Bonanno) e il seguente testo: SANCTUS DEUS SANCTUS FORTIS SANCTUS IMMORTALIS
MISERERE NOBIS 1660 / S. GIORGIO ORA PRO NOBIS. RETTORES / D IOSEP SQUATRITO /
PHILIPPUS MOLLICA / DOMINICUS LU PREVITI / IOSEP PERRUNI / DOMINICUS LA SCALA /
DOMINICUS SQUATRITO / SEBASTIANUS ARENA. OPUS ANTONINI / GUERRERA. Cfr. F.
CHILLEMI, op. cit., nota 133 p. 227.
27
Importante per gli abitanti della Massa anche perché nello spiazzo antistante all’edificio s’è sempre
svolta (almeno fino alle prime decadi del XX secolo) la festività tradizionale del Pagghiareddu, fantoccio
di paglia dai forti richiami ancestrali d’agricola propiziazione, riconvertito ed offerto in onore a S. Antonio
Abate.
28
Il profondo intervento di ristrutturazione dell’edificio è ben visibile al suo interno: il muro sinistro
fu probabilmente abbandonato e sostituito da un nuovo muro parallelo, il che rese più piccola la struttura,
interamente risistemata con elementi dell’edilizia baraccata tipica del periodo post sismico. Nonostante
l’evidente anacronismo, il risultato è comunque interessante ai fini storici ed agli occhi dei visitatori. La
facciata a capanna dell’edificio culmina in una nicchia con la statuetta del santo ed è caratterizzata da due
portali asimmetrici di cui uno architravato con mensole figurate a sostegno, e l’altro tardogotico con
293
EUGENIO CARATOZZOLO
Figura 1. Facciata principale
della Chiesa di S. Maria
dell’Austro, Massa San
Giorgio.
Figura 2. Particolare dei resti
del corpo di fabbrica della
chiesa e l’ingresso del chiostro
interno.
Figura 3. Particolare
dell’iscrizione sulla
facciata principale
della chiesa.
294
LE QUATTRO MASSE (MESSINA): DATI PRELIMINARI D’ANALISI STORICO-TERRITORIALE
Figura 4. Particolare della
trave lignea interna all’ingresso del complesso monastico, con
data.
Figura 5. Tracce del muro
destro dell’edifico ecclesiastico.
Figura 6. Particolare dell’ingresso al
monastero di Santa Maria dell’Austro, Massa
San Giorgio.
295
EUGENIO CARATOZZOLO
L’impianto urbanistico dell’abitato di Massa S. Giorgio ricalca perfettamente – salvo
sovrapposizioni di edifici del XIX secolo e recenti superfetazioni attuate dagli abitanti
– lo schema d’impostazione medievale originario, articolato in due nuclei attorno le
chiese di S. Giorgio e S. Antonio Abate, convergenti su una piazzetta centrale, ove
sorgeva anche la chiesa delle Anime del Purgatorio29. Si trovano altresì resti di case
antiche purtroppo abbandonate, tuttavia ancora leggibili nello sviluppo degli elevati e
degli elementi architettonici tipici dell’edilizia siciliana dal secolo XVI al XIX30.
Rimarchevole è la presenza di una fontana monumentale a sezione triangolare con
lavatoio annesso, oggi defraudata degli elementi decorativi esterni, e donata dalla famiglia
Furnari, come testimonia lo stemma ducale lapideo (forse unico esemplare rimasto del
suo genere) appartenente alla nobile casata31.
Un evento drammatico che sicuramente segnò il villaggio, come del resto gran parte
di Messina ed i suoi casali, fu l’epidemia di peste del 174332, che causò almeno 600
mensole antropomorfe sormontate all’architrave e all’arco ogivale soprastante. I cantonali sono stati rivestiti
di blocchi lapidei, mentre il campaniletto barocco è stato ricostruito in cemento sul cantonale sinistro. Nel
campanile è conservata una pregevole campana del 1678 con ovale della Madonna delle Grazie, un rilievo
di S. Antonio Abate ed iscrizione: CAPELLANO / D. GIOVANNI STRACUZZI / FICIMUS E LIMOSINA
OMNIUM / OPUS PACI BERTUCCELLO 1678 / RETORE / M. PRACITU ARENA GIANDO. DI CARRO
/ SIRVIO POFU MINICU FORNARO / GIOSEPPI PACANO BRACTU BASILI. L’interno della chiesa,
a navata unica absidata, risulta meno leggibile per i rifacimenti novecenteschi: la copertura (risalente al
1675) venne rifatta con travi a vista; il pavimento divenne di cemento; l’altare maggiore ligneo con statua
policroma di S. Antonio Abate è opera appartenente all’artigianato locale. Il rivestimento ligneo
caratteristico dell’edificio avvolge anche le sei finestre ogivali delle pareti laterali. Dalla sacrestia s’accede
al corridoio scoperto, causa della creazione del nuovo muro laterale sinistro, sul quale si conserva una
parte di arco in pietra decorato a palmette stilizzate a fiori, un tempo forse intarsiato e appartenente ad
un altare barocco. Risulta perduto, infine, il quadro dedicato a S. Antonio Abate. Cfr. F. C HILLEMI, op.
cit., p. 172.
29
Di proprietà della famiglia Tuccari, prima ancora degli Arena, rovinò dopo il sisma del 1908 e s’è
ridotta a quinta occasionale, conservandosi il muro laterale destro e l’abside il cui arco trionfale, in mattoni,
si conclude in una pregevole chiave di volta lapidea. Nell’abside è stata collocata in età post-bellica
l’iscrizione commemorativa ai caduti (1951), ma i resti sono databili al XVIII secolo. Un’iscrizione sulla
porta, altrimenti persa, venne trascritta da G. La Corte Cailler (Mss. dell’Archivio Storico del Comune di
Messina): D.O.M. / CAROLUS FORNARI / DUX QUATTUOR MASSARUM BARO / VIVENS ADHUC
SIBI PROVIDENS MORITURO / PIETATEM / QUAM PER ELECTAS DECADENTIUM ANIMAS /
FLAMMIS LUSTRALIBUS EXPIATAS / APUD DEUM REPENDAM SPERAT / TEMPLI HUIS A
FUNDAMENTIS / EXCITATIONE IIS EXIBET SUFERAGANDIS / ANNO SECULARI MDCCXXII.
Cfr. F. CHILLEMI, op. cit., p. 226 e nota 127 p. 227.
30
Fra le case padronali che s’affacciano sulla piazza s’evidenzia la Casa Zanghì, col suo grande
balcone rustico settecentesco posto sul retro, i cui cagnoli a volute documentano origini più vetuste
dell’edificio rispetto la facciata principale; nei vicoli vicini si nota la presenza d’un ottocentesco cancello
in ghisa appartenente alla famiglia Peratoner, il cui nome è inserito fra eleganti decorazioni.
31
Perfettamente leggibile e corrispondente alle descrizioni degli esperti d’araldica, con la figura di un
cane sulla sommità. Il rinvenimento di questo esemplare assumerebbe una notevole importanza, poiché
fino a recenti ricognizioni - effettuate dai gruppi Ricerche nel Val Demone e SiciliAntica Messina nell’ottobre
2019 - la ricostruzione dell’araldica legata al casato di Furnari s’era sempre effettuata sulla base di descrizioni
e mai su un documento originale. Cfr. S. RECUPERO, Furnari. Storia di una comunità dal 1204 al 1978,
Messina 2020, pp. 84-85.
32
Evento che ha lasciato vivida traccia nei resoconti parrocchiali: «1743 – In questa Massa di S.
Giorgio cominciò il morbo contagioso alli 13 di giugno come si vede ivi [stesso registro: annotazione su
296
LE QUATTRO MASSE (MESSINA): DATI PRELIMINARI D’ANALISI STORICO-TERRITORIALE
morti33. Per quanto riguarda il sisma del
1908 non si registrarono vite recise o danni
in tale località, come alcuni vorrebbero
supporre per giustificare manomissioni ed
interventi abusivi su edifici storici.
Per quanto concerne Massa S. Lucia,
anticamente, e nel linguaggio corrente, era
conosciuta con la denominazione Lacco34. Tra
i due villaggi di Massa S. Lucia e Massa S.
Giovanni era collocata la frazione mediana
di San Rocco, dove anticamente sorgeva una
chiesetta dedicata al santo ed oggi purtroppo
perduta nella sua materialità come nella
memoria storica35.
Delle quattro Masse, S. Lucia è quella
che risentì di più del sisma e gran parte degli
edifici presentano rimaneggiamenti recenti:
la stessa chiesa di S. Lucia venne
chiaramente reimpostata sul vetusto
impianto fra il 1931 ed il 1933, da un Figura 7. Particolare lapide pavimentale della
cripta, chiesa di Santa Maria dell’Austro. (foto
progetto di Francesco Barbaro, con un P. G. Giunti)
apparato cementizio e nuovi intonaci che
non permettono la leggibilità delle fasi più antiche36. Stando alle notizie riferite da studi
un atto di morte] a foglio 115 e finj negli ultimi di luglio: ne morirono in tutto Seicento, nessuno senza i
Sagramenti tutti, pochissimi senza il Sacro Viatico, e senza Unzione, ma tutti col Sagramento necessario
della Penitenza. Si segnalò nell’amministrazione dei SS. Sagramenti il Sacerdote D. Franco Madraga,
communicando senza bacchetta ma con le mani; il P. Cappellano D. Antonio Calapaj praticò molto
nell’anime i Sagramenti fin tanto che attaccatosi al morbo, appestò tutti li soj Parenti e tutti morirono.
Sia tutto in onore e gloria di Dio. – Circa Duecento delli cadaveri appestati sono sepolti in Chiesa,
Quattrocento in due Cimiteri benedetti in c.da Rina uno, e l’altro in c.da Rubalà; ma crescendo di giorno
in giorno la rovina ed il male che ne morivano quaranta il giorno, ogn’uno si sotterrava come poteva ed
in quale luogo era commodo, e più di uno cadavere di bruciò con tutte le case, ove stava insepolto da più
giorni. D. Antonio Calapaj Vicario For. Capp.no», Parrocchia di Massa San Giorgio, Registro dei defunti,
1743.
33
Si veda dettagliatamente in proposito A. M. ARENA, Notizie e considerazioni sul movimento della
popolazione del villaggio messinese di Massa San Giorgio (1660-1961), in «Archivio Storico Messinese»,
XXX, vol. 37 (1979), pp. 152-159, in part. p. 159.
34
Laddove Massa San Giovanni era identificata come Contari, Massa San Giorgio unicamente come
Massa e Massa San Nicola anche come Ciumara o Fiumara, trovandosi collocata sulle due rive del
torrente Corsari (la parte del villaggio ubicata sulla riva sinistra del Corsari, pare sia stata abbandonata
dopo il terremoto del 1783).
35
La statua di San Rocco, dopo un’accesa disputa tra gli abitanti dei due villaggi che se la contesero,
venne trasportata nella chiesa di Massa S. Lucia nel 1850.
36
La chiesa antica - la cui porta era datata 1747 da uno stemma gesuitico, mentre nell’arco absidale
v’era segnata la data 1616 – sembrerebbe fosse più corta e larga dell’attuale, e accompagnata da un campanile
alto a guglia e dalla canonica. Per via del sisma rimase solo il muro destro, mentre si persero le statue
policrome di S. Lucia e dell’Immacolata. Si recuperarono piuttosto le statue di S. Antonio da Padova e di
297
EUGENIO CARATOZZOLO
Figura 8. Resti e rimaneggiamenti nel
chiostro di Santa
Maria dell’Austro,
Massa San Giorgio.
Figura 9. Ortomosaico dell’intero complesso monastico nella
sua attualità (elaborazione grafica di F.
Raimondo).
Figura 10. Facciata
della chiesa di Sant’Antonio Abate,
Massa San Giorgio.
298
LE QUATTRO MASSE (MESSINA): DATI PRELIMINARI D’ANALISI STORICO-TERRITORIALE
Figura 11. Interni della chiesa di Sant’Antonio Abate.
Figura 12. Resti dell’abside della chiesa delle
Anime del Purgatorio, Massa San Giorgio.
Figura 13. Particolare dell’edilizia privata
nell’abitato di Massa San Giorgio.
299
EUGENIO CARATOZZOLO
locali l’abitato di Massa S. Lucia, quindi, non presenta elementi rilevanti, eccezion fatta
per un edificio posto sulla via principale accanto la parrocchiale e sormontato da un
blasone settecentesco (non più in situ), che la tradizione ha identificato con un
monastero37 .
Rispetto alle altre Masse quella di S. Giovanni si presenta molto più defilata e in
posizione elevata verso nord. Non detiene particolari testimonianze del proprio passato,
poiché gli stessi abitanti hanno alterato gli edifici privati e le abitazioni più antiche, per
cui la leggibilità del vecchio tessuto urbano è esigua. All’ingresso del villaggio sorgeva
la chiesa dedicata a S. Barbara, distrutta e sostituita da una moderna icona 38.
Unico edificio degno d’interesse è la chiesa in stile eclettico neorinascimentale
dedicata a S. Giovanni39 , patrono del paesino, che conserva una statua policroma
rinascimentale di S. Giovanni Battista, una coeva acquasantiera decorata a grottesche,
l’altare maggiore del XVIII secolo e le statue policrome dei santi Cosma e Damiano,
mentre la tela cinquecentesca raffigurante il santo sembrerebbe andata perduta40.
S. Rocco, unico arredo storico assieme al paliotto intarsiato dell’Immacolata. Le statue di S. Lucia, S.
Giuseppe col Bambino e dell’Immacolata e gli altri altari vennero in seguito rifatti grazie ad offerte di ex
abitanti emigrati. In sacrestia c’era pure il ritratto marmoreo del sacerdote Pietro Paolo Gilardo, cappellano
delle Masse morto nel 1815, scultura andata perduta nel cataclisma. Cfr. G. FOTI, op. cit., pp. 420-421; F.
CHILLEMI, op. cit., p. 166.
37
Sempre la suddetta tradizione riporterebbe la presenza di altre strutture monastiche e conventuali:
un convento fondato in via Burgo, ove si notava ancora un globo murato con una croce, ormai asportato;
in Contrada Case o Canneto, vi sarebbe ancora il rudere di un piccolo monastero con resti di una cappella
ed una cisterna; in Contrada Favà esisteva un convento con una chiesa dedicata a S. Cosimo; un
insediamento monastico sorse probabilmente in Contrada Pozzo; in ultimo, potrebbe risultare interessante
la posizione del cimitero piccolo, sorto su una collina a monte del villaggio, cfr. M. A. CAMINITI, Recinti
sacri. I complessi cimiteriali come elemento di costruzione del paesaggio, Messina 2013, pp. 264-265
(scheda di A. Arena e N. Calogero). Nessuna indagine territoriale scientificamente valida ha finora mai
accertato tali presenze e si ravvisano soltanto ipotesi di studio da rimandare a future analisi. Cfr. F. CHILLEMI,
op. cit., p. 166 e p. 168.
Particolare interesse potrebbero suscitare alcuni ambienti ipogeici localizzati, tuttavia il riutilizzo nel
corso dei secoli resta evidente; cfr. F. TODESCO, op. cit., pp. 21-23.
38
Vi si legge: A MARIA CELESTE PELLEGRINA / E ALLA MARTIRE S. BARBARA / QUIVI IN
ANTICO VENERATA / MASSA S. GIOVANNI / QUESTA STELE ERESSE / 8 XII 1958. QUI LE
CAMPAGNOLE DI / MASSA S. GIOVANNI / CONCLUDENDO / LA SETTIMANA DELLA TERRA /
RAFFERMANO / PER UN MONDO MIGLIORE / LA LORO FEDE / NEI PRINCIPI CRISTIANI / 26/
4/1953.
39
L’edificio si può ammirare nell’attuale redazione, ossia una quasi totale ricostruzione post sismica
ad opera dell’ingegnere Mario Patanè, salvo scarni riutilizzi di alcuni elementi decorativi dell’apparato
più antico, cui sopravvisse solo l’alta torre campanaria, demolita in seguito poiché ritenuta pericolante:
cfr. V. KESSLER (PIVELLO), Lettere dal terremoto, Roma 1910, pp. 102-103; G. FOTI, op. cit., p. 417; F.
CHILLEMI, op. cit., p. 166 e note 121-122 p. 226.
Un’epigrafe interna riporta la cronologia degli avvenimenti riguardanti l’edificio sacro:
· 1574, prima fondazione
· 1729, assunzione della dignità parrocchiale
· 28-12-1908, crollo della struttura
· 31-06-1931, ricostruzione ad opera dell’Arcivescovo A. Paino
· 1974, anniversario dalla prima fondazione
40
Vale il caso citare altri materiali frammentari della parrocchiale, fra cui un ovale della Madonna
della Lettera, un rilievo di marmo di S. Barbara e un quadretto dei Santi Biagio e Aloe. Presenti anche
300
LE QUATTRO MASSE (MESSINA): DATI PRELIMINARI D’ANALISI STORICO-TERRITORIALE
Il culto di S. Giovanni potrebbe essere derivato da un retaggio orientale, poi assimilato
e riproposto maggiormente dalla milizia gerosolimitana (presente anche nel limitrofo
territorio di Castanea delle Furie, certamente luogo di una commenda dell’ordine), cui
si devono diverse fontane-abbeveratoi del XVII secolo sparse in tutto il territorio delle
Masse41 e recanti croce greca.
Le origini certe di Massa S. Nicola – vero e proprio caso di Ghost Town (città fantasma)
- sono invece datate attorno al XVIII secolo.
Adagiata lungo l’omonimo torrente, affluente del Corsari, conserva in maniera
pressoché intatta le caratteristiche originarie del borgo rurale, interessante per lo stato
di conservazione42 .
Il completo abbandono del casale non ha alterato particolarmente l’identità fisica del
suggestivo sito, in cui i limitati interventi impropri non hanno ancora compromesso il
fascino e lo spirito di una dimensione altra, vero e proprio locus amoenus ove il tempo
pare essersi arrestato in un’istantanea.
Lungo gli stretti vicoli si possono ammirare esempi di tipologie edilizie rustiche dei
secoli XVIII-XIX, realizzate con murature a sacco e ricorsi di mattoni, architravi in
legno o in pietra, solai lignei e tetti con manto a copertura di coppi43. L’edificio sacro
principale è dedicato a S. Nicola ed è dislocato in posizione dominante44. Ricostruito
dagli stessi abitanti, probabilmente agli inizi del XX secolo, presenta una muratura
ordinaria ed un alto sagrato definito da sedili ed un campanile posto sul prospetto laterale
sinistro45. Importante è, piuttosto, la presenza di una chiesetta più antica ai margini del
alcune iscrizioni, e su una piccola lastra di marmo si legge: PAVIMENTUM HOC / ALTARIAQUE / D.
FRANCISCUS ANASTASI / CAPP. CUR. PERAGENDI / CURAVIT / 1815. Un’altra lapide frammentaria,
che chiudeva la cripta, riporta: HIC REQUIESCAT DONEC / VENIET IMUTATIO MEA // 1746. Fra
questi materiali spicca certamente un frammento di campana curiosamente proveniente dal monastero di
S. Maria delle Masse e recante: BASILICA / 1721 / S. M. MASSARUM. Cfr. F. CHILLEMI, op. cit., p. 166
e nota 123 p. 226.
41
Sovente e malamente le croci patenti di tali abbeveratoi vengono interpretate da alcuni messinesi
con l’effigie dei Cavalieri del Tempio. Questi manufatti sono presenti in altre località delle Masse circostanti:
fra gli esemplari più noti vi sono quello nei pressi di Castanea e quello di Massa S. Giorgio, datato forse
1689, in contrada vecchia Badia, ossia nel sentiero fra l’abitato ed il monastero di Santa Maria di Massa.
42
Ciò corrisponderebbe con quanto espresso in V. AMICO , op. cit., p. 59, ove si parla di 77 case e
duecento abitanti nel censimento del 1760.
43
Le abitazioni di Massa S. Nicola possono ricondursi a due tipologie che rappresentano tipi edilizi
più antichi: quelle terrane ad unico piano (originariamente adibite ad abitazione e poi a deposito) e quelle
a profferlo con due piani e scala di accesso esterna lignea o in muratura. Il passaggio delle abitazioni da
terrane a profferlo ha costituito una separazione tra l’attività lavorativa al piano terra e quella abitativa al
piano superiore.
44
In occasione della festa di San Nicola, che ricorre ogni 6 dicembre, un gruppo di fedeli abitanti delle
Masse vicine, realizza la processione della statua del Santo che, partendo dalla chiesa, percorre le vie del
paese.
45
L’edificio religioso, dunque, presenta un vano rettangolare con l’altare maggiore sopraelevato e
quattro altari laterali, di cui due in muratura dipinta e due con paliotti intarsiati settecenteschi, appartenenti
la vecchia chiesa. L’altare di San Nicola fu ricostruito in muratura nel 1911, mentre l’altare maggiore in
marmi policromi settecenteschi è impreziosito da un paliotto intarsiato con girali a foglie. Sulla destra si
noti il ciborio marmoreo d’età rinascimentale, mentre s’è persa traccia della tela tardo-quattrocentesca del
S. Nicola in trono. Si può considerare settecentesca la statua policroma di San Nicola, oggi presso la
301
EUGENIO CARATOZZOLO
centro, ridotta allo stato di rudere ed individuata come chiesa di Santa Maria de Scalis,
la quale mostra scarni apparati decorativi databili al XV secolo, ma non si può escludere
il riutilizzo dell’impianto più antico46 di un edificio di culto forse legato alla presenza
monastica greco-italica, altrimenti documentata nelle vicinanze.
L’attività prevalente era quella agricola, con particolare riguardo agli agrumi e
all’estrazione delle essenze profumate. Gli effetti della produttività agricola del villaggio
sono visibili ancora oggi nei terrazzamenti realizzati con pietrame a secco nel territorio
circostante, caratterizzato dal persistere di colture tradizionali (vite, ulivo, albicocchi,
gelsi e agrumi) cui sono associate opere accessorie: senie, mulini e palmenti in rovina.
Sono stati censiti circa 11 mulini ad acqua, sparsi lungo il torrente e testimonianti
l’importanza delle colture estese anche ai villaggi vicini.
Dopo il secondo conflitto bellico, un considerevole movimento emigratorio verso
gli Stati Uniti ha depauperato degli abitanti il piccolo borgo, passando così da circa 450
a meno di 40 abitanti. Nel tempo la popolazione è diminuita al punto che il villaggio è
ormai disabitato e preda di razziatori e criminali, che hanno trafugato oltre qualche
dipinto e statue custoditi nella piccola chiesa, anche arredi facenti parte del patrimonio
pubblico47. Il paese si trova attualmente sotto il vincolo della Sovrintendenza dei Beni
parrocchia di Massa San Giorgio, differentemente dalla statua dell’Addolorata in cera ed abiti di stoffa di
gusto tipicamente ottocentesco. Si conserva una fonte battesimale in marmo rosso con copertura lignea,
mentre l’acquasantiera risalirebbe al 1925. A questo apparato si possono aggiungere alcune testimonianze
epigrafiche degli interventi decorativi per la chiesa ricostruita. Sull’altare di San Nicola è recato: FAMIGLIA
/ GIUSEPPE AMENDOLIA / FU GIORGIO / PER DEVOZIONE / 1911. Mentre sull’altare in muratura
frontale e con recente statua della Madonna della Scala: PER DEVOZIONE / DI / ANTONIO CRESCENTE
/ DI FRANCESCO / 1917. Sull’altare dell’Addolorata: PER OBOLO / DEL / POPOLO / 1917. Sul
lampadario: COSTA BIAGIO / ANNA AMMENDOLIA MOGLIE / DOMENICA MARIA FIGLIE / PER
DEVOZIONE 6 DICEMBRE 1919. Nell’acquasantiera che forse sostituì un manufatto marmoreo: AVV.
GIOVANNI ROBERTO PALERMO / PER DEVOZIONE / 1925. Infine, sulla vara lignea: GLI
AMERICANI PER OPERA DI / NICOLO’ FORNARO FU NICOLO’ 1911.Fino a quindici anni fa erano
presenti due grandi campane, una delle quali, spezzata, recava un rilievo della Madonna della Scala,
differentemente dall’altra, datata 1514 ed avente incisa la Madonna col Bambino in cerchio e la scritta
AVE MARIA GRACIA PLENA DO. MCCCCCXIIII. Entrambi i manufatti, purtroppo, sono stati sottratti
da malfattori in circostanze ignote. Cfr. F. CHILLEMI, op. cit., p. 168 e nota 126 p. 226.
46
Il semplice schema planimetrico dell’edificio presenta una navata unica con un grande altare
settecentesco in mattoni e stucco abbastanza degradato, richiudente il vano absidale. Sotto la navata si
sviluppa una cripta con botola a fossa (carnaia), al cui interno sono riconoscibili frammenti di ossa umane
frammiste a materiali più recenti e pattume intenzionalmente lasciato da avventori casuali. La facciata
possiede una porta architravata con mensole antropomorfe, databile all’avanzato XV secolo e sovrastata
da un finestrone rettangolare e da un oculo. Una finestra quadrata, murata in antico, si apriva accanto
l’ingresso principale, a differenza di cui la porta laterale ogivale parrebbe possedere rimandi goticheggianti.
Particolarmente interessante risultava l’interno della chiesa per la presenza di un paliotto intarsiato con
ovale recante la Madonna del Carmine, una macchinetta lignea scolpita e decorata con colonne corinzie
dal gusto tipicamente rinascimentale, e, per finire, la tavola della Madonna col Bambino incoronata da
angeli (scala simbolica raffigurata a lato), in pessimo stato di conservazione ed elevata illeggibilità. Anche
in questo caso si ha spiacevolmente la notizia del furto recente di macchinetta e tavola.
Per un’analisi più puntuale delle fasi murarie dell’edificio ecclesiastico e relativa interpretazione cfr.
F. TODESCO, op. cit., pp. 159-160.
47
Come il mascherone in pietra del XVIII secolo della fontana pubblica a nicchia, forse risalente al
1893, data graffita sull’intonaco del muro adiacente.
302
LE QUATTRO MASSE (MESSINA): DATI PRELIMINARI D’ANALISI STORICO-TERRITORIALE
Figura 14. Fontana monumentale donata dalla famiglia
Furnari, Massa San Giorgio.
Figura 15. Particolare dello
stemma lapideo del casato
Furnari nella fontana monumentale, Massa San Giorgio.
Figura 16. Veduta di
Massa Santa Lucia.
303
EUGENIO CARATOZZOLO
Figura 167 Chiesa di Santa Lucia, Massa Santa Lucia.
Figura 18. Interno della chiesa di Santa Lucia.
Figura 19. Facciata della chiesa di San Giovanni
Battista, Massa San Giovanni.
Figura 20. Interno della chiesa di San Giovanni.
304
LE QUATTRO MASSE (MESSINA): DATI PRELIMINARI D’ANALISI STORICO-TERRITORIALE
Culturali di Messina, in attesa di ulteriori acquisizioni scientifiche e di una fin troppo
auspicata e rimandata valorizzazione.
----Le località limitrofe ed i casali, oggetto d’analisi, soltanto negli ultimi due secoli
sono state percepite estranee al comprensorio stesso.
Fino al XIX secolo le Masse facevano sistema con Capo Rasocolmo e la spiaggia
sottostante di Acqualadrone, il cui toponimo si riferisce così chiaramente alla
frequentazione costiera dei corsari barbareschi. La stessa denominazione deriva da Acqua
dei Ladroni e la vicina presenza del torrente Corsari corrobora questo contesto
toponomastico. Tale villaggio, sparita l’attività della pesca, è divenuto nelle ultime decadi
del XX secolo luogo di villeggiatura estiva e residenziale, favorito dalla natura suggestiva
ed accogliente dei suoi litorali.
Al tempo delle incursioni turche, tra il XVI secolo e il XVII secolo, gli ottomani e i
corsari barbareschi sbarcarono frequentemente in quella località, risalendo il torrente
che da loro prese il nome, per cercare di saccheggiare i villaggi a nord della città e la
stessa Messina prendendola di sorpresa alle spalle.
Il casale di Acqualadroni, insieme a quelli di Spartà, Piano Torre e San Saba, faceva
parte delle Masse Marittime.
Khayr al-Din spesso svolse incursioni nelle coste della Calabria e della Sicilia, usando
come avamposto proprio Acqualadroni, il che costrinse gli abitanti a nascondersi tra le
colline e nelle grotte48.
Ciò concerne ovviamente gli eventi storici più recenti, ma un’importante scoperta
archeologica impone qualche passo cronologico indietro: nel 2008 fu rinvenuto un rostro
di nave, databile al III a.C., nelle acque del sito49.
Capo Rasocolmo o Rasicolmo o Rais colmo, denominato in età romano-imperiale
Falacrio dal geografo Tolomeo, è un promontorio sul mare la cui morfologia costituì un
facile e sicuro punto d’avvistamento contro i corsari barbareschi, tanto da ospitare una
torre-lanterna50. Ciò che si può scorgere oggi del faro in questione è una struttura più
recente, ove è evidente il rimaneggiamento post-bellico, allorché venne usato come
postazione militare e batteria contraerea.
48
Secondo una cospicua letteratura di cronache locali facenti capo a C. D. Gallo, il quale descrisse più
incursioni: la prima, in data 19 giugno 1543, vedrebbe il Barbarossa prendere una nave ragusea per far
sbarcare una moltitudine di turchi; un’altra incursione riguarderebbe alcuni pirati che ribellatisi nel 1549
al condottiero turco Muleassen si stabilirono presso le rive del mar Tirreno, alle falde e nelle rocce dei
monti che dividono il faro dalle Masse e Castanea. Questi contingenti di corsari e/o reietti di guerra
avrebbero eluso la vigilanza del Senato di Messina per diverso tempo, compiendo assalti verso le navi
passeggere e razziando i villaggi delle colline soprastanti, azioni il cui eco ha evidentemente lasciato
traccia nelle memorie popolari e nei toponimi locali. Cfr. C. D. GALLO , Annali della Città di Messina,
1879, tomo II, p. 531 e segg.; L. P RINCIPATO, Castanea nelle sue vicende toriche e religiose, Messina,
1939, pp. 21-22.
49
Se in un primo tempo si pensò ad una nave attinente alla battaglia di Nauloco tra Sesto Pompeo e
Agrippa, le ricerche ulteriori hanno evidenziato una cronologia diversa. Si tratta forse di una nave punica
o italiota, avendo combattuto la battaglia di Milazzo durante la prima guerra punica.
50
Struttura edificata nel 1557 e citata da Tiburzio Spannocchi, dona il toponimo di Piano Torre o
Chian’a turri ad una frazione situata nelle immediate vicinanze.
305
EUGENIO CARATOZZOLO
In tempi più recenti questo luogo è entrato a far parte della celebre Tenuta Rasocolmo,
impresa di produzione vinicola famosa per il vino Faro DOC, la cui importanza nel
panorama economico e nell’enogastronomia verrà esplicata seguentemente.
Proposte
Appurata la parte d’analisi storico-territoriale è doveroso inquadrare il comprensorio
nell’ottica di alcune proposte sul piano della valorizzazione e della promozione, per
cercare di fornire un piano strategico congruo che possa restituire dignità al contesto
storico d’origine e competitività nell’offerta attrattiva per il turismo.
Prima di ciò urge fornire elementi preliminari per una breve analisi SWOT (acronimo
di Strenghts, Weaknesses, Opportunities e Threats, ovvero Forze, Debolezze, Opportunità
e Minacce) del territorio oggetto d’esame. Sono stati pertanto enucleati dei punti fissi
fondamentali a seguito d’indagine autoptica e documentaria sull’areale in questione:
1. Punti di Forza- STRENGTHS
· Presenze di attrattori turistici vicini: Laghi di Ganzirri, Torri Costiere, Chiese e
fontane.
· Rilevante superficie agricola da rivitalizzare economicamente e produttivamente.
· Disponibilità degli abitanti (da verificare sul campo) a partecipare ai progetti
----2. Punti di debolezza - WEAKNESSES
· Nelle Masse e dintorni la rete idrica è insufficiente
· L’insufficienza e la precarietà dei collegamenti (S.S. 113 e S. P. 45) limitano di
fatto le prospettive di sviluppo dell’area di riferimento.
· Località come Massa S. Nicola presentano case abbandonate e fatiscenti. Gli stessi
proprietari (residenti ormai a Massa S. Lucia) non sono interessati al recupero delle
stesse.
· Mancanza d’infrastrutture: l’area è distante da ferrovia ed aeroporto.
----3. Potenzialità- OPPORTUNITIES
· Recupero di borghi come Massa S. Nicola da destinare allo sviluppo di una rinnovata
offerta culturale e ricettiva.
· Sviluppo di tutte le attività legate alla conservazione, tutela e fruizione delle risorse
ambientali, paesaggistiche e culturali.
· Progetti per la valorizzazione delle produzioni tipiche: vino del Faro DOC, essenze
di agrumeti antiche (ripristino e ristrutturazione degli antichi mulini ad acqua presenti
nelle fiumane), presso la Tenuta Rasocolmo.
----4. Rischi territoriali - THREATS
· Mancata attuazione del piano delle colline per Messina, con conseguente degrado
delle realtà infrastrutturali.
----Chiarite queste condizioni, sembrano emergere molte criticità, dovute prevalentemente
dallo scollamento istituzionale fra il Comune di Messina e le realtà locali, senza
306
LE QUATTRO MASSE (MESSINA): DATI PRELIMINARI D’ANALISI STORICO-TERRITORIALE
Figura 21. Particolare dell’epigrafe
interna con datazione, chiesa di San
Giovanni.
Figura 22. Fontanile-abbeveratoio (XVI
sec.) con croce greca, località Contrada
badia di Massa San Giorgio.
Figura 23. Particolare della fontana, con
croce greca e datazione (cfr figura 21).
307
EUGENIO CARATOZZOLO
sottovalutare la forte mancanza di un coordinamento funzionale all’offerta turistica,
mediata da una comunicazione che possa soddisfare gli standard attuali e, magari, sapersi
proiettare per le richieste future, vista la rapidità d’evoluzione dei supporti tecnologicomultimediali tipica dell’ultimo decennio.
Oltre questi aspetti, si può ravvisare la mancanza di una strategia capillare che sappia
sfruttare la narrazione storica del background (fatti ed avvenimenti) locale, le attività e
le attrattive al fine d’intercettare i flussi turistici nella provincia di Messina, in crescita
negli ultimi anni ma dirottati - per complesse prassi consolidatesi - in ben altri luoghi,
quali Taormina e le Isole Eolie. Connettere la realtà delle Masse, darne un’immagine
coesa e finemente narrata, crearne un brand (marchio), e saperlo trasmettere seguendo
le più aggiornate modalità di comunicazione nella rete e nei social più influenti, potrebbe
costituire un primo passo strategico, con molta attenzione al network che potrebbe
derivarne. Anche l’aspetto dei collegamenti viari, fondamentale, denota carenze, potendo
però risolversi creando una sinergia per visite guidate per gruppi dal numero
predeterminato con imprese di tour operator51.
Da coinvolgere anche apposite associazioni di volontariato che gestiscono servizi di
valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale: sovente vi fanno parte soci già
professionisti del settore, quali guide turistiche abilitate, archeologi e storici dell’arte.
Tutti gli aspetti concernenti il piano strategico territoriale non devono essere trascurati,
come il tempo d’attuazione – almeno un triennio d’attività programmative ed investimenti
- e la destinazione, non soltanto rivolta ad un pubblico esterno, ma anche agli abitanti
stessi delle Quattro Masse52.
Elemento importante ai fini di un’attuazione strategica sul territorio è il
coinvolgimento degli stakeholders (gruppi interessati), in grado d’amplificare la rete
sinergica e rendere più attuabili le finalità di valorizzazione e promozione.
La strategia di stakeholder engagement (gruppi interessati coinvolti) deve
necessariamente considerare i bisogni delle realtà scelte:
· sentirsi parte integrante della società e dei beni storici;
· creazione di valore;
· supporto tecnico e condivisione delle informazioni;
· sicurezza nell’ambiente lavorativo e sviluppo professionale;
· qualità e continuità della fruizione dei beni.
Enucleati questi aspetti importanti per la ricezione socio-culturale si dovrebbe
procedere ad attuare i seguenti interventi:
· condivisione dei valori nello sviluppo della strategia e della gestione dei beni;
· trasparenza e tempestività nell’informazione;
Realtà che forniscono già dei collegamenti per le Masse, ma che andrebbero promosse maggiormente
in base ad una pianificazione e ad una coesione ben precisa, mediata eventualmente da un’agenzia di
servizi e di comunicazione per eventi ed attività culturali.
52
Tenendo presente che il numero di unità popolanti non vede che alcune centinaia nel totale delle
stime eseguite. Si contano circa 500 abitanti per Massa S. Giorgio, 167 abitanti per S. Giovanni e 352 per
S. Lucia; per quanto riguarda invece i villaggi limitrofi s’evidenzia un maggior numero di popolazione
residente: Castanea delle Furie (1.888 unità), Gesso (549), Acqualadroni (104) e Salice (961).
51
308
LE QUATTRO MASSE (MESSINA): DATI PRELIMINARI D’ANALISI STORICO-TERRITORIALE
· collaborazione, partecipazione alla pianificazione territoriale delle attività e di tutte
le iniziative annesse;
· ascolto delle istanze, accesso alle informazioni;
· tutela dei beni e dell’ambiente.
Ciò che segue è una lista preliminare delle associazioni e realtà locali, suddivise in
base alla pertinenza territoriale.
----Stakeholders (gruppi interessati) esterni:
· Università
· Appassionati
· Scolaresche
· Cittadini e abitanti dei villaggi
· Residenti di Quartiere
· Turisti
· Commercianti
· Finanziatori e investitori
· Media (televisione, testate giornalistiche, social)
· Associazioni no profit
· Cooperative sociali
· Club Services (Rotary, Kiwanis, Lions)
· Compagnie teatrali e associazioni per la cultura e l’entertaiment
· Servizi aggiuntivi (attività di ristorazione ed enogastronomia)
----Stakeholders interni:
· Risorse umane
· Cooperativa di gestione dei servizi per la comunicazione e gli eventi
· Enti regionali
· Comune di Messina
· Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Messina
· Assessorato di competenza
----Tutte queste realtà, la strategia territoriale per legarli vicendevolmente ed il network
(circuito) che ne deriverebbe potrebbero concretizzarsi nella costituzione del Consorzio
delle Masse, società che possa coordinare le azioni, l’impatto economico locale ed i
servizi di gestione, fruizione e comunicazione del comprensorio oggetto d’esame.
Includere il territorio dei Casali di Tramontana in un network ben collaudato di
associazioni e cooperative, come visto in precedenza, può fornire un decisivo impatto
territoriale ai fini di valorizzazione e promozione.
Collaborazioni istituzionali e protocolli d’intesa abbastanza estesi possono mettere
in condizione favorevole investitori esterni o imprese locali, che potrebbero creare nuovi
posti di lavoro e riqualificare la zona.
Dal punto di vista agricolo-produttivo la ripresa di appezzamenti di terreno
abbandonati – un tempo così floridi e rinomati – e il reinnesto di colture storiche tipiche
309
EUGENIO CARATOZZOLO
Figura 24. La posizione delle Masse rispetto a Messina.
(vite, agrumi, gelsi) sono spunti per caratterizzare e riconfigurare le piccole imprese,
affiancandole a brand (marchio) sicuri come Tenuta Rasocolmo, organizzatrice di eventi
e formazione qualificata nel settore enogastronomico.
Oltre all’aspetto economico, il vero impatto giungerebbe da un punto di vista socioculturale, nel restituire la memoria storica ed il senso d’appartenenza alle comunità
locali, alle maggiori città siciliane, ed anche ai futuri fruitori.
Base di questo percorso dev’essere una narrazione territoriale trasversale, basata sugli elementi storici, le informazioni in nostro possesso ed in grado di radicarsi mediante
l’animazione territoriale. Il background derivato può attuarsi - come accade da diversi
anni in altri borghi storici riqualificati – in un evento storico-rievocativo itinerante, che
possa includere tutti i villaggi del comprensorio, ricchi di attrattive monumentali e di
experiences accattivanti per il pubblico.
Eventi rievocativi di tale portata, gestiti e coordinati da una cooperativa di servizi
appositamente creata, offrono il racconto di un mondo antico e perduto, che possa
affascinare diversi target di persone.
Altro volano d’attrazione e interesse è il paesaggio incontaminato stesso, nonché le
bellezze naturalistiche della Svizzera di Messina. Possono in tal senso essere funzionali
dei percorsi tematici per escursioni paesaggistiche, coinvolgendo realtà associative che
si occupino di trekking extra-urbano e storico-naturalistico.
310
LE QUATTRO MASSE (MESSINA): DATI PRELIMINARI D’ANALISI STORICO-TERRITORIALE
Figura 25. Veduta di Massa San Nicola.
L’esplorazione del paesaggio delle
Masse è motivo d’intrattenimento
certamente, ma anche di formazione per
gli studenti scolastici e universitari, che
potrebbero così misurarsi con attività di
survey e ricognizione territoriale sotto la
guida di professionisti del settore e dei
dipartimenti universitari competenti.
Le attività sopra enunciate, in
particolare gli eventi di natura storicorievocativa, devono riguardare anche la
manifestazione d’interesse finalizzata alla
ricezione di offerte di sponsorizzazione e
donazione da parte di operatori
potenzialmente interessati.
Si possono valutare proposte di
sponsorizzazione di natura finanziaria
(erogazione economica) o tecnica
(fornitura di beni, servizi o altre utilità).
Oggetto principale del presente
contributo sono, quindi, gli interventi per
il rafforzamento dell’attrattività dei borghi
e dei centri storici di piccola e media
dimensione, attraverso il restauro e il
recupero strutturale di spazi urbani, edifici
Figura 26. Facciata della chiesa di Santa Maria
de Scalis, Massa San Nicola.
311
EUGENIO CARATOZZOLO
storici o culturali, nonché elementi distintivi del carattere identitario.
Altresì sarebbero consoni progetti innovativi di sviluppo turistico che favoriscano
processi di crescita socio-economica nei territori beneficiari, anche al fine di promuovere
processi imprenditoriali che ne accrescano l’occupazione e l’attrattività.
Fra gli interventi contemplati in diversi bandi pubblici per la riqualificazione dei
borghi storici vi sono:
· recupero e adeguamento funzionale, strutturale e impiantistico di immobili e/o
spazi pubblici;
· realizzazione di percorsi ciclabili e/o pedonali per la connessione e la fruizione dei
luoghi d’interesse storico-culturale (musei, monumenti, siti Unesco, biblioteche, aree
archeologiche e altre attrattive culturali, religiose, artistiche, ecc.);
· erogazione dei servizi d’informazione e comunicazione per l’accoglienza (info point,
visitor center, etc.), volti a favorire la fruizione del patrimonio culturale tangibile e
intangibile, anche attraverso tecnologie avanzate e strumenti innovativi (prodotti editoriali
e multimediali, portali informativi, pannelli interattivi, audioguide, realtà aumentata,
etc.);
· valorizzazione e ampliamento dell’offerta culturale, attraverso la realizzazione di
attività e servizi artistici (installazioni, videoproiezioni, digital art, land art, ecc.), in
luoghi potenzialmente interessanti sotto il profilo turistico;
· realizzazione e promozione d’itinerari culturali, tematici, percorsi storici e visite
guidate, anche attraverso il restauro e l’apertura al pubblico di siti;
· valorizzazione di saperi e tecniche locali (artigianato locale, tecniche costruttive e
lavorazioni dei materiali secondo le tradizioni locali, ecc.) anche attraverso attività
esperienziali aventi ad oggetto gli elementi simbolici del carattere identitario dei luoghi;
· miglioramento dell’accessibilità e della mobilità dei territori.
Per quanto riguarda, infine, le spese ammissibili si vedano:
· servizi e forniture;
· lavori edili, strutturali e impiantistici;
· collaboratori e consulenti;
· spese generali;
· servizi di architettura e ingegneria (art.46 Dlgs. 50/2016) per la progettazione degli
interventi;
· servizi per la pianificazione economico-finanziaria e gestionale.
312
INSEDIAMENTI
UMANI, VIABILITÀ E AMBIENTE NELLA PIANA DI
CATANIA
DURANTE IL
MEDIOEVO
ANTONIO CUCUZZA*
Premessa
Lo studio degli insediamenti medievali siciliani produce notevoli difficoltà1 anche
se notizie sparse si trovano nei lavori del Fazello2, dell’Omodei3, del Massa4, del Pirri5
e dell’Amico6 e in altri autori che però non riescono a fornire un quadro esaustivo.
Una prima raccolta di dati fu pubblicata a Parigi nella metà del XIX secolo dall’Amari
in collaborazione con il Dufour, nella quale si confrontavano gli insediamenti medievali
con quelli della Sicilia moderna7.
Negli ultimi anni sono state fatte ricerche riguardanti anche i seguenti territori: Monreale8,
* Società Ramacchese di Storia Patria, SiciliAntica Palagonia.
1
Sull’argomento si vedano, per esempio, i recenti: F. MAURICI, L’insediamento medievale in Sicilia:
problemi e prospettive di ricerca, in «Archeologia Medievale», 22 (1995), pp. 487-500; E. TIRALONGO, La
Sicilia medievale. Dinamiche insediative ed economiche tra VI e XI secolo d.C., tesi, Università di Pisa,
Archeologia, a. a. 2015-2016; F. DI BARTOLO, Abitati rupestri e città fortificate nella Sicilia occidentale
dai bizantini ai normanni, tesi di dottorato, Università di Bologna, Storia, a. a. 2015; A. MOLINARI, Il
popolamento rurale in Sicilia tra V e XIII secolo: alcuni spunti di riflessione, in R. FRANCOVICH-G. NOYÉ
(a cura di), La storia dell’alto medioevo italiano (VI-X secolo) alla luce dell’archeologia, Convegno
internazionale, Siena 2-6 dicembre 1992, Firenze 1994, pp. 361-378; I. PERI, Città e campagna in Sicilia,
in «Atti della accademia di scienze lettere e arti di Palermo», 1953. Sul popolamento medievale in Sicilia
si vedano: M. AYMARD-H. BRESC, Problemi di storia dell’insediamento nella Sicilia medievale e moderna,
1100-1800, in «Quaderni Storici», 24 (1973), pp. 945-976; K. KLAPISCH ZUBER-J. DAY, Villages désertés
en Italie, in Villages désertés et histoire économique XIe-XVIIIe siècle, Parigi 1965, pp. 452-455.
2
T. FAZELLO, De rebus siculis decades due, annotato da Vito Amico, Catania 1749.
3
A.F. DEGLI O MODEI, Descrizione della Sicilia, in Biblioteca storica di Sicilia, a cura G. Di Marzo, 24,
Palermo 1876, pp. 1-366.
4
G. A. MASSA, La Sicilia in prospettiva, 2, Le città, castella, terre e luoghi esistenti e non esistenti in
Sicilia, la topografia littorale, scogli, isole e penisole intorno ad essa, Palermo 1709 (r.a. Milano 1974).
5
R. PIRRI, Sicilia sacra, Palermo 1733 (r.a. Bologna 1987), 2 voll.
6
V. AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, 2 voll., Palermo 1855-1856.
7
M. AMARI-A. H. D UFOUR, Carte comparée de la Sicile moderne avec la Sicile au XIIe siecle, Parigi
1859. La Carte Comparee è stata tradotta, aggiornata ed integrata con nuove fonti da L. SANTAGATI, Carta
comparata della Sicilia moderna con la Sicilia del XII secolo secondo Edrisi ed altri geografi arabi pubblicata
sotto gli auspici del Duca di Luynes da Auguste Henry Dufour geografo e Michele Amari, tradotta per la
prima volta in italiano, integrata ed annotata da Luigi Santagati, Flaccovio Editore, Palermo 2004.
Successivamente ancora in L. SANTAGATI, Viabilità e topografia della Sicilia antica, 2, La Sicilia alto-medievale
ed arabo normanna, Lussografica, Caltanissetta 2013.
8
V. DI GIOVANNI, I casali esistenti nel secolo XII nel territorio della chiesa di Monreale, in «Archivio
Storico Siciliano», 1892, pp. 438-496; F. D’ANGELO , I casali di Santa Marta la Nuova di Monreale nei
313
ANTONIO CUCUZZA
Agrigento9, Palermo10, Castronuovo11, Castellammare del Golfo12, Scopello e Baida13
nei dintorni di Palermo, Termini Imerese14, Capaci, Carini e Cinisi15, Trapani16 e Palma
di Montechiaro17.
Le copiose indagini svolte per la Sicilia occidentale riguardano spesso territori distanti
tra loro e hanno bisogno di ulteriori esplorazioni, mentre la parte orientale, si presenta
quasi totalmente inesplorata. Infatti la bibliografia si ferma solamente ai lavori di Matteo
Gaudioso (pubblicati nella metà degli anni venti del XX secolo sul territorio di Lentini
nel medioevo18 e poi ristampato) e quelli più recenti di Ferdinando Maurici, riguardanti
i casali fortificati della Sicilia sud-orientale19 , e della Fiorilla 20 e mancano, per quello
secoli X1I-XV, in «Bollettino del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani», XII (1973), pp. 333-339;
J. JOHNS, Nota sugli insediamenti rupestri musulmani nel territorio di S. Maria di Monreale nel dodicesimo
secolo, in C. D. FONSECA (a cura di), Sicilia rupestre nel contesto delle civiltà mediterranee, in Atti del
Convegno Internazionale sulla civiltà rupestre del Mezzogiorno d’Italia, Catania-Pantalica-Ispica, 7-12
settembre 1981, Galatina 1986, pp. 227-234; F. D’ANGELO, Insediamenti e abbandoni nel territorio del
monastero di Monreale, in I congresso nazionale di archeologia medievale, a cura di S. Gelichi, Pisa 2931 maggio 1997, Sesto Fiorentino 1997, pp. 206-210; F. D’ANGELO, Sopravvivenze classiche nell’ubicazione
dei casali medievali del territorio della chiesa di Monreale, in «Sicilia Archeologica», 13 (1971), pp. 5462; M. A. VAGGIOLI, Note di topografia nella Sicilia medievale: una rilettura della Jarida di Monreale
(Divise Battilari, Divisa Fantasine), in Quarte Giornate Internazionali di Studi sull’area Elima, Erice 14 dicembre 2000, Atti, 3, Pisa 2003, pp. 1247-1317.
9
F. MAURICI, L’insediamento medievale nel territorio di Agrigento: inventario preliminare degli abitati
(XI-XV secolo), «Sicilia Archeologica», 83 (1993), pp. 7-71; M.S. R IZZO, Distribuzione degli insediamenti
di età arabo-normanna da Agrigento al Belice, in G. CASTELLANA (a cura di), Dagli scavi di Montevago e
di Rocca di Entella un contributo di conoscenze per la storia dei musulmani della Valle del Belice dal X
al XIII secolo, Atti del convegno nazionale, Montevago 27-28 ottobre 1990, Palermo 1992, pp. 179-187.
10
F. M AURICI, L’insediamento medievale nel territorio della provincia di Palermo. Inventario
preliminare degli abitati attestati dalle fonti d’archivio (secoli XI-XVI), Palermo 1998.
11
F. MAURICI, Problemi di storia, archeologia e topografia medievale nel territorio di Castronuovo di
Sicilia in provincia di Palermo, 1, in Terze giornate internazionali di studi sull’area elima, GibellinaErice-Contessa Entellina 23-26 ottobre 1997, Atti, II, Pisa 2000, pp. 755-776.
12
F. D’ANGELO , Insediamenti medievali nel territorio circostante Castellammare del Golfo, in
«Archeologia Medievale», 5 (1978), pp. 340-348.
13
F. D’ANGELO , Insediamenti medievali in Sicilia: Scopello e Baida, in «Sicilia Archeologica», 44
(1981), pp. 65-70.
14
F. D’ANGELO-H. B RESC, Structure et évolution de l’habitat dans la region de Termini Imerese (XIIXV siècles), in «Mélanges de l’Ecole Française de Rome», 84 (1972), pp. 361-402.
15
F. MAURICI, Per una cartografia storica della Sicilia medievale: il territorio di Capaci, Carini e
Cinisi, in «Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo», 1984-1985, pp. 149-203.
16
F. MAURICI, Medioevo trapanese: gli insediamenti nel territorio della provincia di Trapani dal tardo
antico alle soglie dell’età moderna, Palermo 2002.
17
G. CASTELLANA, Appunti per una ricerca topografica degli insediamenti di età medievale dal periodo
arabo a quello svevo nel territorio di Palma di Montechiaro, in «Sicilia Archeologica», 54-55 (1984), pp.
125-136.
18
M. GAUDIOSO, Per la storia del territorio di Lentini nel medioevo. Le baronie di Chadra e Francofonte,
Catania 1992.
19
F. MAURICI, Castelli ed abitati fortificati nel territorio della contea dai bizantini ai normanni, in La
contea di Modica (secoli XIV-XVII), a cura di Giuseppe Barone, 1, Dalle origini al Cinquecento, AcirealeRoma 2008, pp. 15-30.
20
S. FIORILLA, Insediamenti e territorio nella Sicilia centromeridionale: primi dati, in «Mélanges de
l’Ecole Francaise de Rome», 116.1 (2004), pp. 79-107.
314
INSEDIAMENTI UMANI, VIABILITÀ E AMBIENTE NELLA PIANA DI CATANIA DURANTE IL MEDIOEVO
che ci è dato sapere, vari approfondimenti.
Gornalunga o Simeto, un dilemma antico irrisolto?
La Piana, nel medioevo, era solcata a nord dal fiume Dittaino e da quello che oggi
chiamiamo Simeto e che nel periodo arabo era il Wadi Musa (fiume di Mosè)21, poi
divenuto Giarretta o Fiume Grande, Fiume di Catania, ecc.
A sud scorre il San Leonardo, il Teria del periodo greco, e in mezzo il Gornalunga,
l’antico Erykes, poi San Paolo22.
Tenendo conto delle modifiche dei percorsi e della più volte dimostrata emigrazione
della foce del fiume23, e della indipendenza - per certi periodi - dall’attuale Simeto sia
del Gornalunga-Margi che dal Dittaino, andrebbe fatta un’indagine approfondita per
capire sia quale fosse il fiume che anticamente era denominato Simeto sia se le convinzioni
correnti corrispondono alla realtà dei periodi coevi e alle fonti24.
“Qual sia hoggidì questo fiume, son discrepanti opinioni, le quali in due partite di
scrittori si dividono.25 Dall’una parte vi sono in maggior numero coloro, i quali al
fiume di S. Paulo il nome di Simeto attribuiscono”26, scriveva Pietro Carrera nel suo
lavoro su Catania27.
Le fonti antiche sono univoche nel posizionare il Simeto in un luogo diverso
dall’attuale. Per esempio nel Periplo di Scilace, del V sec. a.C., è posto tra le città di
Lentini e di Megara (nei pressi di Augusta) essendo descritto nel seguente modo: “Ad
F. OLIVERI, I giudei nella toponomastica siciliana, in Architettura judaica in Italia: ebraismo, sito,
memoria dei luoghi, Palermo 1994, p. 79.
22
“Pr. S. Pauli in territorio Catanae ad 5 m. p. distabat urbe; templi collapsi vestigia, ac rudera in
nemore extant adhuc” (PIRRI, Sicilia sacra, I, cit., p. 572).
23
O. MARINELLI, Spostamento della foce del Simeto (Sicilia), in «Rivista Geografica Italiana», VI, 1899,
pp. 284-290; A. D’ARRIGO, Regime della Plaia di Catania e migrazioni della foce del Simeto, in «Annali
Lavori Pubblici», 9-10 (1929); A. D’ARRIGO, Le migrazioni della foce del Simeto dal 1154 al 1948, in
«Bollettino Accademia Gioenia Scienze Naturali», 1950, pp. 313-324; A. D’ARRIGO, Le migrazioni della
foce del Simeto negli ultimi otto secoli, in «L’Universo», 1953, pp. 595-607; A. DI STEFANO-R. DE PIETRO-C.
MONACO-A. ZANINI, Anthropogenic influence on coastal evolution. A case history from the Catania gulf shoreline
(Eastern Sicily, Italy), in «Ocean & coastal Management», 80 (2013), pp. 133-148 (in part. tav. a p. 137).
24
Si veda in proposito, per esempio, la cartografia del XVI e del XVIII secolo.
25
Gli autori contrari citati sono: CRISTOFARO SCANELLO, Cronica dell’isola di Sicilia ove destintamente
si ha particolar relatione della sua origine, de gli habbitatori, che prima vennero ad habitarvi, et de i re,
e tiranni che l’hanno dominata. Con la nominatione delle città, terre, castelli, luoghi, fiumi, fonti, miniere,
e bagni che vi sono. Et de gli huomini illustri in diverse professioni che vi son nati, con altre cose degne
di memoria. Raccolte da Cristofaro Scanello, detto il Cieco da Forli, Napoli 1587; LEANDRO ALBERTI che
identifica il Simeto nel fiume Lazzareto in Descrittione di tutta l’Italia et isole pertinenti ad essa, Venezia
1581 e FILIPPO C LUVERIO, Sicilia antiqua, Lugduni Batavorum, 1619.
26
Tra questi: Tommaso Fazello, Antonio degli Omodei, Arezzo, Maurolico, Bonfiglio, Carnevale.
L’Arezzo scrive “Duo praeterea fluvii ad diversorium Gutterram Symetho hauriuntur, ùnus Buffaritus,
recens nomen, […] Rurfus ad Leontinu dilapsus Symetbus amnis (Leontìni agros Symetho allui Thucidides,
Strabo Catinenses Leontinis conjunctos Symetho infusos probat) nomen Sancti Pauli, cum ipso ponte,
sibi vendicat” (M. AREZZO , De situ insulae Siciliae, in Thesaurus Antiquitatum et historiarum
nobilissimarvm Insularum, Siciliae, Sardiniae, Corsicae aliarumque adjacentium, I, Lugduni Batavorum
1723, p. 16).
27
P. CARRERA, Delle memorie historiche della città di Catania, I, Catania 1639, p. 208.
21
315
ANTONIO CUCUZZA
Leontinos vero per Teriam flumen sursum navigando XX stadia. Symethus amnis, et
urbs Megaris, et portus Xiphonius. Megaridem autem sequitur urbs Syracusae, cum
duobus portubus”28.
Tucidide, affermando che “i Siracusani […] si misero in marcia alla volta di Catania
e si attendarono sulle rive del Simeto, nel territorio di Lentini” 29 , lo pose di fatto più
vicino a questa città che a Catania.
Virgilio, nell’Eneide, indicava espressamente che l’altare dei Palici era situato in
riva al Simeto30.
Nella bolla di Urbano II del 1091, dove vengono descritti i confini della diocesi di
Siracusa, si precisa che essi, partendo dal castello di limpiados (Licata) e salendo il
fiume Salso, arrivano a castri iohannis (Enna) e ad anaor (monte Navone), e proseguendo
ad morrenum (sella Morona vicino Caltagirone e seguendo la cresta dei monti Algar)
scendono fino al fiume calata elphar (Catalfaro o fiume di Palagonia) e quindi arrivano
al pontem ferri (oggi non localizzabile). Il fiume Ferro scorre ad ovest di Ramacca
mentre ad est si trova “il fiume di Sciara di Guarni ossia il così detto Passo di Ferro”31.
Dal pontem ferri i confini proseguono verso il fiume huet athain (Dittaino) e salendo
arrivano al flumen de paternono [chiamato] huetemusae32 (oggi Simeto), e seguendo il
suo corso arrivano al mare33.
In un diploma contenente la concessione di terre tra il Huetmuse e il Flumen Leontini,
fatto alla diocesi di Catania da Tancredi nel 1102, si citava, al confine con il territorio di
Lentini, il casale Ximet34, che qualcuno posiziona a Passo Martino e altri, invece, nei pressi
di San Demetrio, vicino al bivio Iazzotto e a poca distanza dell’antica foce del Gornalunga35.
Idrisi, nella metà del XII secolo, ci fornisce ulteriori notizie sull’area:
“Nasce da Aidone il wâdi r.nb.lù (oggidì Gurnalonga) il quale corre a levante e
vi confluisce il wàdì bùkarit ricordato di sopra. Ad otto miglia dal confluente
Geographica antiqua, hoc est Scylacis periplus maris mediterranei, Lugduni Batavorum 1697, p. 9.
TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso, libro VI, 65.
30
“Eductum Matris luco, Simethia circum / Flumina, pinguis ubi, & placabilis ara Palici” (Eneide,
IX, 845). Sulle varie fonti antiche vedi: C LUVERIO , Sicilia antiqua, cit., pp. 124-130; C ARRERA, Delle
memorie historiche della città di Catania, I, cit., pp. 208-224.
31
A. C ASAMENTO , La Sicilia dell’Ottocento. Cultura topografica e modelli cartografici nelle
rappresentazioni dei territori comunali. Le carte della Direzione Centrale di Statistica, Palermo 1986,
pp. 254-255. Inoltre V. AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, 2, Palermo 1856, p. 327.
32
G. CARACAUSI, Dizionario onomastico della Sicilia, I, Palermo 1993, p. 854.
33
R. STARRABBA, Contributo allo studio della diplomatica siciliana dei tempi normanni. Diplomi di fondazione
delle chiese episcopali di Sicilia (1082-1093), in «Archivio Storico Siciliano», 1893, pp. 56 e sgg.
34
PIRRI, Sicilia sacra, I, cit., p. 524; S. CUSA, I diplomi greci ed arabi di Sicilia, 2, Palermo 1882, p.
550. La città di Symaethii, centro abitato nominato da Plinio, è da alcuni posizionata a Passo Martino. In
merito vedi: C. SCIUTO PATTI, Sul sito dell’antica città di “Symaetus”, in «Archivio Storico Siciliano»,
1880, pp. 367-374; E. MANNI, Geografia fisica e politica della Sicilia antica, Roma 1981, p. 227.
35
Si veda I.G.M., f. 270 III S.O., Villaggio Delfino. L’Amico, alla voce, scrive “Paese. Rammenta
Plinio lib. 3 c. 8. la gente simetia mediterranea con altre di Sicilia. […]. Il medesimo Carrera poi stima,
aversi avuto sede un tempo il paese dello stesso nome non lungi dalla foce del fiume Simeto, nel poggetto
dove sinora il territorio si appella dal Simeto. Ma questo sito dista almeno 20 m. da quello segnalo da
Tolomeo, quindi non ardisco di additare segnatamente il luogo”.
28
29
316
INSEDIAMENTI UMANI, VIABILITÀ E AMBIENTE NELLA PIANA DI CATANIA DURANTE IL MEDIOEVO
visi unisce il wàdi ’at tin («fiume dell’argilla», oggi Dittaino). Coteste acque,
correndo tutte insieme sino a poca distanza dal mare, trovano il wadi musa (Il
fiume di Mosè, il Simeto) e mescolate con quello metton foce [in mare]”36.
Il Fazello scriveva che “La bocca del fiume Simeto, secondo Virgilio, Tucidide nel
sesto libro, Tolomeo, Ateneo, Plinio e Macrobio, oggi [è] detta di San Paolo”37. E ancora,
sempre il Fazello così riferiva:
“Questo fiume si chiama oggi il fiume di San Paolo38, per cagion del ponte
donde si passa che ha il medesimo nome, ma il paese vicino alle sue rive si
chiama Simeto ancor oggi, di maniera che si può dire che non è spento affatto
il nome antico. Egli esce da cinque fontane, poco lunge dalla città di Mene39, i
nomi delle quali son questi, Macubo, Pipino, Ocula, Canalcalcagno e
Fonteferrato40, e passando da una osteria detta Gutterra41, si mescola con lui il
fiume Bustarito42, che nasce poco lontano dalla città di Piazza, e poco dipoi da
man destra entra in lui il fiume di Paliconia43, chiamato così dal castello ove è
nasce. Così il fiume Simeto fatto grosso bagna parimente il paese di Leontini,
come dice Tucidide nel 6° [libro], dipoi corre per quel di Catania che gli è
vicino, come scrive Strabone nel sesto. Quest’è quel medesimo fiume tanto
celebrato dagli scrittori, perché alla sua fonte, ch’è lontana dalla sua foce
trenta miglia fra terra, si dice che Giove ingravidò Talia ninfa, la qual partorì
due fanciulli a un colpo, di cui fanno menzione e favola i poeti”44.
Nella metà del XVI secolo l’Omodei così scriveva:
“Poscia dunque che siamo pervenuti al Fiume Grande di Catania, detto la Giaretta
e dagli antichi Teria, termine della Valle Demona e Valle di Noto,45 […] Seguendo
poi da cinque miglia in circa più avanti verso tramontana, ne’ campi lintinesi, si
ritrova il fiume da Tucidide, Strabone e dagli altri chiamato Simeto, da cui ancor
oggi li campi a lui vicini si chiamano di Simeto, oggi detto il fiume del Ponte di S.
Paolo per un ponte, che ivi è fabbricato per passarvi sopra, dove ne’ primi tempi
era una villa detta S. Paolo, del territorio di Lintini”46.
M. AMARI, Biblioteca Arabo-sicula, Torino-Roma 1880 (r. a. Acireale 1982), p. 107.
T. FAZELLO, Storia della Sicilia deche due, tradotto da R. Fiorentino, I, Palermo 1830, p. 106.
38
G. A. MASSA, La Sicilia in prospettiva, 1, Il Mongibello e gli altri Monti, Caverne, promontori, liti,
porti, seni, golfi, fiumi e torrenti della Sicilia, Palermo 1709 (r.a. Milano 1974), p. 353.
39
Mineo.
40
MASSA, La Sicilia in prospettiva, 1, Il Mongibello e gli altri Monti, cit., p. 319.
41
Gutterra, Oggi in territorio di Palagonia (nell’IGM è indicata come Ingulterra).
42
MASSA, La Sicilia in prospettiva, 1, Il Mongibello e gli altri Monti, cit., p. 300.
43
MASSA, La Sicilia in prospettiva, 1, Il Mongibello e gli altri Monti, cit., p. 339.
44
FAZELLO, Storia della Sicilia, cit., pp. 240-241.
45
OMODEI, Descrizione della Sicilia, cit., p. 93.
46
OMODEI, Descrizione della Sicilia, cit., pp. 334-335.
36
37
317
ANTONIO CUCUZZA
Nella Descrittione dell’isola di Sicilia di Francesco Maurolico47 troviamo “Simethi
fontes = Macuba, Lucchiola, Canalcalcagno, Fonteferrato” e “Simethus fl. = Fiume del
ponte di S. Paulo appresso Lentini”.
Il Carnevale affermava che uscendo da Catania si incontrava il
“fiume Teria, ch’oggi Iaretta si noma, […] Ingannandosi coloro che scrissero,
questo fiume essere Semeto, & di Teria veruna mention fando, lo lasciano in
oblivione essendo cotanto celebre, appresso gl’antichi, come Tucidide, nel 6.
Strabone, nel 6 & Plinio, nel cap.8. del 3 libro ci narrarono. Poscia quattro
miglia distante da Teria, segue il fiume Semeto, cosi detto da Tucidide, nel 6. da
Strabone, nel 6. da Plinio, nel loco citato, & da Ovidio, nel 4. De Fasti, quando
ei così ci ramenta”48.
Il Ferrario, identificandolo con uno degli affluenti del Gornalunga, così scriveva:
“Simaethus, Symaethus Strab. & Thuc. Fonte Ferrato49 apud ortum, & Fiume
di S. Paolo teste Faz[ello] cum Aretio, fluv. Sicilia in mare inter Catinam ad
Bor. & Morgantium ad merid. post Teriae ostra labens. Cujus fons Canal
Calcagno ex quinque fontibus scatet apud Menas opp. marique post 12 mill.
Pass. excipitur, ab ostio Teriae. Pop. accolae Symethii Plin[io]. Vide Symaethus,
sic enim apud Virg[ilio] & Ovid[io] unde Symethaeus nom. gent. Ovid. lib. 4
Fast”50.
L’Amico, ricapitolando tutta la problematica, così invece riferiva:
“II più grande fiume di tutta l’isola, perciò appellato Grande; di Catania dalla
più insigne città vicina, e comunemente Giarretta in saraceno, dalla scafa per
la quale si traghetta in quattro punti. Nel tempo de’ Normanni rieri sotto il
nome di Moise, di Huetmusa ed in varie altre maniere. È poi rammentato tra i
poeti da Scilace nel Periplo, da Virgilio nell’Eneid. lib. 9. Intorno ai fumi di
Simeto; da Ovidio Fast. lib. 4. E l’acque Simelèe che il mare accoglie; da Silio
lib. 14. E del Simeto rapidi percorrono i biondi guadi; da Plinio: la colonia
Catana, i fiumi Simeto e Teria; da Tolomeo, il quale ponelo fra Catania e
Taormina; da Pomponio Sabino51: Sopra Catania e Centuripe è il fiume Simeto;
da Vibio nel Catal. dei fiumi52, da Servio, che afferma aversi avuto il nome dal
Venezia, 1546.
G. CARNEVALE, Historie et descrittione del regno di Sicilia, Napoli 1591, p. 199.
49
MASSA, La Sicilia in prospettiva, 1, Il Mongibello e gli altri Monti, cit., p. 319.
50
F. FERRARIO, Lexicon Geographicum, Londra 1657, s.v.
51
Pomponio Leto, noto come Giulio Sabino o Pomponio Sabino.
52
V. SEQUESTER, De Fluminibus fontibus lacubus nemoribus paludibus montibus gentibus, con
annotazioni a cura di J.J. Oberlinus, Argentorati, 1778, pp. 191-194.
47
48
318
INSEDIAMENTI UMANI, VIABILITÀ E AMBIENTE NELLA PIANA DI CATANIA DURANTE IL MEDIOEVO
re Simeto; da Ateneo il quale De commenda i muggini. Dei siciliani variano
molti di opinione intorno al sito, e lo confondono col fiume Erice, il quale
appellavasi anche di s. Paolo, da un ponte e da una vicina chiesiuola a questo
santo intitolati, ed io ne descrissi altrove il corso. Muovonsi a tal pensamento,
perchè soggiunge Virgilio nel luogo citato: Dov’ è la pingue e la placabil’ara
dei Palici fratelli. Il colloca Vibio vicino ai Palici; Servio e lo stesso Pomponio
Sabino ne costituiscono nell’intorno i numi Palici e la loro favola. Ma il Marone,
Vibio ed altri, rammentando il celeberrimo fiume Simeto, i Dei Palici, il lago
coi crateri, e la loro celebre fiaba, vollero notarli non lungi dal Simeto. È poi
degno di nota, attestar Virgilio di essersi accresciuto il bosco di Marte intorno
ai fiumi Simetèi, nel medesimo territorio dove sorgeva l’altare dei Palici. Servio
adunque, Sabino, Vibio ed altri grammatici, stimando aderire a Virgilio, men
congruentemente stabiliscono al Simeto i Palici ed inducono in errore i nostri
Fazello, Maurolico, Arezio, Filoteo, e Buonfiglio. Di rincontro tuttavia Cluverio,
Carrera ed altri, con più esatta discussione esponendo il testo di Virgilio,
sostengono a tutto possa esser Simeto il fiume vicino a Catania, di cui descrive
Fazello solo il nome di Teria il corso e l’origine”53.
Nel passo citato, l’Amico mette in dubbio che il fiume Gornalunga-San Paolo possa
essere stato l’antico Simeto.
In questa ricerca ci potrebbero essere di aiuto le mappe antiche della Sicilia, ma
anche queste non sono risolutive poiché talvolta presentano errori copiati da quelle
precedenti (tabella 1).
Il toponimo non è menzionato nelle fonti medievali e compare in tempi relativamente
recenti, portando i cartografi ad errare e a creare un equivoco dovuto, forse, alla scomparsa
del tratto finale del fiume Gornalunga54.
Il Gornalunga55, contrariamente al Dittaino - che nei documenti medievali è indicato
come flumen paludis o fiume del fango56 - aveva una notevole portata idrica57. Infatti
l’Omodei, nella metà del XVI secolo, affermava che l’osteria della Gabella era costruita
“nella sponda […], là dove il fiume l’estate alcuna volta si puol varcare a cavallo”58.
AMICO, Dizionario Toponomastico della Sicilia, cit., II, s.v.
Sulle opinioni dei geografi antichi si vedano: AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, II, cit.,
pp. 500-501; AMARI-DUFOUR, Carte comparee, cit., s.v.
55
MASSA, La Sicilia in prospettiva, cit., pp. 326-327.
56
S. T RAMONTANA, Popolazione, distribuzione della terra e classi sociali nella Sicilia di Ruggero il
Gran Conte, in Ruggero il Gran Conte e l’inizio dello stato normanno, Atti delle seconde giornate
normanno-sveve, Bari 1991, pp. 233; S. T RAMONTANA, Spazio, tempo mentalità, in Terra e uomini nel
mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle settime giornate normanno-sveve, Bari 1987, p. 24. Si tratta
della traduzione letterale dell’arabo Wadi At-Tin, v. C ARACAUSI, Dizionario onomastico della Sicilia,
cit., I, p. 541.
57
“Tanto che alcuni ponti, in muratura o in legno, esistenti lungo i corsi del San Paolo, del Gornalunga
e del Benante, venivano spesso travolti dalle piene, riportando quasi sempre danni o, talora, andando
totalmente distrutti”. Vedi A. ARMETTA, I ponti in Sicilia (XVIII - XIX secolo) fra tradizione e innovazione.
Le sperimentazioni sul Simeto al passo di Primosole, Palermo 2014, p. 52.
53
54
319
ANTONIO CUCUZZA
Tabella 1. Il nome del Gornalunga nella cartografia siciliana (XVI-XVIII sec.)
Fonti: Cartografia generale del Mezzogiorno e della Sicilia, a cura di E. MAZZETTI,
Napoli 1972; Imago Siciliae. Cartografia storica della Sicilia 1420-1860, a cura di L.
DUFOUR-A. LA GUMINA, Catania 1998; L’isola a tre punte. La Sicilia dei cartografi dal
XVI al XIX secolo, a cura di E. IACHELLO, Catania 1999; E. IACHELLO, The territory of
Sicily and its representations (16th-19th centuries), Palermo 2018; F. RICCOBONO-M.
GRASSI, La tradizione cartografica in Sicilia. Le carte della collezione Zipelli, s.l. 2018.
320
INSEDIAMENTI UMANI, VIABILITÀ E AMBIENTE NELLA PIANA DI CATANIA DURANTE IL MEDIOEVO
Il Gornalunga, inoltre, fino al 1621 (o 1623), aveva una foce indipendente dal Simeto59,
costituendo un bacino fluviale separato60. Le fonti61 ci dicono che in quell’anno, per le
notevoli piogge, il fiume deviò il suo corso divenendo, in prossimità della foce, un
affluente del Simeto62.
Ormai la maggior parte degli studiosi moderni opta per l’identificazione Giarretta =
Simeto, ma nessuno precisa il nome del fiume nel periodo medievale dato che una delle
prime apparizioni del nome Gurgalonga si trova soltanto nella descrizione dell’Arezzo.
Il bacino del fiume63 è inoltre alquanto vasto, abbracciando la piana di Mineo (con il
Catalfaro e i suoi affluenti64; il Caltagirone o Margi)65, la piana del Margherito, l’antico
feudo di Belmonte (con il Gatta-Tempio66-Ferro)67 e la vallata tra Aidone e Raddusa
fino allo sbocco nella Piana di Catania.
La piana di Catania tra villaggi abbandonati e licentiae populandi
Molti studiosi di storia antica descrivono la Piana di Catania come una landa deserta
punteggiata, qua e là, da qualche osteria o qualche rara masseria.
Non molto differente sarebbe la descrizione dell’alto corso del Gornalunga e dei
suoi affluenti. Ma se tutto questo è valido per alcuni periodi storici non lo è per altri. Le
date di concessione dei diplomi di fondazione/rifondazione dei centri abitati gravanti
sull’area, infatti, generano un fenomeno, della durata di un paio di secoli, che cambierà
totalmente il quadro della presenza umana nell’area.
Tabella 2. Licentiae Populandi / anno di fondazione68
__________________________________________________________________________________________
Anno
feudo / comune
territorio
annotazioni
_______________________________________________________________________________________________
1525-29
Mongialino*
Mineo
non realizzato
1534
Ganzaria
San Michele di Ganzaria
1549
Valguarnera**
Data della prima richiesta
reiterata nel 1571 e 1628
1560
Centuripe
OMODEI, Descrizione della Sicilia, cit., pp. 336.
F. MILONE, Sicilia, la natura e l’uomo, Torino 1960, p. 79.
60
Gli immissari più importanti sono inoltre il fiume di Caltagirone o Margi, il Catalfaro o fiume di
Palagonia ed il fiume Ferro.
61
I vari autori, in base al periodo in cui scrivono, danno notizie alquanto controverse.
62
MASSA, La Sicilia in prospettiva, I, cit., p. 326.
63
Durante il suo corso prende il nome di Canne, Gabella, San Paolo, Gornalunga; v. AMICO, Dizionario
topografico, I, cit., pp. 234 (Canne), 319 (Paolo, fiume di s.), 478 (Gabella) e 551-552 (Gurnalonga).
64
FAZELLO , Della storia della Sicilia deche due, I, Palermo 1817 [r.a. Catania s.d.], pp. 186-187,
elenca gli affluenti: Macubo, Pipino, Ocula, Canalcalcagno e Fonte Ferrato. Per il Giandruma v. C.
TAMBURINO MERLINI, Le Antiche Mene, II, in «Giornale di Scienze Lettere ed Arte», 73 (1841), pp. 271276; per il Palagonia v. M. MEGNA, Ai figli dei Palici, Palagonia 1987, pp. 60-61.
65
Per il fiume e i suoi affluenti v. G. GIANFORMAGGIO, Occhiolà, Catania 1928, p. 62.
66
Il nome è dato dalla commenda di S. Maria del Tempio, di proprietà prima dei Templari e poi dei
gerosolimitani; v. L. BUONO, Il feudo di S. Maria del Tempio in Caltagirone nel secolo XVII: nuove acquisizioni
documentali, in «Bollettino della Società Calatina di Storia Patria e Cultura», 2 (1993), pp. 7-21.
67
Agata o Gatta, Aliano, Buffarito, Canne, Fonte Ferrato e Tenchio o Tempio sono i vari nomi del
fiume Ferro (MASSA, La Sicilia, I, cit., s.v.).
58
59
321
ANTONIO CUCUZZA
1587
1602
1610
1628
1668
1709
1732
1802
1810
Balchino*
Floristella*
Mirabella
Scordia
Misterbianco
Ramacca
Catenanuova
Giardinelli/Giumarra/borghi
Raddusa
Mineo
Valguarnera
non realizzato
non realizzato
ora Castel di Iudica
Questa vasta area, fin dall’antichità, ha visto la presenza di numer osi
insediamenti umani69 . La presenza è stata particolarmente intensa anche nel periodo
medievale70 . Infatti sono stati segnalati molteplici siti archeologici nell’area
indagata e sono stati rinvenuti materiali ‘medievali’ nei territori di Aidone (contrade
Belmontino Sottano, Fargione, Fondacazzo, Gresti, Pietr apesce), Mineo
(Finocchiara, S. Margherita-Vallone Lamia, Poggio Croce, Poggio Grilli), Scordia
(la Cava e Grotta del Drago) e Valguarnera Caropepe (Sottoconvento) 71 , oltre quelli
documentati con varie opere, mancando per la Sicilia orientale, ad eccezione del
lavoro del Gaudioso sul territorio di Lentini 72 o di quello di Maurici sul ragusano73 ,
una ricerca topografica, come quelle realizzate per il palermitano 74 e il trapanese75 ,
che ci darebbe un quadro d’insieme utile alla comprensione delle vicende storiche
di quel periodo.
M. GIUFFRÈ , Licentiae populandi, in Città nuove di Sicilia XV-XIX secolo, a cura di M. Giuffrè, I,
Palermo 1979, pp. 225-230; T. D AVIES, Licentiae populandi concesse dopo il 1570 e non elencate dal
Garufi, in Città nuove di Sicilia, cit. pp. 231-232. Inoltre si vedano: B IBLIOTECA C OMUNALE DI P ALERMO ,
Qq G 80n nn. 2 e 3 (per il tentativo di popolare il feudo Balchino con immigrati albanesi); G. O RRIGO ,
San Michele di Ganzaria luci ed ombre, Caltagirone 1984; F. VIRZÌ , Conoscere Catenanuova, Enna
1987; R. ALLEGRA, Breve storia di Raddusa, Misterbianco 1986; A. C UCUZZA, Vicende storiche intorno
al Paradiso: I borghi dalla preistoria alla 2° guerra mondiale, in All’ombra del paradiso. Storie di
uomini e di santi nel territorio di Castel di Iudica, a cura di ANTONIO C UCUZZA, 1, Castel di Iudica, pp.
235-252.
69
Indagini archeo-topografiche sono state avviate per alcune aree del calatino. Per Mineo vedi: A.
MESSINA, Ricerche archeologiche e topografiche nel territorio di Mineo, in «Cronache d’Archeologia»,
18 (1979), estr.; F. NICOLETTI, Considerazione sulle origini e consolidarsi del popolamento umano nel
calatino, in «Bollettino della Società Calatina di Storia Patria e Cultura», 3 (1994), pp. 163-198; E. PROCELLI,
Ramacca (prov. Di Catania), in «Rivista di Scienze Preistoriche», 39 1-2 (1984), pp. 388-389; F. VITANZA,
Monte Turcisi e altre località in territorio di Caltagirone, Ramacca, Palagonia, Mineo, Aidone, Paternò,
Adrano, Castel di Judica, Grammichele ..., Caltagirone 1995; per Castel di Iudica v. CUCUZZA, Vicende
storiche intorno al Paradiso, cit., pp. 65-69; ecc.
70
F. MAURICI, Federico II e la Sicilia. I castelli dell’imperatore, Catania 1997, pp. 115-116.
71
Regione Siciliana, Assessorato dei BB CC AA e P. I., Linee guida del piano territoriale paesistico
regionale, Palermo 1996, s.v.
72
GAUDIOSO, Per la storia del territorio di Lentini nel medioevo, cit.
73
MAURICI, Castelli e abitati fortificati, cit..
74
MAURICI, L’insediamento medievale nel territorio della provincia di Palermo, cit..
75
F. M AURICI, Medioevo trapanese. Gli insediamenti nel territorio della provincia di Trapani dal
tardo antico alle soglie dell’età moderna, Palermo 2002.
68
322
INSEDIAMENTI UMANI, VIABILITÀ E AMBIENTE NELLA PIANA DI CATANIA DURANTE IL MEDIOEVO
Universitas e Casali
Nella vasta Piana e nei suoi dintorni esistevano centri abitati come quelli di: Judica
o Zotica (1076)76 , Aidone (1090)77 , Casale dei Monaci nel territorio di Mineo ma
presso Ramacca (1141)78 , Caltagirone (1169)79 , Palagonia (1169)80 da ricercare nel
sito (con fossato di fortificazione, sullo sperone di contrada Coste di Santa Febronia)81 ,
Baccarato nel territorio di Aidone (1172)82 , casale di Callura (oggi nel territorio di
Palagonia, del 1177 ma esistente ancora nel 130383 , concesso da Matteo d’Ajello,
vice cancelliere di Guglielmo II all’Archimandritato di S. Salvatore di Messina) 84 ,
Malinbrenti o Malinventri (1187) oggi Catenanuova85 , Scarpello e Castellacci nei pressi
di Judica (1195)86 , Assisa, Baelcarem, Bisamur (1197)87 , Corcono88 , Nidaria o
Nicchiara 89 , Lamia (metà del XIV secolo)90 , Catalfaro91 (tutti casali nei dintorni di
G. MALATERRA, De rebus gestis Roberti Guiscardi, ducis Calabriae, et Rogerii comitis Siciliae, in
Tesaurus antiquitatum et Historicum, V, Lugduni Batavorum 1723, p. 49; C UCUZZA, Vicende storiche
intorno al Paradiso, cit. pp. 65-346; SANTAGATI, Carta comparata della Sicilia Moderna con la Sicilia del
XII secolo secondo Edrisi ed altri geografi arabi, cit., p. 115.
77
P IRRI , Sicilia sacra, I, cit., p. 594; M. AMARI, La guerra del Vespro Siciliano, a cura di F.
Giunta, I, Palermo 1969, p. 526n. Fondato dai Lombardi, sembra che fosse una colonia di Piacentini.
In seguito ebbe un rapido sviluppo tanto da diventare un importante centro politico della Sicilia
medievale (G. M AZZOLA, Storia di Aidone, Catania 1913; P ERI, Città e campagna in Sicilia, cit., pp.
287-288).
78
S ANTAGATI , Carta comparata della Sicilia moderna con la Sicilia del XII secolo , cit., p.
136; G. D RAGO , Relazione sugli usi civici e sui demani del Comune di Mineo, I, inedito, 1929, p.
24.
79
PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, p. 618. Città sicuramente di nome arabo, ma se ne sconoscono le origini.
Una leggenda la vuole fondata da genovesi intorno all’anno 1000. Le prime notizie certe sono del 1169 e
ci vengono dal diploma di Alessandro III. Al tempo di Edrisi era già un importante centro abitato (I. PERI,
Città e campagna in Sicilia, cit, pp. 285-287; I. PERI, Uomini, Città e campagne in Sicilia dall’XI al XIII
secolo, Bari 1978, p. 48).
80
PIRRI, Sicilia sacra, cit., I, p. 623.
81
PIRRI, Sicilia cit., I, p. 622; A. MESSINA, Le chiese rupestri del Siracusano, Palermo 1979, p. 62; A.
CUCUZZA, Hic sunt leones. Palagonia, Immagini e notizie di un mondo sconosciuto, Palagonia 1991, pp.
9-10,107.
82
L.T. WHITE , Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, Catania 1984, p. 424; A. M ARRONE ,
Repertorio della feudalità siciliana (1282-1390), Palermo 2006, pp. 462-463.
83
SANTAGATI, Carta comparata della Sicilia moderna con la Sicilia del XII secolo, cit., p. 77; MESSINA,
Le chiese rupestri del siracusano, cit., p. 62.
84
PIRRI, Sicilia cit., II, p. 980; SCADUTO, Il monachesimo cit., p. 221; CUCUZZA, Hic sunt leones, cit.,
pp., 57-58, 109.
85
G. SPATA, Pergamene greche esistenti nel grande archivio di Palermo, Palermo 1862, p. 301.
86
S. RANDAZZINI, Monte Scarpello e la sua storia, Caltagirone 1894, p. 30; SANTAGATI, Carta comparata
della Sicilia moderna con la Sicilia del XII secolo, cit., p. 176.
87
PIRRI, Sicilia sacra, cit., II, p. 1283.
88
MARRONE, Repertorio della feudalità siciliana, cit., p. 486.
89
MARRONE, Repertorio della feudalità siciliana, cit., p. 513.
90
Sede di un casale con chiesa; v. H. BRESC, La nascita dell’economia latifondista in Sicilia, in Contributi
per una storia economica della Sicilia, Palermo 1987, p. 116.
91
Su questo monte sorgeva una città di notevole importanza. È sede di un importante sito preistorico
(A. MESSINA, Monte Catalfaro e il problema della identificazione di Noai, in «Cronaca d’Archeologia e
76
323
ANTONIO CUCUZZA
Mineo)92 , Occhiolà o Alchila ora Grammichele (1282, 1298)93, Severino (1197)94 e
Regalsemi95 nei pressi di Caltagirone, Casal d’Urso (1197 ?) nei pressi di Ramacca96,
Fessinae (1210)97, Casale di Zarca (1229) ai confini del feudo di Bugialca98, Imbaccari
oggi Mirabella Imbaccari (1303)99, Mongialino (la Malgia Halil di Idrisi) ora nel territorio
di Mineo (XII sec.)100, Vaccaria nel territorio di Aidone101, Raddusa (1270)102, Casale di
Asmundo o Casalgismondo tra Ramacca e Aidone (1271)103, Calatzura da identificare
forse con Calatari oggi in territorio di Ramacca (1299)104, Canzaria oggi San Michele di
Storia dell’Arte», IX, 1970, pp. 25-34; TARTARO, La Montagna di Ramacca cit., 105-111). È ricordata nel
diploma di Urbano II del 1093 e in quello di Alessandro III del 1169 (PIRRI, Sicilia cit., I, pp. 618, 622.),
da Idrisi (in AMARI, Biblioteca araba-sicula, cit., I, p. 105.). Il Fazello intorno alla metà del XVI secolo
affermava: “Il monte Catalfano di nome saracino, dove si vedono meravigliose anticaglie d’una città, e
d’una fortezza rovinate, e grandissime pietre lavorate in quadro” (FAZELLO, Della storia cit., I, p. 605;
seguito da AMICO, Dizionario Topografico, cit., I, p. 282; TAMBURINO MERLINI, Le antiche Mene cit., p. 64
e sgg.).
92
Mineo, città di antichissima origine, ma con alcuni periodi bui soprattutto per l’età alto medievale.
Conquistata dagli arabi nel 828 (AMARI, Storia dei Musulmani, cit., I, pp. 409-410), non risulta nel diploma
di Urbano II del 1093 ma appare in quello di Alessandro III del 1169 (PIRRI, Sicilia sacra, cit., p. 622).
Idrisi affermava: “Mineo, bella rocca tra i monti di Vizzini, è circondata da sorgenti, abbonda di campi da
seminare, di frutte, di latticinii ed ha terre di ottime qualità” (AMARI, Biblioteca cit., I, p. 105). Con un
diploma del 1197, Bartolomeo de Lucy dotò S. Maria di Roccamadore di Messina, dei suoi beni nel
territorio di Mineo. Nel citato diploma si rileva l’esistenza di alcuni casali e di un oratorio a San Cataldo
nei pressi del castello di Mongialino: “in tenimento Terre Minaei Terras de Cardonecto, iuxta Terram
Curiae usque ad Burgum dictae Terre, et iuxta tenimento Casalis Assisae, et secus tenimentum Casalium
Bisamur, et Raelcarem, Casale meum, quod dicitur Seberinum, et oratorium meum Patrimoniale Sancti
Cataldi” (PIRRI, Sicilia cit., II, pp. 934, 1289-1291; PERI, Città e campagna cit., pp. 283-284. Per la loro
posizione cfr. G. GIANFORMAGGIO, Occhiolà, Catania 1928, p. 22).
93
Di origine oscura, compare la prima volta in un documento del 1282 durante la guerra del Vespro
(GIANFORMAGGIO, Occhiolà cit., p. 22; su Grammichele v. AA.VV., Elementi per una storia del popolo di
Grammichele e di Sicilia, Grammichele 1985).
94
SANTAGATI, Carta comparata della Sicilia moderna con la Sicilia del XII secolo, cit., p. 171.
95
MARRONE, Repertorio della feudalità siciliana, cit., p. 526.
96
N. DE RENSIS, La baronia di Camopietro, Roma 1914, p. 9.
97
Fessina o Pietratagliata; v. SANTAGATI, Carta comparata della Sicilia moderna con la Sicilia del XII
secolo, cit., p. 110.
98
DRAGO, Relazione sugli usi civici cit., II, p. 78.
99
R. GREGORIO , Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub aragonum imperio retulere,
tomo II, Palermo 1792, p. 469; P IRRI, Sicilia sacra, cit., I, p. 592; SANTAGATI, Carta comparata della
Sicilia moderna con la Sicilia del XII secolo, cit., pp. 114 e 133; E. B ONACINI, Due casali di origine
medievale nel calatino occidentale: San Michele di Ganzaria e Mirabella Imbaccari, in «Agorà», 40,
2012, pp. 30 e sgg.
100
AMARI, Biblioteca Arabo-sicula, cit., pp. 105-106. Il casale continua a vivere una vita stentata fino
al 1300 quando scompare (AYMARD-B RESC, Problemi di storia dell’insediamento, cit., p. 948, nota 8). Già
nel 1143 è attestato un castello; v. G. TOMARCHIO, La Fortezza di Mongialino (Castello di Montalfone),
Caltagirone 1987.
101
MARRONE, Repertorio della feudalità siciliana, cit., p. 540.
102
AYMARD-BRESC, Problemi di storia dell’insediamento, cit., p. 961n.
103
L. CATALIOTO, Terre, baroni e città in Sicilia nell’età di Carlo I d’Angiò, Messina 1995, p. 284;
MARRONE, Repertorio della feudalità siciliana, cit., p. 462.
104
AMARI, La guerra del Vespro Siciliano, cit., p. 549n; MARRONE, Repertorio della feudalità siciliana,
cit., p. 473.
324
INSEDIAMENTI UMANI, VIABILITÀ E AMBIENTE NELLA PIANA DI CATANIA DURANTE IL MEDIOEVO
Ganzaria (1168)105, Gacta vicino ad Aidone (1308-1310)106, Ramacca (? 1350 c.a.)107,
Balchino nel territorio di Mineo (XIV sec.)108, Belmonte tra Ramacca e Caltagirone
(XIV sec.)109, Passo Piraino (?) a nord-ovest di Ramacca110, Fantasine (XII sec.)111,
Bugialca nei pressi di Militello V.C.112.
Allargando la ricerca alle colline che si affacciano sulla Piana di Catania sono
da segnalare i centri abitati di: S. Basilii de Flumine Frigido 113 (concesso nel 1136
da re Ruggero al monastero di S. Salvatore di Messina), Fiumefreddo (concesso
nel 1103 ad Angerio) 114 , Xirumi 115 (oggi nel territorio di Lentini), Militello (nel
1249 è detto casale et castrum) 116 , Scordie superioris (documentato nel 1284) 117 ,
Scordiae Suitane 118 , Rahal Masoris 119 (nei dintorni di Scordia), Rahal Senec 120 ,
105
AMARI, La guerra del Vespro Siciliano, cit., p. 555n; SANTAGATI, Carta comparata della Sicilia
moderna con la Sicilia del XII secolo, cit., pp. 87 e 130; BONACINI, Due casali di origine medievale nel
calatino occidentale, cit., pp. 30 e sgg.
106
Rationes Decimarum Italiae, Sicilia, a cura di P. Sella, Città del Vaticano 1944, p. 80; SANTAGATI,
Carta comparata della Sicilia moderna con la Sicilia del XII secolo, cit., p. 104; MARRONE, Repertorio
della feudalità siciliana, cit., p. 495.
107
F. MARTINO, Messana nobilis siciliane caput, Roma 1994, p. 51.
108
AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, I, cit., p. 128; MARRONE, Repertorio della feudalità
siciliana, cit., p. 463.
109
AMICO, Dizionario topografico, cit., I, p. 136.
110
AMICO, Dizionario topografico, cit., II, p. 327. Vanno, in qualche modo aggiunti, i seguenti casali:
Corneto (1195, vicino Agira); Consene (1299, Caltagirone); Aliano o Eliano (XV) e Gallinica (1148,
Piazza); Valcorrente (XIV sec., Paternò); ecc.; SANTAGATI, Carta comparata della Sicilia moderna con la
Sicilia del XII secolo, cit., s.v; i casali di Risichilla, Pispisia e Fabaria o Favara nel territorio di Caltagirone,
appartenenti a Federico Incisa nel 1323; v. L. SCIASCIA, Le donne e i cavalier, gli affanni e gli agi. Famiglia
e potere in Sicilia tra XII e XIV secolo, Messina 1993, p. 218. Inoltre v. M ARRONE , Repertorio della
feudalità siciliana, cit., passim.
111
Secondo Maurici vicino Castel di Iudica (?); v. SANTAGATI, Carta comparata della Sicilia moderna
con la Sicilia del XII secolo, p. 96.
112
Ricordato in un diploma dato da Federico II nel 1229; v. DRAGO, Relazione sugli usi civici cit., II, pp.
77-78; TAMBURINO MERLINO, Le antiche Mene, Palermo 1841, pp. 59-60; AMICO, Dizionario cit., I, p. 162.
113
PIRRI, Sicilia Sacra, cit., p. 977.
114
CUCUZZA, Hic sunt leones, cit., pp. 93-94, 110.
115
GAUDIOSO, Per la storia del territorio di Lentini, cit., p. 61.
116
J.L.A. HUILLARD-B REOLLES, Historia diplomatica Friderici Secundi, VI, t. 2, Parigi 1861, p. 697; F.
MAURICI, La terminologia delle fortificazioni nella Sicilia normanna, in Castra ipsa possunt et debent
reparari. Indagini conoscitive e metodologie di restauro delle strutture castellane normanno-sveve, Atti
del convegno internazionale di studio, Castello di Lagopesole 16-19 ottobre 1997, I, Roma 1998; M.A.
ABBOTTO, Militello in Val di Catania nella storia, Nicolosi 2008.
117
Pergamene siciliane dell’Archivio della Corona d’Aragona (1188-1347), a cura di L. Sciascia,
Palermo 1994, p. 85. Già nel 1347 lo troviamo come semplice feudo (Pergamene siciliane dell’archivio
della Corona d’Aragona, cit., p. 304.) Nel 1507 venne richiesta una licentia populandi senza alcun seguito
(C.A. GARUFI, Patti agrari e comuni feudali di nuova fondazione in Sicilia, in «Archivio Storico Siciliano»,
s. III, I, 1946, tav. VII).
118
M. DI MAURO, Notizie storiche sopra Scordia Inferiore, Catania 1868 (r.a. Scordia 2000), pp. 18 e sgg.
119
PIRRI, Sicilia Sacra, cit., p. 936.
120
G. MAJORANA, Le cronache inedite di Filippo Caruso, in «Archivio Storico Sicilia Orientale», 10
(1913), p. 119. Il casale venne assegnato nel 1170 da re Guglielmo a Stefano Eremita; v. M. GAUDIOSO, Per
la storia del territorio di Lentini nel secondo medio evo, in «Archivio Storico Sicilia Orientale», 1925, p. 61.
325
ANTONIO CUCUZZA
Casale Ossini 121 , Bucialca 122 (nei pressi di Militello), Millarino123 (tra Scordia e
Francofonte), Butartaro124, Mauroneum125 e Lalia126 vicino Vizzini, Casale Saracenicum127
vicino Piazza, l’anonimo centro della Serra delle Casazze nei pressi di Valguarnera
distrutto sul finire del XIV sec..
Molti di questi piccoli centri gravitavano intorno a nuclei abitati più grossi come
Consene, Granieri, Raalmionis o Ramione, Racalgineci, Racassem o Ralcheseyn,
Rachilnichi, Regalmesi, Seberino, nei dintorni a Caltagirone, e Casale Saracenicum o
Sarracinum, Eliano, Gallinica, Gatta, Mesepe, Pietra De Jannella, Rabugino, Ralbiato
o Raubiato, Rossomanno, di pertinenza dell’università di Piazza128.
E ancora Racamemo, Rachilnichi, Ralxhalsem (Caltagirone); Rachalbigini,
Rachalmisuri o Ralmussuri, Rambaldo, Raubio, (Piazza); Rajuleto o Rayhuleti (Vizzini).
Per meglio conoscere la diffusione degli insediamenti, oltre ai documenti coevi, ci
può essere d’aiuto la toponomastica che, per la Sicilia, è stata fortemente influenzata
dalla presenza plurisecolare degli arabi129.
Come ben sappiamo, il termine rahl indicava la presenza di un casale, e si è conservato
in molti nomi di contrade. Sono da segnalare: Rabatedda (Licodia e Vizzini) o Rabato
(Mineo) da rabad ‘sobborgo’; Rabbotano (268 II S.O.), Rabuggi, (268 II S.E.), Racineci
(272 I S.E.), Reburdone (273 II N.O.), Regalsemi (I.G.M. IV S.O.), Reggiatito (273 IV
N.E.). E lo stesso vale per burg (= torre) e manzil (= luogo di sosta, casale).130
Ulteriori indizi ci vengono dai nomi ancora oggi in uso, come Casalvecchio nel
territorio di Mineo e prossimo a Mongialino o il feudo Burgo.
Ma molti di questi centri rimasero disabitati tra il XIV e il XV secolo131.
Chiese e monasteri
Chiese e conventi, isolati o all’interno dei vari casali, esistevano in vari luoghi, tra
cui si segnalano: Callura oggi nel territorio di Palagonia (1140)132 e dei Monaci nel
territorio di Mineo (1141)133, entrambi di rito greco; un oratorio a San Cataldo nei
Rationes Decimarum Italiae, cit., p. 100.
AMICO, Dizionario topografico, I, cit., p. 162.
123
GAUDIOSO, Per la storia del territorio di Lentini, cit., p. 62.
124
AMICO, Dizionario topografico, I, cit., p. 172.
125
SANTAGATI, Carta comparata della Sicilia Moderna con la Sicilia del XII secolo, cit., p. 125.
126
Rationes Decimarum Italiae, cit., p. 95.
127
AMICO, Dizionario topografico, II, cit., pp. 454-455.
128
SANTAGATI, Carta comparata della Sicilia Moderna con la Sicilia del XII secolo, cit., alle voci.
129
In questa ricerca sono state utilizzate le seguenti carte I.G.M. 1:25.000: 268 II S.E. (Piazza Armerina);
268 II N.E. (Valguarnera Caropepe); 269 I S.O. (Sferro); 269 II N.O. (Monte Turcisi); 269 II S.O. (La
Callura); 269 III N.O. (Raddusa); 269 III S.E. (Ramacca); 269 III N.E. (Castel di Iudica); 269 III S.O.
(Monte Crunici); 269 IV S.E. (Catenanuova); 269 IV S.O. (Libertinia); 272 I S.E. (Passo di Piazza); 272
I N.E. (Mirabella Imbaccari); 273 I N.O. (Militello in Val di Catania); 273 I N.E. (Scordia); 273 IV N.O.
(Monte Frasca); 273 IV N.E. (Mineo); 273 IV S.E. (Grammichele); 273 IV S.O. (Caltagirone).
130
Per una ricerca più approfondita v. CARACAUSI, Dizionario onomastico della Sicilia, cit., vol. 1-2.
131
Le fonti sono numerose; in particolare v. TRAMONTANA, Michele da Piazza e il potere baronale in
Sicilia, cit., pp. 208-212.
132
A. MESSINA, La presenza basiliana nel Val di Noto, in Basilio di Cesarea. La sua età, la sua opera
e il basilianesimo in Sicilia, II, Messina 1983, p. 821.
121
122
326
INSEDIAMENTI UMANI, VIABILITÀ E AMBIENTE NELLA PIANA DI CATANIA DURANTE IL MEDIOEVO
pressi del castello di Mongialino (1197)134 e la sua omonima grangia situata tra
Grammichele e Caltagirone135 ; un oratorio a Belmonte (?), territorio di Ramacca
(1250)136.
Inoltre sono documentate varie chiese, spesso indizi che rimandano alla presenza di
un piccolo casale, come: S. Nicolai de Tribus Fontibus137 (1169), la basilichetta rupestre
di Coste di S. Febronia138 e quella di S. Giovanni139 (Palagonia), S. Maria de Raso nel
feudo di Camopietro (>1232)140, l’Ecclesia sancte Crucis in territorio Broccati141 o
Baccarato vicino Aidone (1299), S. Nicolai di Lalia142 (Vizzini), S. Marie apud casale
Fluminis Frigidi143(nei pressi di Palagonia), S. Nicolai apud casale Bulcharanum144
(vicino Scordia), la Crisiazza nella contrada Favara di Caltagirone145; le anonime basiliche
di Rocchicella e di Piano Cannelle.146.
133
V. VON FALKENHAUSEN, Nuovi contributi documentari sul monastero greco di S. Maria di Gala, in
Medioevo Mezzogiorno Mediterraneo, a cura di G. Rossetti e G. Vitolo, I, Napoli 2000, pp. 111-131.
134
R. PIRRI, Sicilia sacra, II, Palermo 1733 (r.a. Bologna 1987), p. 1290.
135
B. PANDOLFO, Indagini inedite su due chiese dedicate a San Cataldo. La presenza cistercense nel
calatino, in «Memorie e rendiconti della Zelantea», 2011, pp. 285-302.
136
R. FILANGERI, I registri della Cancelleria Angioina, IV, Napoli 1952, p. 168.
137
PIRRI, Sicilia cit., I, p. 622; Cucuzza, Hic sunt, cit., pp. 59, 109.
138
Con dipinti del XIV-XV secolo, da identificare con la chiesa di S. Pietro delle Rationes Decimarum;
v. Rationes decimarum Italiae, cit., p. 96; Cucuzza, Hic sunt, cit., pp. 65-72, 109-110.
139
G. LIBERTINI, Basilichetta paleocristiana nei pressi di Palagonia, in Atti del I Congresso Nazionale
di Archeologia Cristiana, Roma 1952, pp. 201-206; A. M ESSINA, Tre edifici del medioevo Siciliano, in
Sicilia Archeologica, 82 (1993), pp. 61-65.
140
G.A. D E GROSSIS, Catania sacra, Catania 1654, pp. 141-142.
141
Attestata nella donazione effettuata da Ruggero II nel 1134. In detta conferma si citano l’Ecclesia
sancte Crucis in territorio Broccati et ecclesia sancti Ioannis in territorio Bizini (WHITE, Il monachesimo
latino, cit., pp. 156 nota 163; 423-424; 427- 428). Inoltre v. M. AMARI, La guerra del Vespro Siciliano,
Palermo 1969, p. 556n.
142
Rationes decimarum Italiae, cit., p. 95.
143
Rationes decimarum Italiae, cit., p. 96.
144
Rationes decimarum Italiae, cit., p. 98.
145
Dedicata a Santo Pietro. G. ARLOTTA, Vie francigene, Hospitalia e toponimi carolingi nella Sicilia
medievale, in Tra Roma e Gerusalemme nel Medioevo. Paesaggi umani ed ambientali del pellegrinaggio
meridionale, a cura di Massimo Oldoni, Atti del Congresso Internazionale di Studi, Salerno 26-29 ottobre
2000, Salerno 2005, pp. 859-861; A. M ESSINA, Chiese romaniche a navata unica nella Sicilia centroorientale: la chiesa di S. Pietro alla Favara di Caltagirone, in «Valdinoto. Rivista della Società Calatina
di Storia Calatina Patria e Cultura», n.s., I (2006), pp. 123-124.
146
Nell’area interessata dal presente studio sono pochi i siti oggetto di scavi. Alcuni hanno fornito dati
per la ricerca, come Rocchicella dove sono stati recentemente ritrovati i resti di una basilica altomedievale
(L. ARCIFA, La cristianizzazione nella piana dei Margi. Le basilichette di Rocchicella e Favarotta presso
Mineo, CT, in La cristianizzazione in Italia tra tardoantico e altomedievo, a cura di R. M. BONACASA
CARRA-E. VITALE, II, Palermo 2007, pp. 1589-1612; L. ARCIFA, L’area del santuario dall’età bizantina
all’XI secolo, in Il santuario dei Palici. Un centro di culto nella valle dei Margi, a cura di L. MANISCALCO,
Palermo 2008, pp. 291-309), e Piano Cannelle nelle vicinanze di San Michele di Ganzaria (P. MARCHESE,
La ricerca archeologica a Piano Cannelle. Gli edifici di culto, in La Ganzeria dallo scavo alla fruizione,
a cura di P. M ARCHESE, Palermo 2008, pp. 43-62; A. MARLETTA, La basilica cimiteriale nella necropoli sub
divo di Piano Cannelle. Trasformazioni di uno spazio sacro tra la fine della tarda antichità e il medioevo,
in La Ganzaria. Ricerca, conoscenza, memoria, a cura di P. Marchese, Palermo 2015, pp. 135-155).
327
ANTONIO CUCUZZA
Resta ancora da risolvere il rebus toponomastico che pone il toponimo Cunnò nel
territorio di Ramacca. Nei documenti catastali, ancora negli anni trenta, era citato come
Santa Maria di Cundrò. L’area è ricca di ceramica e presenta una necropoli ormai
devastata dai lavori agricoli e dai tombaroli, chiari indizi su una presenza umana di
lunga durata. Che si tratti di una grangia benedettina dipendente dal monastero di
Fundrò?147
Torri e castelli
Quest’ampia area vedeva la presenza di alcune torri, castelli e luoghi forti. La più
antica descritta dalle fonti è la roccaforte di Zotica o Judica (1076)148 e per il periodo
seguente si menzionano: le torri di Raddusa149 e di Baccarato (1197)150; Aidone (XII
sec.)151; il castello di Mongialino tra Ramacca e Caltagirone (1199)152; Calatari (?) oggi
nel territorio di Ramacca (1299)153; Palagonia (1299)154; Catalfaro (1093)155 e Serravalle
o Castelluccio (1399)156 sulle sponde del Ferro nel territorio di Mineo157; Pietratagliata
o Fessima o Gresti (1408)158; Poggio Pizzuto nel territorio di San Michele di Ganzaria159;
E. GALLOCCHIO -L.P. MARTINO-D. PATTI, Il casale di Fundrò, in Piazza Armerina. Villa del casale e
la Sicilia tra tardoantico e medioevo, a cura di Patrizio Pensabene, Roma 2010, pp. 33-38; C. PARLASCINO,
Il casale di Fundrò, Piazza Armerina 2013.
148
CUCUZZA, Vicende storiche intorno al Paradiso, cit., pp. 72-79.
149
N. DE RENSIS, La baronia di Camopietro, Roma 1914, p. 9.
150
F. MAURICI, Castelli medievali in Sicilia. Dai bizantini ai normanni, Palermo 1992, p. 251; A.
MESSINA, Le chiese rupestri del Val di Noto, Palermo 1994, p. 124.
