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Titolo del contributo: «Boccalone e Altri Libertini: due punti di vista diversi sugli anni Settanta». Presentato in prima bozza ridotta: NEMLA Conference 2009, Boston. Voce bibliografica: Gastaldi, Sciltian. “Boccalone e Altri libertini: due punti di vista diversi sugli anni Settanta” in Minardi, Enrico e Monica Francioso, a cura di. Generazione in movimento. Viaggio nella scrittura di Enrico Palandri. Ravenna: Longo, 2010. 115-32. Scritto su: Word Ambiente: Mac Sciltian Gastaldi Boccalone e Altri libertini: due punti di vista diversi sugli anni Settanta Toronto, February, 2009 Lo studioso appassionato di letteratura italiana del XX secolo si è imbattuto assai spesso in ricerche che legano le opere d’esordio di Enrico Palandri e Pier Vittorio Tondelli da un punto di vista linguistico e generazionale, mentre le dividono nettamente sul piano dei contenuti. Il Boccalone1 di Palandri, secondo la critica marxista e cattolica, sarebbe un esempio di quella letteratura politicamente impegnata che si inserisce in un filone vasto e importante della produzione culturale italiana del dopoguerra. Ci riferiamo alla produzione che va dalla letteratura della Resistenza fino ai testi degli anni Settanta di Nanni Balestrini, Oriana Fallaci, Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera, considerati come strumento essenziale di quell’egemonia culturale di cui il Partito Comunista Italiano doveva preoccuparsi secondo i quaderni di Antonio Gramsci. Sempre secondo la critica marxista e quella cattolica, gli Altri libertini di Tondelli sarebbero invece ascrivibili alla cosiddetta letteratura del disimpegno, vale a dire quella produzione letteraria (che i marxisti disprezzavano come “borghese” e “conservatrice”, mentre i cattolici difendevano) che non era interessata alle “magnifiche e progressive sorti” della rivoluzione comunista, per lasciare invece spazio ai sentimenti e ai rapporti interpersonali. Oppure, come nel caso di Guareschi, quella letteratura leggera se non proprio umoristica, che puntava alla riduzione macchiettistica delle parti in campo. Una dicotomia divenuta classica, questa tra impegno e sentimento, che fu in grado di dividere per mezzo secolo non solo il campo critico-letterario ma proprio l’intera sfera culturale italiana. Questo studio si propone da un lato di contestare la collocazione di Pier Vittorio 1 Palandri, Enrico. Boccalone. Storia vera piena di bugie. Milano: Edizioni L’erba voglio, 1979. (Nuova edizione: Milano: Bompiani, 1980, 1997). Da qui in avanti abbreviato come “B”. Tondelli nel campo della letteratura disimpegnata tout-court, in particolare per quanto riguarda il suo libro d’esordio, ma non solo; dall’altro di dare un’interpretazione meno politicizzata del Boccalone di Palandri. Boccalone e Altri libertini2 condividono il periodo storico di gestazione, il biennio 1978-79, l’età giovane dei loro autori (entrambi esordienti a 24 anni), la data di pubblicazione: il 1979-80 e anche l’ambientazione, in un’Emilia di fine anni Settanta. La questione anagrafica e generazionale, come vedremo nelle pagine che seguono, ha un peso determinante nel delineare una comune fisionomia culturale. Tanto Boccalone quanto Altri libertini sono, secondo questo studio, uno specchio degli anni Settanta appena trascorsi e si inseriscono perfettamente al termine del “decennio di piombo” portandone per altro alla ribalta temi analoghi, primo fra tutti lo scontro generazionale e il bisogno giovanile d’evasione e di rottura rispetto allo status quo. Per usare le parole assai ficcanti e ahinoi attuali del Palandri critico maturo: Al centro dello scontro generazionale degli anni settanta c’erano secondo me proprio queste due visioni: una, ancorata nella Chiesa cattolica e nella conservazione almeno nominale di un’idea di società guidata dall’autorità morale della religione, che si schierò contro il divorzio, la contraccezione e l’aborto e che aveva ampia rappresentanza politica. L’altra, che cresceva in un’area di dissenso dalla Chiesa, dai principali partiti e alla fine anche dai gruppi più piccoli perché la sua vera vocazione era l’individualismo protestante, il costituirsi come liberi pensatori (in Italia espressione non a caso usata spesso ironicamente), persone che non si identificarono con nessuna comunità. (…) Pier era all’inizio una voce che nasceva da lì. Situazione molto contraddittoria, perché se la Chiesa ufficiale era a destra, alcuni antichi nervi molto profondi del cristianesimo, 2 Tondelli, Pier Vittorio. Altri libertini. Milano: Feltrinelli, 1980, 1987. Da qui in avanti abbreviato come “AL”. soprattutto della tradizione francescana e pauperista, attecchivano benissimo nel movimento. Il ’68 ha nel cuore la Lettera a una professoressa di don Milani. (…) Da ragazzo aveva frequentato l’associazionismo cattolico e poi aree del movimento, il pentolone in cui ribollono non solo gli anni settanta3. L’evasione di cui ha dunque bisogno questa generazione di nuovi giovani gioco-forza contestatari può e deve essere fisica, attraverso il mito del viaggio in auto lungo una “autobahn” verso nord o verso la Spagna, ma è un’evasione che può e deve essere soprattutto psicologica, attraverso dei rapporti d’amicizia e d’amore quasi morbosi nella loro presenza totalizzante; un’evasione che può declinarsi anche attraverso comportamenti autolesionistici, come l’assunzione di eroina e altre droghe sintetiche. Già questa prima affermazione si pone in contrasto con quanto diversi critici hanno scritto riguardo all’esordio di Tondelli. Per questi critici, molti dei quali appartenenti al Gruppo ‘63 e i cui testi furono pubblicati su Linea d’Ombra, su Quaderni piacentini e su Ombre rosse, l’autore di Correggio è sin dall’esordio il cantore del disimpegno e degli anni Ottanta, considerati implicitamente “anni di merda4” per citare un famoso saggio del giornalista Olivero Beha, nei quali a farla da padrone sono lo yuppismo, il reagan-thathcerismo, il materialismo e la fine del comunismo. Non è questo il luogo dove riflettere sui pregiudizi che diversi esponenti del Gruppo ‘63 nutrivano nei confronti degli scrittori degli anni Ottanta in generale e su Tondelli in 3 Palandri, Enrico. Pier. Tondelli e la generazione. Roma-Bari: Laterza, 2005, 31-32. D’ora in avanti abbreviato come “P”. 