RAFFAELE GIANNETTI
ALTEA O STORIA DI UNA MALVACEA
DAL MITO OVIDIANO A CENERENTOLA
Abstract
Nel presente saggio si discute dell’omonimia, apparentemente non significativa,
che lega Altea, la tragica eroina del mito ovidiano, all’Althaea officinalis. In questo
contesto, in cui l’interscambio fra uomini, animali e piante si sostanzia delle
percezioni dei filosofi o dell’immaginario sociale non meno che della fantasia dei
poeti, la somiglianza fra Altea, madre di Meleagro e moglie di Oineo, e la pianta –
una malvacea selvatica – diventa lo sfondo coerente e implicito della metamorfosi
delle sorelle di Meleagro in uccelli. L’esame della vicenda, il cui nucleo è lo scontro
fra una società arcaica e primitiva, fatta appunto di malve e paludi, e un’altra più
evoluta simboleggiata da viti e olivi, conferma la pertinenza della sovrapposizione
fra donna e pianta, e rimanda a quella fra codici comportamentali e prescrizioni
terapeutiche. L’opposizione fra le due mentalità e, per così dire, fra il vino (Oineo) e
la malva (Altea), si manifesta chiaramente nelle questioni parentelari e nelle scelte
matrimoniali. Quindi, l’indagine iconografica dimostra la longevità di tali analogie,
le quali, rispecchiandosi anche in una «nascita prodigiosa dal focolare», conducono
facilmente ai temi delle fiabe popolari e, in particolare, di Cenerentola.
The purpose of this essay is to discuss the homonymy, seemingly not relevant,
that connects Althaea, the tragic heroine of the Ovidian myth, to the Althaea
officinalis. In this context, where the kinship between people, animals and plants is
substantiated by popular and philosophical perception as much as by poetic
imagination, the similarity between Althaea, mother of Meleager and wife of Oineus,
and the plant (a wild malvacea) becomes the coherent and implicit background of the
metamorphosis of Meleager’s sisters into birds. The analysis of this event, at whose
core is the clash between an archaic and primitive society, made precisely of marshes
and mallows, and another more evolved, symbolized by grapevines and olive trees,
confirms the pertinence of the overlapping of woman and plant which is linked to
that of codes of behaviour and therapeutic prescriptions. The opposition between the
two mindsets and, so to speak, between wine (Oineus) and mallow (Althaea),
appears clearly in family relations and matrimonial choices. Then, the research on
iconography shows the longevity of such analogies, which, mirrored also by a
«prodigious birth from the fireplace», easily lead to the themes of folk tales and, in
particular, of Cinderella.
—1—
RAFFAELE GIANNETTI
—2—
ALTEA O STORIA DI UNA MALVACEA
RAFFAELE GIANNETTI
ALTEA O STORIA DI UNA MALVACEA
DAL MITO OVIDIANO A CENERENTOLA
Introduzione
Altea è la protagonista di una tragica storia, quella di una madre
sfortunata che uccide, non involontariamente, il figlio che le aveva
ucciso i fratelli. La storia, assai nota, è raccontata da Ovidio nell’ottavo
libro delle Metamorfosi.1 Lo stesso Ovidio, nelle lontane brume di Tomi
dove era stato relegato da Augusto, ne darà poi un fuggevole cenno nei
Tristia descrivendo Altea, in maniera felicemente sintetica, come melior
matre … soror.2
Nelle Metamorfosi, tuttavia, Ovidio aveva già utilizzato la formula e
definito Altea, anche allora, migliore sorella che madre, usando però
due termini – germana in luogo di soror, e parens in luogo di mater –
che sottolineano i rapporti di consanguineità: melior germana parente.3
Il nome di Altea è stato avvicinato a quello dell’Althaea officinalis.
Si è detto, infatti, che la «sorella di Leda […] aveva preso il nome di
Altea dalla malva che cresce nelle paludi».4 Ed è in queste botaniche
vesti che qui la si vuole considerare.
1 Ov., met., 8, 267-546; Apollod., 1, 8; Hyg., fab., 171-174. Sulle fonti dell’episodio, oltre
ai commenti ad. loc. dei testi citati, cfr. Ovidio, Metamorfosi, testo critico basato sull’edizione
oxoniense di R. Tarrant, a cura di E.J. Kenney, Traduzione di G. Chiarini, 6 voll., IV (libri
VII-IX), Milano, Mondadori, 2004, pp. 332-333 nt. 260-264; 349 nt. 445-525.
2 Ov., trist., 1, 7, 18.
3 Ov., met., 8, 475. Si noti che tale espressione, con la quale ci si avvia al supplizio di
Meleagro, è preparata da quella analoga, ma ancora segnata dall’indecisione, pugnant
materque sororque (v. 463).
4 K. Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, Milano, Il Saggiatore, 1988 [1. ed. 1963], p.
335. Cfr. G. Nagy, The Best of the Achaeans. Concepts of the Hero in Archaic Greek Poetry,
Baltimore-London, The Johns Hopkins University Press, 1979, p. 88: This noun álthos
corresponds to althaíā, the name of a plant that cures wounds (Theophrastus, Hist. plant.,
9.15.5) and to Althaíē, the name of Meleager’s mother (IX 555); da cui si rinvia a P.
Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Paris, 1968.
—3—
RAFFAELE GIANNETTI
La relazione fra la pianta e la donna non è mai stata finora rilevata:
perché mai una pianta guaritrice come l’altea, che nell’iconografia
cinquecentesca accompagna la Madonna col Bambino, dovrebbe
condividere il nome con una madre che uccide il proprio figlio? Eppure,
le vicende di Meleagro – il racconto della nascita e quello, anche
iconografico, della morte – sembrano connettersi a queste sacre
rappresentazioni e, infine, rimandando al folclore, permettono di istituire
un parallelo con Cenerentola e con la sua nascita prodigiosa dal focolare.
La presenza del mito di Altea nelle Metamorfosi ovidiane è
giustificata dal fatto che la vicenda si conclude con la trasformazione
delle sorelle di Meleagro in uccelli. Ma, forse, l’idea che Altea sia
analoga a una pianta, a una vegetale e malvacea althaea, rappresenta la
vera metamorfosi oggetto del presente studio.
In questo mondo dagli indistinti confini, in cui le piante sono «uomini
a testa in giù»,5 in cui una canna palustre può sostituire magicamente un
arto umano secondo il principio della transplantatio morbi,6 in questo
mondo in cui non si tratta soltanto di poesia, ma di profonde affinità fra
gli uomini e le piante, quello affrontato appare un percorso possibile, se
non necessario.7 Di tali affinità ci parlano, inoltre, gli inventores di piante
5 L. Repici, Uomini capovolti. Le piante nel pensiero dei Greci, Roma-Bari, Laterza, 2000,
pp. 13 ss.; 46 ss.; passim.
6 Cato, agr., 160; Plin., nat., 17, 267; 28, 21. Cfr. A.M. Di Nola, L’arco di rovo. Impotenza
e aggressività in due rituali del Sud, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 37 ss. e, in
particolare, pp. 95 ss. Si noti che il termine transplantatio, ‘trapianto’, è di per sé
significativo.
7 Certes, depuis les Psaumes de David jusqu’aux “jeunes filles en fleur” de Proust en
passant par l’Oraison funèbre de Madame par Bossuet ou la rose de Fontenelle sans oublier
les poèmes de Ronsard, tous les genres, toutes le époques ont comparé la vie éphémère de
l’homme à celle d’une fleur. Cependant, quand il s’agit de la Grèce cette relation prend une
autre dimension: il ne s’agit plus seulement d’expressions poétiques ou éloquentes; ce sont de
véritables, et profondes affinités qui sont senties entre les corps humains et les végétaux – au
reste feuillus plutôt que fleuris (D. AUBRIOT, L’homme-végétal: métamorphose, symbole,
métaphore, in Kêpoi: de la religion à la philosophie, Liège, Presses universitaires, 2013, p. 1).
Sulle ragioni del verde delle foglie nei confronti degli altri colori dei fiori, M. PASTOUREAU,
Vert. Histoire d’un couleur, Paris, Édition du Seuil, 2013 (ed. italiana: Verde. Storia di un
colore, Milano, Ponte alle Grazie, 2018), p. 71 ss. Gli indistinti confini sono quelli dello
scritto di Italo Calvino, in P. Ovidio Nasone, Metamorfosi, a cura di P. Bernardini Marzolla,
Torino, Einaudi, 1979, pp. VII-XVI. La sovrapposizione fra codice botanico e matrimoniale o
latamente religioso e sociale è uno dei motivi principali di M. DETIENNE, I Giardini di Adone,
Torino, Einaudi, 1975.
—4—
ALTEA O STORIA DI UNA MALVACEA
come Achille, Genzio, Lisimaco, Artemisia e via dicendo,8 e poi le viti
maritate9 e mille altre cose di cui non è possibile dar conto.10
Del resto, anche la metamorfosi in se stessa è una delle forme in cui si
manifesta l’idea di una corrispondenza fra i vari regni della natura. Se,
dunque, il ricorso all’analogia fra piante, animali e uomini pare motivato
dall’immaginaria possibilità di un trapasso vitale dall’una all’altra forma,
per cui la metamorfosi sarebbe «sottrazione di tempo»,11 pure, dietro ad
essa traspare il disegno degli antichi filosofi di ordinare in una sorta di
climax le forme vitali, dal grado più semplice al più complesso. Sembra
allora che la metamorfosi sistemi in un prima e in un poi i termini del
paragone, ovvero le diverse nature assunte dai personaggi, trasformando
in storia e dunque in racconto, e cioè in tempo, una somiglianza nata
altrove. Tuttavia, poiché il mito comporta, sul piano ideologico,
l’immaginazione di uno stadio primitivo e precivile, nel quale il cosmos
non ha ancora soppiantato il caos indistinto, il racconto di metamorfosi
potrebbe apparirci cronologicamente rovesciato. Ma è da credere che il
verso del tempo rimanga ambiguo perché Ciparisso trasformato in
cipresso ci costringe a trasformare ogni cipresso che vediamo in
Ciparisso, e lo fa obbligandoci a rinnovare ogni volta il percorso
eziologico: «non esiste un solo spettatore della tragedia che non sappia
che ogni usignolo che canta è precisamente Procne che piange».12
8 Cfr. Plin., nat., 25, 42 e 71-73. Ma sotto la scoperta di una pianta e delle sue virtù si celano le
analogie fra questa e il suo inventor, il quale funziona come «un mitologico foglietto delle
indicazioni» (R. GIANNETTI, Nello specchio di Narciso. Al lettore che si accinge a visitare questo
giardino, in I. Bonini e altri, a cura di, L’Erbario dei Cappuccini di San Quirico. La storia
complessa di una raccolta settecentesca, Arcidosso, Effigi Edizioni, 2020, p. 12).