151
F. MAURICI, Castelli medievali in Sicilia. Dai bizantini ai normanni, Palermo 1992, p. 248.
152
G. TOMARCHIO, La Fortezza di Mongialino (Castello di Montalfone), Caltagirone 1987; SANTAGATI,
Carta comparata della Sicilia Moderna con la Sicilia del XII secolo, cit., p. 137; Immagini di Sicilia,
Enna 1990, pp. 208-209; MARRONE, Repertorio della feudalità siciliana, cit., p. 509; Castelli medievali di
Sicilia. Guida agli itinerari dell’isola, Palermo 2001, pp. 173-174; D. BROCATO-G. MANNOIA, Castelli e
luoghi fortificati della Provincia di Catania, Caltanissetta 2004, pp. 110-115.
153
MAURICI, Castelli medievali in Sicilia, cit., p. 265.
154
SANTAGATI, Carta comparata della Sicilia Moderna con la Sicilia del XII secolo, cit., p. 144.
155
È ricordato nel diploma di Urbano II del 1093 e in quello di Alessandro III del 1169 (PIRRI, Sicilia
cit., I, pp. 618, 622), da Idrisi (in AMARI, Biblioteca Arabo-sicula, cit., I, p. 105). Il Fazello intorno alla
metà del XVI secolo affermava: “Il monte Catalfano di nome saracino, dove si vedono meravigliose
anticaglie d’una città, e d’una fortezza rovinate, e grandissime pietre lavorate in quadro” (FAZELLO ,
Della storia, cit., I, p. 605; seguito da AMICo, Dizionario cit., I, p. 282; TAMBURINO MERLINI, Le antiche
Mene cit., p. 64 e sgg). Inoltre vedi: BROCATO-MANNOIA, Castelli e luoghi fortificati, cit., pp. 103-104;
Castelli medievali di Sicilia, cit., p. 162.
156
CUCUZZA, Hic sunt leones, cit., pp. 103-104, 111; MARRONe, Repertorio della feudalità siciliana, cit., p.
535; Castelli medievali di Sicilia, cit., p. 180; BROCATO-MANNOIA, Castelli e luoghi fortificati, cit., pp. 103-104.
157
Sul castello di Mineo v. Castelli medievali di Sicilia, cit., pp. 172-173; BROCATO-MANNOIA, Castelli
e luoghi fortificati, cit., p. 107.
158
SANTAGATI, Carta comparata della Sicilia Moderna con la Sicilia del XII secolo, cit., p. 110; G.
TOMARCHIO, Il castello di Pietratagliata, Caltanissetta 1992; D. PIRRERA, Castelli medievali in provincia di
Enna dai bizantini ai normanni, Assoro 2006, pp. 85-88; Immagini di Sicilia, cit., pp. 210-211; Castelli
medievali di Sicilia, cit., pp. 202-203.
159
P. MARCHESE, Poggio Pizzuto. Ricerche archeologica e risultati, in La Ganzaria dallo scavo alla
fruizione, Palermo 2008, pp. 119-130; P. MARCHESE, Torre di controllo e avvistamento, in La Ganzaria
dallo scavo alla fruizione, cit., pp. 131-135.
147
328
INSEDIAMENTI UMANI, VIABILITÀ E AMBIENTE NELLA PIANA DI CATANIA DURANTE IL MEDIOEVO
Alchila o Chila (1299 e 1408)160; ed altre ancora. Abbiamo inoltre una serie di torri161
documentate nel periodo successivo, tra cui quelle di: Albospino (Ramacca)162; Balchino
(Mineo)163; Camopietro allora territorio di Caltagirone164; Gatta (1340)165; Belmontino166
nei pressi di Aidone; Poggio Pizzuto vicino San Michele di Ganzaria167, la torre degli
Uberti a Russomanno nei pressi di Valguarnera 168, Granieri (1356, castrum sive
fortilicium).169
Ambiente e attività umane
L’ambiente170 di tutta l’area nel periodo medievale171 doveva essere molto diverso da
quello attuale, e sicuramente doveva presentare ampie zone umide172, poiché le fonti
attestano la presenza dei fiumi Ethayni173, Jubebium, Hibelus, Bulfarata174, del lago
160
MARRONE, Repertorio della feudalità siciliana, cit., p. 460; Castelli medievali di Sicilia, cit., pp.
176-177; BROCATO-MANNOIA, Castelli e luoghi fortificati, cit., pp. 107-109.
161
A partire dall’inizio del XVI con il termine torri si intendono “costruzioni rurali in muratura che
prendono a poco a poco il posto dei pagliai […] sono costruzioni in mattoni o in pietra da taglio, coperte
da un tetto di tegole” (C. TRASSELLI, Siciliani fra Quattrocento e Cinquecento, Messina 1981, p. 29).
162
E. MAGNANO DI SAN LIO, Il giardino nel feudo, in «Lembasi», 1 (1995), pp. 53-84. Inoltre v. SANTAGATI,
Carta comparata della Sicilia Moderna con la Sicilia del XII secolo, cit., p. 54.
163
Barclunis casale nel XIV secolo; vedi SANTAGATI, Carta comparata della Sicilia Moderna con la Sicilia del
XII secolo, cit., p. 61; inoltre: T. PITARI, La rotta del Conte, ovvero: un giorno di storia menenina, Catania 1882; R.
LEGGIO, La rotta del Conte. Il Balchino riacquistato, Mineo 2004.
164
CUCUZZA, Vicende storiche intorno al Paradiso, cit., pp. 160-161.
165
SANTAGATI, Carta comparata della Sicilia Moderna con la Sicilia del XII secolo, cit., p. 104; Castelli
medievali di Sicilia, cit., p. 201.
166
OMODEI, Descrizione della Sicilia nel secolo XVI, cit., p. 70; AMARI, Carta comparata, cit., p. 63.
167
P. MARCHESE, Torre di controllo e avvistamento, in P. MARCHESE, a cura di, La Ganzeria dallo scavo
alla fruizione, cit., pp. 131-135.
168
SANTAGATI, Carta comparata della Sicilia Moderna con la Sicilia del XII secolo, cit., p. 170.
169
SANTAGATI, Carta comparata della Sicilia Moderna con la Sicilia del XII secolo, cit., p. 109.
170
Purtroppo, a parte alcune indicazioni generiche, mancano dati precisi sull’ambiente di quest’area
nel periodo medievale. Paradossalmente abbiamo molti più dati per i periodi più antichi che provengono
dagli scavi in alcuni siti archeologici, come quello mesolitico di Perriere Sottano nel territorio di Ramacca
(C. CORRIDI, L’associazione faunistica dei livelli mesolitici di Perriere Sottano, Ramacca (CT), in «Bullettino
di Paletnologia italiana», 89, 1998, pp. 73-79) e quello di Rocchicella vicino Mineo (E. C ASTIGLIONI, I
resti botanici, in Il santuario dei Palici. Un centro di culto nella valle del Margi, Palermo 2008, pp. 365386; C. D I PATTI-F. LUPO, La fauna: indagine zoologica, in Il santuario dei Palici, cit., pp. 387-400).
Inoltre sull’ambiente della Sicilia protostorica v. R.M. ALBANESE, Sicani, Siculi, Elimi. Forme di identità,
modi di contatto e processi di trasformazione, Milano 2003, pp. 13-17.
171
D. NOVEMBRE, L’ambiente fisico, in Uomo e ambiente nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle
ottave giornate normanno-sveve, Bari 1989, pp. 40 e sgg. Sulle condizioni ambientali della Sicilia nel
periodo medievale, tra l’altro, si vedano: I. PERI, Uomini, città e campagne in Sicilia dall’XI al XIII
secolo, Bari 1978; I. PERI, La Sicilia dopo il Vespro. Uomini, città e campagne 1282-1376, Bari 1982; I.
PERI, Restaurazione e pacifico Stato in Sicilia 1377-1501, Bari 1988.
172
P. SARDINA, Tra l’Etna e il mare. Vita cittadina e mondo rurale a Catania dal Vespro ai Martini
(1282/1410), Messina 1995, pp. 43 e sgg.
173
Ethayni = Dittaino. Nel 1125 è attestato, sul fiume, un ponte detto di S. Pantaleo; v. L. ARCIFA,
Dinamiche insediative nel territorio di Mineo tra tardoantico e bassomedioevo. Il castrum di Monte
Catalfaro, in «Mélanges de l’école française de Rome, Moyen Âge», 113.1 (2001), p. 299, n. 98.
174
Probabilmente si tratta del Buffarito o Gatta; v. MASSA, Sicilia in prospettiva, cit., I, pp. 300-301.
329
ANTONIO CUCUZZA
rotundum175, della fonte Arsae176 e del Canneto di Palagonia177. Numerosi furono anche
i fiumi di Mineo, elencati nei documenti tardo medievali, come la contrada Pantani, il
lago Catallargo, il Flumen magno, il Fluminis Bunvisini vel Macube o Macuba o Fiume
Caldo, tenuta del lago secco, il fiume Busarito, il fiume della Palma, contrada Acquaviva,
il Fiume Margi178, e ancora il Fiume grande, il fiume Lubushitellu, Donna Ragusa (donna
dall’arabo ayn = ‘fonte, sorgente’), contrada Funtanellis, il corso d’acqua in contrada
Signurini.179 Nei documenti sono anche citati numerosi pantani e gurne, utilizzate per la
pesca180 e per la caccia di animali acquatici181.
La mancanza di documenti non ci permette però di apprendere la situazione economica
medievale di quest’area. Alcune notizie ci provengono dai diplomi di concessione di
alcuni feudi. Per esempio, in un documento del 1141 sul feudo dei Monaci nel territorio
di Mineo, ma prossimo all’attuale Ramacca, è citato il molendini Floderisii182 sul fiume
Ferro, e in un atto del 1197 per la concessione della baronia di Camopietro è citato
mulino di Leuhet183 sul Gornalunga. In un periodo successivo sono anche ricordati il
mulino de Franchino, un mulino in contrada Iandruma, un mulino in contrada
Brancaglano ovvero de Molindinellis, un mulino detto lu supranu e un altro detto de la
turri184, la contrada mulino fuori della pianura185; i mulini di lu Ciminu e quello di
Vattanu186 nei dintorni di Mineo, il mulino de suso o S. Giovanni e quello de juso sul
Il toponimo potrebbe conservarsi nella Masseria Lago (I.G.M. f. 269 II S.O., La Callura).
N. DE RENSIS, La baronia di Camopietro in Caltagirone, Roma 1913, p. 9.
177
C. MINIERI R ICCIO, Il registro di Carlo I dal gennaio 1273 al 31 dicembre 1283, in «Archivio Storico
Italiano», IV-I (1878), p. 4.
178
DRAGO, Relazione sugli usi civici, cit., passim.
179
G. CALABRESE, Il registro del notaio Pietro Pellegrino di Mineo (1428-1431), in «Archivio Storico
Sicilia Orientale», 1993-94, passim.
180
Lungo il Simeto vengono nominati alcuni tarusi che servivano per la pesca. Il FAZELLO, Storia della
Sicilia, cit., I, p. 184.
181
Il terreno, per la maggior parte argilloso, trattiene l’acqua e dopo ogni pioggia si notano numerose
pozzanghere d’acqua. Dobbiamo poi tenere conto, come è stato ipotizzato, che in pieno medio evo vi fu
un periodo caldo che fece innalzare il livello del mare, creando difficoltà al deflusso dei fiumi. Infatti il
disboscamento aveva cambiato il regime idrico dei corsi d’acqua che, dilavando il terreno, trascinavano
molti materiali che erano poi depositati nei letti facendo alzare il corso e facilitando l’esondazione e gli
allagamenti in parte della Piana (P. SARDINA, Tra l’Etna e il mare. Vita cittadina e mondo rurale a Catania
dal Vespro ai Martini, 1282/1410, Messina 1995, pp. 15-21). Nelle fonti medievali risulta che Lentini era
un porto per la navigabilità del S. Leonardo (PERI, Uomini, città e campagne in Sicilia, cit., p. 5) e che il
Gornalunga, oggi perennemente asciutto, era, nella metà del XVI secolo, guadabile solo qualche volta
d’estate a cavallo (OMODEI, Descrizione della Sicilia, cit., p. 336). Su detto fiume esisteva, nel 1093, un
pontem ferreum (PIRRI, Sicilia sacra, I, cit., p. 618), ma si tratta di una segnalazione più unica che rara
poiché molto difficilmente lungo le strade si trovavano ponti atti a scavalcare i fiumi. Sui ponti vedi: F.
EMANUELE E GAETANI MARCHESE DI VILLABIANCA, Ponti sui fiumi della Sicilia, Palermo 1986; F. MAURICI, La
costruzione di ponti nella Sicilia del XVI secolo, in Itinerari e comunicazioni in Sicilia tra tardo-antico e
medioevo, Caltanissetta 2004, pp. 22-32. Inoltre v. L. SANTAGATI, Ponti antichi di Sicilia dai greci al 1778,
Lussografica, Caltanissetta 2018,
182
FALKENHAUSEN, Nuovi contributi documentari sul monastero greco di S. Maria di Gala, cit., p. 128.
183
DE RENSIS, La baronia di Camopietro, cit., p. 9.
184
CALABRESE, Il registro del notaio Pietro Pellegrino, cit., pp. 236, 242, 266.
185
CALABRESE, Il registro del notaio Pietro Pellegrino, cit., p. 281.
186
DRAGO, Relazione sugli usi civici, cit., I, p. 80.
175
176
330
INSEDIAMENTI UMANI, VIABILITÀ E AMBIENTE NELLA PIANA DI CATANIA DURANTE IL MEDIOEVO
fiume Catalfaro nel territorio di Palagonia187, ecc.188
Non si hanno molti documenti sulle produzioni189 di quest’area, e molto probabilmente,
nel periodo considerato, per la vicinanza dei centri abitati, doveva essere coltivata con
orti, viridaria190, giardini, vigne ed oliveti, e anche con grano191 e orzo192, mentre la
parte più distante doveva essere lasciata al pascolo per la presenza dei boschi. Alcuni
luoghi particolarmente adatti per la possibilità di irrigazioni furono coltivati con cotone,
lino193, canapa194, ecc.195
Idrisi affermava che il territorio Vizzini possedeva “campi da seminagione e buon
terreno”, che Qal’at ‘al Hinzariah o Ganzeria (Caltagirone?) aveva “buoni campi da
seminare e ci vuol di molti cubiti a misuralo, esso produce molto miele e che Mineo,
circondata da sorgenti, abbondava di campi da seminare, di frutti, di latticini, ed aveva
terre di ottime qualità. E ancora Idrisi affermava che Malga Halil (probabilmente
Mongialino) era molto prospero con non interrotti campi da seminare; che Judica era un
grosso casale con tanta popolazione, vasti campi da seminato e copiose produzioni nel
suo territorio; e che Paternò presentava molti campi da seminare e molte industrie essendo
anche ricco di civaie, di frutta, di vigne e di giardini196.
Nella vinuta e lu suggiornu di lu re Japucu in la gitati di Catania, l’annu
MCCLXXXVII narrata da frate Atanasio di Jaci, sono fornite alcune notizie sulla
Piana nel 1287, e narrando la fuga dei francesi si affermava che “caminandu a la
via di lu xiumi grandi, incuntraru un armentu di vacchi chi jia a la via di la
Chiana, […] li cavalli li assicutavanu a la cuda, e li balistreri d’arretu li mura di
li vigni” 197 .
Dai documenti oggi conosciuti sono attestati vigne con alberi, tra il XII ed il XIV
187
D. VENTURA, Palagonia, A.D. 1579. Da un anonimo regesto notarile, in «Quaderni dell’Accademia
dei Palici», 1 (1997), pp. 4, 36.
188
Sulla diffusione medievale del mulino ad acqua v. H. BRESC-P. DI SALVO, Mulini ad acqua in Sicilia,
Palermo 2001, pp. 25-48. Per l’area presa in esame manca uno studio sistematico; è possibile avere alcune
notizie sul territorio di Militello (S. DI FAZIO, I mulini del “Principe padrone”, Militello in Val di Catania
2002) e Licodia Eubea (C. VERDI, Gli antichi mulini ad acqua della terra di Licodia, Comiso 1985).
189
Alcuni dati recenti ci vengono dagli scavi archeologici. A Rocchicella, al centro del triangolo
Palagonia-Ramacca-Mineo, sono stati trovate, negli strati medievali, tracce di cicerchia, orzo, farro, frumento
e rami combusti di olivo e quercia (CASTIGLIONI, I resti botanici, in Il santuario dei Palici, cit., pp. 378378) e ossa di suini, pecore e capre (DI P ATTI-LUPO, La fauna: indagine zoologica, in Il santuario dei
Palici, cit., p. 395).
190
S. TRAMONTANA, Michele da Piazza e il potere baronale in Sicilia, Messina-Firenze 1963, pp. 230232.
191
TRAMONTANA, Michele da Piazza e il potere baronale in Sicilia, cit., pp. 227-230.
192
A Mineo è documentata la coltivazione nella contrada de Funtanellis; v. CALABRESE, Il registro del
notaio Pietro Pellegrino, cit., pp. 281 (n. 43); 237 (n. 112); 238 (n. 119).
193
Il lino, da dove veniva estratto l’olio di linusa, era intensamente coltivato a Mineo ed è registrato in
numerosi contratti e compravendite già all’inizio del XV secolo; v. C ALABRESE , Il registro del notaio
Pietro Pellegrino, cit., pp. 218 (n. 9); 219 (nn. 12 e 15); 222 (n. 31); 223 (n. 35); 235-236 (n. 101).
194
CALABRESE, Il registro del notaio Pietro Pellegrino, cit., pp. 220 (n. 22); 230 (n. 70); 233 (n. 88).
195
TRAMONTANA, Michele da Piazza e il potere baronale in Sicilia, cit., pp. 230-231.
196
IDRISI, Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo, in M. AMARI, Biblioteca Araba-Sicula, I,
Catania 1982, pp. 103-109.
197
Rerum Italicarum Scriptores, 34, Bologna 1935, p. 33.
331
ANTONIO CUCUZZA
secolo, nelle contrade Bellia, Starrante, Ardoino, Scaranti, Rambaldi e S. Croce (tutte
nei dintorni della città di Piazza)198. E ancora nel territorio di Mineo sono descritte
vigne nelle contrade Iambardara, Nicchiara, Carruba, Nixima, Nicchiara della Pietra
Rossa, Spiye, Signurini, Baldilli, Franca, Donna Ragusa, Daguara, Tamburo, Nunciata,
Circito, San Giacomo, Pummacari e orti nella contrada Santa Croce199.
Nei documenti non si accennano altre coltivazioni e spesso si descrivono vigne con
alberi, ma la presenza di alcuni frantoi200 rimanda sicuramente alla coltivazione dell’ulivo.
Nel diploma di concessione di Camopietro sono citati la mandra Buffalore e il collem
Caprarum201; inoltre troviamo vicino Aidone una mandra de fonte Roberti Calvini202, e
mandrilis in contrata Montanee olivastri203 (sicuramente indizi di allevamenti).
Indicazioni di massima sugli allevamenti204 nella Piana si possono estrapolare dal
fodro del 1282, una tassa in natura richiesta da Pietro II alle comunità siciliane durante
la Guerra del Vespro.
Città
grano
orzo
1 Caltagirone
500
1.000
2 Mineo
100
200
3 Vizzini
100
200
4 Palagonia
20
40
5 Alchila
20
40
6 Licodia
15
30
7 Favara
15
30
Tabella 3. Fonte: De Rebus Regni Siciliae, Palermo 1982,
vacche
150
100
castrati
2.000
500
porci
300
50
vino
doc. CLXXII, pp. 156-157.
Tra i centri che si affacciano sulla Piana (tavola 3), a Caltagirone furono richiesti 150
vacche, 2000 castrati e 300 porci o arieti, e a Mineo 100 vacche, 500 castrati e 50 porci o arieti.
Nel periodo medievale sono documentate altresì le transumanze che avevano come meta la
Piana e i porcai di Caltagirone, Vizzini, Lentini, ecc. usavano portarvi gli animali a svernare205.
Allevamenti di capre sono attestate nelle contrade Gaito e Caratalì di pertinenza del feudo di
Camopietro206, mentre sappiamo che i pecorai di Nicosia, Capizzi, Galati, Tortorici e Sinagra li
portavano a pascolare nei feudi di Raddusa, Pietrarossa, Calvino, Capezzana, Cisterne,
Camopietro e Fiumefreddo (un territorio che dall’attuale Scordia arrivava ad Aidone)207.
198
C. ARDIZZONE, I diplomi esistenti nella biblioteca comunale. Regesto, Catania 1927, pp. 79, 80, 81,
91, 116, 164, 173.
199
CALABRESE, Il registro del notaio Pietro Pellegrino, cit., passim.
200
CALABRESE, Il registro del notaio Pietro Pellegrino, cit., pp. 222, 240, 282, 287.
201
DE RENSIS, La baronia di Camopietro, cit., p. 9.
202
Pergamene siciliane dell’Archivio della Corona d’Aragona, cit. p. 144.
203
Pergamene siciliane dell’Archivio della Corona d’Aragona, cit., p. 141.
204
Un aiuto ci viene dalla toponomastica, come nel caso di Rairiddi (Mineo) che deriva dall’arabo
ra’âyah (=stalla da buoi) e ‘arîd (=largo); v. CARACAUSI, Dizionario onomastico della Sicilia, cit., II, pp.
1321, 1322.
205
H. BRESC, Un monde mediterranéen. Economie et société en Sicile, 1300-1450, Palermo-Roma
1986, pp. 92-93.
206
G. PACE , «Ex arca privilegiorum»: Regesti delle pergamene dell’Universitas di Caltagirone, in
«Rivista di Storia del Diritto Italiano», 69 (1996), p. 243.
207
BRESC, Un monde mediterranéen, cit., pp. 87-102,140-141.
332
INSEDIAMENTI UMANI, VIABILITÀ E AMBIENTE NELLA PIANA DI CATANIA DURANTE IL MEDIOEVO
Che la Piana fosse intensamente adibita all’allevamento è poi attestato anche da
Michele da Piazza208 che, parlando delle razzie fatte da Enrico Rosso nei dintorni di
Motta Sant’Anastasia, riferiva che gli animali rastrellati raggiungevano il considerevole
numero di 10.000209 unità.
Altri indizi sulla diffusione dell’allevamento ci provengono dalla segnalazione dei
marcati (= ovile; capanna dei pastori; casa in cui si produce il formaggio; dall’arabo
marqad) e dagli iazzi (= luogo dove si fanno riposare le bestie; dal latino iacere)210.
Varie fonti ci segnalano quello di S. Giorgio nei dintorni di Mineo 211 , quelli di
Mezzacisterna o Passopiraino (con fondaco), e poi ancora Lotto, Margherito212 ,
Mezzacisterna del Miliotto, Zotto213 nella piana tra Ramacca e Aidone, mandrilis in
contada Montagna dell’Ogliastro, Mandra de Fonte, Mandra dictam Balzu Molendini214,
un allevamento in contrada Scifania215 e Mandria Buffalore o mandria dei bufali216.
Vicino al Simeto sono attestati lo jacium del Passo del Rotolo (con 3.000 pecore e 300
vacche, appartenente al monastero di S. Maria di Nuovaluce), uno jacium di 4 salme
appartenente alla chiesa di Catania, lo jacium Junchetti, jacium di S. Giorgio, ed altri217.
Ulteriori notizie si estraggono poi dai testamenti dei vari aristocratici come da quello di
Aloisia Fimetta di Lentini che nel 1284 lasciò in eredità 120 oves, capros et yrcos218.
L’unica segnalazione sulla presenza di boschi in quest’area, per l’antichità, si ricava da
un passo di Virgilio (“nel bosco ... ove c’è un altare di Palico”)219. In alcune fonti si
descrivono poi, per il periodo medievale, alcuni boschi formati da conifere e querce
(sostanzialmente intatti fino ai primi anni del XV secolo) nei dintorni della Piana220, come
quelli di Paternò, Fontanarossa (Catania), Rachalmeni (Francofonte), Pantano e Arcimusa
(Lentini, ed in entrambi esistevano dei solacia regi, luoghi dove fermarsi dopo la caccia),
Augusta, S. Pietro (Caltagirone), Dirillo (Niscemi), Piazza, Buscemi, Buccheri221.
TRAMONTANA, Michele da Piazza e il potere baronale in Sicilia, cit., pp. 217-219.
M. DA PIAZZA, Cronaca 1336-1361, a cura di A. Giuffrida, Palermo 1980, p. 300.
210
Sul significato di iazzu e di marcato’si vedano: F.L. ODDO, Dizionario di antiche istituzioni siciliane,
Palermo 1983, s.v; CARACAUSI, Dizionario onomastico della Sicilia, cit., I, p. 817 e II, p. 954.
211
DRAGO, Relazione sugli usi civici, cit., I, p. 81.
212
F. SAN MARTINO DE SPUCCHES, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia, IV, Palermo 1926,
p. 417.
213
DRAGO, Relazione sugli usi civici, cit., I, p. 16.
214
Pergamene siciliane dell’Archivio della Corona d’Aragona, cit., pp. 140-142, 144-145, 150-152.
215
ARDIZZONE , I diplomi esistenti nella biblioteca comunale, cit., doc. 542.
216
S. RANDAZZINI, Il Monte Scarpello e la sua storia, Caltagirone 1894, p. 20; DE RENSIS, La baronia
di Camopietro, cit., p. 9.
217
SARDINA, Tra l’Etna ed il mare, cit., pp. 50-51.
218
Pergamene siciliane dell’Archivio della Corona d’Aragona, cit., pp. 84-90.
219
VIRGILIO, Eneide, IX, 581-585.
220
C. T RASSELLI, Introduzione, in V.E. SERGIO -G. P EREZ, Un secolo di politica stradale in Sicilia,
Caltanissetta-Roma 1962, p. VII. La toponomastica, in qualche occasione, fornisce indicazioni come per
esempio per la contrada Randello di Licodia Eubea (f. 276 IV S.O.), per Rannu, località nei pressi di
Mineo che potrebbe prendere il nome da rand = albero nodoso, alloro, e per Rangasila vicino Caltagirone
(273 IV S.O.), cioè maggese (?); CARACAUSI, Dizionario onomastico della Sicilia, cit., II, s.v..
221
H. B RESC, “Disfari et perdiri li fructi et li aglandi”: economie e risorse boschive nella Sicilia
medievale (XIII-XV secolo), in «Quaderni Storici», 54 (1983), pp. 941-969; BRESC, Un monde mediterranéen,
208
209
333
ANTONIO CUCUZZA
Ancora più difficile è la ricostruzione della situazione viaria sia preistorica222 che
greca 223. La Piana di Catania, nel periodo romano224 era sicuramente suddivisa in
latifundia225, spesso appartenenti ad importanti famiglie romane226.
Tutti gli insediamenti dell’area erano in qualche modo messi in collegamento tra
loro con un reticolo di vie di campagna, di cui oggi restano poche tracce certe227.
Documentati dalle fonti sono la Catania-Agrigento per via interna, che costeggiava
il Gornalunga228 e lungo il Simeto, almeno nel suo tratto finale, la Catania-Termini
Imerese229 che a sud era sfiorata dalla via che metteva in collegamento il porto di Messina
con quelli della Sicilia meridionale, in particolare Kaucana230.
cit., pp. 87-102. Sul problema, tra l’altro, si veda D. VENTURA, Economie e risorse boschive nella storia
della Sicilia, in Storia e risorse forestali, a cura di M. AGNOLETTI, Firenze 2001, pp. 275-289.
222
Per la preistoria l’unica segnalazione riguarda un tratto di strada nei pressi di Caltagirone; v. D.
AMOROSO, Una testimonianza di viabilità preistorica: la strada delle tombe nella necropoli della Montagna
di Caltagirone, in Viabilità antica in Sicilia, Riposto 1987, pp. 15-24.
223
Per un’ipotesi di viabilità v. D. ADAMESTEANU, Note su alcune vie siceliote di penetrazione, in
«Kokalos», VIII (1962), pp. 199-209.
224
Per una panoramica della Sicilia nel periodo imperiale v. R.J.A. WILSON, Sicily under the roman
empire. The archaeology of a roman province, 36 bc-ad 535, Warminster 1990.
225
Per un elenco seppure parziale degli insediamenti v. CUCUZZA, Vicende storiche intorno al Paradiso,
cit., pp. 69-70. Inoltre v. E. Bonacini, Il territorio calatino nella Sicilia imperiale e tardo romana, Oxford
2007.
226
Per un esempio nel territorio di Ramacca si vedano: G. SALMERI, Un Magister ovium di Domizia
Longina in Sicilia, in «Annali della Scuola Normale di Pisa», s. III, XIV.1 (1984), pp. 13-23; G. SALMERI,
Un pastore nabateo in Sicilia, in Campagne di Sicilia, segni e testimonianze di vita contadina, Catania
1989, pp. 25-26; E. PROCELLI, Contrada Ventrelli 1900 anni fa, in «Ramacca Notizie», 14, luglio 1985, p.
2° di copertina.
227
Sul periodo romano si vedano per esempio: B. PACE, Arte e civiltà della Sicilia antica, I, I fattori
etnici e sociali, Milano-Roma-Napoli-Città di Castello 1958, pp. 453-488; G. PUGLISI, Le vie del frumento.
Aspetti dell’organizzazione stazionaria e mansionaria nella Sicilia tardo romana, in Viabilità antica in
Sicilia, Giarre 1987, pp. 77-106; G. UGGERI, Il sistema viario romano in Sicilia e le sopravvivenze medievali,
in La Sicilia rupestre nel contesto delle civiltà mediterranee, a cura di C. D. FONSECA, Galatina 1986, pp.
85-112; G. Uggeri, L’insediamento rurale nella Sicilia romana e il problema della continuità, in «Aitna»,
2 (1996), pp. 35-51; G. UGGERI, La viabilità romana in Sicilia con particolare riguardo al III e IV sec. d.
C. (Tabula Peutingeriana), in «Kokalos», 28-29 (1982-83), pp. 424-460; G. U GGERI, La viabilità della
Sicilia in età Romana, Galatina 2004; A. BURGIO, La viabilità in età greca e romana in Sicilia, in Lo stretto
di Messina nell’antichità, Messina 2005.
228
B. COPPOLA, Ricognizioni archeologiche nel territorio di Monte Turcisi (IGM 269 II NO) settore
orientale, TDL, Università di Catania, Lettere e filosofia, 2002-2003, pp. 106-112.
229
PACE, Arte e civiltà della Sicilia antica, cit., p. 480. Lungo questo tracciato vanno posti i ponti romani
di Paternò e Centuripe; vedi: I. PATERNÒ CASTELLO, Viaggio per tutte le antichità della Sicilia, Palermo 1817
(r. a. Siracusa-Palermo 1990), pp. 52 e 71; I. PATERNÒ CASTELLO, Relazione delle antichità del regno di Sicilia
esistenti nelle due valli di Demona e di Noto, in G. Pagnano, Le antichità del Regno di Sicilia. I plani di
Biscari e Torremuzza per la Regia Custodia 1779, Siracusa-Palermo 2001, pp. 143-144 e 149.
230
G. ARLOTTA, Vie francigene. Hospitalia e toponimi carolingi nella Sicilia medievale, in Tra Roma e
Gerusalemme, Salerno 2005, tomo III, pp. 815-886. Certamente l’esiguità dei documenti non ci permette
di avere un’idea chiara sul problema. Su cosa intendere con il termine francigena si vedano le chiare
indicazioni di L. e M. P. SANTAGATI, Sulle cosiddette vie francigene di Sicilia. Oppure anche il vescovo
Gualtiero era una via? Con appendice sugli Hospitalia di Sicilia, in «Archivio Nisseno», 21, lugliodicembre 2017, pp. 94-116.
334
INSEDIAMENTI UMANI, VIABILITÀ E AMBIENTE NELLA PIANA DI CATANIA DURANTE IL MEDIOEVO
Lungo quest’asse viario si trovava, a XXIV miglia da Catania, la Statio di Capitoniana.
La distanza riportata nelle fonti la fa ricadere in prossimità di Ramacca (Castellito o
Capezzana)231. Anche successivamente l’area restò uno snodo importante poiché era
attraversata da numerose strade che mettevano in contatto il catanese con l’ennese, da
un lato, e il gelese dall’altro232.
Se per il periodo romano abbiamo qualche dato, mancano quasi completamente studi
sulla viabilità medievale (alcune indicazioni ci vengono dai diplomi di confinazione dei
feudi)233, e pertanto resta difficile poter formulare un’ipotesi sulla Piana di Catania234.
In particolare sono documentate la Catania-Caltagirone235 o Piazza236 (che ricalcava,
per buona parte, l’antica via romana Catania-Agrigento237), la Caltagirone-Piazza passante
per il feudo di Baccarato238 e la Mineo-Paternò239 che sicuramente intersecava la prima,
Sulle varie ipotesi di identificazione v. CUCUZZA, Vicende storiche intorno al Paradiso, cit., pp. 69-72.
Sulla viabilità medievale e moderna si vedano: L. ARCIFA, La Sicilia medievale, in Difese da difendere.
Atlante delle città murate di Sicilia e Malta, a cura di E. MAGNANO DI SAN LIO-E. PAGELLO, Palermo 2004,
pp. 31-33; P. MILITELLO, Sicilia Moderna, in Difese da difendere, cit., pp. 33-35.
233
Ai margini vengono ricordati pochi percorsi. Nel 1105, Achi donava all’abate Ambrogio di LipariPatti un terreno, sito nel territorio di Vizzini, i cui confini arrivavano alla viam francigenam viam Fabariam
(WHITE, Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, cit., p. 389 sg., n. 6; ARLOTTA, Vie francigene, cit.,
pp. 859-861). Sulla viabilità della Sicilia interna non è ancora possibile avere dati certi se non per gli
ultimi due secoli. Per una bibliografia v. G. CARDAMONE, Contributo agli studi sulla viabilità siciliana:
saggio di bibliografia, in Città nuove di Sicilia. XV-XIX secolo, a cura di M. GIUFFRÈ, Palermo 1979, pp.
197-211. Inoltre si vedano i recenti: C. TRASSELLI, Les routes siciliennes du Moyen Age au XIX siécle, in
«Revue Historique», 509 (gennaio-marzo 1974), pp. 27-44; A. GIUFFRIDA, Itinerari di viaggi e trasporti,
in Storia della Sicilia, III, Napoli 1980, pp. 469-485; H. BRESC, Un monde mediterranéen. Économie et
société en Sicile 1300-1450, I, Roma 1986, pp. 355-364; G. TESORIERE, Viabilità antica in Sicilia dalla
colonizzazione greca all’Unificazione, Palermo 1994; L. ARCIFA, Viabilità e politica stradale in Sicilia
(sec. XI-XIII), in Federico e la Sicilia. Dalla terra alla Corona, a cura di C. A. DI STEFANO-A. CADEI,
Palermo 1995, pp. 27-33.
234
Alcune indicazioni ci possono venire dal sistema delle fiere siciliane. Infatti, nel periodo medievale,
in molte città si svolgevano fiere che attiravano commercianti e compratori anche da luoghi lontani. In
merito si veda A. CUCUZZA, Il circuito fieristico nella Sicilia Borbonica e lo sviluppo della viabilità siciliana,
in Sicilia millenaria dalla microstoria alla dimensione mediterranea, Atti del III convegno, a cura di
FILIPPO IMBESI, Messina-Rometta 9-11 novembre 2019, «Archivio Nisseno», 23 (2019), supplemento 1,
pp. 105-149.
235
ARDIZZONE, I diplomi esistenti nella biblioteca ai benedettini, cit., pp. 128-129 (doc. 230) e p. 243
(doc. 516).
236
A. LONGO, Cenni storici su Misterbianco nel III centenario della sua rinascita, 1669-1969, Catania
1968, p. 63.
237
G. P. VERRBRUGGHE, Itinera romana. Beiträge zur Straßengeschichte des Römischen Reiches, band
2, Sicilia, Berna 1976, p. 86; G. SALMERI, Sicilia Romana. Storia e storiografia, Catania 1992, pp. 9-28; G.
UGGERI, Le strade Romane, in «Nuove Effemeridi», 35 (1996), pp. 35-39.
238
Nel diploma attinente alla donazione della chiesa della Santa Croce del casale di Baccarato, fatta da
Ruggero di Tirone nel 1172, si precisa, nel riportare il confine, che da una parte era rappresentato dalla
strada qua itur a Baccarato ad Calatagironem e dall’altra dalla viam pubblicani qua itur a Sancta Cruce
ad Placiam (WHITE, Il monachesimo latino cit., pp. 423-424). Inoltre v. A. CUCUZZA, Tracce Palermitane
e messinesi nella cultura del calatino, in Ricerche storiche ed archeologiche nel Val Demone, Atti del II
convegno, Barcellona Pozzo di Gotto 1-2 aprile 2017, a cura di L. C ATALIOTO -F. IMBESI-L. SANTAGATI, in
«Archivio nisseno», 20 (2017), supplemento, p. 102n.
239
V. VON FALKENHAUSEN, Nuovi contributi documentari sul monastero greco di S. Maria di Gala, in
231
232
335
ANTONIO CUCUZZA
proprio all’altezza della contrada Gabella, ed inoltre è stato ipotizzato un secondo asse
viario che, passando per Spogliamassaro-Spinasanta-Raso-Sferro arrivava a Paternò240.
Lungo questa via si trovavano l’insediamento della Gabella e la chiesa di Raso.
Un’altra strada, partendo da Lentini241, attraverso la Piana di Catania arrivava a
Palagonia da dove, superata l’osteria di Gutterra (già esistente nel XVI secolo)242 ed il
bivio con la via Minei243, proseguiva verso Piazza e, dopo aver oltrepassato - nella piana
del Margherito - la via che provenendo da Catania arrivava a Caltagirone, sfiorando il
feudo di Caropepe, raggiungeva Aidone244. La strada, documentata nei primi anni del
‘300245, passava nelle vicinanze di Serra de Nigro, nei dintorni di Charropipi246, dopo
aver transitato la contrada Calvino247.
Ai margini meridionali del bacino del Margi si snodava la trazzera Mineo-Palagonia,
passante per Catalfaro, poggio Culla e S. Giovanni, che fu percorsa dal Fazello e che è
presente nella carta dello Schmettau248. Il feudo di Camopietro, ad ovest, era toccato
dalla strada di li lumbardi, che metteva in collegamento l’area di Aidone con Mineo249.
Per l’area di Grammichele sono state ipotizzate alcune strade antiche, come la
Terravecchia-contrada Salto, che doveva proseguire verso la piana del Margherito250, e
un’altra che conduceva alla zona della Rocchicella sotto Mineo251.
Medioevo Mezzogiorno Mediterraneo, a cura di G. ROSSETTI E G. VITOLO, I, Napoli 2000, p. 128. La strada
doveva ricalcare grossomodo l’itinerario della provinciale 31 (Mineo-Fondacazzo), la 201 (FondacazzoRocchicella), la 326 (ponte Monaci-Gabella), la 107, la 102/II e la 24 che arrivava nei pressi di Paternò.
Per i percorsi indicati anche infra v. Le strade della provincia di Catania, a cura di S. MESSINA, Catania
1999. Resta il problema dell’identificazione del ponte Collacte, segnalato in un diploma del 1392 (?) tra
i confini settentrionali del feudo Catalfaro e probabilmente da cercare lungo il fiume Margi (v. C. TAMBURINO
MERLINI, Le antiche Mene, in «Giornale di scienze lettere e arti per la Sicilia», 74, Palermo 1841, p. 277n).
240
ARCIFA, Dinamiche insediative nel territorio di Mineo, cit., pp. 299-300.
241
Per questa importante via v. A. CUCUZZA, Tra preistoria e medioevo. Prima indagine sugli insediamenti
nell’agro di Scordia, in «Agorà», 11-12 (2002-2003), p. 32. Arrivata a Palagonia, in località Crucivia
proseguiva seguendo il percorso delle attuali S.P. n. 132, 108 e 182b.
242
FAZELLO, Della storia della Sicilia cit., I, p. 187.
243
Si tratta della strada che portava a Paternò che, per attraversare la Piana, ricalcava la bretella che
mette in collegamento la SS 417 con la 192 scavalcando la 288.
244
La Catania-Camopietro è abbastanza larga tanto da consentire il passaggio di carri tirati da buoi; v.
D. VENTURA, Edilizia urbanistica ed aspetti di vita economica e sociale a Catania nel ‘400, Catania 1984,
p. 165.
245
Pergamene siciliane dell’Archivio della Corona d’Aragona, cit., pp. 167-168.
246
Il Tabulario del monastero di San Benedetto di Catania (1299-1633), a cura di M. L. GANGEMI,
Palermo 1999, doc. V. Inoltre si hanno notizie di altre strade nel territorio di Aidone, come per la via
puplica che passava per Montanee olivastri (Pergamene siciliane dell’Archivio della Corona d’Aragona,
cit., p. 141.)
247
Pergamene siciliane dell’Archivio della Corona d’Aragona, cit., p. 167.
248
F. BUSCEMI, Percorsi antichi e viaggiatori moderni attraverso gli Iblei. Note di topografia storica,
in Paesaggi Archeologici della Sicilia Sud-Orientale: Il Paesaggio di Rosolini, a cura di F. BUSCEMI E F.
TOMASELLI, Palermo 2008, pp. 12-14.
249
Sulla viabilità nel territorio di Mineo v. ARCIFA, Dinamiche insediative nel territorio di Mineo, cit.,
pp. 291-306. Molto probabilmente si tratta dell’itinerario ricalcato dalla provinciale 162, 182B e 182A
sino al bivio sulla SS 288.
250
Il tracciato potrebbe essere quello delle provinciali 131 e 111.
251
Sulla viabilità, sia primaria che secondaria, della zona v. G. BUSCEMI FELICI, Per una carta della vi-
336
INSEDIAMENTI UMANI, VIABILITÀ E AMBIENTE NELLA PIANA DI CATANIA DURANTE IL MEDIOEVO
La grande incertezza e le guerre intestine che si succedettero per quasi tutto il XIV
secolo fecero scomparire molti casali sparsi, lasciando nel territorio i centri abitati più
grossi di Mineo, Caltagirone e Aidone e quelli più piccoli di Alchila, Militello e
Palagonia252.
Ma le campagne non restarono totalmente disabitate; infatti alcuni scrittori di inizio
cinquecento descrivevano che nella piana, tra il Gornalunga e Margi, erano presenti
osterie253 e punti di ristoro per quanti si trovavano in viaggio e avevano la necessità di
pernottare e anche luoghi fortificati come quello della Gabella254, chiese255, monasteri e
romitori256.
Un elenco dei piccoli nuclei abitati ci viene dai documenti attestanti le spese sostenute
dall’università di Caltagirone per la ricostruzione post terremoto 1693 e in cui sono
attestati caseggiati nelle contrade Mandrerosse, S. Nicola, Bernardello, Bernardo,
Polmone, Lembiso, Gabella, Turcisi, Sciara, per un totale di circa 2.000 abitanti257.
La nascita di nuovi centri abitati - da Mirabella a San Michele di Ganzaria, da Ramacca
a Raddusa - attirarono gli abitanti di questi piccoli nuclei e molte aree dopo restano
disabitate.
Da questo quadro si distacca l’area del feudo di Camopietro che evidenzia una
presenza diffusa di casali e fattorie e che in pieno ‘800, con l’aggregazione della
popolazione, portò alla nascita di alcune borgate costituenti, dopo l’autonomia, il comune
di Castel di Iudica258.
abilità nel territorio di Terravecchia di Grammichele: percorsi di età greca e trazzere “regie”, in
«Daidalos», 3 (2001), pp. 37-55.
252
Palagonia fu oggetto di ripopolamento nella metà del XV secolo. Infatti, durante la lotta che vide il
suo barone – Riccardo di Passaneto – schierato contro re Martino il giovane, fu distrutta la torre, ed il
villaggio dovette subire notevoli danni; v. L. GERNUARDI, Sui demani comunali di Palagonia, introduzione
e note di A. Cucuzza, Caltagirone 1997, p. 42n e tav. VII ; inoltre v. A. CUCUZZA, Tracce palermitane e i
messinesi nella cultura del Calatino, in Ricerche storiche ed archeologiche nel Val Demone, II convegno,
a cura di LUCIANO C ATALIOTO -FILIPPO IMBESI-LUIGI SANTAGATI, introduzione di H ENRI B RESC, in «Archivio
Nisseno», 20, gennaio-luglio 2017, supplemento, pp. 108-110.
253
Si tratta delle osterie della Gabella, delle Canne e di Gutterra, v. FAZELLO, Della storia della Sicilia
deche due, I, cit., pp. 186-187.
254
La Gabella era sede, come già accennato, di un’osteria, di una chiesa e di una torre difensiva. Per la
chiesa v. S. PARADISO, Parrocchia San Giuseppe Mazzarrone. Abhinc centum annos. Un secolo di fede,
storia e tradizione, Ragusa 2009, pp. 41-80.
255
Spesso si tratta di strutture prive di datazione, come quelle di S. Gaetano confessore nel feudo di
Serravalle (G. INZERILLO, Ricerche storiche su Mineo, tesi di laurea, Magistero, Università di Catania, aa.
1979-80, pp. 82-86), S. Elia nel feudo dei Monaci nel territorio di Mineo (INZERILLO, Ricerche storiche,
cit., pp. 82-86), S. Giacomo o Conadomini nella contrada Gabella (A. RAGONA, Caltagirone lineamenti di
storia e di arte, Caltagirone 1965, p. 56) e quella anonima a Perriere Sottano nel territorio di Ramacca
(CUCUZZA, Hic sunt leones, cit., pp. 105, 111).
256
Intorno al primo quarto del XVI secolo venne fondato da Filippo Dulcetto l’eremo di Scarpello, e
successivamente quelli di Monte Judica (1570 ca), di Monte Turcisi nel 1655 circa (C UCUZZA, Vicende
storiche intorno al Paradiso, cit., pp. 115-131), di Rossomanno e di altri ancora. Sull’argomento v. V. LO
PICCOLO, Eremi ed eremiti di Sicilia, Palermo-San Paolo 1995.
257
V. Terremotus. Voci ed echi del terremoto del 1693 nel calatino, in «Bollettino della Società Calatina
di Storia Patria e Cultura», I (1992), pp. 160-161.
258
CUCUZZA, Vicende storiche intorno al Paradiso, cit. pp. 276.
337
338
LA CASAZZA DI NICOSIA
GIOVANNI D’URSO*
Le Casazze erano sacre rappresentazioni composte da vari quadri figurati e recitati,
che mettevano in scena le vicende inerenti la Passione di Gesù, in alcune realtà locali
estese anche al Vecchio Testamento, configurando così l’insieme della Storia della
Salvezza; esse si svolgevano, in modo dinamico ed itinerante, distribuite all’interno dei
centri abitati, che così diventavano scenario teatrale: si utilizzavano palchi collocati
nelle piazze o scalinate o sagrati, dove si recitavano i quadri sacri previsti, mentre nella
via principale si svolgeva di solito la via dolorosa che si concludeva con la crocifissione
presso un calvario monumentale edificato per l’occasione.
Per avere notizie delle Casazze in Sicilia dobbiamo risalire al 1591 quando a Palermo
si ha memoria di un rito celebrato dalla Reale Confraternita della Madonna de la Soledad;
da allora un po’ in tutta l’isola si assistette al suo diffondersi e sempre con molti
partecipanti “… sino a milleduecento nella Casazza di Nicosia.”
Grazie al diario di un cronista palermitano dell’11 aprile 1591, siamo informati che
in tale giorno a Palermo si teneva “… la bellissima processione della Casazza della
nazione genovese, dove rappresentavano tutta la passione di N.S.G.C., portati li misteri
da figlioletti vestiti in forma di angioli, quali andavano nel mezzo di altri figliuoli della
medesima foggia, vestiti molto sforgiati, con torce accese nelle mani. Cosa bella da
aversi e di grandissima spesa1.”
Abbiamo ancora un breve accenno alla Casazza di Palermo nel 1611 (la sera del
Venerdì Santo vide la partecipazione anche del viceré duca d’Ossuna), nel 1726 (citata
dal Mongitore) e nel 1733 (però sospesa a causa delle ingenti spese).
A Catania ne troviamo riferimento nel sinodo del 1668 che riteneva opportuno spostare
dal Giovedì Santo al Venerdì Santo la Casazza, visto che il contenuto della processione
attinente al funerale di Cristo, era in contraddizione con lo svolgimento cronologico
della liturgia.
Nel resto dell’isola il Pitrè segnala tra le edizioni più famose le Casazze di Carini del
1722, quelle di Partinico (1787) e di Erice (dove si ricordano le edizioni del 1742, del
1749 e del 1753); nel 1851 straordinaria fu quella di Castelbuono (la si ricorda perché
venne riprodotta anche l’arca di Noè), ma altrettanto interessante fu quella di Enna
(allora Castrogiovanni) del 1849, la mezza Casazza di Mussomeli e quella di Ficarazzi
del 1876, l’ultima di Salemi del 1846 e l’altra di Caltanissetta del 18572.
* Storico di Nicosia, membro della Società Sicilia.
1
Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, vol. 1, p.127.
2
PITRÈ G., Spettacoli e feste ..., pp. 104-123.
339
GIOVANNI D’URSO
A Isnello la Casazza si svolgeva invece con scadenza quinquennale; la prima edizione
si era svolta nel 1627 con 16 scene, ed era stata curata della confraternita della Madonna
nella Presentazione al Tempio appartenente all’Ordine dei Disciplinanti; altre edizioni
seguirono nei secoli seguenti3 e l’ultima risale al 1950 allorché vennero rappresentati
31 quadri4, allestiti in gran parte su carri trainati, e recitati da più di 600 persone, i cui
costumi venivano affittati a Palermo nei vari teatri. Le ultime scene (dalla 28 alla 31)
erano composte di sole statue, in quanto si riteneva per tradizione che nessuno era degno
di inscenare questi momenti della vita di Gesù.
La Casazza di Collesano si caratterizzava invece per la rappresentazione di una
complessa scenografia costituita da ben 33 quadri mobili, ciascuno dei quali raccontava,
attraverso figuranti in costume, un episodio della vita di Gesù Cristo.
Per l’intensa attività scenica sono note anche le Casazze di Balestrate, Ficarazzi,
Gangi e Gratteri.
Furono generalmente le Confraternite ad occuparsi della loro organizzazione anche
se, col passare degli anni, così com’era avvenuto per le rappresentazioni sacre, si perdeva
l’originario spirito religioso a favore di un’eccessiva spettacolarizzazione dell’evento.
Nei primi tempi, erano gli stessi nobili ed il clero a parteciparvi e successivamente
furono i ceti artigianali ad intervenire, delegando sempre alle Confraternite il compito
di vigilare sul mantenimento dei canoni religiosi.
Per quanto riguarda i testi recitati, la prima testimonianza documentata è quella del
benedettino Teofilo Folengo che, nel 1538, su invito dell’allora viceré di Sicilia Ferrante
I Gonzaga, compose la più antica sacra rappresentazione ricordata come l’Atto della
Pinta5, che trattava la storia della redenzione dai tempi di Adamo fino a Cristo, opera in
lingua latino-liturgica, primo esempio in Italia di rappresentazione sacramentale; tali
testi erano un adattamento (o una reminiscenza) del Riscatto di Adamo nella morte di
Gesù Cristo di Filippo Orioles. In altri luoghi invece, si utilizzavano copioni tratti
direttamente dai testi evangelici.
Ma i notevoli sforzi organizzativi e i consistenti impegni economici che le Casazze
implicavano, nonché le ricorrenti epidemie di peste (come quella di Messina del 1743),
Le altre edizioni furono: 1633 -1643 (con 20 quadri) – 1672 - 1691; nel sec. XVIII si svolse
periodicamente tranne negli ultimi venticinque anni; nel secolo XIX si ebbe nel 1805 – 1824 - 1834, e
straordinariamente negli anni 1847 - 1848 e 1849, poi nel 1869 -1875 – 1881 - 1895; e nel secolo scorso
nel 1907 – 1908 – 1914 - 1934.
4
Le scene raffiguravano: 1. Profezia di Isaia; 2. Annunciazione; 3. Visitazione; 4. Natività, con una
grotta con le ruote e il bambino era statua: 5. Adorazione dei Magi, con i cavalli dei ricchi proprietari: 6.
Fuga in Egitto; 7. Vita della Sacra Famiglia nella bottega di Nazaret. Gesù ritrovato nel tempio: 9. Il
Battesimo di Gesù, con la statua del Battista; 10. Le tentazioni di Gesù nel deserto; 11. Le nozze di Cana,
che a volte non si faceva perchè esigeva un carro troppo grande; 12. Gesù e la samaritana; 13. La risurrezione
di Lazzaro, unico miracolo rappresentato; 14. Ingresso di Gesù a Gerusalemme: 15. Ultima cena; 16. Gesù
nell’orto del Getsemani; 17. Cattura 18. Gesù dinanzi a Caifa; 19. Gesù dinanzi a Erode; 20. Gesù dinnanzi
a Pilato, con un carro con colonne e gradini; 21. Coronazione di spine; 23. Suicidio di Giuda; 24. Viaggio
al calvario, era il quadro più ampio e comprendeva le scene 25-27; 25. Discorso di Gesù alle pie donnne:
26. Gesù aiutato dal cireneo; 27. Gesù asciugato dalla Veronica; 28. statuario della Crocifissione; 29.
Gruppo statuario dell’Angelo che veglia sulla croce: 30. Urna con la statua del Cristo morto e la statua
dell’Addolorata accompagnata dalle ragazze vestite con tradizionali vesti nere.
3
340
LA CASAZZA DI NICOSIA
decretarono nei secoli successivi il tramonto di queste rappresentazioni, anche se alcune
di esse sopravvissero fino alla prima metà del XIX secolo.
La Casazza di Nicosia
La Casazza di Nicosia è considerata non solo fra le più antiche ma anche fra le più
prolifiche delle rappresentazioni messe in atto in Sicilia, sia in relazione al numero di
partecipanti che in riferimento alle scene recitate; essa, ancora rappresentata a Nicosia
con una certa regolarità fino al 1813, non solo presenta affinità con quelle della Liguria
(Genova e Savona) ma, tra quelle siciliane, ha i caratteri di completezza, partecipazione
e ricchezza di dettagli liturgici che altrove (Castelbuono, Collesano, Caltanissetta,
Palermo, Bugio, Erice, Carini, Partitico, Mussomeli, Salemi) non troviamo6, anche perché
l’organizzazione era sostenuta sia dal clero che dalla classe nobiliare locale .
Motivo di questa originalità nicosiana, secondo l’opinione di alcuni eruditi, è la
discendenza gallo-italica (padana) di parte della popolazione nicosiana al tempo della
dominazione normanno-sveva: quindi una più fedele osservanza dei canoni
rappresentativi padani rispetto a quelli ripresi nel XVII sec. dagli altri centri isolani
sull’onda della controriforma e dei principi estetico-rappresentativi del barocco.
Non abbiamo certezze a quando risalga la prima rappresentazione della Casazza a
Nicosia, tuttavia essa era vanto della nobiltà e del popolo della Città Demaniale che,
nell’occasione, offriva il meglio di sé in termini di sfarzo, scenografie e comparse.
Già alla fine del XVIII sec., la Casazza di Nicosia attirava nella città un gran numero
di turisti provenienti da altri paesi; in quel periodo essa, chiamata anche Rappresentazione
dei due Testamenti (era infatti costituita da cinque quadri del Vecchio Testamento e
quindici del Nuovo), si teneva periodicamente ogni tre o cinque anni.
La manifestazione sacra era organizzata dai Nicoleti7 e, avendo gran successo, veniva
sempre osteggiata in ogni modo dai Mariani. Nel 1746 il parroco di S. Michele (chiesa
dipendente dalla collegiata di S. Maria) denunciò a Palermo quella rappresentazione
come una indecorosa profanazione, chiedendone la proibizione (Archivio Cattedrale
vol. I, fol. 461); ma fu nel 1783, il giorno del Venerdì Santo, che venne sfiorata una
tragedia: quel giorno si doveva svolgere la suddetta Rappresentazione dei due Testamenti,
ma il Clero di S. Maria era riuscito ad ottenerne la proibizione da parte della Consulta
Regionale; l’ordine da Palermo fu però presentato alla Corte Capitaniale di Nicosia
solo la sera del Giovedì Santo, quando tutto era pronto!
Come riportava il Libro Capitaniale, “... ne nacque grandissimo disturbo nella città,
molto più per la perdita che facea per lo meno di ducati 600 di spesa, onde si vide il
popolo costernato a segno di appigliarsi a mezzi violenti contro gli Ecclesiastici cagione
di tanto male, del che ne fanno testimonianza i ricorsi della Corte Capitaniale,
Magistrato, Nobili, Professori, Consoli, e più di 300 Borgesi e Artisti umiliati al Sovrano.”
Dal nome del tempio da lui gestito, ossia la primitiva chiesa di S. Maria dell’Itria detta La Pinta.
G. P ITRÈ: Spettacoli e feste popolari siciliane, in Biblioteca delle tradizioni Popolari Siciliane. Ediz.
Il Vespro. Palermo, 1978. Introduz. A.Falassi. pagg.99-123.
7
Abitanti del quartiere di S. Nicolò, storicamente ostile all’altra fazione nicosiana del quartiere di S.
Maria Maggiore, i cosiddetti Mariani.
5
6
341
GIOVANNI D’URSO
Nell’istanza del barone Aceto (nicoleto) si leggeva: “... se la Divina Provvidenza
non avesse mandato dirottissima pioggia [...] faceva temere una funesta tragedia, che
avrebbe portato la città tutta in desolazione; e il notaro Gugliotta scriveva: ... senza
meno colla morte di taluni Collegiali seguir dovea quella di non pochi cittadini e la
rovina del rimanente di quella popolazione.”
Nel XIX secolo di grande risonanza furono le due ultime edizioni di Nicosia, quella
del 1810 e l’altra del 1851, alle quali parteciparono 4.200 figuranti e nelle quali vennero
rappresentati 34 quadri (9 del Vecchio e 26 del Nuovo Testamento) messi in scena durante
il Giovedì Santo.
Le rappresentazioni del Vecchio Testamento iniziavano con Adamo ed Eva in un
Paradiso Terrestre artificiale ricco di fiori, alberi e frutta, con il serpente tentatore; seguiva
Abramo, pronto a sacrificare l’unico suo figlio Isacco; a questo i Dodici Esploratori
della terra promessa col pesante grappolo d’uva; indi re Davide che, con i grandi del
popolo, accompagnava l’Arca della Sacra Alleanza; seguiva re Salomone che, all’interno
di una splendente corte, dava il famoso giudizio sul fanciullo preteso dalle due madri.
Nelle rappresentazioni del Nuovo Testamento si iniziava con l’Annunciazione a Maria
Vergine, cui seguivano la Nascita di Gesù, la Venuta dei Magi, la Fuga in l’Egitto, la
Strage degli innocenti, la Disputa dei dottori con Gesù adolescente, Satana che tenta
Gesù nel deserto, l’Osanna entrata delle Palme, La Sacra Cena, il Sinedrio di Caifasso
col tradimento di Giuda, Gesù arrestato nell’Orto, il giudizio di Erode, La negazione di
Pietro, Gesù alla Colonna flagellato e coronato di spine, le condanna e la Sua Crocifissione
in mezzo ai due ladroni.
La più solenne rappresentazione fu quella del Marzo 1810 che ebbe come “regista”
il Protonotaro Apostolico don Santo De Luca, canonico curato della Chiesa Madre di
San Nicolò e membro della locale Accademia Simetina; nei suoi voluminosi manoscritti
egli ne riporta per intero le scene, i costumi e i dialoghi. Questo è quanto scrive nella
introduzione: “La mira dunque di questa mia, qualunque siasi, breve relazione ad altro
non si ravvolge, che non solo di fedelmente descrivere, che facero in ogni
rappresentanza, come anche di lasciare a’ Posteri un modello, secondo il quale regolar
si potranno per esattamente eseguire in qualche modo per l’avvenire una si’ nobile
funzione. E siccome io dissi di sopra, che delle rappresentanze altre furono mute ed
altre recitative, prendendone le parti o dalla Tragedia di Orioles, o dallo stesso Evangelo
in Latino, o da qualche altro libro, secondo il piacere di colui, che i Personaggi a
vestire addottossi; così per maggiormente facilitare l’impresa a coloro, che in appresso
vestiranno, e per intendere con chiarezza i Concittadini, non men che gli Stranieri,
quelle funzioni che si rappresentano, e per torre anche di mezzo questa diversità di
stile, mi ho preso la pena di comporre le parti di ognuna a mente della sopra Scrittura,
del Vangelo, e degli Istorici Ecclesiastici e profani Scrittori, dando la piena libertà a
chiunque dilettante, che veste, o di accrescere il numero della sua funzione, o di sminuirla
tanto dell’uno, quanto dell’altro Testamento, ed ancora di farle rappresentare, o come
qui sotto si trascrivono, o di potere accorciare le Parti, se mai per l’angustia del tempo
o per lo poco numero de’ Recitanti non si potessero tutte eseguire. Ma per non essere
più di tedio a’ Lettori, rivolgo il pensiero al mio prefisso stabilimento, ed incomincio a
342
LA CASAZZA DI NICOSIA
poco a poco colla maniera più chiara, ed intellegibile che posso, a disporre la mia già
intrapresa Relazione.”
In sintesi, per finire, ecco come la rappresentazione venne descritta da due cronista
locali del 18518: “La Casazza di Nicosia era una rappresentazione sacra itinerante del
Vecchio e del Nuovo Testamento eseguita durante la Settimana Santa: la processione,
che iniziava alle ore 12 del mattino e terminava alle ore 24, partiva dalla chiesa di San
Calogero e si dirigeva, attraverso le vie del paese, verso quella di San Francesco di
Paola, sostando in piazzette che consentivano di recitare le parti finché, sul tardi
pomeriggio, giungeva nell’attuale Piazza Garibaldi dove si rappresentava la
crocifissione, morte e sepoltura del Redentore. Le scenografie erano oltremodo curate
ed i costumi erano così sfarzosi che per affrontare le spese, ammontanti ad oltre seimila
ducati, venivano coinvolte le principali famiglie nobili (e quindi benestanti) della città
dei 24 baroni, che curavano le scene spesso entrando in concorrenza fra di loro per
realizzarle al meglio; pare, inoltre, che sui 180 palchi a tre ordini, che si allestivano in
Piazza San Nicolò del Plano, affluissero circa 15000 spettatori, anche forestieri, che …
attoniti dall’abbagliante ricchezza, e … istupiditi dalla sublimità, non mancavano di …
versare calde lacrime e mandare pietosi singulti. Era sicuramente una sacra
rappresentazione che al colore, all’ammirazione e alla sorpresa, nel contempo disponeva
l’animo … alla tenerezza, al conpungimento, alle lacrime e al dolore: un’atmosfera
insomma di intensa e commossa spiritualità d’altri tempi e d’altri luoghi”.
Sulla base dei citati manoscritti di don Santo De Luca, regista della rappresentazione
del 1810, da quattro anni, a Nicosia, si è riproposta la Casazza di quell’anno (1810) con
le stesse scene, gli stessi costumi e gli stessi dialoghi, con un successo di pubblico e di
critica che è andato al di là di ogni più rosea aspettativa, sancito dall’inserimento
dell’evento nel REIS9 della Regione Sicilia
Si tratta di due distinte relazioni sulla Casazza di Nicosia, a firma dei nicosiani Nicolò Provenzale e
Giuseppe Mazzullo, inserite nel Giornale dell’Armonia n° 32 e 33 (Palermo 24 e 27 Aprile 1851).
9
Registro delle Eredità Immateriali della Sicilia.
8
343
344
IL
GRAN CONTE RUGGERO D’ALTAVILLA DA ROMETTA A MANIACE
ATTRAVERSO IL CROCEVIA DI CONTRADA SAN FILIPPO NELLE TERRE DI FURNARI
TRAGITTO DEL
SANTINO RECUPERO*
Michele Amari, attenendosi alle notizie riferite dal Malaterra, scrisse che nel maggio
del 1061 il Conte Ruggero, conquistata Rometta, aveva proseguito “per la costa dei
monti che corrono lungo il Tirreno” e che “posò la prima giornata a Tripi, la seconda
a Frazzanò dal quale comune muove un sentiero che conduce a Maniace”1. Filoteo
degli Omodei, nella Descrizione della Sicilia, soffermandosi sul territorio di Furnari lo
definì “un luogo, detto Forno, dove per la prima volta passò il conte Ruggieri”2. Sebbene
l’affermazione di Filoteo non trovi riscontri tali da poter confermare con certezza
l’attendibilità di questa ipotesi, diversi indizi ci inducono a ritenere che i fratelli
d’Altavilla, per raggiungere Maniace, abbiano percorso la via Valeria superando i Nebrodi
attraverso un valico che collegava il versante tirrenico con la cittadina di Randazzo.
Oggi, dalle indicazioni stradali dell’epoca riportate nella Carte comparée de la Sicile
du XII siècle, redatta nel 1859 da A. H. Dufour e M. Amari sulla base de il libro di
Ruggero di Idrisi3, e dalle diverse ricognizioni effettuate sui luoghi, è possibile risalire
a questo percorso. L’ipotesi più plausibile è quella che il Gran Conte Ruggero, lasciata
Rometta, abbia seguito il tragitto che nel 1282, come vedremo più avanti, Pietro
d’Aragona percorse a ritroso, quando da Randazzo si diresse verso Messina (Figura 1).
Per meglio individuare questo tragitto è opportuno soffermarsi sulla viabilità
dell’epoca tenendo presente, come sottolinea Shara Pirrotti, che questa nel tempo è
stata “continuamente modificata per l’avvicendamento di dominazioni diverse per
provenienza e logiche di governo […] per cui molti percorsi primitivi furono col passare
* Ricercatore indipendente di Furnari, gruppo Ricerche nel Val Demone.
M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, Le Monnier, Firenze 1868, vol. III, parte prima, p. 71.
Scrive Malaterra: “Inde de prospero eventu cum maxima laetitia recedentes et, debilitate gentis cognita,
audaciores sub Scabatripoli hospitium sumunt. Inde in crastinum ad Fraxinos perveniunt, et a Fraxinis
ad Maniaci pratum” (G. M ALATERRA, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti
Guiscardi ducis fratris eius, ed. E. Pontieri, Bologna 1927-28, Rerum Italicarum Scriptores, V, 1, p. 33,
lib. II, c. 14).
2
G. A. FILOTEO DEGLI O MODEI, Descrizione della Sicilia, a cura di GIOACCHINO D I M ARZO, in Biblioteca
storica e letteraria di Sicilia, XXIV-6 (1876), p. 102.
3
A. H. D UFOUR, M. AMARI, Carte comparée de la Sicile du XIIe siècle/d’après Idrisi; et d’autres
géographes arabes, de Lemercier 1859, Bibliothèque nationale de France, département Cartes et plans,
GE C-2369. Cfr. anche Carta comparata della Sicilia moderna con la Sicilia del XII secolo secondo Edrisi
ed altri geografi arabi pubblicata sotto gli auspici del Duca di Luynes da Auguste Henry Dufour geografo
e Michele Amari, Tradotta per la prima volta in italiano, integrata ed annotata da LUIGI SANTAGATI, Flaccovio
Editore, Palermo 2004.
1
345
SANTINO RECUPERO
Figura 1. Il percorso seguito da Ruggero da Rometta a Maniace.
del tempo del tutto obliterati o gradualmente disusati, mentre altri furono reimpiegati
con variazioni sostanziali”4.
Sul versante settentrionale della Sicilia, come è noto, due importanti arterie stradali
collegavano Messina con Palermo: la via Valeria, denominata via per le marine che,
procedendo lungo la costa, raggiungeva Capo Lilibeo, e la via per le montagne che
collegava Messina con Palermo. La via Valeria seguiva, in linea di massima, un tracciato
risalente ai tempi dei greci, poi ripreso e migliorato dai romani con la costruzione di
ponti che permisero il transito anche durante la stagione invernale. Era una via di una
certa importanza, se si considera che collegava centri vitali per le comunicazioni e il
commercio, come i porti di Messina, Milazzo, Tindari-Oliveri, e proseguiva per Palermo,
fino a raggiungere Capo Lilibeo5 (Figura 2). Divenuta sempre più insicura, sia per i
frequenti attacchi saraceni sia per il percorso tortuoso che in alcuni tratti non permetteva
il transito6, nell’alto Medioevo fu affiancata dalla variante per le montagne (Figura 3),
il cui tracciato seguiva, a grandi linee, quello dell’odierna SS 120: partiva da Palermo e,
S. P IRROTTI, Itinerari medievali del Valdemone, in «Mediaeval Sophia», 14 (2013), p. 301.
. Per maggiori informazioni cfr. L. SANTAGATI, Un po’ di luce sulla via Valeria romana, in Ricerche
storiche e archeologiche nel Val Demone, II Edizione (Barcellona Pozzo di Gotto, 1 e 2 aprile 2017), a
cura di L. CATALIOTO , F. IMBESI, L. SANTAGATI, «Archivio Nisseno» 20 (Supplemento), pp. 381-403.
6
Nei tratti Tindari Patti e Capo d’Orlando la deviazione verso l’interno era quasi obbligatoria poiché
il tragitto, in particolare nella stagione invernale, era praticamente impercorribile, come risulta da un
documento dell’uno ottobre 1571 in cui il mastro notaro Francesco de Aurelio comunicava che lungo la
strada “ci sono molti mali passi rovinati e guasti dalle acque […] dal Capo di Milazzo, per sino a Patti e
da Patti fino a Capo d’Orlando, e per questo respecto li correri non possono far diligenza” (G. ARLOTTA,
Vie francigene, hospitalia e toponimi carolingi nella Sicilia medievale. Atti del Convegno internazionale
di Studi. Salerno 26 ottobre 2000, a cura di MASSIMO O LDONI, La Veglia editore, Salerno 2005, p. 826, nota
19).
4
5
346
IL TRAGITTO DEL GRAN CONTE RUGGERO D’ALTAVILLA DA ROMETTA A MANIACE
Figura 2. La via Valeria. (Sicilia antiqua cum antiquis itineribus, Sanson Nicolas, ed. L’Huiller,
Bibliothèque Nationale Paris).
attraversate le località di Caltavuturo, Polizzi , Nicosia, Cerami, Troina, Cesarò e Maniace,
giungeva nella cittadina di Randazzo, un punto di snodo di consistenti traffici commerciali
grazie alla sua posizione strategica che le consentiva di mettersi in comunicazione col
versante ionico e con quello tirrenico7. Da Randazzo, un tratto di strada proseguiva
verso Est e, dopo aver attraversato Moio, Castiglione, Mascali e Taormina, giungeva a
Messina8. Un altro tratto da Randazzo deviava verso nord e, oltrepassata la località
Argimusco nel territorio di Montalbano Elicona, attraversava Novara di Sicilia, Santa
Figura 3. Una variante della via da Palermo a Messina per le montagne.
Cfr. S. PIRROTTI, cit., pp. 310-311.
Uno dei personaggi famosi che ha percorso questa strada fu l’imperatore Carlo V quando, nell’estate
del 1535, da Palermo si diresse verso Messina seguendo la strada delle montagne. Durante il viaggio
sostò a Sant’Alessio nel castello del duca di Furnari (Cfr. S. RECUPERO, Furnari storia di una comunità,
Giambra editori, Terme Vigliatore 2020, p. 47).
7
8
347
SANTINO RECUPERO
Lucia del Mela, Monforte San Giorgio,
Rometta e, superati i colli San Rizzo,
giungeva a Messina. Dal crocevia
dell’Argimusco una
diramazione
proseguiva verso la costa tirrenica,
attraversava i centri di Tripi e Furnari e si
collegava con il δρόμος (la via Consolare
Valeria) nel territorio furnarese (Figura 4).
Idrisi9 riferisce che la distanza fra
Monforte e Tripi è di venti miglia 10
utilizzando per il calcolo, come afferma
Lugi Santagati, «perlopiù il miglio
siciliano, di stretta derivazione da quello
romano, pari a m 1478,50. A volte usa
invece il miglio arabo più lungo di un terzo
rispetto a quello siciliano e pari quindi a
m1.966,405. Più raro l’uso del miglio
franco lungo quanto 4 miglia siciliane e tre Figura 4. Diramazione Argimusco- (via
miglia arabe e pari quindi a m 5.914,00. Valeria). Particolare della Carte Comparée di
Purtroppo spesso non chiarisce la misura Dufour-Amari.
usata e questo genera confusione»11. Oggi la distanza fra Monforte e Tripi, transitando
sulla SS113 è di circa 62 chilometri che corrispondono a circa 42 miglia siciliane, 31,5
arabe e a 10 miglia francesi, distanze che differiscono dai venti miglia riportati da Idrisi.
D’altra parte non si può ipotizzare un tragitto alternativo considerato che, come fa notare
anche Luigi Santagati, «non esiste un itinerario diretto tra Tripi e Monforte; la strada
scende da Monforte per San Pier Niceto, tocca Condrò, San Filippo del Mela, costeggia
il mare sino a Furnari per poi andare a Sud verso Tripi»12. Oggi vari indizi e un’attenta
esplorazione dei luoghi, suffragati anche dalla carta della Sicilia arabo-Normanna a
cura di Luigi Santagati redatta sulle indicazioni di Idrisi (figure 5 e 6) ci permettono di
individuare in modo quasi dettagliato il percorso seguito da Ruggero che, pur risultando
leggermente diverso dalle indicazioni stradali riportate dalla carta di Amari-Doufur, ne
rispecchia sostanzialmente i contenuti.
Lasciata Rometta Ruggero con il suo seguito si diresse verso Monforte San Giorgio;
attraversati i centri di San Pier Niceto, Condrò e San Filippo del Mela, si immise sulla
Idrisi (Abû ‘Abd Allâh Muhammad ibn Muhammad ibn ‘Abd Allah ibn Idrîs al-Sabti) fu un geografo
arabo nato in Marocco (secondo alcuni in Sicilia), e stabilitosi a Palermo alla corte di Ruggero II attorno
all’anno 1145. Rimane famoso, tra l’altro, per la realizzazione di un planisfero (Il libro di Ruggero)
contenente informazioni geografiche e notizie di tutto il mondo medievale i cui contenuti sono stati un
punto di riferimento per diversi storici.
10
Biblioteca Araba-Sicula, a cura di M. AMARI, E. Loescher, Torino-Roma 1880, vol. I, cap. VII Idrisi
p.119.
11
Cfr. L. SANTAGATI, La Sicilia di al-Idrisi nel Libro di Ruggero. Salvatore Sciascia editore,
Caltanissetta-Roma 2010, p.12.
12
Ivi, p. 169, in nota n. 366.
9
348
IL TRAGITTO DEL GRAN CONTE RUGGERO D’ALTAVILLA DA ROMETTA A MANIACE
Figura 5. La Sicilia arabo-normanna secondo al-Idrisi seguendo la traduzione di Michele Amari
(pianta architetto Luigi Santagati).
via Valeria13 e, proseguendo verso ovest, superata la contrada Dromo nel territorio
furnarese, deviò verso l’interno.
Sulla carta comparée di Amari-Doufur sul territorio furnarese sono segnate due
importanti strade che dalla via Valeria raggiungevano Furnari: la via Marulli-Furnari e
la San Filippo Furnari (Figura 7). La prima partiva dalla contrada Marulli, seguiva
l’attuale via Risorgimento e, attraversato il piccolo nucleo abitato di Furnari, proseguiva
per Novara di Sicilia. La seconda, partendo dalla via Valeria nella contrada San Filippo,
proseguiva sul percorso dell’attuale via Vecchia Russo e raggiungeva Furnari (Figura
8).
Ruggero, lasciata la via Valeria non proseguì lungo i due percorsi che attraversavano
il piccolo centro abitato di Furnari, bensì si immise su uno dei due tracciati che dalla via
Valeria si congiungevano con la Ciurani-Marraffino, la trazzera principale che collegava
Furnari con Tripi. Il primo di questi tracciati partiva dalla contrada Firriato, si
congiungeva con la Ciurami-Marraffino, attraversava le contrade Cutrignolo, Marraffino
e Frassini e sopraggiungeva a Tripi. Da qui Ruggero, dopo la sosta, riprendeva la marcia
verso il crocevia dell’Argimusco e, seguendo il tragitto che oggi corrisponderebbe a
Alcuni autori asseriscono che la via Valeria tra Tindari e i Peloritani procedeva su un tracciato
situato a monte dell’attuale Statale 113. In particolare Vincenzo Casagrandi sostiene che la via principale
che collegava Palermo con Messina tra Tindari e i Peloritani non era quella marittima ma “si tenea più a
monte: dai resti apparisce che valicava la gola del Tindaro […] a Sud dalle falde del Pizzo di Lando, e
per Santa Lucia, Monforte, Rometta, e si dirigeva a Messina” (V. CASAGRANDI, Le campagne di Gerone II
contro i Mamertini durante lo strategato, Palermo-Torino 1894, p. 148). (Leggiamo che Filippo Rossitto
13
349
SANTINO RECUPERO
Figura 6. Il tragitto percorso da Ruggero da Rometta a Maniace (particolare della figura 5).
grandi linee all’odierna SP115, valicati i Nebrodi, perveniva a Randazzo da dove
proseguiva per Maniace14. In alternativa a questo percorso, nel territorio furnarese, ne
esisteva un secondo che, partendo ugualmente dalla via Valeria, ma in contrada S. Filippo,
si collegava con la Ciurani-Marraffino nella contrada Cutrignolo: un tracciato parallelo
al precedente, oggi corrispondente alla SS 111. (Figura 9) Ambedue i percorsi
attraversavano la contrada San Filippo, una località di antiche memorie storiche. Questa
nel passato era un importante sito abitato, qui si incrociavano le strade che dalla via
Valeria collegavano il versante tirrenico con l’interno della Sicilia; tutta la zona era
popolata e dotata di infrastrutture per l’accoglienza dei viaggiatori. Per le sue peculiarità,
infatti, ben si adattava agli insediamenti umani: era, e lo è ancora oggi, attraversata da
un ruscello su cui, a differenza degli altri corsi d’acqua della zona (il Caliciotto e l’Helicon
di Olivieri), sia d’inverno che d’estate, defluiscono le acque provenienti dalle sorgive
della contrada Frassini e soprattutto dagli spandenti della Fontanavecchia15. (Figura
(La citta di Barcellona Pozzo di Gotto) scrisse che le antiche strade Consolari passavano per Gala e
Castroreale. Giuseppe Arlotta riferisce del passaggio di questa strada nel territorio dell’attuale comune di
Furnari, dove tuttora esiste la contrada Dromo, e menziona autori e documenti che segnalano il passaggio
di questa via, o di un’altra alternativa, a Pace del Mela, nella contrada San Biagio di Monteforte (oggi
comune di San Pier Niceto), a Santa Lucia e a Rometta dove nel 1168 avvenne una sommossa popolare
che causò il blocco delle strade che conducevano a Messina. (Cfr. ARLOTTA, cit., pp. 839-841, nota 40).
14
Amari, dopo aver identificato Scabatripoli con Tripi, identificò Fraxinos con Frazzanò (M. AMARI,
cit., vol. III, parte prima, nota p. 71), un centro del messinese che, oltre a non trovarsi sul tragitto che porta
a Maniace, dista da Tripi più di 80 Km e 90 Km da Maniace. Secondo Giuseppe Arlotta Ruggero, lasciato
Tripi, pervenne a Randazzo e da qui, per raggiungere Maniace, proseguì la sua marcia sulla pianura
attraversata dal torrente Flascio-Fraxinos (Cfr. ARLOTTA, cit., p. 864, nota n. 112).
15
Fontanavecchia è una antica fonte le cui acque provengono dalle sorgive ubicate sotto la rupe della
350
IL TRAGITTO DEL GRAN CONTE RUGGERO D’ALTAVILLA DA ROMETTA A MANIACE
Figura 7. I due percorsi
che collegavano la via
Valeria con l’abitato di
Furnari secondo la
Carte comparée di
Dufour-Amari.
Figura 8. I due tragitti
che dalla via Valeria si
congiungevano con la
Ciurani-Marraffino.
Figura 9. Tragitto seguito da Ruggero nelle
terre di Furnari dalla
via Valeria a Tripi.
351
SANTINO RECUPERO
Figura 10. Contrada San Filippo oggi.
10) Adiacente a questo torrente sorge un piccolo poggio roccioso, un sito ideale per le
costruzioni dei primi alloggi degli originari abitanti del luogo (Figura 11). La presenza
umana in questo sito è avvalorata anche dalla scoperta di reperti rinvenuti negli anni ’80
del secolo scorso. Anziani raccontano che, durante alcuni lavori di sbancamento del
terreno per la realizzazione di un’abitazione civile, è venuta alla luce una tomba
contenente arredi funerari di antica fattura. Non è improbabile che altre tombe siano
state rinvenute e occultate, e che altre ancora giacciano nelle viscere della terra.
Questo luogo ha attirato anche l’attenzione dei monaci bizantini (basiliani) che hanno
edificato sul poggio una chiesa dedicata a San Filippo d’Agira. La presenza di questo
edifico sacro, oltre che dalla toponomastica locale, è documentata nel privilegio di
rifondazione del monastero di Santa Maria di Gala, concesso da Adelasia nell’anno
bizantino 6613 (1 settembre 1104/31 agosto 1105). L’architetto Filippo Imbesi riferisce
di questa concessione che fu conosciuta, grazie a una traduzione latina dal documento
originale greco effettuata dall’abate Filippo Ruffo, nel 1439. Dalle ricerche storiche di
Filippo Imbesi si ricava un quadro completo dello stato patrimoniale del monastero di
Gala compresi i privilegi e i possedimenti concessi o riconfermati al momento della sua
rifondazione16. Tra i possedimenti riconfermati ai monaci di Gala da Adelasia figura
anche, nel territorio di Furnari, una chiesa dedicata a San Filippo. Nella tradizione questo
luogo era indicato anche come Rocca di San Filippo: la gente immaginava che si riferisse
a un gruppo di rocce di cui ancora oggi è presente qualche frammento; in effetti la
denominazione rocca si riferiva all’edificio sacro dedicato al Santo d’Agira17. Il sito era
chiesa madre e da quelle del rione oggi denominato Santa Caterina. Prima dell’insediamento umano,
queste acque si riversavano nel ruscello che oggi attraversa la contrada San Filippo e nel vallone (una
vallata scavata dalle acque nel tufo). I primi abitanti di Furnari si insediarono sull’adiacente piccolo
promontorio oggi denominato San Nicolò e sfruttarono queste acque per il fabbisogno personale e per
l’irrigazione dei fertili terreni del vallone e della contrada San Filippo.
16
Cfr. F. IMBESI, Il privilegio di rifondazione del monastero di S. Maria di Gala (1104-1105), in
«Mediterranea Ricerche storiche», 17 (2009), pp. 603-604.
17
La prova dell’esistenza di questo edificio sacro e di altre terre appartenenti al monastero di Gala è
352
IL TRAGITTO DEL GRAN CONTE RUGGERO D’ALTAVILLA DA ROMETTA A MANIACE
Figura 11. Contrada San Filippo: il poggio dove era ubicata la chiesa di San Filippo.
un punto strategico sia per la presenza di importanti collegamenti stradali, sia per i
confort di cui il luogo disponeva. Fino al secolo scorso in questa contrada, prima di
essere invasa dalle nuove abitazioni, esisteva una sorgiva di acqua sulfurea, menzionata
anche dal Contartese e dal Filiti18, attorno alla quale si potevano notare dei resti murari
che presupponevano la presenza di antichi fabbricati. Doveva essere presente anche
un’importante struttura recettiva (resti di mansiones o mutationes romane?) in grado di
ospitare non solo viaggiatori di passaggio ma anche carovane e gruppi di civili e militari
con i relativi equipaggiamenti. Non è da escludere, pertanto, che questo luogo sia stato
uno dei primi siti abitati del territorio furnarese19.
Questa arteria stradale percorsa da Ruggero era anche un’importante via di
penetrazione francigena che collegava l’interno dell’Isola col versante tirrenico.
Provenendo dal centro dell’Isola, i viaggiatori attraversavano la località Argimusco, nei
cui pressi erano segnalate delle sorgenti (largimusco fons)20 (Figura 12), sostavano in
confermata anche dagli atti del Ciocchis del 1742, da dove si ricava che i monaci di Gala possedevano nei
territori di Furnari alcune terre, usurpate alla mensa abbaziale, denominate la rocca Soprana, la rocca
Sottana e la Pezza di San Filippo, la Pezza delli Mortilli e la terra detta della Sana (IMBESI, cit., p. 604, nota
25; cfr. Sacrae Regiae Visitationis per Siciliam a Joavine Ang. De Ciocchis Caroli III iussu acta decretaque
omnia, a cura di Vincenzo Mortillaro, Ex tipografia Diarii Literarii, Palermo 1836, vol. II, p. 472).
18
F. A. FILITI, Memorie sul comune di Furnari, tipografia Fratelli Oliva, Messina 1899, p. 7; P.
CONTARTESE, Furnari, Destefano Editore, Messina 1899, p. 11.
19
L’abitato di Furnari non si formò, come comunemente si crede, attorno al castello nel luogo ove oggi
sorge la chiesa madre. I primi abitanti si insediarono nella contrada San Filippo, nel rione Santa Caterina,
e sul piccolo poggio di San Nicolò.
20
Il toponimo Largimusco fons fu riportato dal geografo fiammingo Gerhard Kremer, detto il Mercador
(G. MERCADOR,Siciliae Regnum, carta redatta nel 1589, Bibliothèque nationale de France, département
Cartes et plans, GE DD-2987-5683).
353
SANTINO RECUPERO
Figura 12. La via che da Randazzo attraversava le Largimustus
fons e si collegava con la via Valeria nella contrada San Filippo.
Particolare dal Siciliae Regnum di G. Mercador, carta redatta nel
1589. Bibliothèque nationale de France, département Cartes et
plans, GE DD-2987 (5683).
un edificio ospitaliero (il
cosiddetto Calvario) e
continuando
il
loro
cammino verso il versante
tirrenico, raggiungevano la
via Valeria. (Figura 13)
Da qui, procedendo
verso ovest, si avviavano
verso il santuario di Tindari
e, dirigendosi verso est,
dopo aver sostato presso
l’hospitale San Giovanni a
San Filippo del Mela, nella
piana di Milazzo21 , proseguivano per Messina da
dove potevano continuare il
cammino verso Roma o, per
via mare, verso Santiago di
Compostela e la Terrasanta22.
Questo valico, molto frequentato all’epoca, è citato in diverse fonti antiche.
Bartolomeo di Neocastro riferiva che nel 1282, Pietro d’Aragona, per recarsi da Randazzo
a Messina, s’incamminò, con tutto il suo seguito, lungo la strada che conduceva ad
Argimustus nel territorio di Montalbano Elicona e da qui, percorrendo la trazzera che
portava verso il Tirreno, si diresse verso il casale di Furnari dove passò la notte
(“descendens apud Furnarum, ibi residens noctem fecit”)23. Anche il messinese Francesco
Maurolico (1494-1575) riferiva del pernottamento di Pietro nelle terre di Furnari: “Inde
discendens Petrus in Furnari oppido per noctem quievit”24. Nel 1580, un reparto di
fanteria spagnola, dovendosi spostare da Palermo a Milazzo, per evitare Termini Imerese
G. ARLOTTA, cit., p. 863.
È da tenere presente, come sottolinea Luigi Santagati, che nel periodo normanno col termine viae
francigenae in Sicilia venivano indicati i percorsi seguiti dagli stessi Normanni e dagli immigrati provenienti
dal nord-Italia: gli stessi hospetalia erano luoghi frequentati da questi nuovi arrivati. Cfr.Sulle cosiddette
vie francigene di Sicilia. Oppure anche il vescovo Gualtiero era una via? Con un’appendice sugli hospitalia
di Sicilia, «Archivio nisseno» n. 21 del Luglio-Dicembre 2017, Società nissena di storia patria, Caltanissetta
2017, pp 31-57.
23
B. DI NEOCASTRO, Historia Sicula, ed. R. Gregorio, Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas
sub Aragonum imperio retulere, I, Palermo 1791 cap. 50, p. 75. Bartolomeo da Neocastro, nel descrivere
l’attraversamento di questi luoghi, si soffermò sulle bellezze del panorama, ma non menzionò Montalbano,
per cui, superata la località Argimusco, Pietro non attraversò l’abitato di Montalbano ma proseguì verso il
territorio di Tripi e, lambendo il versante del fiume di Mazzarà, giunse a Furnari ove passò la notte.
24
F. M AUROLICO , Sicanicarum rerum compendium, Maffei, Messina 1716, p. 137. Negli Annali di
Messina, CAIO DOMENICO GALLO (Annali della città di Messina, Capitale del Regno di Sicilia, Francesco
Gaipa regio impressore, Messina 1758, vol. II, p. 133) scrisse che Pietro passò la notte nel castello di
Furnari ove “avvenne un incontro molto particolare tra il re e Matilde, moglie di Alaimo da Lentini,
l’eroe della resistenza messinese durante il vespro […] ritrovandosi il re nel castello di Furnari” (cfr. S.
RECUPERO, cit. p. 31).
21
22
354
IL TRAGITTO DEL GRAN CONTE RUGGERO D’ALTAVILLA DA ROMETTA A MANIACE
invasa dalla peste, “percorse la via delle montagne
toccando
Misilmeri,
Caccamo, Caltavuturo,
Polizzi, Gangi, Nicosia,
Troina, Cesarò, Randazzo e,
valicando i Nebrodi,
attraverso Montalbano e
Furnari, pervenne a
Milazzo”25. La compagnia,
per rifornirsi di viveri e per
il r iposo delle tr uppe
effettuò dodici soste e
nell’undicesima soggiornò a
Furnari26.
Figura 13. Il valico che da Randazzo congiungeva la via Valeria
Questa importante via di con le terre di Furnari. Da Vincenzo Arlotta, Alcuni itinerari e
comunicazione è documen- loro stazioni ufficiali nella Sicilia antica, medievale e moderna.
tata anche nei piani militari: già fin dai tempi di Gelone di Siracusa, i collegamenti tra
l’interno e il litorale tirrenico erano assicurati da tale valico. Gelone, nel 271 a.C., come
riportato da Diodoro Siculo, da Maniace, risalendo il torrente Flascio, attraversò AbacenaTripi, e raggiunse Tindari27. Pietro d’Aragona, divenuto re di Sicilia, continuò ad avvalersi
di questo percorso per trasferire da Patti e da Messina vettovagliamenti verso il campo
militare di Randazzo28.
La scelta di questo percorso da parte di Ruggero non fu casuale. I Normanni erano
sicuramente a conoscenza dei luoghi della piana di Milazzo per averli frequentati in
altre occasioni; i due fratelli, infatti, nel 1059, dopo aver costretto alla resa le città di
Squillace e Reggio Calabria, effettuarono dei tentativi di invasione della Sicilia soprattutto
per sondare le difese saracene. Nel febbraio del 1061 ritornarono sull’Isola, sbarcarono
sulla punta del Faro29 e non proseguirono per Messina, ma si diressero verso Rometta.
Vedi appendice.
Le soste di Pietro d’Aragona e del reparto di fanteria spagnola a Furnari confermano l’esistenza di
un’importante struttura recettiva dotata di servizi e attrezzature tali da poter ospitare un numero cospicuo
di persone. Se, come attestano i documenti, il re Pietro passò la notte nel castello, il suo seguito dovette
alloggiare o accamparsi in questa località.
27
Cfr. D. SICULO, Biblioteca storica, 22, 13, 2.
28
F. D’ANGELO, Terra e uomini della Sicilia medievale (secoli XI-XIII), in «Quaderni Medievali», VI
(1978), p. 79; V. D’ALESSANDRO, Città e campagne in Sicilia nell’età angioino-aragonese in La Sicilia
rupestre nel contesto delle città mediterranee, a cura di C OSIMO DAMIANO FONSECA, Congedo Editore,
Galatina 1986, p. 201; ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO, Tribunale del Real Patrimonio, lettere viceregie,
vol. 681, ff. 71-72.
29
Il Fazello nella Storia di Sicilia, citando il Malaterra, scriveva che lo sbarco di Ruggero avvenne in
un luogo chiamato clibana tegularum (“cum centum sexaginta militibus, ipsum Betumen secum, eo quod
patriam sciebat, ducens, Farumque ad Clibanum tegularum transiens, Siciliam invadit”; G. MALATERRA,
De acquisizione Regni Siciliae-Calabriae-Apulaiae et insulae Siciliae, in Bibliotheca historica Regni
Siciliae, a cura di G. BATTISTA CARUSO, Palermo 1723, p. 179), e identificò erroneamente il punto dello
25
26
355
SANTINO RECUPERO
Figura 14. La via francigena
che collegava Milazzo con la via
Valeria e il tratto di strada
percorso da Ruggero che, dalla
via Valeria, attraversava le
terre di Furnari e giungeva a
Tripi. Particolare della mappa
figura n. 5.
Figure 15, 16 e 17. Alcuni tratti
dell’antico percorso della
trazzera Ciurani-Marraffino.
356
IL TRAGITTO DEL GRAN CONTE RUGGERO D’ALTAVILLA DA ROMETTA A MANIACE
Figure 18 e 19. Alcuni tratti della San Filippo-Ciurani.
Figura 20. Un tratto della Ciurani-Marraffino oggi. (da Google Earth).
357
SANTINO RECUPERO
Fallito il tentativo di conquista della cittadella, scrive Amari, si diedero al saccheggio,
“predando bestiame nei territori di Rametta e piana di Milazzo”30. La presenza dei
Normanni in questi luoghi è documentata anche in un diploma normanno del 1089,
scritto in greco e pervenuto in latino nel 1198, dove si attesta una donazione elargita da
un cavaliere normanno della corte degli Altavilla, Goffredo Borrello Signore della Valle
di Milazzo, all’Arcivescovo Roberto di Messina e Troina, di alcune terre, chiamate
“terras Bucelli “, ove era presente una via francigena che collegava Milazzo con la via
Valeria 31 (Figura 14). L’architetto Luigi Santagati ritiene che siano stati proprio i
Normanni a importare il termine francigena che indicava nel Nord Europa una qualunque
via che portasse i pellegrini a Roma32.
Il tragitto percorso da Ruggero, la trazzera Giurani-Marraffino, fino agli inizi del
dopoguerra era ancora molto frequentato dagli abitanti del luogo e dai pendolari che dal
paese si recavano a lavorare nelle campagne. Nelle stagioni invernali veniva spesso
utilizzato dagli allevatori per trasferire il bestiame dai paesi montani verso la pianura.
Fino alla metà del secolo scorso, gruppi di devoti, in occasione della festa della Madonna
del Tindari dell’otto settembre, percorrevano a piedi questo tragitto per raggiungere il
santuario. Era una trazzera più stretta rispetto a quella originale a causa dei frequenti
sconfinamenti compiuti nel tempo dai proprietari confinanti. Alla fine degli anni ‘70 su
questo tracciato, seguendo in linea di massima quello originario, fu realizzata una strada
asfaltata che prese il nome dall’antica trazzera Ciurani-Marraffino. Oggi dell’antico
percorso restano soltanto pochi tratti attraversati dai contadini con i loro mezzi meccanici
(Figure 15, 16, 17, 18, 19 e 20).
I Normanni sul territorio furnarese hanno lasciato la loro impronta nel dialetto locale,
ricco di diversi termini lessicali gallo-italico importati da gente proveniente dal Nord.
La conquista normanna, infatti, aveva provocato dei fenomeni immigratori che permisero
a gente proveniente dall’Italia del nord di trasferirsi in Sicilia. Se colonie di Lombardi33
si insediarono nei territori di Novara di Sicilia e Fondachelli-Fantina34, dove troviamo
impronte evidenti dell’idioma gallo-italico, anche sul territorio dell’attuale Furnari, se
pur in maniera minore, dovettero stabilirsi ugualmente alcuni di questi nuovi arrivati.
Se non troviamo un’impronta ben marcata del loro idioma come nei centri prima citati,
ciò è stato determinato probabilmente dalla posizione costiera del territorio soggetto
sbarco tra Milazzo e Tindari in un luogo chiamato Furno. Frà Simone di Lentini affermava che Ruggero
“passao lo Faro e perviniro a loco chiamato lu furnu di li bisoli” (FRA S. DI LENTINI, La conquesta di
Sicilia per manu di lu Conti Ruggeru, in Cronaca siciliana dei secoli XIII, XIV, XV, a cura di Vincenzo Di
Giovanni, Bologna 1865, p. 17). Secondo Amari, il luogo dove sbarcò Ruggero “è, senza dubbio, la punta
del Faro, ond’errava Fazello supponendo lo sbarco a Furno o Furnari tra Tindari e Milazzo, perché gli
parea di trovare la versione del nome topografico in clibana tegularum del Malaterra” (AMARI, cit., vol.
III, parte seconda, p. 63, nota 5).
30
AMARI, cit., vol. III, parte seconda, p. 64. È da tenere presente che con terre del piano di Milazzo si
indicavano i territori compresi fra capo Milazzo e capo Tindari.
31
Cfr. L. SANTAGATI-M. SANTAGATI, cit. p. 97, tavola 1.
32
Ivi p. 94.
33
Per Lombardi si intendeva la popolazione che risiedeva nella zona nord-ovest dell’Italia settentrionale
(Lombardia, Piemonte, Val d’Aosta e Liguria).
34
FILOTEO DEGLI O MODEI, cit., p. 101.
358
IL TRAGITTO DEL GRAN CONTE RUGGERO D’ALTAVILLA DA ROMETTA A MANIACE
spesso a frequenti passaggi di gente che, introducendo nuove forme linguistiche, mischiate
con quelle locali, crearono un nuovo modo di parlare modificando quello precedente.
Ciononostante nel dialetto furnarese sono presenti tanti termini lessicali tipicamente
del parlato franco-gallico: ‘ccattari’ (comprare), da acheter, normanno cater; ammuarru
(armadio), da armoire; buatta (barattolo), da boite; racina (uva), da racin; vanedda
(vicolo, viuzza), da venelle. Nel mondo contadino, poi, si ritrova pulire la stalla: nittari
a stadda, da nettoyer (pulire).
Troviamo anche altri termini che non hanno nulla in comune con la lingua italiana né
hanno una radice latina e che, addirittura, hanno un significato diverso rispetto all’italiano.
Il verbo priari (pregare) deriva da prier, ma nel nostro dialetto acquista due significati:
lo impieghiamo, come in italiano, per indicare l’azione della preghiera (pregare), non ti
fari priari (non farti pregare, pregare un santo), ma lo usiamo anche per esprimere
felicità: quandu ti visti mi prià (quando ti ho visto mi sono rallegrato), derivato
probabilmente dal catalano prear. Un termine del dialetto furnarese, oggi usato raramente,
era broccia, per indicare la forchetta, da broche (spiedo, utensile da cucina a tre punte);
in italiano per broccia si intende una macchina per eseguire scanalature nel legno. E si
ritrova ancora travagghiu, da travail, vocabolo siciliano che corrisponde all’italiano
lavoro, mentre il termine travaglio in italiano ha un significato completamente diverso.
Per dire chiudi la porta a chiave, i nostri antenati dicevano ferma a porta ca chiavi,
impiegando il verbo fermare nel significato di chiudere, da fermer (chiudere); e sono
anche presenti nel parlato i termini brizza (goccia) da brise, cattugghiari (fare il solletico)
da catouiller, frascatuli (polenta) da flasque (floscio, focaccia). Altre espressioni del
nostro dialetto sono degli autentici gallicismi, come per esempio: appressudumani
(dopodomani), dal francese après demain; avant’eri (l’altro ieri), in francese avant
hier; vuiautri (voi), dal francese vous autres. Per l’espressione si ammalò diciamo cadìu
malatu, da tomber malade. Altre forme lessicali, infine, ormai scomparse, come ippuni,
bunaca, sabbietta, muccaturi, buffetta, sono tipiche dell’idioma gallo-italico.
359
SANTINO RECUPERO
Appendice
Originale: Archivio di Stato di Palermo, Tribunale del Real Patrimonio, Lettere
Viceregie, vol. 681, ff. 71v-72v. Trascrizione di Alfio Seminara, Archivio di Stato di
Messina.
Marco Antonio Colonna35, nel 1580, ordinò che la compagnia di fanteria spagnola
comandata da Garasi de Valdes fosse guidata da una persona esperta dei luoghi fino alla
terra e al borgo di Milazzo, seguendo un percorso prestabilito che, evitando Termini a
causa del contagio, toccasse successivamente, giorno dopo giorno, Misilmeri, Caccamo,
Caltavuturo, Polizzi, Ganci, Nicosia, Troina, Cesarò, Randazzo, Montalbano, Furnari e
infine Milazzo, avendo cura di non far arrecare dai soldati turbative alla popolazione
civile.
Palermo, 1580 marzo 23, VIII Indizione
Philippus etc …
Magnifice regie fidelis dilette per servitio di sua maesta habbiamo provisto che la
compagnia di fanteria spagnola del comandante capitano Garasi de Valdes vada ad
alloggiare in la terra et burgo di Melazo per la custodia di quelli per li suspetti di
vascelli de corsali che vanno discorrendo per li mari di questo regno et perché detta
compagnia sia guidata per terra de alcuna persona di recapito accio habbiano
l’allogiamento et provisione necessarii et anco che non facciano disordine per questo
vi dicimo et ordinamo che con la diligenza che voi costumate debbeati condure detta
compagnia per terra decqua sino a Melazo per la strata della montagna et per rispetto
dello contagio chi e nella città di Termine provista che sera prima detta compagnia in
questa citta delli bagagli necessarij per lor denari il primo giorno che partirete decqua
veni andereti la sera ad allogiare alla terra di Misilmele inviando innanci un correro
alli Giurati di quella terra per far stare al’allogiamento necessario apparechiato il
secondo giorno anderete ad allogiare alla terra di Caccamo il terzo giorno anderete ad
allogiare alla terra di Calatavuturo il quarto giorno a Polizi il quinto giorno a Ganci il
sesto giorno a Nicosia il settimo giorno a Traina l’ottavo giorno a Cesaro il nono
giorno a Randazo il decimo giorno a Monte Albano, l’undecimo giorno a Furnari, il
duodecimo giorno a Melazo inviando sempre innanti il currero alli Giurati delle sudette
citta et terre per apparechiare l’allogiamento come di sopra li quali allogiamenti volemo
che se li diano gratis et quanto alle vettovaglie et bagaglie che haveranno bisogno ce li
farete dare pagando il prezo di quelli iusto pretio mediante et accerterete che per il
camino nessun soldato presumma levar bestie all’itineranti ma de quelle bestie di bardo
et di sella che lor bisognera li farete andar provedendo de una terra ad un’altra con
farli pero pagare il giusto loherio138 tenendo sempre la mano et avertenza che li soldati
non facciano disordine tanto nello camino come nelle terre dove capiterano et in detta
35
Marcantonio II Colonna (Lanuvio, 26 febbraio 1535 - Medinaceli, 1 agosto 1584), duca di
Tagliacozzo, fu viceré di Filippo I di Sicilia dal 1577 al 1584.
360
IL TRAGITTO DEL GRAN CONTE RUGGERO D’ALTAVILLA DA ROMETTA A MANIACE
terra di Melazo darrete ordine che una squadra de venticinque soldati stiano dentro la
terra in la guardia delle porte e tutto il resto della compagnia stia di fuori al burgo
insiemi con lo alfere per defensa di quello burgo per non succedere alcuna invasione da
vascelli di corsali et allogiata che sara detta compagnia in essa terra di Melazo como
e detto voi ve ni (?) potrete ritornare che de vostre giornate ve farete pagare del modo
che altra volta sete stato pagato in somiglianti carichi et già per nostre lettere habbiamo
scritto alli Giurati di detta terra di Melazo et datoli l’ordine necessario attorno
l’allogiamento di essa compagnia che noi in la esequtione delle cose predette ve ni
damo omni moda autorita et potesta con soi dependenti emergenti et connexi et
comandamo a tutti et singuli officiali et persone del regno et specialmente delle sudette
città e terre che in la exequtione predetta vi debbiano assistere obedire et prestare loco
brachio ayuto et favore quante volte da voi seranno rechesti et non facciano lo contrario
per quanto la gratia regia teneno chara et sotto pena de florini milli apponendi al regio
fisco.
Datum Panormi die 23 martij VIII Indictionis 1580
Marco Antonio Colonna Modestus G. presens Petrus Augustinus (?) Locadellus
A.R. Franciscus de Aurello magister notarius
Grazianus A.R. Cononius A.R. Deballis
A.R. Giovanni de Garenas
De Stefan Monreal (…)
Palermo, 1748.
361
SANTINO RECUPERO
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il mondo (Il Libro di Ruggero). Estratto relativo alla sola Sicilia nella traduzione in
italiano di Michele Amari annotato e comparato con la traduzione in italiano di Umberto
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Oppure anche il vescovo Gualtiero era una via? Con un’appendice sugli hospitalia di
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patria, Caltanissetta 2017, pp 31-57.
SANTAGATI LUIGI, Un po’ di luce sulla via Valeria romana, sta in Atti del II convegno
di studi Ricerche storiche e archeologiche nel Val Demone, Barcellona Pozzo di Gotto
1-2 aprile 2017, a cura di LUCIANO CATALIOTO, F ILIPPO IMBESI E LUIGI S ANTAGATI,
Supplemento ad «Archivio nisseno» n. 20 del Gennaio-Giugno 2017, Società nissena di
storia patria, Caltanissetta 2017, pp. 381-404.
363
364
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
LUIGI SANTAGATI*
Mi sono già occupato del tratto della via consolare romana Valeria che dal Faro,
sullo stretto di Messina, portava ad Imera1 fermando la mia attenzione sino al ponte che,
in epoca romana, attraversava l’omonimo fiume poi eliminato nel 1978 durante i lavori
per la sistemazione idraulica del fiume omonimo.
Partendo da Imera dopo circa mp 3,4 la strada arrivava al fiume Torto che veniva
attraversato con il ponte di Fiume Torto2. È plausibile che, precedentemente, il fiume
Figura 1. Tra l’Imera ed il fiume Torto.
* Membro della Società Sicilia.
1
Un po’ di luce sulla via Valeria romana, sta in Atti del II convegno di studi Ricerche storiche e
archeologiche nel Val Demone, Barcellona Pozzo di Gotto 1-2 aprile 2017, a cura di LUCIANO C ATALIOTO,
FILIPPO IMBESI E LUIGI SANTAGATI, Supplemento ad «Archivio nisseno» n. 20 del Gennaio-Giugno 2017,
Società nissena di storia patria, Caltanissetta 2017, pp 381-404; anche on line sul sito www.storia
patriacaltanissetta.it.
2
LUIGI SANTAGATI, Ponti antichi di Sicilia dai Greci al 1778. Catalogo ragionato comprendente anche
i ponti acquedotti con un’appendice sui traghetti fluviali e marini e con note tecniche sulla datazione dei
ponti, Edizioni Lussografica, Caltanissetta 2018, p. 204. Il ponte era ad un’arcata di circa palmi 50 di luce
(circa m 14,00) totalmente eliminato nel 1960-70 durante i lavori per la sistemazione idraulica del fiume.
Ancora presente in IGM 259.I.NO Monte San Calogero in scala 1:25.000
365
LUIGI SANTAGATI
venisse attraversato più a monte, verso Sud, utilizzando il ponte della Meretrice3 sito a
circa 2,2 mp (in linea retta) dalla foce del fiume Imera (figura 1), oggi in secca per lo
spostamento dell’alveo del fiume, di cui restano ben poche cose al di là di un’arcata a
tutto sesto oggi chiusa ed utilizzata come deposito agricolo (figura 2). Ma la tecnica
costruttiva, mattoni esterni sia per le arcate che per i paramenti murari e, probabilmente
anche per i piloni, oltre al riempimento a sacco in conglomerato cementizio, sembra
proprio quella tipica romana, probabilmente del II secolo a.C..
Figura 2.
Figura 3.
Da quel punto la via conduceva ver so Ter mini
Imerese rasentando la costa
tirrenica per poi salire a Sud
del promontorio roccioso su
cui sorge la città e, cercando la minor pendenza, superava a circa 1,2 mp ad Ovest
di Termini il fiume San
Leonardo con il Ponte Vecchio (figure 3-4) per poi
puntare nuovamente verso
la costa a circa mp 1 da Termini (figura 5).
Il cosiddetto Ponte Vec-
3
Forse a 3 arcate sul fiume Torto citato da VITO AMICO STATELLA, Dizionario topografico della Sicilia
di Vito Amico, tradotto dal latino ed annotato da Gioacchino Di Marzo, Palermo, 1855-1856, I, 322 e
464, come già in secca al suo tempo per il mutato corso del fiume; FRANCESCO MARIA EMANUELE E GAETANI,
MARCHESE DI V ILLABIANCA, Ponti sui fiumi della Sicilia (1792), Edizioni Giada, Palermo 1986, p. 30. Il
ponte è quasi coincidente col Passo di Polizzi sul fiume Torto, ed è situato circa 8 km ad ESE di Termini
Imerese (PA). Costruzione romana nel probabile punto in cui si incontravano la via per Catania e quella
per Messina. Cfr GIOVANNI UGGERI, La viabilità della Sicilia in età romana, Congedo editore, Galatina
(LE) 2005, p. 88; SANTAGATI, Ponti, p. 280. IGM 259.I.NO Monte San Calogero.
366
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
chio4, termilogia usata molto spesso in tutta l’Isola per indicare una costruzione più
antica rispetto ad una nuova, doveva probabilmente avere tre campate in pietra squadrata tra loro di diseguale ampiezza seguendo uno schema non nuovo già utilizzato
anche sul tratto stradale tra Messina e
l’Imera ad esempio per il ponte Riggieri a
Tusa5, il ponte della Madonna d’Altofonte
a Balestrate6 e il ponte di Caronia7 ma soprattutto per il ponte Carcaci o dei Saraceni8
sito nei pressi di Adrano in cui gli archi sono
tutti diversi tra di loro.