4 Beha, Oliviero. Anni di merda. Notizie dal fronte del disagio italiano. Napoli: Pironti Editore, 1993. particolare5. Possiamo però affermare che in Altri libertini è invece presente una dimensione politica molto forte, a fronte di un’assenza di affiliazione partitica o movimentistica da parte tanto dei suoi personaggi quanto del suo autore. E la fisionomia politica di questo libro a dire il vero fu notata per primo non da un critico, bensì da chi sarebbe diventato uno dei più famosi uomini politici italiani, Massimo D’Alema, al quale nel 1980 L’Espresso chiese un commento sui romanzi definiti “giovanili” del decennio appena concluso. D’Alema, allora segretario della Federazione giovani comunisti italiani, in poche righe coglie l’essenza di Altri libertini rovesciando il tavolo della critica letteraria marxista: Devo dire con sincerità che lessi con fastidio “Porci con le ali” e che non riuscii a finire “Boccalone”. Invece “Altri libertini” di Pier Vittorio Tondelli mi sembra un libro da leggere. Intendiamoci, non come “testimonianza” del mondo giovanile. È fin troppo facile vedere che ciò che si rispecchia in queste pagine non è tutto il mondo dei giovani. Ma proprio perché siamo di fronte a un prodotto “colto”, non improvvisato, ed esplicitamente e con ricercatezza “letterario”, il messaggio che trasmette colpisce più a fondo. (…) Un’ultima notazione che spero non espressa per deformazione professionale. “Altri libertini” è un romanzo “politico”. Se non altro perché l’esperienza giovanile che racconta svela una “mancanza” di politica, o se 5 Vedere tra l’altro: Paris, Renzo. Romanzi di culto. Sulla nuova tribù dei narratori e sui loro biechi recensori. Roma: Castelvecchi, 1995. Tondelli, Pier Vittorio. “Under 25: discussioni.” Opere II. Cronache, saggi, conversazioni. A cura di Fulvio Panzeri. Milano: Bompiani, 2001, 2005, 724-46. Va però detto che i critici della neoavanguardia che stroncavano i lavori tondelliani se la prendevano in senso generazionale con tutta la “letteratura giovanile” dell’epoca, con la sola eccezione di Gianfranco Bettin. In particolare ricordo questo passo di Goffredo Fofi: “La letteratura giovanile, e non solo, italiana, è opera per lo più di giornalisti e addetti ai lavori, sorti da una piccola borghesia contenta di sé, con il solo trauma di un ego che non trova tutte le soddisfazioni che vorrebbe e che per altro è ben lungi dal guadagnarsi. È una letteratura di fighetti, [sic] per dirla tutta; ora melensa e superficiale, ora di funambolismi tutti e solo letterari, inodori e insapori. Una letteratura che ama se stessa per incapacità e insensibilità verso l’altro da sé, per incapacità e indifferenza a ogni reazione possibile nei confronti di un mondo che è ben difficile, a ogni persona un tantino esigente, amare e perfino tollerare.” Fofi, Goffredo. “Quattro opinioni a caldo sul primo romanzo di Gianfranco Bettin.” Linea d’Ombra. Anno VII, 36 (1989): 26-8. Va anche ricordato che Bettin era un collaboratore fisso di Linea d’Ombra. si preferisce, una crisi della politica. Si dirà che l’immagine della società e del popolo dell’Emilia che ne viene fuori è ingiusta. Lo penso anche io. Ma non respingerei comunque il valore di denuncia che il libro assume6. In cosa consiste l’aspetto politico di Altri libertini, notato anche da D’Alema? Anzitutto occorre considerare il contenuto del libro. Tondelli con la sua raccolta di racconti si pone come il cantore degli emarginati: che siano omosessuali, drogati, pusher, barboni, studenti spiantati, giovani in cerca di un senso, il fuoco del libro è tutto spostato su chi si trova ai margini della società dell’epoca e ne è anzi respinto con fastidio e ignominia. Uscendo dal campo della critica letteraria, possiamo supporre che se Altri libertini fosse uscito oggi, nella tristissima Italia del 2009, avrebbe parlato di zingari, romeni, marocchini, precari, disoccupati, nuovi poveri e ancora di omosessuali, che sembrano essere l’unica minoranza sempre invisibile e ai margini della società italiana. Tornando all’analisi del testo tondelliano, Postoristoro, il primo racconto di Altri libertini, si apre come una discesa dantesca agli inferi, ricca solo di “dannati”, aggettivo ripetuto quattro volte nella novella, passando da un personaggio miserabile all’altro in una spirale in cui l’unico elemento che chi scrive non riesce a vedere è proprio quella “tensione di salvezza” su cui ha insistito in modo esagerato e partigiano la critica cattolica e gesuitica (o per lo meno, quella cattolica e gesuitica postuma a Tondelli, poiché quella a lui coeva è stata impegnata a squalificarlo come scrittore e a etichettarlo come “luridamente blasfemo”). Ecco quindi, in ordine, Giusy, che “arriva ogni giorno, puntuale come 6 D’Alema, Massimo. “Ma non sono tutti così.” L’Espresso 10 febbraio 1980: 68. una maledizione saltellando sui tacchi e spidocchiandosi la lunga coda di capelli che alle volte nasconde nel cuffietto peruviano” (AL 10); da notare che si tratta di un personaggio maschile presentato con un nomignolo abitualmente femminile e associato col genere femminile sia nella similitudine che nella descrizione fisica della “lunga coda di capelli” e nell’indumento dei “tacchi”. Poi abbiamo un barbone che “mangia una crosta di grana con del pane attendo a non disperdere neanche una briciola della sua cena” (AL 11). Abbiamo poi l’entrata in scena del celebre personaggio di Bibo, il drogato marcio che è l’unico descritto non dalla voce narrante ma direttamente dalla sua parlata infarcita di bestemmie e di esclamazioni (AL 12). E poi ancora la descrizione di Molly (AL 13), una seconda barbona di sessant’anni, Johnny, il pusher, l’unico ben vestito “con il suo Burberrys sfarfagliante” (AL 17), quindi Liza “proprio odore di checca sfranta” (AL 19), la Vanina “che è una ragazzona di vent’anni ma gliene daresti cinquanta forse più, la faresti lì lì per la sepoltura” (AL 21). Quindi “i terroni” col “Salvino capobanda, che è confinato qui al nord, fetente mafioso” (AL 21). E questo è il “popolo del Postoristoro” (AL 21), un popolo in cui perfino il coro è composto da “studenti brufolosi che vengono dalla campagna alle scuole professionali qui in città e c’hanno le gambe curve e tozze e i fianchi larghi” (AL 10). Un’umanità così reietta e laida da far accapponare la pelle, che trova poi il suo ambiente ideale, non a caso, nel cesso della stazione. Qui il Bibo, in crisi d’astinenza, non riesce più a controllare lo sfintere e “immerda” anche Rino (AL 31), l’ultimo disperato della combriccola, fondamentale sostegno per poter finalmente iniettare l’eroina nell’unica vena non rotta rimasta al Bibo, sul sesso: “Dentro l’ago, zac.” (AL 33) e non è necessario nemmeno il punto esclamativo per rendere l’idea. Sono questi gli anti-eroi che aprono la letteratura tondelliana, anti-eroi visti come blasfemi e maledetti dalla critica cattolica coeva all’uscita del libro, e oggi sollevati al rango di redenti verso la speranza di salvezza. È però vero che Tondelli ama questi anti-eroi e sa renderli in un modo così vivido e privo di giudizio morale che il lettore non può non affezionarsi anche al più laido e sfortunato di loro. Tondelli, in altre parole, cerca di suscitare empatia nel lettore, e ci riesce proprio attraverso il raccontare la misera quotidianità dei suoi personaggi dannati e reietti. Ci riesce in Mimi e istrioni, con le Splash “i rifiùt ed Réz”, ci