9 Cfr. L. ALFONSI, La vite e l’olmo, «Vigiliae Christianae», 21, n. 2, 1967, pp. 81-86; S. CORSI,
L’olmo e la vite (Gerusalemme liberata, XX 99), «Modern Language Notes», 102, n. 1, 1987, pp.
141-146.
10 M.F. FERRINI, [Aristotele], Le piante, Milano, Bompiani/RCS, 2012, pp. 38 nt. (sull’origine
botanica di termini come sperma e rhiza); 61 e 75; passim. All’indagine dell’autrice non sfugge
nemmeno la metaforica «vigna di Renzo» del XXXIII capitolo de I promessi sposi (p. 226 nt.).
11 Come sostiene, assimilando la metamorfosi alla magia, P. FORNARO, Metamorfosi con
Ovidio. Il classico da riscrivere sempre, Firenze, Olschki, 1994, pp. 102-103. Cfr. F. FRONTISIDUCROUX, Arbres filles et garçons fleurs. Métamorphoses érotiques dans les mythes grecs, Paris,
Seuil, 2017, pp. 19 e 55, dove si attribuisce al pensiero antico l’incapacità di descrivere la
metamorfosi, che diventa dunque una mera sostituzione, in termini di durata.
12 N. Loraux, Le madri in lutto, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 55. Un caso interessante di
doppia metamorfosi, con ritorno alla forma originaria, è rappresentato dalla favola esopica La
donnola e Afrodite, in cui una donnola che si era innamorata di un bel giovane, ottenuta la
trasformazione in donna, ma ancora schiava dei suoi originari appetiti animali, viene punita
dalla dea con la retrometamorfosi (Aesop., fab., 76: Γαλῆ καὶ Ἀφροδίτη; cfr. M. Bettini,
Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi, Torino, Einaudi, 1998, p. 235). Il greco γαλῆ
indica anche la gatta o la faina.
—5—
RAFFAELE GIANNETTI
Altea figlia di Testio
Si intende che il patronimico, da solo, è già anticipazione della luttuosa
vicenda, nel senso che il sangue del padre accomuna la donna più ai suoi
fratelli che non al figlio, Meleagro, il quale è naturalmente segnato dal
sangue straniero del marito, Oineo (o Eneo).13 Anche nei Tristia, Altea è
Thestias, cioè ‘figlia di Testio’.14
Ovidio racconta, dunque, che Meleagro uccise il cinghiale che
devastava le campagne del padre e ne donò le spoglie all’amata Atalanta. Il
gesto offese Plessippo e Tosseo, fratelli della madre e figli di Testio, che si
sentirono defraudati di quella che era una loro prerogativa. Nella lite che
seguì, Meleagro li uccise: uccise gli zii materni.15 Altea, allora, pur divisa
angosciosamente tra l’amore filiale e quello fraterno, si risolse a uccidere
Meleagro, gettando tra le fiamme il ceppo che lei stessa aveva tratto dal
fuoco al momento della nascita del figlio:
Stipes erat quem, cum partus enixa iaceret
Thestias, in flammam triplices posuere sorores
13 Al contrario, il sangue consors di Plessippo e Tosseo, sparso da Meleagro (Ov., met.,
444), allude alla medesima sorte dei due fratelli uccisi e al medesimo sangue, fraterno e
gentilizio insieme. La seconda delle «regole» che governano la terribile ira delle madri
assassine è alquanto esplicita: «Una madre assassina lo è sempre di suo o dei suoi figli, perché
si tratta di colpire lo sposo che, come padre, è colpevole – oltre agli altri motivi di
risentimento, spesso gravi – di essersi interposto e di aver distrutto il rapporto di naturalezza
immediata esistente con il figlio» (N. LORAUX, Le madri in lutto, cit., p. 51). L’azione omicida
può, inoltre, configurarsi anche come il risultato di una razionalizzazione dei rapporti di
parentela, che nasce pur sempre sul terreno della consanguineità: «Antigone, nella tragedia
sofoclea, spiega perché il fratello è più importante di tutto: “Morto lo sposo, un altro avrei
potuto averne, e un figlio da un altro uomo, se un figlio avessi perduto. Ma, essendo madre e
padre tutti e due nascosti nell’Ade, non vi è più fratello che possa germogliare”» (L.
BIONDETTI e M. RAMOUS, Metamorfosi, a cura di M. Ramous, con un saggio di E. Pianezzola,
Milano, Garzanti, 1992, p. 753; commento a 8, 463 ss.).
14 Ov., trist., 1, 7, 18.
15 Plessippo e Tosseo compaiono con il loro nome in Ov., met., 8, 440-441, e soltanto con
il patronimico ai vv. 304 e 434. Da sottolineare che Tosseo è anche il nome di un altro figlio di
Altea e Oineo, ucciso dal padre stesso perché aveva oltrepassato un fossato nonostante il suo
divieto (Apollod., 1, 8, 1 [64]). Gli altri fratelli sono Tireo e Climeno (ibidem). In Igino, i
fratelli di Altea sono Ideo, Plessippo e Linceo (Hyg., fab., 174).
—6—
ALTEA O STORIA DI UNA MALVACEA
staminaque impresso fatalia pollice nentes
«tempora» dixerunt «eadem lignoque tibique,
o modo nate, damus». Quo postquam carmine
[dicto
excessere deae, flagrantem mater ab igne
eripuit ramum sparsitque liquentibus undis.
Ille diu fuerat penetralibus abditus imis
servatusque tuos, iuvenis, servaverat annos.
Protulit hunc genetrix taedasque et fragmina poni
imperat et positis inimicos admovet ignes.16
Sappiamo anche da Apollodoro che la vita di Meleagro, come
avevano sentenziato le Parche alla nascita del fanciullo, sarebbe durata
quanto quel pezzo di legno:
τούτου δʹὄντος ἡµερῶν ἑπτὰ παραγενοµένας τὰς µοίρας
φασὶν εἱπεῖν, <ὅτι> τότε τελευτήσει Μελέαγρος, ὅταν ὁ
καιόµενος ἐπὶ τῆς ἐσκάρας δαλὸς κατακαῇ.17
Particolarmente interessante appare, nel racconto di Ovidio, la
descrizione della morte dello stesso Meleagro ad opera della madre, la quale
«funereum torrem medios coniecit in ignes». Il tizzone di morte, appena
gettato in mezzo al fuoco, «aut dedit aut visus gemitus est ipse dedisse |
16 «C’era un pezzo di legno che, quando la figlia di Testio era | ancora allettata dal parto, le
tre sorelle avevano posto | sul fuoco mentre col pollice filavano il filo del destino; | «La stessa
durata» dissero «assegniamo, neonato, a te | e al legno». Detta la formula, le dee se ne erano
andate, | la madre aveva tolto dal fuoco il tizzone che bruciava ! e l’aveva cosparso di acqua
corrente. | Quello era rimasto a lungo celato nei recessi più nascosti | e, così protetto, ti aveva
protetto la vita, o ragazzo. | La madre lo tolse, ordinò di approntare rami resinosi | e stecchi, e
quando la catasta fu pronta vi diede fuoco con rabbia» (Ov., met., 451-561; trad. di G.
Chiarini). Sulla distanza che separa la morte di Meleagro nell’Iliade (Il., 9, 565 ss.), dove la
madre invoca la furia vendicatrice dell’Ade e di Persefone, da quella del mito ovidiano,
ovvero sulla differenza fra consecratio e ploratio, cfr. M. BETTINI, La maledizione di Altea e
la «ploratio» del «parens», in ID., Affari di famiglia. La parentela nella letteratura e nella
cultura antica, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 95-97.
17 Apollod., 1, 8 [65]: «Egli aveva sette giorni – così narrano – quando vennero le Moire e
predissero che sarebbe morto se si fosse consumato il tizzone che ardeva sull’altare»
(Apollodoro, I miti greci (Biblioteca), a cura di P. Scarpi, traduzione di M.G. Ciani, Milano,
Mondadori, 1996, p. 39).
—7—
RAFFAELE GIANNETTI
stipes».18 Il pezzo di legno che emette un gemito o sembra farlo è senza
dubbio un particolare notevole all’interno di una riflessione sopra le analogie
che legano uomini e piante, tanto che è impossibile sottrarsi al fascino tiranno
dei versi danteschi:
Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’ capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,
sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; …».19
Apollodoro, quindi, dopo aver raccontato il delittuoso gesto di Altea
che aveva fatto bruciare il tizzone e condannato a morte il figlio,
continua dicendo che Altea e Cleopatra, quest’ultima moglie di
Meleagro, si impiccarono;20 invece, le altre donne in lutto furono
trasformate in uccelli.21
Secondo Ovidio, Altea si uccise trafiggendosi con la spada, con un
gesto di cui, in una storia come questa, non si possono ignorare le
valenze simboliche. Ancora una volta, infatti, qui si manifesta, per così
dire, la riottosa natura della donna: «nam de matre manus diri sibi
conscia facti | exegit poenas acto per viscera ferro».22
18 Ov., met., 8, 512 e 513-514 (lievi variazioni della trad. di G. Chiarini). Poiché la morte di
Meleagro «è sia un funerale che un sacrificio» (E.J. KENNEY, Ovidio, Metamorfosi, cit., p. 353,
commento a 8, 511), non ci sembra casuale l’inversione dell’ordine dei parenti – in primis le
donne: madre, moglie, sorelle, eventuali figlie, e poi gli uomini (cfr. N. LORAUX, Le madri in lutto,
cit., p. 23) – nel “corteo funebre” adombrato nel lamento di Meleagro morente: grandaevumque
patrem fratresque piasque sorores | cum gemitu sociamque tori vocat ore supremo, | forsitan et
matrem (Ov., met., 520-522). Si tratterebbe, infatti, dello sguardo “rovesciato” di chi si appresta a
entrare nell’aldilà. Il motivo appare coerente con l’inversione delle coordinate spazio-temporali di
tutto ciò che pertiene al regno dell’eternità (cfr. M. BETTINI, Antropologia e cultura romana.