Le distanze
La Tabula Peutingeriana (figura 6)
riporta la via che da Termini, passando per
Solunto, Palermo e Segesta, porta a Lilibeo
Figura 4.
(Marsala) senza indicare altre località.
L’Itinerarium Antonini riporta invece le distanze da Tindari, Agrigento e Carini lungo
tre Itinera tutti e tre passanti per Parthenico (Partinico).
Le distanze indicate nella Tabula sono le seguenti:
Lilybeum
--Depranis
mp XVIII
(mp 18)
Acquis Segestanis
mp XIII
(mp 13)
Panormo
mp XXXVI
(mp 36)
Solunto
mp XII
(mp 12)
Cephalopo
mp XXIIII
(mp 24)
Le distanze indicate nell’Itinerarium in una certa misura coincidono:
6. Item a Lilybeo per maritima loca Tindaride
7. usque
mp CCVIII
91.1. Drepanis
mp XVIII
(mp 18)
2. Acquis Segestanis sive Pincianis
mp XIIII
(mp 14)
3. Parthenico
mp XII
(mp 12)
4. Hyccara
mp VIII
(mp 8)
4
Ponte romano diruto sul fiume San Leonardo posto alla periferia O di Termini Imerese (PA). ALBERTI
LEANDRO , Descrizione di tutta l’Italia et isole pertinenti ad essa ecc., Paolo Ugolino, Venezia, 1596, p. 46,
in cui viene chiamato Ponte rotto (1596); TURRISI M ARIO E FIRRONE PATRIZIA, I ponti di Sicilia, Facoltà di
architettura dell’Università di Palermo, Edizione fuori commercio, Palermo 2001, p. 164; SANTAGATI,
Ponti, p. 525. IGM 259.IV.NE Termini Imerese.
5
Santagati, Ponti, p. 411.
6
Idem, p. 265.
7
Idem, p. 145.
8
Idem, p. 471.
367
LUIGI SANTAGATI
5. Panormo
6. Solunto
92.1. Thermis
2. Cefalodo
3. Haleso
4. Caleate
5. (A Caliate Solusapre mp VIIII)
6. Agatinno
93.1 Tindarite
...
5. Item ab Agrigento Lilybeo
6. Pitiniatis
7. Comicianis
8. Petrine
97.1. Pirama
2. Panoruo
3. Hyccaris
(Parthenico)
4. Longaricum
5. Ad Olivam
6. Lilybeum
7. Item ab Yccaris maritima:
8.
9. Parthenico
mp XVI
mp XII
mp XIII
mp XXIIII
mp XXVIII
mp XXVI
(mp
(mp
(mp
(mp
(mp
(mp
mp XX
mp XXVIII
(mp 20)
(mp 28)
mp CLXXV
mp VIIII
mp XXIIII
mp IIII
mp XXIII
mp XXIIII
mp XVIII
(mp
(mp
(mp
(mp
(mp
(mp
mp XXIIII
mp XXIIII
mp XXIIII
(mp 24)
(mp 24)
(mp 24)
mp XII
(mp 12)
Figura 5. Dall’Imera a Termini Imerese.
368
16)
12)
13)
24)
28)
26)
9)
24)
4)
23)
24)
18)
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
Figura 6. Tabula Peutingeriana
10. Ad Acquas Perticianenses
98.1. Drepanis
mp XV
mp XVIII
(mp 15)
(mp 18)
Da Termini Imerese verso Partinico
Dal ponte vecchio di Termini, sulla strada per Palermo, dovevano esserci numerosi,
piccoli ponti che superavano i tanti torrenti che si trovano tra Termini, Trabia, San
Nicola l’Arena, Altavilla Milicia e Bagheria. Oggi il loro numero è diminuito
drasticamente pur se rimangono numerosi toponimi e qualche bel resto che meriterebbe
miglior sorte.
A partire da Trabia, appena ad Ovest, si trovava il ponte di Sant’Onofrio9, oggi scomparso. Proseguendo verso Nord-Ovest s’incontrano il ponte della Trabia o della
Madonuzza10, il ponte Chiavetta11 ed un paio di manufatti anonimi (figura 7).
A 0, 75 mp prima di arrivare ad Altavila Mìlicia s’incontra il ponte di San Michele12,
opera quasi certamente romana rifatta nel XIII secolo (figura 8) e il ponte della Figurella13.
9
Ponte “ad un arco perfetto nel territorio di Sant’Onofrio, e Trabia” in AA.AA., Ordinazioni e regolamenti della Deputazione del Regno di Sicilia, Reale stamperia, Palermo 1782, p 211. Doveva trovarsi
appena ad O del paese tra il castello e la tonnara. C ARUSO ENRICO E N OBILI ALESSANDRA, Le mappe del
Catasto borbonico di Sicilia. Territori comunali e centri urbani nell’archivio cartografico Mortillaro di
Villarena (1837-1853), Assessorato Regionale Siciliano ai BB. CC. AA., Palermo 2001, t 63, p 154.
SANTAGATI, Ponti, p. 468. IGM 259.IV.SE Sambuchi
10
Ricostruito dopo il 1778 sul fiume della Vecchia o della Trabia. CARUSO -NOBILI, Le mappe ecc, p
155, t 63; VILLABIANCA, Ponti sui fiumi della Sicilia, p. 40; SANTAGATI, Ponti, p. 507. IGM 250.III.SE San
Nicola l’Arena.
11
SANTAGATI, Ponti, p. 389 e 390.
12
Forse detto anche Cirone ed anche Saraceno, sul torrente San Michele a circa 0,5 km dalla foce ed
a poco più di un km a SE di Altavilla Milicia. Se ne ha notizia nel 1248 con il nome di San Michele di
Campo (o Capo) Grosso o Cannamasca. MAURICI FERDINANDO E FANELLI GIUDITTA, Antichi ponti di Sicilia.
Dai romani al 1774, «Sicilia Archeologica», Anno XXXIV 2001, Fascicolo 99, 134; B ONANNO LUCIA,
Architettura del paesaggio. Ponti di Sicilia, Edizione fuori commercio, Palermo 1999, pp. 11, 30 e 74-78;
SANTAGATI, Ponti, p. 444. IGM 250.III.SO Bagheria.
13
Su un vallone innominato sulla R.T. Palermo-Messina marine. Sito a meno di 1 km ad E di Altavilla
Milicia (PA). C ARUSO -N OBILI, Le mappe ecc., p. 102, t. 11. SANTAGATI, Ponti, p. 194. IGM 250.III.SO
Bagheria.
369
LUIGI SANTAGATI
Figura 7. Da Trabia verso San Nicola l’Arena.
In prossimità dell’antica Solunto e prima di Bagheria si segnalano i ponti Moscurelli14
(figura 8) e del Fondachello15 (figure 9 e 10).
Subito dopo, nei pressi di Ficarazzi, si trova il ponte omonimo, da me designato
come Ficarazzi 3° per non confonderlo con altri ponti della stessa località anch’essi
senza nome16 di cui non resta oggi nulla (figura 11).
La strada (figure 12 e 13), sempre costeggiando il mar Tirreno arrivava ormai nei
pressi di Palermo apprestandosi a passare il fiume Oreto che la divideva dalla città
(figura 14).
L’elegante ponte dell’Ammiraglio17 attraversava il fiume con ben 12 arcate (figure
Detto anche Altavilla, passante sopra il vallone di Casteldaccia, a circa 1,5 km a NNE di Casteldaccia
(PA). CARUSO -NOBILI, Le mappe ecc, t 61, p 152. SANTAGATI, Ponti, p. 296. IGM 250.III.SO Bagheria.
15
Sul vallone di Cefalù a circa 1,5 km a NNE di Casteldaccia (PA). Probabilmente ricostruito nel
XVIII secolo. SANTAGATI, Ponti, p. 205. IGM 250.III.SE San Nicola l’Arena.
16
Ad un’arcata sito sul fiume Eleutero o Misilmeri a circa 1 km a NE di Ficarazzi (PA). Crollò nel
1793 e fu subito ricostruito forse su precedenti resti romani. VILLABIANCA, Ponti, p. 29 e sulla carta di
ANONIMO del XVIII secolo in D UFOUR LILIANE, Atlante storico della Sicilia. Le città costiere nella cartografia
manoscritta, Arnaldo Lombardi Editore, Palermo 1992, p. 97, t 52; CARUSO -NOBILI, Le mappe ecc., p 125,
t 34; Ordinazioni e regolamenti etc. (1782), p 212; MAURICI-MINNELLA, Antichi ponti di Sicilia, p. 53;
SANTAGATI, Ponti, p. 191. IGM 250.III.NO Ficarazzi.
17
SANTAGATI, Ponti, 34, 72-3. Il ponte è stato sicuramente restaurato nel XII secolo (1131) ma, difficilmente, costruito in tale periodo. Con scarsa probabilità la tecnologia siciliana dell’epoca avrebbe permesso di costruire con tale raffinatezza. È più verosimile che le stesse maestranze francesi che intervennero
nella costruzione della cattedrale di Palermo siano intervenute pure nei ponti. La tipologia dell’intervento
ad arco acuto ricorda il restauro del ponte dei Saraceni di Adrano del 1158, Bagno (Sciacca), Castronovo
(Cammarata) Cerami, Grazia (Castiglione), San Michele e Saraceni (Adrano) tutti ricostruiti su preesistenze
probabilmente romane. Inoltre sembra difficile che la via Valeria, servita in tutta la sua lunghezza da
14
370
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
Figura 9. Il bell’arco gotico a doppia ghiera del
ponte di San Michele inserito nel XIII secolo.
Figura 10. Il ponte Moscurelli è ormai inglobato nella struttura più recente in c.c.a. della SS
113 (al km 242) che lo ha
fatto scomparire, così
come gli altri ponti della
stessa arteria, sia a S che
a N.
Figura 11. Il ponte Fondachello è ormai inglobato nella struttura del ponte più recente in c.c.a. della SS 113 (tra il km 241
ed il 242) che lo ha fatto
scomparire. Nel cerchio
rosso (a lato) si nota un
concio originale della volta inglobato nella struttura nuova.
371
LUIGI SANTAGATI
Figura 12. Da San Nicola l’Arena verso Bagheria.
Figura 13. Da Bagheria a Ficarazzi.
15 e 16) oggi scarsamente apprezzabili e leggibili perchè parzialmente interrate ed ormai lontane dal fiume che, nel corso dei secoli, è stato deviato dal suo percorso naturale.
Da Termini Imerese a Solunto, in corrispondenza del Fondaco del Gelso, l’Itinerarium
decine di ponti anche di notevole ampiezza come il Grande sull’Imera, Pollina o Caronia, non fosse stata
dotata di un ponte della stessa qualità sul fiume Oreto. Il ponte ha 12 arcate a doppia ghiera con quella
interna leggermente rientrata di ampiezza variabile, 5 su un lato e 6 sull’altro di cui 7 ad arco acuto e 5 a
tutto sesto. È complessivamente lungo m 80,00 con una luce massima dell’arco centrale di m 9,10 ed una
larghezza di m 7,00 compresi i parapetti.
372
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
Figura 11.
Figura 14. Da Ficarazzi a Palermo.
Figura 15. Il ponte dell’Ammiraglio oggi, inserito in un
parco pubblico, parzialmente interrato.
Figura 16. Il ponte dell’Ammiraglio in una foto
della fine dela XIX secolo
prima dello spostamento
del letto del fiume Oreto
avvenuto nel 1932.
373
LUIGI SANTAGATI
Figura 17. Da Palermo verso Tommaso Natale.
indica mp 13; la distanza reale è pari a mp 14,5. Da Solunto a Palermo l’Itinerarium
indica mp 12; la distanza reale è di mp 11.
Entrata a Palermo seguendo all’incirca via dei Mille per la porta di Termini (figura
14), oggi via Xxxxx, la strada romana percorreva le strette vie della Palermo romana
attraversando i due fiumiciattoli (il Papireto e il Kemonia) che la percorrevano da Ovest
ad Est, verso il mare, su almeno un ponte denominato Cantariddoheb18 di cui abbiamo
notizia in periodo arabo.
Difficile ricostruire il percorso della strada romana nell’attraversamento di Palermo.
Abbiamo la sola (quasi) sicurezza del passaggio lungo via Porta Carini (la strada del
mercato del Capo) e della sua uscita attraverso la porta di Sant’Agata alla Guilla, abbattuta nel 1542, posta all’incirca tra l’attuale Palazzo di giustizia e il teatro Massimo.
Uscita dalle mura della Palermo romana (figura 17), la strada seguiva all’incirca via
Carini, via Oliva, via Principe di Villafranca, via Spaccaforno e, tirando dritto, puntava
su via Gobbredo Mameli, via Marchese Ugo e, all’incirca dall’incrocio di via Emanuele
18
SANTAGATI, Ponti, 132. Dall’arabo qantarat ad-dahab (ponte d’oro), ponte sul fiume Papireto al
confine O della Palermo medievale, forse quasi in corrispondenza della Bab Sciantagàth ovvero Porta
Sant’Agata alla Guilla (guilla forse dall’arabo wadi = fiume oppure come corruzione di villa). “Iuxta
flumen quod dicitur Cantariddoheb, nunc Papiretum.” Anno 1238 in ANTONINO M ONGITORE, Monumenta
historica sacrae domus Mansionis SS. Trinitatis, Palermo 1721, p 28.
374
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
Figura 18. Da Tommaso Natale a Capaci.
Notarbartolo, percorreva l’attuale via Libertà fino alla Statua per poi percorrere l’attuale via Croce Rossa e via Resuttana che d’altronde non è altro che il vecchio sedime della
S.S. 113. La strada poi percorreva via San Lorenzo e, proseguendo per la via Tommaso
Natale, puntava verso l’omonima frazione di Palermo posta nella stessa direzione della
più conosciuta frazione di Sferracavallo e, girando attorno alla Montagnola percorrendo via Torretta, puntava dapprima su Isola delle Femmine e poi sul sito di Capaci antico
(figura 18), posto poco più a Sud del sito attuale, passando su una striscia di terreno
posta tra mare e monte all’incirca utilizzando il sedime dell’attuale S.S. 113 Settentronale
Sicula che porta da Messina a Trapani, spesso confondendosi con il più antico percorso
romano.
Sempre costeggiando la costa tirrenica, ma più a Nord della S.S. 113 (figura 19), la
strada arrivava al Vallone del ponte o Gugliotta che veniva superato con il ponte della
Madonna19 (figure 20 e 21), una possibile opera del II-I secolo a.C., simile nella struttura a quello della Madonna d’Altofonte20 a Balestrate e d’altri ponti di cui abbiamo già
parlato.
19
SANTAGATI, Ponti, 261. Sito a circa 1,5 km dalla foce ed a circa 3 km a NNE di Carini (PA). Ricostruito
nel 1634 e trasformato intorno al 1970 per l’arginatura del torrente. Cfr: GIOVANNI FILINGERI, Viabilità
storica della Diocesi di Monreale, Palermo 2014, p 99. IGM 249.III.NE Carini.
20
SANTAGATI, Ponti, 265. Vedi successiva nota 24.
375
LUIGI SANTAGATI
Figura 19. Da Capaci a Carini.
Figura 20. Il ponte della Madonna di Carini. L’arcata originale (in
fondo) è affiancata da un’arcata più recente (XIX secolo?). Il fondo del torrente si è visibilmente innalzato e la metà della volta,
probabilmente a tutto sesto, è nascosta dai detriti trasportati dall’acqua.
Siamo nella zona di
Villagrazia di Carini, importante sito archeologico
d’età romana, noto particolarmente per le catacombe
utilizzate in quel periodo.
Subito dopo Villagrazia
la strada s’allontanava dal
mare e puntava verso Sud,
poi verso leggermente ad
Ovest ed iniziava a
zigzagare salendo di quota
e superando il Vallone San
Vincenzo con un altro ponte detto di Carini21 (figure
22 e 23), probabilmente
della stessa epoca del già
SANTAGATI, Ponti, 143. Detto anche Romano o Foresta, è ad un’arcata ed è ricordato dal VILLABIANCA,
Ponti sui fiumi della Sicilia, p. 28 (1792). È sito a circa 3 km dalla foce ed a poco più di un km a NNO di
Carini (PA). IGM 249.III.NE Carini.
21
376
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
nominato ponte della Madonna d’Altofonte a
Balestrate e del ponte della Madonna di Carini.
Anche le condizioni attuali del ponte di Carini
sono tra le più miserevoli:
l’immondizia a volte
l’adorna ma più spesso è
l’evidente abbandono di
una vestigia così gloriosa
che fa piangere il cuore.
Vale di più un vaso antico
in un museo o un ponte di
più di 2.000 anni che pian
piano si diperde? Mah! Il
dissesto tra poco colpirà il
manufatto così come tanti
altri e mi chiedo dove siano le autorità preposte e
particolarmente le Soprintendenze ai B.B. C.C. a cui
sembra poco importare di
quel che ai ponti accade.
Da Palermo a Carini,
l’antica Hyccara, l’Itinerarium riporta una distanza di
mp 16; la distanza reale, in
corrispondenza del ponte
della Madonna di Carini è
pari a mp 15,1.
La strada prosegue transitando all’interno dell’attuale sito di Carini e poi
corre sul fianco Ovest del
Monte Saraceno puntando
verso Montelepre. Probabilmente a quota 507 s.l.m.
la strada poteva avere, nel
tempo, più di una variante
di percorso visibili nella
piantina di figura 24.
Più di un ponte (Casta-
Figura 21. Lo stato miserevole del ponte della Madonna seminterrato e coperto da rifiuti e spazzatura.
Figure 22 e 23. In alto lo stato d’abbandono del ponte di Carini
coperto da sterpaglie, rifiuti e spazzatura. In basso un particolare
dei conci dell’arco a tutto sesto probabile oggetto di restauro.
377
LUIGI SANTAGATI
gna, Chersa, Malpasso,
Montelepre e Nocella) superano i torrenti che portano
le diverse, possibili varianti
stradali, peraltro tutte della
stessa quasi identica lunghezza, ma di nessuno, a
parte il ponte Chersa22, abbiamo notizie di una relativa antichità che potrebbe
fare supporre un costruzione ancora più antica.
La mia opinione è che il
tratto stradale romano fosse quello collocato più ad
Ovest, proprio per la presenza del ponte Chiersa, ma
non vi sono all’atto elementi
in grado di garantire tale attribuzione nè, d’altronde, di
spostare invece l’attenzione
sugli altri tratti stradali. Non
ritengo possa essere altrettanto antico il ponte della
Nocella 23 (figura 25), che
nel medioevo diventò un
Figura 24. Da Carini a Borgetto e Partinico.
importante punto di passaggio sull’omonimo fiume. La strada infine arriva a Borgetto e dopo circa 1,3 mp a Partinico,
l’antica Parthenico, utilizzando il ponte Vecchio23 a cui non sono in grado di attribuire
alcuna data di costruzione; il toponimo Vecchio indica semplicemente una relazione con
un ponte Nuovo, nel nostro caso, forse, quello di Ramo posto più a monte.
L’Itinerarium riporta sia la distanza di mp 8 al punto 91.4 che, al punto 97.9, quella
di mp 12; la distanza reale, calcolata dal ponte della Madonna di Carini al centro di
22
SANTAGATI, Ponti, p. 162. Sul fiume Nocella Margiu sito a meno di 2 km a SO di Giardinello (PA),
appena a S del ponte di Castagna. GIOVANNI FILINGERI, Viabilità storica della Diocesi di Monreale, Palermo 2014, p. 69; forse è il ponte crollato già nel 1410 di cui alla p 70, n. 136. IGM 249.III.SE Partinico.
23
SANTAGATI, Ponti, p. 305.Conosciuto anche come Nocilla o Nocille, ad un’arcata posto sul fiume di
San Cataldo o della Nocella. È posto a circa 3 km a N di Borgetto (PA). CARUSO ENRICO E NOBILI ALESSANDRA, Le mappe del Catasto borbonico di Sicilia. Territori comunali e centri urbani nell’archivio cartografico
Mortillaro di Villarena (1837-1853), Assessorato regionale BB CC AA, Palermo 2001, p. 108, t. 17.
CASAMENTO ALDO, La Sicilia dell’Ottocento. Cultura topografica e modelli cartografici nelle rappresentazioni dei territori comunali, t 16, p 40. AA. VV ., Ordinazioni e regolamenti della Deputazione del Regno
di Sicilia, Reale stamperia, Palermo 1782, p 212 (1782). IGM 249.III.SE Partinico.
24
SANTAGATI, Ponti, p. 520.
378
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
Parthenico, è pari a mp 13,8:
decisamente divergente.
Il bivio di Partinico
A Partinico la strada si
sdoppiava (figura 26):
- l’Itinera 90.6. Item a
Lilybeo per maritima loca
Tindaride indica che il percorso che portava a Trapani
passava per Acquis
Segestanis sive Pincianis
ossia le attuali Terme di
Figura 25. Il ponte vecchio di Nocella ormai “tombato” nel nuovo. Segesta.
- l’Itinera 93.5. Item ab
Agrigento Lilybeo portava da Hyccara (Carini ) a Lilybeum (Marsala) passando per
forza per Parthenico (pur se resta sottinteso), Longaricum e Ad Olivam.
Anche questo secondo Itinera si sdoppia a circa mp 5 da Partinico, subito dopo la
frazione Valguarnera; ma questo sarà meglio approfondito successivamente.
Figura 26. Il nodo stradale di Partinico.
379
LUIGI SANTAGATI
Figure 27 e 28. Sopra: la ricostruzione grafica del ponte prima dell’approssimativo restauro.
Sotto: il ponte prima del restauro. Si nota chiaramente l’arco aggiunto nel XVIII secolo a sostegno
dell’arcata in pietra ed il parapetto in c.c.a..
1° itinerario. Item ab Yccaris maritima. Da Partinico a Castellammare del Golfo e Trapani
Esaminiamo per primo l’Itinera 97.7. Item ab Yccaris maritima.
Da Parthenico la strada romana puntava ad Ovest, dirigendosi verso il sito dell’attuale Balestrate sul mar Tirreno, superando a circa mp 6 il corso del fiume Iato sul ponte
della Madonna d’Altofonte25 (figure 27 e 28) ormai in territorio di Balestrate (figura
29). Il ponte, che è stato ultimamente sottoposto ad un ignobile “restauro” (2014), dovrebbe essere costruzione del II-I secolo a.C. Composto da due arcate diseguali a tutto
sesto parzialmente interrate, ha una lunghezza di m 30, una larghezza di m 5,00 compresi i parapetti, ed una luce dell’arco maggiore di m 12,00. L’analisi stilistica e la
larghezza identica a quella di diversi altri ponti della via Valeria, fanno propendere per
SANTAGATI, Ponti, p. 265. Detto anche Madonna del ponte, supera il fiume Iato già Giancaldara a
circa 3 km a SE di Balestrate (PA) verso l’interno. Citato da VILLABIANCA, Ponti sui fiumi della Sicilia, 33,
(1792). Fu ricostruito nel 1512-13. IGM 249.III.SO Balestrate.
25
380
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
Figura 29. Da Partinico verso Castellammare del Golfo passando da Balestrate.
una datazione che potrebbe risalire anche al III secolo a.C..
Esiste un’alternativa a questo percorso: una strada quasi parallela, circa mp 1 più a
Sud, che attraversava il fiume con due ponti (quello Di giù26 sul fiume Iato e quello del
Passo27 sul Ciurrro Murro) posti sui due rami del fiume Iato a circa mp 1 a Sud-SudOvest del ponte della Madonna d’Altofonte. I due tronchi convergevano sul tratto della
strada che puntava ad Ovest a circa mp 5 dopo il ponte della Madonna d’Altofonte.
Penso che si trattasse di una semplice alternativa necessaria quando il ponte della Madonna ebbe problemi di percorrenza.
La strada poi puntava a Nord-Nord-Ovest ed arrivava a Balestrate. Da lì percorreva
la costa arrivando Ad Acquas Perticianenses (l’attuale Castellammare del Golfo) dopo
aver attraversato il fiume di San Bartolomeo su un traghetto (Asaro con barca28) ed aver
percorso circa mp 17,3 da Parthenico contro le mp 15 riportate sull’Itinerarium Antonini
(figura 30).
Da Castellammare la strada s’inerpicava sull’alta costa rocciosa che arriva sino a
Trapani (figura 31) ma, dopo poco più di mp 3, puntava decisamente ad Ovest in direzione di Drepanis (Trapani) passando dal castello di Baida (in arabo = Bianca). Da lì
puntava a Sud passando da Balata di Baida (figura 32) per poi puntare di nuovo ad
26
27
28
SANTAGATI, Ponti, p. 178.
SANTAGATI, Ponti, p. 322.
SANTAGATI, Ponti, p. 547.
381
LUIGI SANTAGATI
Figura 30. Da Balestrate a Castellammare del Golfo.
Figura 31. Da Castellammare del Golfo al castello di Baida.
Figura 32. Da Baida a Buseto Palizzolo.
382
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
Figura 33. Da Buseto Palizzolo a Trapani.
Figura 34. Arrivo a Trapani.
Ovest verso l’attuale Buseto Palizzolo (figura 33) e poi Trapani (figura 34) raggiunta
dopo mp 27 da Castellammare contro una distanza di mp 18 riportata sull’Itinerarium
Antonini ed in corrispondenza del non più esistente ponte che collegava la città alla
terraferma.
2° itinerario. Item a Lilybeo per maritima loca Tindaride. Da Partinico a Trapani
passando per Segesta
Da Parthenico la strada puntava sulla frazione Valguarnera con un andamento SudOvest (figura 26). Attraversato il fiume Iato sul ponte di Valguarnera29, la strada, a circa
mp 6,5 da Parthenico, di divideva in due in corrispondennza del Passo di Palermo,
toponimo molto chiaro: tralasciamo per ora il ramo che puntava a Sud ed occupiamoci
di quello che puntava ad Ovest (figura 35). In corrispondenza del ponte di Valguarnera
29
SANTAGATI, Ponti, p. 516.
383
LUIGI SANTAGATI
Verso Segesta
Verso Marsala
Figura 35. Il bivio a Sud di Partinico.
ritengo che in antico esistesse un ponte d’origine romana, ma non si possiedono elementi che possano dare alcuna certezza.
Dal bivio la strada superava il Ciurro Murro con il ponte Colonna Romana30 e il
Maltempo, forse, con un ponte imprecisabile. Da quel punto la strada puntava sull’at-
Figura 36. Dal bivio a Sud di Partinico ad Alcamo.
30
SANTAGATI, Ponti, p. 168.
384
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
tuale Alcamo (figura 36), la superava e puntava sempre ad Ovest sulle Acquis Segestanis
sive Pincianis (Terme di Segesta); dapprima superava il fiume Freddo con il ponte di
Marcione31 e, successivamente, il fiume Caldo con il ponte romano Bagni32. Il ponte, ad
un’arcata, è largo circa m 4,00 con una luce inferiore ai m 8,00 ed il paramento murario
ad opus incertum. Comparandolo con altri ponti analoghi lo potremmo classificare opera del II secolo a.C. (figure 37 e 38).
L’Itinerarium Antonini riporta una distanza tra Parthenico e Acquis Segestanis sive
Pincianis di mp 12; la distanza reale è pari a mp 18,9.
Superato il ponte Bagni e le Terme Segestane, quasi coincidenti, la strada (figura 39)
Figure 37 e 38.
Sopra: il ponte ad un’unica campata a tutto sesto
che supera l’asprezza delle rocce del fiume
Gaggera. In evidenza lo
sfregio del getto in cca sulla campata del ponte degli
anni ‘50 del XX secolo, per
rettificarne la sagoma e
portarla in orizzontale
Sotto: il ponte in una disegno della fine del XVIII
secolo.
31
SANTAGATI, Ponti, p. 168. Costruito appena a S dell’omonimo mulino ed a meno di 0,5 km a S della
confluenza del fiume Freddo e del fiume Caldo a circa 3,5 km ad O di Alcamo (TP) con una possibile
imposta iniziale di epoca romana. Gli ultimi resti del ponte crollarono intorno al 1985. IGM 257.I.NE
Segesta.
32
SANTAGATI, Ponti, p. 27 e 82. Sito sul fiume Caldo o Gaggera o Cannamasca nei pressi delle Aquae
Segestane a valle di Segesta. CARUSO-NOBILI, Le mappe ecc., p. 457, t. 348. BONANNO, Architetture del
paesaggio, p. 15. GIOVANNI U GGERI, La viabilità della Sicilia in erà romana, Mario Congedo editore,
Galatina (LE) 2004, p. 88. IGM 257.I.NE Segesta.
385
LUIGI SANTAGATI
Terme Segestane
Figura 39. Tra le Terme Segestane e Segesta.
s’incunea nella vallata aspra tra il monte Inici, ricco oggi di cave di marmo, e il monte
Barbaro su cui sorge l’antica città di Segesta (figura 39). Il sedime della strada antica
coincide per largo tratto con la Strada Provinciale 68 che, da Segesta, percorrendo quasi
sempre il fondovalle, punta verso Ummari traversando lande scarsamente abitate rotte
qua e là dalla sporadica presenza di qualche antico fondaco (figura 40).
Come ovunque in Sicilia, molti fondaci sono sorti sulle rovine o in continuazione
delle statio romane: un esempio per tutti il fondaco de’ Quadrari33 sull’antica via romana da Enna a Lentini sito a circa mp 7 da Enna, quasi al fondovalle, riutilizzato in ogni
epoca sino alla seconda metà del XX secolo.
Superata Ummari e senza particolari difficoltà altimetriche, la strada romana arrivava nei pressi dell’attuale Fulgatore. Lasciata prima di Ummari la S.P. 68, la rincontrava
con il nuovo numero 29 a poche centinaia di metri a Nord-Ovest di Fulgatore. Infine
incontrava l’attuale Strada Statale 115 solo nell’ultimo tratto verso Drepanis (Trapani),
già ai suoi sobborghi.
L’Itinerarium Antonini riporta una distanza tra le Acquis Segestanis sive Pincianis e
Drepanis par a mp 14. La distanza reale è pari a mp 23, 6 circa; probabilmente si tratta
di una misura riportata male. Forse si è persa una delle lettere X e la distanza è divenuta
SALVATORE SCARLATA E LIBORIO BELLONE, Un’ipotesi di percorso in età antica tra Catania ed Enna,
in Atti del convegno di studi a Caltanissetta Itinerari e comunicazioni in Sicilia tra Tardo-antico e Medioevo
del 16 maggio 2004, pp. 19-32.
33
386
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
Figura 40. Tra Segesta e Ummari.
Figura 41. Da Ummari a Trapani.
387
LUIGI SANTAGATI
Figura 42. Da Partinico verso Longarico.
da XXIIII invece che XIIII.
3° itinerario. Item ab Yccaris maritima. Da Partinico a Marsala per Longarico
Si ricorda che, partendo da Partinico, dopo alcuni km verso Sud la strada romana si
sdoppiava (figura 26 e figura 42). Ad ovest una strada portava verso Trapani via Alcamo
e Segesta; l’altra puntava su Marsala via Longarico.
Longaricus è un luogo abitato o addirittura una città di cui sappiamo ben poco.
Probabilmente è da identificare con l’insediamento poi romano sul Pizzo Montelungo a
circa 5 km a SSE di Alcamo (TP)34. Nel tempo cambiò nome in Bonifatus.
Il Longaricus dell’Itinerarium Antonini non è però da identificare con la città vera e
propria, quanto con una statio che facesse riferimento ad essa situata nel fondovalle. A
dar retta alle distanze riportate nell’Itinerarium la statio doveva trovarsi a 16 mp da
Parthenico e quindi, approssimativamente, a circa 2 mp a Nord del ponte Prestio35 sul
34
In periodo normanno (1176) fu identificato come Ban al Fhata ma già nel XI secolo era probabilmente
individuato come Bun.fât. Nel 1228 è identificato come hisn (castello) da Yaqut in MICHELE AMARI, Biblioteca
arabo-sicula, volume I, Brockhaus, Lipsia 1857, p. 186. Terra nel 1328. Nel 1397 si ricorda il castrum
Bonifati poi Marcatobianco. IGM 258.IV.NO Alcamo. Cfr LUIGI SANTAGATI, Viabilità e topografiadella
Sicilia antica. Volume II. La Sicilia alto-medievale ed arabo normanna corredata dal Dizionario topografico
della Sicilia medievale, Lussografica, Caltanissetta 2013.
35
SANTAGATI, Ponti, p. 396. Ponte sul fiume di Sirignano, affluente del fiume Freddo che diventa di
388
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
fiume di Sirignano (figura
43), all’incirca in corrispondenza del vallone Gorgo del
Drago.
Impossibile dire se anche
questo ponte avesse un’origine romana pur con un
nome così orecchiabile. Un
piccolo ponte è visibile utilizzando l’applicazione
internet Google Earth ma
non mi è stato possibile effettuare una ricognizione de
visu.
Da qui in poi la strada
correva senza incontrare
particolari ostacoli (figura
44) condividendo per mp 2
il sedime con la via di
Statio di Longaricus?
transumanza più importante della Sicilia, la Via di
jienchi36 (figura 45). La via
parte da Mazara del Vallo (il
ramo che stiamo considerando) e da Selinunte e diviene
unica a Corleone. Da lì, passando da Prizzi e dal Kassar
sopra Castronovo di Sicilia
Figura 42. Da Longarico verso Salemi.
da dove si stacca un ramo
che punta su polizzi Generosa. Il ramo principale scende a Vallelunga, passa da Villalba
e poi da Marianopoli e, poco prima di Caltanissetta, punta a Nord verso il fiume Salso
infine passando tra Calascibetta ed Enna. Da qui in poi la via va seguendo il corso del
fiume Dittaino e, arrivata a Catenanuova, punta decisamente a Nord verso Cesarò ormai
arrivata, dopo 276 km da Mazara del Vallo, agli stazzi estivi dei monti Nebrodi.
Superata Salemi la strada puntava sulla statio di Ad Olivam (figure 45 e 46) che è
stata identificata con i resti trovati in contrada Ranchibilotto a circa 4,5 km ad ONO di
Salemi (TP). L’Itinerarium riporta una distanza di mp 48 da Hyccara che in realta sono 50,5 e mp
36,7 da Parthenico.
San Bartolomeo o di Castellammare, sito a circa 6 km ad O di Camporeale (PA). La presenza del ponte è
confermata dai toponimi Case prestio ponte e Contrada Prestio ponte. IGM 258.IV.SO Monte Pietroso.
35
LUIGI S ANTAGATI,Quando le trazzere non si chiamavano trazzere, sta in Ricerche storiche e
archeologiche nel Val Demone, Atti del Convegno di studi di Monforte San Giorgio (Messina), 17-18
maggio 2014 a cura di Filippo Imbesi, Giuseppe Pantano e Luigi Santagati, Società nissena di storia
patria, Caltanissetta 2014, pp 107-128.
389
LUIGI SANTAGATI
Figura 43. Il ponte Prestio visto con Google Earth.
Da Ad Olivam la strada proseguiva verso Lilybeum (figura 46) senza incontrare un
abitato di qualche rilevanza e dopo circa mp 20,8 rispetto alle mp 24 riportate
sull’Itinerarium. In totale da Hyccara a Lilybeum sono mp 64,8 (mp 51 da Parthenico)
mentre l’Itinera ne indica mp 72.
L’itinerario Drepanis-Lilybeum
La distanza tra queste due città non è riportata sull’Itinerarium Antoni Pii bensì solo
sulla Tabula Peutingeriana.
Figura 44. Sulla strada per Salemi.
390
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
Figura 45. Da Salemi a Ad Olivam.
Figura 46. Da Salemi a Ad Olivam.
391
LUIGI SANTAGATI
La strada correva parallela al mar Tirreno che
proprio capo Boeo o Lilibeo di Marsala separa
dal Mediterraneo puntando decisamente a Nord
(figura 48).
Dapprima rasentava lo Stagnone di Marsala
scorgendo l’isoletta di Mozia racchiusa tra la
sponda siciliana e l’isola Grande che chiude lo
Stagnone ad Ovest.
Lungo la strada resta una sola testimonianza
delle distanze intercorrenti tra le due città che,
forse, erano in parte segnate da miliarii: dopo
poco più di mp 7 da Marsala ed ancora a mp 11
da Trapani si trova oggi la stazione ferroviaria di
Ragattisi dall’arabo Rahal tis’ah (casale del nono
miglio)36. L’una e l’altra misura sono sbagliate.
Subito dopo la strada incrociava il fiume di
Birgi che veniva superato con il ponte di Trapani37 di probabile imposta romana (figura 49) e
mentre la strada proseguiva verso Nord puntando su Trapani doveva ancora superare il fiume
Lenzi con il ponte della Xitta38 probabilmente
anch’esso d’imposta romana (figura 50).
Anche Racartisi, casale a circa 10,5 km a N di
Marsala, sulla strada per Trapani. In arabo Rahl tis’ah
ovvero Casale del nono miglio oppure della nona fermata.
Ricordata nel 1311. Si ricorda che in origine rahl significava
fermata (lungo la strada). Casale attestato già in epoca
romana e, forse, bizantina. Cfr SANTAGATI Viabilità II, p.
134.
37
SANTAGATI, Ponti, p. 508. Anche di Birgi sul fiume
Chinisia o Birgi riportato da Samuel von Schmettau, Carta
della Sicilia sta su La Sicilia disegnata. La carta di Samuel
von Schmettau, 1720-1721, a cura di LILIANE D UFOUR,
Società siciliana per la Storia Patria, Palermo 1995, t. 15,
nel punto dove il fiume è nominato Bilici. Distrutto durante
i lavori di arginatura del fiume effettuati nella seconda metà
del XX secolo. CARUSO -NOBILI, Le mappe ecc,. p. 463, t.
354. C ASAMENTO , La Sicilia ecc, t 2, p 13-4. Il ponte è
riportato da Tiburzio Spannocchi, Marine del Regno di
Sicilia, Madrid 1578, edito dall’Ordine degli Architetti della
provincia di Catania, 1993, tavola LVI, LX e
CXXI.Ordinazioni e regolamenti etc., 200 (1602) e 212
(1782). IGM 257.IV.SO Birgi Novo.
38
SANTAGATI, Ponti, p. 539. Sul fiume Lenzi. E’ riportato
sullo Schmettau (1718) t. 8, ma Xitta è segnata più a S del
corso del torrente che, nel corso XIX e XX secolo, ha
36
Figura 47. Da Ad Olivam a Marsala.
392
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
Ponte della Xitta
Ponte di Trapani
Figura 48. Da Marsala a Trapani.
393
LUIGI SANTAGATI
Figura 49. Il ponte di Trapani riportato da Tiburzio Spagnocchi (nel tondo in alto).
Figura 50. Il ponte della Xitta riportato sulla carta della Sicilia di Schmettau (1718), tavola 8.
Infine la strada, dopo aver incrociata mp 0,4 prima quella proveniente da Parthenico
passante per le Terme segestane, arrivava a Drepanis (Trapani) dopo mp 18,1 in corrispondenza dell’incrocio con la strada proveniente da Parthenico passante per
Castellammare del Golfo.
La Tabula Peutingeriana riportava la distanza di mp 18. Distanza perfettamente coincidente.
Conclusioni
Per quando riguarda le distanze totali proposte dall’Itinerarium Antonini abbiamo le
seguenti risposte:
- 91.6. Item a Lilybeo per maritima loca Tindaride (passante per le Terme di Segesta)
7. usque
mp CCVIII (mp 208)
Da Drepanis a Tindarite viene indicato un totale di mp 193, già difforme rispetto alle
mp 208 indicate al rigo 91.6: nella realtà abbiamo una distanza totale di mp 204.
deviato il suo corso. Epoca forse romana. C ARUSO-NOBILI, Le carte etc., p 480, t 371. IGM 248.III.SO
Trapani.
394
LA VIA CONSOLARE ROMANA VALERIA DAL PONTE SUL FIUME IMERA A MARSALA E TRAPANI
- 93.5. Item ab Agrigento Lilybeo mp CLXXV
(passante per Longarico). La
distanza da Panoruo (Palermo) a Lilybeum (Marsala) è data da una serie di distanze
parziali (mp 18 + 24 + 24 + 24) con un totale di mp 90. La distanza reale è pari a mp
86,5.
- 97.7. Item ab Yccaris maritima (passante per Castellammare del Golfo) sono
riportate una serie di distanze parziali (mp 12 + 15 + 18) che danno il totale di mp 45; la
distanza reale è pari a mp 44,4. Soddisfacente.
395
396
NUOVE RICERCHE E AGGIORNAMENTI INTORNO ALLE SPEDIZIONI DI NICEFORO II
GIORGIO MANIACE ALLA RICONQUISTA DELLA S ICILIA (X-XI SECOLO)
E
P IERO G AZZARA*
La battaglia di Rometta del 964 d.C.
Dopo sette mesi e mezzo di assedio, Taormina si arrendeva agli eserciti musulmani
di Sicilia al comando dell’emiro di Palermo, Ahmad ibn al Hasan. Era giovedì 25 dicembre
del 9621. Alla città fu posto un nuovo nome: non si chiamerà più Taormina ma Al
Mu’izziah, in onore del califfo fatimita d’Africa, Al Mu’izz. Adesso toccava a Erymata
(Rometta), piccola ma munitissima roccaforte sul versante tirrenico del messinese,
tributaria dell’Emirato di Sicilia dal 902, anno in cui si era arresa alle armate del
sanguinario principe d’Africa e di Sicilia, Ibraim, conquistatore e carnefice di Taormina.
A distanza di sessant’anni Rometta si trovò da sola a sfidare la potenza militare
dell’emirato siciliano, dove il giovane governatore Ahmad, aveva affidato al valente ed
esperto generale, Al Hasan ibn Ammar, il comando dell’esercito con il compito di ridurre
all’obbedienza la città ribelle. Dall’alto della loro turrita città, gli abitanti erano riusciti
a far giungere a Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente, una richiesta
d’aiuto. Richiesta che verrà gestita dal nuovo imperatore, Niceforo II Phōkas (963-969)
generale vittorioso sui fronti dell’Asia Minore contro le armi dell’impero islamico.
L’esercito musulmano raggiunse le contrade romettesi il 24 agosto del 9632. Iniziarono
subito gli assalti alle mura della roccaforte3 . Ma la posizione naturale del sito e le
fortificazioni di cui era dotata Rometta, uniti alla volontà di resistere degli abitanti,
resero vani gli assalti. Alla fine ibn Ammar decise di porre l’assedio4. Furono presidiati
i numerosi sentieri alpestri che valicavano i Peloritani oltre alla grande via che dalla
costa tirrenica portava a Rometta e che per buona parte costeggiava il torrente Saponara.
Da occidente vennero sbarrate le vie verso Monforte e quelle che si inoltravano nella
sottostante piana di Milazzo. Solo nell’estate del 964 Niceforo II riuscì ad inviare in
Sicilia gli aiuti, consistenti in una armata di forze terrestri di 40.000 uomini al comando
del giovane nipote e comandante di cavalleria, Manuele Phōkas, a cui si aggiunse una
poderosa flotta da guerra agli ordini dell’esperto eunuco Niceta.
* Archivio storico romettese.
1
G. COZZA-LUZI, (a cura di), Cronaca Siculo-Saracena di Cambridge, in «Documenti per servire alla
Storia di Sicilia», vol. II (1890), p. 77; N. DES VERGERS (a cura di), Nuova Raccolta di scritture e documenti
intorno alla dominazione degli arabi in Sicilia, Palermo 1851, p. 286.
2
Così an-Nuwayrī, in M. AMARI, Biblioteca arabo-sicula (BAS), E. Loescher, Torino 1881, vol. 2, p.
131.
3
Così An-Nuwayri, Ibidem.
4
Ibn al-Atīr, in M. AMARI, BAS, cit., vol. 1, p. 426.
397
PIERO GAZZARA
Svolgimento della battaglia secondo le fonti medioevali
L’esercito Bizantino sbarcò a Messina il 13 ottobre del 9645. Da qui marciò alla volta
di Rometta “con tutte le caterve; che non era mai venuta nell’isola tanta moltitudine
(d’armati)”6. Essendo venuti a conoscenza dei preparativi bizantini della spedizione in
Sicilia, gli Arabi avevano rinforzato l’esercito per l’assedio di Rometta con numerosi
reparti provenienti dall’Africa “nel mese di ramadan”7 e dalla Sicilia occidentale8. Inoltre
per svernare gli Arabi avevano fatto costruire un “qasr (castello)”9 per il generale, e
tende o baracche “bayt”10 per i soldati. Inoltre presidiavano con forti schiere le due gole
peloritane di Mîquś e di Dîmnaś o D.m.y.š11. Il comandante bizantino, conoscendo la
disposizione del nemico12, inviò delle unità d’assalto a forzare i due passi peloritani e
un’altra unità fu inviata sulla strada che porta a Palermo per tagliare la marcia ad eventuali
rinforzi provenienti dalla regione occidentale. Mentre egli stesso marciò contro il grosso
dell’esercito nemico che si trovava all’assedio di Rometta. Da parte sua, Ibn Ammar,
vedendo il nemico sopraggiungere, lasciò una forte schiera di fronte a Rometta e “si
avanzò contro gli Infedeli (bizantini) col (grosso dello) esercito, nel quale ognuno era
preparato a morire”13. L’attacco bizantino avvenne con sei squadroni che si avventarono
sui musulmani dando l’impressione di circondare il nemico. Iniziata la battaglia, “quei
di Rametta scendono e danno addosso a più vicini posti dei Musulmani per prendere
poi alle spalle il [grosso dell’] esercito; ma la schiera appositamente ordinata li respinse
e lor tagliò la via, sì che non poterono compiere il disegno loro”14.
I bizantini avanzarono baldanzosi e sicuri di sé con tutte le loro forze e macchine da
guerra15 al seguito. La battaglia (figura 1) divenne ben presto sanguinosa. I Musulmani
furono respinti nel loro accampamento, dove si accese un terribile corpo a corpo16 .
Anche il giovane generale bizantino alla testa della cavalleria entrò in battaglia. Presto
fu al centro della mischia e, benché molti nemici cercassero con le lance di ferirlo, non
vi riuscivano poiché era protetto dalla sua pesante armatura. Alla fine un fante musulmano
riuscì a colpire mortalmente il cavallo di Manuele che fu scaraventato a terra. Il giovane
patrizio si rialzò e continuò a combattere e ad incitare i suoi. Intorno a lui si inasprì
ancora di più la battaglia in un violento corpo a corpo. Infine, dopo essersi strenuamente
An-Nuwayri, in M. AMARI, BAS, cit., vol. 2, p. 131.
Ibn al-Atīr, in M. AMARI, BAS, cit., vol. 1, p. 426.
7
Ibidem.
8
An-Nuwayri, in M. AMARI, BAS, cit., vol. 2, p. 131.
9
Ibidem.
10
Ibidem.
11
Ibidem; nel codice A è riportata la voce .q.s, mentre in quello B b.n.f.s.;“D.mis è tradotta da M.
Amari in (castello) di Demona, vedi nota n. 2 in BAS, vol. 1, p. 132.
12
Ivi, p. 132.
13
Ibidem; anche Ibn al Atir, in M. AMARI, BAS, cit., vol. 1, p. 426; tutti e due gli autori riportano le
stesse azioni. Lo stesso Ibn Haldun, in M. AMARI, BAS, cit., vol. 2, p. 170.
14
Ibn al Atir, in BAS, vol. 1, p. 426; lo stesso an-Nuwayri, in BAS, vol. 2, p. 132: “scesero contro gli
assedianti che li fronteggiavano: e si venne alle mani”.
15
Ibn al Atir, in BAS, vol. 1, p. 426.
16
Ibidem; così anche an-Nuwayri, in M. AMARI, BAS, cit., vol. 2, p. 132: “i Musulmani si ritrassero
alle proprie tende”.
5
6
398
NUOVE RICERCHE E AGGIORNAMENTI INTORNO ALLE SPEDIZIONI DI NICEFORO II E GIORGIO MANIACE
Figura 1. L’esercito di Manuele sconfitto a Rometta durante la spedizione in Sicilia (25 ottobre 964).
La Miniatura (fol. 150r, inf.) mostra un gruppo di soldati di fanteria bizantina con le spade alzate
dietro una collina rocciosa (Rometta). Gli arabi indossano tuniche corte e turbanti, tenendo spade,
lance e scudi rotondi in attacco da tutte le parti. Da Synopsis Historiarum (BNE).
difeso, Manuele soccombé sul campo combattendo sino all’ultimo assieme ad un
manipolo di cavalieri scelti composto da giovani patrizi dell’Impero17.
L’insegna imperiale cadde nelle mani dei soldati musulmani e questo rappresentò il
segnale della disfatta per i Bizantini che senza più guida, iniziarono a indietreggiare
sino a volgere in fuga, incalzati e massacrati dai vittoriosi arabi. Il cielo improvvisamente
si oscurò e lampi e tuoni percorsero quelle contrade contribuendo ad aumentare il
disordine tra le schiere bizantine in ritirata. Molti dei fuggitivi, indietreggiando
disordinatamente, giunsero sull’orlo di un burrone18, dove caddero gli uni sugli altri
uccidendosi a vicenda. Sulla fossa colma di corpi senza vita dei vinti passarono al galoppo
sia i resti della cavalleria bizantina in fuga che i cavalieri nemici19. La battaglia durò
dall’alba fino al vespro e, durante la notte, i vincitori diedero la caccia agli sbandati che
cercavano scampo per sentieri “alpestri e burroni spaventevoli”20 sulle montagne vicine,
che non conoscevano e dove ben presto furono raggiunti e passati a fil di spada. Solo
una piccola parte dei bizantini scampò alla strage riuscendo a salire sulle navi della
Secondo Ibn Haldun fu il comandante musulmano Ibn Ammar ad uccidere personalmente in
combattimento il giovane Manuele Fokas.
18
Ibn al Atir, in M. AMARI, BAS, cit., vol. 1, p. 427; più prodigo di notizie An Nuwayri, in M. AMARI,
BAS, cit., vol. 2, p. 133: “piegando i fuggenti verso il luogo che parea piano, trovarono aspri sentieri e
arrivarono al ciglio di un gran burrone, sì profondo che parea un fosso; nel quale caddero e si uccisero
l’un l’atro, onde ne fu pieno quant’era lungo, largo e profondo, e i cavalli [dei fuggitivi e dei Musulmani]
galopparono sopra i cadaveri”. Sul burrone scrive lapidariamente anche Ibn Haldun, in BAS, vol. 2, p.
170: “parandosi loro dinanzi [nella precipitosa fuga] un burrone, cascaronvi dentro e i Musulmani ne
fecero strage”.
19
Così an-Nuwayri, in M. AMARI, BAS, cit., vol. 2, p. 133.
20
Ibidem.
17
399
PIERO GAZZARA
flotta che durante la battaglia si trovava impotente schierata nello specchio d’acqua del
golfo di Milazzo, proprio di fronte ai luoghi dello scontro21.
I vincitori raccolsero un ricco bottino: armi “in tal copia da non potersi noverare”22,
cavalli e “svariate e infinite ricchezze”23. Tra le cose preziose nel campo nemico si
trovò una spada di foggia orientale sulla cui lama era inciso in lingua araba: “questa è
spada indiana, pesa centosettanta mitqal e molto essa ha ferito dinanzi il profeta di
Dio, sul quale sia la sua benedizione e la sua pace”24. Sia che questa spada venisse
ritenuta appartenere al Profeta dell’Islam e sia che la impugnasse un suo discendente,
restava comunque una reliquia prestigiosa. E il fatto stesso che fosse recuperata dopo
una vittoria duramente conquistata assumeva un segno tangibile del compimento della
volontà divina di cui l’esercito musulmano di Siqilliya ne era stato il degno strumento.
Il cimelio assieme ai prigionieri e alle teste mozzate degli uccisi durante la battaglia fu
portato a Qairawan in dono al signore Fatimita, al-Mu’izz, successore della dinastia
fondata dalla figlia del Profeta, Fātima bt. Muhammad.
La gloria per le armi siciliane fu sparsa per tutto il dār alIslām. Esse avevano fermato
e sconfitto l’esercito imperiale di uno dei più temuti e pericolosi nemici dell’islam,
l’Imperatore degli infedeli, Niceforo II, lo stesso che aveva strappato all’impero islamico
l’isola di Creta e che era conosciuto come la morte bianca dei saraceni. Ma la guerra
siciliana fece un’altra vittima illustre: il vecchio condottiero Kalbita, Al Hasan ibn Alì.
Era egli il padre del signore di Sicilia, mandato dal Califfo fatimita in aiuto del figlio
alla testa di un forte esercito africano. Perse la vita a causa di una febbre maligna contratta
durante le operazioni belliche nel territorio di Rometta; ma altri riportano che non avrebbe
retto all’emozione suscitata dalla notizia della vittoria e del ritrovamento di un così
importante e sacro cimelio rappresentato dalla spada del Profeta.
Il luogo della battaglia secondo Michele Amari
Facendo affidamento alle informazioni contenute negli scritti degli autori arabi del
medioevo, Michele Amari ci ha lasciato un’ipotesi sui luoghi dove sarebbe avvenuta la
battaglia. Egli ipotizzò che l’esercito bizantino, al gran completo, quindi fanteria,
cavalleria catafratta, macchine da guerra e quanto serviva ad un esercito per essere
operativo, avesse raggiunto la costa tirrenica da Messina, conquistata senza colpo ferire,
seguendo la via marina dopo aver doppiato Capo Peloro per via terrestre. Il movimento
dell’esercito imperiale, come trae l’Amari dalle fonti arabe, avvenne di notte, tra il 24 e
25 ottobre del 964. Questa sorta di periplo terrestre della cuspide nord-orientale dell’Isola,
a nostro modesto avviso, ci sembra improponibile a causa della notevole distanza e
della natura dei terreni attraversati nella marcia.
21
Ibn Haldun, in M. AMARI, BAS, cit., vol. 2, p. 170, riporta una diversa versione: i fuggitivi bizantini
cercarono riparo a mare dove alcune scialuppe della flotta si erano avvicinate alla spiaggia per soccorrerli
ma alcuni arditi musulmani della schiera guidata dall’emiro Ahmad riuscirono a nuoto a raggiungere le
navi di soccorso e a farle affondare bucando loro la chiglia.
22
An-Nuwayri, in M. AMARI, BAS, cit., vol. 2, p, 133.
23
Così Ibn al Atir, in M. AMARI, BAS, cit., vol. 1, p. 427.
24
Ibidem; an-Nuwayri, in M. AMARI, BAS, cit., vol. 2, p. 134; tace Ibn Haldun, (BAS), vol. 2, p. 170.
400
NUOVE RICERCHE E AGGIORNAMENTI INTORNO ALLE SPEDIZIONI DI NICEFORO II E GIORGIO MANIACE
Figura 2. La battaglia di Rometta del 964 secondo l’Amari.
Ma ammesso che sia stato possibile, le schiere bizantine – continua a pensare l’Amari
- giunsero all’alba nei pressi dell’attuale centro abitato di Spadafora: località tirrenica
(figura 2) da dove partiva una strada semi-rotabile che portava a Rometta. Era l’unica
strada degna di questo nome, esistente nel 1854, cioè quando l’Amari iniziava a pubblicare
la sua monumentale opera Storia dei Musulmani di Sicilia.
Da Spadafora, tutto l’esercito salì, - secondo il noto arabista - diretto verso la roccaforte
assediata. Ma prima, doveva scontrarsi con l’armata saracena che, proprio nei pressi di
questa strada, aveva issato le tende del proprio accampamento. E lo scontro sarebbe
avvenuto - sempre secondo l’Amari - tra San Martino, attuale frazione del comune di
Spadafora, e la contrada romettese di Frantumeli: area descritta dallo stesso Amari con
queste parole:
“una pianura ritonda di tre o quattro miglia di diametro; in mezzo alla quale
spiccasi in alto una collina o piuttosto immane masso, che vi si poggia per un
sol viottolo aspro e faticoso di mezzo miglio; e la cima disuguale è tutta coronata
di mura. Quest’è Rametta. Il piano d’intorno sembra l’arena di un circo
apparecchiato ad eserciti per duellare a ultimo sangue”25.
Oggi l’area descritta dall’Amari si presenta scoscesa e con profonde scanalature
tagliata in due dall’arido corso del torrente Campo-Boncoddo. È difficile immaginare in
questa plaga disagevole tutto l’evolversi delle varie fasi della battaglia così come descritte
25
M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, Le Monnier, Firenze 1858, vol. II, p. 265.
401
PIERO GAZZARA
nelle uniche fonti a noi pervenute. La scelta dei luoghi indicati denota una deficienza
tattica per le armi bizantine poiché la sua proiezione sul terreno assume inevitabilmente
le caratteristiche di una perfetta imboscata senza scampo per le schiere di Bisanzio. Che
il generale bizantino, Manuele, fosse “d’animo bollente, testa dura e cieco valore”26
non fa una piega, ma è pur sempre difficile immaginare nella realtà un comandante,
quello bizantino, totalmente sprovveduto nonostante le sue decisioni prima della battaglia
fanno supporre che fosse tutt’altro:
- conosceva la posizione del nemico perché questo si trovava all’assedio di Rometta;
- aveva predisposto prima di partire da Messina un attacco a mo’ di diversivo contro
i due passi montani (Mîquś e Dîmnaś) per far intendere ai nemici un attacco dalla parte
dei Colli della dorsale peloritana;
- era arrivato sul versante tirrenico cogliendo di sorpresa l’avversario che non si
aspettava una minaccia proveniente dalla terraferma da oriente.
La decisione di attaccare i saraceni dalla marina fu deliberata dal comandante bizantino
e, arrivare a Spadafora, avrebbe significato inoltrarsi pericolosamente in profondità in
un territorio controllato totalmente dal nemico che occupava siti preminenti.
Ed ancora: le schiere bizantine dovendo salire su per la strada si sarebbero trovate
inevitabilmente non solo in posizione svantaggiata ma avrebbero esposto i fianchi agli
attacchi nemici da parte delle unità avversarie stanziate a Milazzo e di quelle che, ad
oriente, sbarravano la via del torrente Saponara, poste quest’ultime direttamente
all’assedio di Rometta. Contro l’ipotesi paventata dall’Amari gioca un altro elemento
importante ricavato dalle fonti. Allo scontro parteciparono reparti di cavalleria di entrambi
gli eserciti. E il terreno scelto dal nostro studioso per nulla si adatta oggi come allora, ad
operazioni di cavalleria.
Nuova ipotesi: località Mazzabruno
Stando non solo alle fonti ma anche alla conoscenza del territorio e dei luoghi
interessati, la descrizione della battaglia si addice viceversa ad un’area poco distante. In
direzione di levante, molto prima di Spadafora provenendo da Messina e a pochi metri
dalla spiaggia tirrenica, sorge il pianoro di Mazzabruno. Un limitato altopiano che si
eleva leggermente a partire dalla sponda sinistra dell’ampio tratto deltizio del torrente
Saponara.
L’Amari fu costretto a far giungere l’armata bizantina sino a Spadafora poiché,
all’epoca in cui scrive il nostro, l’unica strada percorribile, seppur con difficoltà per i
continui dislivelli che si dovevano affrontare con i carri a due ruote, era quella di
Spadafora - San Martino - Rometta. Ma nel medioevo, in alcuni documenti notarili è
documentata l’esistenza di un’altra strada mulattiera, una Via Regia27 che, dalla costa
tirrenica, costeggiando inizialmente un buon tratto del torrente Saponara, si inerpicava
sulle colline sino al monte di Rometta: era la via Messina che terminava nella rocca
26
LEONIS DIACONI, Historiae libri Decem et liber Velitatione Bellica, lib. IV, p. 66: “virum calentis
ingenii, rigidum, caeco impetu ferri consuetum” in Corpus scriptorum historiae byzantinae, Berlin 17761831.
27
A. GUILLOU, Les actes grecs de S.Maria di Messina, Tipografia Pio X, Palermo 1963, p. 187.
402
NUOVE RICERCHE E AGGIORNAMENTI INTORNO ALLE SPEDIZIONI DI NICEFORO II E GIORGIO MANIACE
Figura 3. Nuova ipotesi: area compresa tra i torrenti Saponara e Campo-Boncoddo (scala 1:10.000).
romettese davanti ad una delle due porte fortificate, detta per questo Messina. Le contrade
romettesi di Occhiazzi, Mazzabruno, Laino e Filari formano un piccolo altopiano che si
eleva a pochi metri dalla sottostante spiaggia di Due Torri, Terre Bianche e Fondaco
Nuovo. A oriente, il sito è limitato dal largo corso del torrente Saponara-Rometta, mentre
ad occidente il torrente Campo a sua volta lo separa dal crinale di contrada Casazza e
dal borgo di San Martino (figura 3).
In quest’area, nei pressi della costa, Ibn Ammar, dopo aver invano assaltato le mura
di Rometta, aveva deciso di passare l’inverno facendo porre le tende per acquartierare
le proprie truppe. Da qui, teneva sotto controllo un lungo tratto di spiaggia per un
eventuale sbarco nemico e intervenire in qualsiasi momento con celerità in caso di sortite
degli assediati fuori le mura.
Le armi di Costantinopoli arrivarono da dove nessuno se lo aspettava (figura 4). In
realtà, Manuele aveva attuato un piano audace ed imprevedibile, rischioso sì, ma adesso
era in pieno assetto di guerra, proprio di fronte all’accampamento musulmano. Il primo
scontro (figura 5) avvenne sull’ampio tratto del torrente, dove i musulmani furono costretti
alla battaglia dal tiro costante delle macchine bizantine che tiravano loro addosso. Dopo
il primo combattimento, i saraceni ripiegarono risalendo il leggero declivio di contrada
403
PIERO GAZZARA
Figura 4. La battaglia di Rometta secondo l’ipotesi Mazzabruno-Filari.
Figura 5. La battaglia di Rometta secondo l’ipotesi Mazzabruno-Filari. Disegno ricostruttivo della
prima fase della battaglia.
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NUOVE RICERCHE E AGGIORNAMENTI INTORNO ALLE SPEDIZIONI DI NICEFORO II E GIORGIO MANIACE
Figura 6 – La battaglia di Rometta secondo l’ipotesi Mazzabruno-Filari. Disegno ricostruttivo
della seconda fase della battaglia.
Filari incalzati dalla fanteria nemica. Il ripiegamento avvenne fin sul limite delle tende
dove i musulmani tentarono un’ultima resistenza. Nel frattempo anche i reparti di
cavalleria guadagnarono il pianoro dove entrarono in battaglia (figura 6).
Il luogo proposto per la battaglia di Rometta del 964, oltre a presentare caratteristiche
del terreno adatte alla descrizione fatta dalle uniche fonti in nostro possesso, si trova
vicino al mare, dove alcuni superstiti bizantini, a battaglia ormai persa, cercarono scampo
a nuoto per riparare sulle navi della flotta che aveva assistito impotente davanti allo
specchio d’acqua. Le contrade in argomento oggi formano l’entroterra di Rometta Marea,
popolosa frazione del comune di Rometta, dove in un prossimo futuro costituirà lo sbocco
naturale per lo sviluppo urbanistico della località marina. Oggi, sono terreni per la maggior
parte agricoli, dove l’ulivo testimonia il suo predominio tra le colture praticate (figura 7).
Dal punto di vista storico si segnalano alcuni ritrovamenti di frammenti di epoca
classica dovuti ad un insediamento di modesta entità in contrada Laino; suggestivo il
piccolo borgo di Filari/Vinci che sorge ai lati della vecchia strada medievale che
congiungeva i due centri di Calvaruso e San Martino. La zona è ricca di sorgenti d’acqua
(gibbione), mentre diversi toponimi indicano, in epoche passate, una frequentazione
intensa dell’area, quali Due Torri, Alifia, Terre Bianche, Fortino e Fondaco Nuovo.
Lo stesso toponimo Mazzabruno, forse, potrebbe evocare una lontana origine per
ricordare un fatto d’armi accaduto in quella contrada. Non per nulla tra le file che
405
PIERO GAZZARA
componevano l’esercito bizantino, vi erano forti contingenti provenienti dalla regione
medio orientale dell’Asia occidentale (Pauliciani, Armeni), dalla pelle di colore olivastro
e bruna.
La spedizione di Giorgio Maniace in Sicilia (1038-1040)
Un ultimo sforzo bellico dell’Impero bizantino per riappropriarsi della Sicilia si
verificò sotto Michele IV Paflagone che decise di proseguire il programma di conquista
del suo predecessore, Basilio II, approfittando di un persistente stato di crisi politica in
cui versava l’emirato di Sicilia. Infatti, nell’Isola, già da tempo, l’autorità del governatore
arabo (emiro) di Palermo era minata da un’insanabile lotta di potere sorta tra i massimi
rappresentanti amministrativi arabi (qaid) di Catania e di Enna, che tenevano i loro
territori non più come delegati dell’emiro palermitano ma come piccoli sovrani in aperto
antagonismo tra loro e con la stessa autorità centrale. Spaccatura che sfociava in scontri
armati, dando vita ad una vera e propria guerra civile fra gli Arabi di Sicilia. Per Bisanzio
l’occasione si presentava propizia per attuare una risoluta campagna di riconquista
dell’isola perduta.
L’impero non lesinò mezzi e uomini nel mettere in campo un’armata navale e terrestre
che fu inviata in occidente al comando del solito parente dell’imperatore, Stefano il
Calafato, coadiuvato da un abile ed esperto generale, Giorgio Maniace. A quest’ultimo
toccò la guida delle operazioni terrestri, mentre l’ammiraglio avrebbe garantito la
sicurezza sui mari. L’esercito imperiale era composto, oltre che da reparti regolari greci,
macedoni e pauliciani, anche da truppe stipendiarii, quali armeni, vichinghi e da un
buon numero di cavalieri normanni e longobardi del centro Italia. L’armata d’invasione,
proveniente dai porti della Puglia, si compattò a Reggio Calabria da dove, nell’estate
del 1038, attraversò lo Stretto e mise piede a terra sulla spiaggia di Capo Peloro, a nord
di Messina.
Secondo le frammentarie fonti, il numero dell’esercito bizantino ammontava a quasi
cinquantamila effettivi: quantità forse esagerata. Questa forza d’urto spazzò via la
guarnigione musulmana di Messina che, sprezzante del numero soverchiante degli
invasori, si era lanciata sul nemico appena sbarcato. La mossa coraggiosa, ma incauta
degli arabi, lasciò sguarnite le difese della città, che venne presa di slancio dalle più
agguerrite schiere bizantine. Ma Maniace non esultò troppo, poiché si rese conto che
nonostante la vittoria testé ottenuta e la conquista di Messina, i guai iniziavano proprio
in quel momento.
Un grosso esercito arabo proveniente dalla vicina base operativa di Rometta, si trovava
attestato minaccioso su tutta la dorsale dei monti peloritani che, simile ad una catena
naturale, separava e separa tutt’ora, la città dello Stretto dal proprio entroterra. L’esercito
saraceno occupava, da posizione dominante rispetto ai bizantini chiusi dentro Messina,
tutte le gole e i passi attraverso cui passavano le vie e i sentieri che aprivano il cammino
sia verso sud che verso l’occidente dell’Isola. Maniace intuì che il nemico attestato sui
colli non lo avrebbe attaccato, ma che si sarebbe limitato a controllare le mosse degli
avversari per impedirne la marcia verso l’interno dell’Isola. Tutto questo sarebbe durato
fino a quando non fossero giunti i rinforzi da Palermo per ricacciare in mare le forze
406
NUOVE RICERCHE E AGGIORNAMENTI INTORNO ALLE SPEDIZIONI DI NICEFORO II E GIORGIO MANIACE
Figura 7 - Nuova ipotesi: una veduta delle terre romettesi di contrada Mazzabruno.
bizantine. E qui, il generale attuò una diversa strategia rispetto a quella intrapresa
settantaquattro anni prima dal suo giovane collega, Manuele Fokas, il quale sfruttando
il nerbo del suo esercito, la cavalleria, aveva aggirato la massiccia catena montuosa
seguendo un tragitto più lungo, cioè bypassando i passi montani tenuti dai nemici. Questa
mossa, seppur rischiosa per il territorio attraversato, permise però a Manuele di giungere,
nell’ottobre del 964, inaspettato davanti all’accampamento nemico sulla costa tirrenica,
dove avrebbe potuto sfruttare la cavalleria.
Invece, questa volta senza tergiversare, Maniace decise di attaccare frontalmente i
valichi della catena peloritana, anche se da posizione svantaggiata. In fondo, la sua
armata poteva contare su molte unità di fanteria, più adatte a confrontarsi con eserciti
rivali su terreni accidentati e di montagna. Così fu. In breve i Saraceni furono investiti
da una massa urlante proveniente dal basso che lì impegnò in un durissimo scontro che
si allargò per tutti quegl’impervi luoghi. Alla fine l’eterogeneo, ma agguerrito esercito
bizantino riuscì combattendo a conquistare le vette della dorsale, liberando le vie
attraverso cui si riversarono i vincitori aprendosi la strada verso l’interno. Dopo questa
battaglia, per tutto il 1039 e l’inizio dell’anno successivo, i Bizantini, sotto l’accorta
guida di Giorgio Maniace, occuparono gran parte della Sicilia orientale, e a seguito di
un vittorioso scontro campale nei pressi di Troina, riuscirono ad ottenere ragione della
resistenza di Siracusa. Ma mentre le operazioni d’invasione si spostavano verso occidente
in direzione della capitale dell’emirato, Palermo, i latenti contrasti esistenti tra
l’ammiraglio Stefano, cognato dell’imperatore, e lo stesso generale, esplosero improvvisi.
La situazione precipitò quando l’ammiraglio accusò apertamente Maniace di alto
tradimento. Accuse che causarono l’allontanamento dalla Sicilia del generale che finì
in carcere a Costantinopoli. In poco tempo i bizantini di Sicilia furono ricacciati in mare
dalla controffensiva delle armi musulmane, rinforzate anche da numerosi contingenti
provenienti dal lido africano.
La strategia adottata dal generale bizantino ai colli peloritani è riscontrabile da una
fonte prodotta con un distacco temporale minimo rispetto agli eventi descritti. Infatti, la
407
PIERO GAZZARA
Figura 8 - I Bizantini guidati da Giorgio Maniace dopo aver conquistato Messina marciano contro
i passi montani controllati da Rometta. Miniatura (fol. 212r, inf) da Synopsis Historiarum (BNE).
fonte è rappresentata dalla sinossi della Storia di Giovanni Skylitzes del tardo XI sec.,
in una miniatura28, pregevole per aver raccontato in un unico fermo immagine diverse
azioni successive l’una all’altra: lo sbarco, la sconfitta della guarnigione araba di Messina
e il controllo dei passi da parte dei saraceni di Rometta. Infatti, nell’illustrazione miniata
(figura 8) sono visibili le navi imperiali vuote dopo aver scaricato sulle spiagge il loro
potenziale di guerra e i fanti greci pronti a marciare con le armi puntate in direzione
delle montagne, dove una torre presidiata da saraceni domina su quei luoghi montuosi.
La torre è indicata dal miniaturista con la parola epigrafica di Rema, ossia Remata. Il
testo, illustrato dalla miniatura, accenna al luogo della battaglia e alla vittoria dell’estate
1038: “conflictum ad locum cui Remata nomen, et victi Carthaginenses (saraceni),
eorumque tanta edita strages ut sanguine profluens inundaret”29.
Come ampliamento ho dimostrato in lavori precedenti30 che l’uso dei valichi, a sud
di quello di Portella San Rizzo (Sarrizzo), della dorsale dei Monti Peloritani, direttrice
Messina/Rometta (est-ovest), è da far risalire già in epoca antica, alle fasi di penetrazione
dei greci di Zancle verso i territori del versante tirrenico (quali, Monforte e Rometta dei
Siculi) ma anche alla ricerca di vie diverse da quella marittima per commerciare con le
popolazioni agricole della regione interna della Peloride. La ricerca di passaggi terrestri,
28
V. TSAMAKDA, The Illustrated Chonicle of Ioannes Skylitzes in Madrid, A. Press, Leiden 2002, p.
238: “To the right, the fortress of Remata is depicted, on the ramparts of which two Arabs appear (tà
Rìmata)”.
29
GEORGIUS CEDRENUS, Compendium Historiarum, Venetiis, 1729, t. II, p. 580.
30
P. GAZZARA, «Archivio Storico Romettese», Uniservice, Trento 2005, vol. 1, p. 32; ed ancora, Il
sistema delle fortificazioni di Rometta e i fatti d’armi: dai bizantini all’età moderna, in «Archivio Nisseno»,
n. 24 Suppl. (2019), vol. 2, pp. 419-437; ed ancora, La rivolta antispagnola di Messina e la battaglia di
Lombardello (1674), in «Archivio Nisseno», 23 (2019), tomo I, pp. 173-196.
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NUOVE RICERCHE E AGGIORNAMENTI INTORNO ALLE SPEDIZIONI DI NICEFORO II E GIORGIO MANIACE
Figura 9 - Le due vie con i due passi di attraversamento dei monti peloritani da Rometta a Messina
nella mappa in dotazione dell’esercito spagnolo al comando del marchese di Lede (1718).
se pur disagevole per gli eccessivi dislivelli da affrontare, permetteva pur sempre di
accorciare di molto la distanza tra Messina e il ricco territorio milazzese, soprattutto
nelle stagioni invernali quando il periplo di Capo Peloro diventava rischioso.
Le due vie alpestri erano, per conformazione orografica, le uniche possibili offerte
nell’area sommitale dei colli. Infatti, le vie di portella Croce Cumia (Messina-SantoBordonaro-Cumia-Rometta e/o Calvaruso-Saponara) e di passo Lombardello o Pizzo
Bandiera (Tremestieri-Larderia-Rometta) sfruttavano gli unici crinali e pendii che
tagliavano, sia dal versante tirrenico che da quello ionico, perpendicolarmente la catena
peloritana. Questo, oltre ad accorciare l’itinerario, consentiva di superare a monte alcuni
dei numerosi corsi delle fiumare e torrenti di fondo valle, piccoli e grandi che con i loro
corsi, soprattutto nella stagione delle piogge abbondanti, causavano non pochi problemi,
per le frequenti piene e le disastrose alluvioni, a chi viaggiasse seguendo la via terrestre
409
PIERO GAZZARA
litoranea31 .
E fu così che le due vie, rigorosamente pedonali e quindi mulattiere, furono utilizzate
sin dalle primissime frequentazioni umane della cuspide siciliana nord-orientale, e per
tutto il medioevo e la prima età moderna, e costituirono, soprattutto l’asse CumiaSaponara, gli itinerari preferiti per l’attraversamento di uomini e cose da Messina a
Milazzo, oltre ad essere alternative alle normali vie più lunghe, come quella tardoantica del Colle San Rizzo (Scala-Badiazza-Divieto). Chi non voleva affrontare i disagi
dei cammini di montagna, poteva sempre optare per la via marittima con navigazione di
cabotaggio, oppure scegliere la più comoda via terrestre seguendo l’antico corso della
Consolare Valeria, costruita intorno al 263 a.C., che valicava molto più a nord dei due
passi in questione32. E quest’ultimi sono stati percorsi da chi scrive, guidato da alcune
guide del luogo e documentati sempre dallo stesso in più sedi, tra le quali in occasione
della ricostruzione delle fasi dello scontro armato di Lombardello del 1674 o in altre
attività di ricerche.
A mio parere, sono questi i due passi sui quali si diresse l’attacco bizantino guidato
dal Maniace nel 1038 e sui quali, anni prima, nel 964, si era rivolta l’azione diversiva di
Manuele. L’importanza strategica dei due passaggi è perdurata nel tempo sino a giungere
agli ultimi anni del XIX sec. con la costruzione di una strada carrozzabile da parte del
Genio Militare che ne estese il tracciato lungo tutta la dorsale, fino a giungere alla
lontana Portella Mandrazzi33. Un documento d’archivio, pubblicato nel 201934, redatto
nel 1718 dallo stato maggiore dell’esercito spagnolo al comando del marchese di Lede,
ribadisce la funzione tattica di sbarramento della dorsale dei Peloritani35. Sulla mappa
militare (figura 9) sono tracciate chiaramente le due vie che conducevano a Rometta:
Croce Cumia e Lombardello. Questi due tracciati mulattieri, rappresentarono per
moltissimi secoli, sino alle soglie del ventesimo secolo, anche due arterie commerciali,
da e per Messina, per il trasporto di derrate alimentari, compreso il ghiaccio delle
numerose neviere e il legname della grande foresta dei monti peloritani; il tutto avviato
a dorso di muli guidati da intere generazioni di esperti bordonari messinesi, per lo più
residenti nei villaggi pedemontani (Bordonaro, Pezzolo e S. Stefano).
D’altra parte ancora oggi, chi si affaccia dal valico di Croce Cumia, vede aprirsi
davanti a sé un grandioso panorama che, in tempi passati, doveva suscitare in chi
provenisse da Messina, la sensazione di trovarsi all’entrata di quella vasta regione,
chiamata Val Demona, poiché con lo sguardo riusciva a spaziare sino alla lontana mole
innevata dell’Etna a sud, a Capo Calavà verso occidente e all’arcipelago eoliano a nord.
E, per come io penso, è da identificare con questo luogo il toponimo medievale di Demona
o Demenna, citato nelle fonti arabe del medioevo, corrotto dall’Amari nelle note con
31
Sulle alluvioni e sull’incidenza dei numerosi torrenti e fiumare della piana vedasi il mio saggio: La
piana di Milazzo: territorio e ambiente dall’antichità ai primordi dell’era moderna, in Atti del convegno
Sicilia Millenaria, Casa editrice Leonida, Reggio Calabria 2016, pp. 215-231.
32
Con molta probabilità lungo la direttrice San Michele-Portella-Gesso-Divieto.
33
Limite occidentale della catena montuosa dei Peloritani e l’inizio dei Monti Nebrodi, nonchè al
confine tra i comuni di Francavilla di Sicilia e di Novara di Sicilia.
34
P. GAZZARA, Il sistema delle fortificazioni, cit, p. 431.
35
ARCHIVIO GENERALE DI SIMANCAS, MPD, 15, 091.
410
NUOVE RICERCHE E AGGIORNAMENTI INTORNO ALLE SPEDIZIONI DI NICEFORO II E GIORGIO MANIACE
l’aggiunta di Castello, suscitando in tal modo una facile confusione con il sito della più
nota città perduta di Demenna, da ricercare invece altrove, più ad occidente e quindi da
non identificare con il passaggio alpestre. Stesso pensiero va riferito per l’altro toponimo
di Miqus, oggi quasi sempre identificato con Monte Scuderi, mentre in realtà sarebbe da
identificare con il passo di Monte San Calogero e con il centro abitato di Pezzolo, posto
più a sud del valico romettese con il quale era unito dalla strada sommitale. Da
quest’ultimo passava un importante sentiero, molto praticato sino ai primi decenni del
secolo scorso, e che conduceva attraverso vari innesti di sentieri, oltre che a Rometta, a
Monforte San Giorgio, citato nel XII sec. da Idrisi36. Il complesso sistema di sentieri fu
inglobato sul finire del diciannovesimo secolo dalla costruzione di un asse viario militare
lungo tutto il crinale della dorsale, dalla quale arteria stradale si ramificavano una serie
di assi secondari ortogonali che comunicavano con i centri peloritani dei due versanti,
oltre che con le postazioni militari dei forti umbertini.
36
M. AMARI, C. SCHIAPARELLI (a cura di), L’Italia descritta nel Libro di Re Ruggero compilato da Edrisi,
in «Atti della Accademia Nazionale dei Lincei» vol. VIII, Tipografia Del Salviucci, Roma 1883, p. 62.
411
PIERO GAZZARA
BIBLIOGRAFIA
M. AMARI, Biblioteca arabo-sicula (BAS), E. Loescher, Torino 1881, 2 voll.
M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, Le Monnier, Firenze 1858, 4 voll.
M. AMARI, C. SCHIAPARELLI (a cura di), L’Italia descritta nel Libro di Re Ruggero
compilato da Edrisi, in «Atti della Accademia Nazionale dei Lincei» vol. VIII, Tipografia
Del Salviucci, Roma 1883.
G. CEDRENUS, Compendium Historiarum, Venetiis, 1729.
G. C OZZA-LUZI, (a cura di), Cronaca Siculo-Saracena di Cambridge, in «Documenti
per servire alla Storia di Sicilia», Palermo 1890, 2 voll.
N. DES VERGERS (a cura di), Nuova Raccolta di scritture e documenti intorno alla
dominazione degli arabi in Sicilia, Palermo 1851.
LEONIS DIACONI, Historiae libri Decem et liber Velitatione Bellica, Lib. IV, in «Corpus
scriptorum historiae byzantinae», Berlin 1776-1831.
A. GUILLOU, Les actes grecs de S.Maria di Messina, Tipografia Pio X, Palermo 1963.
V. TSAMAKDA, The Illustrated Chonicle of Ioannes Skylitzes in Madrid, A. Press,
Leiden 2002.
412
IV. STRUTTURE ECCLESIASTICHE E STORIA
413
RELIGIOSA
414
UN PRIORATO CISTERCENSE DIMENTICATO: SANTA MARIA
MONFORTE SAN GIORGIO (ME)
DI
BONERBA
O
MINERVA
IN
GIUSEPPE ARDIZZONE GULLO*
Nella parte alta del torrente Niceto si apre una ampia vallata, Bonerba, chiusa da due
grossi mammelloni rocciosi, Coculu Catinotu e Rutta i Ciavuli. In questa valle
confluiscono le acque dell’affluente Cottaredda che scende dalle colline di Pellegrino e
dell’affluente Zaurrì che scende dai colli di San Pier Niceto. Anticamente questa vallata
era ricca di boschi e terreni coltivabili ed era attraversata da alcune trazzere che la
collegavano al grande bosco di Monforte ed all’altopiano di San Pier Niceto, contrada
Cavallari e contrada Cafurci, dove esistono grandi monoliti; la zona era sicuramente
frequentata dall’uomo fin dalla preistoria.
A monte della valle di Bonerba si trovano dei piccoli altopiani dai nomi alquanto
significativi: Contrada Dinari e Contrada Cottaredda, forse legati a qualche
rinvenimento, in antico, di sepolture ad enchytrismos (Cottareddi). Il nome di Bonerba
in alcuni documenti medievali viene citato come Minerva. Nella zona nella 1849 vennero
alla luce sepolcri di terracotta, vasi di pietra calcarea, medaglie e monete di argento e di
bronzo1. Malgrado numerose ricerche non si è riusciti ad avere maggiori informazioni
su questa scoperta. La dottoressa Maria Amalia Mastelloni ci ha informato del
rinvenimento nel 1854 di un tesoretto di monete mamertine. Le monete rinvenute in
questo ripostiglio furono circa 500 di cui oggi 28 sono conservate nel medagliere del
Museo Regionale di Messina; si tratta di conii mamertini di cui sei della zecca di Reggio
e ventidue della zecca di Messina2.
Questi rinvenimenti e la toponomastica dei luoghi fanno pensare ad una frequentazione
già in età greco-romana.
In merito al toponimo Bonerba o Minerva, come appare in numerosi atti, il sacerdote
don Nicola Pietro Chillè Priore di Santa Maria di Bonerba in una sua pubblicazione
edita a Messina nel 16603 scrive che gli anziani, appositamente interrogati, hanno
* Presidente del Centro studi storici di Monforte San Giorgio e del Valdemone.
1
La scoperta viene segnalata da VITO AMICO nel suo Dizionario topografico della Sicilia, a cura di G.
di Marzo, Palermo 1855-1856, vol.II, pag. 55.
2
A. M. MASTELLONI, Rinveninimenti monetali, sta in «Quaderni dell’attività didattica del Museo
Regionale di Messina, Numismatica, Archeologia e Storia dell’Arte Medievale», Ricerche e Contributi,
Messina 1997, pp 9, 42.
3
Don N ICOLAI P ETRI C HILLÈ , De Triumpho Nobilis, & Exemplaris Urbis Messanae quum primum
accepit Sacram Epistolam a Beatissima Vergine Maria Libri Quatuor et Alia Poemata Sacra, Messana, ex
Typographia Iacobi Mattheai, 1660. In questo volumetto a pag. 208 e seguenti si parla di Santa Maria di
Bonerba.
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GIUSEPPE ARDIZZONE GULLO
Figura 1. Il santuario di Santa Maria di Bonerba come si presenta oggi.
raccontato che nel luogo dove oggi è posto il Priorato anticamente sorgeva un tempio
dedicato al culto della dea Minerva.
Nei pressi del nostro Priorato esisteva un altro edificio religioso (San Nicolò del
Niceto) di cui le fonti sono avare di notizie.
Il Priorato di Santa Maria di Bonerba venne fondato nella seconda metà del XII secolo
da Bartolomeo De Luce, Conte di Paternò e Butera nonché barone della terra di Monforte4.
Questo signore, spinto da profonda fede cristiana, nell’anno 1179 fondava a Messina il
monastero cistercense di Santa Maria di Roccamadore5 nei pressi del luogo ove nel 1061
era sbarcato il conte Ruggero il normanno per dare inizio alla riconquista dell’isola dominata
dagli Arabi.
R. P IRRI, Sicilia sacra, disquisitionibus et notiss illustrata, ristampa anastatica della edizione
palermitana del 1733, Forni Editore 1987, pp. 1321 -1322
5
P. SAMPERI, Iconologia della gloriosa Vergine Madre di Dio Maria Protettrice di Messina, Messina
1990, Vol. I, pp. 297, 298. I Cistercensi raggiunsero il periodo di massimo splendore nel XII secolo grazie
all’impulso che diede all’ordine S. Bernardo. Nel 1119 l’abate Stefano Harding scrisse le regole che
imponevano la povertà più assoluta, proibivano gli studi profani e raccomandavano la sottomissione ai
vescovi. I Cistercensi vestivano una tunica bianca e conducevano una vita semplice dedita al lavoro ed alla
preghiera. I luoghi che venivano scelti per l’impianto dei monasteri dovevano essere isolati ma posti in
luoghi ameni e ricchi di acqua. Le chiese ed i chiostri dovevano essere privi di pitture e sculture per non
distrarre la vita contemplativa dei religiosi. La chiesa, priva di campanile, veniva costruita nella zona più
alta del complesso monacale, ad est ed ad ovest erano ubicate le stanze dei monaci e dei conversi. Questo
rigoroso sistema di vita venne riconfermato nel capitolo generale del 1134 ma iniziò a decadere nel XIV
secolo. Nel Valdemone l’ordine Cistercense aveva i monasteri di Santa Maria di Noara a Novara di Sicilia;
Santa Maria de Stella nel territorio di Troina; San Vincenzo di Messina; Santa Maria de Thermis a Castroreale;
Santa Maria de Nive a Francavilla; Santa Maria de Noaria presso Patti; San Nicola de Tripi; Santa Maria de
Bonerba presso Monforte; Santa Maria de Bethlem presso Santa Lucia a Milazzo e Santa Maria di
Roccamatore a Messina.
4
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UN PRIORATO CISTERCENSE DIMENTICATO: SANTA MARIA DI BONERBA O MINERVA
Figura 2. Estratto da PIRRI, Sicilia sacra, su Santa Maria di Bonerba.
Anche se le fonti non ci tramandano notizie circa la sua fondazione e dipendenza, ritengo
che il nostro Priorato fosse una dipendenza di quello di Santa Maria Roccamadore di Messina;
lo dimostrerebbe un documento del 1289 rogato a Monforte dal Notaio Michele de
presbitero Nicolao in cui appare tra i testimoni frater Petrus de Amodeo abbas Sancte
Marie Rocce Amadoris de Messana. Questo abbate era sicuramente presente a Monforte
per affari legati al nostro piccolo Priorato. Ritengo che quest’ultimo avevesse perso
importanza nel corso del XIV secolo, forse era stato abbandonato dai religiosi ma il
culto verso la Vergine era rimasto tanto che il Barone del luogo, Nicolò Castagna, nel
suo testamento del 16 gennaio 1424, lasciava alcuni beni per la celebrazione di messe.
Rocco Pirri nella sua Sicilia Sacra ci tramanda qualche breve informazione: scrive
che nella prima metà del ’400 era Priore fra Magnifico Cuminale alla morte del quale fu
nominato, dal barone del tempo, fra Giovanni di Pietro; la nomina venne confermata
dall’Arcivescovo di Messina l’8 gennaio 14806. Il Priorato di Maria SS. di Bonerba fu
riccamente dotato dal viceré di Sicilia e Barone di Monforte Nicolò Castagna il quale
donava tutti i terreni posti attorno alla chiesa che lo stesso aveva comprato da Pietro
Ferro7 . Questi terreni servivano all’autonomia del Priorato ed al mantenimento dei
religiosi che lo abitavano.
Chi erano i Cistercensi
L’ordine cistercense ebbe origine dall’abbazia di Cîteaux, in Borgogna, fondato da
Roberto di Molesme nel 1098; sorse all’interno della congregazione cluniacense, dal
desiderio di maggiore austerità di alcuni monaci e da quello di ritornare alla stretta
osservanza della regola di San Benedetto e al lavoro manuale.
L’ordine era organizzato in monasteri autonomi riuniti in congregazioni monastiche,
ciascuna delle quali dotata di costituzioni proprie e rette da un abate generale residente
a Roma. In Sicilia l’ordine si diffuse ai tempi di Ruggero il Gran Conte ed uno dei primi
R. PIRRI, cit., pp. 1321, 1322.
Il lascito venne effettuato per la remissione dei peccati del testatore e con l’obbligo di celebrare una
messa ogni domenica (Archivio Privato: documenti relativi alla chiesa di Maria SS. di Bonerba per gentile
concessione del proprietario).
6
7
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GIUSEPPE ARDIZZONE GULLO
monasteri fondati fu quello di Novara di
Sicilia nel 1137, poi beneficiato anche da
Ruggero II che lo aveva affidato a monaci
basiliani di rito greco.
Successivamente lo stesso Ruggero lo
affiderà all’ordine cistercense di rito latino
conferendo l’incar ico a Bernardo di
Chiaravalle. Questi mandò a Novara l’Abate Ugo proveniente dalla Calabria per cui
il monaster o nel 1172 entrava definitivamente sotto la giurisdizione cistercense come filiazione dell’abbazia di
Sambucina in Calabria. Il monastero venne
chiamato Santa Maria della Nucaria mentre
la chiesa era dedicata a Santa Maria
dell’Annunciazione.
Questo monastero aveva numerose
dipendenze: l’Abbazia di Santa Maria di
Roccamadore, a Messina fondata nel 1193
Figura 3. Firme in una pergamena del 3 aprile 1289.
per volontà Bartolomeo de Luci, signore
normanno; l’ Abbazia di Santa Maria della Stella di contrada Spanò posta tra Bronte e
Randazzo, fondata da Nicola di Troina nel 1263 ed aggregata nel 1310; la Chiesa di
Santa Maria ad Nives in territorio di Francavilla di Sicilia; la Chiesa di Santa Maria de
Thermis o di Sancta Maria in Vineis, posta nel distretto di Castroreale; la Chiesa di San
Nicola posta nel territorio di Tripi; la Chiesa di San Vincenzo, posta nel Bastione di San
Vincenzo di Forte dell’Andria a Messina. A Monforte è documentato il priorato di
Santa Maria di Bonerba; forse era pure cistercense la chiesa sacramentale, posta nel
paese, intitolata a Santa Maria della Nuchara dove esisteva un altare privilegiato dedicato
a San Michele Arcangelo. La chiesa venne abolita nella prima metà del ‘500 e tutti i
beni furono acquisiti dai cappellani della chiesa Madre di Monforte8.
Il programma dei cistercensi era molto rigido, prevedeva il ritorno alla stretta
osservanza della regola di San Benedetto per cui bisognava dedicare le giornate alla
preghiera ed al lavoro manuale dei campi.
Secondo la Regola il monaco cistercense doveva vestirsi in maniera molto semplice
ed era l’abate a fornire il vestiario.
L’abito era costituito da una tonaca di lana fermata in vita da una cintura o da una
corda sopra la cocolla che era una sopravveste con ampie maniche e cappuccio; questa
veniva indossata in momenti particolari come le sacre funzioni e le uscite dal monastero
che dovevano essere sempre motivate da necessità conventuali. Il capitolo XV della
8
Questa chiesa possedeva terreni in contrada Donna Luna o la Grattarola posti vicino al fiume detto
de li monaci, un altro terreno in contrada Zifrunti ed una casa a Monforte nel quartiere del Borgo. Nella
prima metà del ‘500 erano suoi cappellani i sacerdoti Paolo Trigo, Paolo Sframeni, Antonino Legio,
Coletta Guaetta e Battista Pollicino.
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UN PRIORATO CISTERCENSE DIMENTICATO: SANTA MARIA DI BONERBA O MINERVA
regola stabiliva che la tonaca doveva essere
pesante per l’inverno e più leggera per
l’estate. I religiosi ricevevano pure
indumenti per il lavoro, calzature, scarpe e
calze. Per dormire disponevano di un
pagliericcio e di una coperta di tela grossa,
un coltrone e un cuscino di paglia o di crine.
Per evitare il senso di proprietà era l’abate
che distribuiva tutto il necessario alla vita
monacale: cocolla, tonaca, calze, scarpe,
cintura, coltello, ago, fazzoletti e il
necessario per scrivere.
La vita quotidiana dei monaci era molto
rigida, fondata sulle sette ore dell’Uffizio
Divino: Lodi, Prima, Terza, Sesta, Nona,
Vespro e Compieta. La prima alzata era
verso mezzanotte per i giorni di Vigilia delle
feste principali e trovava giustificazione, al
di là del suo valore ascetico, nelle parole
del salmo 118, dove il profeta dice: “Nel
cuore della notte mi alzo a renderti lode”.
Secondo la stessa tradizione antichissima,
Figura 4. Incisione tratta da Silvestro Maurolico,
Mare Oceano di tutte le religioni del mondo. Messina, Pietro Brea 1613.
Figura 5. Tabella della vita quotidiana dei monaci
cistercensi.
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GIUSEPPE ARDIZZONE GULLO
gli intervalli che separavano le Ore dell’Uffizio erano consacrati al lavoro manuale o
alla Lectio Divina. Nella tabella (figura 5) sono elencate le ore delle levate per gli uffizi
divini nei mesi di giugno e dicembre che come si vede sono molto rigide. Si può notare
che la vita dei cistercensi era molto dura. Essi impiegavano il loro tempo in preghiere e
lavoro: coltivavano i campi, dissodavano il terreno, piantavano nuove colture,
bonificavano le terre circostanti ed amministravano con sapienza l’acqua del torrente
Niceto che utilizzavano per irrigare i loro possedimenti.
L’architettura dei cistercensi era molto semplice: le chiese dovevano essere edificate
con la massima severità e povertà, gli edifici erano ad unica nave e si collegava
direttamente con la zona destinata all’alloggiamento dei monaci, alla sala destinata al
pranzo ed al Capitolo. E’ in questa ottica che è stato realizzato il priorato di Santa Maria
di Bonerba come si vede nelle immagini riportate anche se l’edificio che è arrivato fino
ai nostri giorni forse non è quello originario in quanto, ritengo, che nel corso dell’ottocento
siano stati effettuati numerosi rimaneggiamenti9 ad opera di uno degli ultimi possessori
della chiesa.
Notizie storiche del convento
I documenti più antichi, compreso l’atto di fondazione, non ci sono pervenuti poiché
tutti i documenti d’archivio che si conservavano nel Priorato sono andati dispersi con la
vendita della chiesa e dei terreni da essa posseduti. Ritengo che alcuni di questi documenti
fossero custoditi nell’Archivio della famiglia Moncada, Principi di Monforte, ma anche
questo Archivio è andato perduto.
Recentemente, grazie all’interessamento di un amico10, sono riuscito a recuperare
alcune fotocopie di documenti ottocenteschi conservati da uno degli acquirenti dei beni
del Priorato. Questi documenti ci tramandano importanti informazioni sulle vicende
storico-religiose che hanno interessato la chiesa e le proprietà terriere possedute nel
XIX secolo. E’ interessante una sentenza emessa dal Tribunale di Messina circa i diritti
di patronato sull’edificio religioso e sulla nomina degli Abati.
Sicuramente nell’ottocento è nata una controversia giuridica circa il diritto di patronato
sulla chiesa. Il Principe di Monforte, per dimostrare i suoi diritti sul Priorato, fu costretto
a presentare una serie di documenti che iniziano dalla successione di Pina Castagna,
erede dello zio Niccolò Castagna Barone di Monforte; questi nel suo testamento aveva
stabilito che, per la remissione dei sui peccati, si celebrasse ogni domenica dell’anno
“una messa nella Chiesa di Santa Maria di Bonerba sita nel bosco di Monforte
assegnando tutti quei beni stabili comprati da don Pietro di Ferro”. Il documento
presentato dal Moncada continua con la cronologica dei passaggi di proprietà della
baronia di Monforte dal 1424 fino ai primi dell’ottocento11.
In una iscrizione posta nella base della statua a mezzobusto di Crispino Giorgianni posta accanto alla
porta della chiesa si legge: QUESTA EFFIGE/CHE L’ARTE CUSTODISCE A PERENNE / RICORDO
AI FEDELI LA MEMORIA/ DI/ CRISPINO GIORGIANNI/ CHE AL CULTO DI MARIA DELLA
MINERVA/ QUESTA CHIESA RIEDIFICAVA E DOTAVA/IN SUFRAGIO DI SE E DI SUA STIRPE.
10
Ringrazio il Dottor Pippo Pandolfo che mi ha procurato le copie dei documenti
11
Esiste pure una dichiarazione rilasciata dal Notaio della Regia Cancelleria di Palermo del 20 gennaio
del 1800 dove si dice che nella Regia Cancelleria non è stata trovata traccia del Priorato di Bonerba.
9
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UN PRIORATO CISTERCENSE DIMENTICATO: SANTA MARIA DI BONERBA O MINERVA
Figure 6 e 7. La chiesa come si presenta oggi.
A sinistra la pianta della chiesa.
In alto il caseggiato del Priorato di Bonerba. Sono
visibili costruzioni non inerenti alle antiche
strutture forse realizzate nei secoli a noi vicini.
In quel periodo la chiesa e le relative pertinenze
divennero elementi di servizio per l’agricoltura
che si esercitava nel luogo.
Il 9 Aprile 1614 il Barone Don Giuseppe
Moncada Castagna e Pollicino 12 avvalendosi dei diritti di patronato nominava,
per atti di notar Francesco Brigandì, Priore
il Sac. Don Vincenzo Moncada; il 4 giugno
1625 venne eletto un altro abate di cui non si
conosce il nome; il 10 febbraio 1635 la
Principessa Donna Flavia Moncada, per atti
di notar Filippo Fava di San Pier Monforte,
trasferiva la carica al Rev. Sacerdote
Nicolò Pietro Chillemi il quale assumeva
pure la carica del beneficio di San Nicola
del Niceto; il 5 Febbraio 1657 veniva
nominato nell’incarico il suddiacono don
Federico Moncada il quale riceveva conferma, con lettera del 1º giugno 1684, dalla Curia
Arcivescovile di Messina.
Il 1° Giugno del 1672 con lettera di istituzione canonica spedita dalla Curia Ar12
Il Moncada dovette aggiungere al proprio cognome quello di Castagna Pollicino per precise
disposizioni testamentarie dei baroni suoi predecessori.
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GIUSEPPE ARDIZZONE GULLO
Figura 8. Documento del 10 febbraio 1635: nomina ad Abate del
Priorato di Santa Maria di Bonerba e San Nicola del Niceto del
sacerdote Nicola Pietro Chillè.
civescovile di Messina
venne nominato Abate il
sacerdote don Francesco
Moncada. Il I5 settembre
1684 la principessa Donna
Francesca
Moncada
nominava per atti di notar
Diego Cutroni il Sac. don
Giuseppe Migliazzo.
Otto anni dopo, il 21
dicembre 1692, il Principe
don Pietro Moncada
nominava Priore il Rev.
dottore in medicina don
Giuseppe Isaya il quale
ricopriva anche la carica di
abate di San Nicola del
Niceto13 . Questi morì alla
veneranda età di 80 anni e
fu sepolto nella Chiesa
Madre di Monforte14.
L’11 giugno 1742 il
Principe D. Giovanni
Moncada nominava Priore,
per atti di notar Mariano
Visalli, il Sacerdote paler-
mitano don Gaspare Bruno15.
Il 15 febbraio del 1757 il Principe, per atti di notar Giuseppe Raffa di
Monforte, conferiva la carica al suddiacono don Federico Moncada. Nel 1811 la
carica veniva ricoperta dal Sac. Francesco Moncada dei principi di Monforte16.
Per finire, il 3 settembre del 1817 il principe Don Carmelo Moncada nominava, per
atti di notar Placido Sisto, Priore il Rev. Abbate Don Baldassare Barone 17 .
A.S.P., Deputazione del Regno, Riveli delle anime, Vol. 553, p. 5 e segg.
A.C.M.M., Defunti, Vol. 3, cc. 182v.
15
A.S.P., Deputazione del Regno, Riveli delle anime, Vol. 553, p. 35 e segg. Archivio privato: documenti
e carte sciolte (per gentile concessione).
16
Archivio privato: documenti e carte sciolte (per gentile concessione).
17
Tutte le notizie relative alla nomina dei priori del priorato di Bonerba sono tratte da un documento,
conservato in un Archivio privato, che mi è stato fornito in fotocopia dall’amico Pippo Pandolfo che
ringrazio per la preziosa collaborazione
18
Del Rev. Domenico Lo Gullo esiste l’immagine dipinta su tela conservata dal nipote dott. Antonino
Manlio. In calce al quadro si trova una iscrizione e lo stemma di famiglia: Rev. Sacerdote Don Domenico
Lo Gullo monfortese alunno del seminario di Santa Lucia beneficiale cappellano vice priore di Santa
Maria Minerva; parimenti cappellano di Sant’Antonio di Padova per la devozione del quale istruito,
13
14
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UN PRIORATO CISTERCENSE DIMENTICATO: SANTA MARIA DI BONERBA O MINERVA
Successivamente fu pure cappellano e vice Priore di Bonerba il Rev. Sac. Don Domenico
Lo Gullo18 appartenente ad una famiglia molto vicina a quella dei Moncada.
Da alcuni documenti recentemente consultati si evince che nella prima metà del
milleottocento il Principe di Monforte Don Carmelo Moncada Castagna Pollicino aveva
venduto i beni di pertinenza del Priorato ma si riservava i diritti di Patronato sulla chiesa.
Questo diritto venne contestato dal compratore per cui il Principe nel 1825, per far
valere i suoi diritti, dovette rivolgersi al Tribunale Civile di Messina tramite il suo
patrocinatore Antonino Magliarditi. In quella occasione fu costretto a presentare una
serie di documenti che dimostravano la legittimità del diritto di patronato per cui presentò
l’estratto del testamento del 3 febbraio 1424 di Nicolò Castagna redatto negli atti di
notar Filippo Gruny di Messina19.
Il Tribunale dopo aver analizzato tutti i documenti presentati, alcuni dei quali estratti
dall’Archivio Generale esistente in Palermo, emise sentenza favorevole al Moncada:
Il Tribunale Civile della Valle di Messina ritenendo i motivi elevati nella requisitoria del Signor Regio Procuratore dichiara il Signor Don Carmelo Moncada
Principe di Monforte legittimo padrone della Chiesa di Santa Maria di Bonerba
e della cappellania in essa fondata. Fatto e deliberato nella camera del consiglio
il giorno 23 aprile 1825. Dai Signori Marchese Costarinaldi Presidente, Don
Giacomo Fazio Giudice, e Don Giuseppe Sajo Giudice Supplente inteso il Signor
Regio Procuratore Don Paolo Cumbo e rappresenta Don Alberto Moschella
Cancelliere. Registrata in Messina li 25 maggio 1825 libro 3 volume 77 foglio
52 al r. 6100 pagati grani 60- Registrato in Palermo li 24 Gennaro libro 1 vol.
42 f.84 e 3 Ricevuti grana 20 per detto 49204 (2) Registrata in Messina il 20
Aprile 1825 il detto 5632 (3) Registrata in Messina 20 aprile 1825 il d. 4678.
(Documento I in Appendice)
Successivamente la famiglia Moncada ha ceduto i diritti di patronato a Don Nicolò
Mezzasalma Scullica il quale, dopo aver preso possesso della chiesa, elesse ad Abate il
chierico don Francesco Costa che, essendo minorenne, accettò l’incarico con
l’autorizzazione del padre. Dopo l’elezione i signori Costa il 15 giugno 1839 intimarono
al Sacerdote don Domenico Lo Gullo, quale celebrante delle messe in tutte le domeniche
e feste dell’anno, la consegna dell’elenco di tutti i sacri arredi, suppellettili, argenterie
ed utensili presenti in chiesa in suo possesso.
Già precedentemente, nel 1829, il Sac. Domenico Lo Gullo aveva redatto un inventario
dettagliato che aveva consegnato al commissario di S. E. Reverendissima il Signor Abate
Don Baldassare Barone Cassinese (Documento II in Appendice).
Lo stesso anno Don Pietro Polito quale procuratore di S.E. Reverendissimo Abate
don Francesco Moncada compilò l’inventario degli arredi di pertinenza della Venerabile
misericordioso nel procurare il bene, assiduo alla famiglia tuttavia quasi per il dolore dei suoi schiuse
l’estremo giorno, parimenti sindaco cattolico dei cappuccini della città di Rametta. Nato da nobilissima
famiglia si fece dipingere nell’anno 1800.
19
Il testamento si trovava transuntato in atti di notar Tommaso Ismidiri il 22 ottobre 1821.
423
GIUSEPPE ARDIZZONE GULLO
chiesa di S. Nicolò del Niceto che forse era una dipendenza del nostro priorato
(Documento in Appendice). Nel richiedere l’inventario e la successiva consegna di tutti
gli oggetti il Sac. Costa allegava l’atto di Morte del Rev. Don Baldassare Barone già
Abate dell’Abazia di Bonerba e della chiesa di S. Nicolò del Niceto quindi non più
titolare dell’Abazia.
Il 26 agosto del 1861 Don Giuseppe Mezzasalma, nella qualità di Abate e
procuratore della chiesa di Santa Maria di Bonerba, concesse la proroga ad un
contratto di affitto di un fondo con casamento sito in contrada Bonamì confinante
con i fondi di Antonino Ricciardi, dell’oratorio di Crispino e con il fiume di
Bonerba 20 .
Oggi la chiesa ed i resti del priorato sono in possesso dei discendenti del
proprietario terriero Crispino Giorgianni il cui mezzobusto, con iscrizione, si trova
accanto alla porta della chiesa.
Architettura della chiesa
La chiesa si presenta oggi ad unica nave, priva di ornamenti e fregi, con il tetto in
due falde con strutture in legno. Sull’altare maggiore, ove era posta la statua lignea della
Madonna, è collocato un dipinto ad olio ottocentesco. All’esterno della chiesa è posta
una lapide:
D.O.M.
TUTTE LE PERSONE CHE DIVOTAMENTE
RECITERANNO UNA SALVE REGINA A QUESTA
MIRACOLOSA IMMAGINE DI S. MARIA IN
MINERVA SEU BONERBA GUADAGNERANNO
OGNI QUALVOLTA
40 GIORNI DI INDULGENZA CONCESSA DA
MONSIGNOR MONCADA ARCIVESCOVO DI
MESSINA
L’edificio e l’annesso complesso monastico non presentano, oggi, le caratteristiche
originarie in quanto hanno subìto radicali trasformazioni per essere adattati agli usi più
agricoli che religiosi.
Come tutti gli edifici abbandonati, il complesso si presenta in stato di crescente
degrado, eppure la chiesa possedeva importanti rendite come dimostrano i riveli degli
anni 1748 e 1811. L’antico quadro della Vergine venne sostituito da una statua lignea
policroma di tipo popolareggiante dove la Madonna tiene assiso sul braccio sinistro il
Bambino benedicente.
Festeggiamenti in onore della Madonna di Bonerba
Ogni anno il 30 agosto si festeggiava solennemente la Vergine con la celebrazione di
una messa solenne e la successiva processione della statua lignea che era molto seguita
20
ASM, Notar Antonino Ponz de Leon, vol. 2013 atto 6, f. 13.
424
UN PRIORATO CISTERCENSE DIMENTICATO: SANTA MARIA DI BONERBA O MINERVA
Figura 10. Statua lignea della Madonna.
Figura 9. La facciata della chiesa oggi.
dagli abitanti della vallata e dai cittadini di Monforte e San Pier Niceto. La processione
partiva dalla chiesetta che costeggiava il lato destro del torrente Niceto, superava il
Coculo Catinotu, la contrada Vota Strippa (volta stretta) ed arrivava in contrada Trinità;
quindi ritornava alla chiesa percorrendo il lato sinistro del torrente passando da Rocca
Ciauli, fino a contrada Oliva, proseguiva per il carruggio di Zaurrì, contrada Liarusa
fino o Scoppu u Catauru, poi ritornava sul lato destro del torrente e rientrava in chiesa.
Durante il lungo percorso venivano sparati, per devozione, numerosi mortaretti
Data la lontananza dal paese, durante la festa, molti ambulanti si recavano sul luogo
ed approntavano dei posti di ristoro dove vendevano la famosa calia (ceci, fave, semi di
zucca e nocciole abbrustolite) e la carne a forno cotta su tegole (ciaramiti) in improvvisati
forni di mattoni e creta molto apprezzata dai visitatori che veniva sempre accompagnata
da un abbondante bicchiere di vino cerasuolo. I festeggiamenti si concludevano con i
fuochi d’artificio. Questi festeggiamenti si sono praticati fino agli anni ’50 del novecento,
mentre oggi di tanto in tanto viene celebrata la Messa.