riesce in Viaggio, raccontando il desiderio di una comitiva di amici di scoprire l’Europa e di andare oltre i confini piatti della loro provincia emiliana, ci riesce perfino in Senso contrario, il racconto più breve e forse meno riuscito, facendoci provare simpatia per una giovanissima marchetta di nome Lucio, capitata nell’automobile sbagliata. Tondelli mostra poi tutto il suo talento nel racconto che dà il titolo alla raccolta, dove l’omosessualità dei personaggi è presentata in un modo ridanciano, quotidiano, scontato, autoironico e divertito, ben lontano dai drammi psicologici di Testori, dal senso di vergogna di Saba, dalla condizione di condanna di Pasolini e anche dalla dimensione religiosa di Còccioli - pure molto più vicino all’autore di Correggio rispetto agli altri nomi citati - se pensiamo per esempio che il personaggio dell’io narrante racconta di convincere il resto della sua comitiva ad andare a vedere al cinema Sebastiane, di Derek Jarman, e di venirsi addosso durante la scena del martirio, “come un pippaiolo” (AL 149). Dinanzi a un simile contesto, non stupisce che Altri libertini dovette affrontare nell’Italia del 1980 un processo per blasfemia e vilipendio della religione cattolica, e questo forse anche a prescindere dalla famosa questione delle bestemmie e del cosiddetto linguaggio parlato, inevitabilmente volgare proprio in quanto parlato. L’operazione politico-letteraria tentata e riuscita da Tondelli è dunque quella di dare alle stampe l’immagine di un’Italia diversa da quella che fino ad allora era stata considerata rispettabile e degna di attenzione letteraria. Era l’Italia delle minoranze, di chi è di solito combattuto dalle istituzioni tramite l’indifferenza e l’ignoranza prima ancora che la repressione, come è rimasto chiaro per gli omosessuali perfino sotto il ventennio fascista e come, è ancora oggi. Dando voce a queste minoranze, lo scrittore emiliano compiva dunque un atto pienamente e fortemente politico e stupisce semmai come la critica marxista, su Tondelli meno brillante del solito, non abbia saputo cogliere, all’epoca e in seguito, i semi di una presa di posizione così radicale in nuce. Presa di posizione invece ben colta dal Palandri critico, che ancora scrive acutamente: Pier nei suoi primi libri era uno squarcio di questo mondo altro, dove gli spinelli non erano considerati droghe e dove gli omosessuali non erano diversi, dove nulla era considerato trasgressivo perché il rifiuto della norma rendeva insensato il concetto stesso di trasgressione. (P, 34) Questa considerazione non vale solo per “i primi libri” dell’autore di Correggio, ma è leggibile in controluce per tutta la sua opera e in particolare in Camere separate, dove addirittura la situazione patologica di invisibilità giuridico-sociale della coppia gay è espressa in modo esplicito in più punti del romanzo. Ma, per soffermarci solo sui due libri d’esordio di Palandri e Tondelli, se Altri libertini è stato dunque ingiustamente letto dalla maggior parte della critica come un esempio di disimpegno, d’altro canto è possibile avanzare un dubbio sulla dimensione pan-politica di Boccalone. Il lavoro di Palandri è - sopra ogni altra cosa - il racconto di un’adolescenziale storia d’amore, quella del personaggio Enrico Palandri per la sua fidanzata dell’epoca, Anna B. Un’interpretazione del resto condivisa dallo stesso Tondelli, quando recensì nel 1979 il libro del coetaneo: L'azione del libro si situa a ridosso del marzo del 1977, dei mesi della rivolta creativa, dei carri armati inviati a presidiare la cittadella universitaria, della latitanza di Bifo e del trasversalismo, dell’assedio di Radio Alice. Episodi che di Boccalone costituiscono lo sfondo e lo scenario principale, come nelle tavole di Andrea Pazienza. Ma Boccalone è soprattutto una storia d'amore, prima ancora che di crisi politica, la storia di come un innamoramento possa far scoppiare i propri equilibri, creare intensità nuove7. Il sottotitolo del romanzo di Palandri, che è ripetuto all’interno del racconto come una sorta di mantra, recita inoltre “storia vera piena di bugie” e ricorda da vicino l’incipit del leggendario sedicenne creato da Salinger, Holden Caulfield, quando esordisce nel terzo capitolo “I’m the most terrific liar you ever saw in your life”8 e che nella traduzione italiana suona come “Io sono il più fenomenale bugiardo che abbiate mai incontrato”. Il Palandri scrittore vuole soprattutto raccontare di se stesso, del suo mondo bolognese, della sua comitiva di amici 7 Tondelli, Pier Vittorio. “Enrico Palandri”. Un weekend postmoderno. Milano: Bompiani, 1991, 213-215. 8 Salinger, Jerome David. The Catcher in the Rye. New York: Little, Brown and Company, 1952. che lui indica spesso con l’altro nome-mantra “il collettivo”, che ha un suo preciso corrispettivo nel vocabolario tondelliano in “la fauna”, un termine quello di Palandri che sembra quasi spogliato dalla sua accezione politica per diventare appunto un sinonimo di “comitiva”, di “gruppo di amici”. E Palandri, comprensibilmente, vuole raccontare di sé e del suo mondo sotto una luce calda e buona. Dunque il suo personaggio alter-ego, per il quale non adotta nemmeno il principio mimetico elementare del cambio del nome, è proprio il classico bravo ragazzo: fidanzato innamorato marcio, studente universitario che dà esami, attento lettore di giornali, bravo figlio che cerca di conservare un canale comunicativo con dei genitori non troppo recettivi se non proprio ostili. Un bravo ragazzo così come lo era il giovane Holden, e in Enrico troviamo tanto profumo di rivoluzione quanta ne possiamo trovare nel personaggio di Salinger o nell’Anonimo lombardo di Arbasino, o nel Tom Sawyer di Mark Twain. Sono tutti personaggi “per bene”, spesso ingenui, e quando si mostrano furbi non lo fanno mai con malizia. L’Enrico di Boccalone è, per l’appunto, un “boccalone”, cioè un credulone, un sempliciotto, un adolescente che perde la testa per la sua prima ragazza e la pone al centro del suo universo, senza più capirci nulla: “Con anna [sic] ho creduto di poter dimenticare quante cose accadono in un momento, e di essere legato al mondo, rapito con tutto me stesso in un sogno che non ha conosciuto contorni” (B 8) e ancora: “con anna [sic] tutto era dimenticato, senza neppure rendermi conto, dimenticavo tutto” (B 31). Una storia d’amore adolescenziale, dicevamo, che di quella fase della vita ha le tinte forti e facilmente scoloribili, se è vero che a un certo punto l’acquisto di “un paio di stivali di cuoio spagnolo” (B 91-92), citazione dylaniana resa anche esplicita con la trascrizione sulla pagina dell’intero testo tradotto, mette in crisi, almeno temporalmente, questa relazione così assoluta. Ma leggendo Boccalone ci rendiamo conto che lo scapestrato Enrico non ha davvero una forte dimensione politica, se escludiamo il fatto di essere cosciente di