Parentela, tempo, immagini dell’anima, Roma, NIS, 1990, pp. 128 ss.).
19 DANTE, Inferno, XIII 40-44. È il canto di Pier delle Vigne, per il quale si rinvia all’episodio
virgiliano di Polidoro nel terzo libro dell’Eneide. Dante cita Meleagro, che «si consumò al
consumar d’un stizzo», nel Purgatorio (XXV 22; cit. v. 23).
20 Apollod., 1, 8 [73], p. 43. Si è rilevato che «ci sono dei suicidi maschili e dei suicidi
femminili: la spada conviene all’uomo, la corda alla donna» (N. LORAUX, Il femminile e l’uomo
greco, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 28; cfr. pp. 100-117). Cleopatra, chiamata Alcione in Igino,
muore di dolore (Hyg., fab. 74). L’Alcione che, invece, si trasforma nell’uccello omonimo è la
sposa di Ceice (Hyg., fab., 65).
21 Apollod., 1, 8 [73]: «αἱ δὲ θρηνοῦσαι τὸν νεκρὸν γυναῖκες ἀπορνεώθησαν». Nessun altro
cenno è fatto sulla natura degli uccelli. Naturalmente la metamorfosi presuppone che solo chi si sia
cosparso di cenere venga trasformato in gallina faraona: il lutto è femminile (cfr. N. LORAUX, Le
madri in lutto, cit., pp. 11 ss.).
22 Ov., met., 8, 531-532: «La madre, infatti, ha già pagato il fio del suo orrendo | delitto
conficcandosi una spada nel ventre» (trad. di G. Chiarini).
—8—
ALTEA O STORIA DI UNA MALVACEA
Anche in Ovidio le sorelle di Meleagro si trasformano in uccelli.23
Da altre fonti, fra cui Plinio il Vecchio, abbiamo la conferma che tali
uccelli sono le galline faraone, chiamate appunto «meleagridi».24
Eziologicamente adatte al racconto, in quanto rusticae25 e provviste di
un piumaggio cinerino che ricorda la nascita e la morte di Meleagro,26 le
galline faraone, secondo Eliano, farebbero un verso con il quale
“pronunciano” il loro stesso nome, che è quello dell’eroe, testimoniando
così di essere imparentate con lui.27 La notizia, che insiste palesemente
sull’aspetto sonoro della relazione, rimanda anche a un tabù alimentare di
cui le galline faraone sarebbero oggetto; a tal proposito si menziona
l’isola di Lero.28
Da un altro passo del De natura animalium scopriamo che in questa
stessa isola – nota per il culto di Artemide, che riveste un ruolo di prima
23 Si tratta di Eurimede e Melanippa; sono escluse Gorge e Deianira (Ov., met., 8, 531-532;
544-546). Sull’esclusione delle due sorelle nelle Metamorfosi di Antonino Liberale (2), cfr. P.
SCARPI, Apollodoro, I miti greci (Biblioteca), cit., p. 460, dove si commenta il luogo di Apollod., 1,
8 [73]; E.J. KENNEY, Ovidio, Metamorfosi, p. 357 (nota a 8, 543-4); qui, nel rimandare al
medesimo passo di Antonino Liberale, si dice che «loro furono risparmiate su richiesta di Dioniso,
per motivi non documentati». Tuttavia sappiamo da Apollodoro che Altea, i cui commerci con gli
dèi sembrano significativi, ebbe Deianira da Dioniso (Apollod, 1, 8, 1 [64]).
24 Plinio il Vecchio sostiene che le meleagridi, associate agli uccelli memnonidi per il
modo di combattere, siano un genere di galline dell’Africa reso famoso dallo stesso episodio
della morte di Meleagro: Simili modo pugnant Meleagrides in Boeotia. Africae hoc est
gallinarum genus, gibberum, variis sparsum plumis. […] verum Meleagri tumulus nobiles eas
fecit (Plin., nat., 10, 74). In un altro luogo della sua opera ricorda anche che l’ambra si sarebbe
formata, a stare alla fantasiosa testimonianza di Sofocle, «dalle lacrime versate dagli uccelli
meleagridi in pianto per Meleagro»: Hic ultra, Indiam fieri dixit [electrum] e lacrimis
meleagridum avium Meleagrum deflentium (Ivi, 37, 40-41; trad. cit. di G. Rosati).
25 Colum., 8, 12.
26 In Ovidio, le sorelle, in qualche modo complici della metamorfosi, si cospargono il petto
delle ceneri del fratello, “tizzone” consunto dal fuoco: post cinerem, cineres haustos ad
pectora pressant (Ov., met., 8, 539).
27 Ael., NA, 4, 42. Notiamo la climax formata dai verbi con cui si descrive il dispiegarsi –
anche comunicativo? – del canto delle galline faraone: φθέγγοµαι, ἀναµέλπω, ᾄδω: ‘stridο’,
‘intono’, ‘canto’. Sulla complessità dell’«operazione comunicativa» messa in atto da questi
uccelli, si veda M. BETTINI, Voci. Antropologia sonora del mondo antico, Torino, Einaudi,
2008, pp. 145-151 (cap. «Uccelli che cantano miti»). Le galline faraone «pronunzierebbero il
loro nome attraverso il grido che emettono (meleagrís meleagrís), identificandosi, ma
addirittura dichiarerebbero la loro appartenenza familiare ed evocherebbero la vicenda mitica
che le ha condotte alla loro presente identità» (Ivi, p. 147).
28 Ael., NA, 4, 42: «perciò, quanti rispettano la volontà degli dèi non toccherebbero mai
questi uccelli come cibo» (trad. mia). Nell’isola, le faraone erano allevate nel santuario della
dea e accudite da sacerdoti (secondo Ateneo, 14, 71, 655c, cit. da G. GUIDORIZZI, Apollodoro,
Biblioteca, Milano, Adelphi, 1995, nt. 138, p. 203). Secondo Antonino Liberale, le sorelle di
Meleagro sarebbero state portate nell’isola di Lero e chiamate Meleagridi da Artemide stessa,
che le aveva trasformate in uccelli (Ant. Lib., 2).
—9—
RAFFAELE GIANNETTI
importanza nel nostro mito – tale è lo status delle meleagridi che queste
sarebbero risparmiate perfino dagli uccelli rapaci.29
Ma ora, lasciando da parte le meleagridi, torniamo alla simbologia e
al senso morale, psicologico o storico della nostra vicenda. È la
relazione parentelare, cioè l’affinità fra nipoti e zii materni ovvero la
distanza che separa la moglie dal marito, a costituire uno degli snodi più
interessanti del racconto mitico. L’indulgenza che doveva caratterizzare
il rapporto tra zii materni e nipoti accresce il carattere sacrilego
dell’azione di Meleagro, pur non rendendo meno folle o meno
colpevole la reazione di Altea.30
La causa della controversia familiare è Atalanta: era stata proprio lei a
colpire il cinghiale e a permettere all’innamorato di ucciderlo e di
trionfarne, e ciò dopo che i moltissimi eroi convenuti avevano
miseramente fallito. Ovidio, del resto, è assai esplicito nel descrivere il
disappunto e la vergogna dei superstiti per essere stati superati da una
donna. Quanto ai diritti reclamati dagli zii materni, non è impertinente
notare che Atalanta è donna davvero particolare, dai tratti mascolini e
dalle attitudini virili, un’amazzone, e che, d’altro canto, spettava al
gruppo familiare della madre controllare e approvare le scelte
matrimoniali di un giovane:
«Pone, age, nec titulos intercipe, femina, nostros!»
Thestiadae clamant …31
Atalanta non è proprio l’incarnazione della femminilità, né è una
donna che possa assicurare la continuità della stirpe, e ciò conta molto
in un mito dal carattere decisamente parentelare. Atalanta, come ricorda
Detienne, è una sorta di «leonessa frigida»; e noi sappiamo a quale
stadio di ferinità primordiale alluda la bestia, insieme, appunto, al
cinghiale cui spesso viene associata.32
Ael., NA, 5, 27.
Sul rapporto privilegiato e confidenziale tra nipoti e zii materni nel mondo romano, M.
BETTINI, Antropologia e cultura romana, cit. 1990, pp. 18-123, passim.
31 Ov., met., 8, 433-434: «i figli di Testio gridano: “Lascia, donna, non toccare | ciò che ci
spetta! …”» (trad. di M. Ramous).
32 M. DETIENNE, Dioniso e la pantera profumata, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. X-XI.
29
30
— 10 —
ALTEA O STORIA DI UNA MALVACEA
Eppure, l’ambiguità estetica, morale e sociale dell’amazzone ben si
confà, come vedremo, a un personaggio come Meleagro.33 Alcuni
personaggi della vicenda, infatti, sono caratterizzati da una natura mediana:
sia Altea, nella sua impossibile tensione verso la purezza di Hestia; sia
Artemide, una dea che si trova alle frontiere dell’Altro;34 infine Meleagro
stesso, dubbio eroe e assassino degli zii materni. Non è dunque un caso che
la palude, che costituisce il confine tra l’acqua e la terraferma, rappresenti
uno degli sfondi naturali della storia ovidiana, e sia, per questa sua
condizione, sottoposta al medesimo patronato di Artemide:
Concava vallis erat, quo se demittere rivi
adsuerant pluvialis aquae: tenet ima lacunae
lenta salix ulvaeque leves iuncique palustres
viminaque et longa parvae sub harundine [ cannae.35
Questo è il regno della flessuosità e della mollezza – sorta di
bagnasciuga della vita civile e, diremmo, della norma virile – ed è
proprio da questi luoghi che uscirà fuori l’immane cinghiale che
distruggerà le colture del regno calidonio: ciascuna delle piante
menzionate da Ovidio è tipica di una campagna selvaggia.