Beni posseduti dal Priorato di Bonerba nel 1748
1. Un boschetto di ruvoli ed erbaggi in contrada Bonerba che produce ghiande ed
erbaggi per un capitale di onze 42 e tarì 25 che rende al 7% onze 3 ogni anno;
2. Un boschetto di 27 alberi di ulivi che fruttano 4 cafisi di olio ogni anno per un
capitale di onze 15 e tarì 6 che rende onze 1 e denari 2 valutando l’olio a tarì 8 il cafiso;
3. Un boschetto di 146 alberi di gelso tra grandi e piccoli che danno 100 sacchi di
fronda ogni anno valutata a tarì 1 il sacco con una rendita di onze 3 e tarì 10 ogni anno
considerando il capitale di onze 47 e tarì 17 al 7%;
425
GIUSEPPE ARDIZZONE GULLO
4. Quattro tumoli di terre seminatorie che fruttano tumoli 1 di frumento calcolato a
tarì 6 e capitalizzato al 7% danno un capitale di onze 2 e tarì 25;
5. Terre seminatorie nel territorio di Samperi in contrada Piraino che fruttano tumoli
4 di germano valutato a tarì 3 il tumulo con una rendita di tarì 12 che corrisponde ad un
capitale di onze 5 e tarì 21 considerando la rendita al 7%;
6. Fondo in contrada Vanelli con 17 alberi di ulivo tra grandi e piccoli che producono
3 cafisi di olio ogni anno, valutati come sopra, danno un capitale di onze 11 e tarì 12;
nello stesso fondo esistevano 7 alberi di gelso che fruttavano 6 sacchi di fronda valutata
a tarì 1 il sacco che davano una rendita di tarì 6 su un capitale di onze 2 e tarì 25; nello
stesso fondo era presente una vigna che fruttava tre salme di mosto ogni anno che venivano
valutate a tarì 8 la salma con una rendita annua di tarì 24 su un capitale di onze 11. e tarì
12; esistevano pure alberi da frutto che fruttavano tarì 12 ogni anno per un capitale di
onze 5 e tarì 21;
7. Un fondo in contrada Bonerba con tre alberi di gelso che fruttavano ogni anno 6
sacchi di fronda per un totale di tarì 6 su un capitale di onze 2. e tarì 25; nello stesso
fondo si trovavano 5 alberi di ulivo che davano 1 cafiso di olio ogni anno per un capitale,
ragionato sempre al 7%, di onze 3 e tarì 24.
Il Priorato di Bonerba incassava come rendite dal Rev. Tommaso David 15 sacchi di
fronda di gelso valutata a tarì 1 il sacco per un capitale al 7% di onze 8 e tarì 17;
incassava numerosi censi da varie persone al 5% per un capitale investito di onze 53 e
tarì 10.
Voglio segnalare che il rivelo del Priorato di Bonerba e quello di San Nicola sono
presentati insieme. Ivi si specifica che si spendevano per quattro messe il valore di 15
sacchi di fronda di gelso equivalente al capitale di onze 1 e tarì 27; si spendevano per
coltivare e raccogliere le olive e per le spese di trappeto tarì 2 ogni anno quale rendita di
un capitale di onze 15. 6 e per coltivare e migliorare la vigna tarì 20 equivalente alla
rendita ad 7% di un capitale onze 9 e tarì 15.
Per concludere i beni stabili e le rendite ammontavano a onze 242 e tarì 20. Le
gravezze ammontavano a onze 183 e tarì 28 con una differenza attiva di onze 58 e tarì
28.
426
UN PRIORATO CISTERCENSE DIMENTICATO: SANTA MARIA DI BONERBA O MINERVA
DOCUMENTO I
Messina, 18 febbraio 1825
Il patrocinatore del Principe di Monforte, Antonino Magliarditi, chiede al Tribunale
di Messina di esprimersi sulla legittimità del diritto di patronato sulla chiesa di Santa
Maria di Bonerba.
Signor Presidente Signori letta la domanda del patrocinatore del Principe di Monforte
tendente ad ottenere la dichiarazione della legittimità di quel patronato che egli intende
appartenergli seu così detto Priorato di Santa Mari di Bonerba esistente nell’ex feudo di
Monforte nel comune dello stesso nome. Visti gli atti e i documenti presentati atteso che
nella vendita del 1404 e nel privilegio che conferma la concessione dell’ex feudo di
Monforte in persona di Giliberto La Grua Castagna non si rinuncia ad alcun motto che
possa fare sorgere l’idea della preesistenza di questo beneficio al feudo di maniera che
non contiene elogi nella concessione la espressa transazione de Patronato dovesse questo
riguardarsi come riservato alla suprema regalia del Baronia e quindi legittimamente dal
feudatario esercitato altroché di fatto dirsi va sempre più a consolidarsi alla lettura del
testamento del 3 febbraio 1424 epoca posteriore a quella della concessione del feudo da
cui rilevasi che la chiesa sulla quale si esercita il diritto di patronato è stata appositamente
dotata da don Nicolò Castagna Barone di detto ex feudo.
Attesoche l’altro infrascritto del testamento transuntato il 1 ottobre 1521 nonché il
documento del di otto marzo 1553 e compilato sui capitoli originali esistenti nella Regia
Cancelleria di Palermo giustificano autenticamente il passaggio del suddetto ex feudo
alla famiglia di Don Federico Moncada di cui ha causa l’attuale Principe di Monforte
Don Carmelo Moncada e Pollicino = Atteso che il continuato servizio del Patronato di
cui si tratta, resta pure a sufficienza (…) mercé agli atti consecutivi di elezione dei
beneficiali (…) nella domanda. Attesoche dalla interruzione di tali atti senza (…) la
persona (…) di essersi potuto il feudo suddetto devolvere al fisco e quindi riconcedere in
epoca posteriore alla fondazione del Patronato. Che tanto la domanda per la esibizione
dei titoli, quanto l’altra per la discussione delli medesimi e per la impartizione della
corrispondente dichiarazione di legittimità sono stati prodotti nei termini stabiliti dal
Real Rescritto del 22 luglio del 1824. Per siffatta considerazione.
Visto il Real Decreto del 22 luglio 1818 e la Ministeriale del 23 novembre 1819. Il
Regio Procuratore dichiara non opporsi alla sopradetta istanza.
Dato dalla Regia Procura di Messina li 21 aprile 1825
Il Procuratore firmato Paolo Cumbo.
Il Tribunale Civile della Valle di Messina ritenendo i motivi validi nella requisitoria
del Signor Regio Procuratore dichiara il Signor Don Carmelo Moncada Principe di
Monforte legittimo patrono della chiesa di Santa Maria di Bonerba e della cappellania in
essa fondata.
Fatto e deliberato nella camera del consiglio il giorno 23 aprile 1825. Dai Signori
Marchese Costarinaldi Presidente, Don Giacomo Fazio Giudice, e Don Giuseppe Sajo
427
GIUSEPPE ARDIZZONE GULLO
Giudice Supplente inteso il Signor Regio Procuratore Don Paolo Cumbo e rappresenta
Don Alberto Moschella Cancelliere. Registrata in Messina li 25 maggio 1825 libro 3
volume 77 foglio 52 al r. 6100 pagati grani 60- Registrato in Palermo li 24 Gennaro libro
1 vol. 42 f.84 e 3 Ricevuti grana 20 per detto 49204 (2) Registrata in Messina il 20 Aprile
1825 il detto 5632 (3) Registrata in Messina 20 aprile 1825 il d. 4678.
DOCUMENTO II
Monforte, 14 Aprile 1829
Inventario
Consegna d’inventario che fa il signor Don Domenico Lo Gullo qual cappellano
addetto alla celebrazione delle S. Divine Messe nella Venerabile Chiesa di S. Maria di
Bonerba consegnato a me infrascritto quale commissionato di S. E. Reverendissima Signor
Abbate Don Baldassare Barone cassinese.
Tre carte di gloria quali restarono in detta chiesa;
Un messale acconciato esistente in detta chiesa;
Due cammici di tela con tre amitti, uno dei quali con uno amitto di musolina restarono
nella chiesa;
Una tovaglia nuova pell’altare con due di sotto restarono nella chiesa;
Sei rami nuovi con sue piedi di legno che restarono in detta chiesa;
Sei candelabri nuovi remasti in detta chiesa;
Due candelabri nuovi esistenti in detta chiesa;
Una bussola per conservare l’ostie nuova della chiesa;
Un calice con coppa d’argento, e patena d’argento addorata con piede di detto calice
di rame remasto in detta chiesa;
Due casubole una violace e l’altra fiorita, quella fiorita remasta in detta chiesa con
stola e manipolo e quella violace con stola rappecciata, ed in parte negra e manipolo
restò presso Don Francesco Visalli;
Un’altra casubola bianca propria di detto cappellano ed acconciata a spese di S.E.
Reverendissima Signor Abbate Don Francesco Moncada restò in detta chiesa;
Un corporale ed un sopra calice restò in detta chiesa;
Un crocifisso di rame nuovo restò in detta chiesa;
Una tovaglia per aspergersi le mani restò in detta Chiesa;
Tre campanelli una di fuori e l’altre due di dentro in detta chiesa ed in potere del detto
cappellano;
Quattro purificatori in detta chiesa remasti;
Due sopra ampolline remaste in detta chiesa;
La statua di Maria SS. col Bambino in detta chiesa:
Una cassettina per conservare i sacri arredi;
Due corone d’argento21 e la fiannacca con medaglia di argento esiste in potere di me
infrascritto suddetto di Visalli
† Sac. D. Francesco Visalli
428
UN PRIORATO CISTERCENSE DIMENTICATO: SANTA MARIA DI BONERBA O MINERVA
† Sacerdote Domenico Lo Gullo.
Lo stesso giorno e l’anno di sopra
Inventario che si presenta da Don Pietro Polito quale procuratore sostituto di S. E.
Reverendissima Signor Abbate Don Francesco Moncada di tutto ciò di pertinenza della
Venerabile chiesa di S, Nicolò di Nicita ed oggetti attinenti al trappeto del Cavaliero
oggi di spettanza di S. E, Reverendissima Signor Abbate Don Baldassare Barone Cassinese
cioè:
Un quadro di detto San Nicolò di Nicita;
Una campana piccola di fuori per suonare le Messe;
Una casubola d’asta rappecciata con stola e manipolo e sopra palla senza sopra calice
ed un corporale esistente;
Un calice con coppa d’argento e patena addorata e piede di rame;
Due purificatori di tela;
Un messale distrutto;
Una tovaglia di musolino;
Un cingolo nuovo;
Cinque rami vecchi di zambara;
La caldaja di rame, chiavi di ferro, capo ed una carriola restarono in potere di me Don
Pietro Polito da consegnarli a richiesta.
† Sac. Francesco Visalli
† Don Pietro Polito che consignai.
In un successivo inventario del 28 giugno 1838 firmato dal vice Priore dell’abbazia Santa Maria di
Minerva Bonerba seu Bonerba si specifica: “Numero tre corone cioè numero due per uso della festività di
detta Madonna di coccio d’ambra colla medaglia d’argento che tiene in mano la vergine SS.ma, e queste
corone li tiene in potere D. Francesco Visalli di Sampiero di Monforte per commissione dell’Eccellentissimo
Conte di S. Piero del fu D. Marco Moncada come procuratore generale del fu zia abbate e Priore D.
Francesco Moncada di detta Abbazia ed io come vice priore ho fatto in questi detto inventario e tutt’ora
si trova (…) nel sig. D. Francesco Visalli di Sampiero.”
21
429
GIUSEPPE ARDIZZONE GULLO
BIBLIOGRAFIA
AMICO V., Dizionario topografico della Sicilia, a cura di G. DI MARZO, Palermo
1855-1856, vol. I-II.
ARDIZZONE GULLO G., Monforte san Giorgio. Le tradizioni religiose, Monforte
1998.
ARDIZZONE G ULLO G., Guida Ragionata al Patrimonio Storico-Artistico di
Monforte san Giorgio, Messina 2002 e successiva ristampa 2014.
ARDIZZONE G ULLO G., La terra ed il Castello di Monforte dalle origini al
sedicesimo secolo, Monforte 2013.
Chille’ N. P., De Triunpho Nobilis, & Exemplaris Urbis Messanae quum primum
accepit Sacram Epistolam a Beatissima Vergine Maria Libri Quatuor et Alia
Poemata Sacra, Messana, ex Typographia Iacobi Mattheai, 1660.
Mastelloni A. M, Rinvenimenti monetali, sta in «Quaderni dell’attività didattica
del Museo Regionale di Messina, Numismatica, Archeologia e Storia dell’Arte
Medievale, Ricerche e Contributi», Messina 1997.
Pirri R., Sicilia Sacra disquisitionibus et notis illustrata, ristampa anastatica
della edizione palermitana del 1733, Arnaldo Forni Editore 1987, Vol. I-II.
Samperi P., Iconologia della gloriosa Vergine Madre di Dio Maria Protettrice
di Messina, Messina 1990.
DOCUMENTI D’ARCHIVIO
Archivio Chiesa Madre di Monforte, Registro dei defunti, Vol. 3;
Archivio di Stato di Messina, notar Antonino Ponz de Leon, vol. 2013;
Archivio di Stato di Palermo, Archivio Spatafora, vol. 258;
Archivio di Stato di Palermo, Deputazione del Regno, Riveli delle Anime, Vol. 553;
Archivio privato: documenti relativi alla chiesa di Maria SS. di Bonerba.
430
LA CHIESA DI SANTA MARIA LA VETERE A MILITELLO IN VAL DI CATANIA: DAI NORMANNI
ALLA RICOSTRUZIONE POST 1693
ELISA BONACINI E MICHELA URSINO*
La Chiesa di Santa Maria La Vetere a Militello (Figura 1) costituisce uno dei più
grandi esempi dell’architettura rinascimentale e tardo-rinascimentale rimasto in piedi,
seppur parzialmente, dopo il terremoto del 1693.
L’11 gennaio 1693 il terribile terremoto che devastò la Sicilia sud-orientale distrusse
la nostra chiesa, allora intitolata a Santa Maria della Stella. Crollarono rovinosamente
la navata centrale e quella settentrionale; rimasero in piedi la navata meridionale, la
sacrestia con la torre campanaria e il bel portale in stile tardo-gotico (Figura 2), ultimato
nel 1506, col protiro sorretto da due leoni stilofori1, opera che venne attribuita ad
Antonello Gagini da Salvatore Troia e dalla storica dell’arte Claudia Guastella2.
Fu così che si decise di trasferire il culto, insieme alle maggiori opere architettoniche
e storico-artistiche di pregio, nel nuovo santuario di Santa Maria della Stella, che fu
edificato più a monte a partire dal 17223.
Nel frattempo la vecchia chiesa di Santa Maria, divenuta appunto La Vetere, fu
ricostruita a una sola navata: furono chiuse tutte le arcate che separavano la navata
meridionale da quella centrale, creando un nuovo muro laterale settentrionale, ora esterno,
davvero affascinante (Figura 3), e furono rimontate alcune cappelle.
L’indagine condotta nel periodo Marzo-Settembre 2009 è stata effettuata dalla
Soprintendenza di Catania in occasione del P.O.R. 2000-2006, Misura 2.01, Circuito
Aree Archeologiche, Lavori di valorizzazione e fruizione dell’area archeologica,
monumentale e paesaggistica della Chiesa Museo Santa Maria la Vetere a Militello in
Val di Catania. In quell’occasione, le indagini archeologiche avrebbero dovuto riguardare
solo una sorveglianza delle attività di restauro architettonico, da svolgersi all’interno
della Chiesa.
Si comprese immediatamente, all’atto della rimozione del piano pavimentale lastricato
- il rifacimento settecentesco - (Figura 4), che le attività di indagine archeologica si
sarebbero rivelate essenziali per comprendere non solo la storia dell’edificio di culto,
ma anche l’intero insediamento umano medievale del complesso, che era già stato
* Archeologhe.
1
S. TROIA, La pala della Natività di Andrea della Robbia e la sua cappella in Santa Maria La Vetere
a Militello, in «Lèmbasi», I, n. 2 (1995), pp. 51-84.
2
Ivi pp. 58-59; GUASTELLA 1996.
3
S. DI FAZIO , La chiesa di Maria SS. della Stella in Militello: testimonianze storiche sulla ricostruzione
(1693-1757), Militello in Val di Catania 2006.
431
ELISA BONACINI E MICHELA URSINO
Figura 1. La Chiesa di Santa Maria La Vetere a Militello Val di Catania dopo l’intervento del 2009
(foto Antonio Pico).
ipotizzato all’epoca delle prime indagini archeologiche, condotte alla fine degli anni
’80 del secolo scorso dalla Soprintendenza di Catania, di cui Filippa Marchese diede
una preliminare notizia4. In quella occasione, il rinvenimento di un lembo di struttura
rupestre con traccia di affreschi, nell’area all’esterno della Chiesa, laddove un tempo si
trovava l’altare centrale, fece già ipotizzare alla studiosa la presenza di una fase normanna
dell’insediamento rupestre di Santa Maria La Vetere. Le ricerche sul terreno si tacquero
in realtà a lungo, fino alle nostre, ma nel frattempo lo studioso locale Padre Matteo
Malgioglio era riuscito ad aprire un primo squarcio su quelle iniziali intuizioni, grazie
allo studio di alcuni frammenti architettonici, rinvenuti durante le indagini di scavo, in
cui il motivo a croce stellata degli archivolti divenne un elemento stilisticamente ed
indubitabilmente qualificante di una fase squisitamente normanna 5 ; questo motivo,
associato a quello a bastone spezzato, anch’esso rinvenuto a Santa Maria La Vetere, è
stato recentemente ricostruito da Viviana Di Benedetto nel suo schema decorativo,
esattamente come esso era accoppiato nei portali in stile romanico dell’XI secolo6.
Fondamentale, durante le ricerche archeologiche, è stato l’approccio continuo con le
fonti storiche e archivistico-documentarie, tra le cui pieghe si rivelava necessario cercare
degli appigli, se non proprio delle conferme o delle smentite.
4
P. MARCHESE VIOLA, Militello in Val di Catania ed il santuario di S. Maria la Vetere, ricerche e scavi
nell’area dell’edificio pre-terremoto, in «Beni Culturali e Ambientali Sicilia», IX-X (1988-89), pp. 88-94.
5
M. MALGIOGLIO, Le origini normanne di S. Maria la Vetere a Militello in Val di Catania, Collezione
la Biblioteca di Don Francesco Branciforte 8, Mascalucia (Ct) 2006, pp. 32-37.
6
V. DI BENEDETTO, Il complesso di Santa Maria la Vetere a Militello in Val di Catania: nuovi dati dalla
torre normanna, Catania 2015, pp. 55-58.
432
LA CHIESA DI SANTA MARIA LA VETERE A MILITELLO IN VAL DI CATANIA
Figura 2. I rilievi che
decorano il portale, con
tracce dell’originaria
policromia, rappresentano, nella lunetta, la
Vergine in trono fra angeli;
negli stipiti, i busti di
Sibille e Profeti; nei
basamenti, le Storie dei
Santi Anna e Gioacchino,
genitori di Maria; sulle
guglie l’Annunciazione; e
nella cuspide, l’Incoronazione della Madonna (foto
Giuseppe Barbagiovanni).
Figura 3. Il muro
settentrionale della
navata meridionale
della Chiesa vista da
Nord (foto Antonella
Iacobello).
Figura 4. Rimozione del
pavimento settecentesco
della Chiesa (foto Elisa
Bonacini).
433
ELISA BONACINI E MICHELA URSINO
Non ci dilungheremo in questa sede sulle dispute in merito alla veridicità e alla
datazione dei diplomi e dei privilegi, di cui discuteremo nella pubblicazione definitiva
di questo lavoro. Tuttavia dobbiamo iniziare il nostro ragionamento partendo da un
diploma normanno di Ruggero II, datato al 1115 o 11307, che costituisce la prima fonte
documentaria non solo su questo edificio, ma anche sull’esistenza di un nucleo abitato
medievale preesistente, occupato dai cavalieri al seguito del Conte Ruggero. Il diploma
attesterebbe, infatti, l’esistenza, già sul finire dell’XI secolo, di un insediamento formato
da case arroccate e in grotta, che si sviluppavano tutto attorno al colle del Purgatorio.
Ma attesterebbe anche la presenza di alcuni luoghi di culto, fra cui nel diploma si cita
esplicitamente “Sancta Maria de Stellis in oppido Militelli”, della quale si doveva, per
diploma regio, sostituire il defunto presbitero Olphii de Messana con Bertrando de
Noto. Come ha ben ricostruito in tutti i suoi passaggi l’antropologo Berardino Palumbo,
Santa Maria si configurerebbe come chiesa di regio patronato8; essa pertanto ricadeva
fra tra le pertinenze del Re, che aveva il diritto non solo di nominarne il rettore9, ma di
seppellirvi anche i signori di Militello.
Le fonti ci documentano anche l’esistenza di un primo feudatario, il cui nome oscilla
fra quello di Simone del Vasto (o di Policastro), conte degli Aleramici di Sicilia e nipote
del Gran Conte Ruggero I10, o di un certo Alaimo da Lentini11. Senza scendere nel dettaglio
del dibattito relativo al primo feudatario di Militello e nemmeno in quello sull’origine
del toponimo Militellus, su cui le fonti antiquarie soprattutto locali hanno a lungo
dibattuto12, potremmo piuttosto considerare Militum Tellus come un toponimo parlante
nato dalla distribuzione di queste terre a opera del Conte Ruggero (e non del console
Marcello in epoca romana) in favore dei membri dell’esercito, come pare attestato proprio
dai cronografi di corte13. Stante questa ipotesi, l’origine anche toponomastica di Militello
potrebbe essere ricondotta alla politica di controllo normanna del territorio, che venne
intrapresa all’indomani della conquista della Sicilia.
Già nel 1180, come attesta un secondo diploma del re normanno Guglielmo II, la
Chiesa di Santa Maria sembra avesse necessità di interventi di restauro, se il re si
7
E. CASPAR, Ruggero II (1101-1154) e la fondazione della monarchia normanna di Sicilia, Roma-Bari
1999, p. 452; M. MALGIOGLIO , Le origini, cit., pp. 27, 32-37; M.A. ABBOTTO 2008, Militello in Val di
Catania nella storia, Mascalucia (Ct), p. 23; F. CHALANDON, Storia della dominazione normanna in Italia
e in Sicilia, Cassino 2008, p. 363.
8
B. PALUMBO, L’Unesco e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia orientale,
Roma 2003, pp. 82-83.
9
S. ABBOTTO, Militello in Val di Catania e la Madonna della Stella, Caltagirone 1954, p. 114; S.
TROIA, La pala della Natività, cit., p. 60.
10
F. MAURICI, Castelli medievali in Sicilia. Dai bizantini ai normanni, Palermo1992, p. 106.
11
F. CARUSO , Historia genealogica delle tre famiglie di Barresi, Santapau, e Branciforti, annodate in
un nodo indissolubile in Sicilia, di F. Caruso della città di Militello V. d. N., dedicata all’eccellenza Ill.ma
del signor Don Giuseppe Branciforti Principe di Bufera, Marchese di detta Città, in G. MAJORANA (a cura
di), Le Cronache inedite di Filippo Caruso, in «Archivio Storico della Sicilia Orientale», VIII, IX, X,
XIII. (1916), p. 20; M. GAUDIOSO, Per la storia del territorio di Lentini. Le baronie di Chadra e Francofonte,
in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», 1925 (rist. anast. Catania 1992).
12
F. CARUSO , Historia genealogica, cit., pp. 7-9.
13
G. MALATERRA, Ruggero I e Roberto il Guiscaro. De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae
comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, trad. V. Lo Curcito, Cassino 2002, p. 15.
434
LA CHIESA DI SANTA MARIA LA VETERE A MILITELLO IN VAL DI CATANIA
preoccupava di fornire un contributo di 15 once d’oro per questo scopo. Possiamo
immaginare che la chiesa fosse stata danneggiata dal terribile terremoto del 1169, che
distrusse Catania, Siracusa e la non lontana Lentini14.
Un documento sui generis è un privilegio federiciano del 1248: in realtà, la studiosa
Beatrice Pasciuta qualche anno fa ha dimostrato come questo privilegio fosse, piuttosto,
un documento trecentesco, falsamente pre-datato – e dunque da lei definito un falso
d’epoca – e confezionato per giustificare il passaggio di proprietà ai Camerana15. La
studiosa ha ricostruito, dal punto di vista archivistico, il trambusto politico-socialeamministrativo nei convulsi momenti di passaggio dall’epoca sveva a quella angioina.
Il privilegio del 1248 sarebbe stato prodotto ad hoc per sanare dei privilegi che si voleva
fossero considerati preesistenti. In esso l’imperatore Federico II in persona avrebbe
concesso al milite lombardo Bonifacio de Camerana, figlio di Oddone, col rango di
baronia, il casale et castrum di Militello, che fino a quel momento era forse appartenuto
alla famiglia di Alaimo da Lentini16.
Alla morte di Federico e nel trambusto generale seguito alla sua successione, con il
passaggio alla dominazione angioina, il casale sarebbe stato assegnato dallo stesso Carlo
d’Angiò ad Alaimo di Lentini nel 1266, per poi tornare nel 1292 nelle proprietà di
Bonifacio di Camerana, qualche anno dopo la caduta degli Angioni nel 1286 17 . Ai
Camerana, evidentemente, serviva una pezza d’appoggio per giustificare il possesso del
casale, di cui dovevano dimostrare di essere legittimi proprietari, per quanto stabilito
(falsamente) dallo stesso imperatore Federico II.
Questo falso storico di inizi Trecento ha attirato tanto la nostra attenzione, sia per la
sua storia così particolare (e a lungo considerato dalla storiografia locale come originale),
nella revisione delle fonti, perché in esso viene inclusa una cappella sive ecclesia,
identificata come Santa Maria18.
Nel 1303 Giovanni Camerana morì senza lasciare eredi, per cui il casale con la chiesa
passò a Giovanni III Barresi, attraverso la dote maritale di Maria Camerana, ultima
esponente della famiglia d’antiche origini lombarde, dando così inizio a una nuova
dinastia che governò a lungo Militello. Giovanni III lasciò il feudo in eredità al figlio
Abbo IV, che ne fu investito con un privilegio reale di Federico III d’Aragona, nel
1318. Il documento (che prendeva certamente per buono il falso privilegio federiciano),
confermava l’atto di dote di Maria nei confronti del marito, riguardante il casale di
Militello con tutte le sue dipendenze, includendo dunque anche l’Ecclesia Divae
14
U. FALCANDO , La historia o Liber de regno Sicilie e la Epistola ad Petrum Panormitane ecclesie
thesaurarium de calamitate Sicilie, Roma 1897, p. 164.
15
B. PASCIUTA, Due falsi privilegi federiciani su Corleone: la normativa cittadina e il paradigma della
falsificazione, in «Annali del Dipartimento di Storia del Diritto dell’Università di Palermo», XLVIII (2003),
pp. 216-217.
16
F. CARUSO , Historia genealogica, cit., p. 20; M. GAUDIOSO, Per la storia del territorio, cit., p. 20.
17
R. PIRRI, Sicilia Sacra disquisitionibus et notis illustrata, I, 1733 (rist. anast., Bologna 1987), p.
683; V. D’ALESSANDRO, Politica e società nella Sicilia aragonese, Palermo 1963, pp. 61 e 66; F. MAURICI,
Castelli medievali in Sicilia. Guida agli itinerari castellani dell’isola, Palermo 2001, p. 170.
18
J. L. H UILLARD-B REHOLLES, Historia diplomatica Friderici secundi, voll. I-VI, Parigi 1852-1861,
VI, p. 695.
435
ELISA BONACINI E MICHELA URSINO
Mariae19 . Fu probabilmente Maria, dobbiamo ipotizzare, a commissionare il falso
privilegio, documento necessario a confermare la sua dote a Giovanni III Barresi. L’atto
falsificato deve essere considerato di poco precedente il privilegio di Federico III
d’Aragona20 .
La Chiesa di Santa Maria, all’epoca, era già più di una semplice cappella,
forse una ecclesia, poiché doveva essere capace di contribuire alla raccolta delle
decime: lo confermano le Rationes decimarum Italiae, col censimento dei
collettori papali, in cui nel biennio 1308-1310 si documenta l’esistenza “apud
Militellum” di due chiese attive in tal senso, “S. Nicolai de eodem loco” e “S.
Marie de eodem loco” 21 .
Anni dopo, nel 1337, Abbo IV fece un vero e proprio salto di qualità dal punto di
vista urbanistico-amministrativo, ottenendo il privilegio di “circumdare moenibus” il
“casale suum dictum Militelli situ in Valle Nethi”, così anche rinforzando le difese del
suo castrum, il castello Barresi (poi Branciforti), che proprio agli inizi del 1300 era
stato costruito a monte di Santa Maria, secondo Ferdinando Maurici, sul modello dei
castelli svevi della prima metà del 120022. In questo modo, al centro di Militello venne
riconosciuto il rango di una terra del regno, con capacità fiscale e militare23.
Un vero Rinascimento in stile tardo-gotico Militello lo visse con i Barresi, soprattutto
Blasco II (1432-1455), Antonio Pietro (1455-1500) e il figlio di quest’ultimo Giambattista
(1500-1524).
D’altronde sappiamo che nel corso del 1400, la Chiesa di Santa Maria era divenuta
un centro rinomato se qui, come attestato persino da una concessione regia del 1446,
nello slargo davanti al sagrato si svolgeva una fiera franca, in occasione della festa
religiosa, che attirava molti forestieri.
Fu quello il periodo in cui Militello iniziò a uscire da una sua marginalità provinciale,
divenendo capace di importanti commissioni artistiche e partecipando, così, delle
temperie storico-artistica che attraversò la Sicilia all’epoca. Lo documentano commissioni
di pregio quali le sculture di Domenico Gagini, il ritratto del vicerè Speciale di Francesco
Laurana, il sarcofago in stile tardo-gotico di Blasco II, la Pala della Natività
commissionata alla bottega fiorentina di Andrea della Robbia e il portale di Santa Maria,
attribuito a Antonello Gagini.
La dinastia Barresi si estinse con il matrimonio nel 1571 tra Caterina, ultima
rappresentante, e Fabrizio Branciforte, principe di Butera e conte di Mazzarino: i
Branciforte, uno dei casati più importanti di Sicilia, furono signori di Militello per quasi
V.M. AMICO, Lexicon Topographicum in quo Siciliae urbes describuntur et Illustrantur, Catania,
1757, trad. a cura G. Di Marzo, Dizionario topografico della Sicilia, vol. II, Palermo 1859, p. 122; F.
MAURICI, Castelli medievali, cit., p. 170; MALGIOGLIO, Le origini, cit., p. 28; V. DI BENEDETTO, Il complesso,
cit., pp. 42-43.
20
B. PASCIUTA, Due falsi privilegi, cit., p. 25.
21
P. SELLA, Rationes decimarum Italiae. Sicilia, Città del Vaticano 1944, p. 98, nn. 1295 e 1297.
22
F. MAURICI, Castelli medievali, cit., pp. 170-172.
23
P. SELLA, Rationes decimarum, cit., p. 131, n. 1620; F. M AURICI, Castelli medievali, cit., p. 170;
M.A. ABBOTTO, Militello in Val di Catania nella storia, Mascalucia (Ct), 2008, p. 25; V. DI BENEDETTO, Il
complesso, cit., pp. 106-107.
19
436
LA CHIESA DI SANTA MARIA LA VETERE A MILITELLO IN VAL DI CATANIA
due secoli e mezzo, fino al 181224.
Se, da un lato, le fonti archivistiche ci hanno consentito di ricostruire il quadro
dell’esistenza di un luogo di culto dedicato a Santa Maria della Stella documentato sin
dai primi decenni del regno normanno, altre fonti di tipo antiquario ci sono state utili
per collegare i rinvenimenti archeologici a fasi edilizie documentate.
Una fonte di estremo interesse, al di là dei correttivi campanilisti di cui è stato a
volte accusato, è Pietro Carrera, il cappellano alla corte dei Branciforti, all’epoca dei
grandi Principi Francesco e Giovanna d’Austria, nonché sacerdote di Santa Maria, che
dunque conosceva bene. Le opere di Carrera sono rimaste inedite fino al secolo scorso.
La sua narrazione, ricostruita attraverso il ritrovamento dei suoi lavori da parte di
Giuseppe Majorana25 prima, e di Giuseppe Pagnano26 poi, ha inizio dal testamento di
Blasco I Barresi (1342-1393), che Carrera visiona da una copia in pergamena, che nel
1390 (corretto da un precedente 1391) fece un lascito alla chiesa, da lui descritta ancora
“di piccol corpo”27, senza escluderne tuttavia una maggiore antichità, sostenendo che
la chiesa “d’assai più innanzi abbia avuto l’origine della sua edificazione”28.
Carrera ci racconta che fu Blasco II, intorno alla metà del 1400, a iniziare il processo
di lunga (e vedremo spesso radicale) monumentalizzazione della chiesa, edificandovi
accanto nel 1448 la torre campanaria. Il falso federiciano degli inizi del Trecento definiva
la chiesa come una cappella: questa definizione ci è apparsa indicare non certo una
chiesa già monumentale, ma, evidentemente, un edificio di culto che tuttavia aveva
ancora piccole dimensioni e che i Barresi decisero di iniziare a ingrandire e abbellire.
L’opera di monumentalizzazione più imponente fu proseguita dal figlio di Blasco II,
Antonio, che secondo Carrera inaugurò il portico nel 1465, e dal suo successore,
Giambattista, che commissionò lo splendido protiro, ultimato nel 1506 (come attestato
dell’incisione all’interno dell’architrave del portale), a una delle più richieste botteghe
di rinomati artisti dell’epoca, i Gagini29. Evidentemente (e come poi documentato dalle
tracce archeologiche), tale monumentalizzazione dell’edificio, durata un sessantennio,
si concluse con la costruzione di un impianto a tre navate, con il portico di tramontana
sostenuto da archi a lato della navata settentrionale. Tuttavia, la chiesa costruita dai
Barresi subì un importante trauma, di cui racconta con parole accorate lo stesso Carrera
che lo visse e di cui ci fornisce conferma anche Rocco Pirri: nel 1618, un gravissimo
incendio distrusse la chiesa e il simulacro della Madonna della Stella30.
Incrociando così fonti storiche ed archivistiche da un lato, con le evidenze
archeologiche ed architettoniche in situ, di cui parleremo più in dettaglio, si è potuto
BOSCO 1983.
P. CARRERA, Chorographia Militellana ad Militellum patriam, ms. del XVI-XVII sec., in G. MAJORANA
(a cura di), Studi storici e giuridici dedicati ed offerti a F. Ciccaglione, Catania 1908, pp. 57-87; ID . ed.
1939.
26
ID . ed. 1998.
27
ID . ed. 1939, p. 150.
28
ID . ed. 1998, p. 37.
29
ID . ed. 1908, pp. 38-39; S. TROIA, La pala della Natività, cit.; C. GUASTELLA, Una officina di Talenti,
in «Kalòs» 36, pp. 20 21.
30
R. PIRRI, Sicilia Sacra, cit., p. 683.
24
25
437
ELISA BONACINI E MICHELA URSINO
ricostruire che la Chiesa, dopo l’incendio del 1618, attraversò un lungo cantiere di
ricostruzione ed abbellimento, che dobbiamo immaginare iniziatosi all’indomani, vista
l’importanza della Chiesa per la comunità e per i Principi (che qui venivano seppelliti)
e vista la nota munificenza di Francesco e Giovanna nella costruzione di chiese e
monasteri. Verosimilmente il cantiere sarà, dunque, stato iniziato sotto il Principe
Francesco e fu continuato alla sua morte, accaduta nel 1622, dalla moglie Giovanna.
Un blocco cantonale all’angolo sud-occidentale superiore, reca incisa la data 1632,
unica data, dopo quella del portale del 1506, che deve dunque segnare un importante
momento per la Chiesa, quello della sua ricostruzione, celebrata appunto con l’incisione,
forse la fine dei lavori di restauro (o almeno dell’impianto delle mura) dopo l’incendio.
I resti della decorazione secentesca della Chiesa lasciano solo immaginare quanto
dovesse essere ricca e fastosa. Fu ricostruita (e ne discuteremo le prove anche
archeologiche), secondo un nuovo disegno, in cui si ampliò la navata centrale, forse a
scapito di quella settentrionale, di cui restò certamente il portico; la navata si ergeva su
monumentali pilastri in pietra, intagliati con un motivo decorativo che sembrava imitare
le falde di damasco. I pilastri sorreggevano monumentali arcate, di cui più ampia quella
del transetto. Al di sopra delle arcate, dal lato della navata centrale, spiccava una teoria
di cariatidi, che nelle loro fattezze abbondanti si richiamano alla fertilità, alternate a
delle finestre a targa. Le arcate sorreggevano infine un tetto a capriate lignee.
Anche l’interno della chiesa venne abbellito: nell’arco del quarantennio intercorso
fra il 1620 e il 1660, Salvatore Troia è riuscito a documentare la dedica delle splendide
cappelle a portale, riccamente scolpite a rilievo nelle colonne e nelle trabeazioni, con
motivi tra cui girali fitomorfi e putti31.
Il verosimile aspetto esterno che la Chiesa aveva dopo il 1618 ci viene confermato
da un’altra testimonianza, questa volta visuale: in un dipinto del 1630, opera di G. B.
Baldanza, conservato al Museo di San Nicolò, si intravede in lontananza una Chiesa,
proprio quella di Santa Maria, affacciata con il suo portico sulla vallata sottostante.
Le nostre indagini sono state condotte sia all’interno della Chiesa che al suo esterno.
Le importanti scoperte all’interno della Chiesa, infatti, ci hanno convinto a intervenire
anche all’esterno in una ripulitura generale dell’area, in cui un tempo sorgevano la
navata centrale e quella settentrionale, alla ricerca delle poche labili tracce dell’originale
impianto e di ciò che quella situazione quasi interamente rupestre avesse ancora da
raccontare.
All’interno dell’unica navata superstite della Chiesa, quella meridionale, si è iniziato
con l’asportazione del pavimento settecentesco. Lo scavo al di sotto ha chiarito le più
antiche fasi dell’edificio, dell’insediamento rupestre e della storia stessa della comunità
militellese nei secoli passati. Sotto il pavimento e il suo massetto di terra e pietrame
(Figura 5), si è arrivati direttamente al piano roccioso che, una volta ripulito e interamente
scavato, è apparso nella sua reale consistenza: un piano quasi interamente intaccato
dall’apertura di numerose tombe e vere e proprie camere ipogeiche (Figura 6), utilizzate
come ossari di comunità, scavate nella roccia calcarea riadattando precedenti escavazioni
medievali preesistenti di tipo abitativo e cultuale.
31
S. TROIA, La pala della Natività, cit., pp. 62-64.
438
LA CHIESA DI SANTA MARIA LA VETERE A MILITELLO IN VAL DI CATANIA
Figura 5. Vespaio di pietre e allettamento di terra
al di sotto del pavimento settecentesco della
Chiesa (foto Elisa Bonacini).
Figura 6. Panoramica della Chiesa dopo la
ripulitura fino al piano roccioso (foto Giuseppe
Barbagiovanni).
aureole e sul lato a destra della Madonna,
Si è indagata l’area ad
Est, sotto l’altare posticcio
che qui era stato ricostruito
nel
secolo
scorso,
all’interno della Cappella
della Natività, che fu invece
rimontata in questa
posizione dopo il 1693, per
ricreare la cappella di un
altare ormai centrale: qui si
è rintracciato un massiccio
impianto di fondazione,
detto E-O (Figura 7), per
distinguerlo da quello N-S
rintracciato lungo il lato Sud
della navata, dopo aver asportato parte del
piano pavimentale all’altezza delle tre
cappelle laterali, qui ricollocate dopo il
terr emoto del 1693. L’evidenza
archeologica non ha lasciato adito a dubbi:
tali fondazioni furono realizzate dopo il
1618, come dimostravano strati anneriti
riconducibili allo stesso incendio (Figura
8). Queste fondazioni erano costruite con
sostruzioni murarie allettate con malta e
impiegando materiali di risulta: fra questi,
con un incredibile stupore, in una vera e
propria massicciata di riempimento che lo
aveva inglobato, venne fuori, fra lo stupore
di chi stava scavando, un pregevole lacerto
di affresco policromo su roccia, raffigurante
il volto della Madonna della Stella con
Bambino su trono (Figura 9), che è un
capolavoro e merita una digressione.
Raffigura il volto aureolato della
Madonna, conservatosi nella parte
superiore fino alle arcate sopracciliari,
circondato da una folta e morbida chioma;
a fianco, sul lato sinistro, si intravede una
seconda aureola, più piccola, che reca la
traccia di una capigliatura riccioluta, da
riferirsi al Bambino. Al di sopra delle
una cornice gialla bordata di rosso fa da
439
ELISA BONACINI E MICHELA URSINO
Figura 7. Traccia della fondazione E-W ai piedi
della Cappella della Natività (foto Elisa
Bonacini).
Figura 8. Tracce di bruciato, relative all’incendio
del 1618, nell’angolo sud-orientale della Chiesa,
a ridosso della Cappella della Natività (foto Elisa
Bonacini).
32
sfondo alla scena; la cornice è internamente
decorata da un motivo floreale ad otto punte
(stella) in bianco, mentre lo spazio fra i
petali è alternamente campito in blu e in
rosso. In parte la circonferenza delle aureole
arriva a coprire la porzione inferiore della
cornice, che sembrerebbe più corretto
interpretare come la spalliera del trono su
cui siede la Madonna, tenendo in braccio e
sollevato il Bambino. Il lacerto di affresco
conservava, anche al momento del suo
rinvenimento, una spiccata vivacità di
colori; i dettagli del volto della Madonna
ed i capelli delle figure non sono stati
completati ad affresco: sono la sinopia. La
qualità e la grazia delle fattezze del volto
della Madonna denunciavano da subito uno
stile ampiamente fuori dalla tradizione
rupestre medievale, soprattutto dell’area
iblea, quanto, piuttosto, la mano di un abile
e raffinato artista rinascimentale. Anche in
questo caso, Pietro Carrera ci ha fornito,
crediamo, una spiegazione. Nelle brevi
indicazioni fornite sulla chiesa prima
dell’incendio del 1618, Carrera descriveva
un altare dell’Assunzione della Madonna,
decorato dall’”istoria di lei dipinta nel
muro”32.
Nonostante
il
soggetto iconografico
qui r appresentato
riguardi Maria in
trono, e non elementi
della sua storia o della
sua Assunzione in
cielo, questa informazione ci è apparsa
immediatamente fondamentale per confermare un fatto strutturalmente ed artisticamente incontrover-
P. CARRERA, Chorographia Militellana, cit. p. 40.
440
LA CHIESA DI SANTA MARIA LA VETERE A MILITELLO IN VAL DI CATANIA
Figura 9. Lacerto di affresco su roccia raffigurante la Madonna
della Stella (foto Ilaria Scalia).
Figura 10. Il sistema architettonico del XV-XVI secolo rinvenuto
rimuovendo la Cappella di Santa Maria La Stella (foto Giuseppe
Barbagiovanni, elab. Elisa Bonacini).
tibile: nel 1618 esisteva un
apparato decorativo di tipo
rupestre ancora visibile e
non ancora ultimato prima
dell’incendio.
Esisteva, dunque, una
porzione della chiesa che
sfruttava ancora pareti
verticali di roccia.
Non è stato, dunque,
difficile, circoscrivere la
cronologia di queste fondazioni: il terminus post
quem è l’incendio 1618, il
terminus ante quem è il
cantonale con la data del
1632.
Come è evidente nella
figura 8, abbiamo rinvenuto
traccia
dell’incendio,
smontando la fondazione NS a ridosso della Cappella
di Santa Maria della Stella.
Per realizzare queste
fondazioni si sono letteralmente sigillate alcune tombe preesistenti, che sono poi
state indagate rivelando
sempre l’utilizzo ad ossario
in epoca cinque-secentesca,
e sono state inglobate anche
alcune situazioni architettoniche precedenti.
Ai piedi della Cappella di Santa Maria la Stella ad Est, smontata la fondazione N-S,
è venuto alla luce un sistema architettonico piuttosto complesso, che ha rivelato numerosi
rimaneggiamenti (Figura 10) e, soprattutto, ci ha chiarito del tutto quale fosse l’impianto
planimetrico della chiesa quattro-cinquecentesca dei Barresi.
Proprio a parete, nello spazio compreso fra le colonne della Cappella, si è rinvenuta
una struttura muraria in alzato (USM 63), rivestita inferiormente (USM 66) da una
fascia di intonaco rosso e una nerastra (USR 65) e decorata da due colonnine (Figura
11), poggianti su un plinto. La presenza dell’accenno di una gradinata (USM 56 e USM
64) ci ha confermato un dato architettonico importante: lo spazio fra la navata e la
sacrestia era qui accessibile attraverso una apertura. Quanto notato con lo scavo
archeologico, trovava conferma con l’analisi dello spazio della sacrestia alle sue spalle,
441
ELISA BONACINI E MICHELA URSINO
che rivelava, qui murata, la traccia di una
apertura con arco a sesto acuto.
Allineato con il gradino inferiore,
abbiamo rinvenuto un bel plinto mistilineo
a profilo spezzato (USM 57), in Figura 6,
che recava evidenti le tracce di bruciatura
riconducibili all’incendio del 1618. Questo
elemento, così come la forma stessa delle
colonnine e la qualità e fattura della pietra,
trovavano diretto riscontro con ciò che
rimane di più evidente della chiesa quattrocinquecentesca, ovvero il portale del
protiro, riconducibile al lungo cantiere di
abbellimento della chiesa iniziato da Blasco
Barresi e inaugurato da Giambattista nel
1506.
A questo punto, è stato possibile anche
dare una collocazione stilistica e
cronologica ai lembi di pavimento in lastre
quadrangolari di pietra calcarea (definito
USR 10), che si è rintracciato in alcuni punti
della chiesa, direttamente allettato sul piano Figura 11. Struttura muraria USM 63 decorata
roccioso adeguatamente livellato e a con colonnine, del XV-XVI secolo, rinvenuta
copertura anche delle fosse scavate nella rimuovendo il muro di fondo di chiusura della
roccia (Figura 12). Questo è il pavimento Cappella di Santa Maria La Stella (foto Giuseppe
Barbagiovanni).
della chiesa ricostruita dopo il 1618 su cui,
in un momento che non è stato possibile Figura 12. Lembi della pavimentazione
indicare, è stata riposizionata, rimontandola secentesca USR 10 sulle fosse delle tombe, su cui
secondo il disegno originario, la USM 58, poggia il muro di tompagno di una delle arcate
una struttura curvilinea (stilisticamente in (foto Elisa Bonacini).
fase con i plinti e con il
protiro), forse qui ricollocata (anche con una
rinzeppatura) con funzione
di balaustra o pulpitum.
Lo scavo delle camere
ipogeiche e delle tombe a
fossa ci ha chiarito ancora
altri passaggi. Abbiamo
infatti individuato alcune
strutture murarie preesistenti in pietrame e impasto
cementizio che, all’atto della posa del pavimento USR 10, furono solo rasate
442
LA CHIESA DI SANTA MARIA LA VETERE A MILITELLO IN VAL DI CATANIA
superiormente, lasciandole in posto, anche
perché riutilizzate come spallette di fosse
funerarie. Si tratta della USM 51, posta tra
la Tomba 4 e il muro dell’arcata tra 1° e 2°
pilastro, r iutilizzato come spalletta
meridionale della fossa terragna in cui
venne poi ricavata, nel ‘700, la Cripta 2.
La USM 51 rivelò, immediatamente, un
orientamento di poco difforme rispetto a
quello della navata (Figura 13).
Il secondo lacerto è costituito dalla USM
82, che era a sua volta stata inglobata nella
fondazione E-O, nello spazio che abbiamo
potuto indagare fra la seconda e la terza
cappella laterale (Figura 14). Una volta
collocati in pianta i lacerti, è stata
confermata l’ipotesi che si aveva durante
lo scavo: che si trattasse delle fondazioni
della Chiesa costruita a metà del ‘400 da
Blasco II Barresi, poi ultimata da Antonio
e Giambattista, in asse con gli altri resti
murari esterni e con l’orientamento stesso
Figura 13. USM 51, divenuta spalletta della
del portale. La ristrutturazione che la Chiesa
Cripta settecentesca 2 (foto Elisa Bonacini).
di Santa Maria della Stella con i Principi
Branciforti subì dopo l’incendio del 1618 fu davvero ab fundamentis.
L’indagine archeologica ha poi consentito di portare a vista tutte le camere ipogeiche
scavate nella roccia, orientate E-O con apertura ad O. Quando la Chiesa crollò
parzialmente, con il terremoto del 1693, l’intervento di restauro coinvolse anche le
antiche fosse. Fu così che la maggior parte venne chiusa, furono ricolmate di terra,
mista a pietrame e materiale architettonico e dell’apparato decorativo, proveniente dal
crollo della chiesa stessa (Figura 15). Questo materiale fu letteralmente ributtato dentro
le fosse, riversato direttamente sugli ossari. Così, cercando di rendere strutturalmente
più resistente la chiesa (edificata su una vera gruviera di tombe), si collocò tutto il
pietrame e il terriccio necessario a creare un compatto strato di livellamento del piano,
su cui poggiare la pavimentazione settecentesca. Lo spessore dei vespai di pietrame e
della terra (Figura 5), sopra il piano di roccia, era di circa 30 cm.
Non ci soffermiamo in questa sede sulle indagini antropologiche sui resti umani e
sui corredi delle tombe, datate fra XVII e XVIII secolo, che contenevano ossari quasi
sempre putrescenti e periodicamente svuotati; merita invece una digressione la tipologia
dei reperti qui rinvenuti e in attesa di pubblicazione definitiva dello scavo e del catalogo.
La maggior parte delle tombe conteneva, infatti, ossari (si tratta di centinaia di
individui per ogni tomba). Le ossa, mescolate alla terra, erano putrescenti. Solo in un
caso si sono individuati tre scheletri in connessione anatomica.
443
ELISA BONACINI E MICHELA URSINO
Figura 14. USM 82 sul lato
meridionale della navata (foto
Elisa Bonacini).
Figura
15.
Frammenti
architettonici di varie epoche
provenienti dal riempimento
delle tombe, esposti dentro la
Chiesa di Santa M aria La
Vetere (foto Michela Ursino).
Figura 16. Reperti rinvenuti nelle tombe (ceramiche, rosari, reperti vitrei, croci e medagliette) esposti
dentro la Chiesa di Santa Maria La Vetere (foto Michela Ursino).
444
LA CHIESA DI SANTA MARIA LA VETERE A MILITELLO IN VAL DI CATANIA
Si trattava per lo più di povera gente (le cronache del tempo hanno confermato come
la mortalità a Militello nei secoli XVI-XIX fosse molto elevata; carestie, malattie infettive,
febbri, peste, hanno spesso dimezzato la popolazione), i cui resti venivano ammassati
nelle tombe che, probabilmente, venivano periodicamente svuotate e le ossa, nel corso
dei secoli, gettate nella vicina Grotta dello Spirito Santo (vera e propria fossa comune
all’aria aperta).
Poveri erano i corredi, con materiale genericamente databile al XVII-XVIII secolo
(Figura 16): qualche piccolo monile (anellini, orecchini), qualche rosario con croce,
molte medagliette devozionali con raffigurazione di santi (di cui si è potuta apprezzare
la campionatura, con ben 66 esemplari rinvenuti, fra cui si sono potute distinguere la
Madonna di Loreto, San Cristoforo, San Francesco, Sant’Antonio da Padova, San Luigi
Gonzaga ma anche medagliette giubilari), numerosi spilli (per appuntare il velo ai capelli
o le medagliette alle vesti), molte monete (ben 196 e tutte praticamente illeggibili all’atto
del rinvenimento per lo stato di forte corrosione dei metalli, qui spiegabili per l’usanza
apotropaica dell’obolus carontis, ancora in voga in pieno Rinascimento).
Sono stati rinvenuti numerosi grani di rosario in avorio decorato da punzonature o
grani neri in gaietto - forse più verosimilmente pertinenti a collane -, versioni povere di
prodotti più sofisticati, come quelli spagnoli in ambra nera; l’osservazione di questi
reperti potrebbe far pensare a una eventuale loro produzione locale.
Nonostante non si possa in questi casi affermare con certezza se si tratti di manufatti
volutamente deposti negli ossari come corredo dei defunti, in ricordo di antiche tradizioni
cultuali, oppure di residui di oggetti utilizzati a fine liturgico, ancora fino al XVIII
secolo è comunque comune negli ossari la associazione con croci, rosari, lampade e
calici, spesso utilizzati come lucerne o contenitori di acqua benedetta. Una tale
associazione potrebbe avere anche avuto, in un contesto iniziale di sepoltura individuale,
anche una maggiore caratterizzazione sacerdotale, che in ossari misti non ci ha permesso
una identificazione del defunto.
Tra i reperti ceramici, oltre la grande quantità di frammenti riconducibili alle
produzioni calatine monocrome o decorate in blu, blu e verde ramina, blu e giallo ferraccia
(Figura 16) o azzurro, si segnalano pochi altri esemplari riconducibili ad altre e precedenti
produzioni. Pochi anche i frammenti attribuibili a produzioni invetriate e a
protomaioliche. Tra le invetriate bisogna segnalare esclusivamente un minuto frammento
notevolmente devetrificato riconducibile a una produzione arabo-normanna (dalla US
54 nella Tomba 12) e uno di forma aperta con decorazione in bruno manganese sul
corpo ceramico (Tomba 6, US 86), mentre la maggior parte delle attestazioni è per lo
più da ricondurre a produzioni medievali e post-medievali di ceramiche da fuoco
invetriate. Un frammento di forma aperta decorata in bruno manganese (Tomba 1, US
18) e uno di brocca, riconducibile alla produzione Gela-Ware per la presenza della
decorazione in tricromia bruno-verde-giallo (Tomba 20, US 106), costituiscono gli unici
esempi di produzioni protomaioliche databili alla seconda metà del XIII secolo, rinvenuti
nella navata meridionale.
Solo due esemplari attestano la presenza di maiolica a lustro della produzione
valenzana matura databile alla seconda metà del XV secolo (il RS 94 dalla US 27 nella
445
ELISA BONACINI E MICHELA URSINO
Tomba 3, con iscrizione
cufica, e il frammento di
ciotola con decorazione a
foglie di cardo dalla US 81
nella Tomba 9).
Fra
i
frammenti
architettonici, oltre ad un
ulteriore frammento di
cornice architettonica
decorata dal motivo stellato
di tradizione normanna
(Figura 15), appaiono
significativi, per una ipotesi
Figura 17. La Tomba 4 in fondo alla navata meridionale (foto ricostruttiva dell’apparato
Giuseppe Barbagiovanni, elab. Elisa Bonacini).
architettonico quattrocenteFigura 18. Area della struttura rupestre con tracce di una morbida sco, anche alcuni frammenti
scalinata, intagliata dallo scavo di fosse successive e tracce di di sculture raffiguranti dei
canalette e buche sul piano di roccia (foto Giuseppe leoni, rinvenuti negli strati
Barbagiovanni).
di r iempimento delle
fondazioni di USR 10 (un
frammento del collo fino
alla bocca, colta nell’atto di
ruggire, una zampa, una
mensola raffigurante la
porzione anteriore di un
leone accovacciato) che,
possiamo immaginare,
verosimilmente decorassero
i portali laterali della Chiesa
oppure facessero parte
dell’allestimento scultoreo
interno e, per qualche
motivo (forse anch’esso riconducibile all’incendio), dismessi perché danneggiati e riusati
come materiale di riempimento.
Alcuni oggetti rinvenuti, piattelli in maiolica, grani e croci di rosari, medagliette,
così come frammenti dell’apparato architettonico, sono oggi esposti in un piccolo ma
significativo allestimento dentro la Chiesa.
Solo due tombe, con coperture di volte a botte in pietrame e gesso incannucciato,
rese accessibili da botole nel pavimento, furono in quella fase riadattate a Cripte (2 e 3
nella navata e 1 in sacrestia), e sono state ripetutamente aperte ancora durante il 1800.
Piuttosto rilevante è apparsa, per l’imponenza dell’escavazione e la sua posizione
frontale rispetto all’altare ad E, la Tomba 4 (Figura 17), una grande tomba a camera
ipogeica (m. 2,97 NS x m. 2,11 EO), con volta a botte in pietra, utilizzata come ossario
446
LA CHIESA DI SANTA MARIA LA VETERE A MILITELLO IN VAL DI CATANIA
e ricavata in parte tagliando
alcune fosse precedentemente scavate nella roccia
(a NE e SE la Tomba 23 e la
Tomba 24; a NO la Tomba
26).
Nell’impianto secentesco, il pavimento USR 10
poggiava direttamente su
questa volta e sul piano
roccioso livellato; lastre più
ampie chiudevano gli
imbocchi.
Le fosse intaccate dal Figura 19. L’area delle navate centrale e settentrionale della
taglio della Tomba 4, infatti, Chiesa, distrutta dal terremoto del 1693, e la torre medievale, dopo
la ripulitura (foto Giuseppe Barbagiovanni).
avevano a loro volta
distrutto delle scalette (Figura 18), i cui gradini erano scavati nel piano roccioso e che
non avevano alcuna funzione cimiteriale, in origine, ma erano in piena relazione con un
edificio cultuale precedente, parzialmente rupestre, che è stato accertato dallo scavo
condotto all’esterno della chiesa (Figura 19), laddove sorgeva la navata centrale: qui
l’edificio di culto, correttamente datato da Filippa Marchese all’epoca normanna, aveva
in parte distrutto un insediamento rupestre preesistente, di tipo abitativo, costituito da
piani di roccia a livelli differenti raggiungibili da scalette e da sistemi di condutture e
pozzi, scavati nella roccia.
L’area esterna era originariamente occupata dalle navate centrale e settentrionale, di
cui resta a vista traccia dell’impianto. Dopo una ripulitura generale per consentire di
rilevare tutte le sepolture e le tracce murarie rimanenti, si è concentrata l’indagine
nell’area dell’altare centrale. Qui è stata messa in luce la porzione di una preesistente
struttura rupestre, già rintracciata negli anni ’80, decorata da pitture ad affresco, poi in
parte inglobata dalle strutture successive e obliterata dalla costruzione di un’ampia Criptacolatoio. Una volta ripuliti e consolidati i lembi di affresco, è apparsa invece forzata
l’ipotesi della datazione all’età normanna delle tracce dell’affresco absidale dell’edificio
rupestre33, per il quale abbiamo potuto solo autopticamente, insieme alla restauratrice
Ilaria Scalia, verificare la sovrapposizione di almeno tre strati.
Nella fase ricostruttiva dopo il 1618, la struttura rupestre venne livellata. Lo spazio
rimasto libero tutto intorno venne utilizzato per la costruzione di tombe, che in parte
sfruttavano pareti di roccia, in parte avevano spallette in muratura. Dall’alto (Figura 19)
è ancor più evidente la presenza della struttura rupestre (e di grondaie di scolo e fossette
di raccolta dell’acqua), cui si accedeva da scalette, nettamente tagliate dallo scavo di
tombe. La parte dell’altare maggiore reca traccia della mensa. L’area, nella ricostruzione
dopo il 1618, venne compresa fra i due plinti dell’altare maggiore.
33
P. MARCHESE VIOLA, Militello, p. 92; MALGIOGLIO, Le origini, cit., pp. 41-43.
447
ELISA BONACINI E MICHELA URSINO
Nel piano roccioso dell’ambiente
cultuale rupestre si è rinvenuta una fossa,
la Tomba 31 (Figura 20), con un
orientamento completamente differente
rispetto ad ogni altra (sia all’interno che
all’esterno, che sono orientate grossomodo
sempr e secondo l’orientamento delle
navate), a un livello e in una posizione, che
si giustifica solo con un uso dell’area a
scopo funerario forse per un qualche
privilegiato. La fossa ha restituito lo
scheletro di un individuo ancora in posto
(S. 10), che era stato inumato in una cassa
lignea, di cui si sono rinvenuti dei lacerti e
un paio di chiodi, e, separati da uno strato
di calce, i resti di un secondo individuo (S.
11), ridotti e collocati nell’angolo
sudoccidentale della fossa.
Le analisi al C 14 , condotte dall’antropologo Sebastiano Lisi sui resti ridotti
di S. 11, hanno consentito di datarli a un
Figura 20. La Tomba 31 con i resti dello Scheletro periodo compreso fra il 1150 e il 1290 con
10 in posto (foto Giuseppe Barbagiovanni, elab. un range di certezza del 94.4%. Nella figura
Elisa Bonacini).
21 si nota bene come la fossa sia stata poi
obliterata da uno strato di malta (USR 128) e in parte da una soglia in pietre e malta
(USM 101), che dava accesso a quest’area dell’ambiente rupestre dal lato nord. Sulla
soglia, così obliterandola, fu poi eretto un pilastro (di cui si vedono le fondazioni, USM
102); un altro pilastro (USM 95) gli corrisponde a S. Tracce di altri pilastri, tutti in asse
fra loro, sono stati riconosciuti lungo il muro chiuso della navata meridionale. Il portale
del 1506 cade così esattamente in asse con una navata centrale, più stretta di quella
ricostruita dopo il 1618, e con l’altare rupestre medievale. Si riconosce in questi resti
l’impianto della chiesa quattrocentesca dei Barresi. Un grande muro chiudeva la navata
settentrionale e aveva di fronte un portico. In questo impianto, verrebbe inglobata la
vecchia torre (Figura 22), utilizzata dai Barresi come mausoleo familiare34 , cui
recentemente la studiosa Viviana Di Benedetto ha riconosciuto i caratteri di un donjon
normanno, costruito all’indomani dell’occupazione del casale35.
Nella ricostruzione dopo il 1618 si allargano sia la navata meridionale che quella
centrale, riducendo lo spazio della navata settentrionale, che forse sarà stata limitata al
solo portico.
Nell’area esterna si trovano anche dei pozzi profondi: due furono rintracciati nello
scavo del 1980 (quello a O profondo m. 3,18, quello a N profondo m. 13,85), il terzo
34
35
P. CARRERA, Chorographia Militellana, cit., ed. 1939, pp. 27; M.A. ABBOTTO, Militello, p. 128.
V. DI BENEDETTO, Il complesso, cit., 2011, pp. 78-79.
448
LA CHIESA DI SANTA MARIA LA VETERE A MILITELLO IN VAL DI CATANIA
nello scavo più recente. Nel
terzo pozzo scaricava una
canaletta con tubo in
terracotta. Tutti presentano
un imbocco cilindrico e due
file di cavità che ne
permettevano la perlustrazione. L’imbocco dei pozzi
è spesso intaccato dal taglio
di tombe, documentando
così la preesistenza di quelli
rispetto all’escavazione
delle fosse.
Figura 21. La soglia di accesso alla cappella rupestre USM 101
sopra la Tomba 31 (foto Giuseppe Barbagiovanni, elab. Elisa
Bonacini).
Conclusioni
Riallacciandoci a quanto
discusso all’inizio di questo Figura 22. Il donjon normanno (foto Viviana Di Benedetto).
contributo, dobbiamo ancora evidenziare che, citando
la chiesa di “Sancta Maria
de Stellis in oppido
Militelli” nel diploma di
Ruggero II del 1115/1130, si
dice chiaramente che essa
sarebbe stata “destructa ab
inimicis Dei […] et a bonae
memoriae genitore nostro
glorioso comite Rogerio a
fundamentisi restaurata et
dotata”. Questa indicazione
è utile per due motivi:
innanzitutto perché attesta
agli inizi del XII secolo un edificio di culto con questa intitolazione, già attivo, tanto da
avere un presbitero; e che esisteva una popolazione di “inimici Dei nominis”36, ovvero
di religione musulmana, che abitava questi luoghi e forse aveva danneggiato un edificio
di culto cristiano, certamente esistente prima di quella data, ma di cui non possiamo dire
che fosse esistente in epoca bizantina. Anzi, l’intera indagine archeologica dentro la
Chiesa e fuori, non ha fornito alcun elemento che facesse pensare a un insediamento già
bizantino.
Le analisi al C14 dei resti dello S. 11 non ci consentono di arrivare indietro fino all’XI
secolo, ma ci consentono di datare quella sepoltura in un arco compreso fra il 1150 e il
36
MALGIOGLIO, Le origini, cit., pp. 38-39.
449
ELISA BONACINI E MICHELA URSINO
1290, e comunque ben prima di ogni monumentalizzazione operata dell’edificio, quando
esso era forse solo ancora una cappella castrale, pur con le funzioni di una ecclesia.
Possiamo dunque spingerci a immaginare che, in epoca normanna, forse proprio con il
contributo di Ruggero II, si fosse restaurata e in parte monumenta-lizzata la cappella
con un portale decorato dalla cornice stellata e dal motivo a bastoni spezzati e che
l’aspetto rupestre si fosse mantenuto a lungo, almeno fino all’inizio del 1300. La
deposizione del primo defunto S. 11 potrebbe anche ricollegarsi alla fase in cui la Chiesa
dovette subire degli interventi di restauro intorno al 1180, come ci attesta il diploma di
Guglielmo II. Con certezza sappiamo che l’utilizzo recentiore della tomba scavata
nell’area della cappella rupestre (usata per due sepolture in due momenti diversi, anche
se non sappiamo quanto lontani fra loro, sigillata del tutto, tanto da essere poi ricoperta
da una soglia di accesso alla cappella) si può ascrivere entro gli inizi del 1300 secolo
(documentato dal rinvenimento di protomaiolica in manganese, proprio nella fase di
riutilizzo di quella tomba, con la sepoltura S. 10), all’epoca in cui il dominio su Militello
passava dai Camerana ai Barresi. Tale aspetto parzialmente rupestre, questa chiesa “di
piccol corpo” dovette mantenerlo almeno fino al lascito testamentario di Blasco I Barresi,
documentato da Pietro Carrera per il 1390/91.
Sono invece piuttosto altri, e numerosi, gli elementi che ci spingono a considerare
come più plausibile proprio la fondazione normanna di Santa Maria La Vetere. Un
episodio simile, contemporaneamente cultuale, architettonico e, anche amministrativo,
sarebbe ben inquadrabile come una manifestazione di potere, nell’ampio quadro della
riorganizzazione e rievangelizzazione normanna della Sicilia orientale attraverso la
fondazione delle diocesi di Catania (1092) e Siracusa (1093). Sotto il controllo della
Diocesi siracusana, sarebbe stato riorganizzato anche il territorio militellese, dove
appariva ancora significativa la presenza saracena. La chiesa di Santa Maria si
configurerebbe, dunque, come chiesa di regio patronato37, appartenente al Re e compresa
tra le sue pertinenze (e questo ne spiegherebbe anche l’accorato intervento di ripristino)
- tanto da poterne nominare il rettore e da lasciare che i signori di Militello vi venissero
seppelliti - in un momento storico di grande fervore per la riorganizzazione ecclesiastica
della Sicilia quale fu quella promossa appunto da Ruggero, che gli consentì di esercitare
sulla chiesa il diritto di regio patronato in virtù di quella Legatia apostolica, che dava al
monarca di Sicilia e ai suoi successori la facoltà di nominare i Vescovi a esclusione di
quelli di Lipari38.
Abbiamo accennato al recente studio della Di Benedetto (all’epoca delle indagini
archeologiche collaboratrice allo scavo), in cui, grazie all’esame della tipologia
fortificatoria, delle tecniche costruttive e della tessitura muraria e di stringenti confronti
con altri fortilizi, soprattutto siciliani, la torre sul fianco NE della chiesa è stata
riconosciuta come un donjon normanno39, contribuendo a chiarire la storia delle origini,
37
B. PALUMBO, L’Unesco e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia orientale,
Roma 2003, pp. 82-83.
38
S. FODALE, Il gran conte e la sede apostolica, in Ruggero il gran conte e l’inizio dello stato normanno.
Relazioni e comunicazioni delle Seconde Giornate normanno-sveve, Roma 1977, pp. 25-42.
39
V. DI BENEDETTO, Il complesso, cit., 2015, pp. 65-109.
450
LA CHIESA DI SANTA MARIA LA VETERE A MILITELLO IN VAL DI CATANIA
contemporaneamente militari e religiose, del centro. Si tratta, quindi, del tipico fortilizio
a base quadrata posto a scopo d’avvistamento, sviluppato in altezza per due o tre piani
coperti con volte e tramite solai lignei, piano terra spesso non accessibile e accesso al
primo piano tramite una scala retrattile o un ponte levatoio, accessi interni realizzati
tramite scale lignee collocate in aperture murarie fra i solai o scale elicoidali nello
spessore murario delle pareti.
Le evidenze archeologiche (e anche i silenzi parlanti dell’archeologia, come l’assenza
totale di tracce bizantine), l’esistenza di un donjon normanno, l’analisi dei reperti
architettonici e la riconsiderazione dell’intero insediamento rupestre, evidentemente
preesistente all’intero impianto della chiesa e alle sue tombe, ci hanno spinto a individuare
nell’area di Santa Maria La Vetere il primo nucleo insediativo normanno. La nostra
ipotesi trova conferma anche nella consapevolezza, già sostenuta dal medievista Aldo
Messina, che, prima dell’arrivo degli Arabi nell’IX secolo, gli abitati fossero “aperti
con edifici sparsi in aree di parecchi ettari senza alcuna forma di organizzazione
urbanistica e di strutture di servizio”40.
Se già Messina considerava anacronistica e ampiamente da revisionare l’immagine
orsiana “di una Sicilia bizantina disseminata di abitati rupestri”41, anche Ferdinando
Maurici concordava su una datazione francamente araba del fenomeno insediativo di
long durée dell’ingrottamento. Tale fenomeno divenne caratterizzante anche dell’età
normanna, con lo sviluppo di abitati rupestri di tipo trogloditico dislocati su differenti
terrazzamenti42, giustificabili dalla presenza di una popolazione rurale araba. Questi
villaggi trogloditici si strutturavano attraverso soluzioni comuni sia per la difesa che
per l’approvvigionamento idrico: ecco spiegata la presenza di canalette ricavate nel
piano roccioso e collegate a pozzi verticali, mentre invece gli ambienti in grotta erano
resi raggiungibili solo tramite corde o scale mobili, elemento considerato “forse la
soluzione più originale di questi abitati”.
Oltre che considerare l’ingrottamento un fenomeno anche dell’età normanna, Messina
si spingeva fino ad ammettere che proprio ad età normanna bisognerebbe datare “la
produzione più antica di chiese rupestri siciliane” da collegarsi “alla ricristianizzazione
dell’Isola e alla necessità di dotare di chiese i casali”, documentata da una “improvvisa
fioritura di chiese rupestri, collegata alla cristianizzazione dei vecchi casali arabi e
all’insediamento di immigrati dalla penisola italiana”43.
In questo quadro rientrerebbe anche l’insediamento rupestre di Santa Maria la Vetere.
Il borgo rurale di Militello - dotato di una turris, di mura fortificate e di una
ecclesia dedicata alla Madonna con funzione di cappella castrale, in cui il signore
esercitava il diritto di regio patronato - viene trasformato in quell’oppidum
ricordato dalle fonti, nel quale il popolo di villani di origine araba continuava a
A. MESSINA, Il popolamento rurale nell’area iblea in età bizantina, in Sicula IV, Atti del I Congresso
internazionale di archeologia della Sicilia Bizantina, Corleone 1998, Palermo 2002, p. 168.
41
A. MESSINA, Le chiese rupestri del Val di Noto, Palermo 1994, pp. 17-19.
42
F. MAURICI, F. (2001), Castelli medievali in Sicilia. Guida agli itinerari castellani dell’isola, Palermo
2001, p. 171.
43
A. MESSINA, Le chiese rupestri, pp. 15-19.
40
451
ELISA BONACINI E MICHELA URSINO
vivere in una petra 44 , ovvero in un sistema di ingrottamenti a carattere abitativodifensivo scavati sui fianchi di un costone roccioso, lasciandosi governare dal nuovo
signore normanno e dalla sua piccola guarnigione di soldati - allocati nel donjon -,
lentamente riavvicinandosi al cristianesimo attraverso il culto alla Madre di Dio45.
Alla fase cultuale del pianoro e insediativa degli ingrottamenti sui costoni rocciosi
nell’area della chiesa dobbiamo ricollegare anche il sistema di scale intagliate nella
roccia e la scalinata di accesso al pianoro di Santa Maria dalla terrazza sovrastante,
anch’esso da considerarsi una pregevole soluzione urbanistica alla stessa stregua
dell’impianto di raccolta e distribuzione idrica, di cui non conosciamo la datazione, ma
che certamente deve considerarsi parecchio antica, se nel 1400 la gente si affollava su
questo pianoro per la fiera franca.
Le caratteristiche dell’insediamento dell’area della Vetere (torre-fortilizio con tracce
di mura e chiesa intitolata alla Madonna, il cui culto ebbe enorme diffusione proprio
grazie ai cavalieri normanni) trovano una fondata motivazione storica all’interno delle
politiche del Gran Conte Normanno di controllo del territorio e della popolazione.
Abbiamo potuto verificare, attraverso una serie di confronti, che la compresenza di una
chiesa dedicata alla Vergine e di una turris costituiscono già “uno «schema» ben preciso,
che si ripete in tutti i centri soggetti alla conquista, attestando anche qui lo stanziamento
di una colonia di milites castri che, insieme al culto, era portatrice di ben codificati
modelli di organizzazione sociale e quindi di comportamenti”, come accade nel caso
della chiesa di Santa Maria edificata a Nicosia dai coloni lombardi accanto al Castello46.
Uno schema similare è stato ulteriormente indicato a Troina, dove sono documentati i
resti di una torre quadrangolare, di una chiesa, di una cisterna e di ambienti ipogeici47, e
a Enna al Castello di Lombardia in cui appare similare la disposizione interna al cortile
San Martino di una torre quadrangolare, di una piccola chiesa e di un pozzo48.
Affinità ancora più stringenti ci hanno subito spinto a parlare di una sorta di “sistema”
normanno non infrequente in zone a precedente insediamento rupestre49. Una situazione
gemella a quella di Santa Maria la Vetere è stata rintracciata nel villaggio fortificato di
Rupe Canina a Sant’Angelo d’Alife nel casertano50. Santa Maria La Vetere e il villaggio
rupestre di Rupe Canina hanno in comune la torre-fortilizio, con cisterna al piano inferiore
e collegata al circuito murario, la chiesa mono-absidata parzialmente rupestre intitolata
alla Madonna, l’inserimento dell’intero complesso all’interno di un villaggio rupestre
caratterizzato da un sistema di canalizzazioni, pozzi e cisterne collettive e, ancora, la
presenza di una seconda chiesa rupestre nelle vicinanze (ad Alife intitolata a San Michele,
a Santa Maria allo Spirito Santo). Infine, se il fonte di tipo battesimale-purificatorio,
F. MILITELLO - R. SANTORO, Castelli di Sicilia, città e fortificazioni, Palermo 2006, pp. 17-19.
M. MONTESANO, La cristianizzazione dell’Italia nel Medioevo, Roma-Bari 1997, p. 80.
46
F. MAURICI, Castelli medievali in Sicilia. Dai bizantini ai normanni, Palermo 1992, p. 139.
47
V. DI BENEDETTO, Il complesso, cit., 2011, p. 65.
48
Ivi, p. 89.
49
E. BONACINI, Prefazione, in V. DI BENEDETTO, Il complesso, cit., 2015, pp. 11-17.
50
L. DI COSMO, Sant’Angelo D’Alife (Caserta): il villaggio abbandonato di Rupe Canina o Ravecanina,
in «Archeologia Uomo Territorio» 25-26 (2006-2007), pp. 3-10.
44
45
452
LA CHIESA DI SANTA MARIA LA VETERE A MILITELLO IN VAL DI CATANIA
decorato nel fondo da una croce bordonata o pomata, posto a pochi metri dall’ingresso
alla Chiesa di Santa Maria, va messo in relazione con l’intero complesso, un fonte
battesimale di cui si conserva ancora l’orlo circolare si trova a Rupe Canina, in un
angolo in fondo alla grotta di San Michele51.
51
V. NASSA, Elaborazioni e aggiunte fotografiche ad alcuni scritti di Mario Nassa, Raviscanina 2008,
p. 230, nota 25.
453
ELISA BONACINI E MICHELA URSINO
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S ANTI,
VIAGGIATORI, PELLEGRINI E SOLDATI SULLA DORSALE DEI
PELORITANI
E DEI
NEBRODI
ROBERTO MOTTA*
La Dorsale è la via di cresta che corre lungo lo spartiacque dei Peloritani e dei Nebrodi
nella direzione Est-Ovest, cioè da quadrivio San Rizzo/Dinnammare sino al laghetto di
Urio Quattrocchi/Serro Merio. Questa traiettoria è quasi del tutto percorribile. In gran
parte scorre su un fondo sterrato, in alcuni tratti è asfaltata, talora è praticabile solo a
piedi su sentieri. Sono circa 183 km prevalentemente in quota, mediamente tra i 600 ed
i 1500 m s.l.m. Il percorso si apre su panorami impensabili e tocca geositi affascinanti:
Rocca Novara e Ritagli di Lecca; Argimosco; Portella Zilla; Rocche del Crasto. Attraversa
boschi leggendari1, costeggia laghi (Calzolari, Biviere, Maulazzo, Quattrocchi), lambisce
sui due versanti testimonianze architettoniche straordinarie prevalentemente medievali
(mi riferisco ai monasteri, alle chiese di rito italo-greco ed ai castelli che a questa via,
come vedremo, sono collegati). È inoltre periodicamente battuta da devoti e pellegrini
che ancor oggi, in diversi contesti festivi, la solcano nei loro percorsi devozionali.
(Figura 1)
Quella che descriverò è la situazione attuale. L’intento di questa relazione è ricostruire
in una prospettiva storica unitaria e di continuità funzionale il possibile tracciato di
crinale con le sue diramazioni. Tutto ciò attraverso la convergenza di notizie che ricordano
passaggi di eserciti (la funzione militare è la più attestata), di documenti che riportano
confini territoriali coincidenti con strade, di itinerari percorsi dai devoti nell’ambito
delle feste di antica tradizione, o di memorie di passaggi di Santi. Certamente bisogna
tenere conto di due caratteristiche di questa Alta Via: la quota elevata che ne impediva
il passaggio nei mesi invernali e di contro la rilevante efficienza in termini di tempo e di
minore difficoltà del tragitto rispetto ad altri itinerari situati a mezza montagna o vicino
al2 mare, che costringevano al passaggio di fiumare o scollinamenti.
Nonostante si sia sviluppato molto interesse sulla Dorsale, oggetto di un non
trascurabile finanziamento della Comunità Europea nel capitolo FSC3, e sia il tratto
* Studioso di storia e di medicina medievale.
1
Vedi la grande foresta Linaria che ricopriva un vasto territorio dei Peloritani.
2
Per una sintesi sul percorso nel 2004 vedi R. M OTTA, Alta via: la Dorsale dei Peloritani e dei
Nebrodi ed il Sistema delle Trazzere, in «Paleokastro», 18/19 2006.
3
Come si legge in alcuni cartelli apposti nella contrada Filippelli, ed in contrada Sella Maria, è in atto
un intervento del FSC che riguarda la Rifunzionalizzazione, con interventi ecocompatibili, dei collegamenti
montani del Parco dei Nebrodi, nel quadro della valorizzazione e fruizione del sistema “Sentiero Italia”.
Tratto Portella Mitta-Portella Femmina Morta e Tratto Portella femmina Morta-Serra Maria. Da un
articolo della Gazzetta del Sud si apprende che l’appalto dei lavori ammonterebbe complessivamente a 5
457
ROBERTO MOTTA
peloritano che il tratto nebroidense siano stati giustamente inseriti nel progetto del Grande
Sentiero Italia (che di seguito indicheremo brevemente con la sigla SI), questo importante
percorso di escursionismo, tra i più affascinanti in Sicilia, appare oggi, rispetto a qualche
anno addietro, in condizioni di precarietà e di trascuratezza. È necessario, pertanto, un
richiamo su questo bene di eccezionale valore ambientale storico ed antropologico.4
Percorreremo il nostro itinerario lungo le attuali direttrici, che probabilmente, in
diversi tratti, ricalcano tracciati più antichi alcuni di età greca o romana. La Dorsale nel
tratto peloritano coincide con la ben nota Strada Militare5 o Regia Trazzera o Carrozzabile
dei Peloritani o Alta Via, i cui primi lavori ebbero inizio nel 1883 per esigenze militari
ad opera del Genio Militare che intendeva collegare la Piazza di Messina con l’interno
della Sicilia: da Portella San Rizzo-Dinnammare a Portella Mandrazzi,6 al fine di poter
spostare lungo la Dorsale truppe ed artiglierie. 7 L’interesse per questa linea di
collegamento in cresta fu molto vivo agli inizi del Novecento tanto che il Consigliere
Mazzullo, in una mozione del consiglio comunale del Comune di Mandanici, propose
non solo la sistemazione ad uso civile della intervalliva Mandanici-Castroreale, che
includeva un tratto della strada Militare, ma fu addirittura ipotizzata la realizzazione di
una “ferrovia a scartamento ridotto che allacciandosi alla dorsale militare delle
peloritane, percorra il fianco settentrionale delle Nembrodi e delle Madonie con gli
opportuni sbocchi a destra ed a sinistra”. 8 In seguito la titolarità della strada è passata
alla Provincia di Messina (oggi è la 50/ bis o di Dinnammare, dalla S.S. 113 a Portella
Mandrazzi S.S.185, ed è stata provincializzata con D.M. 21.6.1967 numero 8028).9
Dalla linea di cresta scendono sui due versanti, tirrenico e jonico, diramazioni di
fondamentale importanza per le comunicazioni Nord-Sud; il sistema viario, infatti, si
articola su una spina dorsale dalla quale si distaccano dei bracci laterali che a varie
distanze scendono lungo i crinali dei monti o lungo il vallone di un fiume, ortogonali
alla linea di cresta. Queste vie di valico quali la Castroreale – Mandanici, la RoccellaMontalbano, la Tortorici-Flascio-piana di Randazzo-Maniace e la Maniace-Portella
Balestra-Portella Gazzana-Alcara/S. Marco d’Alunzio costituiscono importanti assi di
milioni e 171mila euro, in G. ROMEO, Dorsale del Parco, gara di 5 milioni, «Gazzetta del Sud», 04/10/
2018.
4
Vedi: mappasentieroitalia.cai.it; la segnatura delle tappe 21 e 22 del Sentiero Italia da Portella Femmina
Morta a Floresta, è stata realizzata da un gruppo della sezione Cai di Belpasso.Le tabelle segnavia biancorosse indicano la direzione della località di destinazione ed il tempo necessario per raggiungerla per un
medio camminatore.
5
Così è comunemente inteso lo sterrato che parte da Dinnammare verso Portella Mandrazzi.
6
VINCENZO CARUSO , Le vie dei Forti, Giambra Editori, 2015, Terme Vigliatore (ME), pp. 26-28.
7
CARUSO 2015, p. 115.
8
Ristampa a cura di N. M AZZULLO , Pel completamento della strada Castroreale – Mandanici e
Diramazioni, Tipografia del Secolo, Messina 1906.
9
Anche La Provincia di Messina tra la fine degli anni 80 ed i primi anni 90 aveva progettato di
realizzare una strada asfaltata che da Dinnammare, percorrendo la linea di cresta, giungesse a Portella
Mandrazzi, tagliando in due i peloritani e stravolgendo quello che rimane uno straordinario polmone
verde della cuspide peloritana. Per fortuna, ma in realtà non solo grazie alla fortuna, questo progetto non
è andato in porto. Vedi M. MORABITO, La strada della dorsale peloritana nel contesto dei problemi del
territorio messinese, a cura del Rotary Club di Sant’Agata Militello, Tipografia Samperi, Messina, 1983.
458
SANTI, VIAGGIATORI, PELLEGRINI E SOLDATI SULLA DORSALE DEI PELORITANI E DEI NEBRODI
Figura 1. La dorsale.
459
ROBERTO MOTTA
collegamento tra l’area jonico-etnea e la fascia tirrenica, utilizzati dai pastori, dai
pellegrini, ma anche, come vedremo, dagli eserciti nei loro movimenti all’interno del
Valdemone, movimenti che senza la presenza di questo sistema viario interno non
sarebbero stati cosi rapidi ed efficaci.
Il percorso sarà diviso in cinque tratti che corrispondono a cinque possibili tappe.
(Figura 2)
Dal bivio San Rizzo (o Sarrizzo) passava la strada romana per Gesso che nei documenti
normanni viene ricordata come la megale odos di Gypso, ma anche come via antiqua de
Gypso.10 Salendo verso Dinnammare superata la vecchia colonia, sulla sinistra si inserisce
un braccio che sale da Camaro, dove è l’antica chiesa di S. Giacomo (forse punto di
sosta del cammino di pellegrini di S. Giacomo), ed attraversa la foresta di Camaro ove,
di recente, sono stati individuati i resti del Palazzo di caccia di Federico II di Svevia11.
Più avanti, in contrada Musolino, sulla destra si stacca uno sterrato che scende sino
a Saponara, paesino ai piedi dei resti di un castello a guardia della fiumara che porta al
colle di Rometta. Riprendendo la Dorsale, dopo Pizzo Chiarino a Portella Croce Cumia,
sulla sinistra, scende un sentiero per Cumia. Superata Portella Piano Verde, poco prima
del Santuario di Dinnammare, da una piazzuola con ripetitori inizia lo sterrato della
Dorsale.
Dinnammare (noto anche come Antennammare) è un importante snodo di vie: la
Dorsale sale da Messina via San Rizzo; dalla piazzuola sulla sinistra scende un sentiero
che biforcandosi porta o a S. Filippo Superiore, ove sono i resti del monastero italogreco di S. Filippo il Grande, o a Larderia.12 Potrebbe essere questo un tratto della via
regia segnalata già in età medievale13; poco più avanti, infatti, come vedremo, un sentiero
scende a Rometta formando cosi un collegamento rapido tra i due versanti.
Sul monte di Dinnammare, che offre una visuale sullo stretto e sul versante tirrenico,
si ergeva una torre di vedetta per l’osservazione dei due mari. Ai tempi del Cluverio ne
rimanevano i ruderi “sulla sinistra della via che da Messina conduce a Milazzo” 14.
Forse qui si trovava una delle Fauces (le gole di Appiano citate nella guerra tra Sesto
Pompeo ed Ottaviano) cosi importante per la difesa della città ove era la flotta di Pompeo.
E forse da questo passo Ottaviano scese sulla città dopo aver foraggiato sui monti presso
Messina15 .
10
L. ARCIFA, Viabilità e insediamenti nel Valdemone. Da età bizantina a età normanna, in La Valle
d’Agrò. Un Territorio una storia un destino. Convegno internazionale di Studi a cura di Clara Biondi,
Officina di Studi Medievali, 2005, p. 109.
11
F. SCIARA, Ritrovato il Palazzo di caccia del sovrano svevo nella foresta di Camaro presso Messina,
in «Incontri», 26, 2019.
12
Ancora oggi percorso dai devoti che nella notte tra il 3 e 4 agosto salgono a Dinnammare da Larderia.
13
ARCIFA 2005, p. 99, individua una strada indicata come via regia che passava dal Casale di S. Andrea
nella fiumara sotto Rometta ed ipotizza “l’esistenza di un itinerario che staccatosi dalla costa risaliva la
fiumara di Saponara giungendo a Rometta e ridiscendendo, oltrepassato il Dinnammare, lungo la fiumara
di Larderia in direzione della costa jonica, all’altezza di Tremestieri”; sarebbe la “magna via quam ascendit
fluvius Larderiae” che Arcifa ricava da R. PIRRI, Sicilia Sacra, II, p. 1025.
14
F. CLUVERIO riportato da F. MICALIZZI, Onomaturgia di Dinnammare Dal Monte Cronio al Dinamari
bizantino in Messenion d’Oro, Edizioni Di Nicolò Messina, pp 6-7 n. 6, oct/ dic 2005.
15
R. MOTTA, La Guerra tra Sesto Pompeo e Ottaviano sui monti dello Stretto in Ricerche Storiche ed
460
SANTI, VIAGGIATORI, PELLEGRINI E SOLDATI SULLA DORSALE DEI PELORITANI E DEI NEBRODI
Figura 2. Dorsale con passi e siti.
Dinnammare rappresentava un punto cruciale per la difesa di Messina perché
attraverso questo passo si poteva piombare su Messina dai Colli. Una prova della
importanza strategica di questo sito la ritroviamo nella dinamica degli avvenimenti che
si svolsero in questo territorio durante la rivolta antispagnola del 1674. Infatti,
proseguendo sulla Dorsale, dopo circa 300 metri, a Puntale Bandiera a destra scende un
sentiero verso Portella Vento (oggi rifugio ed area di sosta), prosegue passando vicino
all’antica Abbazia di S. Leo, e giunge alle porte di Rometta dal lato monte. Come racconta
puntualmente P. Gazzara, nella mattina del 17 luglio 1674 le truppe spagnole, lasciata
Portella Vento, salirono verso la cresta con l’intento di dirigersi a Messina per portare
aiuto agli assediati di Forte Gonzaga. Ma sul Passo di Lombardello e di Croce Cumia
trovarono la formidabile opposizione dei messinesi evidentemente consapevoli che la
difesa della citta dipendeva dalla resistenza che avrebbero saputo opporre sui passi
della Dorsale, superati i quali gli Spagnoli avrebbero avuto via libera su Messina. Ai
messinesi cosi come agli spagnoli era quindi chiara l’importanza strategica della via di
cresta che gli assalitori non riuscirono a superare16.
Lasciato Puntale Bandiera dopo qualche km di sterrato sulla cresta, si stacca sulla
destra un sentiero che scende verso Pellegrino, dove e il Santuario della Madonna di
archeologiche nel Valdemone, a cura di F. IMBESI, G. P ANTANO E L. SANTAGATI, Atti del Convegno 17-18
maggio Monforte San Giorgio 2014; rimandiamo a questo articolo l’approfondimento sui movimenti
dell’esercito di Ottaviano sui Monti dello Stretto. Vedi anche i fondamentali testi sulle linee di difesa di
Pompeo (la ridotta di Pompeo) in C. SAPORETTI, Il Tempio di Diana nella Piana di Milazzo, Edinixe
Editrice, Stromboli 1993; e C. SAPORETTI, Diana Facellina Un Mistero Siciliano, Pungitopo Editrice,
Marina di Patti 2008.
16
P. GAZZARA, La rivolta antispagnola di Messina e la battaglia di Lombardello 1674 in Sicilia
Millenaria, Atti del III convegno, a cura di F. Imbesi, Archivio Nisseno, anno XII, n. 23, luglio – dicembre
2018.
461
ROBERTO MOTTA
Figura 3. Dorsale Dinnammare-Tre fontane.
Crispino, e verso Monforte San Giorgio con i resti del castello medievale.
La Dorsale corre tra i panorami dei due versanti e degrada sino al passo di Portella
Griole dove sulla sinistra un sentiero scende verso Briga e S. Paolo di Giampilieri.
Proseguendo sulla Dorsale si supera l’aspra salita di Pizzo Cavallo dopo la quale si apre
un panorama con l’incombente sagoma di Monte Scuderi, l’antico insediamento bizantino
di Miqus17; forse Monte Scuderi è il Monte Miconio di Appiano nei pressi del quale
“Cesare mosse incontro a Tisieno, ma fallì la strada e pernottò senza tende”18.
Secondo L. SANTAGATI, Viabilità e topografia della Sicilia antica, p. 110, vol II, Ed. Lussografica
2013, l’insediamento bizantino di Mikos coincide con Monte Scuderi; Idrisi ci aiuta a localizzare questo
sito: infatti dice che da Messina alla Rocca di Rimtah (Rometta) corrono 9 miglia; da questa a Mont Dafurt
(Monforte) 4 miglia. Da Mont Dafurt a Miqus 15 miglia per mezzogiorno, ed aggiunge che Miqus è un
luogo tra Messina e Taormina al quale si arriva per sentieri alpestri. Da Mont Dafurt a Tripi 20 miglia a
ponente, da Tripi a Montalbano 12 miglia; vedi anche La Sicilia di Al-Idrisi ne Il Libro di Ruggero a cura
di LUIGI SANTAGATI, Salvatore Sciascia Editore 2010 Caltanissetta.
18
MOTTA 2014, p. 45.
17
462
SANTI, VIAGGIATORI, PELLEGRINI E SOLDATI SULLA DORSALE DEI PELORITANI E DEI NEBRODI
Figura 4. Dorsale da Portella Croce a Portella Mualio.
Di fronte si apre l’altopiano di Piano Margi con la casa degli Alpini. Qui la strada
Militare si interrompe; si può proseguire solo lungo un sentiero che supera la vetta di
M. Poverello e scende all’Acqua Menta19. (Figura 3)
II tratto. Acqua Menta - Pizzo Croce - Pizzo Mualio - Portella Mandrazzi (Km
36)
Superato M. Poverello si riprende la Dorsale all’Acqua Menta; più avanti a Pizzo
Croce (1214 m. s.l.m.) si stacca sulla destra uno sterrato che scende sino a S. Lucia del
Mela passando davanti al castello svevo-aragonese che guarda sulla sinistra la fiumara
del Mela, sulla destra il Floripotema e di fronte la piana ed il castello di Milazzo. Si
continua da Pizzo Croce sulla cresta lungo un tratto molto suggestivo, scavato a filo sul
dorso della montagna, a strapiombo sui versanti tirrenico e ionico, sino al bivio di Pizzo
Mualio. (Figura 4)
A Pizzo Mualio si incrocia la Castroreale – Mandanici: infatti il braccio di sinistra
scende lungo una pietraia e porta a Mandanici dove è il monastero italo-greco di S.
19
C ARUSO 2015, pp. 116-117. Sappiamo che il tratto di carrozzabile che avrebbe dovuto superare il
Monte Poverello, per dare continuità alla Strada Militare, non è stato mai realizzato in quanto da un
documento del Comando D’Armata del 7 settembre 1929 apprendiamo che si stabiliva di lasciare la strada
allo stato di mulattiera, rinunziando di fatto al progetto originario che prevedeva il collegamento con
Portella Mandrazzi.
463
ROBERTO MOTTA
Maria di Mandanici; proseguendo invece sulla destra, lungo la Dorsale dopo 4.5 km da
Pizzo Mualio poco prima di Pizzo Gardile, si incontra un secondo bivio in corrispondenza
di una pietra miliare, del vecchio tracciato militare. Prendendo il braccio di sinistra si
prosegue sulla Dorsale. Se si continua sulla destra si passa sotto le suggestive mura di
Piano Margi, sorprendente altipiano proteso come una fortezza in rovina a guardia delle
strade che da questa piccola valle scendono verso Castroreale- Gala; infatti, dopo circa
7 km imboccando una curva a destra si arriva dopo ulteriori 11 km a Gala; prendendo la
sinistra si arriva a Castroreale. A Gala sono i resti del monastero italo-greco di S. Maria,
dal quale proviene la lastra tombale che si trova nel Convento dei Basiliani a Barcellona
Pozzo di Gotto, già attribuita a Simone, fratello di Ruggero II. Oggi sappiamo, grazie ad
una appassionante ricerca di F. Imbesi, che la lastra apparteneva ad un camerario
bizantino, Nicola di Mesa, funzionario della corte normanna, rifondatore del monastero
di Santa Maria di Gala20. Il Monastero di S. Maria di Mandanici e quello di Gala, in base
ai tracciati attuali distano 47 km. Non abbiamo conoscenze sulla esistenza di questa via
di collegamento tra i due Monasteri italo-greci in età medievale; è da supporre che la
leggenda di Simone febbricitante trasportato lungo questa strada dal monastero di S.
Maria di Mandanici a quello di Gala possa segnalare comunque una corrispondenza tra
i due monasteri, agli estremi di una direttrice di collegamento. Idrisi ci fornisce un
possibile indizio sulla esistenza di una comunicazione tra i due versanti ionico e tirrenico:
infatti dice che da Lwgari, se valida la identificazione del toponimo con Locadi21, paesino
vicino al Monastero di S. Maria di Mandanici, ove sono i resti di una torre medievale, a
B.r.b.lis (Tripi) corrono 15 miglia in direzione Nord-Ovest. Tale indicazione fa supporre
che già esistesse una via che, come l’attuale, superava la linea di cresta, a Pizzo Mualio,
e scendeva sull’altro versante intercettando la via che veniva da Monforte verso Tripi.
La Castroreale -Mandanici, è appunto costituita dal braccio che sale da Castroreale
sino al bivio per Monte Verna, dal tratto successivo sino a Pizzo Mualio e dal braccio
che da qui scende verso Mandanici. È stata una importante via di valico e di
comunicazione che i comuni di Mandanici, Castroreale, S. Filippo del Mela e S. Lucia
del Mela avrebbero voluto rendere carrozzabile per un efficiente collegamento tra i due
versanti ionico e tirrenico, come si legge nell’accorata mozione del consigliere Mazzullo
ottobre 1906), dalla quale si ricavano anche altre interessanti notizie22. Ancora oggi
20
20 F. IMBESI, Il mistero della lapide sepolcrale, in Atti del convegno Sicilia Millenaria, Archivio
Nisseno, anno XI -n. 21, luglio -Dicembre 2017, pp. 261-286, Società Nissena di Storia Patria, Caltanissetta.
21
SANTAGATI (2010); secondo Saporetti il toponimo lwgari non corrisponderebbe a Locadi ma a Gala.
C. SAPORETTI, Su due toponimi nella geografia di Edrisi, pp 43-50 in Geo-Archeologia, 1978-2 Japadre
Editore L’Aquila
22
MAZZULLO 1961; “Nei principi del secolo passato, gl’inglesi tennero gran conto di questa strada,
per le loro comunicazioni con Milazzo e con Castroreale e la strada mulattiera che da Mandanici conduceva
alle due città, nonché quella che percorreva la vetta dei monti, come la dorsale militare, sono nitidamente
disegnate in una carta della Sicilia pubblicata a Londra nel 1809. Per questa strada passarono e
ripassarono i massisti, inviati da Maria Carolina ad invadere e devastare, con Ruffo e Fradiavolo, le
province della terra ferma, per questa strada e per questa gola al 1860 fu mandato da Garibaldi il
generale Nicola Fabrizi a Mandanici per fronteggiare il Generale Clari, che minacciava ritornare indietro
per girare alle spalle il capo di Barcellona e di Merì. Questa stessa strada fece in senso inverso, fece al
464
SANTI, VIAGGIATORI, PELLEGRINI E SOLDATI SULLA DORSALE DEI PELORITANI E DEI NEBRODI
viene percorsa dai pellegrini della Madonna del Tindari (i fummiculara), che da
Mandanici salgono a Pizzo Mualio, passano davanti a Pizzo Gardile, dove sono edicole
dedicate alla Madonna del Tindari, proseguono verso Bafia e a Rodì, e scendono lungo
il Patrì sino a Ponte Cicero, a Gibbiazze di Terme Vigliatore; quindi riprendono il
cammino lungo la salita di Coda di Volpe e giungono al Santuario di Tindari intorno alle
1723.
Resta ancora un mistero che riguarda questi luoghi: una popolazione sconosciuta.
Appiano racconta che: “Cesare mosse incontro a Tisieno, ma falli la strada presso
monte Miconio, dove pernottò senza tende. E poiché cadde una grande pioggia, come
suole accadere in autunno, alcuni della fanteria pesante tennero per tutta la notte lo
scudo gallico sul capo. Si ebbero anche aspri rombi dell’Etna e prolungati boati e getti
di fuoco che illuminarono l’esercito, cosicché i Germani per il terrore si alzarono dai
giacigli; altri, per aver sentito dire le cose che si dicevano sull’Etna, non erano senza
sospetto che in tali straordinarie circostanze non venisse loro addosso anche il torrente
di lava. Dopo di ciò Cesare devastò il territorio dei Palaisteni, e si incontrò con Lepido,
che stava foraggiando, ed entrambi si accompagnarono presso Messina”24.
Dov’era il territorio dei Palaisteni? Dal racconto di Appiano possiamo ipotizzare che
fosse situato in una zona nei pressi del Monte Miconio (Miqus-Monte Scuderi), non
troppo lontano da Messina. La vicinanza di questo luogo allo Stretto, ma in alto sui
monti, consente infatti a Cesare e Lepido di accamparsi “presso Messina” senza dover
temere uno scontro con le truppe di Pompeo. Una cartina di Coronelli, cosmografo della
Serenissima Repubblica, conferma questa ipotesi perché indica un territorio che nomina
Palaestenus al centro della cuspide peloritana tra Dinnammare, Pizzo Mualio, Monforte,
S. Lucia del Mela e Castroreale. Ancora nel 1584, lo stesso territorio in una carta
dell’Ortelio25 è individuato come Palaestenus Ager26. Poi il toponimo scompare.
Riprendendo il tracciato della Dorsale a 4,5 km da Pizzo Mualio al bivio si piega a
sinistra verso la Montagna di Vernà; si passa sui resti di un vecchio rilevato, forse della
Militare, in pietra, e si aggira la montagna sul versante Nord lungo un tortuoso sentiero
1861, Giorgio Trasselli ed ahi! Erano suoi volontari le 13 vittime cadute sotto le palle dei regi a Rozzolino
presso Fondachelli” (di Novara). Su questo eccidio vedi anche l’articolo di B. Villari Fucilati perché
garibaldini, in «Gazzetta del Sud», 21/9/1984 nel quale si ricorda il percorso dei garibaldini da Mandanici
sino al Patrì
23
M. Mento, L’antico pellegrinaggio da Mandanici al Santuario di Tindari, in Gazzetta del Sud, 7/5/1998
24
Traduzione di C. SAPORETTI (2008).
25
Pubblicata su Imago Siciliae, a cura di L. DUFOUR e A. LA GUMINA, Domenico Sanfilippo Editore,
Catania 2007.
26
La questione dei Palaisteni e della localizzazione del loro territorio è importante non solo per
l’intrigante problema del nome e dell’origine di questa popolazione, ma anche perché pone diversi
interrogativi. Perché Ottaviano devasta il territorio dei Palaisteni? Forse perché alleati di Pompeo ed in
una posizione che avrebbe potuto disturbare l’avvicinamento dell’esercito di Cesare alla città dello stretto?
Per un approfondimento sulla irrisolta questione della localizzazione del territorio dei Palaisteni vedi
Saporetti (2008), cit. È interessante la notizia che proviene da ENNIO ITALO RAO, Sicilian Palimpsest: The
Language of Castroreale and Its Territory, Ed. Legas, 2003, il quale ritiene che Ottaviano, dopo la vittoria,
espulse gran parte della popolazione dalle principali aree di sosta di Sesto Pompeo il cui centro
corrisponderebbe a Castroreale
465
ROBERTO MOTTA
che, dopo pochi km, riporta sulla linea di cresta. Si apre uno scenario dominato dalla
piramidale Rocca di Novara che si erge come un torrione naturale sulla fiumara di Fantina.
Proseguendo, in Contrada Acquafredda (825 s.l.m.), si stacca sulla sinistra una strada
che scende ad Antillo ed alla fiumara d’Agrò, lungo la quale è la chiesa normanna dei
SS. Pietro e Paolo d’Agrò, di fronte ai resti di una fattoria romana di epoca imperiale.
Tornando sulla Dorsale dopo qualche km nel bosco sulla cresta, si incontra il sito
delle Tre Fontane come si legge su un caratteristico mascherone (Figura 5).
Le Tre Fontane sono un nodo cruciale nel sistema viario dei Peloritani. Infatti a
questa storica fonte, situata sulla Dorsale all’incrocio tra diverse direttrici di
collegamento, convergono i sentieri che provengono dalla Fiumara di Fantina-Patrì, che
costituisce una rapida via di sbocco verso la costa tirrenica; dalle Tre Fontane scende
all’opposto un sentiero verso la Fiumara Zavianni e Francavilla. Questo punto di snodo
si trova al centro della più rapida direttrice tra Jonio e Tirreno, a poca distanza dalle
opposte origini delle due fiumare Zavianni e Fantina che sono separate da una ridotta
cortina collinare sulla cui cresta passa un tratto di Dorsale (in atto interrotto da una
frana). Questa direttrice, che sfrutta la continuità tra le due fiumare, forse fu già via di
transito in epoca greca27.
Certamente questa via fu percorsa dalle truppe Austriache guidate dal Conte di Mercy
che risalirono la fiumara del Fantina nel maggio 1719 dirette allo scontro con gli spagnoli
nella piana di Francavilla. Le truppe austriache, fanteria e cavalleria (circa 20.000
uomini), si accamparono nel boschetto delle Tre Fontane prima di scavalcare la linea di
cresta e scendere lungo lo Zavianni verso la piana di Francavilla28. (Figura 6)
Come ho esposto in altre sedi, esaminando i racconti di Appiano e di Dione Cassio,
ho ritenuto che questo stesso percorso fu probabilmente seguito nella direzione inversa,
dallo Zavianni verso il Fantina, da Cornificio e dai suoi legionari quando, rimasti
intrappolati nella piana di Naxos ed accerchiati dalle forze di Sesto Pompeo, si mossero
verso Agrippa che si trovava sulla costa vicino a Milazzo. Questo sembra il percorso più
probabile e più breve; forse appunto nei pressi delle Tre Fontane si realizzò lo scontro
descritto da Appiano tra i legionari di Cornificio e le truppe di Sesto Pompeo29. Dalle
Sul possibile transito tra lo Zappulla ed il Fantina-Patrì in epoca greca cfr. C. INGOGLIA, La Valle del
Patrì: un corridoio obbligato tra Tirreno e Ionio?, in Cultura e Religione delle Acque, a cura di A.
CALDERONE , Giorgio Bretschneider Ed. 2012
28
S. MAUGERI, G. FERRARA, La Battaglia di Francavilla nel Contesto dell’Europa del 700’, Il Convivio,
Castiglione di Sicilia 2006; vedi anche R. MOTTA, Ipotesi sul tracciato del sentiero di Cornificio nella
guerra tra Sesto Pompeo ed Ottaviano, in Una Battaglia Europea. Francavilla di Sicilia, 20 Giugno
1719, a cura di E. GIGLIUZZO E G. RESTIFO, Aracne, Roma 2020.
29
“Cornificio li esortava indicando loro una fonte che era vicina, ed allora nuovamente sopraffecero
i nemici, pur subendo molte perdite, ma altri avversari occuparono la sorgente ed un completo scoramento
si impadronì dei soldati di Cornificio, che perdettero ogni forza. Mentre erano in queste condizioni,
Laronio apparve da lungi, inviato da Agrippa con 3 legioni; sebbene non fosse ancora manifesto che era
un amico, tuttavia nella speranza e nella continua attesa che tale fosse, di nuovo ripresero animo. Come
videro che i nemici abbandonavano l’acqua per non essere presi in mezzo dagli avversari, alzarono grida
per la gioia con quanta forza potevano, e come le truppe di Laronio ebbero gridato loro di rimando, di
corsa occuparono la fontana. Furono impediti dai capi di bere smoderatamente; quelli che non ne tennero
conto morirono mentre bevevano. In questo modo insperatamente Cornificio e la parte dell’esercito che
27
466
SANTI, VIAGGIATORI, PELLEGRINI E SOLDATI SULLA DORSALE DEI PELORITANI E DEI NEBRODI
Figura 5. Tre fontane.
Tre Fontane si prosegue lungo la linea di cresta costeggiando il Monte Pomaro sino a
Portella Mandrazzi.
III tratto. Portella Mandrazzi – Argimosco – Portella Mitta (km 33) Si imbocca
a sinistra la SS 185 e al Km 28 si riprende il percorso in sterrato nei pressi della sorgente
Salutari. Immersi nella radura che accolse i monaci certosini della vicina medievale
Abbazia cistercense di S. Maria la Noara, ancora esistente a Badiavecchia di Novara, si
sale verso le Rocche dell’Argimosco passando per gli aspri altipiani di Poggio Primavera,
costeggiando il Rifugio Faggita e tenendo sulla destra i Megaliti dell’Argimosco30. “In
contrada Argimosco”, scrive Todaro, “confluivano le strade provenienti da Roccella,
da Tripi e da San Basilio; l’ubicazione del fondaco in questo raccordo attesta che era
sede doganale nel medioevo nonché luogo di ristoro per i viandanti”31. Il pianoro fu
frequentato dai sovrani aragonesi; è documentato che nel 1282 Pietro III d’Aragona,
proveniente da Randazzo e diretto a Messina, guardando il panorama dall’alto
si era affrettata si salvarono presso Agrippa (che marciava) verso Milazzo”. Traduzione di C. SAPORETTI,
2008.
30
Sui Megaliti e sul megalitismo nella zona di Montalbano vedi G. Todaro, Alla ricerca di Abaceno,
Armando Siciliano Editore, Messina 1992. Secondo L. SANTAGATI il toponimo originale è Argimusto,
termine composto nella forma genitiva dalle parole arabe hagir e must che significano pietra e piano
ovvero piano delle pietre; in Argimusto non Argimusco. Emergenze toponomastiche d’origine araba nel
Val Demone in Sicilia Millenaria, Atti del convegno di Montalbano Elicona, ottobre 2015 a cura di L.
C ATALIOTO -G. P ANTANO -E. SANTAGATI.