vivere in un periodo storico cupo e intenso, quale il ’77 bolognese. Un periodo che però non può non affrontare con tutta la leggerezza e la superficialità dei suoi ventuno anni, anche a costo di mancare di rispetto nei confronti degli adulti e di chi fa politica o lavora. Addirittura, Enrico ha nei confronti di ogni mestiere un chiaro disprezzo, in linea con le parole d’ordine del Movimento del ’779, esplicitato tanto nel testo quanto nella postfazione del 1988. Solo per citare l’esempio più famoso di questo disprezzo, all’inizio del romanzo Enrico si prende burla di un lavoratore della mensa universitaria al quale aveva chiesto, ironicamente, di avere una seconda arancia, essendo questo lavoratore “uno introdotto nell’ambiente”. Solo che il lavoratore non afferra il livello ironico di Enrico, che dopotutto è uno studente universitario che si fa bello del suo piano intellettuale, e quando lo avvicina per esaudire la sua richiesta, vantandosi discretamente della propria entratura nell’ingranaggio del sistema-mensa, suscita in Enrico una risata sincera e irrefrenabile, che prende lo spazio di un’intera pagina e mezza, al punto da urtare la suscettibilità del lavoratore: 9 Per un’agile panoramica sulle parole d’ordine del Movimento del ’77, cfr. Echaurren, Pablo. Parole ribelli. I fogli del Movimento del 77. Roma: Stampa Alternativa, 1997. Salaris, Claudia. Il movimento del settantasette. Linguaggi e scritture dell’ala creative. Bertiolo: AAA Edizioni, 1997. Caminiti, Lanfranco et al. Settantasette. La rivoluzione che viene. Roma: Castelvecchi, 1997. “sa, non lo dico per fare il vanitoso, ma se vuole un’arancia posso vedere di fare qualcosa, io conosco tutti qui dentro…” Quando l’ho visto dietro di me parlare in questo tono della mia arancia, di cui mi era anche passata la voglia, sarà per la sua faccia simpatica e il buon umore orgoglioso che veniva fuori dalla voce e da tutta la persona, sarà per l’antipatia che provo da marzo per i lavoratori onesti, sono scoppiato in una risata fragorosa: ridevo a crepapelle. allora [sic] lui si fece serio e cominciò a dire: “guardi che sono un lavoratore, io non vengo qui per farmi prendere in giro, vengo qui per lavorare, chi crede di essere per ridermi in faccia a quel modo?” Credo che la parola lavoratore sia stata decisiva: non riuscivo assolutamente a trattenermi, cercavo di riassestarmi e lo guardavo in faccia per scusarmi, due o tre volte consecutive sono stato costretto a constatare lo stato pietoso in cui mi trovavo. volevo [sic] por fine alla vicenda, ero anche disposto a offrirgli del denaro purché si allontanasse; (B 21) Questo genere di atteggiamento è poi ripudiato dal Palandri che scrive la postfazione del 1988, o meglio è giustificato nel contesto del personaggio ventunenne e ripudiato dallo scrittore maturo. In un altro passo del romanzo, quando Enrico viene a sapere dalla tv di casa (e si sottolinea: lo viene a sapere dalla televisione) che “un compagno di lotta continua a roma [sic]” è stato ucciso dai carabinieri, la sua reazione è quella di rimanere senza parole perfino dinanzi alle crudeli parole del padre: “…..” condizione resa graficamente da una serie di cinque puntini tra virgolette e poi esplicitata nel rigo sotto: “richiudo la bocca senza aver emesso alcun suono” (B 88-89). Un po’ poco, per un personaggio che volesse proporsi come impegnato militante politico. In conclusione, considerando la dichiarazione d’intenti di Palandri in La deriva romantica, laddove sostiene “Io parto in ogni libro con grandi ambizioni teoriche, i libri che voglio scrivere, prima di scriverli, mi sembra che affronteranno temi immensi, l’uomo di fronte alla storia, la nostalgia della metafisica, l’uscita del tempo”10, letta alla luce della lunga e articolata postfazione del 1988 (B 143-157), che è una vera e propria presa di distanza filosofica dall’opera prima, possiamo dire che in Boccalone l’aspetto politico è secondario rispetto a quello sentimentale e che la dirompenza e la freschezza di quest’opera riguarda soprattutto le tecniche linguistiche e di personalissima punteggiatura (l’assenza di punti a fine periodo, la mancanza di maiuscole a inizio frase, il veloce fluire dei pensieri e delle azioni dei personaggi come se si trovassero all’interno di un contesto privo di cornice). Palandri, che sostiene di avere scritto il romanzo in una settimana e poi di averlo dovuto riscrivere e limare a lungo con l’aiuto dell’editor Marco Leva, riesce in Boccalone a dare un affresco di una Bologna giovanile e spensierata nonostante gli anni di Piombo e i carri armati per le strade. Un’operazione analoga a quella riuscita a Tondelli con Altri libertini, ma la grande differenza tra le due opere è nel fatto che l’autore di Correggio fu in grado di inserire nel suo affresco giovanile anche i colori della disperazione e del bisogno di un gruppo di emarginati di evadere e di esprimersi contro un ambito sociale percepito come limitante nel suo carattere provinciale e conformista. Proprio in questa presenza drammatica, del tutto assente in Boccalone, e nel suo cozzare contro lo status quo conformista possiamo individuare l’aspetto più 10 Palandri, Enrico. La deriva romantica. Ipotesi sulla letteratura e sulla scrittura. Novara: Interlinea, 2002, 28. propriamente politico dell’opera tondelliana. Un aspetto che si potrebbe definire dadaista o camp, secondo la definizione data da Esther Newton11 e che, in realtà, continuerà lungo tutta la produzione dello scrittore di Correggio. Ecco che in Pao pao (1982), per raccontare un anno di vita militare, ossia per descrivere un anno all’interno dell’istituzione più totalizzante che possa esistere in un contesto sociale – quello di una caserma militare, secondo come rigidità solo al carcere – Tondelli nel 1982 si diverte a creare una commistione dove tutto è interpretato attraverso le lenti arcobaleno di un’omosessualità gioiosa, goliardica e spensierata o, al limite, attraverso l’effetto analgesico delle droghe leggere e pesanti. Droga e omosessualità: quali migliori armi dadaiste per raccontare la vita militare? Tondelli ci lascia una grande lezione di stile per affrontare il grigiore (e il nero) dell’Italia di ieri, di oggi e di domani. Lavori citati Beha, Oliviero. Anni di merda. Notizie dal fronte del disagio italiano. Napoli: Pironti Editore, 1993. Caminiti, Lanfranco et al. Settantasette. La rivoluzione che viene. Roma: Castelvecchi, 1997. D’Alema, Massimo. “Ma non sono tutti così.” L’Espresso 10 febbraio 1980: 68. Echaurren, Pablo. Parole ribelli. I fogli del Movimento del 77. Roma: Stampa Alternativa, 1997. Fofi, Goffredo. “Quattro opinioni a caldo sul primo romanzo di Gianfranco Bettin.” Linea d’Ombra. Anno VII, 36 (1989): 26-8. Newton, Esther. “Role Models.” Camp. Queer Aesthetics and the Performing Subject: A Reader. A cura di Fabio Cleto. Ann Arbor: The University of Michigan Press, 1999. 