Non pochi elementi della nostra storia alludono al conflitto tra una
società arcaica di cacciatori e un’altra, più evoluta, di coltivatoriviticultori.36 Ma nella misura in cui anche gli antichi razionalizzano il
loro passato, non interessa che gli stadi di civilizzazione suggeriti dal
mito siano o meno storici.
Nel nostro caso, il comportamento di Altea nasce dal rifiuto delle
istituzioni di una pólis democratica. Meleagro, come dice il suo nome, è
«uno che pensa alla caccia» e Oineo, suo padre, è uno «che pensa alla
vite e al vino».37 Apollodoro racconta che «Oineo, re di Calidone, per
primo ricevette da Dioniso la pianta della vite». Quanto agli zii materni,
Tosseo è un ‘arciere’ e Plessippo un ‘domatore di cavalli’.
33 Meleagro, biondo in Omero e Giovenale, sembra contaminato in ciò dal “malvaceo”
mondo materno: «ξανθὸς Μελέαγρος» (Il., 2, 642); «flavi dignus ferro Meleagri | fumat aper»
(Iuv., 5, 115-116).
34 J.-P. VERNANT, Artemide o le frontiere dell’Altro, in ID., La morte negli occhi. Figure
dell’altro nell’antica Grecia, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 19-28.
35 Ov., met., 8, 334-337: «C’era una valle profonda, dove confluivano i rivoli | dell’acqua
piovana: il fondo paludoso era invaso | da salici flessuosi, tenere alghe, giunchi palustri, |
vimini e piccole canne sovrastate da altre più alte» (trad. di M. Ramous).
36 Anche nella versione del mito di Apollodoro (1, 8) si assiste alla «rottura di uno schema
endogamico» (P. SCARPI, Apollodoro, I miti greci (Biblioteca), cit., p. 460).
37 K. KERÉNYI, Gli dei e gli eroi della Grecia, cit., p. 337.
— 11 —
RAFFAELE GIANNETTI
L’isolamento di Oineo all’interno della famiglia – assai manifesto se
i nomi possono rivelarci qualcosa – aveva assunto forme di scontro
violento: era stato lui stesso a uccidere l’altro ‘arciere’ della famiglia, il
figlio Tosseo, perché aveva osato oltrepassare il fossato che aveva
tracciato lui stesso.38 È difficile non pensare alla storia di Romolo, la
quale, del resto, può essere letta come istituzione di un santuario in
relazione con il passaggio all’agricoltura.39 Inoltre, Apollodoro riporta
l’opinione secondo cui Meleagro sarebbe figlio di Ares-Marte (che è il
genitore anche di Romolo): «ἐγέννησε δὲ Ἀλθαία παῖδα ἐξ Οἰνέως
Μελέαγρον, ὂν ἐξ Ἄρεος γεγεννῆσθαί φασι».40
Entrambe le storie sembrano avere non pochi elementi in comune,
tanto più che anche la vicenda di Rea Silvia allude, come la nostra, a
una “nascita prodigiosa dal focolare”,41 che rappresenta uno dei motivi
conduttori della presente riflessione.
Il salto del fossato, limite della pólis e dei suoi terreni coltivati, può
significare la rinuncia alle regole sociali e testimoniare l’adesione a un
mondo ancora selvaggio. Chiara comunque è l’ostilità fra le parti:
Oineo non ha offerto primizie ad Artemide nella cerimonia sacrificale
per il fruttuoso raccolto, e per questo la dea della caccia, irata, si
vendica dell’oltraggio e invia nel regno di Calidone il terribile
cinghiale.42
Per comprendere i rapporti fra i vari personaggi è bene distinguere
preliminarmente tra caccia individuale e caccia collettiva, a squadre, di
cui quella al cinghiale è esempio duraturo: con l’uccisione di Meleagro,
la Testiade Altea recide i legami col marito che, sacrificando a Cerere e
disdegnando Artemide, aveva segnato chiaramente il distacco tra
mondo della cultura e quello della caccia solitaria.43
Si è già detto che Artemide vive nell’incerto limitare tra acqua e
terra che è la palude, e che la malvacea Altea è connessa all’umbratile
dea il cui risentimento tanta parte ha nel nostro mito. Artemide, dal
canto suo, è dea della caccia proprio perché dea della soglia: la caccia al
38
Apollod., 1, 8. [64]. Cfr. supra nt. 15.
A. GRANDAZZI, La fondazione di Roma, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 203.
40 «Da Oineo, Altea ebbe un figlio, Meleagro, il cui padre dicono fosse Ares» (Apollod., 1, 8
[65]; cfr. Apollodoro, I miti greci (Biblioteca) cit.; in Igino, Altea «giacque nella stessa notte con
Eneo e con Marte» (Hyg., fab., 171; trad. di G. Guidorizzi).
41 Sulle nascite prodigiose e regali dal focolare, e sulle procedure rituali dell’iniziazione
relativamente alle questioni qui discusse, cfr. M. DETIENNE, La scrittura di Orfeo, Roma-Bari,
Laterza, 1990, pp. 197 nt.; 199 nt.
42 Il., 9, 533-535; Ov., met., 8, 271-283.
43 M. DETIENNE, Dioniso e la pantera profumata, cit., pp. 43 ss.
39
— 12 —
ALTEA O STORIA DI UNA MALVACEA
cinghiale calidonio rappresenta il rito di passaggio dalla fanciullezza
all’età adulta e, insieme, quello dalla natura alla cultura. Il conflitto fra
Altea e Meleagro non rimanda soltanto all’opposizione fra caccia
solitaria e caccia a squadre, fra antichi e moderni, ma anche a quella fra
terreni paludosi, coperti di malve, e quelli produttivi, ricchi di viti e di
olivi, e, infine, a una classificazione dei tipi umani che si rispecchia, più
o meno chiaramente, in quella delle piante:
Nel quadro della città ateniese, l’ambiguità che
contraddistingue lo statuto dell’efebo non può non
evocare il doppio destino di Meleagro. Prima di essere
integrato nella città e aggregato alla falange oplitica,
l’efebo ateniese figura come perìpolos: localizzato nelle
zone di confine, nelle eschatiài, egli se ne sta alla
periferia del territorio, dove le terre incolte minacciano
direttamente le colture, nelle terre di conflitto al confine
tra due città. Alla fine del periodo di prova prescritto, il
nuovo cittadino è iscritto pienamente nel territorio della
città che coincide con lo spazio coltivato.44
Le «terre incolte» che «minacciano direttamente le colture» possono
ben essere quelle paludi dove crescono malva e bismalva, ovverossia
l’altea. La storia – vera o presunta – della civiltà agricola ritrova in questo
mito una sicura conferma. E anche se altrove, per esempio nella favola
esopica La canna e l’olivo, assistiamo a una moralistica difesa della
flessuosità, ciò significa che la storia può essere vista anche dalla parte
degli altri o degli esclusi, ma il quadro di riferimento non cambia.45
44 ID.,
45 Nel
La scrittura di Orfeo, cit., pp. 65-66; 73.
nostro caso – quello della canna e dell’olivo (Aesop., fab., 143), che si conclude con
la “sconfitta” del secondo, spezzato dalla furia dei venti – si deve sottolineare che le due
piante non rappresentano soltanto in astratto qualità e consistenze diverse, ma si configurano
come i simboli di una polarità socialmente riconosciuta. Quanto alla sbiadita interpretazione
condensata nella morale conclusiva, «Si ha l’impressione, a tratti, di trovarci di fronte a
documenti quasi affatto taciturni, a insegnamenti criptici, frammenti di un discorso
scheggiatosi nei secoli. | Vi è, insomma, nelle favole di Esopo qualcosa di vagamente occulto,
o semplicemente delle mosse, delle invenzioni che si rifanno alle regole di un gioco in larga
misura disperso, e la prova è in quei brevi appunti di interpretazione moralistica che sono
aggiunti alle favole, e che ad esse sono molto posteriori: in alcuni manoscritti vi sono perfino
interpolazioni cristiane» (G. MANGANELLI, Introduzione a Esopo, Favole, Milano, Rizzoli,
1992, p. 9).
— 13 —
RAFFAELE GIANNETTI
In particolare, si deve sottolineare il fatto che la nostra storia trova uno dei
suoi motivi principali nei legami fra l’eroe e «il suo “doppio” vegetale», cioè
fra Meleagro e una rama di olivo che sarà poi bruciata nel focolare. E questo
conforta la relazione complementare, come qui si suggerisce, fra Altea e la
pianta omonima:
Nella sua qualità di essere regale, Meleagro è una
giovane pianta di olivo che cresce sulle terre di suo
padre, Oineo, L’Uomo del Vino. Il giovane Meleagro
porta la promessa di un olivo destinato a ricoprire con le
sue foglie la terra di Calidone.
A questo primo aspetto di Meleagro, bambino regale,
nato dalla fiamma del focolare e figlio di re, associato
agli alberi da frutto, risponde un altro, antitetico al
primo: un Meleagro della lancia, cacciatore e guerriero.