31
TODARO 1992, pp. 123-124.
467
ROBERTO MOTTA
Figura 6. Torrente Fantina.
dell’Argimustus e riferendosi al Santuario di Tindari ed al culto della Madonna Nera,
ammirava le “sedes helene tindaree, ubi virginis hodie sacre domus excolitur”32. Secondo
Arlotta, “l’itinerarium peregrinorum” da Lentini verso Messina non seguiva la strada
della costa per “le enormi difficoltà nel superamento dei passi di Taormina, S. Alessio e
Scaletta”33.
Da Lentini si puntava su Paternò dove era un hospitale dedicato a S. Maria Maddalena
già nel 1140; da Paternò si giungeva ad Adrano e a Maniace, dove nel 1178 è attestato
l’hospitale S. Paolo di Sciara. Lasciato l’hospitale di Maniace e puntando a nord,
attraverso Montalbano, il pellegrino poteva raggiungere l’hospitale S. Giovanni di San
Filippo del Mela34 e da qui, scavalcando i Peloritani perveniva a Messina. Non viene
specificato attraverso quale valico i pellegrini giungessero all’Argimosco, ma da Maniace
la via più rapida è quella che dalla piana di Randazzo passando ad Fraxinos, quindi
lungo il fiume Flascio, porta sino a Floresta. Da Floresta lungo la via di cresta si poteva
arrivare sino a Piano Zilla e all’Argimosco35. Riprendendo la Dorsale dall’Argimosco
32
G. ARLOTTA cita Bartolomeo Da Neocastro, Historia Sicula, in Vie Francigene, hospitalia e toponimi
carolingi nella Sicilia medievale, p. 834, in Tra Roma e Gerusalemme nel Medioevo, a cura di MASSIMO
OLDONI, Laveglia Editore Salerno 2005.
33
ARLOTTA 2005, p. 832.
34
ARLOTTA 2005, pp. 862-863.
35
Per una panoramica sulla viabilità nel territorio di Montalbano, vedi TODARO 1992, p. 106. Secondo
Todaro: “… una Regia Trazzera collegava Favoscuro con la contrada Bosco Casale (Quattro Finaite);
qui la strada si divideva in due rami, dei quali uno procedeva per Oliveri e l’altro per Falcone. Sull’altipiano
in Contrada Case Ponticelli, la trazzera si divideva perpendicolarmente in due rami, che aggiravano
Monte Caci dalla parte di Piano Nocera. Il bivio è tuttora delineato da due grossi muri, alla cui intersezione
468
SANTI, VIAGGIATORI, PELLEGRINI E SOLDATI SULLA DORSALE DEI PELORITANI E DEI NEBRODI
in direzione Floresta, sulla sinistra, incontriamo il complesso megalitico di Portella
Zilla,36 già utilizzato come ovile (a Mandura u Gesuittu). Su una roccia è scolpito un
tris, forse ricordo di una postazione romana di guardia. Sulla sinistra scende una strada
per Roccella Valdemone.
Proseguendo sulla strada asfaltata, superato Monte Polverello, c’è il bivio di Favoscuro
presso il quale è Fontana del Re, toponimo richiamato nei confini di Focerò che ancora
oggi si trova nel territorio del comune di S. Piero Patti; a sinistra si scende verso S.
Domenica V. e Randazzo, e a destra si prosegue per Portella dello Zoppo e Floresta.
Dallo studio di Fasolo sulla diplomatica relativa alla vicenda di Focerò apprendiamo
che esisteva un Basilikos dromos,37 percorso di crinale, tra le fiumare di Sinagra e S.
Angelo, che si dirigeva verso la costa tirrenica ed è riportato in varie carte catastali con
la denominazione di Regia Trazzera Brolo-Raccuja38. Questa strada deve essere distinta
dalla via che discende “a Randacio et ducit apud Nasum”, ovvero la trazzera che da NO
di Ucria corre parallelamente ad occidente del tracciato della SS 116 immettendovisi a
N di Castell’Umberto e proseguendo verso Naso39.
Riguardo alla Dorsale, Fasolo aggiunge considerazioni importanti sulla esistenza
della via di cresta: “di questo sistema faceva parte probabilmente il percorso che
provenendo dall’altopiano dell’Argimusco, giunto ad ovest di Floresta, piegava verso
N in direzione di Monte Cucullo. Tutt’oggi tra Monte Cucullo Poverello e Portella
Cerasa rimangono visibili tratti lastricati la cui lunghezza complessiva supera i 10 km
(la tratta lastricata nei pressi di Monte Cucullo risulta in un documento del 1176) e che
proseguono verso N con sopravvivenze in diversi tratti tra Grattazzo e Bivio Toscano.
Diversi elementi come il tracciato, il lastricato in arenaria locale, la larghezza oscillante
dai 3,40 ai 4,60 m, la pendenza media non superiore al 5% impongono indagini e ricerche
per verificarne l’eventuale ascendenza romana”40.
Superata Floresta, al km 23 della SS.116 a Portella Mitta, si continua al bivio a
sinistra.
è piantato un cippo che reca incisa la scritta LV. Potrebbe trattarsi di un miliare romano e la scritta LV
indicherebbe la distanza fra il lungomare di Messina, la Tonnara di Oliveri e Case Ponticelli.”
36
Sul misterioso complesso megalitico di Portella Zilla vedi C. SAPORETTI- S. V ARISCO, Il complesso
megalitico di Portella Zilla, in «Geo-Archeologia», 1999-2, Herder Editrice; gli autori non escludono che
possa trattarsi di una fortificazione romana attribuibile al periodo della guerra tra Sesto Pompeo ed Ottaviano.
37
Sui diversi termini greci adoperati per indicare le vie (basilikos dromos, odos basiliki, megali odos
ed i relativi corrispettivi latini, via regalis, via regia, via magna, publica via) sono utili le considerazioni
di M. FASOLO perché “i termini a volte risultano usati da documenti diversi o persino dallo stesso documento
per indicare lo stesso tratto di strada”. M. FASOLO, Alla ricerca di Focerò, Stab. Tipolit. Ugo Quintily,
Roma 2008, p. 22.
38
IDEM 2008, p. 10; vedi anche dello stesso Autore L’assetto del territorio ad ovest di Tindari in
Contributi alla conoscenza del Territorio dei Nebrodi, Edizioni del Rotary Club di Sant’Agata Militello,
2011
39
IDEM 2008, p. 14. Esisteva anche una via regalis o de Arangeris che da Patti portava a Bonavita di
Montagnareale, via che rappresenterebbe una tratta della via Valeria.
40
IDEM 2008, p. 24; cfr anche M. SPADARO , I Nebrodi, ed EDAS, 1993, cita il rinvenimento della
sepoltura di un soldato romano e di un tesoretto, ritrovato a Santa Domenica Vittoria agli inizi degli anni
‘90 del secolo scorso, di cui non si avrebbe più notizia.
469
ROBERTO MOTTA
Figura 7. Dorsale Argimosco-Portella balestra.
IV Tratto. Portella Mitta – Portella Femmina Morta (km 36) (Figura 7) Dorsale
Argimosco-Portella balestra
Da Portella Mitta una strada asfaltata si dirige alle Case Batessa ed a Filippelli.
Qualche km prima scende sulla sinistra uno sterrato che imbocca la valle del fiume
Flascio lungo la quale si trova una deviazione che sale verso la Contrada Acqua Santa e
la cappella delle Tre Vergini Martiri. Proseguendo invece lungo il fiume si sbocca sulla
SS 120, tra il km 178 ed il km 179, nella piana tra Randazzo e Maniace. A destra Maniace
e a sinistra Randazzo. Il passaggio lungo il Flascio, piuttosto agevole da percorrere,
potrebbe essere stato uno dei valichi più utilizzati nei collegamenti tra i paesi dei Nebrodi
e la piana di Randazzo – Maniace.
Riprendendo dal suggestivo pianoro delle case Batessa sotto la roccia di Monte del
Moro, si scende al piano delle Case Filippelli (m 1.232). Qui la Dorsale incrocia diversi
collegamenti: una prima strada scende a Tortorici passando per Portella Carcatizzo e
Batana; una seconda, oltre il ponte, scende a Tortorici passando per il lago Pisciotto,
Marù e Craperia41. Lungo queste strade nella notte della prima domenica d’Agosto
Secondo Idrisi da Mangabah a Galat (Galati) si camminava per 10 miglia. Se Mangabah corrisponde
a Tortorici, esisteva una via a livello intermedio tra la linea di cresta e il litorale che collegava Tortorici, a
Galati, S. Marco (sette miglia a ponente), S. Fratello (cinque miglia) e Caronia (quattordici miglia); se
Mangabah corrisponde a Floresta, come ritiene Santagati, allora l’itinerario potrebbe passare per Rometta,
41
470
SANTI, VIAGGIATORI, PELLEGRINI E SOLDATI SULLA DORSALE DEI PELORITANI E DEI NEBRODI
Figura 8. Case Batessa, contrada Filippelli.
salgono verso le Case Filippelli devoti da Tortorici, da Sfaranda (sede originaria del
culto) e da Castell’Umberto, che si recano a piedi all’ Acqua Santa. Il pellegrinaggio è
legato al culto delle tre Sante Vergini: infatti dal sangue di quella uccisa sarebbe sgorgata
una polla solforosa che risponde, generando piccole bolle, bugghie, a chi chiede grazie
o interroga sull’esito di eventuali malattie. (Figura 8)
All’Acqua Santa convergono devoti da molti paesi dei Nebrodi: S. Piero Patti, Raccuja,
Ucria, Tortorici, Galati, ma anche dai paesi Etnei. Da Maletto, Bronte, Maniace, Randazzo
i pellegrini, spesso di origini tortoriciane, percorrono il Flascio risalendo il vallone del fiume42.
Lungo il percorso in salita verso la polla, i pellegrini usano lasciare ai bordi della
strada un cumulo di pietre sovrapposte che ricorda i Monjoie, “un cumulo di pietre su
cui era posta una croce per segnalare ai pellegrini il giusto percorso”43. Di fatto i
pellegrini che si recano all’Acqua Santa ricalcano una rete di sentieri ed un tracciato,
lungo il Flascio, che potrebbe essere stato itinerario di collegamento tra i Nebrodi ed il
versante etneo e via di transumanza dei pastori tortoriciani44. Potrebbe essere stata questa
Monforte, Tripi, Montalbano, Floresta, Galati. Di questo itinerario rimane da chiarire il collegamento
Floresta/Mangabah-Galati. Forse si scendeva a Tortorici lungo le strade che oggi percorrono i pellegrini
verso l’Acqua Santa e da Tortorici proseguiva verso Galati? Ancora oggi i due paesi sono collegati da una
strada, asfaltata.
42
R. MOTTA, I Virgineddi all’Acqua Santa di Tortorici e u Viaggiu dei Ramara di Troina: percorsi
rituali nei Nebrodi in Ricerche Storiche ed archeologiche nel Valdemone, a cura di F. IMBESI, G. P ANTANO
e L. SANTAGATI, Atti del convegno, Furnari 2018.
43
Vedi ARLOTTA (2005), p. 835.
44
In una intervista personale, Padre Carmelo Catania, parroco di Sfaranda e studioso del rito collegato
471
ROBERTO MOTTA
la via di valico attraverso la
quale, nel 1061, Ruggero
Granconte e Roberto il Guiscardo, dopo essersi fermati
a Tripi, l’indomani “ad
Fraxinos perveniunt et a
Fraxinis ad Maniaci pratum”, intendendo per Fraxinos la zona che si estende
lungo il torrente Flascio45.
Il passaggio dei conquistatori normanni lungo il
Flascio induce a ritenere
che, provenendo da Rometta
e, il giorno dopo, da Scabatripoli (Tripi46 ) avranno
dovuto seguire l’itinerario
di Idrisi: Rometta-Monforte-Tr ip i-M ont a lba no,
salendo all’Argimosco e
scorrendo sulla linea
di
47
cresta sino a Floresta per
scendere ad Fraxinos.
Anche Arlotta conferma
l’esistenza di questo itinerario che era seguito dai
pellegrini che “lasciato
l’hospitale di Maniace e
puntando a nord, attraverso
Figura 8. Trivio Gazzana.
Montalbano potevano
raggiungere l’hospitale S. Giovanni di S. Filippo del Mela” 48.
Riprendendo il percorso della Dorsale dalla Contrada Filippelli, superato il ponte,
un cartello ci segnala un intervento del FSC (vedi nota n 3); si sale a sinistra verso a
Portella Dagara, quindi la segnaletica del SI indirizza verso ovest lungo l’altipiano, al
alle Tre Vergini, affermava che all’Acqua Santa erano stati rinvenuti oggetti d’età greca andati poi dispersi.
Vedi Padre C. CATANIA, Castania, Armenio ed., Brolo 2005.Il sito meriterebbe una indagine in quanto il
culto ed il luogo sono assimilabili a culti e luoghi analoghi della Basilicata e della Campania, frequentati
già in età preromana, vedi MOTTA 2018
45
SANTAGATI 2013, p. 89; ARLOTTA 2005, op. cit.
46
SANTAGATI 2016, p. 158.
47
Di questo sistema faceva parte probabilmente il percorso che provenendo dall’altopiano
dell’Argimusco, giunto ad ovest di Floresta, piegava verso N in direzione di Monte Cucullo (FASOLO
2008, p. 24).
48
ARLOTTA 2005, pp. 862-863.
472
SANTI, VIAGGIATORI, PELLEGRINI E SOLDATI SULLA DORSALE DEI PELORITANI E DEI NEBRODI
Figura 9. Dorsale Portella Balestra-Lago Quattrocchi.
termine del quale si entra nel bosco. Il percorso è assistito dalla segnaletica bianco rossa
del SI. Si sale sino ai 1640 m.s.l.m di Serra Pignataro dove si stacca un sentiero che
scende a Portella Gazzana. Più avanti è il pianoro di Portella Balestra: sulla sinistra una
strada scende in direzione sud, verso Serro Petrosino e sbocca sul torrente della Saracena
di fronte all’Abbazia di S. Maria di Maniace. Dopo qualche km da Portella Balestra a
Portella Scafi la Dorsale incontra sulla sinistra una strada battuta che scende verso la
Piana di Maniace, dall’altro lato, sulla destra una importante strada che scende alle case
Mangalaviti 49 a Pizzo Mueli, il trivio di Mueli,50 ed a Portella Gazzana (Figura 9).
Da Portella Gazzana si irradiano diverse strade:
49
Toponimo relitto dell’eventuale passaggio di milizie bizantine? Manglavites era infatti un grado
utilizzato dalle truppe mercenarie variaghe al soldo dei bizantini, in L. SANTAGATI, Storia dei Bizantini in
Sicilia, p. 266, Ed. Lussografica, Caltanissetta 2012.
50
Secondo S. PIRROTTI, Itinerari medievali del Valdemone, Atti del Convegno Ricerche storiche nella
zona tirrenica della Provincia di Messina dal Neolitico alla fine del Feudalesimo, Montalbano, in
«Mediaeval Sophia», 14 (luglio -dicembre 2013), p. 312, dal trivio di Mueli “si articolavano i collegamenti
tra Galati, Randazzo, Montalbano, e San Marco mediante “via puplica” (demosiaki odos) che intersecava
la via regia marittima di collegamento tra S. Marco, Naso, S. Fratello e Caronia”.
473
ROBERTO MOTTA
a) A sinistra si scende verso l’Eremo di S. Nicola, Alcara e, passato il fiume, attraverso
un sentiero, al Monastero del Rogato.
b) Andando dritti si sale alle Rocche del Crasto si supera l’altipiano che forse ospitava
il nucleo fortificato di Demenna51 (sul Pizzo S. Nicola sono presenti resti di fortificazioni
medievali).
c) Continuando oltre l’altipiano delle Rocche del Crasto, dopo una ripidissima discesa,
a Portella di Vina, prendendo a sinistra, si arriva a S. Marco d’Alunzio ai Cappuccini,
poco lontano dalla normanna Badia Grande costruita dalla Regina Margherita di Navarra.
d) Riprendendo da Portella di Vina verso nord lungo lo spartiacque del Crasto, sulla
destra una strada porta al monastero di S. Filippo di Fragalà sopra Frazzanò52.
e) Se a Portella Gazzana si prende il primo bivio a destra che scende verso il fiume,
si arriva a S. Basilio e a Galati Mamertino53. (Figura 10) In un contenuto raggio di
distanze troviamo testimonianze importanti del periodo normanno.
Alla luce dei collegamenti che abbiamo appena considerati, cambiando la prospettiva
di visione, si comprende meglio come questi siti fossero tra loro strettamente collegati.
Al centro l’altopiano delle Rocche del Crasto e la zona fortificata di Demenna; ad ovest
San Marco, Alcara ed il monastero del Rogato; ad est il monastero di S. Filippo di
Fragalà, fondamentale centro di riferimento religioso e politico prediletto da Adelasia,
madre di Ruggero II. Il punto di ingresso di questa area di monasteri e fortificazioni era
Portella Gazzana; da questa risalendo verso la Dorsale era possibile dirigersi attraverso
Portella Scafi e Portella Balestra, a sud, nella Piana di Maniace,54 dove si trova l’Abbazia
di Santa Maria di Maniace; ad ovest, lungo la Dorsale, verso Troina ed a est, attraversando
il bosco, verso contrada Filippelli, Floresta, e l’Argimosco.
Superata Portella Scafi proseguendo in direzione ovest, sulla Dorsale, si costeggia il
lago Biviere; da questo sulla destra uno sterrato scende ad Alcara passando poco lontano
dall’Eremo di S. Nicola. Proseguendo sulla linea di cresta si supera un pianoro; sulla
destra si stacca uno sterrato che porta al monastero del Rogato55. Poco più avanti Dorsale
Sui toponimi Demenna e S. Marco d’Alunzio vedi MICHELE MANFREDI GIGLIOTTI, Demenna nella
letteratura arabo sicula, Tip. Arti Grafiche Zuccarello, S. Agata Militello 2006; dello stesso autore vedi:
Passi perduti, Alla ricerca dell’antica viabilità nei Nebrodi: la via Valeria-Pompeia, Yorick Editore,
Messina 1990.
52
"Da Frazzanò una “megale odos” scendeva incrociando la via che veniva da Mirto e proseguiva
per Caprileone innestandosi con la via marittima all’altezza di Torrenova” (PIRROTTI 2013, p. 312).
53
Il gruppo di devoti che mi ha accolto nel pellegrinaggio notturno verso l’Acqua Santa è partito da S.
Basilio di Galati.
54
Sul collegamento S. Filippo di Fragalà, Pizzo Mueli, P.lla Gazzana, P.lla Balestra, bosco Grappidà
e Maniace vedi PIRROTTI 2013, p. 312: “una megalos odos passava nel territorio di Alcara e con ogni
probabilità coincideva con la megale odos che consentiva di raggiungere Grappidà presso l’odierna
Maniaci”. Su questo itinerario vedi dello stesso autore Itinerari medievali del Valdemone, in «Mediaeval
Sophia», 14 (luglio -dicembre 2013), p. 317.
55
Situato in un punto panoramico di fronte ad Alcara ed alle Rocche del Crasto. All’interno una
Dormitio Virginis, affresco del XII-XIV sec. di recente restaurato. Dal monastero si poteva raggiungere in
poche ore Alcara attraverso un viottolo che scendeva al fiume e che è ancora nella memoria degli alcaresi.
Secondo ARCIFA (2005) esisteva un “asse viario che partendo da Troina arrivava a Portella Maulazzo
(evidentemente passando per Portella Scarno) e da qui la strada definita Basilicos dromos, attraversando
51
474
SANTI, VIAGGIATORI, PELLEGRINI E SOLDATI SULLA DORSALE DEI PELORITANI E DEI NEBRODI
Figura 10. Le Rocche del Crasto viste da Portella Gazzana.
incontra il lago Maulazzo; la strada, parzialmente asfaltata porta a Portella Femmina
Morta sulla SS 289.
V tratto. Portella Femmina Morta- Portella Sella Maria- Portella Obolo-Lago
Quattrocchi- Serra Merio (km 51) (Figura 11).
Si scende lungo la SS 289 in direzione Cesarò superando il rinnovato resort di villa
Miraglia. A Portella Sella Maria si prende uno sterrato in salita che dopo circa 1 km si
immette nel SI la cui discreta segnaletica ci assisterà sino alla fine del percorso56. Dopo
6 Km si arriva al bivio di Portella Scarno: sulla sinistra la strada scende verso Troina
passando per S. Elia ed il ponte medievale. Si continua sulla Dorsale verso Portella
Ceramese (1395 m. s.l.m.) dove una segnaletica del SI ci invita a tenere la sinistra. Si
sale per Portella Calcare e Cozzo di Mangano sino alle suggestive case della abbandonata
Caserma Mafauda; si supera l’area attrezzata (per cosi dire ...) della sorgente Nocita e ci
si immette sulla SS.168 prendendo la destra verso Portella dell’Obolo che dista poco
Portella Scafi, Mangalavite, ed il trivio di Mueli giungeva a S. Marco”. Seguendo questa ipotesi che si
basa su un documento del 1143, una parte della Dorsale è riconosciuta come Basilicos dromos; quindi non
solo ne viene attestata l’esistenza ma anche l’importanza. Inoltre, come abbiamo visto, da Portella Scafi,
dove si innesta la deviazione per Portella Gazzana, il percorso della Dorsale continua verso est passando
nella foresta e al di fuori dei rigori dell’inverno è consentito ipotizzare che già nella metà del XII sec. la
strada giungesse sino alla contrada Filippelli dove poteva connettersi con la deviazione Flascio/Randazzo
che, abbiamo visto, è citata dal Malaterra (vedi III tratto). Inoltre la Arcifa precisa che: “la lettura del
documento del 1143 dà peraltro conto di ulteriori itinerari che mettevano in comunicazione i centri di
Alcara, S. Fratello e Militello intersecando il dromos”.
475
ROBERTO MOTTA
Figura 11. Torrente Fantina.
più di 1 km. Tornando al percorso dei Ramara, sulla Dorsale, a circa 6 km da Sella
Maria, si incontra un piccolo altarino con l’icona di S. Silvestro. Infatti da qui passano
i Ramara, i devoti di S. Silvestro, che nella notte del secondo giovedì di maggio partono
in gruppo da Troina per rendere omaggio al Santo e soprattutto per andare a toccare
l’alloro. Sul complesso ed interessante rito dei Ramara rimando alle autorevoli pagine
di Buttitta57 ed alla mia personale esperienza di cammino58.
In questa sede ci interessa il percorso battuto dai Ramara e che in parte coincide con
quello dei Ddarara che si muovono esclusivamente a cavallo verso la montagna deviando
poi su una differente località verso Ovest per andare a raccogliere l’alloro. I Ramara
partono il giovedi sera dalla chiesa di S. Silvestro di Troina, scendono al ponte medievale
di Failla, salgono di notte verso la montagna passando accanto al Monastero di S. Elia59.
Superata la Contrada Ambulà e la contrada Sambuchello si immettono nella Dorsale a
Portella Scarno. La percorrono per qualche km per poi deviare verso Serra Stricatori
56
57
Vedi nota n. 3
I. E. B UTTITTA, Feste dell’Alloro in Sicilia, Archivio delle tradizioni popolari siciliane, Palermo
1992.
MOTTA, (2018).
Sulla vita di S. Silvestro ed in generale sui monasteri italo-greci vedi M. STELLADORO, S. Silvestro da
Troina e il Monachesimo Italo-greco in Sicilia e nell’Italia Meridionale, Ed CNx, 2014.
58
59
476
SANTI, VIAGGIATORI, PELLEGRINI E SOLDATI SULLA DORSALE DEI PELORITANI E DEI NEBRODI
Figura 12. Viaggio di ritorno dei Ramara; sullo sfondo il Santuario di Sant’Elia.
dove fanno campo prima di calarsi all’Angara i faccilonga e a toccare l’alloro. L’itinerario
dei Ramara da Troina sino alla deviazione verso Serra Stricatori, costituisce una parte
del collegamento, via Dorsale, tra Troina, Maulazzo, Portella Gazzana e ed i paesi dei
Nebrodi60. L’ipotesi che questa stessa via sia stata battuta dai normanni nel periodo
della conquista appare plausibile, confortata dalla presenza lungo il percorso del
monastero di S. Elia d’Ambulà61. Di fatto grazie a questo itinerario poco più di una
giornata di cammino (34 km da Portella Scarno sino a Portella Gazzana) separa Troina
dai siti che si raccordano su Portella Gazzana. (Figura 12)
Riprendendo la Dorsale a Portella dell’Obolo, le cartine del Parco dei Nebrodi e del
SI, li esposte, ci informano sul tracciato da seguire sino al lago Quattrocchi e Serra
Merio. Prima di entrare nel bosco, a Portella Pomiere, un sentiero sulla sinistra scende
lungo il vallone Noceri e si innesta su una strada che porta a Capizzi62. Al Km 18 della
Dorsale si entra nel bosco della Tassita e dopo 2,5 km si supera un’area attrezzata
60
Il viaggio dei Ramara da Troina al Campo di Serra Stricatori dura una notte; già alle prime luci dell’alba si arriva in Dorsale a Portella Scarno a circa 9 km da Sella Maria.
61
Su questo asse viario vedi ARCIFA che sulla base di un documento comitale del 1143 conferma “che
la via si dirigeva verso Nord, cioè verso i monti di S. Elia d’Ambulà, per giungere poi a Portella Maulazzo”.
Come abbiamo visto da Maulazzo si può scendere al Rogato oppure proseguire per Portella Balestra e
Portella Gazzana (ARCIFA 2005, pp. 97-98).
62
ARCIFA 2005 identifica in un documento del 1168 la Regia Trazzera del Pomiere tra Caronia e
Capizzi.
477
ROBERTO MOTTA
abbandonata; si scende verso una zona umida dove negli anni passati era un suggestivo
laghetto; la strada prosegue nella boscaglia sino al pianoro della Cannedda, ove è un
piccolo altarino dedicato a S. Antonio da Padova che, secondo la tradizione, dopo essere
passato da Capizzi, si sarebbe fermato in questa località. Qui si radunano i fedeli capitini
di Sant’Antonio che con le loro cavalcature, ma anche a piedi o con i fuoristrada, nella
notte tra il 31 ed il 1 settembre si inoltrano nel bosco insieme a pellegrini appiedati,
verso a Cannedda, passando per contrada Uriosecco, Portella Cerasa e Pizzo Acqua dei
Vitelli63. Dalla Cannedda si continua in direzione Serro Merio, assistiti, ove presente,
dalla segnaletica del SI; superata la contrada Salomone, si continua verso le case
Mascellino e si esce dal bosco in arido sterrato. Quindi ci accoglie il quieto laghetto
Urio Quattrocchi; dopo qualche km si arriva a Serra Merio, all’incrocio con la SS 117
che scende a Mistretta.
Conclusioni
Al termine di questo cammino virtuale lungo la Dorsale da Portella San Rizzo a
Serra Merio possiamo trarre alcune conclusioni.
Abbiamo prove documentali che alcuni passaggi di valico che incrociano la Dorsale
sono stati luoghi di battaglia o di passaggio di eserciti: mi riferisco al tratto attorno a
Croce Cumia nel corso della battaglia di Lombardello ed al passaggio dell’esercito
austriaco dal valico delle Tre Fontane. Altri tratti della Dorsale sono stati percorsi nel
medioevo ed in particolare nel periodo della conquista normanna: il tratto MessinaRometta-Tripi-Flascio-Maniace (Malaterra), il tratto Troina-Portella Scarno-MaulazzoPortella Scafi-Portella Gazzana (documento comitale del 1143 di Arcifa). È probabile
che pezzi intermedi sui quali non abbiamo specifici riferimenti documentali, come
l’attraversamento del bosco tra Portella Dagara e Portella Balestra/Scafi, siano stati
comunque utilizzati perché efficaci raccordi stradali anche se condizionati dai rigori
invernali. Alcuni siti sono importanti snodi di collegamento della Dorsale con i due
versanti tirrenico e jonico: Dinnammare; Pizzo Croce; Pizzo Mualio; le Tre Fontane;
l’Argimosco; Favoscuro; la contrada Filippelli/Flascio; Portella Balestra/Portella Scafi.
Alcuni sono perno delle principali trasversali alla Dorsale: la Santa Lucia del Mela/
Castroreale-Gala-Mandanici; la Torrente Zappulla-Tre Fontane e Torrente Fantina/ Patrì
forse percorsa nel 36 a.C. dai legionari di Cornificio e ma certamente valicata nel 1679
dai 20.000 uomini dell’esercito austriaco. Attraverso il vallone del Flascio i fratelli
Ruggero e Roberto sarebbero giunti con due giorni di cammino da Rometta a Maniace.
La presenza, ancor oggi sullo stesso tratto di un percorso devozionale di devoti provenienti
dai Paesi dei Nebrodi ed Etnei verso l’Acqua Santa, conferma anche sul piano
antropologico l’importanza di questo collegamento intervallivo. Cosi i Ramara di Troina
durante il rito in onore di S. Silvestro battono la stessa terra che hanno calpestato i
A Cannedda si fa festa. Tra gli Urdurara (i fedeli possessori di cavalcature) viene effettuato il
sorteggio dello Stendardo del Santo. Molti fedeli rendono omaggio al Santo lasciando rami d’alloro
sull’altare. Quindi i pellegrini, preceduti dalla Bannera, che è portata dal vincitore, tornano a Capizzi per
una Nntrata Addauru, bardati di rami d’alloro. Vedi BUTTITTA 1992.
63
478
SANTI, VIAGGIATORI, PELLEGRINI E SOLDATI SULLA DORSALE DEI PELORITANI E DEI NEBRODI
normanni da Troina sino a Portella Scarno e Portella Gazzana. Sarebbero altresì da
approfondire le indicazioni di Fasolo e di Todaro sulla possibile presenza di resti di
strade romane attorno ai poli Argimosco e Favoscuro, e le ipotesi di Saporetti e Varisco
su Portella Zilla come posto di guardia romano al tempo di Sesto Pompeo. È inoltre di
indubbia constatazione che ai siti terminali dei bracci trasversali della Dorsale, o
comunque ad essa collegati, vi siano i monasteri di rito italo-greco. I percorsi interni
consentivano rapidi spostamenti e contatti tra i centri religiosi anche solo con qualche
giorno di cammino. Pertanto il sistema viario interno consente di guardare in una
prospettiva di sistema la collocazione dei monasteri italo-greci lungo i crinali e le fiumare
ortogonali alla linea di cresta, come rami di un albero il cui tronco è la Dorsale.
Mi auguro infine che la presente revisione del percorso di cresta dei Peloritani e dei
Nebrodi contribuisca alla tutela del sistema viario della Dorsale e dei suoi principali
bracci e solleciti la conservazione dei tracciati e dei geositi naturali esistenti, contro
ogni tendenza allo stravolgimento del territorio.
479
ROBERTO MOTTA
Bibliografia
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in Tra Roma e Gerusalemme nel Medioevo, a cura di MASSIMO OLDONI, Laveglia Editore,
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in La Valle d’Agrò. Un Territorio una storia un destino, Convegno internazionale di
studi a cura di CLARA BIONDI, Officina di Studi Medievali, 2005.
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481
482
I SANTI BASILIANI DEL VALDEMONE
SHARA PIRROTTI*
Il fenomeno monastico cosiddetto basiliano fu rilevante in Sicilia non soltanto per le
emergenze architettoniche di pregio disseminate sul territorio, specie nella pars orientalis
della nostra isola (alcune delle quali apprezzabili ancor oggi), ma anche perché
l’esperienza cenobitica basiliana plasmò numerosi santi monaci, che sono in seguito
divenuti i patroni dei comuni di nascita o di adozione, all’interno di quell’area denominata,
nel lungo arco temporale che va dal pieno Medioevo all’età Borbonica, “Valdemone”.
Santità basiliana
La santità era l’obiettivo culminante della vita di un monaco: per raggiungere la
condizione di perfetti, cioè simili agli angeli, ogni cenobita era disposto a sottomettersi
a prove durissime di isolamento, digiuno e a ogni sorta di privazioni1.
Lo stesso termine monakós, d’altronde, significa propriamente perfetto, non diviso,
assimilato cioè all’unità assoluta, alla totalità che si realizza nell’intimità con il divino,
mediante il raggiungimento della esukía (la contemplazione in totale solitudine) e
dell’apotaghé (la rinuncia ai beni mondani)2.
San Basilio aveva consigliato ai monaci che avessero voluto imitare il suo esempio,
dedicandosi interamente a Dio, di suddividere la loro giornata tra il lavoro, la preghiera
e le opere di carità3. Tra queste ultime, erano incluse tutte le azioni che consentissero ai
comuni mortali rimasti nel mondo di convertirsi e salvare la propria anima. La
popolazione medievale, infatti, seguendo il sistema di credenze di allora, non si sentiva
degna di salvarsi da sola, e per questo delegava i monaci a fungere da trait d’union tra la
terra e il cielo4. I monaci pregavano per i loro confratelli, per i congiunti che avevano
dovuto abbandonare una volta entrati in monastero, ma anche per l’intera umanità e per
chiunque glielo avesse chiesto, donando talvolta in contraccambio parte dei propri averi5.
La funzione salvifica dei monaci basiliani, oltre che dalle preghiere, era talvolta suggellata
* Dottore di ricerca in Storia Medievale.
1
Cf. S. P IRROTTI, I monasteri basiliani nel Medioevo: origine, dislocazione, funzione religiosa ed
economica, rapporti col territorio. Atti del Convegno di Studi, Messina 23-24 marzo 2006, a cura
dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, Messina 2006, pp. 11-18.
2
Cf. G. PENCO, Storia del monachesimo in Italia. Dalle origini alla fine del Medioevo, Paoline, Milano
1983, Tempi e figure 31, pp. 21-22.
3
Cf. S. P IRROTTI,, Il monastero di Fragalà (secoli XI-XV). Organizzazione dello spazio, attività
produttive, rapporti con il potere, cultura, Officina di Studi Medievali, Palermo 2008, p. 19.
4
Ivi, pp. 302-303.
5
Ivi, p. 306.
483
SHARA PIRROTTI
da segni prodigiosi, che i santi monaci erano in grado di compiere, perché la loro vita
austera li poneva in contatto diretto con la divinità, che operava attraverso di loro6.
Per questo speciale carisma, alcuni santi basiliani, taumaturghi riconosciuti dai
contemporanei, furono talvolta gli interlocutori prescelti di amministratori e sovrani,
per interpretare segni, porre fine a pestilenze e afflizioni, dispensare consigli sul modo
più corretto di vivere la fede cristiana.
San Lorenzo da Frazzanò
San Lorenzo, per esempio, che nacque a Frazzanò nel 1120, secondo la datazione
proposta da Caetani, fu monaco presso i monasteri di S. Domenica di Troina, di San
Filippo di Agira e di San Filippo di Fragalà, e fu interpellato dai governatori della città
di Reggio Calabria per porre fine a una terribile pestilenza, che imperversava in città7. Il
suo intervento miracoloso e le sue parole di monito alla popolazione, perché si convertisse
e facesse penitenza, conseguirono il risultato di porre fine al flagello, che aveva già
mietuto un numero considerevole di vittime. La sua infaticabile opera di costruttore di
chiese, predicatore e convertitore di infedeli, svolta per tutta la vita, lo rese uno dei
protagonisti del monachesimo greco isolano, che supportò i Normanni nell’opera di
Rekatolisierung della Sicilia all’indomani della conquista, riportando l’isola nell’orbita
della chiesa di Roma e contribuendo in modo definitivo alla sua occidentalizzazione8.
La precocità della vocazione monastica, la sua vita esemplare, la dolcezza e amorevolezza
del carattere, i miracoli, i numerosi segni prodigiosi alla sua nascita e alla sua morte,
attirarono a Dio masse di fedeli e devoti9. Lorenzo morì probabilmente nel 1162, a 42
anni, e fu proclamato santo già subito dopo la sua morte, perché l’arcivescovo Roberto,
che ne conosceva le innumerevoli doti e la sperimentata santità, autorizzò
immediatamente la venerazione delle sue reliquie10.
Oggi la comunità frazzanese lo venera come il proprio patrono. A San Lorenzo sono
dedicate ben tre feste, che si svolgono il 22 ottobre, giorno della sua nascita, il 30
dicembre, giorno della sua morte, e il 10 agosto, giorno del suo onomastico e anniversario
della traslazione delle sue reliquie dalla chiesa di Tutti i Santi, da lui costruita, nella
chiesa Madre di Frazzanò. In quest’ultima ricorrenza, a Frazzanò si svolge una festa
solenne che dura tre giorni, durante la quale si portano in processione per le vie del
paese le reliquie di san Lorenzo, conservate in un busto e in un braccio d’argento di
pregiatissima fattura, oggetto di grande venerazione da parte dei fedeli. La sontuosa
statua grande di San Lorenzo, che si trova nell’omonima chiesa dietro una teca sopra
Ivi, p. 307.
Cf. EADEM, Notamento del nascimento del beato Lorenzo et sua vita…, GBM, Messina 1996; EADEM,
Vita di un eroe medievale siciliano. Tre manoscritti su san Lorenzo da Frazzanò, Messina 2003 [Cultura
e civiltà dei Nebrodi, 1], pp. 156-159.
8
Ivi, p. 5.
9
I meriti della santità impegnati nel culto di San Lorenzo Confessore Siciliano. traccia storica descritta
dall’Arciprete Monsù Scolaro Giuseppe, in ivi, pp. 91-92.
10
Ivi, pp. 10-11. Sul significato e l’importanza delle reliquie in epoca medievale, cf. M. STELLADORO,
Significato, ruolo, potere e culto delle reliquie, in in «PECIA. Ressources en mιdiιvistique», 8/11, 2005,
pp. 65-87, Reliques et Saintiteté dans l’espace médiéval.
6
7
484
I SANTI BASILIANI DEL VALDEMONE
l’altare, viene in questa occasione fatta scendere durante una cerimonia religiosa, e
portata in processione con grande entusiasmo del folto pubblico presente, che accorre
anche dai comuni vicini e dall’estero. Il giorno prima, 9 agosto, un pellegrinaggio,
denominato Serra Serra, percorre invece tutto il perimetro comunale, partendo dalla
chiesa di San Lorenzo con il mezzo busto reliquiario del santo, soffermandosi per la
messa presso il monastero di San Filippo di Fragalà, e proseguendo il percorso tra le
incantevoli colline circostanti l’abitato, che regalano, oltre ai momenti di riflessione e
preghiera presso apposite edicole erette lungo la strada dai devoti, anche scorci panoramici
mozzafiato.
San Nicolò Politi di Adrano
Strettamente legato al suo contemporaneo Lorenzo da Frazzanò, è un altro grande
santo, Nicola, o Nicolò, Politi, originario di Adrano. La sua vita è singolare: nato il 3
agosto 1117 da nobile famiglia e destinato a un ricco matrimonio, il giovane, ispirato da
un angelo, fuggì nottetempo da casa sua per sottrarsi alla mondanità, rifugiandosi prima
in una grotta sull’Etna, denominata Aspicuddu, e successivamente in una spelonca della
rocca Calanna, nei pressi dell’abitato di Alcara Li Fusi11. Lì Nicolò trascorse il resto
della sua breve vita in meditazione, penitenza e preghiera, donandosi interamente a Dio,
nutrito da un’aquila che quotidianamente gli portava del pane. La sua solitudine era
mitigata unicamente dall’appuntamento settimanale con l’eucarestia, che riceveva ogni
sabato al monastero di Santa Maria del Rogato, che si trova a circa due chilometri dalla
spelonca dove viveva12.
Lorenzo e Nicolò rappresentano due modi contemporanei di vivere il monachesimo
basiliano: per Lorenzo fu congeniale il cenobitismo, la vita in comunità, da cui trarre e
a cui elargire i migliori frutti di santità; Nicolò invece preferì l’ascetismo, la
contemplazione solitaria, la preghiera incessante e il silenzio. I due santi si conobbero
presso il monastero di Santa Maria di Maniace13, e insieme si incamminarono per una
strada di una trentina di chilometri, che ancora oggi congiunge l’abbazia di Santa Maria
di Maniace (all’interno dell’odierno castello Nelson) al monastero di San Filippo di
Fragalà e a San Marco d’Alunzio14. Lungo il percorso, per lo più all’interno dell’odierno
parco dell’Etna e del parco dei Nebrodi, i due santi ebbero modo di condividere preghiere,
scambiarsi opinioni e idee, corroborando un’amicizia che si rinnoverà in un successivo
11
Tra le più antiche e note biografie di san Nicolò Politi, vi sono quelle dell’arciprete alcarese A. G. M.
SURDI, Le vittorie della penitenza collegate all’amor divino…, Antonino Epiro, Palermo 1707 e dell’adranita
S. PETRONIO RUSSO, Della vita e del culto di S. Nicolò Politi eremita, Tip. Del Progresso di L. Di Giorgio
di Ant., Messina 1880-81; nonché i poemi di P. M ERLINO, Lu Nicolau eremita, poema in ottava rima in
dialetto siciliano, Messina 1652 e M. CASSATI Il Nicolò Romito, poema in ottava rima in lingua italiana,
Palermo 1680. Riferimenti al santo si trovano anche in B. RADICE, Memorie storiche di Bronte, Bronte
1928, pp. 296, 301, 400 e in numerose pubblicazioni più recenti.
12
PIRROTTI, Vita di un eroe medievale, cit., p. 54.
13
Ivi, p. 62.
14
Sull’itinerario percorso dai due santi, cf. EADEM, Un itinerario normanno nel Valdemone, in Nuove
ricerche sul Valdemone medievale, Edizioni del Rotary Club di Sant’Agata Militello, Sant’Agata Militello
2005, pp. 39-61.
485
SHARA PIRROTTI
incontro al monastero di Santa Maria del Rogato ad Alcara Li Fusi, per concludersi solo
alla morte di Lorenzo, il 30 dicembre 116215. Nicolò morì cinque o sei anni più tardi e fu
scelto come patrono di Alcara, in virtù dei suoi prodigiosi miracoli. Il più noto è quello
avvenuto il 10 maggio 1503, quando san Nicolò Politi salvò il paese da una grave siccità,
a seguito delle incessanti preghiere degli abitanti di Alcara sulle sue spoglie, recate in
processione al monastero di Santa Maria del Rogato16. Il monastero del Rogato17, oltre
a essere il cenobio nel quale il santo si recava settimanalmente per partecipare alla
messa, è collegato a un altro, clamoroso miracolo, riguardante il ritrovamento del corpo
del santo, narrato da Caetani, morto in posizione inginocchiata nell’atto di pregare18.
Dopo il ritrovamento, il cadavere di Nicolò fu misteriosamente traslato dalla grotta
Calanna al Rogato, dove rimase in posizione genuflessa per quasi 400 anni. Nel
Cinquecento, quando fu proclamato santo dal Papa Giulio II, le sacre reliquie furono
deposte in una preziosa arca, custodita fino a oggi nella chiesa Madre di Alcara, insieme
alla statua genuflessa di Nicolò.
La festa patronale inizia il 15 agosto, quando ha luogo un pellegrinaggio con la
statua del santo recata a spalla dalla chiesa Madre alla chiesa di santa Maria del Rogato.
Il pellegrinaggio inaugura il triduo dei festeggiamenti, culminanti il 17 agosto, quando
ricorre l’anniversario della morte, con la processione solenne della statua e della preziosa
cassa con le reliquie per le vie del paese. Il giorno successivo, all’alba, i devoti si recano
in pellegrinaggio all’eremo di san Nicolò, dove si svolge la messa. Dopo la messa, la
statua è portata in processione alla chiesa di S. Elia, da dove, in serata, il santo rientra
nella chiesa Madre. A chiudere la festa, un poeta scelto annualmente tra tutti gli abitanti
di Alcara, legge una composizione poetica nelle otto piazze del paese, in cui rievoca la
vita di san Nicolò a episodi, uno per ogni quartiere. Quando il poeta giunge nella chiesa
Madre, legge il capitolo finale con la morte del santo, dopo il quale il parroco celebra il
cosiddetto “perdono” benedicendo i fedeli con la reliquia della mano del santo. Al termine
della cerimonia del perdono, la cassa con le reliquie viene riposta in una cappella insieme
alla statua del santo, fino al maggio successivo19.
Anche ad Adrano, città natale del santo, la festa patronale ricorreva inizialmente il
17 agosto, per ricordare il transito al cielo di Nicolò Politi, confermato patrono nel
1742. Pochi anni più tardi però, nel 1748, il popolo adornese chiese al papa di poter
anticipare la festa al 3 agosto, anniversario della nascita del santo, per poterla meglio
incastonare tra le altre due feste principali di S. Pietro in Vincoli, che si celebra il primo
agosto, e quella della Madonna della Catena, festeggiata il cinque agosto. Il papa
Benedetto XV autorizzò lo spostamento di data, che da allora si è mantenuta nei primi
giorni di agosto. La festa di san Nicolò di Adrano è annunciata dalla Calata dei cantanti,
EADEM, Vita di un eroe medievale. cit., p. 62.
PETRONIO RUSSO, Della vita e del culto di S. Nicolò Politi, cit., p. 102.
17
PIRROTTI, Vita di un eroe medievale, cit., pp. 61-63.
18
O. GAETANI, Vitae Sanctorum Siculorum ex antiquis Graecis Latinisque monumentis, & vt plurimum
ex m.s.s. codicibus nondum editis collectae, aut scriptae, digestae iuxta seriem annorum Christianae
epochae, & animaduersionibus illustratae, vol. 1, Panormi, Cirilli, 1657, p. 183.
19
Tutte le informazioni sulla festa di Alcara Li Fusi mi sono state fornite da Matteo Bompiedi, poeta
alcarese e amico, che ringrazio.
15
16
486
I SANTI BASILIANI DEL VALDEMONE
che ha luogo il 2 luglio a mezzanotte, quando la banda musicale attraversa il centro
storico, partendo dalla chiesa di san Filippo e raggiungendo la chiesa di S. Nicolò,
costruita nel XVII secolo, nel luogo in cui si trovava la casa del santo, a spese degli
adornesi. Al mattino presto del 2 Agosto parte un pellegrinaggio dalla chiesa del santo
alla Grotta nella contrada dell’Aspicuddu, che fu il primo eremo di S. Nicolò Politi,
passando per la Chiesa Madre, dove si trova il reliquiario del santo, e la piazza S. Agostino,
con la statua settecentesca dedicata ex voto al santo Nicolò. Il 3 agosto inizia con la
cosiddetta messa dell’aurora celebrata sul sagrato della chiesa di san Nicola e culmina
nella cosiddetta Volata dell’Angelo, che commemora la chiamata divina del giovane
Nicolò. La cerimonia ha luogo al termine della processione per le vie del paese, che
verso le ore 20.00 si arresta in Piazza Umberto. Qui un ragazzino vestito da angelo
viene sospeso a 12 metri di altezza mediante un filo d’acciaio tirato tra il Palazzo Bianchi
e la Chiesa Madre. Il giovane volteggia intorno alla statua del santo, gli recita una
preghiera e getta un mazzo di fiori. L’evento è definito per tradizione il Volo dell’Angelo20.
La festa si protrae anche il giorno successivo con la processione conclusiva21.
Silvestro di Troina
Presso il monastero dell’arcangelo Michele di Troina, San Lorenzo da Frazzanò
conobbe il suo coetaneo Silvestro, nato nel 1110 e morto verosimilmente nel 1164.
Silvestro fu ordinato sacerdote direttamente da papa Adriano VI. Di ritorno da Roma
dopo l’ordinazione, il santo si fermò a Palermo, alla corte del re Guglielmo il Malo, il
cui figlioletto e futuro re Guglielmo II, fu da Silvestro guarito da una grave malattia. Il
miracolo gli conferì un’aura di santità tale che, rientrato a Troina, venne eletto abate del
suo monastero, ma successivamente preferì ritirarsi in solitudine e praticare l’eremitismo
in una cella appartata22.
Come per Lorenzo da Frazzanò e Nicolò Politi, anche il culto di Silvestro si diffuse
negli anni immediatamente successivi alla sua morte, per la fama di santità di cui godette
20
Cf. F. N ICOTRA, Dizionario illustrato dei Comuni siciliani, compilato col concorso d’insigni
collaboratori e dei Municipi della Sicilia, con proemio di G. Pipitone-Federico, Società editrice del
Dizionario illustrato dei Comuni siciliani, Palermo 1907-1908, vol. I.
21
Pagina facebook San Nicolo Politi Adrano; https://www.comune.adrano.ct.it/Info_Turismo/
san_nicolo_politi_storia_e_culto.aspx.
22
Su san Silvestro cf. G. CHIAVETTA DA TROINA, Vita di San Silvestro da Troina monaco dell’Ordine di
S. Basilio Magno, Messina 1734; S. FIORE, San Silvestro monaco basiliano di Troina, Grottaferrata 1930;
Historia di Santo Silvestro, monaco basiliano, patrono della città di Troina, a cura di B. ARONA E M.
RAGUSA, Troina 2000; Il culto di San Silvestro a Troina attraverso lo studio delle confraternite e di un
particolare ex voto, in Atti della I giornata di studi su San Silvestro monaco basiliano di Troina. La vita,
la memoria, la tradizione (Troina, 1 gennaio 2005), a cura di PAOLO GIANSIRACUSA e SEBASTIANO VENEZIA,
Troina 2006; San Silvestro e il monachesimo italogreco a Troina: testimonianze di storia arte e fede, in
Atti della seconda giornata di studi su San Silvestro monaco basiliano da Troina (Troina, 28 dicembre
2005), a cura di SEBASTIANO VENEZIA, Villaggio Cristo Redentore, Troina 2007; San Silvestro e la “Civitas
vetustissima”: aspetti agiografici e memorie storiche, in Atti della III giornata di studi su San Silvestro
monaco basiliano da Troina (Troina, 28 dicembre 2006) a cura di SEBASTIANO VENEZIA, Troina 2008; M.
Stelladoro, San Silvestro da Troina e il monachesimo italo-greco in Sicilia e in Italia meridionale (secc.
IX-XIII d.C.), Roma 2014.
487
SHARA PIRROTTI
mentre era in vita. Diventato patrono di Troina, viene festeggiato annualmente il 2
gennaio, giorno del suo transito al cielo. In quell’occasione, un corteo di uomini, su
muli e cavalli, depone fasci e corone di alloro sulla sua tomba. Tra maggio e giugno,
invece, viene organizzato un vero e proprio Festino, che inizia con la festa dei Rami, la
penultima domenica di maggio, per la quale alcuni devoti, detti Ramara, dal giovedì
sera all’alba del sabato, cercano nei boschi rami di alloro, calandosi anche nei dirupi
con le corde per recuperarli. Arrivano fino ad Anghira di Faccialonga, un bosco nel
territorio di San Fratello, seguendo un percorso faticosissimo, per adempiere un voto
fatto a san Silvestro e fare le loro promissioni. La domenica mattina i Ramara sono
accolti dal rullo dei tamburi e portano nella chiesa di san Silvestro i rami di alloro
raccolti su alte aste con immagini sacre e fiori. I rami serviranno per addobbare la vara
del santo patrono23. La seconda parte del Festino è la Ddarata, la domenica successiva,
quando vengono impiegati cavalli e muli per raccogliere rami di alloro da offrire in
omaggio al santo patrono24. Un altro momento suggestivo del Festino in onore di san
Silvestro è la Kubbaita, il corteo storico che rievoca l’ingresso di Carlo V in città nel
1535, che include la degustazione di prelibatezze locali25. Il festino è celebrato dai fedeli
con uno sfarzo singolare, che Federico De Roberto volle immortalare in un suo scritto
meno noto26. Le tradizionali, solenni uscite della vara di san Silvestro hanno luogo il
lunedì successivo alla prima domenica di giugno e il 9 settembre, in occasione della
fiera annuale27.
San Cono da Naso
Il più giovane tra i santi basiliani siciliani è Cono, detto anche Conone, nato a Naso
il 3 giugno 1139, da una ricca famiglia, i Navacita, che avevano progettato per lui
un’esistenza di agi e benessere. Ma, come Niccolò di Adrano, Cono fin da giovane fu
attratto dalla vocazione monastica, e a 15 anni, sia pure con il rammarico di dover
lasciare i genitori e la famiglia, chiese di essere ammesso presso il locale monastero di
San Basilio. Dopo il noviziato, durante il quale praticò una condotta esemplare, fu inviato
presso il monastero di San Filippo di Fragalà, dove conobbe i futuri santi Silvestro di
Troina e Lorenzo da Frazzanò, che furono suoi educatori e guide spirituali.
Successivamente trascorse molti anni da eremita nella grotta di Rocca d’Almo sui monti
Nebrodi. Poi ritornò al monastero di San Basilio di Naso per sostituire l’abate, e
successivamente compì un viaggio in Terrasanta, che per un monaco orientale costituiva
il must dell’epoca. Durante il viaggio di ritorno in patria, giunse in Calabria, dove operò
https://www.fedeliramara.it/
https://www.facebook.com/groups/fedeliddarara/
25
https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/06/19/troina-festeggia-san-silvestrocon-vastedda-condita.html
26
F. DE ROBERTO, San Silvestro da Troina, Normanno, Enna 1991, cf. anche S VENEZIA, Itinerario
culturale ai confini del provincialismo secc. XIX-XX, lettere inedite di Salvatore Saitta a Federico De
Roberto, La normanna, Troina 2003.
27
Molti siti descrivono il famoso Festino di san Silvestro. Si cf. per esempio https://
www.siciliainfesta.com/feste/festino_di_san_silvestro_troina.htm; https://www.vivasicilia.com/festino-disan-silvestro-monaco-troina; https://www.fedeliramara.it/2-informazioni.
23
24
488
I SANTI BASILIANI DEL VALDEMONE
alcuni miracoli. Dopo la morte dei genitori, diede in beneficenza i suoi molti beni e si
ritirò nella grotta di San Michele Arcangelo. Qui trascorse il resto della sua vita da
eremita, sottoponendosi a rigide privazioni e penitenze. Morì il 28 marzo 123628. È
venerato come patrono nei comuni di Naso, in provincia di Messina, e San Cono, in
provincia di Catania, dove si festeggia la seconda domenica di maggio29.
Il suo culto si diffuse in tutta la Sicilia e in Calabria già poco tempo dopo la sua
morte. A Palermo esiste una reliquia del braccio del santo, mentre un dito è custodito a
Briatico, in provincia di Vibo Valentia. Altre sue reliquie furono custodite, insieme a
quelle degli altri santi basiliani, presso il monastero di San Filippo di Fragalà e oggi si
conservano nella chiesa Madre di Frazzanò. A Naso, sua città natale, dal 1 al 29 agosto
di ogni anno, nel tempio a lui intitolato, si tiene il cosiddetto capitolo di san Cono, dove
quotidianamente si celebrano la coroncina in onore dal santo e la messa. Il 29 agosto, le
reliquie e la statua mezzo busto di san Cono (realizzata nel 1922 al posto del mezzo
busto reliquiario del XVI secolo distrutto in un incendio) vengono prese dalla cripta del
tempio di San Cono, poste sulla Grande Vara settecentesca e portate in processione fino
alla Chiesa Madre, da dove partono ogni anno i festeggiamenti solenni. Essi sono
costituiti, il 29-30 e 31 agosto, dal triduo preparatorio alla festa vera e propria, che si
svolge il primo settembre, giorno in cui si commemora la traslazione delle reliquie nella
cripta a lui dedicata, costruita verosimilmente nel luogo dove sorgeva la grotta di san
Michele. L’1 settembre, dopo la messa, la processione inizia dalla chiesa Madre e si
conclude nella chiesa della Madonna della Catena nella parte bassa di Naso, detta Bazia.
L’8 settembre si svolge la seconda parte della festa, detta “l’Ottava”, quando la
processione con la statua di san Cono e il reliquiario sono spostate dalla chiesa della
Catena al tempio di san Cono, e qui si conservano per un anno.
A Naso si celebrano altre due feste religiose con processione del mezzo busto e
reliquie, rispettivamente il 5 marzo e il 28 dicembre, per commemorare lo scampato
pericolo in occasione dei terribili terremoti del 1823 e del 1908. Un’altra ricorrenza in
onore del santo è il 28 marzo, quando si celebra una messa in ricordo del giorno della
sua morte: alle tre del pomeriggio, si fa suonare una campanella, che ricorda il suono
miracoloso delle campane quando Cono fu chiamato alla casa del Padre.
Oltre al venerato mezzo busto di san Cono, mons. Portale negli anni ’30 fece realizzare
a Ortisei una statua di san Cono orante in ginocchio, per ricordare il momento del suo
transito in cielo nella grotta di san Michele. Sotto la statua c’è un cartiglio recante la
scritta: “Libera devotos et patriam a fame, peste, bello et tirannica dominatione”30.
Per le notizie storiche sulla vita di san Cono, cf. GAETANI, Vitae Sanctorum Siculorum, cit., pp. 200202. Cf. anche A. PORTALE, La città di Naso in Sicilia e il suo illustre figlio S. Cono Abate, Tip. V. Bellotti,
Palermo 1938; C. INCUDINE, Naso illustrata, a cura di G. Buttà, Giuffrè, Milano 1975 (I ed. G. De Angelis,
Napoli 1882); G. LANZA, Fioretti di Naso: cose notabili, ed antiche consuetudini della università di Naso
scritte da don Girolamo Lanza nell’anno 1630, a cura di Lucia Sorrenti con introduzione di Mario Tedeschi,
Giuffrè, Milano 1995.
29
https://www.siciliainfesta.com/comuni/san_cono.htm; https://www.comune.sancono.ct.it/it-it/
appuntamenti/festa-patronale-di-san-cono-47030-1-7344b401f4aa4411807bc79d5444c315.
30
Le notizie sulle feste mi sono state fornite dal parroco di Naso, don Calogero Tascone, oggi direttore
spirituale del Seminario di Patti, che ringrazio. Cf. anche il sito www.sanconoabate.it.
28
489
SHARA PIRROTTI
Questa statua grande di san Cono fu portata al monastero di san Filippo di Fragalà
per commemorare l’amicizia tra i quattro santi basiliani, sia nel 1964, sia quasi
cinquant'anni più tardi, il 22 luglio 2012, in occasione del giubileo di San Lorenzo. In
quell’occasione, a Frazzanò giunsero anche le statue di san Nicolò Politi e san Silvestro,
accolte da quella di san Lorenzo, con gran concorso di fedeli, in un’atmosfera di gioiosa
commozione. Periodicamente le statue e i loro fedeli si incontrano in una delle cittadine
di cui i santi sono patroni, a suggello della documentata amicizia tra loro e della devozione
alla santità basiliana che accomuna molti centri montani di quello che è comunemente
riconosciuto come paese Nebrodi.
Conclusione
Al di là dei tópoi agiografici, propri di molte biografie di santi medievali, raccontare
le vite di questi santi patroni vale a riflettere sulla figura del santo che, contrariamente
a quanto comunemente si pensi, non è un essere sovrumano, dotato di poteri paranormali,
ma è, il più delle volte, un uomo semplice, che ha il coraggio di scegliere l’amore verso
Dio e verso il prossimo, preferendolo al proprio interesse. Un uomo semplice che
considera la compassione incondizionata, che è in grado di offrire e ricevere, il sommo
bene, superiore a tutte le ricchezze terrene.
I santi patroni del Valdemone costituiscono dunque venerati esempi, tuttora attuali,
di solidarietà e condivisione, beni indispensabili di cui ognuno di noi dovrebbe dotarsi,
nell’ottica di una significativa ricostruzione del mondo, che si fondi su quei valori eterni
e inalienabili senza i quali l’umanità è incapace di sopravvivere. Ce lo sta insegnando,
drammaticamente, la pandemia da coronavirus, che in questi giorni, ancora faticosamente,
tutti noi stiamo tentando di superare.
490
V. ASPETTI STORICI E CULTURALI
491
492
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO S VEVO
FILIPPO SCIARA*
La nascita di Favara per volontà di Federico II imperatore
Nel 1966, Vincenzo Capitano, con riferimento al castello di Favara, presso Agrigento,
scriveva:
«Da tramontana e levante, il castello di Favara può ancora emergere, con la
sua decisa e compatta mole, tra le congerie di casupole, che si addossano allo
sperone roccioso, come ultimo ricordo del passato vassallaggio, mentre a sudest ha dovuto soccombere all’invadente nuova edilizia, che gli si è serrata
attorno, mortificandone il primitivo orgoglioso isolamento. Le caratteristiche
topografiche limitrofe e l’ubicazione poco elevata dell’impianto denunziano il
suo parziale uso a residenza non strettamente militare, simile ai palacia che lo
svevo Federico II aveva costruito circa cinquant’anni prima in molti luoghi
della Sicilia […] Attorno al castello dovettero esistere altre cortine difensive
ed altri nuclei fortificati, ricollegabili al periodo svevo-angioino […] Avevamo
già osservato in precedenza che esiste un rapporto di derivazione diretta del
castello di Favara dal tipo di palatium svevo»1.
Nel 1972, Giuseppe Spatrisano pubblicava la sua preziosa opera Lo Steri di Palermo
e l’architettura siciliana del Trecento, ancora oggi considerata dagli studiosi la più
valida analisi storico-architettonica del XIV secolo in Sicilia.
Relativamente al castello medievale di Favara, egli, riferiva:
«Riteniamo […] che esso possegga più pertinenti caratteri di palazzo per quella
analogia tipologica che largamente può istituirsi con i palacia o solacia fatti
costruire da Federico di Svevia in Sicilia e in Puglia, nei quali appunto,
particolare cura è posta per soddisfare i bisogni di un gradevole soggiorno. Un
riferimento, questo, che in sede storica può ricevere una cauta attendibilità dal
generico contenuto della lettera inviata da Lodi nel novembre 1239 al giustiziere
Roggerum de Amico con la quale l’Imperatore disponeva che, oltre a quello di
Menfi, dovesse erigersi altro casale presso Cumiano [Cuniano!] tra Agrigento
e Licata «ad nostra solacia et ad Curie nostre commoda». La discorde opinione
* Socio della Società Sicilia, Officina di studi medievali e Società nissena di storia patria.
1
V. CAPITANO, Il palazzo dei Chiaramonte a Favara, Palermo 1966, pp. 23-26.
493
FILIPPO SCIARA
degli storici non ci aiuta però a identificare la località Cumiano con Favara,
né con altro territorio di denominazione affine compreso oggi fra le due città;
si può soltanto supporre che il riferimento documentario indichi una località di
cui si sia perduto il ricordo. Nondimeno il richiamo alle costruzioni create per
il riposo e lo svago dell’Imperatore si giustifica per la chiara disposizione e
notevole grado di regolarità geometrico dell’impianto, così congeniale alle
manifestazioni architettoniche dell’epoca, tanto da non sembrare azzardato il
sospetto che il primo nucleo del palazzo di Favara risalga al periodo federiciano
o sia di poco posteriore. Le numerose incongruenze costruttive che si riscontrano
nella odierna compagine, per quanto è possibile vedere eliminando le aggiunte
quattrocentesche, confermerebbero in certo modo, la ipotesi che il Federico
Chiaramonte – forse il secondo – indicato dagli storici quale signore, nel 1270,
di Favara, Recalmuto e Siculiana non abbia, a quella data, fatto erigere il
castello dalle fondamenta, ma abbia integrato ed adattato a sua dimora più
antiche fabbriche […] L’arch. Capitano, nel suo prezioso e documentato studio
del monumento, ritiene che il palazzo sia stato inserito dal primo Chiaramonte
«nell’orbita delle fortificazioni della rocca (di origine più antica) sfruttandone
l’indirizzo icnografico» e che l’incongruo inserimento della cappella nel contesto
strutturale del palazzo sia dovuto al altro proprietario della stessa famiglia.
L’accertata persistenza di schemi compositivi e modi costruttivi gotico-svevi
nella architettura siciliana post-federiciana, renderebbe legittima, in mancanza
di datazione certa, l’ipotesi dell’intera costruzione eseguita in periodo
chiaramontano, anche se in tempi diversi, qualora si ritenesse probabile che
nella originaria concezione dell’organismo funzionale non si fosse ritenuta
necessaria la costruzione della cappella, ciò che è poco credibile data la
profonda fede religiosa che animò sempre i Chiaramonte. La lettura delle parti
più caratterizzanti del palazzo, potrà favorire l’ipotesi avanzata circa il
sovrapporsi in unico tempo di opere chiaramontane a delle strutture di età
presumibilmente sveva. In primo luogo, la disposizione in quadrato dei corpi di
fabbrica, richiama immediatamente lo schema dei castelli svevi della Sicilia
orientale […] Di certo è che l’ambiente attiguo alla cappella era coperta con
volta a crociera i cui costoloni a spigoli smussati ricadevano su pilastrini
ottagoni posti negli angoli, come testimonia quello esistente, indubbiamente
riferibili a modi costruttivi e decorativi tipici derivati dalla maniera goticosveva»2.
Lo Spatrisano, con riferimento al trecentesco palazzo Steri dei Chiaromonte di Palermo
e al castello di Favara, inoltre, aggiungeva:
«La forma quadratica della pianta e l’altrettanto squadrato cortile interno
porticato, può far pensare alla suggestione esercitata sui committenti e sui
2
G. SPATRISANO, Lo Steri di Palermo e l’architettura siciliana del Trecento, Palermo 1972, pp. 195-196.
494
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
Figura 1. Il palazzo medievale di Favara, visione nord-est (foto di Filippo Sciara).
costruttori del tempo, dalle rigorose forme geometriche dei castelli federiciani
della Sicilia orientale; ma nell’alzato, l’ordinamento compositivo dei prospetti
rivela uno stadio alquanto significativo della evoluzione dell’arcigno e isolato
castello dei centri feudali verso le forme del palazzo baronale, influenzate dalla
vita e della cultura delle città demaniali. I Chiaramonte ripetevano, d’altronde,
lo schema planimetrico del castello di Favara, il cui cortile però non ha portico,
che venne costruito verisimilmente in epoca federiciana e da essi fu trasformato
per loro abitazione»3.
Convinti di questa ipotesi, ci siamo addentrati nella ricerca delle origini del castello,
ormai da parecchi anni, rilevando delle interessanti novità, che abbiamo, in parte, già
pubblicato4 .
Molti dati storici ci inducono a ritenere che il palazzo medievale di Favara (figura
1), più comunemente detto castello, venne edificato per volere di Federico II imperatore
(figura 2), come residenza di caccia. Nella sua forma regolare quadrata di circa 31 m di
lato e nel suo schema d’impianto con il recinto fortificato, con il quale forma un ottagono
irregolare, richiama, come modulo costruttivo, alcuni edifici di Federico II quali la
Ivi, p. 45.
F. SCIARA, Il castello dei Chiaramonte (di Favara), in «Il Raggio», Periodico culturale di Favara,
Anno I, n. 2, 15 agosto 1977, pp. 2-4; F. SCIARA, Favara guida storica e artistica, Agrigento 1997, pp. 3051; F. SCIARA, Il castello di Favara, aggiornamenti, in Castelli medievali di Sicilia, Regione Siciliana,
Centro regionale per l’inventario, la catalogazione e la documentazione dei Beni Culturali e Ambientali,
Palermo 2001, p.119; F. SCIARA, Favara, residenza di caccia di Federico II imperatore, in «Kouros»
giugno 2003, pp. 14-16; F. SCIARA, Sulle origini sveve del castello di Favara (AG), in «Incontri. La Sicilia
e l’altrove», gennaio 2017, pp. 45-49; F. SCIARA, Origini sveve del castello di Favara, in «Archivio Nisseno»,
n.21, luglio-dicembre, Caltanissetta 2017, pp. 128-139.
3
4
495
FILIPPO SCIARA
habitatio di Burgimilluso (torre di Menfi)
e il castello di Gela, entrambi oggi quasi
scomparsi. Nel suo nucleo centrale di circa
31 m di lato, con corte interna pure quadrata
di circa 12,50 m di lato, il palazzo di Favara
richiama, in maniera evidente, alcune
costruzioni di caccia dell’imperatore in
Italia meridionale, come il palazzo di
Lucubante (da noi scoperto nell’agosto
1996), presso Apice, un quadrato di circa
28 m di lato, con corte interna pure quadrata
di circa 13 m di lato, il palazzo di Lucera,
un quadrato di circa 34 m di lato, con corte
interna pure quadrata di circa 14 m di lato,
la torre di Monteserico e la torre della
Cisterna (da noi scoperta nell’agosto 1995),
presso Melfi, che presentano lo stesso
rapporto metrologico. Rispettivamente,
Monteserico è una torre quadrata di circa
Figura 2. Federico II imperatore nel De arte 13 m di lato, inserita in un recinto quadrato
venandi cum avibus, con i falconieri che gli
di circa 28 m di lato, e Cisterna è una torre
rendono omaggio. Cod. Pal. 1071, Biblioteca
quadrata di circa 12 m di lato, inserita in
Apostolica Vaticana.
un recinto quadrato di circa 32 m di lato5.
Segnaliamo, all’interno del palazzo medievale di Favara, due stemmi da noi
recentemente scoperti, con i segni araldici propri di Federico II, cioè l’aquila imperiale
che con gli artigli ghermisce la lepre6.
Occorre inoltre considerare il primitivo impianto urbanistico medievale di Favara
(300 m x 400 m), di forma romboide (figura 3), caratterizzato da una crux viarum
principale e da una grandiosa piazza centrale (figura 4), come progetto indipendente
rispetto al resto dell’aggregato urbano e totalmente subordinato al castello, che per quanto
riguarda i moduli costruttivi, ricalca in maniera sorprendente quelli presenti nella Terra
di Eraclea, poi Terranova ed oggi Gela7 (300 m x 800 m)8, di sicura matrice federiciana,
F. SCIARA, Ritrovate le residenze di caccia di Federico II imperatore a Cisterna (Melfi) e presso
Apice, in «Arte medievale». Periodico internazionale di critica dell’arte medievale, Istituto della
Enciclopedia italiana fondata da GIOVANNI T RECCANI, anno XI, nn. 1-2, 1997, pp.125-131; F. SCIARA, Le
dimore e riserve di caccia di Federico II in Campania, in Cultura artistica, città e architettura nell’età
federiciana. Atti del Convegno Internazionale di studi, Reggia di Caserta-Cappella Palatina, 30 novembre1 dicembre 1995, a cura di A. GAMBARDELLA, «Comitato Nazionale per le Celebrazioni dell’VIII Centenario
della Nascita di Federico II, Atti di convegno, 6», Roma 2000, pp. 377-393.
6
F. SCIARA, Favara guida storica e artistica, cit., pp. 35-39.
7
Ivi, pp.35-39 e 88-89.
8
L. D UFOUR, Gela e Augusta: due città, due castelli, in L’età di Federico II nella Sicilia centro
meridionale, Atti delle giornate di studio a cura di S. SCUTO, Gela 8-9 dicembre 1990, Agrigento 1991, pp.
85-91.
5
496
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
essendo stata fondata dallo stesso
imperatore nel 1233 9 . I due centri
presentano la stessa disposizione, con l’asse
viario maggiore orientato in senso est-ovest.
La piazza di Favara di 58 m x 125,30 m,
ripete la forma e le dimensioni di quella di
Gela che è di 60 m x 120 m, sebbene
quest’ultima si presenti oggi rimpicciolita
per l’inclusione della chiesa di Santa Maria
della Platea, costruita in quella posizione
posteriormente. In un documento del 17
dicembre 1270, si riferiva di un quarterio
sancte Marie de Platea, nella Terra di
Eraclea 10 . Nello stesso documento si
apprendeva che era presente in Eraclea una
magistra ruga puplica, cioè la via maestra
(decumano massimo) della crux viarum
principale, oggi corso Vittorio Emanuele,
e un fossato puplico che, dalla parte sud,
doveva circondare le mura urbane. Posta
in posizione obliqua, rispetto al rettangolo
della piazza, la chiesa di Santa Maria della
Figura 3. Impianto urbanistico medievale di Platea, oggi dedicata a Santa Maria
Favara, di forma romboide, con la crux viarum Assunta, ricostruita nei secoli XVIII-XIX,
principale, in una pianta dei primi decenni del ne altera il primitivo disegno regolare.
Novecento.
Il modulo di circa 50 m, adoperato in
Eraclea, ma anche in Augusta (300 m x 800 m)11, altra Terra fondata da Federico II12,
come lato minore degli isolati di circa 50 m x 150 m13 e per distanziare le diverse strade
parallele, che con una trama ortogonale ne caratterizzano l’impianto urbanistico, lo
ritroviamo anche a Favara, dove è presente sempre una trama ortogonale con strade
parallele, ma con isolati più piccoli di circa 50 m x 50 m, dettati, forse, dalla piccola
forma romboide che, rispetto a quella rettangolare di Eraclea e Augusta, non consentiva
la formazione di grandi isolati. Il modulo adoperato negli isolati di Eraclea e di Augusta
ha un rapporto di 1:3, a Favara di 1:1, mentre nelle piazze sopra considerate risulta 1:2.
9
N ICOLAI DE JAMSILLA, Historia de rebus gestis Friderici II imperatoris ejusque filiorum Conradi et
Manfredi Apulie et Sicilie regum, in G. D EL R E, Cronisti e scrittori sincroni napoletani editi e inediti,
Napoli 1868, vol. II, p. 106; AAV V., I registri della cancelleria angioina ricostruiti da RICCARDO FILANGIERI,
con la collaborazione degli archivisti Napoletani, voll. I - L, Napoli 1950 - 2010; vol. XI, p. 142; I.
NIGRELLI, La fondazione federiciana di Gela ed Augusta nella storia medievale della Sicilia, in «Siculorum
Gymnasium», anno VI, n. 2, 1953, pp. 165-187.
10
P. D E LUCA (a cura di), Documenta Pactensia. L’età sveva e angioina, Messina MMV, p. 279.
11
L. DUFOUR, Gela e Augusta: due città, due castelli, cit.
12
Si veda NICOLAI DE JAMSILLA, Historia, cit.; e I. NIGRELLI, La fondazione federiciana, cit.
13
L. DUFOUR, Gela e Augusta: due città, due castelli, cit.
497
FILIPPO SCIARA
Figura 4. Visione aerea del centro storico di Favara con la grande piazza centrale (foto di Danilo
Squali). Si noti la mole quadrata del palazzo medievale, con affiancato il recinto fortificato, posti a
est, e la grandiosa Chiesa Madre dell’Ottocento ubicata a sud (della piazza).
Rileviamo, inoltre, che Favara, come estensione urbana, risultava modulare rispetto ai
centri federiciani di nuova fondazione, sopra esposti. Favara (300 m x 400 m) era, come
grandezza, la metà di Gela (300 m x 800 m) e di Augusta (300 m x 800 m) e 4 volte più
piccola di Vittoria (1200 m x 1600 m), presso Parma, fondata da Federico II nel 1247,
della quale riferiremo più avanti.
Significativa è la presenza di una contrada, del feudo Pioppitello, oggi limitrofo
all’aggregato urbano di Favara, che in un documento del 18 febbraio 1748 veniva ancora
detta Rocca dell’Imperatore. In esso si legge che Onofrio Zuppardo di Favara, dichiarava di
«tenere et possidere tumulos sex terrarum utilis sitis et positis in hoc statu fabarie
in pheudo nominato lo Chiuppitello contrata nominata della Rocca
dell’Imperatore confinanti cum terris huius statu et alijs confinibus»14.
Rilevante si pone anche l’esistenza, nei secoli XVI e XVII, nel feudo di Favara, nella
periferia ovest dell’aggregato urbano medievale, del toponimo Sollazzo, termine con il
quale nel periodo federiciano venivano indicate le dimore di caccia 15 . Ricordiamo un
14
Archivio di Stato di Agrigento, Atti notarili di Favara, notaio GIOVANNI BATTISTA BELMONTE, vol. anni
1747-1748, f. 85.
15
F. SCIARA, Ritrovate le residenze, cit., pp.125-131; F. SCIARA, Le dimore e riserve, cit., pp. 377-393;
F. SCIARA, I loca solatiorum et defensarum di Federico II imperatore in Sicilia, in Atti del Convegno In-
498
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
documento del 12 gennaio 1576, in cui si riferiva che
«Josephi Milioto Fabarie [...] concessit et concedit venerabili ecclesie sancte
marie Itrie venerabili ecclesie sancti Rocci huius terre Fabarie [...] tumminos
quatuor terrarum scilicet tumminos duos pro qualibet ecclesia exsistentis in
feudo huius terre et in contrata dello sulazo confinatam»16.
Ricordiamo, inoltre, un documento del 1593, in cui si aveva notizia di una
«vigna scapula nello territorio della terra Favara nella contrata di lu Sulazzu»17
e un altro del 1607, in cui si riferiva che
«Mastro Disiato Sinatra [...] tiene una vigna consistenti in migliara cinque
con tummina dui di terra scapula esistente in lo fegho di la Favara et nella
contrata della grutta dello Solazzo»18.
Una contrada Grotta è ancora oggi
riscontrabile in pieno centro storico,
confinante con la per iferia ovest
dell’impianto medievale, e nel catasto
urbano del 1838 veniva riportata una via
Grotta, ancora oggi presente. Il toponimo
Sollazzo lo riscontriamo anche a sud,
nell’ex feudo Burraiti, vicinissimo alla
riser va di caccia imperiale flomaria
Burraido o foresta regia Miseti, come
testimonia un documento del 1922 che
riporta il Piano di Sollazzo19, oggi piana di
Burraiti, e a est di Favara, nell’ex feudo
Poggio di Conte, dove ancora oggi è
presente la contrada Sollazzo, documentata
già nel 1870.
Di grande rilievo si pone il rinvenimen-
Figura 5. Frammento di protomaiolica del
periodo Svevo, proveniente dagli sterri di uno
scavo nei pressi del recinto fortificato del palazzo
medievale di Favara (foto di Filippo Sciara).
Internazionale di studi Sicilia millenaria dalla microstoria alla dimensione mediterranea, II sessione, 13,
14 e 15 ottobre 2016, Santa Lucia del Mela, in «Archivio Nisseno», supplemento 21, Caltanissetta 2017,
pp. 433-477.
16
Archivio Chiesa Madre di Favara, Libro esiti ed introiti della chiesa di San Rocco, anni 1600-1634,
f. 33 r. e v.; lo stesso documento è riportato nel Libro di introiti ed esiti della chiesa dell’Itria, f. 86 v. e f.
87 r.
17
Archivio di Stato di Palermo, T. R. P., Riveli di Favara, anno 1593, vol. 341, f. 405.
18
Ivi, anno 1607, vol. 342, f. 1. Ricordiamo, inoltre, anno 1607, vol. 342, ff. 129, 311, 339, 711; anno
1616, vol. 344, fascio I, ff. 152, 299,459; anno 1623, vol. 344, fascio II, f. 237; anno 1623, vol. 345,
fascio I, ff. 314, 483.
499
FILIPPO SCIARA
to, negli sterri provenienti da uno scavo in prossimità del recinto fortificato del castello
di Favara, per la nuova fognatura, nel 2010, di un frammento di protomaiolica del periodo
Svevo (figura 5). Questo reperto, per le caratteristiche formali, una serpentina in bruno
manganese affiancata da due linee rette e verticali in verde ramina, su superficie smaltata,
richiama in maniera molto evidente la decorazione presente in un bacino di protomaiolica
pugliese (qui le linee verticali sono di colore blu, anziché verdi), databile tra la fine del
XII e la prima metà del XIII secolo, forse un prodotto brindisino, che era collocato nel
campanile di San Paolo all’Orto, nella città di Pisa e oggi ivi conservato al museo
nazionale di San Matteo20. Lo stesso motivo decorativo ritroviamo anche nei prodotti
ceramici trovati a Segesta, Castello di Terra a Trapani e Castello San Pietro a Palermo,
di importazione campana, con decorazione detta spiral ware, dove, oltre alle spirali in
bruno manganese, troviamo interposta la serpentina in bruno manganese delimitata da
due linee rette e verticali in verde ramina, con una datazione, sempre tra la fine del XII
e la prima metà del XIII secolo21.
Dagli sterri, provenienti dallo scavo presso il castello di Favara, sono emersi anche
frammenti in invetriata monocroma verde, di bacini emisferici con piede ad anello,
alcuni con tesa, altri decorati da una linea in bruno manganese, riferibili al XII secolo.
Non possiamo però escludere che questi frammenti appartengano al periodo Svevo, alla
luce di quanto emerso a Monte Jato, dove in piena età federiciana continuavano ad
usarsi ceramiche in invetriata monocroma verde di tradizione normanna. Sono usciti
fuori pure frammenti di ceramica, cosiddetta araldica riferibile al XIV secolo e frammenti
di ceramica a lustro metallico del XV secolo, di importazione spagnola, per la presenza
a Favara della famiglia Perapertusa, che era arrivata dalla Catalogna.
Grazie a un prezioso documento del 1305, che tratta della restituzione della foresta
regia Miseti, da parte del
«magnificum dominum Manfridum de Claromonte, dei gratia comitem Mohac,
et praedicti domini nostri regis siniscalcum»,
alla Chiesa di Agrigento,
«vigore capituli regij initi in contractu pacis, in civitate Messane»22,
riusciamo a individuare l’area a sud di Favara, dove era posta una grande riserva di
caccia imperiale appartenuta a Federico II di Svevia. Nel descrivere i confini di questa
Relazione del 2 aprile 1922, del perito agrimensore ANTONIO LA R USSA di Favara. Archivio privato.
G. BERTI, L. TONGIORGI, I bacini ceramici medievali delle chiese di Pisa, Roma 1981, pp.234-237,
bacino n. 305, tavv. VIII e CLVII.
21
A. MOLINARI, M. DE CESARE, C. MICHELINI, M. A. VAGGIOLI, Segesta, ceramiche e vetri, in Federico
e la Sicilia, dalla terra alla corona, vol. I, Archeologia, architettura, a cura di C. A. DI STEFANO e A.
CADEI, Palermo 1995, pp. 213-232, pp. 218-219, ciotola n. A201; Ivi, p. 221, ciotola n. A205; E. LESNES,
Trapani: Castello di Terra, in Federico e la Sicilia, cit., pp. 233-238, coppa n. A224; E. LESNES, P. T ISSEYRE,
Castello San Pietro, materiale ceramico e vitreo, in Federico e la Sicilia, cit., pp. 320-324, coppa n. P20.
22
G. PICONE, Memorie storiche agrigentine, Girgenti 1866, documento n. XII, pp. XLII-LIV.
19
20
500
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
foresta, che nel documento si riferiva essere stata riserva di caccia reale appartenuta
all’imperatore Federico II di Svevia e al figlio Manfredi,
«forestary, qui pro tempore fuerunt, tempore bonae memoriae quondam
imperatoris Friderici, quondam regis Manfredi, exercuerunt et procuraverunt
praedictam Forestam, non permittendo ibidem incidere ligna, nec intrare cum
aucubus vel cum canibus»,
si menzionava il monte
Mocerini posto a settentrione, al confine nord-ovest
della foresta, che si identifica, a nostro parere, con la
collina oggi detta Cozzo
Mosè. Si riferiva, inoltre,
che a Oriente del monte
Mocerini era presente il
monte Miseti, che si identifica, a nostro parere, con una
collina oggi detta Serra
Sala, che ha dato il nome a
tutta la foresta. Il toponimo
medievale Miseti è oggi
conservato nella variante
Misita e indica una contrada
a est del fiume Naro, che nel
XIII secolo costituiva il
centro della riserva di caccia
imperiale di Federico II di
Svevia.
Questa r iser va di Figura 6. Confini territoriali della foresta regia Miseti o Flomaria
caccia, gr azie al docu- Burraido, riserva di caccia di Federico II imperatore, posta a sud
mento del 1305, è total- di Favara (elaborazione di Filippo Sciara).
mente rintracciabile nei suoi confini territoriali, di cui ricordiamo quello occidentale
che coincideva con l’attuale corso del fiume San Leone e del vallone San Biagio,
quello orientale con il vallone Mintina, ancora oggi detto tale, che scorre a est di
Monte Grande. Il limite meridionale era costituito dalla spiaggia del mare
Mediterraneo, che, dalla foce del fiume San Leone arrivava fino allo sbocco a mare
del ricordato vallone Mintina.
Il confine settentrionale era rappresentato da diverse creste di monti, tra cui i ricordati
Miseti e Mocerini, la via pubblica che da Agrigento portava a Licata e un tratto del
fiume Burraiti (figura 6).
Quest’ultimo, che costituisce l’attuale confine sud del territorio di Favara, veniva
501
FILIPPO SCIARA
riportato in un documento angioino del 127823 e ancora del 1306-130724, rispettivamente,
con il toponimo flomaria Burraido e Flomaria Morrayde che indicava una riserva di
caccia imperiale appartenuta all’imperatore Federico II
«fines debitos et stabilitos tempore quondam Frederici imperatoris in ipsis
defensis seu forestis»,
corrispondente, naturalmente, alla foresta regia Miseti sopra descritta. Questa riserva,
assieme a quelle presenti presso Sciacca e Licata, sempre appartenute a Federico II,
venivano ricordate dallo stesso, in un documento del 1239, sebbene non ne indicava i
toponimi ufficiali con le quali erano conosciute. L’imperatore, con una lettera diretta
«ad justiciarum Siciliae ultra flumen Salsum», nella persona di Roggerio de Amicis,
ordinava di far proteggere le riserve di caccia, poste nelle parti di Agrigento, Sciacca e
Licata:
«Quod vero significasti fideles nostros ipsarum partium habere penuriam
aratrorum propter loca defensarum nostrarum in quibus non audent incidere,
propter quod bonum esse scripsisti ut certius locus aliquis statueretur eis pro
incidentis aratris, ex quo nulla defensis nostris lesio inferretur, placuisset nobis
et mandavissemus hoc fieri, si distincte locum ipsum et nominatim nostro culmini
nunciasses»25.
Il termine defensa, al pari di foresta e parco, indicava la riserva di caccia reale nel
Regno di Sicilia, nel periodo Normanno-Svevo26.
Le riserve di caccia presso Sciacca erano il luogo di Misolfora, oggi Piana di
Misilifurmi, nell’Ottocento detta Misoloformi, tra Sciacca e Menfi e il Canneto presso
il castello di Misilino, da porre, a nostro parere, in contrada Cannitello, vicino alla quale
abbiamo il toponimo Parco, nei pressi di Santa Margherita Belice, ricordate nel
documento del 127827 . Il castello di Misilino si identificava con il Casali Misilini,
menzionato nel 1335 ed appartenente a Joannes de Incisa de Xacca28, che nel 1320
C. MINIERI-R ICCIO, Il regno di Carlo I d’Angiò dal 2 gennaio 1273 al 31 dicembre 1283, in «Archivio
Storico Italiano», tomo I, anno 1878, pp. 3-4.
24
AAVV, I registri della cancelleria angioina, cit., vol. XXXI, pp. 68-71.
25
J. L. A. HUILLARD-BRÉHOLLES, Historia diplomatica Friderici secundi, voll. VI, Parisiis 1852-1861;
tomo V, pp. 504-506.
26
F. SCIARA, Ritrovate le residenze di caccia, cit., pp.125-131; F. SCIARA, Le dimore e riserve di caccia,
cit., pp. 377-393; F. SCIARA, I loca solatiorum et defensarum di Federico II imperatore in Sicilia, cit., pp.
433-477.
27
C. MINIERI - RICCIO, Il regno, cit., pp. 3-4.
28
R. GREGORIO , Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere eam
uti accessionem ad historicam bibliothecam Carusii, voll. II, Panormi 1791-1792; tomo II, p. 468. Sulla
datazione della Descriptio feudorum sub rege Friderico, del 1335, si veda A. MARRONE, «Sulla datazione
della Descriptio feudorum sub rege Friderico» (1335) e dell’«Adohamentum sub rege Ludovico» (1345),
in «Mediterranea. Ricerche storiche», anno I, n. 1, Palermo 2004, pp.123-168.
23
502
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
veniva ricordato come casale di Misilindino29, sempre proprietà di Giovanni Incisa,
oggi Santa Margherita Belice. Un’altra riserva di caccia reale doveva essere nel territorio
di Caltabellotta, come il toponimo Parco ivi presente suggerisce, legata, a nostro parere,
al Casale Misilicassini, nel 1335 appartenente al miles Matteo Maletta30, menzionato,
nel 1398, come «feudi et baronie Misilcassimi cum Castro»31, ricordato come «Turri et
feudo Misilicassimi» nel 140832, di proprietà di Bernardo Berengario Perapertusa, barone
di Favara, oggi castello di Poggio Diana presso Ribera. Presso Licata era presente la
riserva di caccia detta
«Foresta regia Millacha, Regii solatii membrum antiquitus fuerat, et ad ipsum
Regium solacium spectans»,
ricordata nel 139833, che aveva il suo centro nella contrada flumicelli, ancora oggi detta
contrada Fiumicello, nei pressi della piana a ovest di Licata, dove si rinviene anche il
toponimo Mollaga. Un’altra riserva di caccia reale, sempre del periodo federiciano,
nell’Agrigentino, doveva essere presente tra Racalmuto e Milena, dove riscontriamo i
toponimi Parco e Difesa, il cui sollazzo di riferimento era, a nostro parere, il vicino
Castelluccio di Racalmuto, che presenta, come il palazzo medievale di Favara,
caratteristiche architettoniche residenziali, che prevalgono su quelle strategico - difensive,
riferibili al XIII secolo.
Ritornando al nostro documento del 1305, che tratta della foresta regia Miseti, un
altro particolare importante attira la nostra attenzione. In esso, con riferimento al conte
Manfredi Chiaromonte, si riferiva:
«dictus dominus comes tenuit et possedit et tenet et possidet Forestam regiam,
quae fuit et est de demanio regio, ex concessione sibi facta per majestatem
regiam de Foresta et solacijs regys, racione officy senescalciae, quae est in
territorio Agrigenti, subscriptis finibus limitata»34.
Questo passo del documento testimonia che alla riserva di caccia, detta foresta regia
Miseti, erano affiancati dei sollazzi reali, che trovano riscontro nei diversi toponimi
Sollazzo presenti nel territorio di Favara, sopra riportati e che nel 1305 risultavano in
possesso di Manfredi Chiaromonte. Il termine latino solacium o solatium, che aveva un
significato di sollievo, consolazione, compenso, rifugio, nel periodo Svevo, come detto
prima, diveniva sinonimo di divertimento venatorio e loca solatiorum indicavano le
residenze di caccia dell’imperatore Federico II. In verità, nel periodo federiciano, il
29
V. AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, tradotto dal latino ed annotato da G. D I MARZO ,
Palermo 1855-1856, vol. II, p.137.
30
R. GREGORIO, Bibliotheca scriptorum, cit., tomo II, p. 468.
31
R. LENTINI-G. SCATURRO, Misilcassim seu Poggiodiana, un castello a Ribera. Il feudo, il casale, la
fortezza tra storia e restauro, Palermo 1996, p.44.
32
R. GREGORIO , Bibliotheca scriptorum, cit., tomo II, p. 490.
33
G. L. BARBERI, I Capibrevi, a cura di G. Silvestri, Palermo 1879-1888; vol. I, pp. 219 - 220.
34
G. PICONE , Memorie storiche, cit., documento n. XII, p. XLIX.
503
FILIPPO SCIARA
termine assumeva un significato più ampio e per loca solatiorum si intendevano quelle
aree dove, oltre alle dimore di caccia, erano presenti anche sorgenti, peschiere, laghetti
artificiali, giardini, vigneti, un paesaggio naturale, cioè, creato secondo le esigenze di
amoenitas per l’uomo. I loca solatiorum, ubicati in genere in zone panoramiche, in
prossimità di sorgenti d’acqua, erano sempre affiancati da riserve di caccia reali fossero
essi parchi, foreste o difese35. Importante si pone, in merito, il citato documento del 17
novembre 1239, con il quale l’imperatore ordinava a Ruggero de Amicis, di fare custodire
le ricordate riserve di caccia, ma anche di fare costruire tre residenze venatorie nel
territorio agrigentino:
«apud Burgimill ad opus nostrum tantum habitatio fieret super fontem magnum
qui ibi est, et inter Saccam et Agrigentum in flumine Sancti Stephani prope
mare per miliarium casale fieret ex hominibus Arcudachii et Andranii, et etiam
inter Agrigentum et Licatam apud Cunianum casale aliud fieret, cum et ad nostra
solatia et ad curie nostre commoda pervenire deberent, de eis per predictum
quondam justiciarum nichil extitit ordinatum; volumus et mandamus ut ea fieri
facias in locis ipsis, sicut melius videris debere nostro culmini complacere»36.
La conferma che l’ordine di Federico II era stato eseguito, circa la costruzione di
questi sollazzi nell’Agrigentino, la ricaviamo, oltre che dal ricordato documento del
1305, anche da un altro del re Giacomo I di Sicilia, in cui si riferiva della presenza di
sollazzi e di riserve di caccia reali, nella Valle di Agrigento. Questi, in un documento del
25 febbraio 1288, ordinava a Riccardo de Passaneto, giustiziere della Valle di Agrigento,
di pubblicare, nelle terre di sua giurisdizione, un bando per il divieto di caccia ai daini
ed altri animali, nelle foreste, defense e sollazzi reali, da maggio a luglio, tanto con le
reti che con i cani:
«per terras et loca iurisdicionis tue, ex parte nostre celsitudinis, sub certa pena
pluries inhibeas et iniungas quod nullus, cuiscumque condicionis et status existat,
in forestis, defensis et solaciis nostris iurisdicionis tue ad filum, seu cum canibus,
vel alio quocumque modo, ad daynos et alia eciam animalia aliquatenus venari
presumat»37.
Lo stesso bando veniva divulgato il 18 marzo 1288, dal baiulo Riccardo de Orlando,
nella Terra di Sciacca38.
Il sollazzo che Federico II ordinava di costruire tra Sciacca e Agrigento, «in flumine
Sancti Stephani prope mare per miliarium», si identifica, a nostro parere, con la torre di
Misilicassini, che presenta caratteristiche architettoniche riconducibili al periodo Svevo,
35
F. SCIARA, Ritrovate le residenze, cit., pp.125-131; F. SCIARA, Le dimore e riserve, cit., pp. 377-393;
F. SCIARA, I loca solatiorum et defensarum di Federico II imperatore in Sicilia, cit., pp. 433-477.
36
HUILLARD -BREHOLLES, Historia diplomatica, cit., tomo V, pp. 504-506.
37
G. LA MANTIA, Codice diplomatico dei re aragonesi di Sicilia, vol. I, Palermo 1917, p. 393.
38
Ivi, pp. 395-397.
504
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
nel Medioevo legata alla Terra di Caltabellotta, dove riscontriamo il toponimo Parco e
le contrade Vigna di Corte e Regia Curti, col chiaro riferimento al demanio regio. Il
fiume Santo Stefano corrisponde all’attuale Verdura - nei pressi del quale è posta la
torre di Misilcassini - che nasce proprio nei pressi di Santo Stefano, oggi di Quisquina,
ricordato come Casale Sancti Stephani in un documento del IV decennio del XIII secolo39.
Ritornando al castello di Favara, rileviamo, infine, la significativa presenza dello
stesso nello statutum castrorum delle provincie siciliane, del 3 aprile 1281, in cui si
dichiarava appartenente al demanio regio. Nel documento della cancelleria angioina, in
cui si legge «Forma statuti regiorum castrorum Sicilie, que custodiuntur per curiam,
cum numero castellanorum», nella provincia ultra flumen salsum, interposto tra i castelli
di Vicari e Licata, viene riportato: «castrum Favare custoditur per castellanum militem
ad expensas suas»40. Secondo Eduard Sthamer il castrum Favare potrebbe identificarsi
con il castrum Favinnane o castrum Fagoniani, cioè il castello militare di Favignana di
cui si aveva notizia nel 1273 e nel 127441. Noi dissentiamo da una simile ipotesi, non
solo per la notevole differenza linguistica tra i due toponimi, ma anche perché un
castellano che custodiva un regio castello militare e che si manteneva a proprie spese
era sicuramente molto strano. Non lo era invece per un castellano che custodiva un
palazzo di caccia reale, cioè un sollazzo, perché lo stesso si occupava anche della custodia
della riserva di caccia pertinente, dalla quale traeva il proprio profitto42. È questo un
documento di eccezionale valore storico, perché colloca il castello di Favara tra quelli
di appartenenza regia, e smentisce, in maniera evidente, la tesi della sua costruzione da
parte dei Chiaromonte, sostenuta dagli storici quali Fazello43, Inveges44, Pirro45 e Amico46,
per citarne solo alcuni, che in merito non riportano alcuna prova documentale. L’Amico
ne indicò, addirittura, senza prove, la data di costruzione intorno al 1270. In verità, il
castello di Favara, regio sollazzo presso Agrigento, sarebbe passato nell’orbita dei
possedimenti dei Chiaromonte, durante la guerra dei Vespri Siciliani, iniziata nel 1282,
quando Manfredi I Chiaromonte si impossessava della riserva di caccia reale Miseti o
Flomaria Burraido e del sollazzo regio ad essa pertinente, come sopra abbiamo visto.
Il ricordo di Favara, come luogo abitato nel periodo Svevo, ricorre in un prezioso
documento del gennaio 1242, sottoscritto dal notaio Ruggero di Agrigento, in cui si
riferiva della vendita di un terreno, tra Guichono, figlio del defunto Goffredo de Fabaria,
cittadino agrigentino, assistito dalla sorella Sibilia e Gerlando Marsico, dietro pagamento
P. COLLURA, Le più antiche carte dell’Archivio Capitolare di Agrigento, Palermo 1961, p. 305.
E. STHAMER, L’amministrazione dei castelli nel regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo I d’Angiò,
Bari 1995, pp.155-156.
41
Ivi, band I, pp. 21, 66 e 140. Si veda anche E. STHAMER – H. HOUBEN, Dokumente zur Geschichte der
Kastellbauten Kaiser Friedrichs und Karls I von Anjou, band III: Abruzzen, Kampanien, Kalabrien und
Sizilien, Max Niemeyer Verlag Tübingen 2006, p. 231.
42
F. SCIARA, I loca solatiorum et defensarum di Federico II imperatore in Sicilia, cit., pp. 433-477.
43
T. FAZELLO, De rebus siculis decades duae, Panormi 1560, p. 231.
44
A. INVEGES, La Cartagine siciliana, Palermo 1651, p. 230.
45
R. PIRRO, Sicilia Sacra disquisitionibus et notitiis illustrata, voll. II, Panormi MDCCXXXIII; vol. I,
p. 750.
46
V. M. AMICO, Lexicon topographicum siculum, Catanae MDCCLIX, tomus secundus, p. 257.
39
40
505
FILIPPO SCIARA
di 150 tarì d’oro47. Facciamo notare che Guichono e la sorella Sibilia, nel documento,
non venivano detti de Fabaria; questo appellativo era specifico del loro padre Goffredo
e non indicava quindi il cognome bensì il luogo di origine. Favara è ancora ricordata in
un altro documento del 20 giugno 1260, in cui si ha notizia di un certo Homodeus de
Favara, menzionato come testimone a favore della Chiesa di Agrigento, contro il
monastero di San Giovanni degli Eremiti di Palermo, per il possesso della chiesa di
Santa Maria di Rifesi, presso Burgio48. Il casale Fabariae, che è l’unico centro abitato
con questo nome, nel XIII secolo, nell’Agrigentino, è menzionato nel novembre 129949.
Alla luce di tutto questo, siamo del parere che Favara con il suo palazzo medievale
può identificarsi con il casale apud Cunianum [...] ad nostra solatia et nostre cure
commoda pervenire deberent, cioè una grande residenza venatoria che Federico II, nel
1239, ordinava di costruire tra Agrigento e Licata. Il ricordo di Cuniano ricorreva in un
documento del 1290, in cui si aveva notizia di un certo Joannes de Cuniano, habitator
Castrinovi50.
Che il castello di Favara non sia di matrice chiaromontana, è suggerito anche da
alcune considerazioni di carattere strutturale. A considerare la parte che certamente
porta l’impronta chiaromontana, cioè la cappella sul cui portale d’ingresso è posto lo
stemma dei Chiaromonte51 (un monte a cinque punte arrotondate), possiamo subito notare
notevoli incongruenze strutturali e funzionali rispetto al primitivo organismo del castello.
Posta al primo piano, nella parte est del palazzo, che si affaccia sulla corte interna,
presenta all’esterno dell’abside le tracce di una bifora, che illuminava la stanza originaria.
Il muro perimetrale nord, molto meno spesso rispetto a quello sud, scarica tutto il suo
peso direttamente sulla volta sottostante. Un portale che mette in comunicazione la
cappella e l’ambiente a sud della stessa, risulta diminuito nelle dimensioni, per far posto
a una delle colonne su cui imposta l’arco, che divide in due ambienti la cappella. Tutti
questi elementi dimostrano che la cappella venne inserita dai Chiaromonte in un periodo
successivo al primitivo organismo del castello, forse intorno alla metà del XIV secolo.
A considerare il grande fervore religioso, che animò sempre questa famiglia (fondò
numerose chiese e conventi), riesce difficile ammettere che, costruendo il castello di
Favara, i Chiaromonte non avessero previsto l’inserimento della cappella ab origine. Al
contrario, ciò risultava normale nelle costruzioni di Federico II imperatore che non
presentavano mai una cappella cristiana all’interno.
Archivio Priorale degli Ospitalieri di Messina ricopiato da ANTONINO AMICO in Biblioteca Comunale
di Palermo, Q q H, f. 103. Si veda anche C. MARULLO DI C ONDOIANNI, La Sicilia e il Sovrano militare
ordine di Malta, Messina 1953, pp. 103-104; K. TOOMASPOEG, Templari e Ospitalieri nella Sicilia medievale,
Bari 2003, pp. 158-159. Come osserva il TOOMASPOEG, si tratta di beni che più tardi entrarono a far parte
del patrimonio degli Ospitalieri, probabilmente tramite l’ospedale di Santa Maria Maddalena di Agrigento
su cui esercitarono il loro patronato nella seconda metà del Trecento.
48
P. COLLURA, Le più antiche carte, cit., pp. 155-171.
49
G. PICONE, Memorie storiche, cit., documento n. XI, p. XXXVIII.
50
G. LA MANTIA, Codice diplomatico, cit., p. 515.
51
F. SCIARA, Le origini dei Chiaromonte nel regno di Sicilia, in Atti del Convegno di studi regionale
Ricerche storiche e archeologiche nel Val Demone, Barcellona Pozzo di Gotto, 1 e 2 aprile 2017, in
«Archivio Nisseno», supplemento n. 20, Caltanissetta, pp. 405-438.
47
506
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
Nel XIV secolo, Favara fu proprietà dei Chiaromonte e nel XV, elevata a baronia,
dei Perapertusa. Nel 1299, 1320 e 1335 indicata come casale52, veniva ricordata nel
1355 circa come «Castrum Fabarie Agrigenti cum habitacione»53 e nel 1375 come «casali
de La Favara in quo fuerunt reperte domus LI»54, quindi con circa 255 abitanti. Nel
1392 veniva detta casale Fabariae55, nel 1395 era menzionata come «Castrum et Terram
Fabarje»56 e nel 1478 terra fabarie57, termine quest’ultimo col quale, nel Medioevo in
Sicilia, si designava un abitato, in genere, protetto da mura. A tale proposito è interessante
rilevare che, nel 1607, un quarteri della porta vecchia veniva ricordato in prossimità
del castello e della sottostante chiesa, oggi detta Madonna del Transito, indicata come
eclesia madre antica, e all’inizio del decumano massimo, della crux viarum principale
dell’impianto urbanistico medievale, oggi via Umberto, nel XVI secolo e ancora
nell’Ottocento menzionata come strata longa. Nel documento si riferisce che
«Mastro Gioseppe Cuttitto della città di Girgenti abitante in questa terra della
Favara tiene quattro corpi di casi con un pullaro esistenti nello quarteri della
porta vecchia»58.
Da un precedente documento del 19 marzo del 1593 ricaviamo che
«Joseppi Cuttitto tiene tri casi terrani nella contrata di la strata longa»59.
Da un altro ancora del 20 marzo 1593, sappiamo che
«Francisco Cuttitto tiene una casa terragna ne lo quartero di la madre eclesia
antica confinante con le case di gioseppe Cuttitto»60.
Nel 1611, la stessa zona, veniva detta contrata vocata della porta nova, perché la
porta era stata sicuramente restaurata. Nel documento si riferisce che
«Joseph Cottitto civis huius terre fabarie [...] suspirando dicit et declaravit ac
R. GREGORIO, Bibliotheca scriptorum, cit., tomo II, p.468; G. PICONE, Memorie storiche, cit., doc. n.
XI, p. XXXVIII; L. SCIASCIA, Pergamene siciliane dell’Archivio della corona d’Aragona (1188-1347),
Palermo 1994, pp. 181-185
53
E. LIBRINO , Rapporti fra Pisani e Siciliani a proposito d’una causa di rappresaglie nel sec. XIV.
Note ed appunti, in «Archivio Storico Siciliano», anno XLIX, 1928, p. 208; il documento, privo di data,
risulta inserito tra quelli della fine del XIV secolo.
54
J. GLÉNISSON , Documenti dell’Archivio Vaticano relativi alla collettoria di Sicilia (1372-1375), in
«Rivista di storia della Chiesa in Italia», II, 1948, p. 259.
55
R. GREGORIO, Considerazioni sopra la storia di Sicilia dai tempi normanni sino ai presenti, Palermo
1805-1816. tomo V, p. 53, nota 24.
56
G. SORGE, Mussomeli, Catania 1910, vol. I, p. 374.
57
R. STARRABBA, Il conte di Prades e la Sicilia (1477-1479). Documenti inediti. Palermo 1872, doc.
XII, p. XXIII.
58
Archivio di Stato di Palermo, T. R P., Riveli di Favara, anno 1607, vol. 342, f. 351.
59
Ivi, anno1593, vol. 341, f. 167.
60
Ivi, anno1593, vol. 341, f. 549.
52
507
FILIPPO SCIARA
dicit et declarat tenere et possidere duas domos teraneas simil giunctas et
coniunctas sites et posites in hac praedicta terra fabarie in contrata vocata
della porta nova»61.
Rileviamo, inoltre, tracce di mura fortificate, apparecchiate con pietre, parte ad opus
incertum, parte ad opus quadratum, agli angoli sud-est e nord-est del palazzo medievale
di Favara e del suo recinto fortificato, di probabile origine medievale62.
Dalle tasse imposte ai Favaresi, ricaviamo che nel 1439 erano presenti a Favara circa
60 famiglie con circa 300 abitanti, nel 1464 circa 18 famiglie con circa 90 abitanti, nel
1478 circa 28 famiglie con circa 142 abitanti e nel 1497 circa 30 famiglie con circa 150
abitanti63. Per sopperire al grave calo demografico verificatosi intorno al 1464, quando
la popolazione si era ridotta di circa due terzi, per motivi che oggi ci sfuggono (forse a
causa di una epidemia), nel 1465 vennero emanate misure con privilegi a favore degli
immigranti64, ma senza alcun successo a giudicare dalla popolazione presente nel 1478
e nel 1497. Fu nel corso del XVI secolo, sotto i De Marinis, che Favara, conobbe un
grande sviluppo demografico e urbanistico. Sappiamo, infatti, che contava 47 case con
circa 235 abitanti nel 150565, 80 case con circa 400 abitanti nel 154466, 90 case con circa
450 abitanti nel 154867 e 441 case con 1720 abitanti nel 157068. Dopo 13 anni, nel 1583,
la popolazione era già di 2095 anime69 con 562 case70 e nel 1593 erano presenti 3320
abitanti71. Il piccolo centro medievale, già elevato a marchesato, aveva ormai assunto
l’aspetto di una cittadina. Nel 1607 erano presenti 3289 anime72, e in una fonte 1608 le
case risultavano circa 800 con più di 4000 abitanti73.
La chiesa parrocchiale di Favara e le sue origini cisterciensi, nel periodo
federiciano
Nell’Occidente cristiano medievale, una comunità di persone, anche piccola, non
poteva essere priva di una chiesa parrocchiale per la somministrazione dei sacramenti.
Atto del notaio GIUSEPPE ALFIERI di Favara, del 19 ottobre 1611. Archivio privato.
F. SCIARA, Favara, cit., pp. 29-35.
63
S. R. EPSTEIN, Potere e mercati in Sicilia, secoli XIII - XVI, Torino 1996, p. 40, tabella 2.I. Il dato
riportato, relativo al 1277, con la tassazione di 2 onze, che viene assegnato alla nostra Favara, è da riferire,
in verità, al casale di Favara presente in Val di Noto, nel periodo Angioino, riportato nella Sicilia citra
flumen salsum. Si veda AaVv, Registri angioini, cit., vol. XLVI, anni 1274-1294, pp. 264-272.
64
S. R. EPSTEIN, Potere e mercati, cit., p. 59, tabella 2.5.
65
R. CANCILA, Fisco ricchezza comunità nella Sicilia del Cinquecento, Roma 2001, p. 419.
66
Archivio Diocesano Provinciale di Agrigento, Visite dei vescovi, anni 1542-1543, vol. II, f. 210 r. e
v.
67
T. FAZELLO, De rebus siculis decades duae, cit., p. 640.
68
R. CANCILA, Fisco ricchezza, cit., p.419.
69
Ibidem.
70
G. LENTINI, Favara dalle origini ai nostri giorni, Agrigento 1965, p. 126.
71
Archivio di Stato di Palermo, T. R. P., Riveli di Favara, anno 1593.
72
R. CANCILA, Fisco ricchezza, cit., p.419.
73
Archivio Diocesano Provinciale di Agrigento, Visite dei vescovi, anni 1542-1543, vol. II, f. 210
r. e v.