96-109. Secondo Newton il Camp ha tre caratteristiche principali: “incongruity, theatricality, and humour.” (103). Tutte e tre sono intimamente 11 Newton, Esther. “Role Models.” Camp. Queer Aesthetics and the Performing Subject: A Reader. A cura di Fabio Cleto. Ann Arbor: The University of Michigan Press, 1999. 96-109. connesse con la strategia e la situazione omosessuale: “Incongruity is the subject matter of camp, theatricality its style, and humour its strategy.” (103). Palandri, Enrico. Boccalone. Storia vera piena di bugie. Milano: Edizioni L’erba voglio, 1979. (Nuova edizione: Milano: Bompiani, 1980, 1997). ----. La deriva romantica. Ipotesi sulla letteratura e sulla scrittura. Novara: Interlinea, 2002, 28. ----. Pier. Tondelli e la generazione. Roma-Bari: Laterza, 2005. Paris, Renzo. Romanzi di culto. Sulla nuova tribù dei narratori e sui loro biechi recensori. Roma: Castelvecchi, 1995. Salaris, Claudia. Il movimento del settantasette. Linguaggi e scritture dell’ala creative. Bertiolo: AAA Edizioni, 1997. Salinger, Jerome David. The Catcher in the Rye. New York: Little, Brown and Company, 1952. Tondelli, Pier Vittorio. Altri libertini. Milano: Feltrinelli, 1980, 1987. ----. Pao pao. Milano: Feltrinelli, 1982, 1991. ----. “Enrico Palandri”. Un weekend postmoderno. Milano: Bompiani, 1991, 213-215. ----. “Under 25: discussioni.” Opere II. Cronache, saggi, conversazioni. A cura di Fulvio Panzeri. Milano: Bompiani, 2001, 2005, 724-46.
Titolo del contributo: «Boccalone e Altri Libertini: due punti di vista diversi sugli anni Settanta». Presentato in prima bozza ridotta: NEMLA Conference 2009, Boston. Voce bibliografica: Gastaldi, Sciltian. “Boccalone e Altri libertini: due punti di vista diversi sugli anni Settanta” in Minardi, Enrico e Monica Francioso, a cura di. Generazione in movimento. Viaggio nella scrittura di Enrico Palandri. Ravenna: Longo, 2010. 115-32. Scritto su: Word Ambiente: Mac Indirizzo autore: 30 Gloucester Street, Unit 505, Toronto, ON, Canada, M4Y 1L6 Telefono autore: +1-647-204-2304 (Canada); +39-328.8121211 (Italia) Email autore: s.gastaldi@utoronto.ca Sciltian Gastaldi Boccalone e Altri Libertini: due punti di vista diversi sugli anni Settanta Paper for the 2009 Boston Nemla Conference Toronto, February, 2009 Lo studioso appassionato di letteratura italiana del XX secolo si è imbattuto assai spesso in ricerche che legano le opere d’esordio di Enrico Palandri e Pier Vittorio Tondelli da un punto di vista linguistico e generazionale, mentre le dividono nettamente sul piano dei contenuti. Il Boccalone1 di Palandri, secondo sia la critica marxista che quella cattolica, sarebbe un esempio di quella letteratura politicamente impegnata che si inserisce in un filone vasto e importante della produzione culturale italiana del dopoguerra. Una produzione che va dalla letteratura della Resistenza fino ai testi di Nanni Balestrini, Oriana Fallaci, Marco Lombardo Radice, Lidia Ravera, Rossana Rossanda e altri, considerati come strumento essenziale di quell’egemonia culturale di cui il Partito comunista italiano doveva preoccuparsi secondo i Quaderni di Antonio Gramsci. Sempre seguendo la critica marxista e quella cattolica, gli Altri libertini di Tondelli sarebbero invece ascrivibili alla cosiddetta «letteratura del disimpegno», vale a dire quella produzione letteraria (che i marxisti disprezzavano come «borghese» e «conservatrice», mentre i cattolici difendevano) che non era interessata alle «magnifiche e progressive sorti» della rivoluzione comunista per lasciare invece spazio ai sentimenti e ai rapporti interpersonali. Una dicotomia divenuta classica, questa tra impegno e sentimento, che fu in grado di dividere per mezzo secolo non solo il campo critico-letterario ma proprio l’intera sfera culturale italiana, fino ad anni recentissimi. Solo per citare alcuni nomi celeberrimi e in parte rappresentativi delle proprie correnti, parliamo della divisione che distinse in 1 E. Palandri, Boccalone. Storia vera piena di bugie, Milano, Edizioni L’erba voglio, 1979. (Nuova edizione: Milano, Bompiani, 1980, 1997). Da qui in avanti abbreviato in citazione come «B». modo feroce tra il teatro sociale di Dario Fo e Franca Rame e quello considerato colto ma d’evasione di Paolo Poli, Franca Valeri o addirittura quello cabarettistico di Castellacci e Pingitore. Nel cinema, è la divisione che distinse tra l’impegno di Francesco Rosi, Citto Maselli, Gillo Pontecorvo, Nanni Moretti e diversi altri e la commedia all’italiana impersonificata dai personaggi di Alberto Sordi o, su un livello ritenuto ancora più basso, dalle commedie erotiche all’italiana con Alvaro Vitali o dai poliziotteschi con Tomas Milian; nella musica leggera è la dicotomia tra i cantautori «impegnati» come Guccini, De André, De Gregori, contrapposti ai cantanti dell’amore-cuore, come Lucio Battisti, Claudio Baglioni, Riccardo Cocciante, Tiziano Ferro e molti altri. Questo studio si propone da un lato di contestare la collocazione di Pier Vittorio Tondelli nel campo della letteratura disimpegnata tout-court, in particolare per quanto riguarda il suo libro d’esordio, ma non solo; dall’altro di dare un’interpretazione meno politicizzata del Boccalone di Palandri. Boccalone e Altri libertini2 condividono il periodo storico di gestazione, il biennio 1978-79, l’età giovane dei loro autori (entrambi esordienti a 24 anni), la data di pubblicazione: il 1979-80 e anche l’ambientazione, in un’Emilia di fine anni Settanta. La questione anagrafica e generazionale, come vedremo nelle pagine che seguono, ha un peso determinante nel delineare una comune fisionomia culturale. Tanto Boccalone quanto Altri libertini sono, secondo questo studio, uno specchio degli anni Settanta appena trascorsi e si inseriscono perfettamente al termine del «decennio di piombo» portandone per altro alla 2 P.V. Tondelli, Altri libertini, Milano, Feltrinelli, 1980, 1987. Da qui in avanti abbreviato in citazione come «AL». ribalta temi analoghi, primo fra tutti lo scontro generazionale e il bisogno giovanile d’evasione e di rottura rispetto allo status quo. Per usare le parole assai ficcanti e purtroppo attuali del Palandri critico maturo: Al centro dello scontro generazionale degli anni settanta c’erano secondo me proprio queste due visioni: una, ancorata nella Chiesa cattolica e nella conservazione almeno nominale di un’idea di società guidata dall’autorità morale della religione, che si schierò contro il divorzio, la contraccezione e l’aborto e che aveva ampia rappresentanza politica. L’altra, che cresceva in un’area di dissenso dalla Chiesa, dai principali partiti e alla fine anche dai gruppi più piccoli perché la sua vera vocazione era l’individualismo protestante, il costituirsi come liberi pensatori (in Italia espressione non a caso usata spesso ironicamente), persone che non si identificarono con nessuna