Nella storia del figlio di Oineo, il legno da guerra, spiedo
o lancia, che rappresenta il doppio di Meleagro, non è né
un tratto isolato né un aspetto attestato soltanto nella
tradizione tarda. […] L’immagine del giovane Meleagro,
la cui anima esteriore è un legno di lancia o uno spiedo
di caccia, rimanda all’insieme dei racconti mitici
incentrati sugli uomini nati dai frassini e dalle querce,
alberi non coltivati, specie dal legno duro nelle quali
vengono intagliati il giavellotto dei cacciatori e la lancia
dei guerrieri. All’olivo che dà il nutrimento e dispensa la
vita fa da contrappunto il frassino il cui legno è uno
strumento di morte. […] Attraverso la configurazione
della sua nascita, attraverso il campo mitico che fa da
sfondo, il destino di Meleagro si rivela doppio: lancia
alzata per uccidere o combattere, pianta d’olivo chiusa
nel frutteto paterno.46
46 M. DETIENNE, La scrittura di Orfeo, cit., pp. 70-72; manifesta l’analogia tra semina e
fecondazione; cfr. ID., I Giardini di Adone, cit., pp. XV ss., 101 ss., 148 ss.
— 14 —
ALTEA O STORIA DI UNA MALVACEA
Anche nella storia di Ovidio, comunque, l’olivo è presente: lo è
quando Oineo offre «il succo d’oliva alla bionda Minerva» e quando il
cinghiale «fa strage … di bacche d’ulivo coi loro rami sempre verdi».47
Abbiamo visto che Atalanta costituisce un chiaro segno
dell’avversione al matrimonio e alla convivenza civile della pólis, un
richiamo al mondo primitivo, analogo e pur opposto alla generalizzata
promiscuità. La presenza di siffatta guerriera rinforza, per opposizione,
la funzione di Altea: se quest’ultima è strumento che serve a perpetuare
la linea paterna, essa, la nuora, si trova nel campo avverso e
matrilineare, in quello delle Amazzoni. Altea e Atalanta sono entrambe
estranee all’esogamia, nonostante si trovino, per poco, a contatto con
essa: le due donne sono nemiche, ma i loro rispettivi mondi sono
ugualmente distanti dalla città.
Nelle parole dell’Altea ovidiana, proprio nel confronto che lei stessa
istituisce fra il marito Oineo e il padre Testio, si scorgono gli stretti
vincoli che la uniscono al gruppo paterno e che le impongono sempre,
eccetto che in un solo caso, un eloquente patronimico: Thestias. E ciò
non può essere casuale, soprattutto se consideriamo il tema conduttore
della vicenda. Grida Altea, ormai prossima al delitto:
An felix Oeneus nato victore fruetur,
Thestius orbus erit? Melius lugebitis ambo!
Vos modo, fraterni manes animaeque recentes,
accipite inferias, uteri mala pignera nostri.48
Altea si fa qui portavoce del sangue di suo padre, Testio, mentre
Meleagro diviene figlio di Oineo e «frutto maligno» del ventre della madre:
«Altea non argomenta, … agisce: ma il suo comportamento non lascia
dubbi, quel tizzone gettato nel fuoco dimostra che, per quanto la riguarda, i
fratelli sono più importanti dei figli».49 Così interpreta Vernant50.
Ov., met., 8, 275, 295 (trad. di M. Ramous).
Ov., met., 8, 486-490: «Perché mai Eneo dovrebbe godersi il figlio che torna in trionfo |
e Testio esserne privo? Che piangano entrambi, sì, | questo è giusto! Anime dei miei fratelli,
sorpresi dalla morte, | considerate il mio compito e accettate questa funebre offerta | che tanto
mi costa, il frutto maligno del mio ventre» (trad. di M. Ramous).
49 M. BETTINI, Affari di famiglia, cit., p. 330.
50 J.-P. VERNANT, Mito e pensiero presso i Greci, Studi di psicologia storica, Torino,
Einaudi, 19782, pp. 157 ss.; 171 ss.
47
48
— 15 —
RAFFAELE GIANNETTI
In Ovidio, oltre al patronimico “Testiade”, compaiono
denominazioni che di Altea segnalano proprio la funzione di figlia,
sorella, madre, ma non moglie: Thestias (452, 473), genetrix (460),
mater (456, 464) e soror (531), parens e germana (475). Althaea, che
della storia è la protagonista, è chiamata per nome una sola volta (446).
Da questo, e in particolare dall’opposizione tra mater e parens o tra
soror e germana – dove, come si è già detto, il secondo termine delle
coppie sinonimiche insiste sulla consanguineità, ovvero sulla parentela
reale – traspare l’adesione del poeta ai fondamenti del mito.51
È questa la storia di una regina del focolare paterno, che,
disconoscendo il rapporto coniugale, s’impone come elemento di
continuità della discendenza del padre. Ci interessa notare che, per
quanto diversamente orientata, «l’assimilazione del corpo femminile a
un recipiente culinario» si muove nella stessa sfera, in maniera tale che,
pur sotto un segno diverso da quello che caratterizza Altea, procreare
significa ancora una volta ‘attizzare un fuoco’.52
Tuttavia Altea, anche se in un tragico negativo, è figura di Hestia,
regina del focolare e della casa:
Come conferisce alla casa il centro che la fissa nello
spazio, così Hestia assicura al gruppo domestico la sua
perennità nel tempo: è per mezzo di Hestia che la casata
si perpetua e si mantiene simile a se stessa, come se, ad
ogni nuova generazione, i figli legittimi della casa
nascessero direttamente «dal focolare». Nella dea del
focolare la funzione di fecondità, dissociata dai rapporti
sessuali – che presuppongono, in un sistema
exogamico, dei rapporti tra famiglie diverse –, può
presentarsi come il prolungamento indefinito, attraverso
la figlia, della linea paterna, senza che ci sia bisogno,
per la procreazione, di una donna «straniera».53
Ov., met., 8, 477.
M.M. SASSI, La scienza dell’uomo nella Grecia antica, Torino, Bollati Boringhieri,
1988, pp. 86 ss.
53 J.-P. VERNANT, Mito e pensiero presso i Greci cit., p. 157.
51
52
— 16 —
ALTEA O STORIA DI UNA MALVACEA
Proprio nel rifiuto della relazione coniugale – richiamata non solo
dall’uccisione di Meleagro, ma anche dalla sua «nascita prodigiosa dal
focolare» – si può scorgere uno dei tratti fondamentali della personalità
di Altea: «Che ci sia un rapporto tra la funzione di Hestia in quanto dea
del focolare e il suo essere definitivamente fissata in una condizione
virginale, è indubitabile».54
Suggestiva appare la paronomastica comparazione tra Thestias ed
Hestia, donna e dea, che finiscono per corrispondersi in più di un tratto:
il mito di Altea potrebbe essere interpretato come un ammonimento a
non travalicare i limiti della natura umana, per cui il comportamento
(divino) di Hestia si trasforma in dolorosa e funesta aporia: Altea non è
una dea, alla quale soltanto è concesso di realizzare il «sogno di
un’eredità puramente paterna» che «non ha mai cessato di occupare la
fantasia greca».55 E l’ossimoro ci sembra la testimonianza di un dissidio
sentimentale, che non è propriamente individuale, né tragicamente
romantico: impietate pia est.56
Althaea officinalis
Si può pensare che Altea intrattenga precise relazioni con l’omonima
pianta, l’Althaea officinalis, e che l’identità dei nomi non sia casuale.57
Sia nell’antichità che nel Medioevo, e poi anche in seguito, il nome
della malva – l’Althaea è una malvacea detta volgarmente anche
malvone o bismalva – risulterebbe dalle sue stesse proprietà emollienti:
malva, quia molliat alvum. Il paretimologico bisticcio fra malva, molliat
e alvum, è comunque interessante perché insiste sulla ormai nota e
quantomai longeva associazione. Così leggiamo nel Regimen Sanitatis
Salernitanum:
Ivi, p. 154.
Ivi, p. 157.
56 Ov., met., 8, 477.
57 Il nome dell’Althaea officinalis L. si fa derivare dall’Althaía greca, connessa con
althaíno, ‘guarire’ (J. ANDRÉ, Les noms de plantes dans la Rome antique, Paris, Les Belles
Lettres, 1985, p. 12). Cfr. A. CARNOY, Dictionnaire étymologique des noms grecs de plantes,
Louvain, Publications universitaires Institut Orientaliste, 1959, p. 19, s.v. «althæa»: (Theoph.
HP. 9.15.5) “guimauve” (althaea officinalis) du grec ἀλθαία, dérivé d’ἀλθαίνω “guérir”, ce
que justifie son emploi fréquent en médecine comme plante émolliente (voy. alcaea, achalion,
sychophyllon). Cfr. supra nt. 4.
54
55
— 17 —
RAFFAELE GIANNETTI
Dixerunt malvam veteres, quia molliat alvum.
Malvae radices rasae dedere feces:
Vulvam moverunt et fluxum saepe dederunt.58
Ritornando all’antico, si ricorda che il rifiuto di pitagorici e orfici di
nutrirsi di carne – ovvero il rifiuto della carnalità sessuale – è anche
rifiuto del sacrificio religioso ed insieme dei valori politici e sociali
espressi dalla città. Del resto, la malva è il «superalimento» dei
pitagorici, sorta di cibo perfetto e primitivo, capace di togliere fame e
sete; è un cibo tipico del deserto o della selva. Nutrendosi di malva,
Pitagora annulla la divisione tra uomini e dei e si avvicina alla
condizione divina: «Nell’alimentazione pitagorica, la malva e l’asfodelo
definiscono con i cereali un primo aspetto dell’arte di mangiare come
gli dei, dove confluiscono diverse immagini religiose dell’Età
dell’Oro».59
Il nostro moralistico mito, dunque, finisce per esaltare la coltura
dell’olivo e della vite opponendola agli incolti e paludosi terreni in cui
crescono malve e cinghiali. In questo territorio di nessuno dominato da
Artemide, anche il genere non è determinato con sicurezza. Qui, il
maschile non è ancora ben diviso dal femminile, nemmeno
nell’amazzone Atalanta. Sembra, inoltre, che la negazione del figlio,
così come ci è presentata dal racconto mitico, presupponga un ritorno
allo stato ferino.