61
62
508
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
Favara, quindi, sin dalla sua nascita come centro abitato, nel XIII secolo, doveva essere
dotata di una chiesa cristiana, della quale, fino ad oggi, non abbiamo nessuna notizia
storica. La chiesa di Santa Maria dell’Itria che è del XIV secolo, come dimostrano le
sue caratteristiche architettoniche, è distante circa 1 km dal centro abitato medievale,
quindi non può essere considerata la parrocchiale.
Come vedremo più avanti, Santa Maria Assunta era la titolare della chiesa parrocchiale
di Favara nel 1544 e la patrona del paese nel 1608, e sicuramente deve avere avuto
questo ruolo anche nel Medioevo. La cappella palatina del castello di Favara, introdotta
dai Chiaromonte nel XIV secolo, aveva nell’abside dell’altare maggiore la
rappresentazione di Maria Santissima, come in una preziosa testimonianza del 1733 si
riferiva:
«Entrando questa seconda porta si trova un passetto bivio, che dalla parte
destra comunica nella porta della Cappella del Palazo, che attualmente è
interdetta, sebene vi sia in piede l’altare, e l’imagine di Maria santissima depitta
a fresco nel muro, e di lì con due porte laterali si passa per una alla camera
detta del Crocifisso, che non comunica con altre camere, e per l’altra a tutte
l’altre camere […] la cappella, e la camera del Crocifisso, che anno le volte a
Dammuso Reale»74.
Non è azzardato pensare che il culto della Madonna Assunta, con relativa chiesa, sia
stato introdotto a Favara nel periodo Svevo, quando nacque il centro abitato, che veniva
dotato di un impianto urbanistico razionale, caratterizzato da una grande piazza centrale
e da una crux viarum principale, con moduli urbanistici riconducibili alla cultura
federiciana, come sopra riportato.
Nel Medioevo, in Sicilia, il culto di Maria Assunta ebbe grandissima importanza,
con titolazione delle maggiori chiese cattedrali e parrocchiali di istituzione nel periodo
Normanno, quando veniva introdotta tale devozione. Ricordiamo le famose cattedrali
normanne di Palermo, di Messina, di Monreale, di Cefalù e di Agrigento, che sin dalla
loro fondazione venivano intitolate alla Beata Maria Vergine Assunta. Anche nelle città
sveve di Sicilia, come Augusta ed Eraclea, fondate dall’imperatore Federico II, la Chiesa
Madre risulta intitolata a Santa Maria Assunta. La cattedrale di Altamura, in Puglia,
fatta costruire da Federico II nel 1232, completata nel 1254, è intitolata a Maria Assunta.
La cattedrale di Lucera, città pugliese rifondata da Federico II, dove aveva trasportato i
mussulmani ribelli di Sicilia, porta il titolo di Santa Maria Assunta. Rileviamo, inoltre,
la titolazione di Maria Assunta nella Chiesa Madre dei centri medievali di Santa Lucia
del Mela e di Montalbano Elicona, nel Messinese, dove Federico II di Svevia fece
costruire, rispettivamente, un palazzo di caccia75.
Della chiesa parrocchiale del casale medievale di Favara, oggi, non esiste traccia e
nel corso del XVI secolo doveva essere già in completo abbandono o addirittura distrutta,
visto che la funzione di parrocchia era svolta dalla chiesa di Santa Maria Assunta, poi
74
75
Manoscritto inedito, in corso di pubblicazione, a cura di F. SCIARA.
F. SCIARA, I loca solatiorum et defensarum di Federico II imperatore in Sicilia, cit.
509
FILIPPO SCIARA
detta del Transito di Maria. La più antica testimonianza della presenza di questa chiesa
parrocchiale a Favara risale al 17 ottobre 1544, quando veniva visitata da don Bartolomeo
De Perinis, vicario generale della Diocesi di Agrigento, che la menzionava come piccola
chiesa sotto il titolo della Beata Maria Vergine della Assunzione:
«Die XVII octobris III ind. 1544. Supradittus reverendus Don Bartolomeus De
Perinis, vicario generale se condulit in Terra Fabariae et in ea visitavit
ecclesiolam sub titulo absumptionis beate Marie virginis que in redditibus habet
nihil […] est cura animarum ad quam exercendam est Presbiter Orlandus de
Alongi et loco ipso presentia est Presbiter Gaspare de Contrino qui ministrare
habet servitio de re curie tarenos duos ab una quaque domo et cum domos
octuaginta incirca et habet emolumenta provenentia ex administratione ditte
curie. In illa visitavit locum Santissimi Sacramenti que est in quadam custodie
lignie ad altare maius et in eo invenit custodiam argenti cum pede rami in quo
moratur continue dittum sacramentum et cum qua portatur ad infermus supra
illam est vetum […] intus dittam custodiam […] invenit altarettum integrum
cum tobalia et corporalibus ut convenit. Successive visitavit fontem batmisimale
et invenit satis integrum et bene custoditum in caldara rami […] ad altare
maius quo icona est absuntio beati Marie Virginis pinta in muro ad […] altare
est tobalia magna circum circa supra illud invenit coscina quatuor tele
candelabra duo lignis alterettum integrum tobalias quatuor ad illum […] invenit
palium velluti nigri cum […] supra altare invenit […] crucem […] cum tobalia
[…] calicis argenti non deorati cum sua patena […] corporalis paria […]
bene […] et composita et iussit provideri de bursa una et duabus […] vidit
vestimentum […] cun casubula velluti nigri cum cruce de […] vidit palius
biancarelli lane cum cruce rosi nigri […] vidit unam cappam damasci albi
novam vidit crucefixium magnum cum tobalia magna circum circa vidit tobalias
[…] intus […] vidit casubulam velluti azoli vetustam duas stolas unam sete
azoli et alteram viridis vidit […] supra […] muccatores ligatos intus aliu […]
muccatores una cum […] vidit duas serpellitias. in tetto est campana magna
per campanario et altera parva per terra vidit missale […] iussit quidem de
aliis. Et quia ad fontem vidit sua vasa […] in quibus […] oleum […] Sanctum
Cristum oleum infirmorum iussit provideri de vasi […] In ditta ecclesia est
quadam figura gloriose virginis Marie cum tobalia circum circa»76.
Questo documento è di grande valore storico, perché rappresenta la prima e la più
antica visita dei vescovi di Agrigento a Favara, con descrizione della chiesa parrocchiale,
che era amministrata dal prete Orlando de Alongi, collaborato da Gaspare de Contrino.
La chiesa, che nell’altare maggiore presentava l’icona con l’affresco della Beata Maria
Vergine Assunta, era detta «est cura animarum», quindi costituiva la parrocchiale con
somministrazione dei sacramenti e riceveva proventi (due tarì) da tutte le case di Favara,
Archivio Diocesano Provinciale di Agrigento, Visite dei vescovi, registro anni 1542-1543, vol. II, f.
210 r. e v.
76
510
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
che in quel periodo risultavano circa 80, con circa 400 abitanti. Questa chiesa parrocchiale
si identifica con quella oggi detta della Madonna del Transito: Transitus sive Trapassionis.
Occorre rilevare, che questa chiesa non doveva esistere nel Medioevo, considerato che
è posta fuori dall’impianto urbanistico medievale e, come posizione, viene ad ostruire
totalmente la strada che conduce al portale nord del recinto fortificato del castello di
Favara. Si consideri, inoltre, che presenta un orientamento nord-sud con l’abside rivolta
a sud, contrariamente a quanto avveniva nel Medioevo, dove le chiese avevano sempre
un orientamento ovest-est con l’abside rivolta a Oriente, verso il sorgere del sole e la
città santa di Gerusalemme. È da escludere che la chiesa del Transito di Maria sia stata
la prima chiesa medievale di Favara.
La chiesa parrocchiale del casale medievale di Favara, la cui esistenza è suggerita
dalla presenza del prete Andrea Imborrida a Favara, nel 137577, era probabilmente posta
nello stesso luogo dell’attuale Madrice, che presenta l’abside rivolta a Oriente (anche la
precedente chiesa presente in questo luogo, nei secoli XVI-XIX, aveva lo stesso
orientamento).
Come sopra riportato, in un documento del 1593, la Chiesa Madre di Favara, poi
detta del Transito, veniva menzionata come «madre eclesia antica», perché di recente
era stata edificata una nuova chiesa detta matri ecclesia, eclesia nova, o maiori eclesia,
come si riportava in diversi documenti dei Riveli di Favara del 1593. In quattro documenti
del 19 marzo 1593 si riferiva, rispettivamente, che
«Petro la logia tiene dui casi tirrani in quista Terra nella contrata di la matri
ecclesia confinanti con li casi di Francesco Failla di laltra parti cu li casi di
petru lu Nardi»78; «Cola la logia tiene una casa terrana nella contrata di la
matri ecclesia confinanti con petro la logia et philippo di Leo»79; «Iachino Gulpi
tiene dui casi terrani nella contrata di la ecclesia nova confinante con li casi di
geronimo Fanara et con casi di jacopo di prima»80; «Petro Drago tiene n’altra
casa tirrana nella contrata di la Ecclesia nova confinanti con li casi di paulo
promuntorio di l’altra parti via puplica»81.
In data 20 marzo 1593, si riportava che
«Geronimo Fanara tiene una casa nella contrata della majori ecclesia confina
con lo fundaco dello principi et Filippo Barba»82; «Giovannella Pillittera tiene
una casa in questa terra alla contrata di la clesia nova confinanti con nessuno»83.
In data 19 maggio 1593, si aveva notizia che:
J. GLÉNISSON , Documenti dell’Archivio Vaticano, cit.
Archivio di Stato di Palermo, T. R. P., Riveli di Favara, anno 1593, vol. 341, f. 319 r.
79
Ivi, f. 81 r.
80
Ivi, vol. 341, f. 238 r.
81
Ivi, vol. 341, f. 157 v.
82
Ivi, vol. 341, f. 479 r.
83
Ivi, vol. 341, f. 254 r.
77
78
511
FILIPPO SCIARA
«Francesco Faylla tiene dui casi tirrani nella contrata di la ecclesia nova
confinanti con li casi di petro la logia di l’altra parti cu li casi di Masi di
alesi»84; «Masi di Alesi tiene casi tri alla contrata di la matri eclesia confina
con Francesco Failla»85.
Questa chiesa maggiore, posta nel sito di quella attuale, rimasta senza titolo per
molti anni, nel 1608 veniva indicata come nuova Chiesa Madre, che si appropriava del
titolo della Madonna Assunta, appartenuto alla vecchia Madrice del XVI secolo.
Quest’ultima, anche se aveva ceduto il ruolo di chiesa parrocchiale e il titolo di Maria
Assunta alla nuova Chiesa Madre, nel corso dei secoli conservò la sua importanza, se
consideriamo che cambiò la denominazione in Madonna del Transito o Trapassione di
Maria, che ha lo stesso significato religioso di Maria Assunta. Rileviamo, inoltre, che
conservò l’altare maggiore dedicato sempre alla Madonna Assunta e la festa in onore
della stessa che non venne trasferita nella nuova Chiesa Madre. Ancora oggi la festa
della Madonna Assunta viene celebrata nella chiesa del Transito, con festeggiamenti
che durano diversi giorni, con conclusione il 15 agosto. Essa è molto sentita e partecipata
dalla società favarese e rappresenta una delle principali feste religiose. Nel corso di tale
festa si svolge una fiera agricola, con presenza di animali domestici (oggi sempre meno
per sopraggiunte norme igieniche e sanitarie) e di manufatti artigianali utilizzati per i
prodotti della terra.
La nuova Chiesa Madre ricordata nel 1593, nel luogo di quella attuale, rimaneva per
molti anni senza titolo e priva del beneficiale cioè dell’arciprete, che veniva nominato
solo nel 1608, quando la chiesa era indicata come nuova Madrice, riceveva il titolo e
veniva rifondata ufficialmente come nuova sede di arcipretura.
Il vescovo di Agrigento, Vincenzo Bonincontro, trovandosi a Licata, il 5 giugno
1608, emetteva atto di fondazione di arcipretura nella nuova chiesa parrocchiale di Favara,
con il titolo della Beata e Gloriosa Vergine Maria Assunta, che veniva detta patrona e
titolare della detta chiesa e di tutta la Terra di Favara:
«In civitate Leocate Die 5 juniy VI ind. 1608 in discursum di visitationis curentis
[…] Don Vincentius Bonincontri vescovo agrigentino […] ad terra fabbariae
eiusdem diocesis et illum eligetes […] plures dies visitando rinvenisset multum
[…] populo adeo utrim ea sint domus seculares et ut vulgo elicit fochi ultra
ottingenta et […] mille ac populo sequis et numerus ac ultra quatuor mille
personij et pariter audier […] licet ibidem fuisset actenj ecclesia sub nullo
titulo nulla quali […] sancti nuncupactione in qua minictrari […] ecclesias
sacramenta nullo tamen fuit reperty sacerdos […] in dicta terra fabbarie
degentium gererat eis ministrata per cappellanum a dominum ordinaris
deputatum et ab eades ad ipsum mutu amorabilem fuit quide cappellano populj
preditte terre primitias singulis annis solvere […] debeat in dicta terra fabbarie
[…] parrochus et curatj quem et nomen titulo ac prerogativa archipresbiteraty
84
85
Ivi, vol. 341, f. 363 r.
Ivi, vol. 341, f. 487 r.
512
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
dicte terre declaravit et insignivit […] cura parochialem debite spectantia
predictus archipresbiteri […] voluit et mandavit […] deincps preditta ecclesia
[…] archipresbiteralis terre fabbarie appellaretur et nuncuparetur sub titulo
ac nuncupatione absuntionis beati et gloriosissime Virginis Marie que sit et
esse debeat patrona et titularem dicte ecclesie et totius terre fabbarie»86.
Da un documento del 1733, apprendiamo che erano presenti a Favara «una strada
longa della Matrice chiesa e della Madre chiesa nova», per le quali l’autore chiariva:
«Per tale notola di designazione di strada siamo in obbligo d’avvertire, che
strada longa della Matrice chiesa, s’intende la strada, che comincia dove sono
gl’arbitrj de Salnitri [congerie di pelle di contrada Conzo] ad andare terminare
sin dove è attualmente la Croce, che chiamano del Calvario, poiché la Matrice
chiesa all’ora, secondo la tradizione di que naturali, era ove attualmente è la
chiesa della Trapassione di Maria. La strada poi longa della Matrice chiesa
nova si reputa, che fosse quella che rompe nella prima strada sudetta a frontespicio
del monastero di Donne non completo [attuale Collegio di Maria] e comincia
dalle case di Francardi andando a terminare, ove adesso è la Matrice chiesa»87.
Da un altro documento del 1855, riguardante Favara, si aveva notizia:
«Nei primordj della comune la chiesa parrocchiale era quella di Maria
santissima del Transito (allora sufficiente ad un popolo, che ancora non arrivava
al numero di mille): cresciuto il numero del popolo, fu giuoco forza fabbricare
la attuale Madrice, che era sufficiente per l’epoca, in cui fu eretta, ma oggi è
assai angusta per un popolo così grande, come lo è adesso. La Madrice fu
eretta sotto il titolo di Maria Assunta, e rimase la chiesa antica quello del
Transito di Maria, divenuta chiesa semplice. Questa fu elegantemente restaurata,
ed accresciuta di rendite da dieci anni a questa parte, e nel 1853 divenne chiesa
Sagramentale = Multa Renascentuir, quae iam recidere, ad atque»88.
Queste due importanti testimonianze, confermano i documenti del 19 e 20 marzo
1593, in cui si riferiva di la madre eclesia antica, posta nella strata longa, della quale
sopra abbiamo riferito.
Tutti questi documenti ci informano, quindi, della presenza di una vecchia Chiesa
Madre posta nella strada lunga (oggi via Umberto), e di un’altra Chiesa Madre detta
anche maggiore o nuova, posta in altro luogo (già Largo Matrice, oggi Piazza dei Vespri).
Da ciò ricaviamo anche l’identificazione della Chiesa Madre di Favara, nel XVI secolo,
con l’attuale chiesa del Transito di Maria (figura 7).
86
Archivio Diocesano Provinciale di Agrigento, Visite dei vescovi, registro anni 1607-1608, vol. 64, f.
744 r. e v.
87
Manoscritto inedito, cit.
88
Manoscritto inedito, in corso di pubblicazione, a cura di F. SCIARA.
513
FILIPPO SCIARA
Ad analizzare con attenzione la preziosissima pianta della vecchia Chiesa
Madre dell’Ottocento (figura 8), pervenutaci grazie al rilievo eseguito dall’architetto-ingegnere Francesco Donati
Scibona di Palermo, il 31 maggio 1887, la
sorpresa è veramente grande.
Da questo importantissimo rilievo,
riportato in scala 1:100, ricaviamo che
l’or iginar ia chiesa (come progetto
indipendente rispetto alle alterazioni di
epoca successiva) era a pianta basilicale e
a croce latina. Nella pianta sono ancora
presenti l’ala sud del transetto e i tre altari
principali della basilica, dati dalla
continuazione delle tre navate, tutti inseriti
in un disegno quadrato (figura 9), di cui
quello centrale veniva modificato e
allungato, con un’abside in forma semicircolare, nel 1760, per il cr ollo
dell’altare principale, come vedremo più
avanti. L’ala nord del transetto, non più
presente, fu sicuramente distrutta nel corso
del Seicento, quando veniva realizzata la
costruzione dell’oratorio del Santissimo
Crocefisso (documentato a partire dal Figura 7. Un momento della festa di Santa Maria
1678), contiguo a nord alla Chiesa Madre, Assunta a Favara, davanti la chiesa del Transito
della quale utilizzava il muro perimetrale di Maria del secolo XVI (foto di Filippo Sciara).
nord, e riportato nel suddetto disegno del 1887 del Donati Scibona. Nel lato sud, venivano
aperte due grandi cappelle absidate, forse nel 1760, quando, a causa di crolli, la chiesa
veniva ampliata, e ricostruiti, rispettivamente, l’altare maggiore e il prospetto principale:
«Ecclesia parrochialis collapso jam prospectu et Capella maxima ruinam minitante
anno 1760 illo a fundamentis erecto, hac quoque ampliata et integra ecclesia opere
albacio interius ornata Beate Marie Virginj assumptae ac Victoriae dicata fuit»89.
Tutte queste modifiche, vere e proprie superfetazioni che hanno aggredito il tempio
nel corso dei secoli, hanno contribuito ad alterarne pesantemente il rigore geometrico e
l’armonia delle forme originarie, al punto che, nel 1890, la chiesa veniva definita deforme,
nel suo aspetto, dal vescovo di Agrigento mons. Gaetano Blandini90 . La sua forma
Biblioteca Comunale di Palermo, Ad Favarae notitiam Rochi Pirri appendix, manoscritto, Qq H 124, n. 24.
F. SCIARA, La nuova Chiesa Madre dell’Ottocento a Favara, in «Archivio Nisseno», anno XIV – N.
26, gennaio – giugno 2020, pp. 7-53.
89
90
514
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
Figura 8. Pianta della Chiesa Madre dell’Ottocento
di Favara, redatta da Francesco Donati Scibona di
Palermo, il 31 maggio 1887. Archivio Carmelo Sciuto
Patti, Biblioteca dell’Accademia di Scienze, Lettere
e Belle Arti degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale.
originaria (figura 10), tuttavia, è ancora
riconoscibile nella suddetta pianta del 1887, redatta
dal Donati Scibona.
La chiesa, all’esterno, era lunga 38,20 m e larga
14,80 m, che si allargava con le braccia a forma di
croce latina, con un transetto, all’esterno, di 26,80
m x 8,20 m. All’interno, il transetto era di 24,60 m
x 6 m e la basilica misurava 36 m x 12,60 m, divisa
in tre navate, di cui la principale larga 6 m e le due
laterali rispettivamente di 3 m ciascuna, divise tra
loro da un gruppo di 14 colonne cilindriche, 7 per
lato. Il presbiterio, che si poneva come
continuazione della navata principale della basilica,
e che accoglieva l’altare centrale, era di forma
quadrata di 6 m x 6 m. I due altari laterali,
continuazione delle piccole navate laterali,
Figura 9. Emergenze della chiesa medievale di Favara,
rilevabili nella pianta del 1887, di Francesco Donati
Scibona (elaborazione di Filippo Sciara).
515
FILIPPO SCIARA
Figura 10. Pianta della chiesa medievale di
Favara, rilevabile nel disegno del Donati
Scibona, con le parti mancanti evidenziate in
tratteggiato (elaborazione di Filippo Sciara).
Da uno schizzo della chiesa di fine Ottocento
conservato nell'Archivio Parrocchiale,
riportato dall'arciprete Giuseppe Minnella il
19 marzo 1962, sulla base dei dati forniti da
Carmela Bongiorno, vissuta a cavallo tra
Ottocento e Novecento, si ricava che nella
crociera del transetto vi era una cupola sorretta
da 4 colonne, confermando l'originaria pianta
a croce latina della chiesa medievale.
anch’essi quadrati, erano di 3 m x 3 m.
Tutti e tre gli altari erano caratterizzati
da un’abside con parete retta. Il transetto
presentava le pareti brevi caratterizzate
da una linea retta, che rientrava in un
disegno con la medesima misura e forma
quadrata (6 m x 6 m) dell’altare della
navata principale.
Il risultato era una chiesa (figura 11),
con uno schema d’impianto particolare,
caratterizzata dalla presenza di absidi
con pareti rette e inserite in un disegno
perfettamente quadrato, che, dal punto di vista architettonico, risultava di pura concezione
cisterci-ense, dalla tipica pianta bernardina91.
L’Ordine cisterciense, così denominato dalla casa madre di Citeaux (Cistercium in
latino, da cui Cisterciensi) in Borgogna, venne fondato da Roberto di Molesme nel
1098. Il suo più importante esponente fu Bernardo (1098-1153) di Clairvaux, il quale
prese nome dalla seconda casa madre dell’Ordine, fondata dallo stesso nel 1115. L’Ordine
era impegnato in una riforma della vita claustrale, di origine benedettina, considerata
troppo mondanizzata; una delle sue regole ordinava di stabilirsi in plaghe inospitali, per
dissodarvi la terra e costruire abbazie. I Cisterciensi si trasformarono così, in breve
tempo, in grandi proprietari terrieri. Alla morte di Bernardo (1153) esistevano già 345
abbazie in Europa, di cui 167 erano fondazioni o affiliazioni di Clairvaux. Fra queste 70
erano state fondate direttamente da Bernardo. Nella metà del XII secolo, l’Ordine
cisterciense era composto da circa 10.000 monaci, un vero esercito di pace in grado di
91
R. CASSANELLI, San Bernardo costruttore? Il Problema della “pianta bernardina”, in Cisterciensi,
arte e storia, a cura di T. N. KINDER e R. C ASSANELLI, Milano 2015, pp. 75-78. Si veda anche A. M.
ROMANINI, Le abbazie fondate da San Bernardo in Italia e l’architettura Cisterciense «primitiva», in Studi
su San Bernardo di Chiaravalle nell’ottavo centenario della canonizzazione, Convegno Internazionale,
Certosa di Firenze, 6-9 novembre 1974, Abbazia di Casamari (Frosinone) 1975, pp. 281-303; R. BONELLI,
L’edilizia delle chiese cisterciensi, in I Cisterciensi e il Lazio, Atti delle giornate di studio dell’Istituto di
Storia dell’Arte dell’Università di Roma, 17-21 maggio 1977, Roma 1978, pp. 37-42.
516
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
rinnovare spiritualmente le
terre della cristianità europea92. Nel 1200, le abbazie
erano circa 525 (compresi i
monasteri femminili).
Mentre i Cluniacensi
(Cluny) non fissarono norme
per l’architettura, le costruzioni cisterciensi sono
immediatamente riconoscibili ovunque si trovino, sia
nelle piante planimetriche
che in alzato93 . Questi due
elementi, che definiscono in
modo decisivo la concezione
di una chiesa, si mantennero
dimostrativamente semplici
fino al 1150 circa. Le chiese
cisterciensi, che venivano
costruite dagli stessi monaci
(figura 12), non possedevano
campanili, all’infuori di una
torretta, e le navate erano per
Figura 11. Restituzione della pianta della chiesa medievale di
la maggior parte a soffitto Favara, di concezione cisterciense (elaborazione di Filippo Sciara).
piano; i cori si concludevano
ad angolo retto e così pure le cappelle che, nel lato orientale, si annettevano ai transetti;
di solito ogni transetto recava due cappelle, ma tale numero poteva salire a quattro. Le
absidi curve, fuor che in Spagna, erano rare. Anche nei dettagli ci si atteneva il più
possibile alla semplicità; ci si impegnava soltanto nel migliore possibile intaglio della
pietra.
La più antica chiesa interamente conservata è quella di Fontenay (1139-47), la più
vasta quella di Pontigny (c.1140-1200), entrambe in Borgogna. Le abbazie cisterciensi
italiane più famose sono, tra le altre, quelle di Casamari, Fossanova e Chiaravalle di
Milano.
Silvia Perossi, a proposito dell’architettura cisterciense e del piano bernardino, ha
riferito:
«Lo scopo della vita monastica è il raggiungimento di Dio e a questo tutto è
orientato, a partire dalla scansione della giornata, articolata in preghiera e
lavoro. Anche l’architettura deve indurre alla contemplazione di Dio in quanto
M. MESCHINI (a cura di), San Bernardo renovator seculi, Milano 2004, p. 9.
N. PEVSNER, J. FLEMING e H. HONOUR, Dizionario di Architettura, a cura di R. PODIO, Torino 1981,
pp. 151-152.
92
93
517
FILIPPO SCIARA
tutta la vita si svolge dentro
e attorno alle mura
dell’abbazia, e questi
ambienti dominano la vita
dei monaci costituendone il
mondo più immediatamente
visibile: questo è il motivo
per cui san Bernardo
interviene in materia
estetica. Le forme dell’architettura cistercense hanno
radice e ragion d’essere
proprio nella Regola
dell’ordine. Pertanto, è solo
comprendendo il pensiero
teologico a essa sottesa che
questa nuova arte può
svelarsi nel suo significato
e nella sua bellezza. Per
parlare di architettura
cistercense occorre considerare le prime fondazioni, edificate in terra
francese quali case madri
dell’ordine, da cui discendono centinaia di
Figura 12. Monaci cisterciensi, nell’atto di costruire una chiesa. filiazioni diffuse in tutta
Pittura su legno, abbazia di Maulbronn, Wurtemberg (Germania). Europa, con fedeltà o
variazioni rispetto all’impianto originario. Le cinque case madri sono, insieme
a Citeaux, La Fertè fondata nel 1113, Pontigny nel 1114, Clairvaux e Morimond
nel 1115 […] È l’abbazia di Fontenay, in Borgogna, seconda filiazione di
Clairvaux fondata da san Bernardo nel 1119, la testimonianza più antica e
meglio conservata dell’architettura cistercense originale, secondo le
caratteristiche tipiche del cosiddetto “piano bernardino”, un edificio spoglio,
privo di decorazione scultorea e pittorica, severo, geometrico, poco illuminato
e monocromatico […] A differenza di quanto teorizzato dall’abate di SaintDenis Sugerio, che cerca il raggiungimento di Dio attraverso la mediazione del
sensibile, del bello e del sontuoso (“per visibilia ad invisibilia”), l’estetica
bernardina propone un’arte che non distragga la mente ma favorisca la
meditazione. Secondo il pensiero di Bernardo, l’uomo deve superare il livello
contingente della realtà sfaccettata nelle sue molteplici diversità, per arrivare
a coglierne il senso di Dio: un processo di spoliazione da ciò che è effimero per
far emergere l’essenza di tutto, che si esplica come ratio, numero, ordine. In
518
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
una sorta di reductio ad unum, l’architettura cistercense elimina l’ornamento
perché si evidenzi la struttura. Quello cistercense è un linguaggio essenziale
fatto di linee rette, incontri ortogonali, forme quadrate, rapporti numerici
semplici e armonici, luce bianca e pacata, ritmi binari e ternari, unità e regolarità
di spazi, razionalità insistita, assenza di decorazioni, omogeneità di impostazione
in ogni elemento. La prima caratteristica di Fontenay è proprio il rigore
geometrico, con l’individuazione di un modulo quadrato, ripetuto in tutta la
chiesa e nei diversi ambienti, in pianta e in alzato, origine di spazi regolari e
armonici […] Quello di Fontenay è uno spazio che fa appello alla ragione e
non ai sensi: è semplice, comprensibile e misurabile nell’unità del suo modulo
razionale di base […] Il complesso abbaziale è un organico sistema in cui la
collocazione e le caratteristiche di ogni ambiente rispondono a precise esigenze,
trasmettendo un’idea di ordine e sottolineando la pari importanza tra il lavoro
e la preghiera. Edificio principale è la chiesa, collocata a nord per non oscurare
gli altri ambienti e in posizione sopraelevata per riparare dal vento; sviluppata
lungo l’asse est-ovest, con abside orientata, la chiesa è divisa in tre navate,
transetto con bracci corti, coro rettangolare sporgente, affiancato da due o tre
cappelle quadrate. Sulla testata settentrionale del transetto, la “porta dei morti”
conduce alla zona cimiteriale mentre quella della testata meridionale immette
in sacrestia […] La struttura modulare che dalla chiesa si estende a tutti gli
ambienti fino alla campagna prende il nome di “tipo bernardino”, una sorta di
prototipo, se non ideato dallo stesso san Bernardo, certamente nato dalle sue
direttive estetiche e maturato nelle prime costruzioni. In ogni filiazione il modello
è replicato con fedeltà per garantire l’esatta corrispondenza con la casa madre,
come si vede per esempio a Morimond o nella planimetria dell’abbazia Santa
Maria (1134) a Himmerod, in Germania. Questo planning è possibile grazie a
cantieri-scuola in cui i monaci stessi sono istruiti alla pratica di cantiere, tanto
che si è parlato addirittura di sistema “digitalizzato”. La genialità dei costruttori
cistercensi è quella di adattare la matrice bernardina alle caratteristiche
ambientali e tradizionali dei diversi territori, creando varianti tipiche»94.
Particolare importante era la titolazione delle abbazie cisterciensi, che venivano
dedicate sempre a Santa Maria. Goffredo Viti e Malachia Falletti, dell’Ordine cisterciense,
nella loro interessante relazione, in merito, hanno scritto:
«La mariologia e, di conseguenza, la devozione a Maria fino al secolo V si
basava, quasi esclusivamente sulla dottrina di sant’Ambrogio. Con il concilio
di Calcedonia del 451 si avverte maggiormente il bisogno di approfondire
l’argomento, soprattutto nei confronti della maternità divina, della verginità e
della stessa santità di Maria. Questo processo di “interesse mariano” continua
94
S. PEROSSI, L’architettura cistercense. Origini e sviluppo, in La storia dell’Arte. Il Romanico, vol. 4,
a cura di S. ZUFFI, Roma 2006, pp. 775-811.
519
FILIPPO SCIARA
fino al VII secolo, quindi si registra una flessione in periodo carolingio, per
riprendere con rinnovato fervore a partire del X secolo. I Benedettini sono i più
attivi, e tra essi sono da ricordare Beda il venerabile, Ambrogio Autperto e
Pascasio Radberto. Dalla seconda metà dell’XI secolo, la devozione a Maria si
intensifica sotto ogni aspetto: liturgico, teologico ed iconografico. Giustamente
il Leclerq afferma che: «Il secolo XI è il grande secolo mariano del medioevo;
tutte le dottrine che si svilupperanno in seguito, trovano in questo periodo una
formulazione che non riceverà ulteriori precisazioni se non in epoca molto più
recente: la dottrina dell’Assunzione con lo pseudo-Agostino, la dottrina
dell’Immacolata Concezione con Eadmero, la dottrina della Mediazione e della
Maternità spirituale con sant’Anselmo. Il secolo XII vivrà di questo
rinnovamento e lo prolungherà: san Bernardo in questo contesto ha il suo posto
[…] In questo panorama di intenso fermento mariano si inserisce la fondazione
dell’Ordine di Citeaux, realizzata nel 1098 da Roberto di Molesme, Alberico e
Stefano Harding. Con molta probabilità, Citeaux recepisce e accoglie, fin dai
primi decenni, quanto prodotto dalla tradizione precedente in campo mariano,
e, a sua volta, diventa ispiratrice di nuove espressioni di culto. La presente
relazione intende seguire ed esporre il processo graduale, ma intenso, di
devozione mariana dell’Ordine cistercense […] Solo nella più antica raccolta
degli Statuti del Capitolo generale, conservata nel manoscritto 1711 della
Biblioteca Comunale di Trento, compare per due volte il nome di Maria. La
prima volta nel capitolo su: La costruzione delle abbazie, dove si puntualizza:
«È stabilito che tutti i nostri monasteri debbano essere dedicati in onore della
Regina del cielo e della terra…». La seconda è quando si elencano le vigilie
delle feste in cui bisogna far digiuno; e tra queste compare l’Assunzione di
Maria. Da tener presente che fino alla metà del secolo XIV si celebravano solo
quattro solennità in onore della Madonna: Purificazione, Annunciazione,
Assunzione e Natività. Di esse solo l’Assunzione prevedeva l’ottava come risulta
dagli Ecclesiastica Officia che riflettono le disposizioni del breviario di Stefano
Harding […] A questo punto è doveroso chiedersi: quando fu redatto lo statuto
presente nella raccolta del manoscritto 1711 di Trento? L’istituzione del Capitolo
generale è da collocarsi dopo la fondazione delle prime abbazie-figlie di Citeaux
e ciò dovrebbe essere accaduto successivamente al 1115 […] Il Patronato di
Maria sull’Ordine Cistercense è l’ultima caratteristica che si desume dalla
lettura degli Statuta per quanto riguarda il contesto mariano. Quello che
maggiormente ci sorprende è che gli interventi in difesa di tale prerogativa
siano molto tardivi rispetto all’antichità che presumono le decisioni capitolari.
Complessivamente sono sette gli statuti che ricordano o ribadiscono
l’avvenimento, compresi tra gli anni 1281 e 1488. Il più antico quindi è quello
del 1281 e afferma la precedenza del Patronato e del Patrocinio di Maria rispetto
agli altri Ordini religiosi»95.
95
G. V ITI – M. FALLETTI, La devozione a Maria nell’Ordine Cistercense, in Respice Stellam, Maria in
san Bernardo e nella tradizione cistercense, Atti del Convegno Internazionale (Roma, Marianum 21-24
520
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
Federico Farina e Benedetto Fornari, sulla pianta tipica della chiesa e del monastero
cisterciense, hanno riportato:
«La pianta di una abbazia cistercense si presenta articolata, secondo la Regola
di San Benedetto, in un organismo complesso ed autosufficiente con una
disposizione razionale e pratica degli edifici […] I principali elementi esterni
che determinarono la posizione dei vari ambienti di un’abbazia cistercense
sono la configurazione del terreno, il clima, il corso d’acqua presso cui viene
costruito il monastero e la direzione dei venti […] Gli edifici strettamente
regolari si articolano, in maniera razionale, attorno al chiostro che è come il
cuore dell’abbazia […] L’edificio più importante del monastero è la chiesa,
orientata, a croce latina, che occupa generalmente la parte più elevata del
terreno ed è disposta nel lato nord dell’abbazia per riparare l’ambiente dai
venti di tramontana e per non impedire l’espandersi della luce sugli altri edifici.
È generalmente a tre navate, con abside rettangolare e transetto. Nelle prime
abbazie francesi come Fontenay, l’Escale Dieu, Senanque, Silvanès, le Thoronet,
Fontfroide, Silvacanes il transetto, a due navate, presenta sulla parete orientale
quattro piccole cappelle per la celebrazione delle messe in privato. Fossanova
segue lo stesso schema, mentre Casamari ha un transetto a tre navate con sei
cappelle, di cui le due alle estremità forse di epoca posteriore […] La chiesa
presenta una porta laterale situata verso la parte terminale della navata destra,
chiamata porta dei coristi, che comunica con il chiostro e un’altra, sulla stessa
navata ma nella prima campata, detta porta dei conversi perché mette in
comunicazione la chiesa con i dormitori di questi. Nel braccio destro del
transetto si apre la porta di accesso alla sacrestia e ha inizio la scala che
conduce al dormitorio dei coristi; nel braccio sinistro la cosiddetta porta dei
morti immette nel cimitero monastico. Sulla crociera del transetto si eleva il
campanile, che, per disposizione degli Statuti Capitolari, deve essere di legno,
di modeste dimensioni e con due piccole campane, tali da poter essere suonate
contemporaneamente da un solo monaco. Verso la chiesa converge tutta la vita
del monastero: in essa infatti si giustifica, si realizza e si sublima la vita del
monaco nel contatto con Dio mediante l’opus Dei […] La pianta descritta è
stata denominata dagli studiosi pianta bernardina perché ideata da San Bernardo
per la abbazia di Clairvaux e quindi suggerita o imposta alle case filiali […] In
Borgogna alcune abbazie bernardine sono rimaste intatte o quasi: la più
suggestiva è Fontenay sorta tra il 1138 e il 1147, negli anni della piena maturità
di Bernardo (1090-1153)»96.
Goffredo Viti riferiva che, per i monaci cisterciensi, l’architettura fu il loro manifesto
spirituale e culturale, la cui peculiarità architettonica si inseriva prepotentemente nel
ottobre 1991), a cura di I. M. CALABUIG, Roma 1993, pp. 287-348.
96
F. FARINA – B. FORNARI, L’architettura cistercense e l’abbazia di Casamari, Firenze 1981, pp.
33- 48.
521
FILIPPO SCIARA
Figura 13. Pianta della basilica cisterciense del Murgo (da Giuseppe Agnello).
passaggio dall’arte romanica a quella gotica97. Egli, inoltre, riportava:
«Con l’applicazione dei loro principi spirituali allo stile dei monasteri,
impressero all’architettura religiosa un carattere di forza, di grandezza e di
semplicità che fortemente contribuì alla nascita ed allo sviluppo dell’arte gotica.
I cistercensi furono quindi senza dubbio, dei grandi costruttori. Essi innalzarono
in tutta l’Europa, specialmente durante il Medioevo, un numero considerevole
di abbazie e diffusero dappertutto l’arte gotica a tal punto da essere designati
con l’appellativo di missionari dell’arte gotica. I monasteri cistercensi
presentano, dal punto di vista architettonico, una uniformità di linea “ad
quadratum” ed una disposizione costante degli ambienti, secondo le esigenze
della particolare vita monastica. Tuttavia, pur aderendo agli statuti generali
dell’Ordine, che prescrivevano un complesso ben definito, i cistercensi si
adattarono, nelle loro costruzioni, alle condizioni ambientali in cui si trovavano,
tenendo conto della configurazione del terreno, del corso delle acque e dei
venti. La semplicità di stile e la funzionalità di struttura sono una esigenza di
spiritualità ed un manifesto di povertà di cui l’Ordine fa professione […] Il
rigorismo dell’ordine non mancò di riflettersi sulla regolarità della planimetria
delle abbazie. La costante disposizione degli edifici si estende in questo caso
dalle zone claustrali, all’intero insieme dell’impianto, tale che, si è potuto parlare
di pianta ideale dell’abbazia cistercense […] l’elemento nuovo e caratterizzante
l’architettura cistercense non sta, in altre parole nella creazione di nuove
97
G. V ITI (a cura di), Architettura cistercense, Firenze 1994, p.1.
522
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
formule, né planimetriche né costruttive […] Sta piuttosto nel rigore assoluto
con cui l’idea benedettina del monastero come civitas Dei esemplare viene
purificata da ogni elemento inessenziale e condotta a una incandescente
essenzialità ed evidenza, in forme scattanti, basate esclusivamente sulla linea
retta […] La chiesa orientata, a croce latina, occupa generalmente la parte più
elevata del terreno […] Un primo periodo romanico dell’architettura cistercense
rappresenta, nonostante gli elementi tipici delle maestranze borgognoni, un
nuovo genere architettonico che nel XII secolo diventa rapidamente familiare
in tutta Europa, adattandosi tuttavia alle correnti stilistiche locali […] Un
secondo periodo, che segna il passo decisivo verso il gotico Cistercense, si
compie in Borgogna nel periodo post-bernardino quando la volta a botte,
poggiata immediatamente sulle arcate della navata principale, viene sostituita
dalla volta a crociera con lanterna. Lo stacco ritmico, al posto della pesante e
continua volta a botte, porta al sistema protettivo smembrato e nelle pareti così
alleggerite, può essere aperta una finestra per ogni campata. Questa variazione
di stile si può datare a partire dalla seconda metà del secolo XII»98.
Lelia Fraccaro de Longhi, sull’architettura delle chiese cisterciensi ha scritto:
«L’architettura delle chiese cistercensi non può essere considerata a sé, cioè
come frutto di una scuola ben definita, nata con intendimenti di innovazione o
con criteri suoi proprii e precisi. I moduli cistercensi in gran parte non
differiscono da quelli dell’architettura della regione dove l’Ordine nacque, la
Borgogna, terra di valide tradizioni artistiche. Non si può perciò parlare di uno
stile cistercense vero e proprio ma solo di forme cistercensi in quanto che, una
volta assunte, divennero distintive delle loro costruzioni. Gli ideali di praticità
e di economia fecero sì, per esempio, che essi preferissero, specialmente in un
primo tempo, costruire cori e cappelle di forma quadrata o rettangolare, piuttosto
che semicircolare, di più facile erezione; per quanto, come abbiamo visto, questo
non fu mai l’unico schema: se osserviamo infatti le piante cistercensi dei
principali paesi d’Europa, vediamo che solo in Italia e in Svizzera esse
presentano sempre una certa uniformità e una fedeltà più o meno severa a
quella tipica (Fontenay) […] Interessante è notare in questa sede come in
Borgogna e perciò anche nell’architettura cistercense coesistessero due tendenze
ben distinte: una conservatrice e una innovatrice; infatti vi fu la tendenza a
mantenere vivi gli elementi romanici come nella copertura (persistenza della
volta a botte, largo uso della crociera liscia nelle navate laterali); si conservò
a lungo l’arco a tutto sesto nelle finestre, nei portali e non fu quasi mai sostituito
da quello acuto, come avvenne invece presto nelle altre parti della costruzione
[…] I costruttori borgognoni, contrariamente agli architetti dell’Ile e della
Normandia, non alterarono che di rado e a fatica le proporzioni romaniche,
98
Ivi, pp. 2-12.
523
FILIPPO SCIARA
non concepirono vuoti predominanti sui pieni […] non crearono mai uno slancio
verticale da sovvertire con profonda evidenza l’andamento orizzontale, precipuo
alle costruzioni romaniche. Mentre invece essi adottarono presto i nuovi elementi
gotici in alcune parti della costruzione, come l’arco acuto nelle arcate e negli
archi trasversi della navata centrale, che del resto bene si prestava alla campata
oblunga, e le volte munite di ogive. E così fecero anche i Cistercensi. Se
quest’Ordine non fosse uscito dai confini francesi, non avrebbe assunto
quell’importanza storico-artistica che è doveroso attribuirgli. I monaci di S.
Bernardo, senza alcuna pretesa di rinnovamenti artistici, portarono ben presto
i nuovi elementi dello stile gotico in tutta Europa […] innanzi tutto l’arco acuto
e un più perfetto sistema di costruzione delle volte ad ogive»99.
Sul significato simbolico della tipica chiesa dei monaci cisterciensi, il grande studioso
francese Georges Duby, riferiva:
«La chiesa è il laboratorio principe, il punto di cristallizzazione di tutta l’impresa
cistercense. Tutte le altre costruzioni le sono subordinate. L’unico loro uso
consiste nel preparare i corpi e le anime all’atto di cui lo spazio ecclesiale
costituisce la cornice obbligata […] Su quella che, volta a occidente, ne sarebbe
la facciata, nel punto dove si dispiegherebbero le meraviglie del portale, dove
Sigiero raduna tutta la simbolica del passaggio, non si vede apertura, se non
alcune finestrelle per la luce e le due fenditure laterali attraverso le quali
s’infilano a nord rari invitati, a sud la muta polverosa e taciturna dei conversi.
Niente tribune, niente cripta, niente strutture a piani in verticale, ma una pianta
che si allunga per allontanare nella profondità coloro che non partecipano
direttamente alla celebrazione. Questa pianta, la croce latina, favorevole a riti
discreti di processione, è anche simbolo. Dell’universo, poiché si pone esso
stesso all’incontro delle due vie provenienti dai punti cardinali, convertendo in
tal modo, rivolgendo all’interno il crocicchio del chiostro: questo era un
esplodere, un estendersi del corpo dell’uomo alle dimensioni del cosmo; la
chiesa al contrario raduna, rinchiude, condensa verso un punto focale, la
crociera del transetto. Sopraelevato di un gradino in rapporto alla navata,
mentre il santuario è più alto ancora di uno o due gradini, questo punto cruciale
vuoto intermedio, è quello della transizione. Al centro della clausura dove coloro
che usano l’oratorio si sono ritirati una volta per tutte, esso ha la funzione che
le antiche abbaziali assegnavano al portico, che gli assegneranno le cattedrali.
Adopera lo stesso linguaggio, parla di ciò che riallaccia la terra al cielo, il
corpo all’anima, il finito all’infinito. È luogo d’attesa, sul quale si fissa il
desiderio. Quadrato anch’esso – come il chiostro, ma questa volta avviluppato
come il miele all’alveare – occupa il posto del cuore in quella figura che le
99
L. FRACCARO D E LONGHI, L’architettura delle chiese cistercensi italiane, Milano -Varese 1958, pp.
21-33.
524
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
Figura 14. Pianta della Chiesa Madre di Augusta. Rilievo di Domenico Battaglia, eseguito nei primi
anni del 2000.
fondamenta della chiesa inscrivono al suolo. Figura dell’uomo, figura anche
del crocefisso, aderenti l’una all’altra in similitudine perfetta, due assonometrie
confuse nella rettitudine e di cui l’esatta sovrapposizione vuole rappresentare
in modo convincente l’incarnazione e la redenzione. La linea retta regna sul
piano, sulle pareti della navata, delle navate laterali, dalle campate al transetto
[…] In nessuna parte, in nessuno degli edifici liturgici inventati dalla cristianità
d’Occidente, viene lasciato posto più decisivo all’angolo retto. Il quadrato è la
chiave di tutte le strutture dell’edificio cistercense dove qualsiasi idea di voluttà
è liberata dalle curve che le sarebbero necessarie […] I campanili di pietra
sono proibiti dal capitolo del 1157: li ammette solo di legno, e di piccole
dimensioni, modesti. Una rigida morale impone all’edificio il riserbo, un
equilibrio che soddisfa tanto meglio lo spirito in quanto nessun ornamento ne
dissimula le fondamenta. Costruito su rapporti aritmetrici sui quali poggiano
anche gli accordi musicali, una siffatta soluzione porta diritto ai giubili austeri
della cerimonia cistercense. Mentre al tempo stesso li ricollega alle coerenze
del cosmo, rinchiudendo l’edifizio entro misure contadine, la mano, il gomito,
quelle cioè del corpo umano, le cui proporzioni concordano in tal modo al
piano e alla costruzione dell’oratorio. Per mezzo della sua corporalità, luogo
del desiderio e dell’amore, la costruzione in muratura raduna ancora più
perfettamente la comunità in preghiera, al modo «della Gerusalemme superna,
la cui solidità deriva dal fatto che tutti partecipano all’essere stesso di Dio
525
FILIPPO SCIARA
[…] e non solo ciascuno ma tutti incominciano ad abitare nell’unità; non c’è
più divisione né in loro stessi, né fra loro». Perché questo è la chiesa, «la nuova
Gerusalemme che esiste sulla nostra terra» e che è strumento di unanimità»100.
Ritornando alla chiesa di Favara, rileviamo che era costruita con grande rigore
geometrico e con armonia delle forme nelle sue diverse parti costitutive. Il modulo
adoperato, nello spazio interno, era un quadrato perfetto, di 3 m x 3 m, che delimitava
gli altari laterali, dati dalla continuazione delle navate minori della basilica, e che risultava
l’elemento generatore di tutto il complesso, multiplo nella misura dell’altare maggiore
(6 m x 6 m), degli altari del transetto (6 m x 6 m), del corpo della basilica (12,60 m x 36
m) e del transetto (6 m x 24,60 m). Precisiamo che nel Medioevo, l’unità di
misura utilizzata per le distanze brevi era la canna lineare, corrispondente a 2,06 m.
In questo nostro caso dovremmo, quindi considerare, come modulo, un quadrato
con il lato di circa 1,5 canne lineari. Questi rapporti metrologici rientravano nelle
proporzioni adoperate nelle chiese cisterciensi. Daniele Negri ha riferito, infatti,
che le chiese cisterciensi presentavano un sistema di proporzioni precise,
specialmente nelle piante ideali di tipo bernardino:
«riveste una particolare importanza la verifica da parte di alcuni storici (Hann
in particolare) del sistema di proporzioni che il piano bernardino prevedeva
venisse applicato nel dimensionamento della pianta di ogni nuova costruzione
ecclesiale. Secondo tale sistema, che non fissa misure standard, il rapporto
intercorrente fra due dimensioni fisse, la larghezza del complesso delle tre navate
e quella complessiva del transetto, e lunghezza totale della chiesa rispetta sempre
le proporzioni 1:3 e 1:4. Non solo. La dimensione massima del transetto è sempre
doppia della sua larghezza, così come la dimensione massima della chiesa,
esclusa l’abside, sarà sempre doppia della lunghezza del transetto stesso. Da
questo conseguirà che i monaci (o i conversi) costruttori si rivolgeranno al
problema del dimensionamento di ogni nuova chiesa abbaziale con la più grande
libertà in fatto di misure assolute, salvo poi dover rispettare un sistema
proporzionale fisso che veniva a codificare l’incidenza di ogni misura sulle
altre, in un risultato di ideale equilibrio e di omogenea cadenza planimetrica
che costituisce l’eredità più duratura del piano costruttivo di Bernardo. Questo
modo bernardino di far chiese che è destinato a rappresentare l’essenza stessa
dell’architettura cistercense, subisce ovviamente varianti costruttive anche
durante la vita dell’abate di Clairvaux, particolarmente nelle abbazie edificate
fuori della terra d’origine, dando inizio ad una serie di realizzazioni significative:
in Italia la chiesa di S. Nicola di Agrigento resta l’unico esempio malgrado la
frazionatura del corpo longitudinale e gli estesi rifacimenti, di nave centrale
voltata a botte, mentre le Tre Fontane di Roma, coperta a capriate ma pensata
inizialmente voltata in modo analogo a Fontenay, testimonia coi suoi caratteri
100
G. DUBY, San Bernardo e l’arte cistercense, Torino 1982, pp.134-143.
526
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
aspri e le superfici nude l’appartenenza a questo periodo in cui ogni nuova
chiesa dell’Ordine nasce per porsi come precisa testimonianza ideologica»101.
Il piccolissimo campanile della chiesa di Favara, addossato a nord-est, all’esterno,
tra l’altare maggiore e l’altare laterale sinistro, era di forma quadrata, di circa 3,5 m di
lato, con l’interno di circa 2,5 m x 2,5 m. L’arciprete Carlo Valenti, nel 1901, di questo
campanile riferiva:
«Chi non ricorda quel campanile lungo lungo che uscia tra il muro medio della
Chiesa e dell’Oratorio, impropriamente detta la Chiesa del Crocifisso, in forma
quadrata coi soliti quattro archi per le Campane, strozzato a metà dall’alto in
basso, e che al rimasto in piede rinforzato nei due lati da muraglioni in sostegno
delle campane, facendolo alla vista da lontano, una mostruosità ridicola?»102.
Anche questa particolarità rientrava nello schema d’impianto della chiesa cisterciense,
per la quale era previsto un piccolo campanile, a forma di torretta.
Un altro particolare interessante della chiesa di Favara richiamava lo schema tipico
delle chiese cisterciensi. Intendiamo riferirci alla porta che dal braccio destro e meridionale
del transetto immetteva nella sacrestia, che era posta proprio a sud-est di quest’ultimo.
Questa chiesa a disposizione basilicale - caratterizzata da absidi con pareti rette che
si inserivano in un disegno di forma perfettamente quadrata - che si allargava a croce
latina, con un transetto, nei lati minori con pareti pure rette, e che presentava la stessa
larghezza della navata principale, è molto significativa e si pone, nel suo tipico schema
d’impianto, di origine medievale e di concezione cisterciense, nella sua più pura
espressione. Si può considerare, infatti, come la tipica pianta di tipo bernardino, cioè
ideata e codificata da san Bernardo di Clairvaux, che diede grande impulso all’Ordine
cisterciense, nella prima metà del XII secolo, come sopra ribadito da diversi autori.
La chiesa di Favara richiama molto la grande basilica cisterciense del Murgo (figura
13), presso Lentini, la cui costruzione veniva iniziata dall’imperatore Federico II di
Svevia103, dopo il 1220, e mai completata, forse per i contrasti con il papato di Roma.
Precisiamo che non esiste nessuna certezza documentaria che lega la basilica del Murgo
a Federico II e ai Cisterciensi, ma lo schema d’impianto e le caratteristiche architettoniche
non lasciano dubbi circa la sua origine e attribuzione, come più avanti vedremo.
Si consideri che il suddetto schema d’impianto basilicale, delle chiese del Murgo e
di Favara, di grande rigore geometrico, di forma longitudinale allungata, tagliata da un
transetto trasversale a forma di croce latina, caratterizzato da absidi di forma retta, era
tipico dei luoghi di culto delle abbazie cisterciensi italiane del XII secolo104.
D. NEGRI, Abbazie cistercensi in Italia, Pistoia 1981, pp. 23-24.
C. VALENTI, La nuova Chiesa Parrocchiale di Favara e le spese di manutenzione e restauro, Palermo
1901, p. 23.
103
G. AGNELLO, L’architettura sveva in Sicilia, Roma MCMXXXV, pp. 231-248.
104
G. VITI (a cura di), Architettura cistercense. Fontenay e le abbazie in Italia dal 1120 al 1160,
Firenze 1995.
101
102
527
FILIPPO SCIARA
La chiesa di Favara, oltre a rappresentare, sorprendentemente, una copia perfetta
della pianta della basilica del Murgo, ne costituiva un esempio modulare. Si presentava,
infatti, come grandezza, la metà rispetto alla basilica del Murgo. Quest’ultima risulta,
all’esterno, di 83 m x 28 m, con un transetto all’esterno di 40,40 m x 11,40 m, e all’interno
di 35 m x 6 m. Questa larghezza di 6 m è identica alla larghezza del transetto della
basilica di Favara. L’altare centrale della basilica del Murgo, con abside di forma retta,
è inserito in un disegno pressoché quadrato, di m 8,30 m x 7,90 m, e i due altari laterali,
pure con abside retta, inseriti in un disegno pressoché quadrato di 4,80 m x 4,50 m, si
presentano con una disposizione icnografica tipica105, che ritroviamo, in maniera identica,
nella chiesa di Favara. Perfino l’apertura tipica nel braccio destro del transetto, che
immetteva nella sacrestia, che abbiamo riscontrato nella chiesa di Favara, è ripetuta,
nella stessa posizione, nella basilica del Murgo.
La basilica del Murgo, all’interno lunga 77,50 m e larga 22,60, era divisa in tre
navate, di cui quella centrale, compresi i pilastri mediani, larga m 12, all’incirca quanto
era la larghezza totale della basilica di Favara. La lunghezza interna, 77,50 m, della
basilica del Murgo, risulta circa il doppio di quella di Favara che era di 36 m. Le tre
navate della basilica del Murgo erano separate tra loro da un gruppo di 28 colonne o
pilastri, 14 per lato, esattamente il doppio di quelle che erano presenti nella chiesa di
Favara. Lo spessore murario della basilica del Murgo si presenta imponente, cioè di
2,70 m, mentre quello della chiesa di Favara era di circa 1,10 m, riflettendo, anche in
questo particolare costruttivo, una misura modulare. Tra la basilica del Murgo e quella
di Favara, il cui rapporto modulare era di 1:2, sono molte le coincidenze, sia nello
schema d’impianto che nelle proporzioni strutturali, e sicuramente non possono essere
dovute al caso. Notiamo, tuttavia, che nella chiesa di Favara, il rapporto metrologico,
tra la lunghezza del transetto e la lunghezza delle tre navate della basilica, si presentava
superiore rispetto a quello riscontrato nella chiesa del Murgo (i bracci del transetto
della chiesa di Favara erano più lunghi, in proporzione). Un’altra differenza importante
tra le due chiese era che quella del Murgo, posta in aperta campagna, era sicuramente
destinata ad una abbazia, mentre quella di Favara, posta in un centro di nuova fondazione,
doveva avere la funzione di chiesa parrocchiale (dalla suddetta pianta del 1887 non
emergono tracce che fanno pensare ad una abbazia). Con questo significato, la chiesa
cisterciense di Favara, nel periodo di Federico II imperatore, trova dei riscontri all’interno
del Regno di Sicilia ed anche fuori dai confini.
Fuori dal Regno di Sicilia e dall’ambito cisterciense, ricordiamo la chiesa di Santa
Maria Novella di Firenze, edificata dai frati domenicani a partire dal 1246, con benedizione
nel 1278 e completata nella metà del XIV secolo. Essa fu la prima basilica dove vennero
usati elementi dell’architettura gotica a Firenze, in particolare i caratteri tipici
dell’architettura gotica cisterciense. È lunga 99,20 m. e larga 28,20 m., mentre il transetto
misura 61,54 m. La pianta, suddivisa in tre navate, con il transetto spostato indietro, verso
l’abside retta, è a croce latina e deriva dagli schemi planimetrici delle chiese abbaziali
dell’Ordine cisterciense106, pur essendo stata costruita da frati domenicani.
105
106
G. AGNELLO, L’architettura sveva in Sicilia, cit. pp. 231-248.
A. PIVA (a cura di), Le chiese dal Paleocristiano al Gotico, Novara 1993, pp. 298-304.
528
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
La cattedrale di Santa Maria Assunta di Lecce, costruita nel 1144 dal vescovo Formoso,
nel 1230 veniva rinnovata e ricostruita dal vescovo Roberto Voltorico107. Tra gli anni
1659 e 1670 veniva nuovamente rinnovata in stile barocco leccese, mantenendo, tuttavia,
l’originario impianto planimetrico del periodo Svevo. Si presenta di tipo basilicale a tre
navate, tagliate da un transetto con formazione di una croce latina. La particolarità è
data dalla presenza di absidi rette, con il coro di forma pressoché quadrata, che si pone
come continuazione della navata centrale, affiancato da due cappelle laterali, anch’esse
di forma quadrata, che sono la continuazione delle navate laterali. Il richiamo alle chiese
cisterciensi è molto evidente nello schema d’impianto.
Ricordiamo, inoltre, la cattedrale di Cosenza, intitolata a Santa Maria Assunta, che
si presenta di impostazione e caratteri cisterciensi, sebbene abbia subito nel tempo
alterazioni decisive ed evidenti, soprattutto nel capocroce, come ha rilevato Pina Belli
D’Elia e, recentemente, Stefania Mola108. Il 30 gennaio 1222 si registrava la presenza
ufficiale dell’imperatore Federico II alla riconsacrazione della chiesa, alla quale donava
una preziosa stauroteca in oro, smalti e pietre preziose, confermando i buoni rapporti
con i Cisterciensi. Luca Campano, già scriba di Gioacchino da Fiore a Casamari e poi
abate della Sambucina di Luzzi, era vescovo di Cosenza dal 1201 e apparteneva all’Ordine
cisterciense. È probabile che protomagister della chiesa sia stato proprio questo vescovo
e le maestranze le stesse che erano state utilizzate per la ricostruzione della Sambucina,
di Santa Maria di Acquaformosa e dell’abbazia del Sagittario109.
Dal prezioso Compendio de le istorie del Regno di Napoli di Pandolfo Collenuccio,
iniziato a scrivere nel 1498 e pubblicato nel 1539, dopo 35 anni dalla morte del suo autore,
sappiamo che Federico II aveva fatto costruire nel 1247, presso Parma, una nuova città
che chiamò Vittoria, dove fece erigere una chiesa con il titolo di Santo Vittore:
«quando ebbe avviso che li fuoriusciti di Parma con li altri ribelli de l’imperio,
bresciani e piacentini, col legato apostolico erano entrati in Parma del mese di
giugno, e avevano occupata la città e morto Enrico Testa, che in quella era
podestà dell’imperio. Intesa questa novella Federico, conoscendola opera
papale, mosso da indignazione e furore revocò l’andata di Lione e con tutte le
legazioni et esercito e compagnia che avea con sé ritornò a Parma, intorno alla
quale con un esercito di sessanta mila persone si pose in assedio; e per poterli
star sicuro li edificò ad un breve tratto a l’incontro un’altra città di legname e
atterrati, la quale chiamò per nome Vittoria e li dedicò una chiesa sotto titolo
di Santo Vittore, come patrono di essa, e feceli battere una moneta, la quale
chiamò vittorini. Fu la lunghezza di città 800 canne e la larghezza 600, et era
la canna di nove braccia: e aveva otto porte e le fosse larghe e profonde
d’intorno, ne le quali mise l’acqua che prima a Parma correva, facendoli in
A. PIVA (a cura di), Le chiese dal Rinascimento al Novecento, Novara 1993, pp. 266-270.
P. BELLI D’ELIA, Gli edifici sacri, in Federico II e l’Italia. Percorsi, Luoghi, Segni e Strumenti,
Roma, Palazzo Venezia, mostra, 22 dicembre 1995-30 aprile 1996, Edizioni De Luca - Editalia, Roma
1995, pp. 85-92; S. MOLA, Edifici religiosi, in Federico II, Enciclopedia Fridericiana, voll. III, Istituto
della Enciclopedia Italiana, fondata da GIOVANNI TRECCANI, Roma 2005, vol. I, pp. 491-497.
109
P. BELLI D’ELIA, Gli edifici sacri, e S. MOLA, Edifici religiosi, citati.
107
108
529
FILIPPO SCIARA
essa abitazioni e corte e piazze e botteghe e tutte l’altre cose a forma di una
città di molti anni»110.
Una significativa testimonianza è rappresentata dalla planimetria (figura 14)
dell’attuale Chiesa Madre della città di Augusta111 (fondata da Federico II) in Sicilia,
che rimanda allo schema tipico delle chiese cisterciensi. Si tratta dell’antica chiesa
parrocchiale di Augusta, detta di Santa Maria Maggiore, distrutta dal terremoto del
1693, in seguito ricostruita e oggi intitolata a Santa Maria Assunta. È una chiesa basilicale
a tre navate, all’esterno di 48,30 m x 22,30 m, e all’interno di 46,30 m x 20,30 m,
tagliata da un transetto, con misure esterne di 29,40 m x 10 m e all’interno di 27,40 m x
8 m, con formazione di una croce latina. Le navate della basilica sono larghe,
rispettivamente, la centrale di 8 m e le due laterali, di 4 m. ciascuna. La larghezza della
navata centrale è uguale alla larghezza del transetto, come era tipico delle chiese
cisterciensi. Il presbiterio è formato da una conca absidale che all’esterno si presenta
delimitata da una linea retta, con uno spessore murario al vertice di 1,20 m e ai lati di
2,25 m, misura quest’ultima che risulta spessa più del doppio di quella delle mura
perimetrali della chiesa, che è di 1 m. Questo fatto ci suggerisce il rifacimento in epoca
successiva di tale struttura, rispetto a quella originaria, dovuta forse ad un crollo. Il
coro, in origine, doveva essere, anche all’interno, con abside retta, come si presentano
le cappelle laterali. Ai lati sono presenti, infatti, due piccoli ambienti, oggi di forma
rettangolare, di 4 m x 2,20 m, che si pongono come continuazione delle navate laterali
della basilica, larghe 4 m. Questi due piccoli ambienti, oggi utilizzati come corridoi per
accedere ai locali della sacrestia, dovevano avere la funzione originaria di cappelle di
culto, di forma quadrata di circa 4 m x 4 m, affiancate a quella centrale. Se togliamo,
infatti, dallo spessore laterale del presbiterio 1,25 m (ringrosso aggiunto, in fase di
riparazione, allo spessore originario di 1 m) e lo restituiamo, come spazio, al piccolo
rettangolo, abbiamo un ambiente pressoché quadrato di 4 m x 3,45. Accanto a questi
piccoli rettangoli, si trovano, rispettivamente, altri due ambienti quadrati, con abside
retta, di 4,50 m x 4,50 m., con funzione di cappelle laterali che si aprono nel transetto.
Particolare interessante è la mancanza del campanile, così come previsto per le chiese
cisterciensi, di cui sopra abbiamo detto. Le campane, oggi, sono posizionate nella facciata
principale della chiesa.
Gli elementi strutturali, a nostro avviso, ci sono tutti per definire questa chiesa, dal
punto di vista planimetrico, di derivazione cisterciense. La nuova ed attuale Chiesa
Madre di Augusta presenta uno schema basilicale e a croce latina, ad imitazione di
quella medievale distrutta, ma con abside rivolta ad Occidente, contrariamente alle chiese
P. COLLENUCCIO, Compendio de le istorie del Regno di Napoli, a cura di A. SAVIOTTI, Bari 1929, pp.
138-139.
111
Tale planimetria, redatta nei primi anni del 2000, in scala 1:100, da parte di Domenico Battaglia, al
fine di mettere in evidenza, tramite il metodo del georadar, la presenza di strutture murarie sotto il pavimento
della chiesa, che era stata danneggiata dal terremoto del 1992, doveva servire per la riparazione della
stessa. Per questa preziosa planimetria, ringraziamo sentitamente Giuseppe Carrabino, attuale assessore
alla cultura della città di Augusta.
110
530
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
Figura 15. Foto aerea della Chiesa Madre di Augusta con la piazza antistante
cisterciensi che avevano l’abside rivolta a Oriente. Questa è l’unica caratteristica della
planimetria della chiesa di Augusta che contrasta con la tipologia delle chiese cisterciensi.
Davanti la chiesa si apre una piazza (figura 15) di 57 m x 44 m (in origine doveva essere
di 60 m x 40 m), la cui dimensione si pone come un sottomultiplo della misura di 60 m
x 120 m, riscontrata nelle piazze di Favara e Gela.
Anche la Chiesa Madre di Eraclea, oggi Gela (altra fondazione di Federico II), doveva
essere di tipo cisterciense. La chiesa, a causa dei danneggiamenti del terremoto del
1693, e per la vetustà, veniva ricostruita ex novo, nel 1766, nella stessa piazza dove si
affacciava la chiesa di Santa Maria della Platea del XIII secolo, della quale sopra abbiamo
riferito. La nuova chiesa, che si presenta orientata, con misure esterne di circa 25,60 m
x 55 m, completata nella prima metà dell’Ottocento, con torre campanaria del 1837 e
con prospetto principale del 1844, presenta una pianta con schema basilicale e a croce
latina, inusuale per i secoli XVIII-XIX. Sebbene il presbiterio si presenti con conca
absidale, e le due cappelle laterali con abside piana, il richiamo allo schema chiesastico
cisterciense è evidente. Non è azzardato credere che l’attuale chiesa sia stata costruita
ad imitazione di quella medievale, con l’introduzione della conca absidale nel coro, per
il mutare della mentalità dell’epoca, come è successo per le chiese di Augusta e Favara.
La nuova chiesa di Gela, dei secoli XVIII-XIX, è stata ricostruita in posizione obliqua
rispetto al rettangolo della piazza, in cui è posta, alterandone la regolarità spaziale (figura
16).
Le piante cisterciensi delle chiese di Favara, di Augusta e di Gela che presentano
uno schema d’impianto simile, sebbene con delle varianti, testimoniano che Federico II
utilizzò i conversi cisterciensi per edificare le chiese delle città di nuova fondazione, da
531
FILIPPO SCIARA
Figura 16. Foto aerea della Chiesa Madre di Gela con la grande piazza centrale.
lui promosse. Questa scoperta smentisce l’opinione comune degli studiosi del periodo
Svevo, secondo i quali Federico II non fu un costruttore di chiese112. Tutto ciò conferma,
inoltre, quanto scritto nella cronaca cisterciense di Santa Maria di Ferraria, circa l’impiego
dei Cisterciensi, da parte di Federico II, per costruire i suoi castelli e palazzi (ed anche
le chiese) del Regno.
Nella preziosa testimonianza della cronaca di Santa Maria di Ferraria, di autore ignoto,
si riferiva dell’utilizzo (su suggerimento della Curia romana), dei conversi cisterciensi
provenienti dalle diverse parti del Regno di Sicilia, da parte dell’imperatore Federico II,
per i lavori agricoli e per la costruzione dei suoi castelli e palazzi:
«Per idem tempus [1224] imperator de consilio curie romane accepit conservos
de omnibus abbatis cisterciensis ordinis regni Siciliae et Apuliae ac Terre
Laboris, quos instituit magistros gregum, armentorum et diversarum actionum
et ad costruenda sibi castra et domicilia per civitates regni, ubi non habebant
domos proprias ad ospitandum. Ad quod peragendum jussit exigi pecuniam per
singulos ab omnibus, exceptis clericis et militibus qui non habebant serviles
possessiones»113.
Da un altro passo della detta cronaca, sappiamo che nell’anno 1228 era morto a
Roma il papa Onorio III ed era stato sepolto nella chiesa di Santa Maria Maggiore. Si
P. BELLI D’ELIA, Gli edifici sacri, e S. MOLA, Edifici religiosi, citati.
A. GAUDENZI (a cura di), Ignoti monachi cisterciensis S, Mariae de Ferraria Chronica et Ryccardi de
Sancto Germano chronica priora, Napoli 1888, p. 38.
112
113
532
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
riferiva, inoltre, che il detto Onorio aveva fatto costruire, a proprie spese, la chiesa
dell’abbazia cisterciense di Casamari, aveva diretto l’Ordine cisterciense, ed era stato
in grande amicizia con l’imperatore Federico, verso il quale interveniva per ottenere la
libertà di tutte le chiese e dei clerici. Nella cronaca si legge:
«MCCXXVII[J]. Mense Martii Honorius papa obiit Rome. Sepultus est apud
sanctam Mariam maiorem. Sedit annos XJ minus mensibus IIIJ°. Hic suis
expensis construxit ecclesiam Casemaris et direxit ordinem cistercensem et fecit
ei plures indulgentias, et in pace magna rexit christianitatem et habuit amicitiam
maximam cum imperatore Frederico et impetravit ab eo libertatem omnium
ecclesiarum et clericorum»114.
I rapporti tra Federico II e i Cisterciensi sono testimoniati da molti altri documenti.
Ricordiamo che nel 1215, Federico, dopo essersi dimostrato promotore della crociata in
Terrasanta, chiedeva di essere accolto nell’Ordine cisterciense, con umiltà e ponendosi
come peccatore della debole carne115. Nel documento, Venerabilibus in Christo patribus,
Federico II riferiva:
«A tutti gli abati dell’Ordine cistercense, venerabili padri in Cristo, Federico,
per grazia di Dio re dei romani sempre augusto e re di Sicilia, augura salute nel
Signore e si dichiara pronto e ben disposto ad ogni loro desiderio […] Crediamo,
infatti, anzi riteniamo per certo, che tanta è la santità di codesto venerabile
Ordine e tanto piacevole, soave e gradito è l’olocausto delle vostre orazioni,
che ogni giorno gli offrite con la macerazione e la mortificazione della vostra
carne, che tutto quanto crederete opportuno chiedere al nostro Creatore,
l’otterrete dalla sua infinita bontà, essendo Egli pietoso e pieno di misericordia.
E siamo non meno convinti che questo mondo, pieno di insidie e malvagio,
posto sotto il dominio del maligno, dalle vostre preghiere viene sorretto e protetto
dal volto indignato di quel tremendo giudice, di cui provochiamo l’ira con i
nostri peccati, allontanandone il castigo che meritiamo. Poiché, dunque,
crediamo fermamente che con le vostre preghiere otterrete qualunque cosa gli
chiederete umilmente in nome del suo unigenito Figlio, noi, che ci riconosciamo
oppressi dal peso del peccato, a voi tutti ed ai singoli, riuniti nel nome di Cristo,
chiediamo con tutta umiltà e devozione, e ve ne supplichiamo insistentemente,
che vogliate accoglierci, ammettendoci nella vostra fraternità. Così, facendoci
partecipi delle vostre sante preghiere, rivolgiate al nostro Creatore speciali
suppliche perché, mosso a pietà, con la sua grazia cancelli e corregga in noi
tutto il male che abbiamo commesso finora per la debolezza della carne umana,
e si degni disporci alle cose a Lui gradite. E, avendo assunto per sua ineffabile
misericordia il governo dell’impero romano, benché peccatori, Egli ci conceda,
per vostra intercessione, lo Spirito di consiglio e di verità, così che la sua santa
114
115
Ibidem.
E. KANTOROWICZ, Federico II imperatore, trad. di G. PILONE
533
COLOMBO,
Milano 1976, p. 87.
FILIPPO SCIARA
Chiesa, da Lui redenta col suo sangue sull’altare della croce, goda, a lode e
gloria del suo nome, della desiderata tranquillità della pace, e noi, dopo il
corso di questo impero temporale possiamo giungere con voi al regno eterno e
vedere nello splendore della sua gloria colui che non ha disdegnato di farsi per
noi umile e disprezzato. E, siccome temiamo di non riuscire ad ottenere tutto
questo con i nostri meriti, speriamo e desideriamo conseguirlo mediante le
vostre orazioni. Inoltre, poiché nel giorno dell’incoronazione abbiamo affisso
alle nostre spalle il segno salvifico della croce, legando ad esso ogni nostro
desiderio e la sorte stessa dell’impero, perché col nostro lavoro e il nostro zelo
la terra santa, quella terra che fu calcata dai piedi del Signore, quella terra in
cui il Signore operò la salvezza di noi tutti, sia strappata dalle mani dei nemici
della croce di Cristo, i quali la tengono con la violenza, vi supplichiamo:
rivolgete a Lui fervide preghiere perché il nostro desiderio abbia compimento
[…] In ultimo, raccomandando noi stessi alle vostre preghiere, desideriamo
sappiate che noi vogliamo essere, per tutti i giorni della nostra vita, difensori
di codesto sacro Ordine, e promuoverne ogni bene come cosa nostra»116.
Il Capitolo generale dell’Ordine cisterciense, nel gradire il devoto pensiero
dell’imperatore, gli notificava l’accoglimento della richiesta di partecipazione ai beni
spirituali dell’Ordine e gli porgeva gli auspici per la buona riuscita della progettata
spedizione in Terrasanta:
«All’illustrissimo Federico per grazia di Dio re dei Romani sempre augusto, e
re di Sicilia, il fratello Arnaldo, abate di Citeaux, e tutta l’assemblea degli
abati del Capitolo Generale, augurano salute e che egli possa giungere dopo il
regno terreno alla gloria del regno celeste. Poiché, secondo il Vangelo, ogni
albero buono produce frutti buoni, avendo gustato il frutto dolcissimo della
devozione attraverso la vostra lettera regale, ne abbiamo avuto la conferma e,
convinti di questo, ci congratuliamo molto che la divina bontà abbia posto la
vostra bontà nel suo paradiso che è la Chiesa, quale pianta fruttifera e molto
atta a governare la vigna del Signore degli eserciti. Non è piccola, infatti, quella
devozione che ha piegato un sì maestoso cedro su arbusti così piccoli, in quanto
si è degnato di mandare un saluto a noi che siamo infamia degli uomini e rifiuto
del popolo, rallegrarci con la notifica della sua incoronazione, incitarci alla
devozione, esortarci alla carità, mentre si raccomanda con tanta pietà, tanto
ardore e tanta umiltà alle preghiere di un povero e misero gregge […] Perciò,
venendo incontro con affettuoso consenso al vostro devoto ossequio, vi
accogliamo, secondo la vostra domanda, nella nostra fraternità, rendendovi
partecipe della comunione delle nostre preghiere e di tutti i suffragi che si
compiono oggi, e si compiranno in futuro nell’Ordine, promettiamo di fare per
F. FARINA – I. VONA, L’organizzazione dei Cistercensi nell’epoca feudale, Edizioni Casamari 1988,
pp. 211-213. Si veda anche J.-M. CARNIVEZ (a cura di), Statuta Capitulorum Generalium Ordinis Cistercensis
ab anno 1116 ad annum 1789, voll. VIII, Louvain 1933-1941; vol. I, anno 1215, pp. 431-433.
116
534
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
voi, quando la notizia della vostra morte ci sarà pervenuta, quanto si suole per
ciascuno di noi. Nel frattempo, con particolari e pie preghiere, raccomandiamo
a Dio il vostro progetto di prendere il segno della santa croce per strappare la
terra santa dalle mani immonde degli infedeli, implorando la misericordia
dell’onnipotente Dio perché si degni concedervi, secondo il vostro pio desiderio,
un glorioso trionfo sui nemici. Con animo grato prendiamo atto, infine, di quanto
leggiamo in calce alla vostra lettera che, cioè, volete essere difensore del nostro
Ordine e promuoverne ogni bene come cosa nostra»117.
Dal Capitolo generale dell’Ordine cisterciense, del 1236, sappiamo, con certezza,
che monaci e conversi erano al servizio dell’imperatore:
«L’abate di Casanova nel regno di Sicilia, il quale ha concesso molti conversi
e monaci non solo all’Imperatore ma anche ai principi ed agli amministratori
di giustizia, per tre giorni sia in lieve colpa, di cui uno a pane ed acqua; gli si
fa obbligo di richiamare tutti quelli che ha concesso ad altre persone fuorché
quelli concessi all’Imperatore; li richiami senza accampare scuse di doverne
procrastinare il tempo. Per quanto riguarda quelli concessi all’Imperatore, li
richiami, se ciò è possibile, senza arrecare offesa all’Imperatore»118.
Come riferiscono Federico Farina e Igino Vona, la collaborazione tra Federico II e i
Cisterciensi fu particolarmente intensa nei territori della Puglia, Calabria e Sicilia:
«L’imperatore era ben consapevole di poter contare – per gli incarichi di
responsabilità amministrativa, per le opere di architettura sia religiosa che
civile-militare, sia per la direzione delle aziende agricole – sul fedele servizio e
sulla riconosciuta abilità dei monaci e dei fratelli conversi cistercensi che, anche
fuori dei loro monasteri, rimanevano strettamente vincolati alle direttive dei
rispettivi abati ed alle decisioni del Capitolo Generale. In linea di principio le
relazioni tra Federico II e l’Ordine cistercense erano subordinate e condizionate,
secondo una prassi fino allora mai smentita, ai rapporti tra l’imperatore ed il
papa. Federico II, che pure era stato affiliato all’Ordine, non esitò, dopo lo
scontro della Meloria, a tenere prigionieri per lungo tempo gli stessi abati di
Citeaux e di Clairvaux e trovò, nel collegio cardinalizio, i più fieri oppositori
proprio nei cistercensi Giacomo de Pecoraria, cardinale vescovo Prenestino, e
nel battagliero Raniero Capocci, cardinale diacono di Santa Maria in Cosmedin
e poi anche vescovo di Viterbo e vicario della Tuscia. Ogni qualvolta, tuttavia,
nei rapporti tra il pontefice e l’imperatore si apriva uno spiraglio di negoziato
e la possibilità di pacificazione, erano sempre i cistercensi i mediatori designati.
Dall’ultimo decennio del XII secolo fino alla morte di Federico II, ed anche
oltre, le abbazie di Puglia, di Calabria e di Sicilia risultano, dagli Statuti, le
117
118
Ivi, pp. 213-214.
Ivi, p. 220.
535
FILIPPO SCIARA
zone calde dello scacchiere cistercense; esse attiravano l’attenzione e
suscitavano la preoccupazione del Capitolo Generale. Emerge una situazione
di oggettivo disagio che i puntuali ed energici provvedimenti adottati non
riuscivano a sbloccare. Viene deplorata, in genere, la scarsa partecipazione
degli abati al Capitolo Generale»119.
Giuseppe Agnello, il più grande studioso dell’architettura sveva di Sicilia, che per
primo ha studiato e illustrato la basilica cisterciense del Murgo, nel 1935, riportava:
«Pare che Federico II, subito dopo il matrimonio con Costanza d’Aragona,
venisse spesso dalla vicina Catania a temperare in questa suggestiva solitudine
lo spirito irrequieto e che, attratto da tanta bellezza, avesse concepito il disegno
di erigere in questa deliziosa cornice di verde, in cospetto del mare meraviglioso,
una superba basilica, rimasta purtroppo incompiuta. La sua fondazione, secondo
la testimonianza di uno storiografo dell’ordine cistercense, cadrebbe
approssimativamente nel quinquennio 1220-1225, essendo collegata colla nuova
politica di restaurazione religiosa di Federico il quale, con diploma dato in
Siracusa nell’agosto del 1224, restituiva ai cistercensi del convento leontinese
di S. Maria di Roccadia i beni in precedenza soppressi. Questo importante
monastero sorgeva ad oriente della Lentini medievale, sull’alto di una collina.
Si crede che la sua distanza dal mare avesse indotto l’Imperatore a trasportare
la residenza dei monaci sulla baia di Agnone e che la chiesa del Murgo debba
perciò considerarsi come il nucleo iniziale dell’erigenda abbazia. Ma la grande
opera, che completa, ci avrebbe rivelato un aspetto veramente nuovo della
complessa attività fridericiana, riuscì appena ad elevarsi pochi metri al di sopra
delle fondamenta. Le ipotesi di questo mancato espletamento sono varie:
l’audace progetto fu forse troncato dal mutato orientamento politico di Federico
che, ponendolo in aperto contrasto colla Chiesa, trasformò in ostilità quella
protezione di cui era stato largo verso gli ordini monastici, o piuttosto
dall’insalubrità dell’aria che, anche oggi, sia pure in forma meno grave, fa
sentire le sue tristi conseguenze, soprattutto nel periodo estivo […] La chiesa,
semplicissima nella sua icnografia, è a pianta basilicale; misura m. 83 di
lunghezza per 28 di larghezza. Ad oriente è chiusa da tre absidi leggermente
rettangolari che un ampio transetto separa dal naòs. Nel piano architettonico
originario la basilica doveva comprendere tre navate, ma i pilastri mediani
sono forse scomparsi in seguito alla piantagione del giardino. Restano ancora
i semipilastri fiancheggianti la porta centrale e la fuga delle semicolonne dei
muri perimetrali su cui si sarebbero dovute impostare le crociere delle navatine.
L’imponente costruzione raggiunge appena, nel suo sviluppo complessivo, tre
metri di altezza, impostandosi su mura ciclopiche, larghe m. 2,70, che ricordano
quelle di Castel Maniace […] Tali coincidenze non hanno valore casuale, ma
rispondono alla comunanza di direttive artistiche che trovano persino un
119
Ivi, pp. 215-216.
536
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
riscontro nel rapporto delle proporzioni che legano le diverse membrature
architettoniche […] Uno spazioso transetto di m. 35 x 6 divide trasversalmente
la basilica che allarga le sue braccia in forma di croce […] Nella solenne
maestà del transetto si aprivano le absidi riproducenti, nello schema poligonale,
nella struttura decorativa e nella proporzione delle crociere, la struttura delle
relative navate. La loro icnografia è rimasta immutata […] La vastità del
progetto e le difficoltà della sua attuazione possono darci un’idea dello sforzo
grandioso al quale l’Imperatore si accingeva in questo fugace periodo della
sua politica religiosa. Se circostanze impreviste non avessero troncato, quasi
all’inizio, il compimento dell’impresa, oggi forse ammireremmo nella chiesa
del Murgo una delle più eloquenti affermazioni di tutta l’architettura sveva
dell’Italia meridionale […] La basilica del Murgo, sia pure incompleta e in
alcune parti deturpata da alterazioni, consente la piena ricostruzione della sua
icnografia, la quale s’inserisce nella storia dell’architettura siciliana del
Dugento con talune particolarità di linee che non trovano sino ad oggi riscontro
in altri monumenti coevi […] La speciale struttura delle absidi della basilica
del Murgo, definite all’interno e all’esterno dentro schemi quadrati, coperti di
volte a crociera, resta come un esempio isolato nella evoluzione di tutta la
nostra architettura medievale […] nella persistenza dello schema quadrato
che costituisce la legge costante cui s’ispirano sia le crociere delle navate che
le absidi e il transetto della basilica del Murgo, ci sembra di trovare le linee
fondamentali della struttura icnografica di Castel Maniace: grandiosa
scacchiera, di mirabile semplicità costruttiva, scompartita, come si è visto, in
un duplice anello di crociere quadrate, cerchianti un atrio concentrico, anch’esso
quadrato. Parallelismo non certo casuale il quale dimostra, insieme colle altre
affinità decorative già messe in evidenza, come tra il castello di Siracusa e la
grande basilica cistercense corra un grande nesso stilistico, che ci consente di
fissar meglio il carattere dell’influenza fridericiana nel campo delle correnti
incrociatesi in questo estremo lembo dell’isola. La basilica fu probabilmente
fondata, come si è detto, prima del 1225, mentre l’erezione del Castello di
Siracusa cade dopo la rivolta guelfa del 1232. Il confronto delle date, assegnando
un’indiscussa priorità alla prima, allarga le linee del problema artistico, perché ci
permette di sorprendere, con notevole anticipazione di oltre un decennio, i germi di
quel rinnovamento il cui ciclo evolutivo si chiuderà poi colla erezione della rocca
di Andria. Come a Castel Maniace, anche nella chiesa del Murgo le nuove forme ci
si presentano libere dalle influenze perturbatrici delle precedenti tradizioni»120.
Guido di Stefano, nel 1938, in merito ai rapporti tra Federico II e i Cisterciensi, e alla
basilica del Murgo, riferiva:
«Falsi, dice lo Haseloff, erano i presupposti del Bertaux: che Federico cioè
avesse accolto i modi gotici solo negli ultimi anni e che li avesse ricevuto da
120
G. AGNELLO, L’architettura sveva in Sicilia, cit. pp. 231-248.
537
FILIPPO SCIARA
fuori del Regno. La radice invece di tali influenze va ricercata nei rapporti che
intercorsero tra Federico ed i Cistercensi, sin dai primi anni del Dugento e nel
seno stesso dell’Italia meridionale. Quei rapporti infatti che lo stesso Bertaux
riconosce tra costruzioni sveve e costruzioni cistercensi, a proposito della
somiglianza dispositiva tra il dormitorio di Fossanova e le sale del castello di
Lagopesole (circa 1242), e che anche lo Enlart aveva notato tra la facciata
della chiesa di Fossanova e l’architettura di Castel del Monte (1240), possono
anche riconoscersi per ambienti costruiti sin dal 1233 nei castelli di Bari e di
Trani. Non solo; ma questi rapporti sono anche confortati da esplicite
testimonianze documentarie, quale soprattutto quel passo della «Chronica S.
Mariae de Ferraria» che ci attesta l’utilizzazione nel 1224 di conversi cistercensi
da parte di Federico, proprio in quel tempo in cui l’abate di Casamari era
sovraintendente alla cancelleria imperiale. Pare che Federico avesse delle
personali simpatie per l’Ordine, tanto da vestirne talora l’abito, come avvenne
nel 1236 a Marburg in occasione della traslazione delle ossa di S. Elisabetta e
come volle che avvenisse della sua salma. Ma comunque sia di tali testimonianze,
è del resto ben naturale che le importanti costruzioni che i cistercensi elevarono
presso ai confini del Regno, durante la giovinezza di Federico, dovessero influire
sulla sua attività architettonica. Per quanto riguarda la Sicilia un’ulteriore
conferma è stata portata dalla illustrazione fatta dall’Agnello dei resti
dell’incompiuta Basilica del Murgo presso Lentini; chiesa con pianta tipicamente
cistercense, e cioè basilicale con transetto e con absidi rettilinee, voluta da
Federico II proprio verso il 1224, per trasferirvi, a quanto pare, i monaci della
vicina abbazia di Roccadia. Questo rarissimo esempio di un interessamento
dell’imperatore per una costruzione religiosa costituisce, se la sua datazione è
sicura, un vero caposaldo per la storia dell’arte sveva; tanto più se si pone la
data in relazione col passo della cronaca di S. Maria di Ferrara già riferito. In
questo prezioso monumento troviamo gli stessi caratteri stilistici del Castel
Maniace di Siracusa, non solo nelle sagome del portale e dei pilastroni dell’arco
trionfale, a sguancio scalinato con tori in risalto, ma anche, come ha acutamente
osservato l’Agnello, nella persistenza del modulo icnografico quadrato in tutte
le divisioni della pianta»121.
Luce Belfiore, nel suo interessante studio, La basilica del Murgo e l’architettura
cistercense, nel 1950, scriveva:
«La grandiosa Basilica del Murgo (m. 83 di lunghezza per m. 28 di larghezza),
chiusa ad oriente dalla massa rettilinea del vasto transetto (m. 35 per m. 6) e
dei tre vani absidali quadrati, fu condotta fino all’altezza di m. 3 circa. Di esso
rimangono: i saldi muri perimetrali del nàos (spessore m. 2,70 circa) con le
121
G. DI STEFANO, l’architettura religiosa in Sicilia nel secolo XIII, estratto da «Archivio Storico per la
Sicilia», vol. IV (1938); ristampa Palermo 1990, pp. 5-6.
538
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
semicolonne e le basi dei due pilastri fiancheggianti all’interno l’ingresso –
per cui possiamo chiaramente stabilire la larghezza della nave centrale rispetto
a quella delle navatine, e ricostruire idealmente la divisione dell’interno in
campate – e con i resti dell’ampio portale; i muri circoscriventi le absidi e le
due cappelle laterali con le quattro semicolonne angolari su cui avrebbero
dovuto impostare le arcate delle volte […] La pianta perfettamente ricostruibile
nonostante l’azione devastatrice del tempo e ancor più quello degli uomini
[…] è quella basilicale a croce latina e orientata. Siamo in presenza d’una
tipica pianta cistercense formata da linee rette tagliantisi ad angolo retto. Si
tratta d’una pianta canonica, il cui ordinamento generale è sottomesso a
proporzioni e leggi geometriche; in esse, la quantità e la disposizione delle
varie parti si basano su un’unità assoluta geometricamente formata: quest’unità,
questo “modulo” misura per eccellenza, è il quadrato quasi perfetto determinato
dall’intersecazione dei quattro bracci della croce. Era infatti regola generale
che le braccia del transetto fossero della stessa larghezza della navata centrale,
e così era pure per la abside centrale che veniva ad assumere l’aspetto di un
prolungamento di questa. Quanto alle navi minori, un uso assai antico faceva
dare ad esse la metà di larghezza della nave maggiore e, a partire almeno dal
sec. XI, si solevano dividere in due campate – mediante pilastri secondari
intervallati ai pilastri maestri della navata centrale – i compartimenti oblunghi
dei collaterali; la superficie di ciascuna di queste campate veniva così ad
equivalere alla quarta parte di quella di ciascuna campata della nave centrale.
Quello che poteva variare, in piante così concepite, non era che la lunghezza
dell’aula: l’unità base poteva essere contenuta in essa cinque, sei, o anche più
volte. Nella nostra basilica, la navata maggiore – come possiamo facilmente
ricostruire – doveva essere divisa in sei grandi campate quadrate cui
corrispondevano le dodici campatine delle navi minori. È questa rigorosa
disposizione dell’interno quella che determina l’aspetto esterno delle chiese
gotiche: solo per cause accidentali, infatti, piò accadere che si veda, per esempio,
all’esterno una abside rettilinea, mentre l’interno comporta un’abside e delle
cappelle raggianti. Nell’architettura medievale il sistema armonico delle
proporzioni procede dall’interno all’esterno. Esamineremo ora singolarmente
le varie parti della Basilica di Murgo, rifacendoci sempre alle forme
caratteristiche dell’architettura cistercense. Cominciamo dal transetto. Si è già
accennato all’ampiezza di quello della nostra Basilica. Era questa, infatti, una
parte di grandissima importanza nelle chiese abbaziali, per essere strettamente
legata alle necessità rituali. A differenza delle cattedrali - elevate talvolta, ancora
nella seconda metà del secolo XII, senza transetto o con transetti di piccole
proporzioni – anche le più antiche chiese abbaziali presentano transetti assai
estesi. Secondo una disposizione rigorosamente applicata nelle più antiche
chiese benedettine e cistercensi, e solo sporadicamente nelle altre, il coro dei
religiosi era posto al centro del quadrato del transetto e l’altare al centro del
lato est del transetto, cioè del lato, verso l’abside. I religiosi potevano suonare
539
FILIPPO SCIARA
le campane dal coro stesso, e potevano officiare nelle diverse cappelle senza
bisogno di uscire dalla clausura. I fedeli. Infatti, avevano accesso solo alla
navata; la zona del transetto, riservata al culto, era ad essi rigorosamente chiusa.
Ma a poco a poco, probabilmente per l’esempio offerto dalle chiese dei nuovi
Ordini dei predicatori, queste rigide usanze claustrali vennero un pò allentate:
i fedeli ebbero accesso anche alle ali del transetto; i religiosi durante l’Ufficio
non occuparono che il centro della crociera e le ultime campate della navata
centrale; il centro dell’abside divenne zona sacra, riservata alle reliquie ed ai
tesori, e guadagnò in profondità; l’altare, o venne collocato sotto l’arco di
entrata (fra transetto e abside) o avanzò a metà del transetto; il santuario,
nelle chiese maggiori, venne spesso circondato da un collaterale provvisto di
più cappelle […] Carattere assai importante dei transetti cistercensi, è il numero
e la disposizione delle cappelle. Mentre dapprima vediamo transetti anche con
una sola cappella, con l’andar del tempo il numero delle cappelle si moltiplicò,
in rapporto all’aumentare dei religiosi e dei fedeli: sappiamo, infatti, che dal
IX al XII secolo assai frequenti, come prova di devozione, erano le donazioni di
terre o rendite che i fedeli più abbienti facevano alle Abbazie “pro remedio
animae suae”, e che queste rendite erano destinate per lo più alla creazione di
nuove cappelle; e sappiamo che i monaci dovevano celebrare ciascuno una
Messa e che la Regola vietava che più messe fossero celebrate in uno stesso
giorno nel medesimo altare. Solo, infatti, a partire del sec. XV, data
l’impossibilità di trovar posto per la costruzione di nuove cappelle, si prese
l’abitudine di istituire più cappellani per lo stesso altare. Nei conventi femminili
dell’Ordine, naturalmente, non vediamo più cappelle, dato che un solo altare
bastava al sacerdote che veniva per l’Ufficio. Le cappelle che si aggiungevano
col tempo, venivano disposte lungo i lati orientale ed occidentale e infine
all’estremità dei bracci del transetto e si cercava che esse avessero tutte forma
e dimensioni eguali; a cominciare dal sec. XII, però, la cappella absidale ebbe
di solito proporzioni maggiori e fu dedicata alla Vergine. Ciò in rapporto al
grande sviluppo che in quest’epoca ebbe il culto della Madonna: “…avons
etabli que totes nos glises soient fondées en le honneur de la glorieuse dame”,
ricorda il Guignard; molte chiese vennero dedicate alla Vergine; la cappella in
asse in alcuni edifici venne persino demolita per essere ricostruita in più degne
proporzioni, e la figurazione della Vergine, dominante nella iconografia gotica,
apparve sempre in uno dei timpani dei portali anche di chiese ad Essa dedicate.
Il tipo di transetto Cistercense più diffuso in Italia è quello con due cappelle
laterali. Lo troviamo a Fossanova, a S. Galgano, ad Arabona, nella Basilica
del Murgo, per citare solo alcuni dei più significativi monumenti; quello a tre
cappelle appare anche spesso: a Chiaravalle presso Milano, ed a Chiaravalle
di Ancona, per esempio; quello a quattro, più raro, a Casamari, alle Tre Fontane,
ecc. Nelle fondazioni cistercensi le cappelle – sempre orientate come tutta la
chiesa – sono in genere di forma quadrata, secondo i semplici dati
dell’architettura cistercense. Le cappelle circolari, infatti, richiedono spese
540
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
molto rilevanti, poiché impongono degli sviluppi considerevoli dei muri ed
esigono coperture di difficile esecuzione; le cappelle quadrate, invece, non
richiedono che un assai semplice muro di chiusura ed una volta propria composta
di due archi ogivali: difatti è regola nell’architettura gotica che ogni parte di
un edificio, quando si stacchi anche poco dalla massa, debba avere una propria
copertura […] Anche quando, coll’andar del tempo, i Cistercensi furono costretti
per l’aumentato afflusso di reclute nelle loro abbazie, a costruire dei grandi
cori con cappelle raggianti, elevarono queste su pianta quadrata (come a
Clairvaux) o avvicinantesi al quadrato (come a Pontigny), assai raramente
rotondeggianti, e le circondarono di uno spesso muro inglobandole sotto un
unico tetto. Ma non sono soltanto delle ragioni pratiche alla base di queste
forme; nella scelta di esse i Cistercensi non furono guidati solo dalla necessità
di risparmiare, date le loro umili condizioni: queste forme sono la più pura
espressione della spiritualità dei monaci costruttori profondamente penetrati e
compartecipi della concezione che si sprigiona dalle alte parole del loro grande
Padre, S. Bernardo […] Fra le due cappelle quadrate del transetto – che ripetono
le proporzioni delle piccole campate delle navate minori – domina, nella nostra
basilica, la grande abside centrale anch’essa quadrata, chiusa ad est da un
muro perpendicolare all’asse della costruzione. Si tratta del tipo di abside più
diffuso nelle Chiese Cistercensi, le più antiche delle quali presentano cori su
pianta quadrata e rettangolare. Ed è questa la parte caratteristica che appare
anche nel famoso schizzo di Villard de Honnecourt, riproducente, secondo alcuni,
una particolare
chiesa (forse la
prima Pontigny),
ma che, molto più
probabilmente, non
rappresenta che
una pianta ideale di
Chiesa Cistercense.
In Francia, le
absidi quadrate
sono parecchio
diffuse nelle regioni
del Nord e in
Borgogna, altrove
appaiono quasi
sempre solo in
costruzioni
di
piccola importanza: in Provenza,
dove ancora nel Figura 18. Pianta, del piano terra, del palazzo medievale di Favara
sec. XIII è viva (da Vincenzo Capitano).
541
FILIPPO SCIARA
l’influenza greco-bizantina, dominano infatti le absidi su pianta poligonale, e
nelle regioni del centro quelle circolari caratteristiche dell’architettura romanica
[…] abbiamo ricordato il piccolo vano ottagonale addossato all’ala sud del
transetto: si tratterebbe, a mio parere, di un piccolo campanile. Esso ha una
circonferenza di circa m. 2, e presenta, a mezzogiorno, una porticina archiacuta
alta m. 1,60 e di una larghezza massima di cm. 0,90 […] Sappiamo che […] le
chiese cistercensi mancano di grandi campanili in muratura. “Turres lapidae
ad campanas non fiant”- diceva la disposizione del Capitolo Cistercense del
1157 – ed aggiungeva: “Campanae nostri Ordinis non excedant pondus
quinquentarum librarum, ita ut unus pulset, et numquam duo simul pulsent”[…]
La Regola lasciava però i monaci liberi di elevare un piccolo campanile in
legname nel quadrato del transetto, o di ritornare al semplice campanile a
vela»122.
Stefano Bottari, nel 1950, con riferimento alla detta basilica, riferiva:
«Il più tipico monumento chiesastico dell’età sveva in Sicilia - nel senso che le
sue forme chiaramente manifestano la loro origine borgognona-cistercense - è
costituito dalle rovine imponenti della chiesa monastica della piana del Murgo
(in territorio di Agnone nelle vicinanze di Lentini), la cui costruzione, avviata
su un impianto grandioso, venne interrotta e del tutto abbandonata […]
L’impianto è dunque, per le sue ben chiare caratteristiche e sopratutto per il
suo singolare assetto geometrico e la sua sobria grandiosità, quello tipico delle
chiese cistercensi; ed in Italia ha il precedente - per indicare l’esempio più
cospicuo e noto – della chiesa di Fossanova, consacrata nel 1208, e di quelle
da Fossanova dipendenti, come la chiesa di Casamari, consacrata nel 1217
[…] non è dubbio che il piano della chiesa, per i suoi aspetti così tipici e per le
sue particolarità, è da attribuire ad architetti dello stesso ordine cistercense. Il
Prof. Giuseppe Agnello, che per primo ha illustrato le rovine della chiesa, oggi
in completo abbandono, ha messo in valore un fatto assai importante: le analogie
intercorrenti tra le strutture della chiesa e quella dei castelli federiciani, come
ad esempio, Castel Maniace in Siracusa. Se si ammette, come è assai verosimile,
che le maestranze, intente ad innalzare la basilica del Murgo, vennero impiegate
per la costruzione di Castel Maniace, certamente completo nelle sue strutture
nel 1239, si trova la ragione della interruzione dei lavori e dell’abbandono
dell’opera»123.
Giuseppe Bellafiore, della basilica del Murgo, nel 1993, riportava:
«Si tratta di una basilica le cui caratteristiche tipologiche sono rigorosamente
122
L. BELFIORE, La basilica del Murgo e l’architettura cistercense, in «Siculorum Gymnasium», anno
III, n. 1-2, gennaio – dicembre 1950, pp. 43-67.
123
S. BOTTARI, Monumenti Svevi di Sicilia, Società Siciliana per la Storia Patria, Palermo 1950, pp. 17-19.
542
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
Figura 19. Sezione
del palazzo medievale di Favara, lato
est (da Vincenzo
Capitano). Si notino
le volte a botte, di
tipo romanico, negli
ambienti del piano
terra e la copertura
ogivale-gotica a
crociera, nella sala a
sud della cappella, al
primo piano.
Figura 20. Visione dell’ambiente rettangolare del
piano terra del palazzo di Favara, lato ovest, con volta
a botte, di tipo romanico (foto di Filippo Sciara).
Figura 21. Visione di un pilastro della copertura
a crociera, di impronta gotica, nella sala al primo
piano, del palazzo medievale di Favara, posta a
sud della cappella (foto di Filippo Sciara).
543
FILIPPO SCIARA
cistercensi e pertanto del tutto irriferibili alla tradizione locale. Ha pianta
basilicale con transetto e absidi rettangolari. Il rapporto tra le navatelle e la
navata maggiore è quello canonico di 2 a 1 […] La chiesa, nata da un meditato
progetto d’insieme, testimonia la presenza di maestranze di provato mestiere
appartenenti a quella cultura architettonica che i cistercensi diffondevano allora
in Europa. Una cultura che dovette giungere in Sicilia solo eccezionalmente e
che soprattutto è riferibile al castello Maniace di Siracusa con il quale la chiesa
ha strette affinità. Si può avanzare l’ipotesi che fosse questo nucleo di costruttori
a realizzare per conto dell’imperatore il castello siracusano. Ciò spiegherebbe
la disponibilità dell’imperatore a permettere la costruzione della nuova abbazia
la quale più plausibilmente sarebbe da collocare al tempo stesso della
costruzione del castello cioè negli anni trenta»124.
Sulla basilica del Murgo e la partecipazione dei Cisterciensi nell’edilizia di Federico
II, Antonio Cadei, il più valido studioso dell’architettura sveva, di fine Novecento, ha
scritto:
«Nel contesto della sua architettura militare e residenziale, Federico II impiega
un tipo fortificatorio del suo tempo che caratteristicamente riesce a
contemperare esigenze difensive con disponibilità residenziali e che non a caso
è stato inventato, o quanto meno perfezionato dagli Ordini militari. Nel
distendersi degli ambulacri quadrati era agevole ritagliare ampi vani adatti
alle esigenze comunitarie del modello di vita monastica da loro praticato, così
come all’intrattenimento degli indispensabili animali, ma anche magazzini e
vani più piccoli per impianti e servizi che dovevano rendere autosufficiente il
castello. L’innovazione originale - e determinante – che in quello schema
introdussero gli architetti di Federico II è il principio ordinatore della campata
quadrata coperta a crociera, che rinserra in più ferrea trama di corrispondenze
simmetriche l’articolazione complessiva, con risvolti decisivi per l’immagine
architettonica. È questo il livello al quale si manifesta con inconfondibile
individualità formale la partecipazione cistercense all’edilizia federiciana. Oltre
al passo della già ricordato della cronaca di Santa Maria di Ferrara, Arthur
Haseloff poté documentarla con una testimonianza ancora più stringente e, dal
nostro punto di vista, tempestiva: nel capitolo generale cistercense del 1236
l’abate di Casanova in Abruzzo veniva punito, peraltro in maniera assai lieve,
per avere permesso che conversi e monaci risiedessero non solo presso
l’imperatore, ma anche principi e giustizieri del regno. Il capitolo ingiungeva
il rientro immediato di tutti, anche di quelli che si trovavano presso l’imperatore,
ma solo se ciò non lo avesse irritato. Che la scintilla del circuito castrum–
Cistercensi sia però scoccata in Sicilia è dimostrato, anzitutto, dalle date di
costruzione per cui almeno Castel Maniace e il castello di Augusta possono
124
G. BELLAFIORE, Architettura dell’età sveva in Sicilia 1194-1266, Palermo 1993, p. 171.
544
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
vantare una precedenza indiscutibile sui castelli continentali sistematicamente
coperti con volte e modulati nelle inflessioni caratteristiche della lingua
architettonica cistercense. La successione in base alle date certe o verosimili è
in calma chiara: 1232-1242 Augusta, più o meno contemporaneamente Siracusa,
1234-1239 Porta di Capua, dal 1235 Lucera, dal 1239 Catania, dal 1240 Castel
del Monte, dal 1245 circa Prato. Alla cronologia dei castelli si aggiunge un
evento monumentale da ogni punto di vista fuori dell’ordinario a cominciare
dal fatto che sembra costituire una committenza imperiale di architettura sacra:
il torso architettonico denominato Basilica del Murgo, sepolto fra gli aranceti
di una propaggine della piana etnea in vista del mare, non lontano da Lentini.
È solo la tradizione storiografica ed erudita del Sei-Settecento a indicare in
quel rudere per molti versi misterioso l’inizio della costruzione, intorno al 1225,
di un’abbazia cistercense che mai arrivò a compimento, dove, con il consenso
e il sostegno di Federico II, avrebbero dovuto trasferirsi i monaci di Santa
Maria di Roccadia. Ma qualità e carattere dell’architettura, anche nei
limitatissimi riscontri che il frammento consente, confermano due di quelle
circostanze: la cronologia e la pertinenza cistercense. Non si tratta del
linguaggio essenziale e disadorno dell’età di Bernardo di Clairvaux che ancora
San Nicola ad Agrigento conserva, ma della lingua elegante e sofisticata che
l’edilizia cistercense aveva elaborato nel confronto con la prima architettura
gotica di Borgogna e che con l’inizio del XIII secolo aveva cominciato ad
esportare in Europa, massicciamente – com’è noto – anche in Italia meridionale.
Ho già avuto occasione, anni fa, intravedendo allora un legame diretto tra
l’abbazia cistercense di Fossanova e Castel del Monte, di descrivere le dinamiche
stilistiche e, in qualche misura, anche iconografiche del travaso di quella lingua
nel più caratteristico idioma federiciano. Di quel rapporto, che nella sostanza
tenderei a confermare, si delinea ora la spinta d’origine, l’antefatto siciliano
con il trasferimento di tecniche e forme del cantiere del Murgo ai cantieri dei
castelli federiciani […] La congiunzione tra schema di castello crociato e edilizia
cistercense, che ricomponeva fatti e processi già legati fra loro da affinità
profonde, se solo si pensa ai rapporti, anche architettonici, tra i Cistercensi e
gli ordini militari di Terrasanta, in particolare i Templari, arrivava a produrre,
nel segno dell’esponenzialità imperiale, un’architettura che non era più solo
strumento di difesa, o di controllo, o strumento da abitare, ma segno riconoscibile
della presenza dell’imperatore»125.
Dal contributo di questi autorevoli studiosi, che nel tempo si sono occupati del periodo
Svevo, emerge chiaramente la grandissima importanza che riveste la basilica del Murgo
per l’architettura federiciana in Sicilia. Essa testimonia il forte legame culturale tra Federico
II e l’Ordine cisterciense e l’influenza che questo esercitò su tutta l’architettura sveva.
125
A. C ADEI, Architettura. Introduzione, in Federico e la Sicilia, dalla terra alla corona, vol. I,
Archeologia e architettura. Catalogo della mostra (Palermo, 16 dicembre 1994-30 maggio 1995), a cura
di C. A. DI STEFANO e A. CADEI, Siracusa-Palermo 1995, pp. 367-374.
545
FILIPPO SCIARA
Nel periodo Svevo, la presenza dei monaci cisterciensi è attestata a circa 10 km da
Favara, nella vicina Agrigento, presso la chiesa di San Nicola, posta all’interno dell’antica
città greca Akragas. Se ne ha notizia nel 1219, quando la suddetta chiesa veniva ceduta,
dal vescovo di Agrigento Ursone, al frate Peregrino, priore del monastero cisterciense
di Santa Maria di Adriano, che risultava distrutto per calamità di guerra e non più abitabile.