comunità. (…) Pier era all’inizio una voce che nasceva da lì. Situazione molto contraddittoria, perché se la Chiesa ufficiale era a destra, alcuni antichi nervi molto profondi del cristianesimo, soprattutto della tradizione francescana e pauperista, attecchivano benissimo nel movimento. Il ’68 ha nel cuore la Lettera a una professoressa di don Milani. (…) Da ragazzo aveva frequentato l’associazionismo cattolico e poi aree del movimento, il pentolone in cui ribollono non solo gli anni settanta3. L’evasione di cui ha dunque bisogno questa generazione di nuovi giovani gioco-forza contestatari può e deve essere fisica, attraverso il mito del viaggio in auto lungo una «autobahn» verso Nord o verso la Spagna, ma è un’evasione che può e deve essere soprattutto psicologica, attraverso dei rapporti d’amicizia e d’amore quasi morbosi nella loro presenza totalizzante; un’evasione che può declinarsi anche attraverso comportamenti autolesionistici, come l’assunzione di 3 E. Palandri, Pier. Tondelli e la generazione, Roma-Bari, Laterza, 2005, 31-32. Da qui in avanti abbreviato in citazione come «P». eroina e altre droghe sintetiche. Già questa prima affermazione si pone in contrasto con quanto diversi critici hanno scritto riguardo all’esordio di Tondelli. Per questi intellettuali, molti dei quali appartenenti al Gruppo 63 e i cui testi furono pubblicati, come ricorda4 lo stesso Palandri, tra l’altro su «Linea d’Ombra», su «Quaderni piacentini» e su «Ombre rosse», l’autore di Correggio è sin dall’esordio il cantore del disimpegno e degli anni Ottanta, considerati implicitamente «anni di merda5» per citare un famoso saggio del giornalista Olivero Beha, nei quali a farla da padrone sono lo yuppismo, il reaganthathcerismo, il materialismo e la fine del comunismo. In realtà in Altri libertini, come vedremo, è invece presente una dimensione politica molto forte, a fronte di un’assenza di affiliazione partitica o movimentistica da parte tanto dei suoi personaggi quanto del suo autore. E la fisionomia politica di questo libro a dire il vero fu notata per primo non da un critico, bensì da chi sarebbe diventato uno dei più famosi uomini politici italiani, Massimo D’Alema, al quale nel 1980 «L’Espresso» chiese un commento sui romanzi definiti «giovanili» del decennio appena concluso. D’Alema, allora segretario della Federazione giovani comunisti italiani, in poche righe coglie l’essenza di Altri libertini rovesciando il tavolo della critica letteraria marxista: Devo dire con sincerità che lessi con fastidio “Porci con le ali” e che non riuscii a finire “Boccalone”. Invece “Altri libertini” di Pier Vittorio Tondelli mi sembra un libro da leggere. Intendiamoci, non come “testimonianza” del mondo giovanile. È fin troppo facile vedere che ciò che si rispecchia in queste pagine non è tutto il mondo dei giovani. Ma proprio perché siamo 4 E. Palandri, Pier, cit., p. 77. O. Beha, Anni di merda. Notizie dal fronte del disagio italiano, Napoli, Pironti Editore, 1993. 5 di fronte a un prodotto “colto”, non improvvisato, ed esplicitamente e con ricercatezza “letterario”, il messaggio che trasmette colpisce più a fondo. […] Un’ultima notazione che spero non espressa per deformazione professionale. “Altri libertini” è un romanzo “politico”. Se non altro perché l’esperienza giovanile che racconta svela una “mancanza” di politica, o se si preferisce, una crisi della politica. Si dirà che l’immagine della società e del popolo dell’Emilia che ne viene fuori è ingiusta. Lo penso anche io. Ma non respingerei comunque il valore di denuncia che il libro assume6. Vediamo allora in cosa consiste l’aspetto politico di Altri libertini, notato anche da D’Alema. Anzitutto dobbiamo considerare il contenuto del libro. Tondelli con questa raccolta si pone come il cantore degli emarginati: che siano omosessuali, drogati, pusher, barboni, studenti spiantati, giovani in cerca di un senso, il fuoco del libro è tutto spostato su chi si trova ai margini della società dell’epoca e ne è anzi respinto con fastidio e ignominia. Possiamo immaginare che se Altri libertini fosse uscito oggi – nella tristissima Italia del 2009 – avrebbe parlato di zingari, romeni, marocchini, precari, disoccupati, nuovi poveri e, purtroppo, ancora di omosessuali, che sembrano essere l’unica minoranza sempre invisibile e ai margini del gran circo italiano. In particolare, Postoristoro, il primo racconto di Altri libertini, si apre come una discesa dantesca agli inferi, ricca solo di «dannati», aggettivo ripetuto quattro volte nella novella, passando da un personaggio miserabile all’altro, in una spirale in cui l’unico elemento che non si riesce a vedere è proprio quella «tensione di salvezza» su cui ha insistito con così tanta convinzione e partigianeria la critica cattolica e gesuitica (o, per maggiore precisione, quella cattolica e gesuitica postuma a Tondelli, dal 6 M. D’Alema, Ma non sono tutti così, «L’Espresso», 10 febbraio 1980. momento che quella a lui coeva era severamente impegnata a squalificarlo come scrittore e a etichettarlo come blasfemo). Ecco quindi, in ordine, Giusy, che «arriva ogni giorno, puntuale come una maledizione saltellando sui tacchi e spidocchiandosi la lunga coda di capelli che alle volte nasconde nel cuffietto peruviano» (AL 10) e poi un barbone che «mangia una crosta di grana con del pane attendo a non disperdere neanche una briciola della sua cena» (AL 11). Abbiamo poi l’entrata in scena del celebre personaggio di Bibo, il drogato marcio che è l’unico descritto non dalla voce narrante ma direttamente dalla sua parlata infarcita di bestemmie e di esclamazioni (AL 12). E poi ancora la descrizione di Molly (AL 13), una seconda barbona di sessant’anni, Johnny, il pusher, l’unico ben vestito «con il suo Burberrys sfarfagliante» (AL 17), quindi Liza «proprio odore di checca sfranta» (AL 19), la Vanina «che è una ragazzona di vent’anni ma gliene daresti cinquanta forse più, la faresti lì lì per la sepoltura» (AL 21). Quindi «i terroni» col «Salvino capobanda, che è confinato qui al nord, fetente mafioso» (AL 21). E questo è il «popolo del Postoristoro» (AL 21), un popolo in cui perfino il coro è composto da «studenti brufolosi che vengono dalla campagna alle scuole professionali qui in città e c’hanno le gambe curve e tozze e i fianchi larghi» (AL 10). Una umanità così reietta e laida da far accapponare la pelle, che trova poi il suo ambiente ideale, non a caso, nel cesso della stazione, mentre il Bibo in crisi d’astinenza non riesce più a controllare lo sfintere e «immerda» anche Rino (AL 31), l’ultimo disperato della combriccola, fondamentale sostegno per poter finalmente iniettare l’eroina nell’unica vena non rotta rimasta al Bibo: sul sesso: «Dentro l’ago, zac» (AL 33) e non è necessario nemmeno il punto esclamativo per rendere l’idea. Sono questi gli anti-eroi che aprono la letteratura tondelliana, e