58 Regimen Sanitatis Salernitanum, Caput LVIII. De malva; vv. 173-175: «Malva detta al
tempo prisco | fui, perché ’l ventre ammollisco. | Le mie radiche il potere | han di scior le feci
intere, | d’eccitar l’utero scusso | e di trarne il mensil flusso» (trad. di L. Firpo, a cura di, Le
regole salutari salernitane, Milano, TEA, 19912, p. 50). Cfr. M. Venturi Ferriolo (a cura di),
Mater Herbarum. Fonti e tradizione del giardino dei semplici della Scuola Medica
Salernitana, Milano, Guerini e Associati (Kepos Quaderni, 6), 1995. Sulla malva antica, cfr. J.
ANDRÉ, Les noms de plantes, cit., p. 152, alla voce «malua», dove si rimanda al gr. maláche
(Plin., nat., 20, 222) da connettersi con l’agg. malakós, ‘mollis’ e malthakós, ‘molle’, ‘tenero’,
‘appena partorito’. Nel breve passaggio dedicato alla malva, Plinio ricorda che i Greci la
chiamano malache a causa dei suoi effetti emollienti sull’intestino (cfr. J. ANDRÉ,
Pythagorisme et botanique, «Revue de philologie», 32, 1958, pp. 218-243, alla p. 234). Cfr.
anche A. CARNOY, Dictionnaire étymologique des noms grecs de plantes cit., p. 169, s.v.
«malachē»: (Theoph. HP. 7.7.2) “mauve”. — Ce mot est visiblement parent de lat. malva, bien
que muni d’un autre suffixe.
59 M. DETIENNE, La scrittura di Orfeo, cit., p. 58. Sull’«antichità» della malva, si veda
anche I. CHIRASSI, Elementi di culture precereali nei miti e nei riti greci, Roma, Edizioni
dell’Ateneo, 1968, p. 13.
— 18 —
ALTEA O STORIA DI UNA MALVACEA
In relazione a quanto detto, e in ragione delle valenze simboliche
della pianta, che la respingono nell’inattuale e nel primitivo, saremmo
propensi a porre l’aggettivo italiano malvagio in una regione linguistica
non troppo lontana dalla malva. C’è un’uva dolce che si chiama
malvagìa o malvasìa, la quale, legandosi assai bene alla malva, può
costituire il nesso fra questa, la sua dolcezza e la sua “malvagità”. La
melata dolcezza del vino, infatti, è legata al nostro malthakós (maláke,
malakós) ‘molle’, ‘effeminato’, ma anche, come si è ricordato in nota,
‘appena partorito’.60 Inoltre, anche in francese e in spagnolo si replica la
medesima relazione: mauve e mauvais; malva e malvado. Anche se non
è questo il luogo per discutere la questione etimologica,61 sarà utile
riportare una riflessione di Maurizio Bettini quantomai adatta
all’occasione: «se si può dubitare della reale origine comune di queste
due parole, è difficile pensare che fra esse non venisse stabilito un
qualche rapporto nella coscienza di chi le usava quotidianamente».62
Alcune delle virtù dell’Althaea officinalis o delle malve in genere
possono essere meglio intese confrontando la pianta con il personaggio
mitico, provando quindi a sovrapporre elementi di due codici diversi
con la speranza di ottenere, se non qualche risposta convincente, la
conferma di un procedimento. Le parole di Plinio il Vecchio intorno alla
malva ci suggeriscono alcuni percorsi possibili:
60 E. SALVANESCHI, “Briciola”. Storia fantastica di un’idea, Genova, il melangolo, 1990,
p. 77. L’associazione non risulta impossibile sul piano formale, dal momento che malvagio è
un evidente prestito del francese, al pari di bigio, grigio, agio (G. ROHLFS, Grammatica
storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Fonetica, Torino, Einaudi, 1966, p. 405).
61 Il termine malvàgio era già stato messo in relazione con malvaceus, nel senso di ‘molle,
fiacco’, come attesta O. PIANIGIANI, Vocabolario etimologico della lingua italiana, II, RomaMilano, Società Editrice Dante Alighieri, 1907, p. 799. Oggi, si fa derivare l’aggettivo da una
forma del latino parlato, *malifatium, sorta di ‘mal fato’ (M. CORTELAZZO e P. ZOLLI,
Dizionario etimologico della lingua italiana, 5 voll., Bologna, Zanichelli, 1979-1988, s.v.
«malvàgio»; cfr. S. BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana, 21 voll., Torino,
UTET, 1994-2003, alla voce). La relazione etimologica fra i lemmi francesi mauve e mauvais
è negata da É. LITTRÉ, Dictionnaire de la langue française, Paris, Hachette, 1874, III, pp.
478-479. Si può, tuttavia, pensare che la presupposta incongruenza formale fra le due voci,
malva e malvagio, trovi conforto in una, anch’essa presupposta, incongruenza semantica.
62 M. BETTINI, Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi cit., pp. 119-120, dove si
discute dell’etimo di due termini latini omografi: uter ‘otre’ e uter ‘utero’. Nel commento ad loc.
del passo pliniano che riporta tale associazione (Plin., nat., 11, 209), A. Marcone parla di
«etimologia fantasiosa tratta da Varrone (De lingua Latina, 5, 15)» (Gaio Plinio Secondo, Storia
naturale, II. Antropologia e zoologia. Libri 7-11, Torino, Einaudi, 1983, p. 645).
— 19 —
RAFFAELE GIANNETTI
… Olympias Thebana abortivas esse cum adipe anseris,
aliqui purgari feminas foliis earum manus plenae
mensura in oleo et vino sumptis. Utique constat
parturientes foliis substratis celerius solvi; protinus a
partu revocanda, ne vulva sequatur. Dant et sucum
bibendum parturientibus ieiunis in vino decoctae
hemina. Quin et semen adalligant bracchio genitale non
continentium, adeoque veneri nascuntur, ut semen
unicaulis adspersum curationi feminarum aviditates
augere ad infinitum Xenocrates tradat itemque tres
radices iuxta adalligatas. … vulvas et cibo et infusione
emollit.63
Poco più sotto, Plinio attesta comunque che le proprietà della radice
dell’altea sono, a un grado più alto, quelle appena descritte della malva:
«Althaeae in omnibus supra dictis efficacior radix, praecipue convulsis
ruptisque».64
Le virtù dell’altea si muovono tradizionalmente, come abbiamo già
visto, intorno alla sfera sessuale femminile.65 In Plinio una varietà di
malva selvatica viene chiamata sia althaea che plistolochia che è nome
composto da pleîston, ‘moltissimo’, e lóchos, ‘parto’.66 Il nome di
plistolochia, anche in questo caso attribuito all’altea, compare
nuovamente in Plinio, che sottolinea, come nel passo appena citato, le
medesime facoltà “addensanti”: «Pastinacae simile hibiscum, quod
63 «… secondo Olimpiade di Tebe provoca l’aborto, qualora sia unita a grasso d’oca; alcuni
ritengono che una manciata di foglie di malva prese in olio e vino provochi il flusso mestruale. Ad
ogni modo risulta che le partorienti sgravano più rapidamente se sotto di loro si pongono delle
foglie di malva, le quali immediatamente dopo il parto devono essere tolte per evitare che venga
espulso anche l’utero. Alle partorienti si fa bere anche, a digiuno, del succo ottenuto facendo bollire
in vino un’emina di malva. Addirittura, a chi soffre di gonorrea si lega come amuleto al braccio una
certa quantità di semi di malva; questa è a tal punto “venerea” che secondo Senocrate i semi della
specie con un solo gambo usati per curare i disturbi femminili aumentano all’infinito il desiderio
sessuale, e lo stesso effetto hanno tre radici legate vicino al sesso. […] Sia come alimento, sia in
infuso la malva distende l’utero». (Plin., nat., 20, 226-227 e 228; trad. F. Lechi).
64 Plin., nat., 20, 229: «La radice dell’altea è più efficace in tutti gli impieghi sopra menzionati,
soprattutto in caso di slogature o fratture» (trad. di F. Lechi).
65 A. DE GUBERNATIS, La mythologie des plantes ou Les légendes du règne végétal, II, Milano,
Archè; rist. anast. dell’edizione di Paris 1878-1882, 2, pp. 221-222. Alla voce «Mauve», si ricorda
che secondo il De secretis mulierum, attribuito ad Alberto Magno, la malva è strumento per scoprire
la verginità di una fanciulla.
66 Plin., nat., 20, 222: At e silvestribus [malvis], cui grande folium et radices albae, althaea
vocatur, ab excellentia effectus a quibusdam plistolochia.
— 20 —
ALTEA O STORIA DI UNA MALVACEA
molochen agrian vocant et aliqui plistolochian, ulceribus, cartilagini et
ossibus fractis medetur».67
La proprietà di ricomporre cartilagini e ossa, di cui ai passi citati,
non è affatto estranea a una natura «concezionale», che consiste per gli
antichi essenzialmente nella capacità di addensare o accagliare il
liquido seminale, comunemente accostato al latte.68 A conferma
dell’idea, secondo una singolare testimonianza che Plinio trae da
Teofrasto, «l’acqua cui sia stata aggiunta la radice di altea, lasciata
all’aperto si addensa e gela».69
67 Plin., nat., 20, 29. Con molóche agría si intende ‘malva selvatica’ (J. ANDRÉ, Les noms de
plantes, cit., p. 163, s.v. «molochē», n. 3). Una plistolochia è anche la quarta specie di aristolochia
descritta da Plin., nat., 25, 95-96 e identificata con l’Aristolochia cretica Lam. (J. ANDRÉ, Les noms
de plantes, cit., pp. 202-203 e 25). La pianta è descritta anche come polyrrhizos ‘fornita di
numerose radici’ (J. ANDRÉ, Pline l’Ancien, Histoire naturelle. Livre XXV, Paris, Les Belles
Lettres, 1974, p. 136; cfr. J. BAUHIN, Historia plantarum universalis, III, Ebroduni, 1651, pars
secunda, pp. 561-563). Ciò sembra comunque amplificare l’idea di una capacità generativa oltre il
suo aspetto reale. Cfr. J. ANDRÉ, Noms de plantes et noms d’animaux, «Latomus», XXII, 1963, pp.