In cambio, Peregrino donava la chiesa di San Biagio di Cammarata:
«Domine Urso, Agrigentine episcope, una cum vestro capitulo. Pro devotione,
quam erga me Peregrinum, priorem Sancte Marie de Hadriano, semper
habuistis, petitionem meam pie admisistis, quia monasterium Sancte Marie de
Hadriano clade bellorum destructum est, et ibi, metu inimicorum, cum
congregatione mea habitare non possumus; concessistis eidem ecclesie Sancte
Marie de Hadriano ecclesiam Sancti Nicolai que est extra civitatem, in urbe
veteri, cum terris, quarum fines inferius exponentur, commutantes eamdem
ecclesiam Sancti Nicolai pro ecclesia Sancti Blasii de Cammarata cum omnibus
possessionibus, et rebus suis, quam ecclesiam Sancti Blasii Agrigentine Ecclesiae
et vobis pro predicta ecclesia Sancti Nicolai reddidi verum ad perpetuam pacem
Ecclesie Agrigentine mecum et cum successoribus meis pro commutatione
ecclesiarum statuistis ut ego, Peregrinus prior, et successores mei priores
Hadriani, reverentiam et obedientiam vobis et successoribus vestris habeamus,
ut personaliter ad Agrigentinam matrem ecclesiam tribus festivitatibus annuatim
veniamus, in assumptione sancte Marie, dedicatione ecclesie et translatione
sancti Gerlandi, et annuatim persolvamus Agrigentine Ecclesie nomine census
tres rotulos cere et, vocati ad synodum, veniamus, sepulturam mihi et fratribus
meis monachis et conversis habitum gestantibus concessistis et alteri denegastis;
confessionem et comunionem nulli donabimus; excomunicatos vestros non
recipiemus; nullum casale circa ibi faciemus; de Agrigentina Ecclesia oleum
infirmorum recipiemus; de omnibus possessionibus, que intra vel extra urbem
Agrigentinam in tenimento suo nobis et ecclesie nostre de cetero date fuerint,
quartam partem Agrigentine Ecclesie donabimus; de omnibus terris, unde
Ecclesia suam decimam partem habere consuevit, ego et successores mei
persolvemus […] nullo tempore sub alterius parochie capitalem ecclesiam
transibimus; quod si monasterium Hadriani […] predicte ecclesie Sancti
Nicolai Agrigentine Ecclesie cum omni iure suo remanebit, ecclesia Sancti Blasii
de Cammarata sibi sit, ut autem fuerat, revocata»126.
Alessandro Giuliana Alaimo, a proposito del monastero cisterciense di Santa Maria
di Adriano, riportava un passo di Rocco Pirro:
«S. Mariae de Adriano Monasterij fossanovae id. erat, quod olim iuxta oppidum
Brizi sub titulo S. Angeli ordinis Circestensis unitum alteri Fossanovae nuncu126
P. COLLURA, Le più antiche carte, cit., pp. 100-102; si veda anche A. GIULIANA ALAIMO, La chiesa di
S. Nicola dei Cistercensi in Agrigento, Palermo 1954, p. 43.
546
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
patum uti cum de brizio, declarabimus»127.
Sulla presenza dei Cisterciensi nella Diocesi agrigentina, il Pirro, inoltre, riferiva:
«monasterium magnum ordinis Cistercensium in aede S. Spiritus, teste Fazello
dec. I. l. 6. F. 137. Conditum, dotatumque est Claramontanis, Subjiciebatur
initio Abbati generali coenobii Casamarii Verulanae dioec. eiusdem Cister. ord.
Hanc D. Bernardi disciplinam Moniales amplexas esse crediderim, quod
Agrigenti in antiquo S. Nicolai tenplo, atque non longe in aede S. Marie de
Palatio Adriano Monachi hujus instituti subjecti monasterio Casamario
degebant. Hic stilla sanguinis innocentium in ampulla. Monachae 50. Cum unc.
785.18.»128.
Salvatore Fodale, nel 1994, scriveva che il primo insediamento dei Cisterciensi in Sicilia,
che risulta documentato, è avvenuto durante il regno di Guglielmo I, nel territorio di Prizzi:
«È durante il regno di Guglielmo I che i cistercensi si sarebbero insediati a
Prizzi, all’interno dell’isola, con i due priorati di Sant’Angelo e di San
Cristoforo, dipendenze di Fossanova e/o di Casamari, chiamati da Matteo
Bonello, che capeggiava l’opposizione alla Corona»129.
Dal documento del 1160 che tratta, a richiesta di Matteo Bonello, proprio della
concessione di questa chiesa di San Cristoforo, al monastero di Santo Stefano del bosco,
da parte del vescovo Gentile di Agrigento, sappiamo che il territorio di Prizzi, prossimo
a quello di Palazzo Adriano, faceva parte, in quel periodo, della Diocesi di Agrigento130.
È interessante rilevare che nel territorio di Favara si trova un ex feudo denominato
San Benedetto che, nei documenti del XV secolo, era detto Sancti Benedicti sive Ambula
o Ambuali131. Ricordiamo, inoltre, il Castrum Petre Sancti Benedicti132, menzionato in
un documento del 1355 circa, che si identifica con il castello di pietra presso la Rocca
San Benedetto, dell’omonimo ex feudo, in territorio di Favara. Dei due toponimi il più
antico è Ambula e San Benedetto è da mettere in relazione con una abbazia benedettina,
come confermato da un documento del 1553. Proprio in questo anno, l’imperatore Carlo
V ordinava al viceré di Sicilia, Giovanni de Vega, di redigere un censimento di tutte le
abbazie siciliane di diritto regio patronato. Da questo censimento ricaviamo:
A. GIULIANA ALAIMO , La chiesa di S. Nicola, cit., p. 13; si veda anche R. PIRRO , Sicilia Sacra,
Panormi 1633, Notitia Agrigentinae Ecclesiae, Not. III, foglio 289.
128
ROCCO PIRRO, Sicilia Sacra disquisitionibus et notitiis illustrata, cit., vol. I, p. 733.
129
S. FODALE, I Cistercensi nella Sicilia Medievale, in I Cistercensi nel Mezzogiorno medioevale, Atti
del Convegno internazionale di studio in occasione del IX centenario della nascita di Bernardo di Clairvaux
(Martano-Latiano-Lecce, 25-27 febbraio 1991), a cura di H. HOUBEN e B. VETERE, Galatina (Le) 1994, pp.
353-371.
130
P. COLLURA, Le più antiche carte, cit., pp. 45-47.
131
G. L. BARBERI, I Capibrevi, cit., vol. III, pp.105-108.
132
E. LIBRINO , Rapporti fra Pisani e Siciliani, cit., p. 209.
127
547
FILIPPO SCIARA
«De abbatia S. Benedicti De Ambuario in agro agrigentino ad Orientem sita.
Et author et Sacra Aedes, prorsus arantur, unde evenit, ut obliterata Abbatiae
nomenclatura, feudum Sancti Benedicti nominatur; Cuius census auri est unciae
94»133.
Si tratta del feudo San Benedetto, oggi territorio di Favara, posto proprio a Oriente
di Agrigento, ricordato con la variante del toponimo Ambuario al posto di Ambula o
Ambuali. A tutto questo fa riscontro la presenza di una struttura architettonica, in contrada
San Benedetto, riferibile alla sopra menzionata abbazia, da noi recentemente ritrovata.
Si tratta di una costruzione, inglobata nella masseria ottocentesca che fu dei Cafisi di
Favara, in cui si evidenzia un tratto di muro, ancora originale, di 36 metri di lunghezza
e con altezza di circa 6 metri, dove sono presenti ben 20 monofore, realizzate in calcarenite
conchiglifera, di chiara origine medievale, che si conservano alcune in tracce, altre
decapitate nella parte superiore e altre per intero, da noi già rilevate in passato134.
L’abbazia, in parte conservata fino agli anni 60 del XX secolo, nel suo schema
d’impianto che era rettangolare con corte pure rettangolare, nel 1970 circa veniva privata
della piccola chiesa, che si affacciava nell’area nord della corte e che si presentava ad
unica navata con diversi archi diaframma e della grandezza di circa 6 m x 12 m. In
quell’anno, la chiesa veniva, assieme a tutta la porzione ovest dell’abbazia,
completamente distrutta. Tale abbazia, il cui ricordo è assente, almeno fino a oggi, nei
documenti dell’Archivio Capitolare di Agrigento, doveva già esistere nella prima metà
del XIV secolo, considerato che il Castrum Petre Sancti Benedicti, posto a circa 800
metri a est dalla stessa, dalla quale aveva preso il nome, era menzionato in un documento
riferibile al 1355 circa, come sopra rilevato. Sappiamo che il feudo Ambuali, assieme a
quelli di Rayalbichiti et Andichigalli, era proprietà di Gilberto Talamanca nel 1408135.
Nel 1453, è Maria de Ventimiglia, figlia di Aloisio Montaperto, che possiede i feudi
Rakhalgididi et Ampuali136. Probabilmente i monaci dell’abbazia dovevano possedere
solo una porzione del detto feudo. È importante, in questa sede, evidenziare la presenza
dei monaci benedettini nel territorio di Favara, nei secoli XIV-XV, in una abbazia posta
in aperta campagna. Non sappiamo se questi monaci erano già presenti nel XIII secolo.
Tornando alla nostra vecchia Chiesa Madre di Favara, come sopra rilevato, è stata,
purtroppo, completamente distrutta nel corso del 1892, per far posto alla nuova e attuale
Madrice, non è più possibile, quindi, una ricognizione per scorgere eventuali particolari
architettonici e decorativi riconducibili all’architettura cisterciense e sveva. La vecchia
chiesa, come ricaviamo dalla ricordata pianta del 1887, era sopraelevata, rispetto al
piano stradale, di 10 scalini, con un’altezza di circa 1,5 m. Tale sopraelevazione, nella
T. FAZELLO, De rebus siculis decades duae, cit., p. 662.
F. SCIARA, Favara guida storica e artistica, cit., pp. 19-20; F. SCIARA, L’insediamento arabonormanno e svevo nel territorio di Favara presso Agrigento, in Atti del Convegno Internazionale, Nelle
terre dei Normanni, La Sicilia tra Ruggero I e Federico II, a cura di M. CONCIU e S. MODEO, Caltanissetta
2015, pp. 115-139.
135
R. GREGORIO, Bibliotheca scriptorum, cit., tomo II, p.490.
136
A. COSTA, La Recognitio dei feudi di Sicilia del 1453-1454, in «Archivio Storico per la Sicilia
Orientale», anno LXXXIII, 1987, pp. 153-199.
133
134
548
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
Decumano massimo
Palazzo-castello
Grande piazza
Chiesa Madre
Figura 17. Foto aerea del centro storico di Favara. A sinistra si vede il decumano massimo, al centro
la mole quadrata del palazzo medievale con la grande piazza di forma rettangolare, e a destra la
grandiosa Chiesa Madre costruita nel 1892, sui resti della chiesa medievale cisterciense.
stessa misura, è stata mantenuta anche nella nuova Chiesa Madre costruita negli anni
1892-1898, che nell’accesso della facciata principale, nel lato ovest, presenta sempre
10 scalini, ciascuno di 15 cm. di altezza. La base della chiesa attuale, rispetto al piano
della strada, risulta, rispettivamente, nell’angolo sud-ovest di altezza 1,12 m; nell’angolo
sud-est di 2,96 m; nell’angolo nord-ovest di 2,07 m e nell’angolo nord-est di 3,57 m. Si
consideri che il piano stradale si presenta oggi rialzato di circa 15 cm, rispetto a quello
originario, e il primo scalino della chiesa si trova, in gran parte, interrato. Questa
sopraelevazione della chiesa, rispetto al piano stradale, trovava corrispondenza nella
norma dell’Ordine cisterciense, che prevedeva la costruzione della chiesa nel luogo più
alto, dell’area scelta per l’edificazione, per riparare gli altri ambienti dell’abbazia (posti
sempre a sud della chiesa) dai venti freddi provenienti da nord, e probabilmente per
distinguersi dal contesto ambientale e per essere più vicina a Dio.
Essendo la nuova chiesa dell’Ottocento, a croce greca, di 41,20 m. x 30,60 m, quindi
più grande della basilica medievale che era di 38,20 m x 14,80 m, sarebbe molto
interessante uno scavo archeologico nel pavimento della nuova chiesa, per mettere in
luce l’impianto della vecchia chiesa medievale di concezione cisterciense, le cui novità
potrebbero essere notevoli, anche riguardo alle testimonianze della cultura materiale
del Medioevo. L’analisi dei paramenti murari dell’attuale Chiesa Madre, costruita tra il
1892 e il 1898, nei prospetti nord, sud ed est, realizzati con conci di pietra calcarea,
principalmente informe (a parte la facciata principale, la base, cioè la sopraelevazione
rispetto al piano stradale, e l’area esterna delle absidi e del campanile realizzati da
grossi blocchi di pietra regolarizzati), permette di rilevare numerosi conci di pietra di
natura marnosa, ad opus quadratum, sicuramente provenienti dalla vecchia chiesa
medievale demolita, ed inseriti in modo casuale nella tessitura muraria. Lo stesso tipo
549
FILIPPO SCIARA
di pietra marnosa (pietra locale presente in diverse contrade del territorio di Favara),
sempre ad opus quadratum, si trova utilizzata nei cantoni, portali e finestre del palazzo
medievale di Favara.
La totale distruzione della vecchia chiesa medievale di Favara, nel 1892, rappresenta
una gravissima perdita per il patrimonio storico ed artistico del nostro territorio e della
Sicilia. Costituiva, infatti, una importantissima testimonianza architettonica cisterciense
del periodo Svevo, che arricchiva e rafforzava l’origine federiciana dell’intero abitato.
Questa chiesa era posta in una piccola piazza (secondaria rispetto a quella grande dove
è presente il palazzo federiciano), che risultava in diretta comunicazione, sia con la
suddetta grande piazza, tramite una piccola via (oggi Salita Matrice), sia con il cardo
massimo della crux viarum principale dell’abitato medievale, dove si affacciava (figura
17). Particolare interessante è rappresentato dalla dimensione di questa piazza, un
quadrato di circa 30 m x 30 m che risulta multiplo del modulo di 3 m x 3 m, adoperato
all’interno della chiesa di Favara per delimitare gli altari affiancati al coro e come
larghezza delle navate laterali. Facciamo rilevare che il modulo quadrato di 3 m x 3 m,
risulta, a sua volta, un sottomultiplo del quadrato di 6 m x 6 m, adoperato all’interno
della chiesa per delimitare l’altare centrale, gli altari del transetto, la larghezza della
navata centrale e del transetto, come sopra detto.
Lo schema icnografico della nostra chiesa sopra rilevato, di origine cisterciense
medievale, del tutto identico, anche nei moduli costruttivi, alla basilica cisterciense del
Murgo, ci suggerisce che la prima chiesa parrocchiale del casale medievale di Favara,
anche se non documentata, doveva essere proprio questa e risalente al periodo Svevo,
quando veniva fondato l’abitato, fornito di un impianto urbanistico razionale, e di un
palazzo di caccia di Federico II, come sopra riportato. Questa chiesa che nel 1593 veniva
detta di nuova costruzione, era stata, in verità, ricostruita sulla base di quella medievale
che, nel XVI secolo, doveva essere abbandonata e distrutta. La nuova chiesa, ricostruita
o restaurata prima del 1593, aveva mantenuto l’assetto planimetrico di quella medievale
che, sebbene oggetto di trasformazioni nei secoli XVII-XVIII, era ancora perfettamente
leggibile nella suddetta pianta del 1887, nelle sue origini cisterciensi.
L’impronta dell’arte cisterciense nel palazzo federiciano e nell’impianto
urbanistico di Favara
Se analizziamo, dal punto di vista architettonico, il palazzo federiciano di Favara
che, così come la chiesa parrocchiale, fu costruito da Federico II utilizzando maestranze
cisterciensi, abbiamo dei risultati sorprendenti. Lo schema d’impianto del palazzo (figura
18) è quello tipico ad quadratum, comune nelle abbazie dei Cisterciensi e nei castelli di
Federico II imperatore.
A considerare il suo nucleo centrale - senza il recinto fortificato affiancato a sud,
anch’esso pressoché quadrato (43,15 m x 40,40 m), col quale formava un ottagono
irregolare - abbiamo un quadrato esterno di 31,20 m. x 30,80 m, con spessore murario di
1,60 m, e con all’interno una corte quadrata di 12,20 m x 12,80 m. L’altezza del palazzo,
misurata da uno degli angoli della corte interna, era di circa 15 m, esattamente la metà
della misura del lato del quadrato. Gli ambienti interni del piano terra sono rappresentati,
550
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
rispettivamente, da tre sale pressoché quadrate poste ad est (6,30 m x 5,70 m) e da due
grandi saloni rettangolari posti, uno ad ovest (27,70 m x 6 m) e l’altro a nord (20 m x 6
m), che risultano multipli e modulari di uno dei quadrati posti ad est. A sud, dove è
l’ingresso del palazzo, costituito da un androne di forma rettangolare (7 m x 4,50 m),
coperto da volta a botte, a pieno centro, è presente un altro vano quadrato, dove era
posta l’originaria scala che portava al primo piano, che risulta con misure identiche
(6,30 m x 5,70 m) ai tre vani posti ad est.
Facciamo notare che la grande sala rettangolare del piano terra, posta nella parte
ovest del palazzo, con misure interne di 6 m x 27,70 m, riproduce, all’incirca, le
dimensioni interne del transetto (6 m x 24,60 m) della chiesa parrocchiale di Favara,
sopra descritta. Rileviamo, inoltre, che il quadrato di 6 m x 6 m, adoperato nella pianta
della chiesa parrocchiale di Favara, veniva utilizzato nel palazzo medievale per delimitare
gli ambienti pressoché quadrati (6,30 m x 5,70 m); la misura base di 6 m era adoperata
come lato minore dei due grandi ambienti rettangolari e come multiplo nella dimensione
della corte interna (12,20 m x 12,80 m) del palazzo. La dimensione esterna del palazzo
(30,80 m x 31,20 m) riproduce le dimensioni della piazza (circa 30 m x 30 m) antistante
la Chiesa Madre, e costituisce il multiplo del modulo rappresentato dal piccolo quadrato
di 3 m x 3 m, adoperato all’interno della chiesa che, anche nel palazzo, risulta l’elemento
generatore di tutto il complesso planimetrico. Il recinto fortificato, affiancato al palazzo
medievale, nel lato sud (oggi conservato solo in parte), di forma pressoché quadrata
(43,15 m x 40,40 m), con il suo lato di circa 40 m rappresenta il modulo base della
lunghezza dell’impianto urbanistico che era di 400 metri. Il palazzo medievale, di forma
quadrata, con il suo lato di circa 30 metri, costituisce il modulo base della larghezza
dell’impianto urbanistico che era di 300 metri. Il rapporto metrologico che esiste tra il
lato del palazzo (circa 30 metri) e il lato del recinto fortificato (circa 40 metri), si ritrova
tra il cardo massimo (300 metri) e il decumano massimo (400 metri) dell’impianto
urbanistico medievale.
Si consideri, inoltre, che la misura base di 3 metri, con il suo doppio di 6 metri, si
ritrova utilizzata, come multiplo, anche nella dimensione della grande piazza di Favara
(60 m x 120 m). Facciamo notare, inoltre, che il rapporto metrologico di 6 m x 12 m, che
rappresenta il modulo base della grande piazza, è riscontrabile all’interno della chiesa
cisterciense di Favara, ed è dato dall’incrocio del transetto (largo 6 metri) con le tre
navate della basilica, la cui larghezza totale era di 12 metri. Il modulo base di 3 metri,
con i suoi multipli di 6 metri, 9 metri e 300 metri, si trova applicato, rispettivamente,
nella larghezza e lunghezza delle strade dell’impianto urbanistico medievale di Favara.
Più precisamente ritroviamo la larghezza di 9 metri (valore medio misurato in molti
punti) nel decumano massimo (attuale via Umberto) che risulta lungo 400 metri, detto
strata longa nei secoli XVI-XIX; la misura di 6 metri si ritrova nella larghezza del
cardo massimo (attuale via Vittorio Emanuele), che risulta lungo 300 metri; tutte le altre
strade, che con una trama ortogonale, risultano parallele sia al decumano massimo sia al
cardo massimo, presentano la larghezza media di 3 metri. È interessante rilevare che,
anche negli impianti urbanistici federiciani di Gela ed Augusta, la larghezza delle strade
risulta modulare con quelle di Favara. Abbiamo riscontrato, infatti, le misure medie di 6
551
FILIPPO SCIARA
Figura 22. Capitello della sala coperta a crociera,
del palazzo medievale di Favara. Si notino, nel
giro inferiore, le quattro foglie di forma ovaleappuntita, ripiegate verso la punta, con margine
sporgente e con nervatura mediana molto
rilevata, di impronta artistica cisterciense (foto
di Filippo Sciara).
Figura 24. Abbazia cisterciense di Fontenay
(Borgogna). Capitelli del chiostro decorati con
foglie ovali-appuntite, lisce, aderenti alla
campana e con nervatura mediana evidente.
Figura 23. Altro capitello della sala coperta a
crociera, del palazzo medievale di Favara. Si
notino, nel giro inferiore, le quattro foglie di
forma ovale-appuntita, ripiegate verso la punta,
con margine sporgente e con nervatura mediana
molto rilevata, di impronta artistica cisterciense
(foto di Filippo Sciara).
Figura 25. Abbazia cisterciense di Fossanova
(Lazio). Capitello decorato con foglie di forma
ovale-appuntita, ripiegate verso l’apice, con
margini rilevati e sporgenti e con nervatura
mediana molto pronunciata (da Antonio Cadei).
552
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
Figura 26. Castel del Monte (Puglia). Peduccio
decorato con foglie di forma ovale-appuntita, lisce
e con nervatura mediana molto evidente (da
Antonio Cadei).
Figura 27. Castello Ursino di Catania (Sicilia).
Capitello con decorazione di foglie palmate a
crochet nel giro inferiore e di foglie ovali, piatte,
lisce e con nervatura mediana molto evidente, nel
giro superiore.
Figura 28. Capitello di una bifora del primo
piano, lato sud, del palazzo di Favara. Si noti la
decorazione con foglie ovali-appuntite, ripiegate
e aderenti alla campana, con margine esterno
molto sporgente e rilevato, e nervatura mediana
appena percepibile, perché molto rovinata, in una
immagine del 1997 (foto di Filippo Sciara).
Figura 29. Capitello, molto rovinato, di una
bifora del primo piano, lato est, del palazzo di
Favara. Si notino le foglie di forma ovaleappuntita, ripiegate e aderenti alla campana, con
margini rilevati e sporgenti, e con nervatura
mediana molto pronunciata, in una immagine del
1997 (foto di Filippo Sciara).
553
FILIPPO SCIARA
metri e 9 metri nella larghezza delle strade di Augusta, e 6 metri, 9 metri, 12 metri, nella
larghezza delle strade di Gela, dove soltanto il decumano massimo (lungo 800 metri) si
presenta largo 12 metri.
Tutte queste particolarità sono di grande rilievo e stanno a dimostrare che le maestranze
adoperate nella costruzione della chiesa parrocchiale, del palazzo medievale e
dell’impianto urbanistico di Favara, erano le stesse, e unico il linguaggio modulare
utilizzato nelle diverse planimetrie, che dovevano obbedire ad un unico progetto ben
determinato, di concezione razionale e geometricamente definito.
Tutto questo costituisce la prova più tangibile che lega, oltreché la chiesa, anche il
palazzo di Favara all’architettura cisterciense e federiciana, e apre un nuovo percorso di
ricerca, circa la partecipazione dei Cisterciensi all’urbanistica razionale, geometricamente
definita, dei nuovi centri di fondazione da parte di Federico II imperatore, nella prima
metà del XIII secolo. Importante si pone, in merito, il parere di Enrico Guidoni, il più
grande storico italiano dell’urbanistica medievale:
«Il rapporto tra cistercensi e città nuove, in una prospettiva europea,
comprendente il periodo di più intensa fondazione di nuovi insediamenti (secc.
XII-XIV) non è stato ancora affrontato come problema storico-urbanistico e
culturale […] Il carattere altamente razionale, sistematico e modulare, della
progettazione architettonica cistercense, mentre contrasta nettamente sia con
la precedente e più variata tradizione abbaziale sia con i centri abitati, antichi
e nuovi, ampliati e ricostruiti con criteri di continuità urbanistica, si apparenta
strettamente con quelle operazioni di impianto di nuovi centri che rivelano
l’applicazione rigorosa di tecniche di progettazione geometrica e,
contemporaneamente, la volontà architettonica di coordinare le parti residenziali
del nuovo insediamento con un fulcro centrale (la piazza). La ripetitività degli
impianti, che spesso rivelano la derivazione da uno stesso progetto, si può
mettere in relazione con il rigore della formula abbaziale, pur all’interno delle
varianti locali. L’individuazione di un rapporto tra cistercensi e città nuove è
un primo passo verso il riconoscimento di una problematica progettuale
articolata e storicamente fondata delle città nuove dell’Europa tardomedievale
[…] Il discorso sull’Italia è troppo complesso per poter essere anche solo
affrontato in questa sede secondo l’ottica esclusiva del rapporto tra cistercensi
e città nuove. Si possono fare alcune considerazioni generali sulla estrema
varietà degli schemi di impianto adottati nel Duecento […] ci si potrebbe
aspettare che, in parallelo con quanto si verifica nell’architettura, anche nei
nuovi impianti urbani federiciani l’influenza cistercense possa essere
chiaramente dimostrata; ma troppo poco si conosce di molte iniziative
federiciane o più in genere sveve, né esiste d’altra parte una tipologia di città
costantemente applicata. Forse l’esempio più pertinente è Gela (dove troviamo
una piazza centrale all’incrocio delle due strade principali), mentre a
Manfredonia è ancora riconoscibile l’impianto a scacchiera rigorosamente
eseguito […] Dalle esemplificazioni, fin qui esposte, del rapporto tra cistercensi
554
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
e città nuove sembra di poter ipotizzare una corrispondenza fra la piazza ed il
chiostro. L’impianto che si ritrova sia nelle piazze che nei chiostri delle abbazie
è variabile; si va da esempi trapezoidali o comunque quadrangolari irregolari
ad esempi quadrati (che sono naturalmente i più numerosi) a esempi rettangolari.
Ma la piazza, proprio perché è l’elemento strutturale del nuovo insediamento,
fa direttamente riferimento nei suoi elementi principali anche alla struttura
centrale della chiesa cistercense, cioè a quel quadrato di incrocio tra navate e
transetto, che ha un peso architettonico estremamente rilevante. È possibile
sottolineare una corrispondenza non soltanto iconografica, ma proprio di
concezione teorico-progettuale tra l’incrocio delle strade e l’incontro delle pareti
che vengono a comporre questo fulcro della chiesa. Da una parte la piazza
rappresenta in queste piccole città l’elemento coordinatore principale, quasi
unico, della vita pubblica cittadina, come il chiostro rappresenta il fulcro
dell’abbazia; d’altra parte proprio questo significato architettonico dei progetti
delle città nuove rinvia agli schemi che venivano usati nella costruzione delle
chiese; e qui basti ricordare lo schema di abbazia cistercense schizzato da
Villard de Honnecourt, in cui sono indicate soltanto delle linee e dei trattini
che segnalano gli incroci. Questo parallelismo rientra perfettamente nel
riversarsi dei principi architettonici e nella pratica dell’architettura sulla città;
in questo i cistercensi hanno avuto un ruolo decisivo non soltanto per la loro
influenza sulla progettazione delle città nuove ma anche, naturalmente, per lo
sviluppo dell’architettura religiosa e civile all’interno della città […] Nella
storia urbanistica europea l’influenza dei metodi progettuali e più in generale
della cultura cistercense appare quindi, pur nella complessità dei temi e nella
varietà delle situazioni locali, non inferiore a quella, già da tempo riconosciuta,
esercitata nella storia dell’architettura»137.
Alla luce di tutto questo, se consideriamo i rapporti metrologici riscontrati e più
precisamente il modulo base adoperato, il quadrato di 3 m x 3 m, con il suo multiplo di
6 m x 6 m, che insieme legano tra di loro, la chiesa cisterciense, il palazzo medievale, la
grandiosa piazza centrale, la piazza antistante alla chiesa parrocchiale e l’intero impianto
urbanistico, ricaviamo che Favara nasceva, nel 1239, per volontà di Federico II imperatore
e per l’opera dei monaci cisterciensi. Rappresenta una scoperta eccezionale, perché
costituisce, in ambito federiciano, l’unico caso, fino ad oggi dimostrabile, della
partecipazione dei Cisterciensi nell’urbanistica dei nuovi centri di fondazione. I rapporti
metrologici riscontrati nelle piazze di Gela ed Augusta, e nei loro impianti urbanistici,
considerati in toto, che risultano modulari con quelli presenti a Favara, testimoniano la
partecipazione dei monaci cisterciensi, anche nella nascita di queste nuove città. Ci
riserviamo, prossimamente, di analizzare nei dettagli questi nuovi centri di fondazione
federiciana, anche in rapporto ai moduli planimetrici utilizzati nei loro castelli.
137
E. GUIDONI, Cistercensi e città nuove, in I Cistercensi e il Lazio, cit., pp. 259-273. Si veda anche E.
GUIDONI, La città dal Medioevo al Rinascimento, Roma-Bari 1981, pp. 103-122.
555
FILIPPO SCIARA
Ritornando al palazzo medievale di Favara, rileviamo che al primo piano si ripeteva
l’esatta distribuzione dei vani del piano terra, sebbene nel XIV secolo, per volere dei
Chiaromonte, all’interno di un vano quadrato, del lato est, veniva ricavata, con varie
manomissioni, una cappella rettangolare, orientata, e nel lato settentrionale si realizzavano
varie stanze ed un piano ammezzato. Altre manomissioni e rifacimenti venivano effettuati
nel 1488, per volere dei Perapertusa, signori del palazzo, come una epigrafe ancora
esistente testimonia. Se liberiamo il palazzo dell’impronta chiaromontana del XIV secolo
e di quella tardo-quattrocentesca dei Perapertusa, il risultato è un monumento con
caratteristiche architettoniche romaniche e gotiche in connubio tra di loro, come era
tipico dell’architettura cisterciense ed anche federiciana.
A considerare la copertura dei vani del castello, si rileva l’utilizzo della volta a botte,
a pieno centro, che imposta sui muri perimetrali, in tutti gli ambienti del piano terra
(figure 19-20), di chiara derivazione romanica. Al piano superiore, il vano quadrato a
sud della cappella, presentava una copertura ogivale, a crociera con costoloni, spingente
verso l’alto (ancora conservata per intero nel 1733, quando veniva definita camera del
Crocifisso con volta a Dammuso Reale, come sopra riportato), che scaricava il peso su
quattro colonne ottagonali poste agli angoli, con capitelli ornati da foglie di diverso
tipo, di derivazione gotico–sveva (figura 21), come lo Spatrisano aveva già segnalato.
Precisiamo che il termine siciliano dammusu, dall’arabo dammüs138, ha il significato di
copertura ad arco139.
Ad analizzare con attenzione questi capitelli la sorpresa è molto grande. Precisiamo
che si tratta di due soli capitelli, perché gli altri due, che dovevano essere molto simili ai
presenti, risultano spariti, perché trafugati. Dei due capitelli rimasti (figure 22-23),
osserviamo che risultano decorati da due giri di foglie di diverso tipo. Nel giro superiore
troviamo, rispettivamente nei due capitelli, una foglia di forma tripartita e l’altra palmatavitiforme. Nel giro inferiore, di tutti e due i capitelli, è presente una foglia di forma
ovale-appuntita, liscia e carnosa, con margine rilevato e sporgente, ripiegata verso l’apice,
e con una nervatura mediana che si presenta molto pronunciata, allineata con gli spigoli
della colonna ottagonale sottostante. La rappresentazione di questa foglia, nei due
capitelli, è ripetuta quattro volte, come era tipico di molti capitelli di abbazie cisterciensi,
in Italia e nei territori europei.
Questo tipo di capitello, decorato da quattro foglie, generalmente lisce, con margini
sporgenti e con nervatura mediana più o meno rilevata, era già stato evidenziato da
Antonio Cadei, che l’aveva riscontrato nell’abbazia di Fontenay (figura 24) in Borgogna,
nell’abbazia di Fossanova (figura 25) nel Lazio, a Castel del Monte (figura 26) in Puglia
e nel castello Ursino di Catania (figura 27) in Sicilia, a dimostrazione che maestranze
cisterciensi avevano lavorato nei cantieri di Federico II140. La rappresentazione di questa
foglia è presente anche nell’abbazia di Bebenhausen (capitelli della sala capitolare) nel
A. VARVARO, Vocabolario etimologico siciliano, vol. I (A-L), Palermo 1986, p. 286.
V. MORTILLARO, Nuovo dizionario siciliano-italiano, Palermo 1862, p. 271.
140
A. C ADEI, Fossanova e Castel del Monte, in Federico II e l’arte del Duecento italiano, a cura di A.
M. ROMANINI, Atti della III settimana di Studi di Storia dell’Arte Medievale dell’Università di Roma, 1520 maggio 1978, voll. II, Galatina (Lecce) 1980; vol. I, pp.191-215.
138
139
556
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
territorio del Sacro Romano Impero, nei capitelli dell’abbazia di Pontigny in Borgogna
e nei capitelli delle abbazie cisterciensi italiane di Casamari, Chiaravalle di Milano,
Chiaravalle della Colomba, Fontevivo e Follina. Comune nelle sculture delle abbazie
cisterciensi europee ed italiane, questa forma particolare di foglia faceva parte del
repertorio formale dell’arte cisterciense, ed è stata indicata a volte come del tipo Fontenay
e diffusa negli edifici della fase bernardina dell’architettura dell’Ordine141.
Nel palazzo di Favara, oltre che nei capitelli sopra menzionati, della sala coperta a
crociera, questo tipo di foglia è presente nella decorazione di due diversi capitelli delle
bifore del piano superiore. Una bifora è proprio quella della sala a crociera, che si
affaccia a sud, dove il capitello si presenta ornato da un giro di quattro foglie ovaliappuntite, con margini sporgenti e rilevati, e con nervatura mediana evidente, solo in
parte, perché molto rovinata (figura 28). Un’altra bifora è di una sala del primo piano,
che si affaccia a est, dove il capitello si presenta molto rovinato, ma ancora leggibile nel
doppio giro di foglie che si presentano ovali-appuntite, carnose e lisce, ripiegate verso
l’apice, con margini sporgenti e con una nervatura mediana molto pronunciata (figura
29). Nel corso dello scellerato pseudo-restauro del palazzo di Favara, degli anni 19982001, questi due capitelli, molto rovinati dall’azione del tempo, venivano smontati e
sostituiti da copie anonime e false in marmo bianco.
Il riscontro nei capitelli del palazzo di Favara di questo tipo particolare di foglia
ovale-appuntita, liscia e carnosa, aderente alla campana e ripiegata verso l’apice, con
margine sporgente e con nervatura mediana molto pronunciata (generalmente nel numero
di quattro foglie per capitello), che si presenta molto apparentata con quella presente
nell’abbazia di Fossanova (figura 25), può essere considerata, nel nostro caso, come un
timbro distintivo dell’arte cisterciense. Rappresenta una testimonianza significativa e
importante, circa la partecipazione delle maestranze cisterciensi nel cantiere federiciano
del palazzo di Favara.
Antonio Cadei, a proposito di questo capitello decorato da quattro foglie, presente,
con le stesse caratteristiche formali, nell’arte cisterciense e nell’arte federiciana, ha
riferito:
«Proprio nell’indiscusso prototipo di chiesa ed abbazia cistercense, Fontenay,
esiste un repertorio decorativo scarno ma preciso, che può diventare l’inizio di
una ricerca di costanti della scultura architettonica cistercense. Tra le altre più
sommesse forme, mi riferisco soprattutto a un tipo di capitello dalla forma
interamente determinata da quattro foglie che avvolgono la campana salendo
a ripiegarsi sotto un abaco rettilineo. Va da sé che non si tratta di invenzione
cistercense; che è forma comunissima in tutta l’architettura tardoromanica e
protogotica europea, che qui, in particolare, lo troviamo in una declinazione
borgognona […] proviamo a fare del capitellino di Fontenay un esponente
cistercense osservando alcuni specifici caratteri nella sua tenace persistenza
141
F. POMARICI, Nuove considerazioni sulla scultura architettonica di Fossanova, in «Arte medievale»,
IV serie, VII, 2017, pp. 87-117.
557
FILIPPO SCIARA
entro l’architettura dell’ordine. Il carattere saliente è il modo in cui la foglia è
scarnita e privata di ogni altra qualità che non sia il rapido e liscio salire
d’angolo […] Su un pilastro d’ingresso ad una delle cappelle laterali di
Fossanova, e questa volta ad una distanza cronologica di Fontenay di circa
mezzo secolo, vediamo le foglie staccarsi in corpi carnosi, percorsi da una
costola centrale che ne sottolinea la rigidità, come di pianta grassa, definite
ancora, principalmente, dall’orlo sporgente […] È a partire da queste forme
specifiche che si può introdurre l’esposizione dei rapporti tra Fossanova e Castel
del Monte come episodio del tutto particolare della più ampia trama che lega
tra loro come due distinti poli di una medesima stagione di architettura italiana
meridionale, le abbazie cistercensi e i castelli svevi […] Alcuni degli ambienti
di servizio e delle salette ottagone ricavate nelle torri di Castel del Monte
presentano alla ricaduta degli archi di volta peducci che ripropongono il tipo
del capitellino a quattro foglie secondo la formula riscontrata in ambito
cistercense […] A Catania, accanto ad esemplari già interamente a palmetta,
ve ne sono altri che alla palmetta accostano lisce e larghe foglie che avvolgono
gli spigoli del corpo ottagonale dei capitelli, palesandosi derivazioni dallo stesso
tema del capitellino a quattro foglie da cui procedono anche i peducci di Castel
del Monte»142.
È importante rilevare un altro tipo di capitello, presente in un’altra bifora del primo
piano, nel lato nord del palazzo di Favara, che si pone di grande interesse, perché, come
i sopra descritti capitelli, rimanda a modelli artistici del gotico-borgognone, veicolati in
tutta Europa, attraverso l’opera dei Cisterciensi. Si tratta di un capitello a crochet, detto
anche ad uncino, che nell’esemplare di Favara (figura30) risulta formato da due giri di
quattro foglie lisce, con margini rilevati e con una nervatura mediana evidente (richiamano
la foglia già riscontrata negli altri capitelli sopra descritti del palazzo di Favara), che al
vertice si assottigliano fino a formare una piccola massa raccolta, a forma di bocciolo
turgido e gonfio. Rappresenta un capitello a crochet, scarno nelle sue caratteristiche
formali, povero e immaturo rispetto ai famosi capitelli a crochet utilizzati nei castelli
svevi della Sicilia orientale, ma in sintonia con gli altri capitelli del palazzo di Favara
che, tutti insieme, esprimono la fase più austera e semplice dell’arte cisterciense. Anche
questo tipo di foglia liscia, con margini rilevati e con nervatura mediana evidente, che
all’apice si assottiglia fino a formare una sorta di crochet, trova riscontro in alcuni
esemplari simili, presenti in diversi capitelli dell’abbazia cisterciense di Fossanova143.
Ritornando agli ambienti del nostro palazzo di Favara, rileviamo che il grande salone,
posto ad ovest del primo piano, era coperto da quattro grandi crociere con costoloni,
quadrate, che scaricavano il loro peso su colonne poste ai lati e agli angoli, come i
pilastri ad archi ogivali, formati da pietre ad opus quadratum, incassati nei muri, ancora
presenti testimoniano. La copertura di questo ambiente veniva ricostruita ex novo dai
Perapertusa nel 1488 e oggi non più esistente. Tutti gli altri ambienti del piano nobile
142
143
A. CADEI, Fossanova e Castel del Monte, cit.
F. POMARICI, Nuove considerazioni sulla scultura architettonica di Fossanova, cit.
558
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
Figura 30. Capitello di una
bifora del primo piano, lato nord,
del palazzo di Favara.
Decorazione con due giri di foglie
lisce a crochet, di tipo semplice
(foto di Filippo Sciara).
Figura 31. Visione del portale
con arco ogivale, di tipo gotico,
che immette nella sala rettangolare coperta con volta a
botte, posta al piano terra, nel
lato nord della corte interna,
del palazzo medievale di Favara
(foto di Filippo Sciara).
Figura 32. Visione del portale
con arco a tutto sesto, di tipo
romanico, che immette nella
sala del primo piano, coperta a
crociera, del palazzo medievale
di Favara (foto di Filippo
Sciara).
559
FILIPPO SCIARA
erano coperti da volte a botte, a pieno centro, come quella residua nel vano nord, ancora
presente, testimonia.
Tutti i portali e le finestre (monofore e bifore), del piano terra e del primo piano,
sono di forma ogivale, di tipo gotico (figura 31), ad eccezione del portale che, dalla
loggia di primo piano (coperta a botte, a pieno centro) immette nella sala coperta a
crociera, posta a sud della cappella, che si presenta con arco a tutto sesto, di tipo romanico
(figura 32). È curioso notare che l’altro portale, che dalla suddetta sala a crociera immette
nella limitrofa sala nord, oggi occupata dalla cappella inserita dai Chiaromonte nel XIV
secolo, si presenta con arco ogivale, di tipo gotico. In questo connubio di forme romaniche
(volte con coperture a botte, a pieno centro, e portali con archi a tutto sesto) e di forme
gotiche (volte con copertura ogivale, a crociera con costoloni, e portali e finestre con
archi ogivali), il palazzo di Favara rappresenta un caso particolare nell’ambito
dell’architettura sveva del XIII secolo in Sicilia, che si colloca, a nostro parere, in quella
di ambito cisterciense, dove coesistevano, come abbiamo sopra visto, la corrente
conservatrice romanica e quella innovatrice gotica.
Si consideri, inoltre, che in nessun monumento del XIV secolo in Sicilia e di arte
cosiddetta chiaromontana (al cui ambito culturale molti autori hanno riferito, in verità
senza alcuna prova, la costruzione del palazzo di Favara), si riscontra un tale connubio
artistico. Ad analizzare, infatti, alcuni dei monumenti simbolo dei Chiaromonte, quali il
palazzo Steri di Palermo, il palazzo Steri di Agrigento, il monastero di Santo Spirito di
Agrigento e il castello di Mussomeli, le volte di copertura degli ambienti sono sempre
di tipo ogivale, sostenute da robusti archi trasversi anch’essi ogivali, o realizzate con
crociere e costoloni di gusto gotico. Non si riscontra, inoltre, nessuna volta con copertura
a botte, a pieno centro, e nessun portale o finestra con arco a tutto sesto.
Al contrario, evidenziamo che, nei famosi castelli svevi di Federico II, della Sicilia
orientale, quali il Castel Maniace di Siracusa, il castello di Augusta e il castello Ursino
di Catania, si riscontra la coesistenza di elementi formali dell’arte romanica e gotica.
Queste architetture, i cui ambienti sono tutti realizzati secondo il modulo ad quadratum,
come nel palazzo di Favara, si presentano con coperture ogivali apparecchiate con grandi
crociere e costoloni, che scaricano il loro peso su grossi pilastri posti agli angoli, o su
grosse mensole piramidali rovesciate, di arte gotica. I portali e le finestre, sono anch’essi
di arte gotica, con archi di forma ogivale. Rileviamo, tuttavia, nei suddetti castelli, anche
portali e finestre con archi a tutto sesto, e piccole volte a botte, a pieno centro, di impronta
romanica. Sebbene questi elementi romanici, siano in netta minoranza, rispetto a quelli
gotici, la coesistenza dei due stili artistici, ci suggerisce che alla loro costruzione
parteciparono maestranze cisterciensi, il cui connubio artistico, era una loro caratteristica.
Basta, infatti, analizzare le diverse abbazie cisterciensi italiane, per scorgere accanto, in
apparente contrasto, aperture (portali e finestre) e volte di tipo gotico e romanico.
Il palazzo medievale di Favara, costruito da Federico II come residenza di caccia,
nelle sue caratteristiche architettoniche miste, romaniche e gotiche, e nei suoi moduli
planimetrici utilizzati, identici a quelli della chiesa parrocchiale cisterciense sopra
descritta, testimonia, più di qualsiasi altro monumento svevo di Sicilia, la partecipazione
di maestranze cisterciensi. A maggiore conferma di ciò, rileviamo che, nel palazzo di
560
LE ORIGINI CISTERCIENSI DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI FAVARA NEL PERIODO SVEVO
Favara, i caratteri architettonici e formali adoperati risultano molto semplici e privi di
ricche decorazioni romaniche e gotiche, quasi a volere marcare lo spirito austero e povero
dell’arte cisterciense:
«San Bernardo e i sostenitori del rigorismo ascetico non sono affatto nemici
dell’arte. In una navata cistercense la purezza delle linee e la semplicità delle
forme suppliscono largamente all’assenza di ornamenti. All’esuberante opulenza
dell’arte romanica viene opposta un’estetica della povertà che intende limitarsi
al necessario e conservare solo delle forme funzionali semplici. L’arte cistercense
è austera, disciplinata e fondata sulla ricerca della purezza. Essa non è meno
intrisa di spiritualità di quella di Cluny. Ma mentre in quest’ultima la profusione
gioiosa e la ricchezza delle forme miravano ad abbagliare lo spirito e a fargli
pregustare la festa eterna, l’arte nuova vede in queste realtà materiali un ostacolo
alla contemplazione. Per i sostenitori dell’ascetismo e della povertà volontaria,
solo attraverso la spoliazione l’uomo può raggiungere l’amore spirituale»144.
G. VITI, San Bernardo e le arti, in San Bernardo e i Cistercensi in Umbria, a cura di G. VITI, Atti del
convegno organizzato dall’Associazione Nazionale Venerabile Maria Cristina di Terni, Terni-San Pietro
in Valle-Ferentillo 29-30 settembre 1990, Certosa di Firenze 1995, pp.135-153.
144
561
562
LA LIVATERA DI MONTALBANO. SIGNIFICATO,
STORIA E ORIGINE DI UN ANTICO TERMINE
GALLOROMANZO
GIUSEPPE PANTANO*
Livatera. È questo il nome di un vecchio e popolare quartiere situato nel centro
storico di Montalbano Elicona (Messina), in una zona declive e ancora oggi periferica
dell’originario borgo medievale, con esposizione verso ovest1. Documentato in forma
scritta già nei Riveli comunali2 di fine Cinquecento, è attestato anche come via cittadina
e come sporadico nome di famiglia.
Come spesso accade in toponomastica, specialmente per i nomi più antichi, anche
per Livatera nel corso dei secoli si perde la memoria del suo significato originario, pur
conservando integralmente la propria funzione denotativa come nome di quartiere. Inoltre,
l’assoluta rarità di questo vocabolo, sia come toponimo che come cognome, unitamente
al fatto che non è voce lessicale né del siciliano e né di altri dialetti italiani, ha fatto sì
che questo termine non sia stato oggetto di particolari studi linguistici e che in atto è
ritenuto «di complessa soluzione etimologica», per non voler dire che, in realtà, se ne
sconosce completamente significato, storia e origine3. Tanto è vero che nel pur ricco
Dizionario onomastico della Sicilia4, questo lemma, anche se puntualmente riportato,
*Ricercatore indipendente di Montalbano Elicona (ME).
1
La giacitura del quartiere verso ovest farebbe escludere da subito un ipotetico livantera = esposto a
levante.
2
Archivio di Stato di Palermo, Tribunale del Real Patrimonio, in Riveli di Montalbano, anno 1593, è
riportato Livatera.
3
Non considero infatti uno studio specialistico e né soddisfacente quanto scritto dal prof. N. Aricò
(Facoltà di Ingegneria, Università di Messina) che, nella sua relazione urbanistica per il restauro del
centro storico di Montalbano, pur palesando evidenti difficoltà, propone una derivazione greca assolutamente
priva di qualunque fondamento scientifico: «Livatera – egli scrive – è toponimo di complessa soluzione
etimologica. Libadeion (= zona di prati) è certamente il più probabile etimo, perfettamente affine nella
radice ma apertamente in contrasto nel suffisso eion volgarizzato in era. L’etimo greco-bizantino di
Livatera (secolo VI-IX) non credo possa essere datato oltre il IX secolo […] La “zona di prati” lascia
pensare infatti ai pascoli e convive perfettamente con la fonte del Tirone e col declivio fino al letto della
fiumara sottostante. Libadeion, benché originato da una popolazione insediata nell’area, tace di un
qualsivoglia rapporto causale con l’eventuale insediamento». Il compianto amico prof. Giuseppe Todaro,
v. G. TODARO, Toponomastica del territorio abacenino-tindaritano (manoscritto inedito), cede invece al
fascino di un’assonanza ingannevole quando ipotizza un’origine greco-antica e collega l’etimo Livatera
ad una presunta sorgente sacra alle ninfe Libetridi dell’Elicona: “la λιβασ ιερα, dalla quale deriva l’attuale
denominazione di Livatiera”.
4
G. CARACAUSI, Dizionario onomastico della Sicilia, vol. I (A-L), Palermo 1993, CSFLS, p. 871, s.v.
livatèra.
563
GIUSEPPE PANTANO
non viene indicato come toponimo, ma solamente come raro cognome, presente nelle
provincie di Messina e Catania, senza alcun commento o tentativo di enunciazione
etimologica 5 .
Tutto ciò, oltre a rendere più ardua (ma più stimolante) la ricerca, comporta un
approccio metodologico e analitico rigoroso, basato principalmente sulla struttura formale
della voce, che prenda avvio dalle precise indicazioni dettate dal suffisso, per andare
poi all’identificazione della radice verbale, avendo buona conoscenza del quadro storico
locale e non dimenticando che l’etimologia è un settore specialistico nel quale è bene
procedere con la dovuta cautela.
Intanto, bisogna preliminarmente osservare che nel dialetto locale questo nome viene
sempre preceduto dall’articolo, motivo per il quale potrebbe essere esclusa a priori
l’origine da un nome individuale o personale, che normalmente rifiuta l’articolo6.
L’importante suffisso, -iera, spiana la strada con molta sicurezza verso un
francesismo7. Tale suffisso, introdotto in epoca normanna, è ampiamente presente, oltre
che nella lingua italiana, in ambito dialettale siciliano e montalbanese, sia al maschile
che al femminile, in molti vocaboli indicanti soprattutto: mestiere (es. vignièri = vignaiolo,
custurièri = sarto)8; luogo adibito o coltivato a qualcosa (es. pisièra = luogo per la
trebbiatura, surbièra = luogo coltivato a sorbi)9; recipiente o contenitore (es. zuccarièra
= zuccheriera, uglièra = oliera, pumièra = reticella per conservare le mele); attrezzi vari
(es. surcièra = trappola per topi).
Per quanto riguarda la radice, bisogna premettere che la base di partenza sulla quale
incentrare lo studio non deve intendersi la forma scritta livatera (peraltro già così nei
citati Riveli del 1593), ma la più genuina versione orale del dialetto di Montalbano,
ll’vattièra, dove la vocale della prima sillaba è di fatto una vocale indistinta e non la – i
– della forma letteraria. Infatti, svolte le opportune verifiche, soltanto se si identifica
tale vocale con una u si apre l’unico spiraglio verso una soluzione etimologica.
Con questa premessa, scartate tutte le altre ipotesi non supportate da riscontri storici
o linguistici, diventa pienamente accettabile e convincente la possibilità del prestito
suggerito dal suffisso, la cui radice non può che essere individuata nel francese louve
(lupa)10, da cui deriva louvetier, che in antico francese designava un officier pour la
chasse aux loups = ufficiale [addetto agli equipaggi] per la caccia del lupo (termine
Ad una verifica attuale, questo cognome nelle due province citate è presente in numero così esiguo da
potersi contare sulle dita di una mano. È corretto ipotizzare che dal toponimo ne sia derivato il cognome
(cognome toponomastico).
6
Es.: a ll’vattièra = la Livatera; stàiu tta / ’a ll’vattièra = abito nella / alla Livatera; vàiu ‘a ll’vattièra
= vado alla Livatera.
7
Cfr. G. ROHLFS, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Sintassi e formazione
delle parole, Torino, 1997, pp. 431-432.
8
Molti di questi hanno dato origine per es. a soprannomi montalbanesi; ne possiamo ricordare alcuni:
Baccillieri, Branchiglieri, Cambarieri, Carciarieri, Cavarieri, Lantieri, Pillizzieri, etc.
9
Pure molti toponimi di Montalbano presentano tale suffisso: Bizzuniera, Cannavera, Carbunieri,
Cirriera, Cittuniera, Faiggiera, Firriera, Guzziera, Linieri, Stricchiera, Surbiera, etc.
10
In fr. louve oltre che lupa, in senso figurato, è anche donnaccia ed il verbo louveter, oltre al figliare
della lupa, indica il battere la lana con il «lupo», una sorta di mangano.
5
564
LA LIVATERA DI MONTALBANO
registrato ancora oggi nei buoni dizionari francesi)11 . Ma, cosa importante, oltre il
singolare maschile louvetier, viene riportato anche il suo derivato femminile, louveterie,
con il duplice significato di équipage dressé pour la chasse aux loups = equipaggio
addestrato per la caccia ai lupi e, meglio ancora, di lieu destiné à loger cet équipage =
luogo destinato ad alloggiare questo equipaggio. Tutto il percorso descritto mostra anche
in maniera esemplificativa come può avvenire il passaggio da un nome di arte o mestiere
a quello di abitazione e quindi di luogo. E il quartiere Livatera deriverebbe il suo nome,
appunto, seguendo questo schema: louvetier, il mestiere esercitato; louveterie, le
abitazioni di cacciatori che nel Medioevo, in questo specifico territorio, esercitavano la
caccia al lupo12.
È bene a questo punto aprire una breve parentesi relativa alla plurisecolare lotta al
lupo, per precisare che già nell’Alto Medioevo, con il passaggio da un’economia basata
prevalentemente sull’agricoltura ad una in cui la pastorizia e la caccia venivano ad
assumere un ruolo sempre più importante per il sostentamento quotidiano, tra uomini e
lupi venne a delinearsi una più accanita competizione per le risorse alimentari. Il lupo
divenne l’animale che più di ogni altro ostacolava lo sviluppo delle attività antropiche
e, per la sua presenza diffusa e minacciosa, iniziò a rappresentare un pericolo costante
anche per l’incolumità fisica dell’uomo, non esclusa la potenziale trasmissibilità di
malattie come la rabbia. Il terrore dei lupi assunse di fatto in tutta l’Europa medievale
forme addirittura ossessive tanto che, nelle zone infestate, quasi ogni villaggio disponeva
di un gruppo di cacciatori sempre pronto a combatterli13. A ciò bisogna aggiungere la
diffusione di simbologie e superstizioni che fecero del lupo un elemento totalmente
negativo, capace di configurare in sé le forze del male. Basti pensare a Dante, che dai
Bestiari attingeva parecchie delle sue informazioni, il quale associò al lupo il simbolo
di avidità e di frode: maghi, ladri e impostori erano tutti confinati nell’ottavo cerchio
dell’Inferno, condannati per aver commesso i “peccati del lupo”.
A Montalbano Elicona una testimonianza ancora oggi presente della lotta contro
questo predatore è costituita dal monumentale ovile di Portella Zilla (conosciuto in loco
come la mandria del Gesuita) il cui recinto di pietre a secco – grossi blocchi monolitici
riutilizzati da un precedente fortificazione di probabile epoca romana14 – presenta delle
lastre sommitali aggettanti atte a impedire l’ingresso ai lupi. Può anche essere utile
ricordare il vecchio odonimo Chianu ‘a lupara ubicato, non casualmente, nel quartiere
Livatera nei pressi dell’attuale via Ferrara. Fosse stato al maschile, come nel locale
toponimo Ìsula ‘u luparu15, avremmo facilmente concluso che tale nome corrisponde a
cacciatore di lupi, ma essendo al femminile non si ha certezza su quale valore semantico
11
C. GHIOTTI, Il novissimo Ghiotti, Vocabolario italiano-francese e francese-italiano, seconda edizione,
Torino 1976.
12
Nel territorio di Montalbano i lupi venivano ancora cacciati sino agli anni Trenta del secolo scorso,
data della loro definitiva scomparsa.
13
La lotta contro questo predatore rese unita, per es., nell’anno 1100 la società spagnola rigidamente
tripartita: clero, baroni e contadini avevano l’obbligo ogni sabato di organizzare grandi battute di caccia.
14
Cfr. C. SAPORETTI- S. VARISCO, Il complesso megalitico di Porta Zilla, «Geo-Archeologia», 35 (1999/
2).
15
Toponimo ubicato nel vicino bosco di Malabotta (cfr. nota 19).
565
GIUSEPPE PANTANO
possa essergli attribuito16 . Tuttavia, anche se non si trattasse di un nome legato
all’esercizio della caccia o di una variante diacronica da porre accanto a livatera, di
certo la sua base è lupo e dal punto di vista linguistico è una voce piuttosto interessante,
rappresentando un cedimento a Montalbano della primitiva radice settentrionale nei
confronti del pansiciliano lupu. Si tenga conto in proposito che in altri centri galloitalici
siciliani per denominare il lupo viene ancora oggi rispettata l’antica forma settentrionale:
così troviamo ad es. u luvu a Nicosia e u ddauv’ a San Fratello.
Una significativa e suggestiva testimonianza storica indiretta, risalente a metà
Cinquecento, che si può correlare con questa interpretazione etimologica, viene offerta
da quanto scritto dal Fazello su Montalbano, di cui cita solo tre notizie: oltre al castello
di Federico III d’Aragona e al sepolcro di Arnaldo da Villanova, ciò che ha suscitato
l’interesse del grande storico siciliano, è stata la presenza di una moltitudine di cani
dalla elevata statura e dalla grande ferocia ivi allevati e custoditi: “Insigne quoque est
magna prae caeteris canum statura ac ferocia”17. Questa singolare e, tutto sommato,
curiosa annotazione fazelliana potrebbe trovare piena giustificazione se la presenza di
questi cani venisse collegata a un loro particolare utilizzo, ad un ambito venatorio speciale,
come appunto quello della caccia al lupo. La louveterie potrebbe dare, quindi, una
definitiva risposta alla domanda, finora senza esito, sul perché il Fazello ha ritenuto
fare una espressa menzione di questi cani senza averne specificato la funzione. La
descrizione fenotipica fatta dal Fazello trova effettiva rispondenza in una razza di cani
siciliani, oggi estinta, conosciuta in passato come cani‘i buccièri = cani dei macellai,
presente anche a Montalbano fino al secolo scorso: si tratta di molossoidi, cani di
grossa taglia, a pelo corto, alti, robusti e sufficientemente aggressivi da potere affrontare
i lupi. Questi standard trovano attuale riscontro in Italia nella razza del cane Corso e nel
Regno Unito nella razza Irish wolf hound, un gigante della specie canina, utilizzata
originariamente per lo stesso scopo venatorio, come indica anche il nome, wolf = lupo.
Se questa chiave di lettura è corretta, sarebbe anche una prova dell’esistenza di una
tradizione venatoria specifica già presente da tempo nella zona.
Ritornando ai contenuti semantici, è giusto citare per dovere di metodo – ma con
sempre minore possibilità – altri due eventuali significati alternativi: tenuto conto che
louve = lupa in senso figurato vuol dire quasi universalmente donnaccia, louveterie
(sempre in senso metaforico) potrebbe significare lupanare, postribolo, oppure luogo
in cui veniva cardata e battuta la lana con un attrezzo chiamato lupo. Tuttavia, mentre
il senso traslato potrebbe anche essere ammissibile, la seconda ipotesi viene presto a
cadere se si considera che tali opifici, in Sicilia comunemente denominati paratori (e
ancor prima battinderi), sorgevano presso abbondanti corsi d’acqua e, appunto, lungo il
Il Vocabolario Siciliano, vol. II, p. 558, riporta alla voce lupara (2) il significato di sterpaia, pruneto,
mentre il DOS lo riporta come top. derivato da lupu (lupo), col suffisso –ara indicante la caratteristica del
luogo. Ma nel dialetto montalbanese le cose si complicano per l’esito, in alcuni casi, di un affievolimento
della t intervocalica in r, per cui il termine llupara potrebbe anche avere l’ulteriore significato di allupata
oppure famelica.
17
“La particolarità della statura, e anche lo spirito combattivo, è maggiore rispetto al resto dei cani”.
v. T. FAZELLO, De rebus siculis. Decas prima, Catania 1749, p. 416.
16
566
LA LIVATERA DI MONTALBANO
fiume Elicona rimane ancora il toponimo Paratore a ricordare il luogo di Montalbano
in cui venivano lavorati i drappi e battuti i panni di lana.
Una volta accertata l’etimologia, non rimane che conoscere quando questo termine
può essere nato e, soprattutto, come è potuto giungere dalla Francia fino alla lontana
Sicilia per conservarsi isolatamente in questo centro.
A tal proposito è utile segnalare che anche il Louvre di Parigi, riconosce come base
etimologica louveterie, in quanto Filippo Augusto, prima della partenza per la Terza
Crociata (quindi dal 1190 in poi), aveva fatto costruire in quel luogo una torre con
funzione di alloggio per cacciatori e relativi canili. Ciò riporta alla fine del XII secolo
una datazione sicura per questo vocabolo, che secondo una fantasiosa tradizione francese
potrebbe anche risalire più indietro fino ai tempi di Carlo Magno18. Nel 1308, poi, Filippo
il Bello istituì in Francia un corpo speciale preposto esclusivamente alla caccia del
lupo, che è chiamato ufficialmente la Louveterie. Questa istituzione fu potenziata nel
1404 da Carlo VI e poi, nel 1520, con Francesco I fu creata addirittura la carica del
Grand louvetier de France, che perdurò fino alla Rivoluzione. Abolita temporaneamente
in quegli anni, la Louveterie fu nuovamente ripristinata da Napoleone. Essa riscuoteva
come sempre dei premi per ogni capo ucciso direttamente dagli abitanti della zona, a
testimonianza che il danno economico causato dal lupo in Francia dovette essere per
secoli particolarmente sentito19. Da queste particolari circostanze nasce la continuità
d’uso e la fortuna di questo termine d’Oltralpe nel lungo periodo storico.
È il caso di sottolineare che ancora oggi in Francia il termine louveterie si rivela
ampiamente diffuso: oltre ai numerosi toponimi, sono molti gli ostelli, alberghi e ristoranti
specialmente di campagna che, recuperando storicamente il nome, si fregiano di questo
antico titolo, in quanto sorti su vecchie stazioni di caccia riconvertite in età contemporanea
per l’attività turistica e ricettiva.
Per quanto riguarda, invece, il modo in cui questo vocabolo può essere giunto in
Sicilia fino a Montalbano Elicona, è fondamentale indicare l’esistenza in Piemonte,
esattamente nel piccolissimo comune di Frassinetto e nel comune di Condove (entrambi
in provincia di Torino), di contrade denominate Luvatera: tale prestito dal francese è, a
mio avviso, l’anello di congiunzione per spiegare l’introduzione di questo termine in
Sicilia attraverso la mediazione di gente di provenienza settentrionale avvenuta in età
normanna. Se così è, il quartiere Livatera, situato in una zona di espansione dell’originario
18
En France, la louveterie est une institution créée par Charlemagne pour procéder à la destruction
des loups (Traduzione: In Francia la louveterie è un’istituzione creata da Carlomagno per procedere alla
distruzione dei lupi).
19
Una notizia interessante mi fu data dal compianto amico prof. Giuseppe Miligi (classe 1918),
riguardante un episodio avvenuto intorno agl’inizi del secolo scorso, nel quale ricordava un tale originario
della frazione S. Basilio di Novara di Sicilia (che a Montalbano era conosciuto come u zu Nunziu u luparu
- nome segnalatomi dal sig. Antonino Furnari, classe 1926 -) gabellante di terreni nell’ex feudo Malabotta,
il quale aveva scovato nell’omonimo bosco una cucciolata di lupacchiotti, che allevava di nascosto, e di
tanto in tanto ne uccideva qualcuno per riscuotere una taglia, consistente nel pagamento in natura da parte
dei pastori della zona. Questo, al di là dell’aneddoto in sé, conferma una consuetudine presente anche in
questo territorio. Il prof. Giovanni Ruffino, studioso del lessico venatorio siciliano, mi suggeriva la
possibilità della caccia del lupo (sconosciuta per altro in Sicilia al momento delle sue ricerche) entro i
limiti di aree ristrette come questa, al confine tra Nebrodi e Peloritani.
567
GIUSEPPE PANTANO
nucleo abitativo, potrebbe essere stato il luogo di prima accoglienza e di iniziale
insediamento dei coloni lombardi a Montalbano, al quale hanno dato un nome noto
nella loro lingua, partendo da un’attività molto particolare ivi esercitata (è in casi come
questo che si può apprezzare il contributo offerto dalla linguistica alla storia, rivelando
qui una interessante notizia sul passato locale non documentabile in altro modo).
Circa la distribuzione areale del toponimo, louveterie, come detto, è abbastanza diffuso
in Francia, il prestito luvatera è piuttosto raro in Piemonte, mentre il derivato livatera è
un termine esclusivo in Sicilia di Montalbano (per il resto d’Italia il nome geografico è
assente).
Questa voce che, come detto all’inizio, non penetra nel lessico siciliano, si affianca
dunque come toponimo ad una consistente serie di vocaboli diffusa nell’Isola durante il
periodo normanno, allorquando furono introdotti soprattutto nomi di arti, mestieri e
oggetti legati alla civiltà cortese e cavalleresca. Si tratta, pertanto, di un antico termine
galloromanzo veicolato dagli immigrati lombardi, presente come raro cognome in Sicilia20
e che a Montalbano si è cristallizzato come toponimo, designandone un quartiere21.
Un modesto gruppo di vecchie case che ha, nell’origine del nome, qualcosa in comune
con il più famoso museo al mondo22.
20
In Sicilia troviamo nomi propri con questo francesismo documentati da inizio Trecento, come
Fioremille Luvetto, vedova di Monreale che vinse un contenzioso per dei canali irrigui, come risulta dal
Tabulario di S. Martino delle Scale, perg. 18, datata 16 gen. 1303. Nel DOS del Caracausi Luvetti è
riportato come cg. ad AG e Licata con la spiegazione di forma settentrionale di dim. di lupo.
21
Successivamente mi è stata riferita dal compianto prof. Agatino Santoro l’esistenza dello stesso
toponimo Livatera nelle campagne di Messina, tra la zona di Ritiro e Portella Castanea (l’origine sarà
stata la stessa, ma non ho trovato altre testimonianze locali).
22
L’antico quartiere Livatera è oggi di proprietà comunale, diventando una sorta di albergo diffuso
denominato Medieval Resort, che è stato animato negli anni passati dalla presenza di numerosi studenti,
anche stranieri, per campus universitari estivi organizzati dal Consorzio Universitario Federico II e dal
comune di Montalbano Elicona.
568
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA S ICILIA DEL TRECENTO
FERDINANDO MAURICI*
Castrum undique machinis oppugnatum. La prima metà del Trecento
Il castello trecentesco siciliano, e in genere il castello nel Trecento siciliano, è
essenzialmente, come scriveva il cardinal Pietro Bembo a proposito della Rocca di San
Leo, “fortissimo propugnacolo e mirabile arnese di guerra”1 . Forse non sempre
“fortissimo” e ancor meno “mirabile”, ma certamente, in pieno, “arnese di guerra”.
L’affermazione potrebbe sembrare lapalissiana ma in realtà non lo è. I castelli
normanni di Sicilia, dopo i castra effimeri d’assedio e comunque funzionali alla
conquista, sono fortilizi essenzialmente dissuasivi. Servono cioè, soprattutto, a
scoraggiare ribellioni della popolazione sottomessa. E servono anche come luogo sicuro
in momenti di instabilità politica per i loro possessori che vi si rinchiudono sulla difensiva.
Cosa che fece, per esempio, Matteo Bonello nel suo castello di Caccamo. I nuovi, grandi
castelli di Federico II sono in primo luogo materializzazione del potere, strumenti di
dissuasione per le popolazioni dal tentare nuove rivolte e, vivo l’imperatore, non sembra
abbiano mai dovuto passare la prova dell’assedio. I castelli demaniali, non
sufficientemente tenuti in buon ordine ed efficienza da Carlo d’Angiò, sono solo in
teoria strumenti di dissuasione; quasi disarmati, di fronte ad una rivolta che nel 1282
coinvolge in poco tempo tutta la Sicilia e ogni sua classe sociale, non reggono all’urto e,
con poche eccezioni (Sperlinga, Castellammare di Birgu, a Malta), cedono quasi subito
con conseguenze drammatiche per i difensori e coloro che al loro interno si erano rifugiati.
Il castello può svolgere, anche in guerra come in pace, diverse funzioni, non
necessariamente unicamente o in primo luogo difensive. Anzi, un castello può essere in
guerra anche un efficace strumento offensivo. Può essere base sicura e buen retiro per
una compagine di armati a cavallo che, uscendo dal castello, può compiere azioni di
guerra di ogni tipo, anche a distanze notevoli. Per la Sicilia del Trecento l’esempio del
castello di Cristia e della sua compagnia è senza dubbio il più calzante: “la comitiva di
parte catalana asserragliata nel castello di Cristia era una minaccia per tutta la Sicilia
centrale ed occidentale in mano alla parzialità latina”2. Non fu però l’unico caso; al
contrario, era frequente che dei castelli costituissero sicura base di partenza per raid e
atti di guerra, saccheggio e rapina. Nel caso di castelli posti in una città o terra, la loro
cattura può essere il primo passo per tenere sotto scacco la città stessa e tentarne la
* Dirigente dell’Assessorato regionale siciliano ai BB CC AA.
1
Cit. in BIANCHI 2019, pp. 22-23.
2
MIRTO 1995, p. 21.
569
FERDINANDO MAURICI
conquista. Tale doveva essere l’intendimento degli angioini che occuparono con un
colpo di mano il Castellammare di Palermo nel 1333.
Un castello può, grazie ad una posizione particolarmente ben scelta, interdire o
comunque rendere difficoltoso l’utilizzo di un tratto di viabilità, consentendo agli armati
acquartierati al suo interno di contrastare in campo aperto il passo al nemico o, più
semplicemente, offrendo loro una rendita di posizione fatta di ruberie, spoliazioni,
taglieggiamento ai danni di chi, non necessariamente nemico dichiarato, sia costretto a
passare per quel segmento di strada. L’esempio dei castelli di Cefalà e Vicari, sulla
strada Palermo-Agrigento, nel 1349 è, in tal senso, estremamente significativo3; così
pure quello del castello di Calatrasi da dove nel 1351 dei latrones ivi asserragliati4, così
derubricati dalla documentazione palermitana, anche loro partigiani della fazione
catalana, assalivano i palermitani ed in genere i latini (e probabilmente non solo essi)
che transitavano sulla sottostante via Palermo-Mazara, con il vicino passaggio obbligato
del ponte di Calatrasi sul fiume Belice. Altro caso di castello a controllo di una strada è
quello di Sant’Alessio, sulla difficile via costiera Messina-Catania: non per nulla il
complesso e la sua castellania comprendevano anche la torre esplicitamente detta “de
passo”5 . Ancora, un castello può svolgere la già ricordata funzione di dissuasione,
scoraggiando, con le sue difese, la sua posizione topografica ed il numero di armati
chiuso al suo interno, un eventuale nemico dall’attaccarlo, offrendo agli occupanti una
residenza relativamente sicura. Un castello può inoltre offrire ricetto a una popolazione
o a parte di essa; è però vero che, in caso di assedio, si tendeva spesso a sbarazzarsi
senza troppi complimenti delle bocche inutili, allontanando dal castello e lasciando
spesso alla mercé del nemico vecchi, donne e bambini. Un castello può accogliere del
bestiame all’interno della sua cinta o delle sue cinte e salvarlo così dalla razzia; può
proteggere, nelle sue fosse granarie e nei suoi magazzini, i raccolti di cereali ed altre
derrate agricole.
Le funzioni direttamente e attivamente difensive sono comunque prevalenti. Un
castello ubicato sulla costa e in particolare a guardia di un porto può, anzi dovrebbe,
impedire o comunque rendere il più difficoltoso possibile uno sbarco nemico mediante
lanci con macchine, tiri di balestra, eventuali sortite, sorveglianza e difesa delle chiusure
portuali (genericamente, catene), come nel caso del Castellammare di Palermo. Un
castello collegato alle mura di una città o terra è generalmente il fulcro ed il punto più
forte delle difese, la base del comando militare delle operazioni e, nei casi sfortunati,
l’ultimo ridotto difensivo. Non furono infrequenti, anche nella Sicilia del Trecento, i
casi di castelli che continuarono la resistenza, nella speranza di ricevere soccorsi o di
strappare al nemico le migliori condizioni di resa, anche dopo che il corrispondente
centro abitato aveva capitolato o era stato occupato manu militari.
Arriviamo quindi alla funzione certamente più frequente e tipica del castello in guerra:
quella di resistere ad un assedio. La resistenza può essere funzionale ad impegnare un
forte contingente militare, ingenti risorse economiche e materiali, obbligando il nemico
Cfr. STARRABBA 1884.
Cfr. D’ANGELO 1973, p. 339.
5
BARBERI, I Capibrevi, II, pp. 363-364.
3
4
570
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
a distogliere l’attenzione da altri obiettivi, a volte anche più importanti strategicamente,
tatticamente e politicamente. Reggere un assedio può obbligare il nemico ad impegnare
a fondo le sue forze contro il punto di resistenza, impedendogli di andare avanti in una
strategia di conquista e tenerlo così inchiodato. Resistere a un assedio può essere il
mezzo estremo per proteggere il più a lungo possibile i beni, gli averi, il potere e la vita
stessa degli occupanti il castello e in particolare dell’autorità, e quindi della persona
fisica o dell’élite che detiene il comando.
L’assedio (di una città murata e, per quello che qui più interessa, di un castello) è
quindi definibile come il dispiegamento e la sinergia, coordinate da un comando
militare-politico, di tutte quelle azioni di carattere politico-diplomatico, militare,
logistico ed economico atte a isolare il più possibile la porzione di spazio assediata.
In modo da impedirle il più efficacemente possibile di ricevere soccorsi o di potere
rompere l’assedio con una sortita. Il tutto finalizzato ad ottenere la resa e la consegna
del castello per sopraggiunta opportunità politica, per tradimento dall’interno, per
l’impossibilità degli assediati a continuare la lotta a causa dell’esaurimento delle scorte
di cibo, di acqua, di munizioni, dell’insorgere di malattie e epidemie o dello scoppio
di un ammutinamento fra i ranghi della guarnigione o comunque della gente chiusa
nel castello stesso. Oppure, nell’estremo dei casi, riuscendo l’assediante con l’uso
della forza e di tutte le astuzie e i mezzi a disposizione a superare le difese, a entrare
nello spazio difeso6.
Dunque superando, vincendo e annichilendo la capacità combattiva del nemico
assediato che in questo caso resta totalmente alla mercé del vincitore. Poco propenso,
in genere, in caso di espugnazione a sangre y fuego, a mostrarsi compassionevole o
anche soltanto moderato. Circostanza facilmente comprensibile. Una difesa ad
oltranza provocava vittime, spese, fatiche: oltre che resa assai difficile dal furore e
dalla voglia di vendetta che invadeva i combattenti, la clemenza era sconsigliata
anche in termini politici, potendo di fatto incoraggiare ulteriori episodi di accanita
resistenza.
La rivolta palermitana del 1282 inaugura un lungo conflitto, efficacemente ma senza
successo nella letteratura storica, definita da Santi Correnti la Guerra dei Novant’anni,
che vedrà spesso castelli e mura cittadine sotto attacco.
La prima fase, la Guerra dei Vent’anni (originale definizione, credo, di Amatuccio)
fino alla pace (in realtà, alla tregua) di Caltabellotta, vedrà in primo luogo grandi scontri
navali, con le gesta di Ruggero di Lauria: dalla battaglia del Grand Harbour di Malta (8
giugno 1283), a quella del golfo di Napoli o di Castellammare di Stabia (5 giugno 1284),
alla battaglia dei conti (23 giugno 1287) o seconda battaglia di Castellammare di Stabia,
alla sconfitta siciliana di Capo d’Orlando (3-4 luglio 1299). Non mancarono, inoltre,
battaglie campali sul suolo siciliano, oltre che su quello napoletano, come la battaglia
della Falconara (o Falconaria, 1 dicembre 1299) e quella di Gagliano (febbraio 1300).
La guerra, inoltre, si caratterizzò per azioni continue e snervanti di guerriglia e saccheggio,
distruzione o rapina delle risorse agricole e zootecniche, guasto alle attività produttive
quali, ad esempio, le tonnare.
6
Si veda NORRIS 2007, pp. 147-149.
571
FERDINANDO MAURICI
Si registrarono inoltre, nei primi vent’anni del conflitto, anche vari assedi in terra
siciliana, a partire da quello angioino di Messina, a quello della terra e del castrum di
Augusta, occupati dagli angioini e assediati dai siciliani per quaranta giorni fra maggio
e giugno 1287. Il castello di Augusta, in quell’occasione, venne continuamente
bombardato dai siciliani con i trabucchi: uno di essi, secondo Muntaner, con colpi
straordinariamente ben mirati, avrebbe scagliato massi sull’imboccatura dell’unico pozzo
del castello allo scopo di renderlo inutilizzabile7. Una destrezza e una precisione, contro
un bersaglio piccolo e invisibile dagli assedianti, che, francamente, mi sembrano
difficilmente credibili. E ciò anche se nella Sicilia del tardo Duecento e del primo Trecento
esistevano rinomati costruttori di macchine da getto, alla bisogna utilizzabili anche come
direttori di tiro, omaggiati del titolo di magister ingeniarius o anche magister in
arismetica8. Gli assediati, dal canto loro, riuscirono durante una sortita a distruggere il
gatto (in latino cattus o gattus; in francese chatte, in inglese cat, mice o anche mantlet;
in castigliano e provenzale gata)9 utilizzato dagli assedianti. Si trattava di una macchina
d’approccio ai fossati ed alle mura che il cronista Bartolomeo da Neocastro così descrive:
“gactum eximium ex trabibus, cohopertum tabulis quercuum, super quibus coria bovina,
et super eis terram ... propter ignem et lapides desuper immittendos; et predicta artificia
super rotas constructa devolvunt ducentes et herentes prope castrum”10. Era quindi una
robusta tettoia mobile a volte su ruote, protetta sui lati lunghi e coperta da assi di legno
ben inchiodate e in qualche caso rafforzate da piastre di ferro o acciaio per non essere
scalzate dagli assediati con uncini su lunghissime aste, come si vede in una miniatura
francese del XV secolo11. Il tetto poteva essere a sua volta rivestito da pelli bovine per
evitare che potesse prendere fuoco a causa di frecce o liquidi incendiari e eventualmente
anche da terra per attutire l’impatto di pietre rovesciate dall’alto delle mura, come si
vede in una miniatura inglese o francese del primo XIV secolo12. Solitamente un gatto
era lungo dai quattro agli otto metri e largo da due a tre, anche se ne sono documentati
di più grandi13. Secondo un testo poetico provenzale, la Cansos de la Crozada, Simon
IV de Monfort all’assedio di Tolosa del 1218 ordinò di costruire una gata o gate di
legno ma corazzata con piastre “de fer et dacer”, in ferro e acciaio, capace di resistere a
tiri di trabucchi e petriere e a massi scaraventati su di essa. La gatta di Simon de Monfort
doveva essere “tan bona non fon formada ni bastida des lo temps Salomon”. Si sarebbe
trattato di un vero capolavoro di carpenteria o di architettura lignea rafforzata in metallo,
con fianchi, capriate, volte e un portal. Sotto questa macchina, “ins la gata”, il duro e
feroce coms di Monfort, comandante dell’esercito crociato contro gli Albigesi, dichiarò
AMATUCCIO 2017, p. 50.
Acta Curie 3, p. 99 doc. 49 (1326); Acta Curie 4, p. 139 doc. 86 (1328); Acta Curie 5, p. 90 doc. 106
(1329)39 doc. 86 (1328)
9
GISSEROT 2017, p. 83; BRADBURY 1992, pp. 270-274; ROGERS 1992, p. 252; BRADBURY 2004, p. 301;
NORRIS 2007, pp. 214-217 con foto di cats ricostruiti; SAÉZ ABAD 2007, pp. 132-133.
10
AMATUCCIO, 2017, pp. 220-221.
11
GISSEROT 2017, p. 83.
12
NICOLLE 2002a, p. 39.
13
Cfr. TODARO 2003, pp. 29-34.
14
Cansos de la Crozada, p. 552 vv. 7842-7856; cfr. SETTIA 2002, p. 123.
7
8
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VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
di volere mettere quattrocento cavalieri fra i migliori del suo esercito e centocinquanta
arcieri (!) per raggiungere il fossato, disporre la gata “atravers le murs”14 entrare a
Tolosa, massacrare padri e figli com’era nel suo stile, grandguignolesco anche per quei
tempi e quei contesti truculenti, fare uso di fuoco greco e così ridurre la città finalmente
a foc e carbon15.
Ritengo probabile che si tratti, almeno quanto ai numeri dei guerrieri, di un’iperbole
del testo poetico provenzale. Una copertura per cinquecentocinquanta uomini,
introducendo nella stima ipotetica la misura attualmente prevista dai regolamenti
antincendio di 0,27 m2 come spazio occupato da un uomo in piedi, sarebbe stata di
148,50 m2 di superficie. Più concretamente almeno il doppio, visto che gli uomini erano
completamente e pesantemente armati e avrebbero dovuto avere spazio sufficiente per
avanzare, muoversi, spingere la gate “belament et viatz”16, gagliardamente e velocemente,
incoraggiandosi con grida e fischi (“ab critz et am cisclets”)17. Scrivere in versi di una
gate che avrebbe avuto circa 300 m2 di superficie, quindi dalle ipotizzabili dimensioni
di m 8 x 37,50 o 7,50 x 40 e dal peso incommensurabile, considerando anche i rinforzi
metallici, mi sembra, appunto, una figura retorica; anche se in teoria una tale realizzazione
non era del tutto impossibile. In ogni caso, la gate fatta effettivamente costruire da
Simon IV de Monfort18 doveva essere egualmente una macchina grande e fuori dal
comune. I tolosani, però, uscirono in una violentissima sortita e fecero strage dei soldati
della gate. Alla notizia della disfatta, Simon de Monfort fu preso da grande sconforto e
pregò Gesù di dargli la vittoria o la morte: “el coms trembla e sospira e devenc trist e
ners et ditz ai sacrifizi Jeshu Crist dreitures, huei me datz mort en terra o que sia
sobrers”19. Per volontà divina, per una sorta di dantesco contrappasso o, piuttosto, per
un caso del destino decisamente carico di humor nero, il coms di Monfort morì però
durante l’attacco, colpito da un masso scagliato da una petriera, sempre secondo la
Cansos, manovrata da donne tolosane. Preso in pieno sull’elmo, il cranio del conte fu
fracassato e fuoriuscirono gli occhi e il cervello20. Non gli servì a salvare la propria vita,
dunque, l’avere costruito una gate tanto forte da non temere, ma soltanto in teoria, tiri di
“trabuquet ni peirier”.
Piccolo o gigantesco (anche troppo) che fosse, come in quest’ultimo caso, il gatto
serviva agli assedianti per avvicinarsi ben protetti ai fossati e riempirne una sezione e
per accostarsi alle mura onde effettuare lavori di scalzatura, distruzione e mina21. Potendo
anche essere munito di trapano da muro o rostri per la distruzione di steccati22. Inutile
aggiungere che soldati e cavalieri sotto il cattus avevano nessuna o ben poche possibilità
di difendersi direttamente e che l’efficacia della loro azione e le loro stesse vite erano
affidate alla robustezza della struttura difensiva ed al tiro di copertura effettuato contro
Cansos de la Crozada, p. 547 vv. 8070-8072.
Cansos de la Crozada, p. 552 vv. 7842-7856; cfr. Settia 2002, p. 123.
17
Cansos de la Crozada, p. 552 vv. 7842-7856; cfr. Settia 2002, p. 123.
18
Cansos de la Crozada, p. 556 v. 8203.
19
Cansos de la Crozada, p. 552 vv. 7842-7856; cfr. Settia 2002, p. 123.
20
Cansos de la Crozada e, p. 550 v. 8114.
21
Cansos de la Crozada, p. 534 v. 5879 (“Ai bastida la gata”; “ho costruito la gatta”).
22
Cansos de la Crozada, p. 568 vv. 8410-8411.
15
16
573
FERDINANDO MAURICI
gli assediati dai loro compagni alle spalle della macchina. A meno che, come forse nel
caso di Tolosa, quest’ultima non avesse feritoie dalle quali gli arcieri potessero compiere
la loro opera mortifera. Un ibrido fra il cattus e l’ariete potrebbe definirsi l’aries protetta
da tettoia e spesso montata su ruote.
Tornando alla Sicilia e alla Guerra dei Novant’anni, nel 1296 si ribellarono contro
Federico III il Grande, fra gli altri, le terre e i castelli di Castiglione, Francavilla e Tripi,
costringendo lo stesso sovrano appena incoronato ad intervenire personalmente: “propter
quam rebellionem idem rex inde ad paucos dies obsedit ipsa castra violenter obtinuit et
recuperavit cum labore”23. Nel 1299 toccò a Gangi Vecchio, dove si era stanziato un
presidio angioino24, essere assediata da Federico III e dover cedere per fame e per sete,
con garanzia della vita per gli occupanti e la popolazione: “Rex, conveniente multitudine
Siculorum contra Gangium castra locat, ubi tam longo tempore coartavit quod obsessos
fame sitique perdomuit”25. Salvi i difensori, per radicale ed esemplare punizione, però,
la vecchia Gangi fu distrutta. Non può trattarsi però della località archeologica di Gangi
Vecchio ed è probabile che l’abitato risorse sul vecchio sito. Può anche essere di un
certo interesse ricordare che Gangi conobbe un nuovo, strano assedio nel XX secolo,
precisamente nel 1926, quando il prefetto di ferro Cesare Mori, al comando di forze di
polizia e militari, bloccò il paese e tagliò l’acqua per ottenere, come di fatto ottenne, la
resa dei mafiosi e briganti che a Gangi si erano asserragliati e nascosti. Un episodio
illustrato anche nel celebre film del 1977 per la regia di Pasquale Squitieri e
l’indimenticabile Giuliano Gemma nel ruolo di Mori.
A Chiaramonte Gulfi, nello stesso anno 1299, andò molto peggio per gli angioini e i
ribelli siciliani, perché parte di essi vennero massacrati26. Ancora nel 1299, all’assedio
di Aidone, fu messa in azione contro una porta un grande ariete mosso con funi e con
testata incendiaria: “longa tignus deducta funibus more arietis ignem immisit, quam
protinus ignis edax invasit”27. Venne dunque impiegato un ariete incendiario, come nella
scena dell’assedio di York (quasi contemporaneo) nel film Braveheart con Mel Gibson
nel ruolo principale. Dal di dentro delle mura, come contromisura, si barricarono le
porte con pietrame. Nel 1300 fu il castello rupestre di Regiovanni ad essere assediato da
Federico III. Nonostante le sue particolari caratteristiche, “sub exiguo dierum spatium
castrum undique machinis oppugnatum in deditionem deductum est”28. Sembra quasi
certo che le machinae in questione fossero trabucchi o altri ordigni da getto che dovettero
seriamente danneggiare il castello e forse ancor di più minare il morale dei difensori,
vista la poca durata della resistenza.
Nello stesso anno un altro castello isolato, quello di Tavi29, venne sottoposto ad
assedio e occupato dalle truppe regie grazie al tradimento di un mercenario della
Cansos de la Crozada, p. 557 v. 8208.
Cansos de la Crozada, p. 570 vv. 8450-8455.
25
Cansos de la Crozada, p. 570 vv. 8450-8455.
26
GRAVETT 1998, p. 46.
27
TODARO 2003, pp. 31-34; BEFFEYTE 2005, p. 90; SETTIA 2002, p. 123.
28
Cronica Sicilie, in GREGORIO 1791-1792, II, p. 172.
29
MIRTO 1986, p. 99.
23
24
574
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
guarnigione30: uno dei tanti episodi di apertura delle porte dall’interno di cui sono piene
le cronache medievali di tutta Europa31. Due traditori cercarono poi di consegnare agli
angioini, nello stesso anno 1300, il castello di Delia32, uccidendone il castellano e, non
soddisfatti dell’omicidio, violentandone la moglie e la figlia. Prima dell’arrivo di truppe
angioine, però, il cavaliere catalano Berenguer de Entença, futuro comandante della
Compagnia Catalana in Grecia, riuscì ad entrare nel castello da una postierla (“per
posticum”) con il favore delle tenebre, a prendere il controllo del castello e a giustiziare
i due traditori33. Anche l’ingresso da una porta fausa di aggressori o la fuoriuscita da
essa degli assediati è un topos ricorrente nelle cronache. Perché un gruppo di commandos
assedianti potesse penetrare in un castello attraverso una postierla era però necessario
avere fidate complicità all’interno delle mura: pensare all’esistenza di accessi secondari,
per quanto nascosti e stretti, non custoditi scrupolosamente dagli assediati è certamente,
quasi sempre, fuori dalla realtà.
Nel 1314, il 10 agosto, cadde in mano angioina, si disse per il tradimento del castellano,
l’importante castello di Castellammare del Golfo34. Non tutti i castellani, però, erano
così propensi a tradire e a intascare i trenta denari di Giuda. Ancora alla fine del XIV
secolo, dopo sessant’anni dai fatti rievocati, si ricordava una versione in parte romanzesca
dell’assedio del castello siciliano dell’isola tunisina di Gerba (1335-1337) e della fine
del comandante del presidio siculo-aragonese. Questi, tale Pere Sarroca, dopo una fallita
spedizione di soccorso comandata da Ramón Peralta interecettata da nemici angioini e
genovesi, si sarebbe lasciato morire “impassulatu et assiccatu supra li merguli… cum li
clavi in manu … in lu castellu di Gerbi”35. Per restare in ambito cinematografico, una
scena degna di Beau Geste, originale e remake, in cui i legionari morti continuano a
mantenere il loro posto, fucili in pugno, tra i merli del fortino sahariano assediato dai
nemici musulmani del XX secolo. In realtà, la morte di Pere Sarroca fu un poco meno
eroica e certamente meno crudele: morì infatti, durante l’assedio, insieme al figlio
maggiore, per ferite di dardi; mentre il presidio siciliano del castello di Gerba continuò
a resistere e si arrese solo dopo due anni e mezzo d’assedio da parte dei saraceni36.
Il castello di Gerba, ultimo lembo fluttuante del regno di Sicilia insieme alla torre
delle Kerkennah, fu spesso teatro di fatti militari. Fu conquistata già da Ruggero II e
quindi nel 1284 da Ruggero di Lauria che vi fece costruire il castello ed ebbe la signoria
dell’isola, poi passata a suo figlio, anch’egli di nome Ruggero o Rogeronus37. Il castello
esiste ancora, detto localmente Borj Ghazi Mustapha. Sorge nella parte nord dell’isola,
in riva al mare. É un grande edificio a pianta quadrangolare a corte centrale, con due
NICOLÒ SPECIALE, in GREGORIO 1791-1792, I, p. 395.
Ivi, pp. 410-411.
32
Ivi, p. 411. Sull’ariete cfr. BARDBURY 1992, pp. 274-275; GRAVETT 1998, pp. 49-50; NICOLLE 2002a,
p. 25; TODARO 2003, pp. 51-57; BRADBURY 2004, p. 304; BEFFEYTE 2005, p. 89; SAÉZ ABAD 2007, pp. 5051; NOSSOV 2012, 89-97.
33
NICOLÒ SPECIALE, in GREGORIO 1791-1792, I, p. 433.
34
Castelli medievali 2001, s.v.
35
NICOLÒ SPECIALE, in GREGORIO 1791-1792, I, p. 433.
36
Si veda NORRIS 2007, p. 148
37
Castelli medievali 2001, s.v.; SCUTO, FIORILLA 2010.
30
31
575
FERDINANDO MAURICI
torri ottagonali agli spigoli nord-est e sud-est e circolari sugli altri due ed ulteriori torri
lungo i quattro lati38. Un tardo discendente dei castra federiciani in quel lembo insulare
e settentrionale d’Africa. Per il regno di Sicilia nel XIV secolo, il castello di Gerba fu
una sorta di Fortezza Bastiani, con la ridotta avanzata rappresentata dall’ancor più solitaria
torre delle isole Kerkennah, forse da identificarsi con il sito archeologico di Bordj al
Hassar. Soltanto che il nemico, che a Bastiani non si vede mai, neanche quando è ormai
arrivato davanti le mura, a Gerba fu sempre pericolosamente presente.
Rogeronus de Lauria, approfittando delle discordie interne della popolazione isolana,
riuscì a rinsaldare il possesso del castello, assediato da truppe tunisine con quattro
trabucchi per oltre otto mesi. Alla sua morte, però, il castello delle Gerbe fu nuovamente
assediato dai musulmani; sedata la rivolta grazie all’arrivo di una flotta con a bordo
l’altro figlio di Ruggero di Lauria, Carlotto, essa riesplose dopo la sua partenza: in un
nuovo tentativo di riconquista morì Jaume de Castellar e il castello fu nuovamente
assediato39. Ulteriore spedizione di soccorso nel 1309 con Pellegrino (o Peregrino) di
Patti che però fu vinto, catturato e poté riscattarsi tornando nel castello al comando
della piccola guarnigione, ogni giorno sul punto di scannarsi per i favori delle donne
che erano nel presidio40. Il castello di Gerba era dunque un posto a dir poco pericoloso
e il suo castellano, dice Muntaner, doveva avere quattro occhi, quattro orecchie e mente
ferma e solida. Ciò in primo luogo per la vicinanza alla Tunisia e la lontananza dalla
Sicilia, da cui solo potevano giungere aiuti: un castellano che alle Gerbe sonnecchiasse
sarebbe stato presto svegliato da triste suono, ancora secondo Muntaner41 . Dopo la
sconfitta di Pellegrino di Patti, il castello venne questa volta soccorso validamente da
Ramón Muntaner e da Corrado Lancia che sconfissero i ribelli: lo stesso Muntaner
divenne signore dell’isola e delle Kerkennah, portando con sé due fidati cugini, Joan
Muntaner e Guillem Ses-Fabrègues che fu messo al comando delle Kerkennah. En
Ramón, intanto, si recava prima in Sicilia e poi a Valenza a prendere la sua donna,
quindi a Maiorca, poi nuovamente in Sicilia, a Trapani dove lasciò la moglie, e a
Montalbano ove incontrò re Federico III, per tornare infine a Gerba e godersi i frutti
della sua signoria42. Ma i pericoli erano sempre in agguato, in un luogo così isolato. Nel
1314, mentre gli angioini assediavano Trapani, contro Gerba e contro Ramón Muntaner
fu spedita una flotta al comando di Berenguer Carros con ben sessanta galere, quattrocento
cavalieri e quattro trabucchi, almeno a stare al resoconto dello stesso Ramón. Avvertito
per tempo dalla Sicilia, Muntaner, da sperimentatissimo uomo di guerra, noleggiò una
nave e vi imbarcò le donne e i bambini, compresa la sua sposa e i suoi figli che aveva
riportato a Gerba, spedendoli al sicuro a Valencia. Colmò d’acqua le cisterne e altri
contenitori, fece innalzare trabucchi e manganelli e riempì il castello di quanto era
necessario a sostenere un lungo assedio. Confermò inoltre il patto d’alleanza con una
delle fazioni islamiche dell’isola. La spedizione angioina venne però richiamata a Trapani
e il pericolo di un nuovo assedio svanì43.
NICOLÒ SPECIALE, in GREGORIO 1791-1792, I, p. 433.
Su cui cfr. INTERNICOLA 2015.
40
VARVARO 1984, p.11.
41
VARVARO 1984, p. 32.
38
39
576
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
Nel 1366 Federico IV nominò Giovanni Chiaramonte conte di Caccamo (o
Chiaramonte, com’era allora anche detta quella terra siciliana) capitano e castellano di
Gerba e delle Kerkennah, da riconquistare, dopo la loro caduta del 1337 e la morte di
Pere Sarroca. Il privilegio fu sfruttato solo da Manfredi III Chiaramonte che nel 1388,
d’accordo con gli altri vicari e con forze di Genova, Pisa e Venezia, intraprese una
grande spedizione navale che portò alla momentanea rioccupazione delle isole tunisine.
Non dovette però durare a lungo, se nel 1393 Martino il Vecchio ne chiederà la restituzione
al sovrano Hafside di Tunisi44.
Tornando ai fatti militari del 1314, poco dopo la presa di Castellammare del Golfo,
anche Trapani veniva stretta d’assedio45. L’occupazione angioina di Castellammare del
Golfo durò alcuni anni, costituendo una pericolosa spina nel fianco dello schieramento
siciliano. Con il suo porto e con le spiagge vicine, dov’era facilissimo sbarcare avendo
davanti un paesaggio collinare sostanzialmente privo di grandi ostacoli naturali fino
all’entroterra e addirittura fino all’opposta costiera meridionale, Castellammare poteva
divenire una pericolosa base per tentativi in forze di conquista: era una strada aperta per
“haver tota la Sicilia”46. Nel 1316, in previsione dell’azione militare finalizzata al
recupero di quel castello, re Federico III ottenne dalla città di Palermo un prestito di 200
onze per la costruzione di una torre di legno: la restituzione della somma venne richiesta
l’anno successivo47. Non sappiamo quali fossero le caratteristiche di questa torre di
legno ma si può supporre che appartenesse al tipo più frequentemente messo in azione:
forse mobile, su ruote o su rulli, realizzata in legno verde per preservarla dal fuoco e
allo stesso scopo ricoperta di pelli animali fresche, con feritoie e altre protezioni per
arcieri e balestrieri, diversi piani collegati da scale e probabilmente dotata anche di un
ponte levatoio per permettere l’attacco diretto alle mura48. In ogni caso, visto il debito di
ben 200 onze contratto dal re, doveva essere una torre imponente, per la costruzione
della quale fu necessario senza dubbio molto legname, molte pelli e soprattutto grande
perizia tecnica al fine di realizzare una macchina che fosse al tempo stesso il più resistente
possibile ai tiri del nemico ma il più possibile leggera e manovrabile per facilitare il
difficile compito degli assalitori. Le operazioni militari contro Castellammare del Golfo
iniziarono il 1° marzo 131649. Secondo il cronista Nicolò Speciale: “Fredericus rex
castrum illud jam pluribus et diversis undique machinis conquassatum, variisque
bellorum insultis superatum, funditus evertebat”50. Com’era facile supporre, la grande e
costosa torre non fu l’unica machina messa in campo dai siciliani; certamente ne entrarono
in azione altre da getto, visto che Castellammare fu “undique machinis conquassatum”.
Il 13 aprile, attacco generale siciliano; il giorno dopo il presidio angioino si arrese. Una
MUNTANER, CXVII. CCXXVIII.
DJELLOUL 1999, pp. 65-66.
44
MUNTANER, CCXLIX.
45
MUNTANER, CCL. VARVARO 1984, p.
46
MUNTANER, CXVII; VARVARO 1984, p. 35.
47
MUNTANER, CCLV.
48
MUNTANER, CCLIX.
49
MIRTO 1995, pp. 250-251.
50
MIRTO 1986, p. 159.
42
43
577
FERDINANDO MAURICI
flotta angioina di trentadue galere spedita in rinforzo da Napoli giunse troppo tardi:
soldati e marinai poterono solo sfogare la propria delusione con qualche inutile azione
di disturbo e gusto nell’area di Milazzo51.
Nel maggio 1325 cominciò il grande assedio angioino di Palermo, terminato con
esito negativo e grande dispendio di vite umane, forze e denari da ambo le parti. Terminò
il 19 giugno con il ritiro delle forze angioine: di esso non mi occuperò qui, rimandando
alle pagine di Corrado Mirto52. Nonostante il vano tentativo contro la capitale di otto
anni prima, l’8 marzo 1333 gli angioini, grazie, more solito, al tradimento di alcuni
uomini del presidio, riuscirono ad impadronirsi del Castellammare di Palermo, il fortilizio
che, almeno da epoca islamica, controllava il porto della città. Un tentativo popolare e
disorganizzato di attaccare il castello fu provvidenzialmente bloccato dagli aristocratici
presenti in città che, da sperimentati uomini di guerra, compresero subito la necessità di
pianificare un assedio in piena regola. Come prima operazione, fu iniziata l’erezione di
un muro destinato ad isolare il castello dalla parte della città, per prevenire colpi di
mano contro di essa e offrire riparo agli assedianti. Contemporaneamente si cominciava
la costruzione delle necessarie macchine ossidionali. La consueta penuria di denaro
obbligò l’Universitas a contrarre debiti con privati cittadini. Si poterono così completare
il muro e innalzare ben tredici trabucchi che iniziarono a martellare il Castellammare. Il
bombardamento ebbe successo e gli assediati chiesero e ottennero una tregua fino alla
mezzanotte dell’11 aprile; dopo di che, in mancanza di soccorsi, avrebbero avuto la
possibilità di reimbarcarsi sani e salvi, circostanza che in effetti si verificò. Il 12 aprile
1333 l’assedio del Castellammare di Palermo aveva fine ed esso tornava sotto controllo
siciliano53 .
Alla fine del 1337 ebbe inizio la ribellione di Francesco Ventimiglia conte di Geraci
che era stato fedele alleato di Federico III ma, dopo la morte del sovrano, entrò in urto
con il pur paziente e diplomatico successore Pietro II. Il 1° gennaio 1338, dopo un
estremo tentativo di riconciliazione, lo stato di guerra contro il conte ribelle venne
dichiarato con squilli di trombe e spiegamento di vessilli, muovendosi l’esercito regio
contro Geraci. Gli abitanti di quest’ultima si schierarono però rumorosamente dalla
parte del re. Il castello di Geraci venne isolato con barricate di botti, legname e pietre54.
Il conte Francesco, dopo essere uscito nel vano tentativo di sedare la folla, cercò di
asserragliarsi nuovamente nel castello ma cadde da cavallo in un dirupo e venne ucciso:
la sua sola morte bastò a sedare completamente la ribellione e ad evitare un prevedibile
assedio del castello di Geraci. All’alba dell’11 maggio dello stesso anno 1338 potenti
forze angioine presero terra sulle spiagge fra Cefalù e Termini, occupando Gratteri e
Brucato ed andando ad assalire la forte e popolosa terra di Termini. Sottoposta a duro
assedio, bombardata da ben nove machinae e ridotta alla sete nel mezzo della calda
MUNTANER, CCVIII.
MIRTO 1986, p. 162.
53
Sulle torri d’assedio si veda BRADBURY 1992, pp. 241-250; ROGERS 1992, p. 253; GRAVETT 1998, pp.
32-46; NICOLLE 2002a, pp. 26-29 TODARO 2003, pp. 97-112; BRADBURY 2004, p. 300; SAÉZ ABAD 2007, pp.
124-129; NORRIS 2007, pp. 211-214; HINDLEY 2009, pp. 48-49; GISSEROT 2017, pp. 82-85; NOSSOV 2012,
pp. 103-115
54
MIRTO 1986, p. 164.
51
52
578
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
estate siciliana, Termini capitolò il 27 agosto. Il castello invece, oggi distrutto ma della
cui forza e grandezza sono testimonianza eloquente alcune immagini cinque e
seicentesche, anche grazie alle grandi cisterne e quindi alle abbondanti riserve idriche55,
continuò a resistere fino al ritiro degli angioini nell’ottobre 1338. Poco dopo iniziava da
parte delle truppe regie anche l’assedio del castello di Lentini.
Qui si era rinchiuso, con grande copia di armi, munizioni e viveri56 , il conte di
Garsiliato, Ruggero di Passaneto, che si era impadronito di un tesoro di Franceschello
Ventimiglia, figlio del defunto conte, da lui tenuto in ostaggio, e spettante al re per
diritto di confisca. Bastarono alcuni giorni di lancio di massi con un machinum che
“totum ipsius castri ambitum conquassabat”, compreso il ridotto detto la guardiola
centrato da uno specialista di tiro con il trabucco, per ottenerne la resa57: probabilmente
l’interesse del Passaneto al tesoro dei Ventimiglia non era condiviso dai difensori che
non avevano alcuna voglia di farsi ammazzare per proteggere l’indebito arricchimento
del conte. La coesione degli assediati ed il loro interesse comune alla difesa era
evidentemente una condizione ineludibile per una efficace e prolungata resistenza. Con
una certa velocità vennero recuperati dalla parte regia anche i castelli di Gratteri, dove
mori per un colpo di balestra il nobile Pietro Lancia, e quello di Brucato, che verrà
abbandonato58 .
Altra Blitz Belagerung si sarebbe verificata nel novembre 1342, quando il castello
del Salvatore, nella zona falcata di Messina, occupato da insorti messinesi e da angioini,
venne assalito per terra e per mare dai siciliani (“virilmenti assediando”)59 con appoggio
di una nave catalana ed una genovese e riconquistato rapidamente dopo aspri
combattimenti60. Ciò nonostante il castello fosse stato “di omni monicioni fornito”61 e
munito garidis lignei, di garitte di legno o forse verdesche, che però genovesi e catalani
distruggevano violenter dalle navi usando allo scopo rampini. Altri soldati lottavano
contro i messinesi ribelli ed i loro alleati angioini da castelli lignei accostati alle mura.
Altri ancora scalzavano le murature con picconi ed altri strumenti, dando poi fuoco con
pece alle impalcature lignee (percas ligneas) realizzate. Il tipo più antico e classico di
mina: scavo sotto o dentro le mura, erezione di sostegni lignei e rogo finale per provocare
il collasso delle murature. I regi “fractis muris et combustis januis intus, ballium sunt
ingressi”: conquistato il cortile esterno (ballium), anche gli ultimi difensori cedettero; il
castello fu consegnato con successiva esecuzione di alcuni dei traditori62.
In vista di operazioni militari contro la Sicilia l’anno seguente, nel novembre 1340,
re Roberto d’Angiò ottenne l’invio da parte degli alleati guelfi fiorentini di alcuni esperti
nella costruzione di macchine d’assedio63. Tale categoria di specialisti era molto ricercata,
In GREGORIO 1791-1792, p. 471.
MIRTO 1986, p. 164.
57
MIRTO 1986, pp. 181-183.
58
MIRTO 1986, pp. 202-204.
59
MICHELE DA P IAZZA, p. 58.
60
MIRTO 1986, pp. 224-226.
61
MICHELE DA P IAZZa, cap. 17, p. 66.
62
MICHELE DA P IAZZA, cap. 18, pp. 67-68; MIRTO 1986, p. 227.
63
Cfr. BRUCATO 1984.
55
56
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FERDINANDO MAURICI
onorata, ben pagata64 e, in caso di cattura, essi erano spinti con le buone - lauti salari - o
con le cattive a collaborare con il nuovo datore di lavoro. Nel 1341 tali preparativi si
concretizzarono in un attacco angioino contro la terra ed il forte castello di Milazzo,
considerato con paretimologia il lacium o capestro di Messina65, sotto i quali gli angioini
posero i loro accampamenti che, come era consueto, vennero fortificati66 per resistere a
sortite e interventi dall’esterno in aiuto degli assediati. La costruzione di accampamenti
fortificati o di veri e propri castelli d’assedio di legno o anche di pietra per mettere al
sicuro le truppe attaccanti era una consuetudine militare consolidata. Lo prova in modo
impressionante, proprio in Sicilia, il grande accampamento cinto da robuste mura turrite
di pietra che Federico II imperatore fece erigere fra 1221 e 1222 contro la città di Iato,
tenuta dai musulmani ribelli e di cui ho già detto. La decisa resistenza dei milazzesi
riuscì anche a scacciare gli uomini di guardia ad una grande torre di legno costruita
dagli assedianti: un colpo di mano notturno vide infatti la conquista da parte siciliana
della macchina e la fuga precipitosa dei difensori al grido, probabilmente in dialetto
napoletano, di aiutu, aiutu67. Anche l’anno successivo, 1342, registrò un tentativo siciliano
di rompere l’assedio di Milazzo che però si infranse, ancora una volta, contro gli
accampamenti fortificati dei napoletani68. Alla fine, prostrata anche psicologicamente
dalla morte di re Pietro II di Sicilia (15 agosto 1342), nell’ottobre di quell’anno Milazzo
capitolò a condizioni vantaggiose, trasformandosi per alcuni anni in una dolorosa e
pericolosissima spina nel fianco della Sicilia. Essa verrà estirpata dal vicario Giovanni
d’Aragona, marchese di Randazzo, che aveva posto le sue basi a Santa Lucia del Mela,
quasi certamente nel castrum Maccarruni, solo nell’agosto 1346, sembra grazie al
pagamento al castellano e al capitano angioini della città della cospicua somma di duemila
onze69. Ennesimo caso di corruzione dei comandi nemici e conseguente ottenimento
della resa di una piazza assediata, in questo caso una terra et castrum, senza ulteriori
perdite di vite umane e dispendio di assai più ingenti risorse economiche. Denaro speso
bene, in conclusione, dal punto di vista dei corruttori; prezzo vile del tradimento, a
voler guardare i fatti dall’opposta prospettiva. L’anno dopo anche l’assedio di Lipari,
occupata dagli angioini, si concluse con il successo dei siciliani di parte regia, guidati
da Raimondo Peralta70. Era l’ultimo lembo di terra siciliana rimasto in mano al nemico.
Continuavano però le defezioni interne e i passaggi dalla parte dei Chiaramonte. Nel
1343 si ribellarono al potere regio Castrogiovanni (oggi Enna), Cefalù e Nicosia. Le
loro forze andarono a San Filippo di Argirò (oggi Agira). Entrarono senza resistenza
nella terra “et volentes castrum dictum eorum sumictere jurisdictioni, ipsum undicque
fortis obsiderunt. Castrum vero nimis erat inexpugnabile, pro eo quod erat in cacumine
dicte terre constructum, et tere predicte undique dominabatur. Unde si dictutm castrum
fuisset aqua et comestibilibus communitum, adversus omnes hostes se defenderet et
Anonymi Historia Sicula vulgari dialecto conscripta, in GREGORIO 1791-1792, p. 281.