rimane difficile comprendere come alcuni critici cattolici riescano a leggere speranza di salvezza in un contesto così al limite. È però vero che Tondelli ama questi anti-eroi e sa renderli in un modo così vivido e privo di giudizio morale che il lettore non può non affezionarsi anche al più laido e sfortunato di loro. Tondelli, in altre parole, cerca di suscitare empatia nel lettore, e ci riesce proprio attraverso il raccontare la misera quotidianità dei suoi personaggi dannati e reietti. Ci riesce in Mimi e istrioni, con le Splash «i rifiùt ed Réz» (AL 35), ci riesce in Viaggio, raccontando il desiderio di una comitiva di amici di scoprire l’Europa e di andare oltre i confini piatti della loro provincia emiliana, ci riesce perfino in Senso contrario, il racconto più breve e forse meno memorabile, facendoci provare simpatia per una giovanissima marchetta di nome Lucio, capitata nell’automobile sbagliata. Tondelli mostra poi tutto il suo talento nel racconto che dà il titolo alla raccolta, dove l’omosessualità dei personaggi è presentata in un modo ridanciano, quotidiano, scontato, autoironico e divertito, lontano anni luce dai drammi psicologici di Testori, dal senso di vergogna di Saba, dalla condizione di condanna di Pasolini e anche dalla dimensione religiosa di Còccioli - pure molto più vicino all’autore di Correggio rispetto agli altri nomi citati - se pensiamo per esempio che il personaggio dell’io narrante racconta di convincere il resto della sua comitiva ad andare a vedere al cinema Sebastiane, di Derek Jarman, e di venirsi addosso durante la scena del martirio, «come un pippaiolo» (AL 149). L’iconografia dei santi martiri come immagine erotica a sfondo gay: si può pensare a qualcosa di meno rispettoso del canone cattolico? Dinanzi a un simile contesto, non stupisce che Altri libertini dovette affrontare nell’Italia del 1980 un processo per blasfemia e vilipendio della religione cattolica, e questo forse anche a prescindere dalla famosa questione delle bestemmie e del linguaggio parlato, inevitabilmente volgare proprio in quanto parlato. L’operazione politico-letteraria tentata e riuscita da Tondelli è dunque quella di dare alle stampe l’immagine di un’Italia ben diversa da quella che fino ad allora era stata considerata rispettabile e degna di attenzione letteraria. Era l’Italia delle minoranze, di chi è di solito combattuto dalle istituzioni tramite l’indifferenza e l’ignoranza prima ancora che la repressione, come è rimasto chiaro per gli omosessuali perfino sotto il ventennio fascista e come, ancora oggi è, se è vero che l’Italia nel 2009 è l’unico Paese occidentale a essere privo di qualunque riconoscimento giuridico per le coppie dello stesso sesso. Dando voce a queste minoranze, lo scrittore emiliano compiva dunque un atto pienamente e fortemente politico e stupisce semmai come la critica marxista, su Tondelli più ottusa del solito, non abbia saputo cogliere, all’epoca e in seguito, i semi di una presa di posizione così radicale in nuce. Presa di posizione invece ben colta dal Palandri critico, che ancora scrive: Pier nei suoi primi libri era uno squarcio di questo mondo altro, dove gli spinelli non erano considerati droghe e dove gli omosessuali non erano diversi, dove nulla era considerato trasgressivo perché il rifiuto della norma rendeva insensato il concetto stesso di trasgressione. (P 34) È nostra convinzione che questa considerazione non valga solo per «i primi libri» dell’autore di Correggio, ma sia leggibile in controluce per tutta la sua opera, in particolare in Pao Pao, Un weekend postmoderno, L’abbandono e anche in Camere separate. Qui ci si sofferma solo sui due libri d’esordio dei nostri scrittori, e se il libro d’esordio di Tondelli è stato dunque ingiustamente letto dalla maggior parte della critica come un esempio di disimpegno, d’altro canto è giusto avanzare un dubbio sulla dimensione tutto-politica di Boccalone. Il lavoro di Palandri è - sopra ogni altra cosa - il racconto di un’adolescenziale storia d’amore, quella del personaggio Enrico Palandri per la sua fidanzata dell’epoca, Anna B. Un’interpretazione del resto condivisa dallo stesso Tondelli, quando recensì nel 1979 il volume del coetaneo: L'azione del libro si situa a ridosso del marzo del 1977, dei mesi della rivolta creativa, dei carri armati inviati a presidiare la cittadella universitaria, della latitanza di Bifo e del trasversalismo, dell’assedio di Radio Alice. Episodi che di Boccalone costituiscono lo sfondo e lo scenario principale, come nelle tavole di Andrea Pazienza. Ma Boccalone è soprattutto una storia d'amore, prima ancora che di crisi politica, la storia di come un innamoramento possa far scoppiare i propri equilibri, creare intensità nuove7. Il sottotitolo del romanzo di Palandri, che è ripetuto all’interno del racconto come una sorta di mantra, recita inoltre «storia vera piena di bugie» e ricorda da vicino l’incipit del leggendario sedicenne creato da Salinger, Holden Caulfield, quando esordisce nel terzo capitolo «I’m the most terrific liar you ever saw in 7 P.V. Tondelli, «Enrico Palandri», in Un weekend postmoderno, Milano, Bompiani, 1991, 213-215. your life»8 e che nella traduzione italiana suona come «Io sono il più fenomenale bugiardo che abbiate mai incontrato». In fondo il Palandri scrittore vuole soprattutto raccontare di se stesso, del suo mondo bolognese, della sua comitiva di amici che lui indica spesso con l’altro nome-mantra «il collettivo», un termine che sembra quasi spogliato dalla sua accezione politica per diventare appunto un sinonimo di «comitiva», di «gruppo di amici». E Palandri vuole raccontare di sé e del suo mondo sotto una luce calda e buona. Dunque il suo personaggio alter-ego, per il quale non adotta nemmeno il principio mimetico elementare del cambio del nome, è proprio il classico bravo ragazzo: fidanzato innamorato marcio, studente universitario che dà esami, attento lettore di giornali, bravo figlio che cerca di conservare un canale comunicativo con dei genitori non troppo recettivi se non proprio ostili. Un bravo ragazzo così come lo era il giovane Holden, e in Enrico troviamo tanto profumo di rivoluzione quanta ne possiamo trovare nel personaggio di Salinger o nell’Anonimo lombardo di Arbasino, o nel Tom Sawyer di Mark Twain. Sono tutti personaggi «per bene», spesso ingenui, e quando si mostrano furbi non lo fanno mai con malizia. L’Enrico di Boccalone è, per l’appunto, un «boccalone», cioè un credulone, un sempliciotto, un adolescente che perde la testa per la sua prima ragazza e la pone al centro del suo universo, senza più capirci nulla: «Con anna [sic] ho creduto di poter dimenticare quante cose accadono in un momento, e di essere legato al mondo, rapito con tutto me stesso in un sogno che non ha conosciuto contorni» (B 8) e ancora: «con anna [sic] tutto era dimenticato, senza neppure rendermi