650 e 663, sulla comparazione con la raẓẓa (unico pesce che presti il nome a una pianta). Tuttavia,
data la contiguità formale del termine raẓẓa con quello di razza ‘stirpe’, e data la valenza tutta
concettuale del «pesce-razza che cerca di avere la meglio sul vento del Sud» in un mito del Canada
occidentale (C. LÉVI-STRAUSS, Mito e significato, Milano, Il Saggiatore, 1995, p. 34), si potrebbero
nutrire dubbi sulla spiegazione di Jacques André, secondo cui En ce cas particulier, le transfert eut
lieu d’abord chez les populations côtières (J. ANDRÉ, Noms de plantes et noms d’animaux, cit., p.
650); il transfert sarebbe giustificato dalla forma, larga e piatta, della foglia della pianta (ibidem).
Non meravigli che l’inglese race significa sia razza ‘stirpe’ che ‘radice di zenzero’ (Oxford
Dictionary of English, 2010, s.v. «race2» e «race3» ‘ginger root’: late Middle English: from Old
French rais from Latin radix). Anche la ‘radice’ francese, la racine, ha una forma simile a quella
della sua ‘razza’, che è race. Merita sottolineare il fatto che è proprio l’uso «razzistico» e
«identitario» della metafora delle nostre radici – visione verticale, immobile e sostanzialmente
falsa della cultura (M. BETTINI, Radici. Tradizione, identità, memoria, Bologna, il Mulino, 2016) –
che rende plausibile, o se vogliamo meno fantasioso, l’accostamento etimologico fra i termini
radice (connesso con raẓẓa) e razza; cfr. P. DUBOIS, Il corpo come metafora, Roma-Bari, Laterza,
1990, pp. 55-56, dove, nel cap. intitolato Piantare gli uomini, l’incontro avviene sul piano
dell’autoctonia. Sull’agnatio, che «va dunque immaginata come lo sviluppo di parti in un
organismo vivente, ovvero come la ramificazione in una pianta», cfr. M. BETTINI, Affari di
famiglia, cit., pp. 16-17). Sull’«aristolochia, “pianta della buona nascita”, […] come rimedio
ostetrico specifico per il parto» nella medicina ippocratica, cfr. G.E.R. LLOYD, Scienza folclore
ideologia. Le scienze della vita nella Grecia antica, Torino, Boringhieri, 1987, p. 101. Il principio
vivrà a lungo: Aristolochia dicitur quod mulieribus fetis optima sit (Isid., 17, 9 [52]).
68 Cfr. N. BELMONT, L’enfant et le fromage, «L’homme», 105, 1988, pp. 13-28 (cit. da M.
BETTINI, Affari di famiglia, cit., p. 140 nt.).
69 Plin., nat., 20, 230 (trad. di F. Lechi); cfr. S. AMIGUES, Théophraste. Recherches sur les
plantes. À l’origine de la botanique, Préface de P. Bernard, Paris, Belin, 2010, p. 376 (Thphr,
HP, 9, 18.1). La curiosità è riportata, per esempio, da P.A. MATTIOLI, I discorsi nelli sei libri
di Pedacio Dioscoride Anazarbeo della materia medicinale, in Venetia, appresso Vincenzo
Valgrisi, 1568, p. 977, e da A. CESALPINO, De plantis libri XVI, Florentiae, Apud Georgium
Marescottum, 1583, p. 561.
— 21 —
RAFFAELE GIANNETTI
L’idea riceve una conferma anche e contrario: se prendiamo in
esame la menta, possiamo vedere ancora meglio quanto i due aspetti
siano strettamente legati fra loro: «Ipsa [menta] acescere aut coire
densarique lac non patitur; quare lactis potionibus additur, et his, qui
coagulati potu strangulentur, data in aqua aut mulso. Eadem vi resistere
et generationi creditur cohibendo genitalia densari. Aeque maribus ac
feminis sistit sanguinem et purgationes feminarum inhibet …».70
A livello più specifico si deve sottolineare il fatto che nell’antica
medicina i rimedi sono conformi alle varie relazioni di simpatia o
antipatia, come quelle fra animali, per cui l’atteggiamento dell’uno nei
confronti dell’altro determina subito, sorta di signatura psicologica e
sociale, la virtù di qualsiasi amuleto animale e il suo uso in una
terapia.71
La sessualità femminile, uno dei motivi intorno a cui si organizza
palesemente il mito, ricade, sempre secondo la testimonianza di Plinio,
proprio sotto l’influenza dell’altea, che può provocare l’aborto, favorire
il flusso mestruale e aumentare «all’infinito» il desiderio sessuale.
Anche la pianta dunque, come la donna, deve collegarsi a una sessualità
estranea al rapporto coniugale, anomala nei suoi eccessi e nel rifiuto,
attraverso l’aborto, del frutto legittimo del matrimonio. L’altea è una
malva selvatica, e questa sua caratteristica acquista notevole rilevanza
per la palese relazione con il mito: siamo di fronte a una pianta
primordiale vicina ad un regime di alimentazione «autarchico».72
Tali virtù, fissatesi stabilmente nella farmacopea, conducono poi
una vita indipendente anche dopo la caduta di quei codici –
70 La menta «Ha la proprietà di impedire che il latte inacidisca o cagli o si addensi; perciò
la si aggiunge al latte da bere e la si somministra in acqua o in vino melato a coloro che
soffocano per aver ingerito una bevanda cagliata. Per questa stessa proprietà si ritiene che la
menta ostacoli la riproduzione impedendo al liquido seminale di addensarsi. Arresta le
emorragie sia negli uomini che nelle donne, e in queste ultime blocca il flusso mestruale …»
(Plin., nat., 20, 147-148; trad. di F. Lechi). Tale aspetto sarà uno dei più longevi nella
posteriore letteratura specialistica. Evidente, nel mito, che racconta della relazione illegittima
fra la ninfa Menta e Ade, la coerenza delle virtù della pianta. Sul mito di Menta, cfr. M.
DETIENNE, I Giardini di Adone, cit., pp. 98-131 (cap. Le disgrazie della menta).
71 U. CAPITANI, Celso, Scribonio Largo, Plinio il Vecchio e il loro atteggiamento nei
confronti della medicina popolare, «Maia», XXIV, 1972, pp. 120-140, alla p. 131, a proposito
di Scribonio Largo.
72 M. DETIENNE, La scrittura di Orfeo, cit., p. 57.
— 22 —
ALTEA O STORIA DI UNA MALVACEA
matrimoniale, alimentare, ecc. – accanto ai quali si erano potute
sviluppare:
la decottione della malva, et delle radici, cotte fin che diventi
mucilaginosa si da con manifesto giovamento à bere alle donne,
che stentano à partorire, et il medesimo fa mezza libra del
succhio loro, bevuto caldo.73
Le radici di quest’erba, ridotta alla consistenza di mucillagine, si
danno – o si davano ancora nei primi anni del Novecento – per facilitare
il parto.74
Una breve nota sull’iconografia conferma l’ambito privilegiato,
quello della procreazione, entro cui si muove la simbologia della malva
e dell’altea.
La malva si trova dipinta nella Madonna col Bambino di Bernardino
Luini e nel Cristo che porta la sua croce tra San Girolamo e Agostino
di Bernardo Parentino. 75 L’iconografia dell’altea, simbolo
cinquecentesco di salvezza, non si discosta da quella della malva,
riconfermando la centralità del tema della nascita immacolata e della
morte.76 In questo repertorio iconografico – la Madonna col Bambino di
anonimo ferrarese del XVI sec.; la Sacra famiglia di Tiziano;
l’Adorazione dei pastori di Vincenzo Catena; la Sepoltura di Cristo del
Carpaccio; la Crocifissione del Perugino – spicca, per le analogie con
alcuni motivi della storia di Altea, La caduta dell’uomo di Tiziano, in
cui si rappresenta la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden.77 Anche qui
ci troviamo ai confini di una sessualità tipica dell’Età dell’oro.
73 P.A. MATTIOLI, I discorsi, cit., p. 486. Una sintesi degli usi relativi alla malva e all’altea
nell’antichità, che introduce alle dispute coeve segnate dai problemi dell’identificazione delle
piante, in J. BAUHIN, Historia plantarum universalis, II, Ebroduni, 1651, pp. 947-949 (De
malva sive malache veteribus); 954-955 (Althaea sive bismalva).
74 G. UNGARELLI, Le piante aromatiche e medicinali nei nomi nell’uso e nella tradizione
popolare bolognese, Bologna, Forni editore, 1985, p. 56, s.v. mælva; rist. anast. dell’edizione
di Bologna 1921, p. 56, alla voce mælva.
75 M. LEVI D’ANCONA, The Garden of the Renaissance. Botanical Symbolism in Italian
Painting, Firenze, Olschki, 1977, p. 224, alla voce Mallow.
76 Ivi, pp. 174-176, alla voce Hollyhock.
77 Evidente, accanto al tema della procreazione, anche quello della caduta dall’alto
presupposta dalle antiche etimologie: Althaea malva agrestis, sive malvaviscus; sed althaea,
quod in altum surgit, viscus, quia glutinosa est (Isid., 17, 9 [75]; enfasi mia). Il nome – che
sopravvive ancora nella denominazione popolare di «malvavisco» – nasce da malua eviscus,
dove l’ultimo termine è una forma di hibiscus (J. ANDRÉ, Les noms de plantes, cit., p. 152, s.v.
malua eviscus).