MIRTO 1986, p. 254.
66
Anonymi Historia Sicula vulgari dialecto conscripta, in GREGORIO 1791-1792, p. 273.
67
M ICHELE DA PIAZZA, cap. 25, p. 79.
68
MIRTO 1986, p. 244.
69
CONTAMINE 1986, p. 270.
70
MICHELE DA PIAZZA, cap. 20, p. 70
64
65
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VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
optineret incessanter. Sed nihilominus dum habutit necessaria, adversus hostes predictos
se viriliter defendebat”. Era castellano di San Filippo tale Ferraronus (Ferran) de Bella
(quasi certamente de Abella), catalanus, che bombardò con macchine da lancio le case
della terra più vicine al castello, costringendo gli abitanti a ritirarsi nella parte più bassa
dell’abitato. Mancanza di acqua e di cibo lo indussero però a patteggiare la resa, avendo
salva la vita e potendo ritirarsi a Catania71.
L’assedio di un castello, e ancor di più quello di una terra o di una civitas costava,
oltre che vite umane e tempo, somme di denaro che potevano essere molto considerevoli
e, con il prolungarsi dell’assedio, aumentare sempre di più. Quasi certamente i siciliani
del XIV secolo, anche la classe dominate e gli stessi sovrani, ignoravano la frase di
Cicerone “nervos belli, pecuniam infinitam”. Per evidenti e ovvi motivi non potevano
ancora sapere che, come dirà Montecuccoli, per vincere una guerra occorrono tre cose:
denaro, denaro e ancora denaro. Ma altrettanto di sicuro non mancava loro l’esperienza
pratica in tal senso. Ne abbiamo un esempio documentato per gli assedi dei due castelli
di Cefalà e Vicari nel 1349. Ai fatti ho già accennato. Dopo il Vespro anticatalano di
Palermo nel luglio 134872 , i catalani e i partigiani della fazione catalana scampati
all’eccidio si rifugiarono nei castelli di Cefalà e Vicari, entrambi lungo la strada PalermoAgrigento, e di là conducevano scorrerie fino alle porte della capitale. L’Universitas di
Palermo decise di mettere sotto assedio Vicari e il conte Matteo Sclafani, signore di
Ciminna, località non lontana da Vicari, fu incaricato di spedire truppe a cavallo e a
piedi; lo stesso appello ricevette l’Universitas di Cimina 73; così pure l’Universitas
demaniale di Corleone74 e quella feudale di Prizzi, anch’esse relativamente vicine al
teatro d’operazioni. Le truppe furono messe sotto il comando di Federico de Bicaro,
Pretore di Palermo e signore della località occupata75; della qual cosa vennero informate
ufficialmente le Universitates di Palermo, Castronuovo, Cammarata e Prizzi76 . L’8
gennaio 1349 il notaio Leonardo de Bartholomeo fu nominato tesoriere delle 100 onze
destinate agli stipendi degli armigeri di stanza all’assedio di Vicari77. Il 28 gennaio 1349
la città di Palermo approva alcuni pagamenti autorizzati verbalmente dal tesoriere
Leonardo de Bartholomeo. Fra gli altri risultano a libro paga un mastro Vitale sutor, un
Bartolomeo panettiere, un accimator, letteralmente un addetto al taglio delle cime e alla
rasatura dei tessuti di lana; calderai, fabbri78. I balestrieri ricevevano 4 fiorini l’uno al
mese. Un corriere spedito a Castronovo, Prizzi, Cammarata, Castronuovo, Prizzi costò
8 tarì. Un trombettiere o tubectator chiamato mastro Giovanni Cornamusa (nomen omen)
avrebbe ricevuto il medesimo stipendio d’un balestriere. Furono confezionati due
stendardi, uno con le armi reali, l’altro con le insegne della città di Palermo con 45
palmi di zendado (tessuto di seta) giallo (oro) e rosso (i colori di Palermo )che costò 1
MIRTO 1986, p. 247.
MIRTO 1986, p. 245.
73
MIRTO 1986, p. 247.
74
MIRTO 1986, p. 275.
75
MIRTO 1986, p. 280.
76
MICHELE DA PIAZZA, pp. 93-95.
77
Cfr. TRASSELLI 1951; Mirto 1995, pp. 19-20.
78
Acta Curie 8, docc. 58 e 59, pp. 74-76 gen. 9.
71
72
581
FERDINANDO MAURICI
tarì a palmo, per un totale di onza 1 e tarì 15. Le aste delle due bandiere costarono 3 tarì
ed altre spese minute per esse (cuciture, guaine, cordini, frange) ammontarono a 1 onza
e 11 tarì. Furono pure acquistati tre fanali (fanari) di ferro nuovi e uno usato per 11 tarì;
duecento coltelli per 6 tarì, due lanterne per 2 tarì e 10 grana: la riparazione della tromba
costò grana 10. Il tutto per un primo totale di onze 39, 20 tarì e 4 grana.
Il 12 febbraio 1349 venne richiesto a Corleone l’invio di quindici cavalieri e trenta
fanti79. Il 7 di marzo 1349 venne rimosso dall’incarico di capitano Federico de Bicaro e
nominato al suo posto come “capitaneum, rectorem et ducem” il miles Gandolfo de
Pontecorona80 o Pontecorono, di antica famiglia corleonese di origine lombarda o meglio
piemontese (Pontecurone, presso Tortona, provincia di Alessandria)81. Il 15 maggio il
conte di Modica Manfredi II Chiaramonte chiese a Corleone l’invio di quindici cavalieri
e trentacinque fanti e altri armati furono chiesti a Cammarata e Castronuovo82. L’ordine
fu reiterato il 2 giugno ed il 9 Corleone fu aspramente rimproverata per non avere inviato
le truppe richieste83. Il 6 giugno 1349 conto di onze 65, tarì 21 e grana 10 spesi dal
notaio Bartolomeo de Alamanna dietro ordine verbale84. Fra le altre spese, 2 onze al
notaio Pietro de Baldo “in deferri faciendo trabucto vocato lo straxinato a dicta urbe
[Panormi] usque ad locum dicte obsidionis”. U straxinatu, il trascinato o il tirato sopra
uno strascinu, che allora non era il carro a ruote per carichi pesanti che diverrà più tardi
ma una sorta di grande treggia, una slitta gigante. L’uso, tutto militare, di affibbiare
nomignoli umoristici o vezzeggiativi alle macchine da getto medievali85 passerà poi ai
cannoni. Settia enumera una serie di macchine, baliste, trabucchi e poi bombarde cui
vennero dati nomi propri irridenti il nemico o affettuosi: la Mala Vicina impiegata a
Acri nel 1191 da Filippo Augusto di Francia, contrapposta alla Mala Cognata dei turchi;
il trabucco detto Vattelana (Battilana) di Orvieto nel 1294; la balista Lupa dei modenesi
nel 1306; i vari trabucchi, ognuno con nome proprio, schierati da Eduardo I d’Inghilterra
all’assedio del castello di Stirling nel 1304. E quindi le bombarde quattrocentesche
Spazacampagna, l’Ardie, Dame Loyse dei principi d’Acaia in Piemonte. Ed ancora la
Corona, Bissona, Liona e Galeazasca che facevano parte del parco d’artiglieria del
ducato di Milano nel 147486. Per la Sicilia del primo XV secolo possiamo ricordare una
bombarda detta Gazzella ed una Blanca. Come si vede l’usanza era diffusa nel tempo e
nello spazio, durando oltre i mortai Krupp da oltre 9 km di gittata, detti Dicke Bertha o
Fleissige Bertha (Berta la zelante), impiegati contro i forti belgi e francesi e contro le
difese russe sul Danubio all’inizio della I Guerra Mondiale. E ai mostruosi Pariser
Kanonen (cannoni di Parigi) o Kaiser Wilhelm Geschützen (cannoni del Kaiser
Guglielmo), capaci di una gittata fino a 130 km con un’altezza raggiungibile di 40 km,
Acta Curie 8, docc. 60, pp. 79-78.
STARRABBA 1884, pp. 158-160; Acta Curie 8, doc. 72, pp. 94-95. Su Federico de Bicaro cfr. MARRONE
2006, p. 82.
81
Acta Curie 8, docc.74-75, pp. 95-97.
82
Acta Curie 8, doc. 55, pp. 70-71.
83
Acta Curie 8, doc. 71, pp. 91-93; Starrabba 1884, pp. 162-163.
84
Acta Curie 8, doc. 78, pp. 101-102.
85
STARRABBA 1884, p. 165; Acta Curie 8, docc. 89-90, pp. 115-117.
86
Cfr. I Lombardi a Corleone.
79
80
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VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
che dalla stratosfera fecero piovere bombe su Parigi nel 1918. Una sopravvissuta alla
sconfitta tedesca del 1918, la Große Gilda, tuonò ancora contro Sebastopoli e poi contro
gli insorti di Varsavia nella II Guerra Mondiale. La cui fine, è notissimo, si deve alla
bomba atomica Fat Men (Grassone) sganciata il 9 agosto 1945 su Nagasaki e a quella,
chiamata Little Boy, lanciata su Hiroshima il 6 agosto da un B 29 americano, battezzato
a sua volta Enola Gay, il nome della madre del pilota. Dopo secoli dalla Mala Vicina e
dalla Mala Cognata del 1191, per terrificanti armi di distruzione di massa ancora nomi
vezzeggiativi e irridenti; i quali, ovviamente, non possono far ridere nessuno.
Il trasporto di un trabucco, verosimilmente grande, per quanto molto probabilmente
smontato, da Palermo a Vicari (oggi 62 km) dovette essere impresa difficile e pericolosa.
Cinquecento verrettoni di balestra furono pagati all’ebreo Iusifo (Giuseppe) Riccio tarì
20. Il salario di quarantadue balestrieri e ottantaquattro pavesati (armigeri muniti di
grande scudo o pavese) a partire dal 3 giugno era di tarì 19 e grana 10 per un balestriere
e tarì 15 per un pavesato al mese, per un totale di onze 48 e 9 tarì di cui onze 13 prestate
da Bartolomeo de Columba. Ventidue cavalieri impiegati per dieci giorni costarono, a
tarì 1 ciascuno al giorno, onze 7 e tarì 10. Altri dieci cavalieri pagati allo stesso modo e
venti fanti pagati grana 10 al giorno l’uno costarono in tutto onze 6 e tarì 20. Il 12
giugno l’assedio continuava e bisognava rimborsare al giudice della Corte Pretoriana di
Palermo Bartolomeo de Altavilla le somme da lui anticipate, attingendo alla cassa della
gabella della bocceria (macello e mercato delle carni) di Palermo per il “negocium
obsidioni castri et terre Bicari”87. Bisognava inoltre stringere i tempi perché, vista la
stagione, c’era il pericolo che i nemici dessero fuoco ai raccolti nel circondario88. Il 23
giugno si ordinava al tesoriere dell’Universitas di Palermo di restituire al miles
Bartolomeo de Columba onze 10 e tarì 19, resto di una somma maggiore da lui anticipata
per le spese dell’assedio ed in particolare per il salario di dodici armigeri89.
Il 23 giugno l’Universitas di Palermo approvò la spesa di 65 onze e 21 tarì erogate
dal notaio Bartolomeo de Alamanna per l’assedio di Vicari90. Troviamo di nuovo Federico
de Bicaro, Pretore di Palermo, come “capitaneus felicis exercitus obsidionis Bicari” e a
lui si devono 7 onze in perreali d’argento per spese e salari di armigeri91. Per il trasporto
di sei letti per i figli del conte Raimondo Peralta (noblesse oblige) furono pagati al già
citato ebreo Iusefo tarì 18. Un messaggero al re costò onza 1 e 10 tarì; un altro messo al
re tarì 18 e grana 10. Solo 8 tarì per un messaggero ai paesi vicini, più altre spesucce per
2 onze, 15 tarì e 1 grano92. Il 27 giugno, per far fronte alle spese, si vendettero la gabella
del vino, olio e sale di Palermo per un anno per onze 60 e quella della notaria o maestrato
di piazza per quattordici mesi per onze 3093. L’8 luglio vennero stanziati 10 onze “circa
edificacionem et fabricam machinarum seu trabuctorum” da “erigi et opponi contra
Acta Curie 8, docc. 135-137, pp. 178-180
STARRABBA 1884, pp. 173-174; Acta Curie 8, docc. 145-147, pp. 190-191.
89
Acta Curie 8, doc. 153, pp. 196-200.
90
SPENCER 2018, p. 162.
91
SETTIA 2002, p. 129.
92
Acta Curie 8, doc. 156, pp. 202-204.
93
STARRABBA 1884, pp. 171-172.
87
88
583
FERDINANDO MAURICI
castrum Bicari et ad expugnationem ipsius quod ab hostibus infelicibus detinetur”94. Il
giorno dopo si richiesero trenta uomini a Corleone o, in cambio, 15 onze in denaro; 7
onze e 5 tarì rispettivamente a Cammarata e a Castronuovo; 5 onze a Prizzi95. Non è
superfluo notare che in questi conti non compaiono mai armi da fuoco, apparse in Europa
già da almeno circa tre lustri. Non si tratta di un completo redde rationem, come ben si
può vedere, ma conti vari, lacunosamente ma fortunatamente conservatisi e che comunque
danno un’idea degli alti costi di un assedio.
È possibile che Vicari si sia arresa - meno probabilmente che sia stata espugnata prima della fine dell’estate 1349, perché almeno dal 12 settembre la guerra si era spostata
all’assedio di Cefalà. Almeno dal 12 settembre 1349 le operazioni coinvolsero infatti in
pieno anche il castello di Cefalà perché il tesoriere di Palermo, Recupero Guidi, pagò
onze 3 e tarì 15 per quattordici armigeri spediti alle frunteri di Cefalà e Vicari per otto
giorni a tarì 7.15 l’uno al giorno96.
Alla fine di settembre si strinse ulteriormente l’assedio al castello di Cefalà con
l’arruolamento, il 28 del mese, di ben ottanta balestrieri per i cui salari erano stanziati
100 fiorini97. Il 6 ottobre 1349 vennero pagate 5 onze e 9 tarì per spese dell’assedio di
Cefalà98. Il 7 ottobre altro pagamento di onze 25 per armigeri all’assedio di Cefalà99. Il
10 novembre 1349 si assegnarono onze 3 e tarì 20 a Puccio Rubeo custode del magazzino
della città dove si conservavano i trabucchi e le macchine spedite all’assedio di Cefalà100.
Il giorno dopo furono assegnate al conte Manfredi Chiaramonte 20 onze per spese
sostenute durante l’assedio del castello di Cefalà, da pagarsi per due terzi dalla città di
Palermo e per un terzo dai Chiaramonte stessi101. Il 13 dello stesso mese fu chiesto al
tesoriere Pietro de Peregrino di approvare il pagamento di 20 onze a Manfredi
Chiaramonte per il soldo di 10 balestrieri genovesi arruolati per un mese “ad confusionem
hostium” e spediti a Corleone102.
Un anno dopo, nel dicembre 1350, l’assedio di Vicari sembrerebbe terminato. Erano
però sorti malumori fra palermitani e abitanti di Vicari perché Francesco Valguarnera
fece “gittari lu bandu in Bicari ki non chi divissi andari nullu palermitanu, di ki savuta
la viritati dichi ki fici gittari lu dittu bandu in perzò ki li homini di Cammarata e di
Bicari eranu in Palermu e forundi cachiati et prisi loru vesti”. Il conte di Adrano e
signore di Ciminna Matteo Sclafani, che scriveva da Ciminna alle autorità di Palermo,
commentava: “si ki per kistu casu fichi gittari lu dittu bandu, per la quali cosa omni
persuna po fari zo ki li plachi in terra sua”. Nonostante ciò, continuava lo Sclafani:
“tantu nui quantu kisti altri nobili homini palermitani ki su iza vulimu la pachi et
observari la dicta pachi”. Quindi vigeva la pace. Per questa ragione, Matteo Sclafani
STARRABBA 1884, pp. 172-173; Acta Curie 8, doc. 162, pp. 211-212
Acta Curie 8, doc. 163, pp. 212-215.
96
STARRABBA 1884, p. 175; Acta Curie 8, doc. 165, p. 216.
97
STARRABBA 1884, pp. 177-178.
98
STARRABBA 1884, pp. 180-181.
99
Acta Curie 8, doc. 172, pp. 228-229.
100
STARRABBA 1884, p. 190; Acta Curie 8, docc. 176-179, pp. 232-234.
101
STARRABBA 1884, pp. 189-190; Acta Curie 8, doc. 217, pp. 281-283.
102
Acta Curie 8, doc. 226, pp. 293-294
94
95
584
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
avrebbe scritto al Valguarnera, “ki credimu kindi farrà zo ki nui vurrimu”103. Rapporti
tesi e reciproche ritorsioni fra palermitani e vicaresi, quindi, ma apparentemente almeno
non più stato di guerra come un anno prima.
Il castello di Cefalà risulta recuperato e in mano di Matteo Perollo, capitano di
Ciminna, certamente il 5 settembre 1356104 ma non sappiamo esattamente quando e in
che condizioni ciò sia avvenuto: il Perollo ne avrebbe mantenuto il possesso e lo avrebbe
custodito fino a quando non sarebbe stato rimborsato delle spese sostenute105. L’assedio
di un castello, in definitiva, se protratto nel tempo, poteva divenire un inghiottitoio
carsico di denari, mettendo in difficoltà le economie anche di una grande città come
Palermo e di un casato ricchissimo come quello dei Chiaramonte. Ciò, ovviamente, non
mettendo nel conto il numero di vite umane perse, sulle quali non abbiamo alcuna
informazione.
Armi, armature e artiglieria pirica nella seconda metà del Trecento
L’armamento da guerra nella Sicilia del secondo XIV secolo è straordinariamente
documentato da un monumento pittorico.
Parlo della decorazione del soffitto ligneo della Sala Magna del palazzo Steri (da
Hosterium) della famiglia Chiaramonte. Essa fu iniziata nel 1377 e completata il 1°
luglio 1380, come ci informano le scritte dipinte insperatamente precise che aprono e
chiudono il grande ciclo pittorico106. Autori del grande ciclo, attestati da firme, furono
Mastru Simuni pinturi di Curigluni (Corleone) Mastru Chicu pinturi di Naru (Naro,
oggi in provincia di Agrigento) e Pellegrino Darena di Palermo, oltre ad altri maestri ed
aiutanti anonimi cui Bologna attribuisce alcune determinate parti.
Il soffitto ha forma piana e ricopre per intero la superficie della sottostante sala
misurando circa 27,50 m x 8,50. Lo divide in due una gigantesca spina dorsale su cui
poggiano ventiquattro travi alla prima perpendicolari e impostate su mensole lignee
dall’una e dall’altra parte della sala. Il ciclo pittorico si distende sulle travi mediane,
su parte della struttura centrale, sui cassettoni e sulle mensole per un totale di 298
unità.
Uno schema grafico di rappresentazione e descrizione del soffitto, già presente nel
lavoro di Gabrici e Levi, è stato adottato da Bologna e ripreso nel rilievo fotogrammetrico
edito nel 2009. Ovviamente sarà seguito anche in queste pagine. Il soffitto dipinto dello
Steri dovette essere concepito, secondo la felice espressione di Levi, seguito da Bologna,
da “una mente organica”107; forse il filosofo, logico e medico Perino da Corleone, uomo
di fiducia del committente Manfredi III Chiaramonte108. L’occasione per la realizzazione
del grande ciclo pittorico fu forse il matrimonio fra lo stesso Manfredi Chiaramonte ed
Eufemia Ventimiglia109.
Acta Curie 8, doc. 232, pp. 301-302.
Acta Curie 8, doc. 233, pp. 302-303.
105
Acta Curie 8, doc. 269, p. 343.
106
Starrabba 1884, pp. 191.193; Acta Curie 8, doc. 271, pp. 345-346.
107
Acta Curie 8, doc. 272,pp. 346-347.
108
Acta Curie 9, doc. 19, pp. 24-25.
109
COSENTINO 1886, p. 391 doc. DXXXIII.
103
104
585
FERDINANDO MAURICI
Il repertorio figurativo attinge al ciclo troiano, fino al ratto di Elena e alle sue nozze
con Paride, al ciclo di Enea (morte di Didone) e ad altri episodi della tradizione antica
(Giasone e Medea), alla leggenda di Tristano e Isotta, alla storia di Elena di Narbona,
ovviamente alla Bibbia (il giudizio di Salamone; la storia di Susanna; la storia di Giuditta;
Davide e Golia e l’ulteriore episodio di Uria; l’Apocalisse di Giovanni), oltre a scene
d’amore, di caccia, fanciulle musicanti, duelli. Ed ancora un “pullulare di «drôleries» e
di scene minori, dove non pochi sono gli spunti che riconducono al tema iniziale; quello
dell’accostamento per contrapposizione fra il momento femminile e il maschile”110, ben
adatto all’ipotetica occasione nuziale verosimilmente all’origine del ciclo pittorico. Alla
base della possibilità d’utilizzazione delle pitture dello Steri per uno studio su armi ed
armature in uso in Sicilia verso il 1380 sta ovviamente il principio di disgiunzione, per
cui un personaggio della storia antica è presentato di regola in panni moderni …
Alessandro o Salomone non si distinguono da Tristano o da san Luigi di Francia”111.
Armi ed armature sono riprodotte copiosamente nelle pitture del soffitto dello Steri,
soprattutto nelle scene troiane ed in quelle bibliche ma non solo, presentando un ricco
campionario particolarmente prezioso per un’epoca in cui la documentazione scritta per
questo specifico aspetto non è di certo ricchissima, come invece avverrà a partire fin dai
primi del XV secolo con gli inventari dei castelli del regio demanio.
Lo studio di armi ed armature dipinte nel soffitto dello Steri si basa su alcuni classici
e sugli studi più aggiornati di oplologia tardo medievale, con riferimento anche ad alcune
delle principali raccolte museali112. Per completezza, profondità dell’indagine e vicinanza
geopolitica e culturale dell’ambito territoriale trattato, il classico studio di Martí de
Riquer L’arnès del cavaller. Armes i armadures catalanes medievals rappresenta una
fra le fonti di confronti e verifiche più significativa. La trattazione sarà divisa fra
armamento offensivo e difensivo e per quel che attiene l’insieme delle raffigurazioni
dipinte si estrarrà un campionario utile a tracciare un quadro il più completo possibile.
Armamento offensivo
Armi da punta e da taglio.
Spade
L’arma offensiva più largamente rappresentata nelle pitture dello Steri, ed ovviamente
la più largamente in uso, è la spada. Fra i vari esempi possibili, si possono indicare:
a) Trave III B 168.2 Storia di Elena di Narbona113. Individuo armato di spada a due
tagli a profilo di lungo triangolo isoscele con lunga scanalatura centrale, elsa cruciforme,
pomo sferico o a disco. Si tratta di un modello di spada tipico del XIV secolo cui
sostanzialmente corrispondono tutti gli esemplari dipinti dello Steri. Atta a colpire tanto
di punta (ed a perforare le cotte di maglia) che con entrambi i tagli: ambedue gli usi
sono presenti nelle pitture dello Steri. È la spada o «spasa de guerra, / ffort, taylant ez
aguda, / e pel mig squenuda, / que no puxa trencar» descritta nel poema allegorico di
COSENTINO 1886, p. 423, doc. DCV.
GABRICI, LEVI 1932; Bologna 1975; VERGARA CAFFARELLI 2009.
112
GABRICI, LEVI 1934, p. 77; BOLOGNA 1975, pp. 159-160.
113
BOLOGNA 1975, p. 222.
110
111
586
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
Pere March L’arnès del cavaller la cui composizione è da porsi fra 1370 e 1380, gli anni
quindi della realizzazione delle pitture dello Steri114.
b) Trave VI B 184 Omaggio alla donna saracena115. Spada dello stesso tipo poggiata
con la punta a terra ed il cui pomo arriva circa allo sterno dell’armato: ciò, ipotizzando
un’altezza complessiva di un individuo reale in m 1,68 comporterebbe la lunghezza
della spada di circa m 1,20, consueta per la spada trecentesca116. Una spada di questa
lunghezza, che dai piedi giunge allo sterno del cavaliere, è rappresentata nel sepolcro
scolpito di Ferrer Alamany de Tralla de Guiderà e di sua moglie, opera della seconda
metà del XIV secolo nel monastero di Vallbona de les Monges in Catalogna117; altra
spada dello stesso tipo nel sepolcro di Bernart d’Anglesona, nel monastero di Poblet
sempre in Catalogna, databile alla fine del XIV secolo; o ancora nel sepolcro di Hug de
Copons, morto nel 1354, conservato al Museo Diocesano e Comarcale di Solsona118.
c) Trave VI B 184119. Duello fra fante e cavaliere armato di lancia usata come
giavellotto, con bacinetto e camaglio, montato su staffe, con cavallo senza gualdrappa.
Fante con bacinetto senza visiera, con camaglio e tunica. Brandisce una spada identica
alla precedente con cui colpisce di punta il petto del cavallo.
d) Trave III A 18.7 Storia di Giuditta120. Fanti con bacinetto senza visiera né camaglio,
con tunica e cinto, armati di spada del solito tipo, come quella su cui Giuditta ha tagliato
la testa di Oloferne.
f) Trave III A 18, Storia di Giuditta121. Tenda di Oloferne: spada del tipo consueto.
g) Trave XIII A 79. Cattura dell’Unicorno122. Unicorno colpito di punta da spada del
solito tipo impugnata a guisa di lunghissimo pugnale con la mano sinistra.
h) Trave III B 168. Storia di Elena di Narbona123. Elena di Narbona a cavallo colpisce
di fendente con la spada Guarneri, a sua volta armato del solito tipo di spada. Con la
stessa, Elena decapita Guarnieri nella scena seguente.
i) Trave VIII B 198. Storia di Elena e Paride124. Combattimento di fanti con armature
di maglia, bacinetto, camaglio, spade del solito tipo e scudi triangolari.
l) Trave XIV B 234. Storia di Davide125. Davide, ancora con la fionda in mano,
114
Ibid.
BOLOGNA 1975, p. 176.
116
BOLOGNA 1975, p. 242.
117
Senza alcuna pretesa di completezza: GELLI 1900; Blair 1958; BLAIR 1972; WILKINSON 1972; D E
FLORENTIIS 1974; WISE 1975; Musciarelli 1978; BLAIR 1979; CONTAMINE 1986, pp. 246-287; SETTIA 1993;
GRILLO 2008; REID 2010; DE VITA et al. 2011; MARTÌ DE R IQUER 2011; NICOLLE 2013; LEPAGE 2014; MAURICI
2015a; POHL 2015; OAKESHOTT 2016; ROMANONI 2018; ESPOSITO 2019. Sulle balestre e sui trabucchi e altre
macchine d’assedio ho già fornito riferimenti bibliografici. Lo farò più in là per le prime armi a polvere
pirica.
118
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 9.
119
MARTÌ DE R IQUER 2011, pp. 175-177.
120
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 16.
121
BLAIR 1979, p. 458.
122
MARTÌ DE R IQUER 2011, p. 170 fig. 109.
123
MARTÌ DE RIQUER 2011, pp. 180-81, figg. 113 e 114.
124
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 12.
125
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 21.
115
587
FERDINANDO MAURICI
colpisce Golia con una lunghissima spada. Con la stessa spada brandisce nella scena
seguente la testa recisa del gigante.
m) Trave centrale fronte B, 169, 163, 157, 151126. Crociati armati della consueta
spada fanno strage di saraceni, decapitandoli, o spaccandoli in due dalla testa allo sterno.
Se questa appare probabilmente un’esagerazione quasi da opera dei pupi, è del tutto
certa la capacità di una spada del genere di decapitare un uomo con un solo fendente
ben assestato.
n) Trave centrale fronte A, 22.28 Cavaliere con le insegne chiaramontane presenti
due volte sulla gualdrappa del cavallo porta la spada alla cintura sul fianco sinistro
reggendola per l’elsa con la mano sinistra. Gli esempi di rappresentazione di spade
potrebbero moltiplicarsi.
Armi da botta
Mazze ferrate
a) Trave II A 12. Storia di Susanna127. Anziano individuo con barba, bacinetto e
mazza ferrata a coste parallele al manico tenuta nella mano destra; l’arma è di foggia
tipicamente italiana128.
b) Trave III B 168,1. Storia di Elena di Narbona129. Anziano armigero o dignitario
con bacinetto senza visiera né camaglio, tunica e mazza ferrata a coste con dorsi paralleli
al manico apparentemente ligneo; arma di foggia tipicamente italiana.
c) Trave XIX B 262. Scene militari130. Due soldati armati con mazza dello stesso
tipo.
d) Trave XI A 65. Storia di Paride e Elena. Scena dell’unicorno in gabbia131. Uomo
armato di mazza del tipo già descritto portata sul fianco destro alla cintura provvista di
apposito anello.
Mazza di legno o clava
a) Trave centrale fronte B 175132. Duello con clave di legno di uomini silvani. È
chiaro che, diversamente da quanto accadeva al tempo della battaglia di Hastings e
della tappezzeria di Bayeux, nel tardo XIV la mazza di legno non costituiva più un’insegna
di comando o un’arma militare133 ma è raffigurata nel soffitto dello Steri come attributo
e simbolo di primitività.
Armi da taglio
Ascia
a) Trave XV A 89. Storia non identificata134. Scena di combattimento. In un gruppo
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 88.
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 108.
128
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 89.
129
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 99.
130
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 111.
131
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 133 e p. 139.
132
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 96.
133
BLAIR 1979, p. 302. Si veda inoltre, sulla mazza ferrata, MARTÌ
134
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 8.
126
127
588
DE
RIQUEIR 2011, pp. 395-396.
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
Il soffitto dello Steri in una ricostruzione virtuale.
di armati si distingue un’ascia.
b) Trave XVII B 252. Storia di Evilmeradac135. Evilmeradac seziona il corpo del
padre Nabucodonosor con un’ascia.
Armi in asta
Lancia da cavaliere
a) Trave VI B 184. Duello fra cavaliere e fante136. Cavaliere con bacinetto a coppo
con camaglio, tunica, staffe, manopola destra con cui impugna una sottile lancia usata
come giavellotto. La lancia137 è brandita verso il basso, in direzione dello sterno del
fante che para il colpo con lo scudo.
b) Trave II B 161.41 Cavaliere con bacinetto a coppo con pomello centrale, visiera
“sana” (in unico pezzo) con fessura orizzontale per gli occhi e fori circolari di areazione;
camaglio, scudo triangolare a sinistra, lancia sotto l’ascella e impugnata con la destra.
Cavallo con gualdrappa e armi chiaramontane.
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 29.
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 104; BOLOGNA 1975, p. 181, tav. XXXXIV b.
137
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 139.
135
136
589
FERDINANDO MAURICI
c) Trave V A 31. Prima distruzione di Troia138. Carica di cavalleria contro altri cavalieri,
armati gli uni e gli altri di cotta di maglia, tunica, bacinetto. Un cavaliere con elmo
coronato porta visiera sana con fessura trilobata all’estremità e fori. É armato di lancia
brandita come giavellotto con cui colpisce al collo altro cavaliere con corona sull’elmo.
d) Trave V A 31.3. Prima distruzione di Troia139. Cavalieri muniti di lance, in due
casi con alette d’arresto.
e) Trave I A 6. Duello di cavalieri140 o piuttosto scena di torneo141. Cavalieri con elmo
chiuso a pentola in torneo o duello l’un contro l’altro con lancia sotto l’ascella destra ed
impugnata con la destra.
f) Trave II B 161. Duello fra cavalieri142. Lancia sotto l’ascella destra. Il cavaliere
con le insegne chiaramontane colpisce l’altro all’attaccatura dell’elmo. Inutile dire che
l’introduzione della resta è più tardo. Si può notare che i due modi di combattere con la
lancia, impugnandola con la mano come un giavellotto e stringendola sotto l’ascella
destra compaiono entrambi nel retablo di Sant’Elena (ca. 1400) nella chiesa di San
Miguel d’Estella in Navarra e nel retablo di San Jordi nel Victoria and Albert Museum,
attribuito al pittore Marçal de Sax, attivo a Valencia fra 1393 e 1410 143.
Lancia manesca144
a) Trave IV B 172. Scene di caccia145. Cavaliere con lancia corta con cui trafigge un
cinghiale.
b) Trave XVIII B 256. Storia non identificata con cattura dell’unicorno146. Guerriero
a piedi in cotta di maglia con tunica e bacinetto colpisce l’unicorno con lancia da mano
brandita a sinistra.
c) Trave XV B 238. Storia di Erodiade, Salomè e il Battista147. Guerrieri appiedati
con spade e lance alte poco più di loro con grande punta a profilo di mandorla148.
d) Trave I B 155 3-4. Storia di Tristano e Isotta149. Armigero appiedato ed altro a
cavallo con lance manesche provviste di alette d’arresto.
e) Trave V A 31. Prima distruzione di Troia. Cavaliere con elmo coronato, visiera
forata e fessura trilobata all’estremità. Armato con lancia brandita come giavellotto,
colpisce al collo altro cavaliere con corona sull’elmo.
f) Trave XIX A 115. Uomo con bacinetto e tunica a maniche lunghe caccia l’unicorno
con arco corto.
Cfr. GRAVETT 1998a, pp. 2-3.
Vergara Caffarelli 2009, p. 112.
140
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 117.
141
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 12.
142
Cfr. BLAIR 1979, p. 288.
143
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 83.
144
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 6.
145
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 84.
146
Si veda GRAVETT 1998b.
147
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 87.
148
MARTÌ DE RIQUER 2011, p. 443 fig. 249 e p. 258 fig. 162. Sulla lancia nella Catalogna medievale cfr.
ivi, pp. 396-424; cfr. inoltre CIRLOT 1967.
149
La definizione si ritrova in inventari siciliani del XV secolo. Cfr. inoltre M ARTÍ DE RIQUER 2011, pp.
409-411.
138
139
590
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
g) Trave I A 6. Duello di cavalieri o piuttosto scena di torneo. Cavalieri con elmo
chiuso a pentola in torneo o duello l’un contro l’altro, con lancia tenuta sotto l’ascella
destra ed impugnata con la mano destra.
Armi manesche da corda
Arco
a) Trave VIII B 198. Storia di Elena e Paride150. Paride sulla nave che lo porta a Cipro
con armatura di maglia e tunica, bacinetto con visiera e arco corto. b) Trave VIII A
49.3151. Giudizio di Paride che appare armato di corto arco, con bacinetto e visiera alzata,
cotta di maglia con maniche lunghe, guanti di ferro. Nell’uno e nell’altro caso l’arco
sembra essere più che altro un attributo iconografico per identificare Paride che nel
ciclo troiano compare soprattutto come arciere.
c) Trave XV A 91152. Storia non identificata con figura di arciere poco leggibile.
d) Trave XIX A 115153. Cacciatore con bacinetto e tunica a maniche lunghe caccia
l’unicorno con corto arco.
e) Trave XIX B 262154. Due cacciatori con corti archi.
f) Trave XX A 121. Scena non identificata con due arcieri. L’arco, diversamente da
quanto avveniva fra XI e XIII secolo, è relegato, nelle pitture dello Steri, essenzialmente
al ruolo di arma da caccia, sostituito quasi completamente, per la guerra, dalla balestra.
Si trattava peraltro di un’arma corta, ben diversa dal long bow che tanta parte ebbe nelle
battaglie della Guerra dei Cento Anni155.
Balestra
a) Trave I B 156 Scena di caccia156. Cacciatore con balestra da piede (siciliano di
pedi) o a staffa.
b) Trave IV B 172 Scene di caccia. Cacciatore con balestra a staffa.
c) Trave X A 61. Storia del sacrificio di Ifigenia157. Imbarco di Achille e Patroclo per
Delfi con un gruppo di armati che porta delle balestre a spall’arm (Fig. VIII, 8). La
balestra compare dunque nelle pitture dello Steri tanto come arma per la caccia che per
la guerra.
Armamento difensivo
Armature e elmi
Usbergo e bacinetto
Il tipo di armatura più largamente rappresentata nelle pitture dello Steri è la cotta di
maglia a maniche lunghe o usbergo indossato sopra un giubbone di cotone che ancora
per quasi tutto il XIV rappresentava l’armamento difensivo più comune del combattente158
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 91.
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 119.
152
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 113.
153
Cfr. BLAIR 1979, p. 289.
154
VERGARA CAFFARELLI 2009, pp. 200-201.
155
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 99.
156
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 214.
157
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 112.
158
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 120.
150
151
591
FERDINANDO MAURICI
anche nobile. E questo nonostante la progressiva diffusione di protezioni a piastre159 e
di cubitiere e ginocchiere che renderà comune nel XV secolo l’arnès blanc o armatura
blindata. Normalmente l’usbergo è completato per la protezione della testa dal bacinetto,
quasi sempre tondeggiante (raramente appuntito) con camaglio, per lo più senza visiera;
in pochi casi il bacinetto è sostituito da cappelli di ferro di diversa foggia o da elmi
chiusi pentolari. La visiera, quando presente, è del tipo sano, cioè in un solo pezzo. I
guanti sono relativamente frequenti ma non sempre è facile distinguere fra guanti di
cuoio, di maglia di acciaio o vere e proprie manopole in lamine. Sopra la cotta è normale
che i guerrieri dello Steri indossino tunichette a maniche corte ed in qualche caso un
ulteriore capo simile alle pteruges in cuoio romane; si tratta di un elemento che già
compare in Gran Bretagna nella tomba di sir John de Creke (ca. 1325)160. Le cotte di
maglia raffigurate nello Steri possono compararsi in ambito catalano, per limitarsi ad un
paio d’esempi, a quella indossata da Galceran de Pinós raffigurata nel retablo di Sante
Esteve attribuito ai fratelli Serra (1360-1390) del Museu Nacional d’Art de Catalunya161.
Ed ancora all’armamento difensivo completo (bacinetto, camaglio, usbergo di maglia,
tunica, guanti di maglia) dei soldati di una pittura murale del XIV secolo proveniente da
Solsona e oggi nel locale Museu Aqueològic Diocesà 162 ; queste figure ricordano
abbastanza da vicino quelle dello Steri.
Nel celebre Dotzè del Chrestià di frà Francesc Eiximenis (1330-1409), redatto fra
1385 e 1386, così sono descritti questi primi e fondamentali elementi dell’armamento
difensivo: “Armes de cavaller, en aquest present temps, són les següents: Primerament,
deu portar jupó un poch gross, de cotó per tal que la cot de malla no li faça enug.
Segonament, port cota de malla, que sia de fin açer … Per armes de son cap ha mester
bacinet ab capmayl de mala, e stofa sobre lo capmayl, e careta en lo bacinet; e haja de
part de dins del bacinet ésser forrat de stofa et de drap de cotó, e lo capmayl”163.
Fra gli altri esempi di tale tipo di armamento difensivo nelle pitture dello Steri, si
possono citare:
a) Trave II B 161164. Cavaliere con bacinetto a coppo con pomolo centrale superiore,
visiera sana con fessura orizzontale per gli occhi e fori circolari di aereazione; camaglio.
b) Trave IV B 174. Storia di Giasone e Medea165. Giasone consegna a re Pelleo
l’ariete dal vello d’oro. L’eroe è armato di usbergo con camaglio, bacinetto con visiera
alzata, manopole e indossa al di sopra della cotta una tunica.
c) Trave V A 31 Prima distruzione di Troia 166. Carica di cavalleria contro altri
cavalieri. I cavalieri vestono cotta di maglia, tunica, bacinetto, manopole. Un cavaliere
con elmo coronato porta visiera sana con fessura trilobata all’estremità e fori
d’areazione.
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 121.
In generale, sull’uso dell’arco nel medioevo si veda BRADBURY 1985.
161
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 85.
162
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 102.
163
Cfr. BLAIR 1970, p. 156 s. v. cotta.
164
Cfr. WILKINSON 1972, pp. 56-57.
165
WILKINSON 1972, p. 58.
166
M ARTÍ DE RIQUER 2011, p. 168 fig. 106.
159
160
592
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
d) Trave V B 180. Storia di Elena e Paride. Priamo ricostruisce Troia167. Schiera di
cavalieri con bacinetto con pomello superiore, camaglio, usbergo e tunica indossata al
di sopra.
e) Trave VIII A 49. Storia di Elena e Paride168. Priamo assiso in trono si rivolge ad un
personaggio appiedato con armatura di maglia, tunica, bacinetto con visiera, spada a
sinistra. Sotto la tunica, una sorta di gonnellino sfrangiato forse in cuoio, simile alle
pteruges romane. Dietro di lui altri due armati nella stessa foggia.
f) Trave VIII B 198. Storia di Paride e Elena169. Scontro fra fanti armati di spada e
difesi da bacinetto, camaglio ed usbergo con sopra tunichetta.
g) Trave IX A 55. Storia di Elena e Paride. Sbarco della coppia a Troia170. Paride
indossa bacinetto con visiera sollevata, camaglio, usbergo di maglia con maniche,
tunichetta al di sopra e capo di vestiario inferiore apparentemente simile alle pteruges
romane.
h) Trave X B 210. Storia del sacrificio di Ifigenia171. Gruppo di soldati al seguito di
Achille e Patroclo, vestiti di armatura di maglia, tunica, bacinetti con camaglio.
i) Trave XV B 238 Storia di Erodiade, Salomè e il Battista172. Erodiade La regina
mostra la testa mozza ad un gruppo di armati con cotta di maglia fino alla coscia coperta
da tunica, lance da mano, scudo ovale a punta (uno), piccoli scudi triangolari (altri due).
Questi ultimi indossano bacinetti; il primo elmo chiuso a pentola.
l) Trave centrale fronte B, 163. Crociati e saraceni Tre crociati tutti con bacinetto e
camaglio e visiera sana sollevata.
Cappelli di ferro
Fra gli esempi di cappelli di ferro:
a) Trave IV A 25. Storia di Giasone e Medea.83 Anziano personaggio a lato del re
Pelleo armato con rotella con otto borchie e cappello di ferro.
b) Trave XIX B 262. Scene militari173. Tre soldati armati, due con cotta e bacinetto
senza visiera; il terzo con cappello di ferro (?) scudo e mazza di ferro.
c) Trave XXI A 127174. Quattro guerrieri con armatura composta. Usbergo di maglia
di ferro a maniche lunghe, tunica e gambiere complete. Sul capo apparentemente capello
di ferro.
Elmi pentolari chiusi.
Fra gli esempi di elmi pentolari chiusi:
a) Trave I A 6 Duello di cavalieri. Cavalli con gualdrappa, cavalieri con lancia solo
l’ascella destra ed impugnata con la destra, scudo triangolare a sinistra, elmo chiuso
MARTÍ DE R IQUER 2011, p. 208 fig. 128.
Cit. in MARTÍ DE R IQUER 2011, p. 177-178.
169
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 24.
170
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 91.
171
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 83.
172
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 93.
173
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 98.
174
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 99.
167
168
593
FERDINANDO MAURICI
pentolare con fessura per gli occhi, fori e velo posteriore simile all’elmo di Sir Richard
Pembridge morto nel 1375 (Royal Scottish Museum).
b) Trave II V 161. Duello di cavalieri. Cavalli con gualdrappa, cavalieri con lancia
solo l’ascella destra ed impugnata con la destra, elmo chiuso pentolare con fessura
per gli occhi e velo posteriore simile all’elmo di Sir Richard Pembridge. Uno dei
cavalieri con armi chiaramontane su gualdrappa colpisce con la lancia sotto l’elmo il
rivale.
c) Trave XV B 238. Storia di Erodiade, Salomè e il Battista. La regina mostra la testa
mozza ad un gruppo di armati con: cotta di maglia fino alla coscia coperta da tunica;
lance da mano; scudo ovale a punta (uno); piccoli scudi triangolari (altri due). Questi
ultimi indossano bacinetti; il primo elmo a pentola del solito tipo.
d) Trave XVI V 244.3. Storia di David175. Morte di Urea, con il capo coperto da elmo
chiuso a pentola.
Elmo chiuso ogivale
a) Trave I A 6.5 Duello tra due cavalieri con elmo chiuso a ogiva con fessura per la
visuale (cfr. Fig. VIII, 5).
Elmo chiuso a sommità tronco piramidale o troncoconica
a) Trave XVI.B 244.3176. Urea colpito a morte si accascia. Il capo è coperto da questo
tipo di elmo con fori per gli occhi. Alla cotta di maglia con maniche sono applicate due
cubitiere.
Armatura composta:
Nel corso del XIV secolo elementi di piastra andarono sempre più aggiungendosi
all’usbergo di maglia. In questo periodo, però, l’armatura ancora “è in genere poco
articolata strutturalmente, e le varie parti sono collegate in stretta connessione con il
giaco o la cotta di maglia in ferro”177. Perché l’armatura in piastre o blindata sia ormai
completa “nelle sue parti essenziali, articolate in un continuum che non prevede più
«punti morti», anche se resiste l’uso del giaco di maglia”178 occorrerà attendere gli inizi
del XV secolo, il 1420 circa. Fra i non molti esempi di armatura composta nel soffitto
dello Steri si possono ricordare:
a) Trave II B, 160179. Scene di combattimento fra fanti e cavalieri. Elmi pentolari con
fessura per gli occhi e fori, scudi triangolari, armatura composta con spallacci, bracciali,
cubitiere, manopole; gambiere complete (cosciale, ginocchiello, schinieri) e piedi (Fig.
VIII, 13). Tunica sull’armatura che scende fino alle cosce. Simile armatura proveniente
dall’Italia settentrionale, circa 1400-1415 nel New York Metropolitan Museum180.
b) Trave V A 31. Storia di Giasone e Medea. Ercole e Giasone da Castore e Polluce181.
Uno dei personaggi indossa pettorale sopra l’usbergo.
VERGARA
VERGARA
177
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178
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176
CAFFARELLI
CAFFARELLI
CAFFARELLI
CAFFARELLI
CAFFARELLI
CAFFARELLI
CAFFARELLI
2009, p.
2009, p.
2009, p.
2009, p.
2009, p.
2009, p.
2009, p.
100.
103.
113.
29.
124.
219.
219.
594
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
c) Trave XXI A 127182. Quattro guerrieri con armatura composta. Usbergo di maglia
di ferro a maniche lunghe, tunica e gambiere complete. Sul capo apparentemente capello
di ferro.
d) Trave XIX B 262. Scene militari con omaggio al re183. Il secondo guerriero sulla
sinistra porta sopra l’usbergo un pettorale.
Scudi
Lo scudo184 è l’elemento dell’armamento difensivo, anzi dell’armamento intero, che
nelle pitture del soffitto dello Steri presenta maggiore differenziazione e varietà. Si va
infatti dalla rotella (meno probabilmente dal brocchiere), al grande scudo a mandorla di
tipo “normanno, a scudi di forma simile ma assai più piccoli, allo scudo triangolare
scapezzato di varie dimensioni, a grandi scudi paragonabili, almeno come dimensioni,
al pavese o, meno spesso, palvese. Fra le varie raffigurazioni di scudi si possono segnalare:
a) Trave II A 12 Storia di Susanna185. Un uomo con bacinetto porta a destra scudo
circolare reso in buona parte invisibile dal corpo.
b) Trave II B 161 186. Cavaliere con scudo scapezzato a sinistra, lancia sotto l’ascella
e impugnata con la destra. Cavallo con gualdrappa e armi chiaramontane (Fig. VIII, 14).
c) Trave III A 18.7 Storia di Giuditta187. Fanti con bacinetto senza visiera né camaglio,
con tunica e cinto, armati di spada e scudo triangolare convesso.
d) Trave IV A 25. Storia di Giasone e Medea188. Anziano personaggio a lato del re
Pelleo armato con rotella con otto borchie e cappello di ferro.
e) Trave IV B 168 A. Tenda di Oloferne 189. Guerriero con bacinetto e scudo circolare
(rotella) con borchie circolari lungo il perimetro e centrale.
f) Trave V A 31. Prima distruzione di Troia 190. Carica di cavalleria contro altri cavalieri.
Cotta di maglia, tunica, bacinetto, piccoli scudi triangolari.
g) Trave XXIII B 286. Storia non identificata191. Guerriero con bacinetto a punta,
camaglio, tunica, lancia nella destra e grande scudo simile a pavese sul braccio sinistro.
h) Trave XIV B 234. Storia di Davide e Golia192. Davide ancora con la fionda in
mano colpisce Golia con una lunghissima spada. Golia è armato di lancia e porta un
grande scudo a mandorla di tipo normanno.
i) Trave centrale fronte B, 169, 163, 157, 151. Siciliani e saraceni193. Tre siciliani con
grandi rotelle viste dalla parte interna (157) con due imbracciature e maniglia, borchie
circolari lungo il perimetro e ribattimento all’interno dell’orlo del rivestimento esterno,
BLAIR 1979, p. 47.
IBID.
184
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 87.
185
BLAIR 1979, p. 47.
186
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 92.
187
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 124.
188
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 29.
189
Cfr. in generale DE FLORENTIIS 1974, pp. 175-178; BLAIR 1979, pp. 428-429.
190
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 86.
191
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 24.
192
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 21.
193
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 90.
182
183
595
FERDINANDO MAURICI
quasi certamente metallico. Tre crociati con grandi scudi triangolari (151) con due
imbracciature e maniglia. Altri due simili in 169. Saraceni con scudi a mandorla piuttosto
piccoli con un’imbracciatura e maniglia (163).
l) Trave XV B 238 Storia di Erodiade, Salomè e il Battista. Gruppo di armati con:
cotta di maglia fino alla coscia coperta da tunica; lance da mano; scudo ovale a punta
(uno); piccoli scudi triangolari (altri due). Questi ultimi indossano bacinetti. il primo
elmo chiuso a pentola.
In conclusione, le pitture del soffitto della Sala Magna di Palazzo Chiaramonte o
Steri di Palermo sono, a parte ogni altra possibile considerazione, una miniera di
informazioni sul costume e sulla cultura materiale in uso in Sicilia attorno al 1380,
compreso ovviamente l’armamento difensivo ed offensivo. La difesa dei combattenti è
affidata in primo luogo al vecchio usbergo di maglia a maniche lunghe e a volte visibile
fin sopra le ginocchia, indossato evidentemente sopra un capo di cotone (non visibile
nelle pitture) e a sua volta parzialmente coperto da una tunica colorata. Alcuni guerrieri
portano, al di sotto della tunica, un capo simile alle pteruges in cuoio dei legionari
romani.
Gli elementi di armatura di piastra non sono frequentissimi e comprendono le
protezioni per le braccia e per le gambe complete oltre alcuni esempi di pettorali. Non è
però escluso, visto anche l’innaturale rigonfiamento del petto di alcune figure, che i
pettorali siano indossati sotto la tunica. L’elmo più diffuso è il bacinetto generalmente
tondeggiante e con camaglio, alcune volte con visiera sana sollevata o calata. Gli elmi
pentolari sono riservati a scene di torneo e pochi altri casi: a volte questi elmi chiusi
portano un velo sulla sommità.
Gli scudi sono frequenti e dei tipi più disparati: rotelle, scudi triangolari delle più
diverse dimensioni, scudi a mandorla di antiquato tipo “normanno”, scudi a mandorla
più piccoli, un grande scudo delle dimensioni di un pavese, piccoli scudi a goccia per i
saraceni trucemente ammazzati dai guerrieri cristiani. La principale arma offensiva è
ovviamente la spada, lunga, a forma di triangolo isoscele, con pomello, d’un modello
tipico e ben conosciuto. La lancia lunga da cavalleria è manovrata tanto come giavellotto
che bloccata sotto l’ascella destra. Lance più corte o manesche sembrano riservate a
guerrieri appiedati o a cacciatori. Relativamente rare le mazze ferrate con costole parallele
al manico. Le armi da caccia comprendono un corto arco e la balestra da piede che
appare anche come arma da guerra. Una raffigurazione di bombarda è la prima
attestazione di artiglieria pirica in Sicilia. L’armamento, tanto difensivo che offensivo,
appare ben in linea con quello in uso nella maggior parte dei paesi dell’Europa
occidentale, Catalogna in testa. Il cavaliere e l’armigero siciliano della decade 1370
avrebbe lottato a armi e armatura pari, oltre che con i suoi tradizionali nemici angioini,
anche contro eserciti germanici o svizzeri, castigliani, aragonesi, italiani, inglesi, francesi,
borgognoni, portoghesi194. Forse, ma è un dubbio che potrebbe celarsi sotto le tuniche di
alcuni guerrieri, solo con un minimo ritardo per quanto riguarda la diffusione
dell’armatura composta che applicava elementi a piastra a rinforzo dell’usbergo di maglia.
194
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 205.
596
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
Artiglieria a polvere pirica
Bombarda
Una sola arma da fuoco, una piccola bombarda, è rappresentata nelle pitture dello
Steri, precisamente nel ciclo di David, nell’immagine che rappresenta la morte di Urea
durante l’assedio di Rabba (Trave XVI B 244). Storia di Davide e Betsabea195: assedio
della città di Rabba ove Uria, marito di Betsabea e amata adulterinamente da Davide,
muore colpito dalle palle di un cannone cilindrico con cerchi metallici di rinforzo. Si
tratta, almeno fino ad ora, in assoluto della più antica testimonianza di armi da fuoco
nella Sicilia medievale.
Tale fatto pone non pochi problemi. Se la polvere da sparo, conosciuta da secoli in
Cina, arriva in Europa verso la metà del XIII secolo196, le prime artiglierie a polvere
pirica sono infatti attestate nel continente da quattro diversi documenti dello stesso
breve lasso di tempo, tra 1326 e 1327, circa mezzo secolo prima della bombarda dello
Steri. Esiste una miniatura a colori in un manoscritto inglese (Christ Church MS 92 F
70v), il Secretum Secretorum et Prudentiis Regum, realizzato per volontà di Walter de
Milemete (o Milimete), Clerk del re Eduardo III a cui il libro fu presentato fra la fine del
1326 e il marzo 1327, che mostra un primitivo cannone a forma di vaso caricato con una
grande freccia, evidentemente metallica. Sempre tra la fine del 1326 (marzo) e il 1327
fu presentato a Eduardo III, ancora su commissione di Walter de Milimete, il codice
miniato della British Library MS Additional 47680 dell’opera De Notabilibus, sapientiis
et prudentiis regum nel cui F 44v è presente, nel margine inferiore, la rappresentazione
di un cannone a freccia assai simile al primo. Due magistrati fiorentini furono incaricati
nell’anno 1336 dalla Signoria di provvedere la città di “pilas seu palloctolas ferreas et
canones de metallo”: il documento, da alcuni già ritenuto falso, è invece indubbiamente
autentico197. Sempre italiano e del 1327 è un documento, poco conosciuto in verità al
contrario dei primi tre, riguardante conti della castellania di Gassino (Torino) in cui
compaiono armi da fuoco198. Un piccolo (lunghezza 0,31 m) cannone in bronzo a vaso o
a bulbo. risalente quasi certamente alla prima metà del XIV secolo, fu rinvenuto a Loshult
in Svezia199. Una sua replica ha lanciato frecce d’acciaio a 500 m e palle a 1200 m200.
Altri cannoni in bronzo del XIV secolo sono noti da Mörkö, ancora in Svezia, e
Tannenberg in Germania201. Ad un assedio del castello di Eltz in Germania avvenuto nel
1331 sembrano risalire con certezza due frecce metalliche utilizzabili con cannoni come
quelli delle due miniature inglesi202. Nel 1346 la città di Aachen o Aquisgrana possedeva
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 83
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 129.
197
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 111.
198
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 133 e p. 139.
199
Cfr. ROTHERO 1981; MICHAEL 1983; MILLER, E MBLETON 1999; NICOLLE 1999; NICOLLE 2000; GRAVETT
2001; NICOLLE 2002a; NICOLLE 2007a; NICOLLE 2012a; POHL 2015.
200
VERGARA CAFFARELLI 2009, p. 115. Sull’utilizzo dell’iconografia per la storia dell’artiglieria a polvere
cfr. SERDON -PROVOST 2011.
201
REID 1976, p. 77.
202
REID 1976, p. 77; GOHLKE 1911, pp. 13-14; HALL 1997, pp. 43-44; DAVIES 2003, p. 6; DOUGLAS
SMITH, DE VRIES 2005, p. 10; NICOLLE 2005, p. 249; CHASE 2009, p. 109; DE CROUY-C HANEL 2010, p. 35;
195
196
597
FERDINANDO MAURICI
uno di questi cannoni a vaso per lanciare frecce203. Ma già nel 1331 un cannone venne
usato nell’assedio tedesco di Cividale del Friuli204; nel 1338 un cannone era già utilizzato
su una nave francese e nel marzo aprile 1339 cannoni sono attestati all’assedio di PuyGuillem, in Périgord205. Le menzioni si moltiplicano nel decennio 1340, in Italia e Francia,
qui ovviamente nel corso della prima fase della Guerra dei Cent’Anni: Firenze 1341
(“uno canone de ferro ad tronum et pallis de ferro”)206; Lucca (1341); domini viscontei
(1346)207; Val d’Aosta 1347-1348, quattro cannoni di bronzo e “fusta lignea” 208; Stato
della Chiesa, 1350 (“pro cannonibus ballottis et malleis de ferro”; “ballotas pro
bombardis”; “ballotis de ferro ad bombardas”)209; Cambrai (1339); Lille (1340); castello
di Rihoult (1342); Cahors (1345); Tolosa (1345); Agen e Tournai (1346)210. Nel 1346 la
campagna di Eduardo III culminata nella battaglia di Crecy vide l’uso di cannoni da
entrambe le parti211: all’assedio di Calais gli inglesi disponevano di non meno di venti
bocche da fuoco212. In conclusione, entro il 1350 i cannoni a vaso come quello del
manoscritto di Walter de Milemete, del codice della BL e del rinvenimento di Loshult
erano “abbastanza comuni in Europa”, pur differendo per dimensioni e denominazioni:
potevano sparare tanto dardi che palle di pietra, piombo, ferro o bronzo213. Più in generale:
“It is now clear that firearms were present in many parts of Western Europe in the early
part of the fourteenth century, and by the mid-fourteenth century their use was quite
common”214. Insomma, il cannone europeo è un’invenzione del primo quarto del Trecento.
La metallurgia del bronzo, o di un’altra lega sempre a base di rame detta cuprum215, da
secoli già utilizzato per realizzare grandi campane216, era sufficientemente sviluppata
per fondere in un unico pezzo questo tipo di artiglierie, anche se certamente si trattava
di un lavoro non facile e da manodopera specializzata. Superfluo aggiungere che cannoni
in bronzo si continuarono a produrre fino a tutto il XIX secolo e alla Grande Guerra,
venendo ampiamente impiegati nelle guerre napoleoniche, nelle successive guerre
europee e coloniali, nella grande tragedia della guerra civile americana e oltre. Vera
possente e drammatica ouverture, quest’ultima, delle future stragi europee; totalmente e
ciecamente ignorata dagli strateghi del vecchio continente, come dimostreranno gli
MCLACHLAN 2010, pp. 8-9; PURTON 2010, II, p. 116; POPE 2018, p. 25; SMITH 2019, pp. 19-20; DAVIES
2019, pp. 4-7.
203
ROMANONI, BARGIGIA 2017, p. 140.
204
REID 1976, p. 77; BLAIR 1979, p. 63; Morin 2002, p. 57; DAVIES 2003, p. 8; PURTON 2010, II, p. 117;
POPE 2018, pp. 8-9.
205
PURTON 2010, II, p. 117.
206
MORIN 2002, p. 61.
207
DAVIES 2019, p. 11.
208
HALL 1997, p. 44.
209
HALL 1997, p. 45; DOUGLAS, E MBLETON , 1999, p. 47; PURTON 2010, II, p. 117.
210
DE CROUY-CHANEL 2010, p. 35.
211
MORIN 2002, p. 57.
212
ROMANONI, BARGIGIA 2017, p. 141 per entrambe le attestazioni.
213
MORIN 2002, p. 57.
214
MORIN 2002, p. 59
215
DE CROUY-C HANEL 2010, p. 35.
216
HALL 1997, p. 45; POPE 2018, pp. 28-31.
598
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
assurdi e immani macelli del 1914-1918. Se gli stati maggiori europei prima della
deflagrazione del 1914 avessero studiate - più di Annibale, Cesare, Federico di Prussia
e Napoleone - le campagne, le battaglie, le strategie e le tattiche di Lee, di Stonewall
Jackson, di Pete Lonstreet, di Unconditional Surrender Grant e di Uncle Bill Sherman
avrebbero forse compreso in anticipo realtà che invece ignorarono totalmente. Al costo
terrificante del sacrificio da agnelli al macello di milioni e milioni di fantaccini d’ogni
esercito gettati senza speranza all’attacco contro cannoni, filo spinato e fucilieri appostati
in trincea. E soprattutto contro mitragliatrici che in un minuto vomitavano l’inferno di
fuoco e piombo d’un intero battaglione di linea ottocentesco e che avevano avuto il loro
battesimo del fuoco proprio nella Civil War americana.
Tornando al XIV secolo, dal 1350 circa in poi, si andarono diffondendo cannoni non
più a forma di vaso ma cilindrica formati normalmente da barre di ferro a sezione
trapezoidale217 disposte a formare, appunto, un cilindro218, saldate il meglio possibile
fra loro ed eventualmente rifinite nelle giunzioni con colature di piombo, bloccate e
rafforzate con spessi e robusti fascioni circolari, in genere con ulteriori anelli di ferro a
rilievo ad una estremità, martellati con una pesante mazza di ferro per penetrare a contatto
praticamente ermetico con l’anima dell’arma e del fascione precedente e successivo, un
fascione accostato all’altro per tutta la lunghezza del cannone219. Uno dei fascioni poteva
essere eventualmente fornito dei due orecchioni per l’alzo dell’arma 220. Il ferro era
lavorato essenzialmente per fucinatura perché il suo alto punto di fusione impediva
colate omogenee, necessarie per manufatti sottoposti a grandi pressioni221. Il fabbro
bombardiere doveva lavorare tenendo le barre fra due diversi mandrini e questo
comportava il grosso problema di manufatti aperti ad entrambe le due estremità,
diversamente dai cannoni gettati in unica forma in bronzo. Pope descrive chiaramente,
anche grazie ad un testo dell’epoca, la struttura di un cannone in ferro a barre, databile
attorno al 1440, lungo 2,20 m e pesante 2 quintali: “Si tratta di 14 barre longitudinali
disposte in tondo, come le doghe di una botte, e saldate insieme in modo imperfetto,
lasciando degli interstizi nei quali è stato versato piombo fuso”; fin qui il documento
tardomedievale. Prosegue poi Pope: “Attorno al tubo sono stati collocati 35 anelli, per
uno spessore medio di circa 2,70 centimetri e di larghezza non superiore ai 5 centimetri,
proprio come i cerchioni che tengono a posto le doghe di una botte, ma con minore
intervallo fra loro”222: a volte, con nessuno, come probabilmente in questo caso, dal
momento che 35 fascioni da 5 cm di lunghezza ciascuno danno 1,75 m e cioè quasi la
lunghezza del cannone (m 2,20), esclusa la parte posteriore con il mascolo e la culatta.
Le bombarde di ferro risultavano così divise in due pezzi: la canna o tromba (in
siciliano cannolu; volée in francese) e la camera di scoppio (chambre, in francese)223
BLAIR 1979, p. 62.
POPE 2018, p. 31.
219
MORIN 2002, p. 61.
220
Cfr. BLAIR 1979, p. 62.
221
BLAIR 1979, p. 62.
222
BLAIR 1979, p. 62.
223
Si veda la foto della bocca d’un tale cannone che mostra chiaramente la struttura, in DAVIES 2019, p.
217
218
16.
599
FERDINANDO MAURICI
che veniva unita alla canna in modo permanente (ad es. mediante avvitamento) o non
permanente. In questo secondo caso si adoperava il mascolo, in siciliano masculu, una
sorta di boccale di birra in ferro, un cilindro con manico, aperto ad un’estremità mediante
un’ulteriore, corto, elemento cilindrico di diametro inferiore e chiuso all’altra, che veniva
riempito di polvere. Il masculu si innestava, appunto, a maschio e femmina e lo si bloccava
il più forte ed ermeticamente possibile alla tromba con un cuneo di legno inserito a
martellate fra la parte posteriore del masculu stesso e la parte finale dell’affusto fisso in
legno del cannone, dell’affusto mobile su ruote224 o di una culatta aperta a braga di ferro
terminante in un codolo o codetta più o meno lunga con pomello finale, saldamente
fissata mediante due appositi fori paralleli sui due lati, inseriti in due robustissime alette
sporgenti da uno dei fascioni verso la parte finale del cannone stesso. Le alette potevano
avere a loro volta una fessura l’una, nelle quali si inserivano a martellate due piccoli
cunei allo scopo di rafforzare la tenuta della culatta225. Nella parte superiore, aperta, di
tale culatta si inseriva il mascolo, fissandolo, al solito, mediante cuneo di legno226.
Un lavoro di realizzazione difficilissimo, da grandi specialisti, che richiedeva
l’impegno di più lavoranti al tempo stesso, tra maestri e assistenti. Ben 399 giornate
lavorative di una numerosa squadra (ovviamente complessive dell’apporto di ciascun
membro di essa) richiese, fra il 21 marzo e il 4 maggio 1375, la costruzione, a Caen, di
un grande cannone per il quale si forgiarono 2.470 libbre di ferro e 200 d’acciaio, ripartite
in tre forniture differenti. Alla fine il cannone, senza l’affusto, pesava circa 2.000 libbre227.
Alcuni affusti lignei di cannoni dovevano essere dotati di rudimentali sistemi di alzo fin
dal XIV secolo. L’arma si accendeva mediante un focone ricavato nel mascolo228. Diversi
mascoli già carichi a disposizione, ovviamente delle stesse dimensioni, permettevano
una certa rapidità di tiro. La bombarda dello Steri di Palermo, di cui è rappresentata solo
la parte anteriore, dovrebbe essere proprio di questo tipo: in ogni caso si distinguono
molto bene le cerchiature di rinforzo.
Quasi inutile sottolineare, con Lepage, che: “the first experiment were infernal
machines. They had a low rate of fire and were cumbersome, ineffective, unreliable and
dangerous for the gunners themselves as they could explode - much to the delight of the
enemy. Their projectiles - mostly balls of stone used as an economy and convenience were too light and were hrown with too little force to do much harm to the stone castles
walls or to the enemy force”229. Se, poi, era vero per gli artiglieri del Settecento doveva
esserlo a maggior ragione per quelli del XIV secolo che: “Il primo colpo è per Dio, il
secondo per il Diavolo, solo il terzo per il re”. Ovvero, com’è chiaro: la prima cannonata
è troppo lunga e alta e si perde in aria, finendo chissà dove; la seconda troppo corta e
bassa e va a scavare la terra, solo la terza attinge il bersaglio.
POPE 2018, p. 35; DAVIES 2019, pp. 14-16.
POPE 2018, p. 34.
226
BLAIR 1979, p. 62.
227
POPE 2018, p. 35.
228
DE CROUY-C HANEL 2010, p. 46.
229
Si vedano gli esempi, con foto di artiglierie medievali da vari Musei e un disegno d’epoca, in POPE
2018, pp. 24-27 e pp. 30-31.
224
225
600
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
Mentre nella maggior parte d’Europa, le artiglierie piriche divenivano comuni già
nel decennio 1360-1370230, non v’è traccia documentaria - né archeologica - di armi da
fuoco in Sicilia prima di questa pittura, come già detto. Le fonti scritte segnalano
artiglieria a polvere non prima dell’assedio del castello di Augusta del 1380, di cui si
dirà, e quindi più o meno negli stessi anni del ciclo dello Steri. La circostanza lascia
sorpresi e in qualche modo increduli, tanto più che, come si è appena visto, non si
colgono segni di particolare arretratezza o arcaismo nell’armamento siciliano attorno al
1370-1380. E però nessun cronista, neanche Michele da Piazza che si dilunga a narrare
assedi e altri episodi bellici fra 1336 e 1361, quindi in un’epoca che vede la diffusione
del cannone in buona parte dell’Europa occidentale, fa cenno alcuno a armi da fuoco. In
nessun documento noto - me lo ha anche confermato il massimo conoscitore delle fonti
medievali siciliane, e non solo, Henri Bresc - compaiono cannoni prima di quello dello
Steri.
In linea teorica è difficile credere che l’introduzione e la diffusione delle artiglierie
a polvere sia avvenuta così tardi in Sicilia. L’isola attraversò nel XIV secolo un turbinio
di guerre - che ho qui molto velocemente ricostruito - e non vi sarebbe in linea di principio
motivo alcuno per non ritenere che anche in Sicilia le artiglierie piriche facessero la
loro comparsa prima degli anni 1370-1380. L’isola, per quanto in guerra, non era certo
un mondo a sé. Rapporti commerciali, politici, diplomatici la legavano all’AragonaCatalogna, all’impero, ai ghibellini italiani, al papato, a Genova, a Venezia, a Milano,
allo stesso nemico angioino. I grandi signori della discordia siciliani avrebbero avuto
tutta l’utilità, il denaro e i buoni rapporti per comprare fuori dall’isola cannoni e portarveli,
oltre che per importare anche costruttori di cannoni che qui operassero e addestrassero
anche maestranze locali. Tanto più che i componenti della polvere nera, a cominciare
dallo zolfo e dal salnitro, non erano certo assenti nell’isola. L’isola-regno al centro del
Mediterraneo e delle sue rotte navali, in stato quasi cronico di guerra ma in grado di
pagare in grano qualsiasi merce sembra però non conoscere l’artiglieria a polvere prima
del 1370-1380: qualcosa non torna; qualcosa non è sufficientemente chiara. I cannoni
tuoneranno durante l’assedio del castello di Augusta nel 1380 e quindi durante la
conquista martiniana del regno. E fin dai primi del XV secolo le bombarde costituiranno
la principale arma dei castelli demaniali siciliani, mandando letteralmente in cantina
trabucchi & co. Si potrebbe pensare che a dotarsi di cannoni già prima della decade
1370 possano essere stati i grandi nobili e che la relativa documentazione sia andata
persa con il naufragio dei loro archivi e non solo dei loro. Però, ancora una volta, l’assenza
di alcuna menzione anche nelle cronache lascia spiazzati. D’altra parte, anche altre
regioni d’Europa, ad esempio il regno di Navarra e le Asturie, sembrano non aver sentito
il rombo del cannone prima del 1378-1381231, più o meno come in Sicilia. Allo stato dei
fatti, in ogni caso, il dilemma non sembra risolvibile. Le pitture dello Steri mostrano un
solo cannone a palle, ma direi senza alcuna enfasi, con la stessa normalità con cui
mostrano, pur se in ben altra quantità, spade, lance, balestre, armature, elmi e scudi.
Come fosse cosa già vista e non eccezionale. Prima di allora, però, il vuoto più assoluto,
230
231
POPE 2018, p. 34.
Quest’ultimo caso è bene illustrato, fra gli altri, da LEPAGE 2005, p. 252; DAVIES 2019, p. 15.
601
FERDINANDO MAURICI
il silenzio più completo. Il tuono delle artiglierie a polvere non sembra aver rimbombato
nei tanti fatti d’arme siciliani combattuti prima della pittura, a questo punto quasi
provocatoria, dello Steri. Dobbiamo rassegnarci a tale status quaestionis. Un’altra piccola
crux desperationis del nostro medioevo. Fino a quando, forse, ma è un’esile speranza,
un documento nuovo o riletto non apra inattesi spiragli; o l’archeologia non ci mostri
tracce materiali inequivocabilmente attribuibili a armi da fuoco in Sicilia prima del
decennio 1370. Fa parte del gioco: lo storico deve sempre avere consapevolezza dei
limiti del suo lavoro.
Sicut carnes in macello. La seconda metà del Trecento: ancora assedi e stragi
Nel marzo 1351 gli abitanti di Assoro andarono ad assediare il conte Scalore degli
Uberti nel suo castello rupestre di Sperlinga dove aveva passato il periodo natalizio
portandosi alcuni ostaggi assorini che, tornati alla loro terra, rinfocolarono l’odio contro
il conte e la volontà di sottomettersi al governo regio di Catania232. Gli assorini “undique
steccatis circumvallarunt, adeo quod in eo ingredi vel egredi nemo posset et ordinatis
maginis [machinis] dictum castrum adeo conquassarunt, quod ipsum suo dominio
submiserunt”. Scalore si nascose, sperando di potersi costituire a Blasco d’Alagona:
venne scovato dagli assorini che “impsumque crudeliter interemetur, corpus cujus fuit
adeo incisum, sicut carnes in macello”233. Un ulteriore caso di ferocia fra i tanti che gli
annali della Sicilia trecentesca registrano. Assoro e Sperlinga passarono sotto il governo
regio di Catania.
Nell’agosto 1351, colpo di mano genovese contro Pantelleria, “insula de gente
barbarorum habitata”, popolata ancora da arabofoni234. Consueta strage degli abitanti,
mentre “castrum de gentibus januensium fuit stabilitum”235. Nell’ottobre 1353 il castello
di Milazzo era in mano a ribelli e venne mandato un ultimatum al castellano che
acconsentì di consegnare il castrum in cambio della vita e dei beni. Per meglio convincere
le forze regie, il castellano, uno dei tanti vigliacchi e opportunisti che storia siciliana di
quei decenni registra, fece gridare “in vulgari eloquio … multi anni la vita di lu nostru
signuri re Aloysi [Ludovico] re di Sichilia, et di la signora abatissa vicaria di tuctu lu
regnu”, aggiungendo però alla fine “e viva casa di Claramunti”236. Poco dopo, nonostante
i vessilli regi inalberati dal castellano, dal castello si incominciò a tirare “cum
manganellis” e balestre, incuranti del fatto che nella comitiva fuori dalle mura vi era il
piccolo re Ludovico in persona: “non habentes discrectionem regie tunc majestatis
presentis”. La comitiva regia rientrò a Catania, lasciando un presidio al comando del
conte Enrico Rosso se non ad assediare, almeno a controllare il perimetro del castello
perché nessuno potesse uscire verso la terra di Milazzo. Rosso, però, se ne tornò a
Messina e così la guarnigione del castello assalì la terra i cui armati opposero solo una
“languidam et effeminatam defentionem”237: Milazzo passò così sotto il controllo della
DE CROUY-C HANEL 2010, pp. 44-45.
POPE 2018, pp. 34-37.
234
LEPAGE 2005, pp. 250-251.
235
ROMANONI. BARGIGIA 2017, p. 141.
236
Cfr. MARTINENA RUIZ 1994, p. 521 (Navarra); FERNANDEZ
237
MIRTO 1995, p. 38.
232
233
602
DE
CORDOBA 1966, p. 132 (Asturie).
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
fazione chiaramontana, quasi senza colpo ferire.
Se una terra et castrum passavano così ai Chiaramonte, un altro castello tenuto dai
loro partigiani, quello di Taormina, cedette ai regi in cambio dell’incolumità del castellano
che aprì le porte: le file dei traditori si infittiscono ancora una volta. Restava però in
ribellione l’altro castello di Taormina, il superius o Castelmola, dove era “multorum
quedam in bellis experta juventus” che si difese a colpi di balestra e lanci di pietre.
Colloqui e trattative non ebbero esito e, vista la natura assai forte del sito di Castelmola,
da parte regia si rinunziò a prenderlo d’assalto: “considerans dictum castrum in brevi
obtineri non posse”, preferendosi lasciarlo sotto blocco. La comitiva reale tornò a
Catania238 lasciando l’abitato di Mola in fedeltà ed il suo castello in mano ai ribelli di
parte chiaramontana ma sotto assedio. Contro il castrum venne costruita una nuova
macchina (“novum machinum”) che però venne di notte bruciata e distrutta dagli assediati.
Anche l’abitato di Mola, oltre il castello, si unì così alla ribellione. Un tale Manfredi de
Grugno cercò di sollevare in favore dei Chiaramonte anche Taormina ma venne ucciso
da alcuni fedeli regi “tamquam iniquissimum proditorem”239.
Alla fine dello stesso anno 1353 il castello di Patellaro (o Battalaro), da poco
ricostruito, fu teatro non di un assedio ma egualmente di un truculento fatto di guerra.
Non troppo lontano da Patellaro sorge un altro castello d’origine normanna, Calatrasi240,
dove alloggiava una compagnia di cavalieri catalani o di parte catalana agli ordini di
tale Fulco Roberta, o più probabilmente Folc Robert, ovviamente avversi ai Chiaramonte
e famigerati per le gesta compiute: assalti e latrocini ai danni dei palermitani241. I due,
Calandrino e Robert, erano probabilmente compari di più o meno gloriose imprese e
soliti incontrarsi allegramente. Un giorno, però, nel castello (arx) di Patellaro volarono
fra i due parole grosse e sembrò nascere un odio profondo. Attirato in un tranello l’ex
amico, con la scusa di una riconciliatrice battuta di caccia, Calandrino catturò il Robert
e lo imprigionò a Patellaro per poi cercare di venderlo ai chiaramontani, e precisamente
al barone di Partanna, capitano di Mazara “sub claramontano vocabulo”; presumibilmente
il già ricordato Benvenuto Graffeo. A lui Calandrino spedì lettere chiedendogli aiuto
militare per fare piazza pulita dei catalani di Calatrasi. Il Graffeo, di certo non uno
sprovveduto, non fidandosi, mandò in avanscoperta due emissari a Patellaro per
controllare. I due videro il Robert in prigione, in lacrime e apparentemente consapevole
di essere prossimo all’estremo supplizio: uno di essi, anzi, si divertì vilmente e
sadicamente a strappargli i peli della barba. Altri due messi, spediti dopo i primi,
tranquillizzarono ulteriormente il Graffeo che, a questo punto, mandò in aiuto di
Calandrino quaranta cavalieri. Giunti a Patellaro, però, mentre una quindicina riuscivano
a darsi alla fuga, venticinque di essi furono intrappolati nel castello, disarmati e
vigliaccamente massacrati su ordine di un furibondo Robert che, personalmente e
certamente con piacere, poté saldare il conto al suo malcapitato barbiere242. L’odio fra
M ICHELE DA P IAZZA, p. 123.
Cfr. M ICHELE DA P IAZZA1971.
240
MICHELE DA P IAZZA, p. 143.
241
MICHELE DA P IAZZA, p. 176.
242
M ICHELE DA PIAZZA, p. 177.
238
239
603
FERDINANDO MAURICI
Robert e Calandrino, evidentemente, era stato uno stratagemma ben congegnato dai due
compari, una collusoria inimicitia, come scrisse Michele da Piazza243. Uno dei tanti
episodi di astuzia, violenza e crudeltà nella Sicilia in guerra della metà del XIV secolo.
Come teatro un castello: Patellaro, de novo riedificato, usato come esca e, omericamente
(“si licet parva …”), come serraglio e luogo del macello per le vittime designate.
Anche la terra et castrum di Polizzi erano “a Claramontanis angaria et servitiis
oppressa valde”. Alcuni abitanti si rivolsero nel febbraio 1354 al conte di Geraci
Francesco II Ventimiglia promettendogli di restituire Polizzi alla fedeltà regia. Il conte
accorse e la terra di Polizzi gli aprì effettivamente le porte. Resisteva però il castello
(oggi quasi scomparso), dove parte degli abitanti aveva trovato rifugio, che venne bloccato
e sorvegliato notte e giorno. Si sarebbe allora verificato, secondo Michele da Piazza, un
fatto rocambolesco. Un monaco che era chiuso dentro il castello ogni giorno saliva sulla
torre più alta e, dopo avere indicato col dito la parte del castrum sottostante la torre
stessa, reclinava la testa sulla mano tenendo gli occhi chiusi. Nessuno capiva il senso
del messaggio fino a quando lo stesso Francesco II Ventimiglia ne diede l’esatta
interpretazione: il monaco invitava gli assedianti a recarsi in quel punto sotto il castello
a notte fonda, mentre gran parte dei difensori dormiva. Cinquanta armati (appena tre in
più dei celebri quarantasette rônin giapponi) andarono quella notte stessa e dal castello
venne loro lanciata una fune. Per necessaria prudenza, un solo uomo salì sulle mura e vi
trovò il monaco. Come segnale convenuto con i compagni lasciò cadere un sasso e tutti
gli altri scalarono le mura. Sul far dell’alba, mentre dalla terra di Polizzi Francesco II
Ventimiglia attendeva in ansia, i cinquanta piombarono sui difensori addormentati o in
dormiveglia e li uccisero o catturarono. Il conte Ventimiglia e gli uomini di Polizzi a
quel punto abbatterono la porta del castello e vi entrarono, restituendolo alla fedeltà
regia244. Come già detto, la storia ha del rocambolesco. Che il monaco potesse recitare
la sua pantomima per diversi giorni di seguito senza insospettire nessuno fra i difensori,
insospettisce invece lo storico. Che poi ben cinquanta uomini potessero scalare le mura
in silenzio assoluto e non trovando una sola sentinella, per quanto non impossibile, è
altro fatto che lascia in qualche modo sospettosi. Non si tratterebbe, comunque, del
primo castello caduto per la grande abilità di commandos nemici e per negligenza o
eccessiva fiducia dei suoi difensori, pericolosamente inclini al sonno. Le scalate di mura
in completo silenzio e con totale sorpresa degli assediati, nel corso di “subdole azioni
notturne”, erano, ad esempio, una specialità dei mercenari inglesi operanti in Italia dopo
la metà del XIV secolo e non solo di essi245.
Per fame, a patti, cedette invece ai regi, nel giugno 1354, dopo un blocco d’un paio
di mesi, il castello di Nicosia, tenuto dal già ricordato Jacopo Chiaramonte, “tortuosum
colubrem”, che vi aveva accumulato all’interno un tesoro frutto di estorsioni e ruberie,
sempre stando a Michele da Piazza. Neanche a dirlo, il serpente sinuoso poté farla
franca e rifugiarsi indisturbato, con tutti i suoi beni e con la sua comitiva, nel vicino
castello di Sperlinga. E ciò, nonostante anche i “plurimos insultos” che dagli spalti
MICHELE DA P IAZZA, p. 185. Mirto 1995, p. 64.
MICHELE DA P IAZZA, p. 192.
245
Castelli Medievali 2001, s. v.
243
244
604
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
aveva lanciato contro gli assedianti246, fatto che in genere non veniva perdonato dai
vincitori, almeno a personaggi meno altolocati di un Chiaramonte. Al di là di storie più
o meno credibili e di personaggi striscianti, risulta chiaro che il costo di un assedio in
termini di denaro e il prevedibile tributo in vite umane di un assalto frontale rendeva
molto allettanti possibili scorciatoie. Fossero esse colpi di mano coronati da successo,
quasi sempre propiziato da una quinta colonna, o ponti d’oro offerti al nemico nonostante
il clima di rabbia e odio dilagante e l’abitudine a vendette efferate, ormai profondamente
radicata. Ancora nel 1354, vano tentativo regio contro la forte Lentini, con gli attaccanti
castramentati in una vigna difesa da un fosso ed il consueto rogo dei raccolti da parte
degli assedianti247. Nel novembre dello stesso anno, il castello di Mongialino venne
consegnato per 200 onze da tale Filippo Chirnigliarus a Orlando d’Aragona, e quindi
alla parte regia, dopo l’uccisione a tradimento del castellano durante una razzia in quel
di Mineo248. Altro tradimento, fra i tanti.
Agli inizi di maggio 1355 i chiaramontani subirono un grave smacco con la perdita
della città di Siracusa e dei suoi due castelli. Una congiura, lungamente ordita, riuscì a
sollevare la popolazione al grido di “viva il re di Sicilia e il popolo”. Il capitano
chiaramontano venne trucidato e con lui, more solito, i cittadini che più si erano esposti
a favore dei Chiaramonte e degli Angiò. Dopo di che, la folla inferocita si diresse “ad
castrum quod vocatur di Maniachi, quod est mari contiguum” e di cui era castellano, in
nome dei re di Napoli, tale Jacopino Pedilepore. Non era certamente un cuor di leone e,
“viso sui regis et domini vexillo”, con un immediato e non insolito voltafaccia, aprì le
porte e consegnò il castello. Il terrore che invase il castellano impedì ogni tentativo di
resistenza e rese inutile un ennesimo assedio. Il governo della città fu affidato a Orlando
d’Aragona, consanguineo del re249.
Il 13 maggio 1355, volendo approfittare del momento favorevole, un piccolo esercito
di seicento cavalieri e molti fanti uscì da Catania e si diresse contro Lentini, in mano ai
chiaramontani. Non vennero fatti danni alle campagne, nella speranza che la popolazione
passasse dalla parte regia. Speranza assolutamente infondata, vista la presenza personale,
a Lentini, di Simone e Manfredi Chiaramonte con quattrocento cavalieri. Vano assedio
della terra con sortite dei difensori per mietere grano e portarlo dentro le mura, fortemente
difese a tiri di balestra che “plures ex regis gentes percutiebant”. L’assedio, non mi pare
particolarmente duro né condotto con molta convinzione, venne tolto a metà giugno,
nonostante l’arrivo di rinforzi agli assedianti250.
Nella primavera 1356 il castello Matagrifone di Messina, costruito già da Riccardo
Cuor di Leone come fortilizio temporaneo e poi riedificato in pietra da Federico II, era
in mano a forze ostili al re di Sicilia e cioè a partigiani della famiglia Rosso251. Come
notava il cronista Michele da Piazza: “Messane civitatis dominium sine castro penitus
D’ANGELO 1973, p. 339.
M ICHELE DA P IAZZA, pp. 185-187.
248
MICHELE DA PIAZZA, p. 39.
249
M ICHELE DA PIAZZA, pp. 194-196.
250
Cfr. SETTIA 2002, p. 147.
251
MICHELE DA P IAZZA, pp. 211-212.
246
247
605
FERDINANDO MAURICI
esset inutile”. Non saranno però le forze regie a ottenere la consegna del castello, ma
alcuni emissari chiaramontani che ebbero l’astuzia di inalberare sul castello le bandiere
del re e della città. Ottenuto il castello, poco dopo, nottetempo, vennero aperte ai
filoangioini anche le porte della città252.
Nel 1357 Orlando d’Aragona, capitano regio di Siracusa, considerando i danni che i
chiaramontani facevano nel territorio della città partendo dal castello di Cassibile, oggi
scomparso ed allora privo di abitato corrispondente253, decise di togliersi questa spina
dal fianco. Il castello di Cassibile era stato occupato da Manfredi II Chiaramonte nel
1356 che da lì aveva fatto della devastazione dei campi di Siracusa la sua principale
occupazione254 . Uscito da Siracusa al suono di tromba, don Orlando si presentò
nottetempo con le sue schiere sotto l’arx e, appoggiate alle mura le scale, i suoi armigeri
salirono sull’alta rupe che costituiva il punto più alto del castello. A detta di Michele da
Piazza, le sentinelle, dopo il primo turno di guardia, erano immerse nel sonno: fatto che,
se vero, sarebbe gravissimo sotto il profilo della disciplina militare; quest’ultima, si è
già visto, era spesso piuttosto blanda. Un uccello, una cristarella o cachavenculus,
disturbato dagli armati, avrebbe cantato come fosse già mattino. Il castellano
addormentato, Andrea de Tarento, si svegliò e si stupì di sentire l’uccello in piena notte,
insospettendosi. Dette l’allarme e si barricò in una torre vicina a quella da dove erano
entrati don Orlando e i suoi. La storiella sembra in effetti piuttosto romanzesca: il
castellano non avrebbe sentito i rumori inevitabilmente fatti dai nemici che penetravano
nel castello ma avrebbe udito il canto di un uccello. Vero è invece che dal mare giunsero
insperati rinforzi agli attaccanti. Erano le navi catalane che avevano preso parte alla
battaglia di Aci, dalle quali sbarcò “belligera gens”. Il castellano aveva avuto il tempo
di accendere tre fanali d’allarme, visti dalla non lontana Buscemi da dove partì una
spedizione di soccorso. Quando giunse in vista di Cassibile, però, il castello era già in
mano a Orlando d’Aragona e vi sventolavano le insegne reali. Gli armigeri di Buscemi
se ne tornarono alla loro terra lasciando il castellano Andrea de Tarento al suo destino,
che si consumò in uno strano misto di legalità e ferocia. Da un lato, come cittadino di
Siracusa, gli venne concesso di essere giudicato in quella città; dall’altro, dopo avere
avuto, subito dopo la cattura, mozzato un orecchio, dopo il processo e la scontata
condanna a morte, venne dato in pasto ai carusi della città aretusea255. L’antichissima e
crudele legge del Vae victis vigeva quasi sempre per chi non fosse riuscito in qualche
modo a patteggiare la propria resa, venendo catturato armi in mano.
Altro episodio di inganni e crudeltà ebbe come teatro lo spettacolare castello, in
parte scavato nella roccia, di Gagliano256. Nel 1359 ne era regio castellano tale miles
Ruggero Theutonicus, probabilmente un mercenario tedesco. Questi manteneva ottimi
rapporti con la popolazione, almeno fino a quando una sua ex serva, elevata al rango di
moglie, non ruppe l’idillio, istigando il marito contro i terrazzani. I maggiorenti di
M ICHELE DA P IAZZA, p. 215.
MICHELE DA P IAZZA, pp. 241-243.
254
MICHELE DA PIAZZA, pp. 257-259; MIRTO 1995, p. 80-81.
255
MICHELE DA PIAZZA, pp. 262-266; MIRTO 1995, pp. 81-82.
256
MIRTO 1995, p. 104.
252
253
606
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
Gagliano vennero ad un certo punto invitati da Ruggero amichevolmente al castello in
realtà, però, con l’intenzione di gettarli in carcere. Certi dell’inganno, gli invitati giurarono
di difendersi reciprocamente e si presentarono segretamente armati: dopo uno scambio
di contumelie, riuscirono a impadronirsi dell’infido castellano. Senza complimenti,
ammazzarono quanti cercarono di opporsi, il tutto “nomen regis Friderici nihilominus
invocando”, mantenendosi quindi fedeli al re. Il castellano, sua moglie e la famiglia
vennero chiusi nel castello di Assoro e la vicaria Eufemia affidò il castello di Gagliano
a suoi emissari257.
Nello stesso anno, nuovo e questa volta, finalmente, deciso tentativo da parte regia
di conquistare Lentini ed il suo quasi imprendibile castello. L’esercito regio era guidato
da Artale II d’Alagona che mise la sua base a Militello in Val di Catania e ricevette
rinforzi da Orlando d’Aragona, Berardo Spatafora, dal barone di Buccheri e ancora
adunò “homines terrarum et locorum adjacentium”. Stretta d’assedio, Lentini cominciò
a patire la fame. Manfredi III Chiaramonte riuscì a recarsi a Messina e far partire da lì
una nave carica di grano per soccorrere Lentini. Alla notizia dell’arrivo del grano nel
porto di Augusta, gli assedianti la investirono con forza, mettendola a ferro e fuoco. La
notte del 28 dicembre 1359 gli assedianti riuscirono con scale a superare le mura della
terra di Lentini ingannando le sentinelle, augurando loro “in volgari locutione … bona
guardia” ed ottenendone in risposta il medesimo saluto. Non mancò l’intervento
miracoloso di Sant’Agata, patrona di Catania e di cui gli Alagona e la stessa dinastia
regia di Sicilia erano devotissimi. Al grido di “viva lu re di Sichilia et moranu li
Claramunti”, con suono di trombe, le truppe regie invasero la terra attraverso le porte
aperte dai compagni già entrati superando le mura con le scale. Resistette per qualche
ora una torre delle mura, ma anch’essa si arrese all’alba. Si arrese poi anche il quartiere
Tirone, dove risiedeva il capitano della terra. Al successo dell’espugnazione concorse
anche il divieto, fatto bandire da Artale II d’Alagona, sotto pena di morte, di uccidere
gli abitanti e danneggiarne o rubarne i beni. Una dimostrazione di umanità, o almeno di
buon senso politico, in mezzo a tanta efferatezza.
A resistere restò solo il castello, dove si erano rinchiusi anche la moglie di Manfredi
III Chiaramonte, Margherita di Passaneto, e i figli. La difesa del castello, in pratica,
passò nelle mani di donna Margherita. Il castrum di Lentini era “immense rupis, et
murorum altitudinis undique vallatum, quod exteriores egressus minime formidabant,
et quod in perpetuum sic inclusi possent esse securi, si victualia eis non deficerent ad
substentationem”. Michele da Piazza, in effetti, ancora una volta descrive assai bene un
castello assediato, forse per conoscenza diretta o per averne dettagliatamente sentito
parlare. L’area occupata dal castello (localmente Castellaccio) è una porzione irregolare
di altipiano a pianta di poligono irregolare lunga nel punto massimo 100 m. É isolato
naturalmente, a nord e a sud, da due valli con tagli artificiali e sui rimanenti lati da due
larghi e profondi fossati artificialmente scavati ma collegati da due stretti istmi al
Castellaccio; uno dei due è a sua volta tagliato e poteva essere superato solo da un ponte
lavatoio. Tali enormi lavori di taglio della roccia potrebbero risalire a età greca. Restano
257
MICHELE
DA
P IAZZA, p. 314; MIRTO 1995, p. 108.
607
FERDINANDO MAURICI
inoltre alcuni segmenti di muro lungo il ciglio delle pareti rocciose, resti di torri e in
particolare un ambiente sotterraneo, quasi certamente una cisterna, di grandi dimensioni
(16, 72 x 5,80 x 5,50 h) voltata a botte con quattro grandi archi di rinforzo258.
L’assedio al Castellaccio fu un’importante azione militare, senza dubbio costosissima
e che vide impegnate molte centinaia di uomini. Artale d’Alagona radunò infatti in gran
numero da Catania “architectoribus, fabricensibus, cementariis, lignorum secatoribus
et magistris ingeniosiis”. Fece circondare il castello con un muro “maxime altitudinis”
per impedire sortite ed evitare che gli assediati potessero ricevere soccorsi. Fece inoltre
scavare una galleria che giunse fino alla vena che alimentava il pozzo del castello,
avvelenandola. La notizia giunse però alla moglie di Manfredi Chiaramonte, donna
Margherita, e l’acqua del pozzo non venne più bevuta, utilizzandosi quella della capiente
cisterna. Quasi un secolo prima, nel 1267, i siciliani avevano fatto la stessa cosa
assediando il medesimo castello in mano ai filoangioini e costringendoli così alla resa259.
Lungo il muro esterno, i balestrieri catanesi facevano di notte la guardia per impedire
che dal castello nessuno uscisse e che nessuno vi entrasse. Riuscirono però a penetrarvi
alcuni abitanti della non lontana Vizzini con poche vettovaglie: un inutile soccorso. Le
fortificazioni lignee, bertesche e altro, erette tra i merli e i parapetti del castello, erano
fatto oggetto di continui lanci di pietre. Artale d’Alagona, infatti “construi fecisset
quoddam machinum in oppositum dicti castri, quod saxum cantarium trium cum dimidio
ponderis intus castrum emictebat”. Doveva trattarsi di un grande trabucco in grado di
scagliare massi o palle di quasi tre quintali (1 cantaro = 79,34 kg), che inferse gravi
danni agli edifici del castello. É possibile ritenere, considerando il dettaglio del racconto
e visto l’accento posto da Michele da Piazza su questo machinum, che non vi fossero
artiglierie a polvere. Un monaco benedettino del monastero di San Nicolò l’Arena di
Catania, un tale don Bartolomeo, fu fatto entrare nel castello su richiesta di donna
Margherita. Quando uscì dal castello, il suo bagaglio venne perquisito e si scoprì che la
nobildonna gli aveva affidato un vero e proprio tesoro “in auro, argento, perlis, coronis
aureis, at anulis cum lapidibus pretiosis, et aliis rebus … que ad immensum quantitatis
numerum transcendebant”. Nonostante ciò, ancora una volta generosamente, Artale
d’Alagona gli risparmiò la vita, trattamento che difficilmente sarebbe stato concesso ad
un laico.
Donna Margherita chiese di parlamentare e Artale d’Alagona fece cessare per due
giorni i lanci di pietre col trabucco. Durante i colloqui, i due emissari di donna Margherita,
il notaio Guglielmo di Sortino e tale Francesco de Savoya (un mercenario savoiardo?) si
offrirono di loro iniziativa, tradendo il mandato ricevuto, di consegnare il castello. Alla
loro signora dissero di avere patteggiato la resa se entro quindici giorni il castello non
avesse ricevuto rinforzi, fatto assolutamente normale per la diplomazia ossidionale. I
due fecero però segretamente entrare nel castello dei vessilli regi e, una notte in cui
avevano la responsabilità della guardia, li fecero innalzare sulle parti più alte delle torri
del castrum. Verso l’alba le porte vennero aperte dai due traditori ma entrò il solo Artale
d’Alagona con pochi uomini. Da gran cavaliere e gentiluomo, attese per bussare alla
258
259
Castelli Medievali 2001, s.v.
MICHELE DA P IAZZA, p. 297; MIRTO 1995, p. 98.
608
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
camera da letto il risveglio di donna Margherita che, comunque, per la paura nel vedersi
il nemico davanti, quasi svenne. Lei e i figli vennero però trattati con grande cortesia
(hororifice) da Artale e condotti a Catania, a Castello Ursino260. Gli altri occupanti del
castello furono lasciati liberi. Secondo Corrado Mirto “sul piano politico la disfatta di
Lentini assestò un colpo distruttivo al prestigio di Manfredi Chiaramonte, mentre portò
alle stelle la popolarità di Artale Alagona”261.
Assai meno bene andò a finire per i vinti, nel giugno 1360, all’assedio del castello di
Santa Lucia del Mela, tenuto dal filoangioino Nicolò Cesareo e assediato da Enrico
Rosso - rientrato in fedeltà regia - con l’uso di una machina, quasi certamente, ancora
una volta, un trabucco. Il Cesareo scese a patti, offrendo la resa in cambio della vita per
sé ed i suoi. Accordo fatto. Le porte del castello si aprirono: il Cesareo venne però
subito ammazzato da Giovanni Mangiavacca, della comitiva di Enrico Rosso, e gli altri
suoi compagni scaraventati giù dalle mura del castello262. Solo uno, tale Pino Campolo,
fu risparmiato, essendosi offerto di sollevare una rivolta antiangioina e antichiaramontana
a Messina, ove godeva di buon consenso. Enrico Rosso, con una certa dose di ingenuità,
accettò e commise anche l’ulteriore errore di consegnare al Campolo delle missive per
i suoi sostenitori segreti a Messina. Essi vennero così smascherati e massacrati dai
chiaramontani263. Come si vede, la moderazione e la clemenza di don Artale d’Alagona
erano l’eccezione in una Sicilia miskinella ove lo spargimento di sangue in modo
truculento era all’ordine del giorno e in cui il nemico catturato poteva nutrire ben poche
speranze di salvezza.
La pace detta di Piazza e Castrogiovanni del 1362 mise fine alla guerra civile ma
non a quella con Napoli. Nel giugno 1364 Messina, in mano filoangioina, insorse contro
il presidio e i suoi pochi partigiani locali che finirono assediati nei castelli della città264
e cioè il Palazzo Reale, Matagrifone e il San Salvatore, che vennero restituiti a Federico
IV solo nel settembre 1366, dopo gli accordi di pace siglati con Giovanna d’Angiò.265
La pace durò fino a quando, nel gennaio 1379, il rapimento della regina Maria, unica
figlia di Federico IV, aprì un nuovo periodo di incertezza politica che si sarebbe concluso
con la riconquista aranonese-catalana del regno. La sovrana fu agevolmente sequestrata
da Guglielmo Raimondo Moncada nel Castello Ursino di Catania perché “nulla guardia
si fachia a lo ditto castellu”, mentre era voce diffusa che “si castrum Ursinum fuisset
bene custoditum dicta domina regina Maria non fuisset capta”. La responsabilità, in
ultimo, era dello stesso Artale II d’Alagona che “male faciebat dictum castrum custodiri”
e in quel momento si trovava a Messina, nella torre di Blasco, fatta costruire da suo
padre266. Maria fu portata nel castello di Augusta che Artale II d’Alagona solo con ritardo
strinse d’assedio, lasciandosi però sfuggire il Moncada ed il suo prezioso ostaggio che
MICHELE DA PIAZZA, pp. 332-334.
Cfr. MAURICI, LAUDICINA 2004.
262
MICHELE DA P IAZZA, pp. 344-345.
263
Castelli medievali 2001, pp. 401-403.
264
SABA MALASPINA, IV, IV, p. 35.
265
MICHELE DA PIAZZA, pp. 385-389.
266
MIRTO 1995, pp. 145-146.
260
261
609
FERDINANDO MAURICI
fu rinchiuso questa volta nel castello vecchio di Licata, nella zona di influenza di Manfredi
III Chiaramonte267. Guglielmo Raimondo Moncada, a quel punto, partì per la Catalogna
per andare a offrire la regina Maria ed il regno di Sicilia a Pietro IV. Inutilmente Manfredi
Chiaramonte, Artale d’Alagona e Guglielmone Peralta assediarono il castello di Licata.
Il tentativo di liberare la regina fallì e nell’estate 1380 Guglielmo Raimondo Moncada
tornò con una piccola spedizione aragonese, confermando e rafforzando il pieno controllo
del castello di Licata268.
Passò quindi nuovamente, con l’ostaggio regale, nel proprio castello di Augusta che
venne a sua volta nuovamente assediato. Furono messe in batteria da Artale d’Alagona
delle bombarde, ora per la prima volta documentate in fonti scritte in Sicilia e, secondo
Corrado Mirto, una novità assoluta per l’isola269. L’assedio del castello d’Augusta era
un’operazione politico-militare difficile e delicatissima, dovendosi considerare la
presenza al suo interno della regina Maria che a tutti i costi non doveva essere colpita.
Un assedio relativamente soft, quindi, e che da parte siciliana si considerava, con
leggerezza, vinto in partenza, visto anche che dall’Aragona non giungevano altro, in
favore degli assediati, che incitamenti alla resistenza e promesse di aiuti futuri. Artale II
d’Alagona si permise anche la signorilità di mandare il suo medico a visitare la regina e
di inviarle ogni giorno cibo, perché lei non patisse la “maximam inopiam”270 che invece
incombeva sui difensori del castello. I quali, nonostante tutto, forse contagiati
dall’atteggiamento cavalleresco dell’Alagona, non lo facevano oggetto di tiri di balestre
o pietre quando egli, sotto le mura del castello, si fermava a riverire la sua regina271.
Tanta reciproca signorilità era decisamente fuori luogo, vista la posta in gioco. La
mancanza di decisione nell’assedio del castello di Augusta ebbe conseguenze disastrose
per i siciliani. Alla fine, nel settembre o ai primi d’ottobre 1382, la regina Maria fu
infatti presa in consegna dal visconte Felip Dalmau de Rocabertì, che tornava con una
piccola flotta aragonese dalla Grecia, e portata prima a Cagliari272 e infine a Barcellona.
La stagione della guerra e degli assedi ricominciò così nel 1392, con l’arrivo in
Sicilia del grande e poderoso esercito aragonese-catalano-valenzano al seguito dei due
Martini. Già prima dell’esecuzione di Andrea Chiaramonte, Artale d’Alagona (non Artale
II, il vicario, già morto, ma il figlio del nuovo vicario Manfredi d’Alagona) si chiuse nel
castello di Aci, “reconociendo que estaba su persona a gran peligro y la de sus sobrinos
y valedores que eran muchos barones muy principales”273, iniziando una “resistenza che
sarebbe stata lunga ed accanita”274. Ancora una volta, il rinchiudersi da parte di un
nobile in un suo castello iniziava la sfida con l’autorità superiore. Ma, come si è già
detto, l’assedio del castello di Aci, condotto anche da forze catanesi, non andò avanti
con molto impegno per il favore che la casata d’Alagona godeva nel territorio etneo.
MICHELE DA P IAZZA, p. 398.
MIRTO 1995, pp. 147-148.
269
MIRTO 1995, p. 180.
270
MIRTO 1995, p. 187.
271
MIRTO 1995, pp. 230-231.
272
MIRTO 1995, p. 236.
273
MIRTO 1995, p. 237.
274
MIRTO 1995, p. 239.
267
268
610
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
Artale riuscì anzi ad uscire da Aci e entrare vittoriosamente a Catania costringendo i
pochi sostenitori dell’Aragona a rinchiudersi a loro volta nel castello Ursino. Poco dopo,
però, giunse a Catania Martino il Vecchio con parte del suo esercito e si vendicò
brutalmente sulla città. Artale tornò al castello di Aci che Martino l’Umano cercò di
assediare per mare e per terra, disturbato però da azioni di guerriglia condotte dai contadini
locali, ancora una volta ferocemente represse. L’assedio del castello sulla rupe lavica
poté quindi avere inizio il 19 settembre 1392275.
Un mese dopo circa, il duca Martino occupava Castrogiovanni ed il suo strategico
castello, al solito coronando la vittoria con esecuzioni di massa: cinquanta siciliani
furono uccisi facendoli precipitare dalle mura del castello276. Con l’inverno, la stretta
sul castello di Aci si allentò ma l’assedio ricominciò, dopo molte tergiversazioni da
parte dei nobili siciliani fedeli al duca, solo a metà di giugno, con l’impiego di forze
terrestri e di cinque galere, due naos ed altre barche armate277. L’assedio anche per
mare, oltre che per terra, era reso necessario da un lato dalla posizione del castello su di
un promontorio lavico a strapiombo sullo Jonio e dall’altro dai rapporti di Artale con
Milano e Genova che potevano far paventare l’arrivo di consistenti aiuti via mare.
L’Alagona, infatti, “tenía sus tratos e inteligencias con la señoría de Génova y con el
señor de Milán para que le socorriesen con su armada y algunas compañías de gente
de armas”278. Non giunse allora alcuna flotta genovese e non giungerà mai, come non
giungeranno mai truppe milanesi. Nonostante trattative e richieste di accordo, Artale
continuò però a resistere, ricevendo incoraggiamento dalle notizie di ribellioni che
scoppiavano un po’ ovunque contro il duca Martino. Nel luglio 1393 insorsero infatti
vari centri, fra cui Castrogiovanni, dove i seguaci e partigiani del duca Martino dovettero
chiudersi nel castello. Scrive Zurita: “se rebelaron las más ciudades y villas, y no
perseveraron en la obediencia de los reyes sino Mecina, Zaragoza, el castillo de Catania
- donde el duque y sus hijos se recogieron - el castillo de Agosta, La Licata, el castillo
y villa de Términi y castillo de Castrojuán que es de los más importantes y fuertes de
toda la isla, de donde se hacía la guerra con gran comodidad en diversas comarcas”. I
re di Sicilia “así se hubieron de recoger al castillo de Catania y estuvieron cercados de
los enemigos”279. Gli invasori divenivano assediati. Martino il Vecchio dovette chiedere
aiuto ad alcuni feudatari aragonesi e allo stesso fratello re d’Aragona280. Nel 1394 giunsero
aiuti importanti dall’Aragona e dalla Catalogna e Catania, assediata, dovette cedere281.
Nel 1396, con la morte di re Giovanni e l’ascesa di Martino il Vecchio al trono d’Aragona,
il destino della resistenza siciliana era ormai segnato. Civitates, terre e castra in mano
ai siciliani ribelli dovettero cedere uno dopo l’altro282. Come già detto, il Parlamento di
Siracusa del 1398, provvedeva, fra l’altro, alla riorganizzazione di un solido demanio
LA LUMIA 1878, p. 144.
MIRTO 1995, p. 240.
277
MIRTO 1995, p. 247.
278
ZURITA, X, L.
279
MIRTO 2000, p. 48.
280
MIRTO 2000, p. 55.
281
MIRTO 2000, p. 56.
282
MIRTO 2000, p. 59.
275
276
611
FERDINANDO MAURICI
reale con le civitates, le più importanti terre e i relativi castelli, ormai tutti armati di
numerose bombarde. La guerra civile sarebbe riesplosa alla morte di Martino il Vecchio,
il 31 maggio 1410, fra la fazione della regina Bianca di Navarra, seconda moglie e
vedova di Martino I il Giovane, e quella di Bernat Cabrera. Ancora battaglie e ancora
assedi di città, terre e castelli. Dopo l’elezione a re della confederazione aragonesecatalano-valenzana dell’infante di Castiglia Fernando de Antequera a Caspe, il 25 giugno
1412, finì di fatto l’indipendenza del regno di Sicilia.
Le ultime ondate di ribellione contro la corona d’Aragona si propagheranno fino ai
primi anni di regno di Alfonso il Magnanino. Nel 1418 la rivolta di Cicco (Francesco) e
Giovanni Ventimiglia, chiusi nel castello di Roccella fra Termini e Cefalù, come già
visto, verrà stroncata con pochi colpi di un’enorme bombarda, beffardamente chiamata
Stati in pachi, state in pace283: un chiaro messaggio politico. Il medioevo si avviava al
suo tramonto, anche in Sicilia, “im Zeichen der Kanone”: sotto il segno del cannone.
Ma perché lo sviluppo delle artiglierie piriche cominci a determinare cambi sempre più
rapidi e sostanziali nell’architettura fortificata occorrerà attendere alcuni decenni e,
soprattutto, l’addensarsi della minaccia barbaresca e, in primo luogo, turca.
Ma questa è un’altra storia che spero di poter narrare in futuro.
283
CORRAO 1988, pp. 66-67.
612
VIRILMENTI ASSEDIANDO. CASTELLI ASSEDIATI NELLA SICILIA DEL TRECENTO
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Galleria
Rassegna semestrale di cultura, di storia patria, di scienze letterarie e artistiche
e dell’antichità siciliane
Questo numero
è stato chiuso il 20 giugno 2021
e stampato
nel mese di luglio 2021.
630
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