conto, 8 J.D. Salinger, The Catcher in the Rye, New York, Little, Brown and Company, 1952. dimenticavo tutto» (B 31). Una storia d’amore adolescenziale, dicevamo, che di quella fase della vita ha le tinte forti e facilmente scoloribili, se è vero che a un certo punto l’acquisto di «un paio di stivali di cuoio spagnolo» (B 91-92), citazione di Bob Dylan resa anche esplicita con la trascrizione sulla pagina dell’intero testo tradotto, mette in crisi, almeno temporalmente, questa relazione così assoluta. Ma leggendo Boccalone ci rendiamo conto che lo scapestrato Enrico non ha davvero una forte dimensione politica, se escludiamo il fatto di essere cosciente di vivere in un periodo storico cupo e intenso, quale il ’77 bolognese. Un periodo che però non può non affrontare con tutta la leggerezza e la superficialità dei suoi ventuno anni, anche a costo di mancare di rispetto nei confronti degli adulti e di chi fa politica o lavora. Addirittura, Enrico ha nei confronti di ogni mestiere un chiaro disprezzo, esplicitato tanto nel testo quanto nella postfazione del 1988. Solo per citare l’esempio più famoso di questo disprezzo, all’inizio del romanzo Enrico si prende burla di un lavoratore della mensa universitaria al quale aveva chiesto, ironicamente, di avere una seconda arancia, essendo questo lavoratore «uno introdotto nell’ambiente». Solo che il lavoratore non afferra il livello ironico di Enrico, che dopotutto è uno studente universitario che si fa bello del suo piano intellettuale, e quando lo avvicina per esaudire la sua richiesta, vantandosi discretamente della propria entratura nell’ingranaggio del sistema-mensa, suscita in Enrico una risata sincera e irrefrenabile, che prende lo spazio di un’intera pagina e mezza, al punto da urtare la suscettibilità del lavoratore: «sa, [sic] non lo dico per fare il vanitoso, ma se vuole un’arancia posso vedere di fare qualcosa, io conosco tutti qui dentro…» Quando l’ho visto dietro di me parlare in questo tono della mia arancia, di cui mi era anche passata la voglia, sarà per la sua faccia simpatica e il buon umore orgoglioso che veniva fuori dalla voce e da tutta la persona, sarà per l’antipatia che provo da marzo per i lavoratori onesti, sono scoppiato in una risata fragorosa: ridevo a crepapelle. allora [sic] lui si fece serio e cominciò a dire: «guardi [sic] che sono un lavoratore, io non vengo qui per farmi prendere in giro, vengo qui per lavorare, chi crede di essere per ridermi in faccia a quel modo?» Credo che la parola lavoratore sia stata decisiva: non riuscivo assolutamente a trattenermi, cercavo di riassestarmi e lo guardavo in faccia per scusarmi, due o tre volte consecutive sono stato costretto a constatare lo stato pietoso in cui mi trovavo. volevo [sic] por fine alla vicenda, ero anche disposto a offrirgli del denaro purché si allontanasse; (B 21) Questo genere di atteggiamento è poi ripudiato dal Palandri che scrive la postfazione del 1988, o meglio è giustificato nel contesto del personaggio ventunenne e ripudiato dallo scrittore maturo; a dire che invecchiare è il modo migliore per poter leggere con luce neutra i propri stessi atteggiamenti giovanili. E, se è concessa la digressione polemica, a giudicare dall’abbandono nelle opere successive dell’uso delle lettere minuscole in luogo delle maiuscole per i nomi di persona e all’inizio dei paragrafi, probabilmente il ripudio del Palandri maturo non riguarda solo certi propri contenuti giovanili, ma anche talune innovazioni stilistiche di dubbia efficacia. In un altro passo del romanzo, quando Enrico viene a sapere dalla tv di casa (e sottolineiamo: lo viene a sapere dalla televisione) che «un compagno di lotta continua a roma [sic]» è stato ucciso dai carabinieri, la sua reazione è quella di rimanere senza parole perfino dinanzi alle crudeli parole del padre: «…..» condizione resa graficamente da una serie di cinque puntini tra virgolette e poi esplicitata nel rigo sotto: «richiudo la bocca senza aver emesso alcun suono» (B 88-89). Un po’ poco, per un personaggio che volesse proporsi come impegnato militante politico. In conclusione, considerando la dichiarazione d’intenti di Palandri in La deriva romantica, laddove sostiene: «Io parto in ogni libro con grandi ambizioni teoriche, i libri che voglio scrivere, prima di scriverli, mi sembra che affronteranno temi immensi, l’uomo di fronte alla storia, la nostalgia della metafisica, l’uscita del tempo»9, letta alla luce della lunga e articolata postfazione del 1988 (B 143-157), che è una vera e propria presa di distanza filosofica dall’opera prima, possiamo dire che in Boccalone l’aspetto politico è secondario rispetto a quello sentimentale e che la dirompenza e la freschezza di quest’opera riguarda soprattutto le tecniche linguistiche e di personalissima punteggiatura (l’assenza di punti a fine periodo, la già ricordata mancanza di maiuscole a inizio frase e per i nomi propri, il veloce fluire dei pensieri e delle azioni dei personaggi come se si trovassero all’interno di un contesto privo di cornice). Palandri, che sostiene di avere scritto il romanzo in una settimana e poi di averlo dovuto riscrivere e limare a lungo con l’aiuto dell’editor Marco Leva, riesce in Boccalone a dare un affresco di una Bologna giovanile e spensierata nonostante gli anni di Piombo e i carriarmati per le strade. Un’operazione analoga a quella riuscita a Tondelli con Altri libertini, ma la grande differenza tra le due opere è nel fatto che l’autore di Correggio fu in grado di inserire nel suo affresco giovanile anche i colori della 9 E. Palandri, La deriva romantica. Ipotesi sulla letteratura e sulla scrittura, Novara, Interlinea, 2002, 28. disperazione e del bisogno di un gruppo di emarginati di evadere e di esprimersi contro un ambito sociale percepito come limitante nel suo carattere provinciale e conformista. Proprio in questa presenza drammatica, del tutto assente in Boccalone, e nel suo cozzare contro lo status quo conformista si individua l’aspetto più politico dell’opera tondelliana. Un aspetto che si può definire dadaista e che, in realtà, continuerà lungo tutta la produzione dello scrittore di Correggio. Ecco che per raccontare un anno di vita militare, ossia per descrivere un anno all’interno dell’istituzione più totalizzante che possa esistere in un contesto sociale – quello di una caserma militare, secondo come rigidità solo al carcere – Tondelli nel 1982 si diverte a creare una commistione dove tutto è interpretato attraverso le lenti arcobaleno di un’omosessualità gioiosa, goliardica e spensierata o, al limite, attraverso l’effetto analgesico delle droghe leggere e pesanti. Droga e omosessualità in divisa grigio-verde: quali migliori armi dadaiste per raccontare la vita militare? Tondelli lascia una grande lezione di stile per affrontare il grigiore (e il nero) dell’Italia di ieri, di oggi e di domani.