— 23 —
RAFFAELE GIANNETTI
Ricordiamo che gli storici dell’arte hanno rilevato precise relazioni
iconografiche fra la rappresentazione di Meleagro e quella di Cristo,
relazioni che indurrebbero a pensare non solo a una necessità formale –
la ripresa di un modello espressivo, il pathos – ma anche alla sua
coerenza culturale.78 Meleagro e Cristo, e d’altra parte Altea e la
Vergine, richiamano, come abbiamo visto, tematiche che legano il
mondo pagano a quello cristiano attraverso una nascita prodigiosa o una
concezione immacolata. Ci si chiede, dunque, a quali condizioni una
figura o una formula compositiva possano «migrare in una cultura del
tutto diversa», ossia quanto contino «la figura o la formula originaria e
quanto il contesto che se ne appropria»; infine, che cosa implichi «il
processo di generalizzazione grazie al quale la formula del compianto di
Patroclo viene usata per il compianto Meleagro, e un gesto di Meleagro
viene usato per rappresentare Cristo».79
Da Altea a Cenerentola
Alcuni aspetti del mito di Altea, insieme alla presenza di movimenti o
mitemi caratteristici anche della narrazione di folclore, come, per
esempio, la presenza delle Parche in occasione della nascita di
Meleagro, ci spingono a entrare nel mondo delle fiabe popolari e ad
accostarsi alla storia di Cenerentola, il cui nome e le cui vicende
genealogiche rimandano direttamente alla «nascita prodigiosa del
focolare».80
Racconta Perrault: «Quando aveva finito le sue faccende, ella
andava a rifugiarsi in un cantuccio del focolare, e si metteva a sedere
nella cenere».81
78 M.L. CATONI e altri, Tre figure. Achille, Meleagro, Cristo, a cura di M.L. Catoni,
Milano, Feltrinelli, 2013 (in particolare S. SETTIS, Ars moriendi: Cristo e Meleagro, alle pp.
83-108).
79 M.L. CATONI, Introduzione, in M.L. CATONI e altri, Tre figure, cit., p. 11.
80 V. JA. PROPP, Morfologia della fiaba, Roma, Newton Compton, 19803, p. 123. Nota, nel
mondo romano, quella di Servio Tullio, su cui Plin., nat., 36, 203.
81 CH. PERRAULT, Cenerentola, in ID., I racconti di Mamma l’Oca, trad. di E. Giolitti,
Torino, Einaudi, 1957, pp. 18-24, alla p. 18. Il mondo di Cenerentola e della fiaba barocca «tra
Napoli e Parigi» è delineato da M. RAK, Da Cenerentola a Cappuccetto rosso. Breve storia
illustrata della fiaba barocca, Milano, Bruno Mondadori, 2007, passim; in particolare alle pp.
X-XI; su Cenerentola, pp. 1-15; 143-150 (con bibliografia delle diverse interpretazioni a p. 9).
Su altre interpretazioni di Cenerentola in relazione al mito greco, C. GINZBURG, Storia
notturna. Una decifrazione del sabba, Torino, Einaudi, 1995, pp. 225 ss.; la novella ruota
intorno all’anagnorisis – di cui le pantofole sono segnale evidente e significativo – in P.
BOITANI, Riconoscere è un dio. Scene e temi del riconoscimento nella letteratura, Torino,
Einaudi, 2014, pp. 24-30.
— 24 —
ALTEA O STORIA DI UNA MALVACEA
È evidente che Cenerentola – di lei, del resto, non si conosce la
madre – risulta pura, incapace di turbare, con il suo, il sangue della
stirpe regale. D’altro canto, le altre fanciulle aspiranti al matrimonio
sono destinate alla sconfitta perché troppo marcate dalla nobiltà. Nel
racconto di Perrault è una scarpina trasparente a costituire il necessario
strumento d’elezione;82 scarpina, che, al pari dell’assenza di un nome
vero e proprio, non è assolutamente impertinente come segno di
purezza e, diremmo, di trasparenza genetica. Quanto al piede, o alla sua
impronta, si tratta di una riconosciuta immagine dell’identità
personale.83
Il motivo viene originalmente sottolineato anche nella fiaba di
Basile, La Gatta Cenerentola, certamente vicina a quella di Perrault84.
Eccoci al punto. Il re, a cui un servo ha appena consegnato la «pianella»
perduta di Zezolla-Cenerentola, usa espressioni che alludono
chiaramente al motivo genealogico, se non a quello sessuale:
Se lo zoccolo è così bello, che sarà la casa? O bel
candeliere, dove stava la candela che mi strugge! O
treppiede della bella caldaia dove bolle la vita! O bei
sugheri attaccati alla lenza d’amore, con la quale ha
pescato quest’anima! Ecco, vi abbraccio e vi stringo e, se
non posso arrivare alla pianta, adoro le radici; e, se non
posso avere i capitelli, bacio le basi.85
Le «scarpine di vetro» (pantoufles de verre) di Cendrillon hanno fatto pensare a un
equivoco: verre in luogo di vair, ‘vaio’ ‘pelliccia’ (M. PASTOUREAU, Vert. Histoire d’une
couleur cit., pp. 133, n. 46-50; 166). Italo Calvino rintuzza l‘idea dell’“equivoco” con grande
energia: «Scarpette di vetro? Balzac osservò che ballando e correndo e saltando via dal
piedino le scarpette di vetro sarebbero andate in pezzi. Doveva esserci un errore di
trascrizione: non verre bisognava leggere ma vair, pelliccia di vaio. Ma la petite pantoufle de
verre ricorre più volte nel testo, a cominciare dal titolo: l’“errore” non poteva essere casuale,
tanto più che questo dettaglio è uno dei più ricordati della fiaba, come un’immagine che
agisce sulla fantasia. E perché una scarpina da ballo non può essere di vetro, in una fiaba in
cui le zucche si trasformano in carrozze, e le lucertole in lacchè?» (I. CALVINO, Sulla fiaba,
Torino, Einaudi, 1988, p. 149, nel capitolo «I racconti di Mamma l’Oca di Charles Perrault»).
83 M. BETTINI, Il ritratto dell’amante, Torino, Einaudi, 1992, pp. 18-19, 216-217, in
particolare, p. 235 n. 5.
84 G. BASILE, La gatta cenerentola, in ID., Il racconto dei racconti ovvero Il trattenimento
dei piccoli, traduzione di R. Guarini, a cura di A. Burani e R. Guarini, Milano, Adelphi, 1994,
pp. 81-89. L’opera di Basile precede cronologicamente quella di Perrault di circa sessanta anni
(cfr. I. CALVINO, Sulla fiaba, cit., p. 148).
85 G. BASILE, La gatta cenerentola, cit., pp. 87-88. Le pianelle – i chianielli – erano in
realtà delle scarpe fornite di suole e di tacchi: il sughero, appunto, di cui si dice. Zezolla
equivale a ‘Lucreziuccia’. Sulla «prova della scarpa» come «prova sessuale», M. RAK, Da
Cenerentola a Cappuccetto rosso, cit., pp. 3-4.
82
— 25 —
RAFFAELE GIANNETTI
Anche in una novella senese dall’argomento simile, Il bastoncino
incantato, la scelta dell’ereditiera passa attraverso una «pianellina
d’oro», donata al re dalla moglie in punto di morte:
… il re invecchiava senza manco pensare a riprendere
moglie, quando il popolo, che vedeva con dispiacere
finire quella famiglia di buoni re e doveva diventare
soggetto a re stranieri, principiò a tumultuare ed esigere
che il re si riammogliasse. […] Gira e rigira non si poteva
trovare un piedino bello a quel modo e i ministri
tornavano senz’aver concluso nulla. Il re chiamò la figlia,
le raccontò tutto, poi le disse: «M’hai a contentare.» – «È
mio dovere.» – «Provati la pianella.» Se la provò e gli
stava a pennello. «Allora tu sarai mia sposa.» – «Che vi
pare, babbo; non si può.» – «Si possa o non si possa, tu
sarai mia sposa».86
Qui è proprio la figlia, che forse non casualmente si chiama Maria,
ad essere chiesta in moglie dallo stesso re padre per assicurare la
continuazione della stirpe; cosa che avviene anche in un’altra fiaba di
Perrault, Pelle d’asino, nella quale la funzione della scarpina è affidata
a un anello prezioso, con uno smeraldo incastonato nell’oro.87
La storia, assai simile a quella di Cenerentola, insiste chiaramente
sul motivo dinastico rievocando l’antico «sogno di un’eredità
puramente paterna», di cui si è detto parlando di Altea.88
Quanto al racconto di Basile, si deve sottolineare che lì si mette in
scena una «ragazza con due nomi» e che il cambio di nome indica con
precisione quello di status, da figlia a serva, che avviene quando
«Zezolla passa dalla camera alla cucina, dal baldacchino al focolare»:
allora «viene chiamata la Gatta Cenerentola perché bada al focolare e
alla sua cenere. Il gatto vive accanto al focolare con la sua competenza
86 C. MARZOCCHI, Novelle popolari senesi raccolte da Ciro Marzocchi 1879 (manoscritto
n. 57), a cura di A. Milillo, 2 voll., Roma, Bulzoni, 1992, I, p. 40.
87 CH. PERRAULT, Pelle d’asino, in ID., I racconti di Mamma l’Oca, cit., pp. 52-62.
88 Apollodoro riporta anche la tradizione secondo cui Oineo avrebbe generato Tideo con la
sua stessa figlia Gorge (Apollod., 1, 8, 4 [75]).
— 26 —
ALTEA O STORIA DI UNA MALVACEA
di posti caldi e sicuri e la sua inquietante prossimità al profondo e al
sacro».89
Infine, inseguendo il motivo, caratteristico di molte fiabe popolari,
potremmo raggiungere perfino Pinocchio, la cui storia è quella di un
pezzo di legno che, fortunatamente, si bruciò solo i piedi: «E lì si
addormentò; e nel dormire, i piedi che erano di legno gli presero fuoco
e adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono cenere».90
L’episodio non può non essere interpretato come indizio di una
nascita prodigiosa dal focolare perché Pinocchio è anche un legno «di
quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere
il fuoco e per riscaldare le stanze»,91 la cui “nascita” avviene presso un
caminetto disegnato su una parete.92
Qui siamo fuori dalla memoria popolare, e dentro a una originale
esperienza fantastica che, tuttavia, di quella largamente si nutre.
M. RAK, Da Cenerentola a Cappuccetto rosso, cit., p. 1.
C. COLLODI, Pinocchio, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 49.
91 Ivi, p. 19.
92 Ivi, p. 29.
89
90
— 27 —