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II principe fra le Muse e le arti, in Il ritorno dei classici nell’Umanesimo. Studi in memoria di Gianvito Resta, cur. G. Albanese, C. Cociola, M.Cortesi, C. Villa, Firenze, Sismel, 2015, pp.589-620. NB GRECO NELLA PARTE DI LO MONACO CLAUDIA VILLA - FRANCESCO LO MONACO IL PRINCIPE FRA LE MUSE E LE ARTI CLAUDIA VILLA, Sandro Botticelli e la Filologia medicea 1. IL PRINCIPE E LE MUSE Una celebre epistola di Guarino a Leonello d’Este è spesso citata1 come momento importante di una lunga stagione entro la quale si dispiega il rapporto del principe rinascimentale con le Muse.2 L’epistola suggerisce un programma di vita e di governo, nel segno di una cupiditas sciendi che è necessario valorizzare: De ipsis igitur summatim intelligendum est musas notiones quasdam et intelligentias esse, quae humanis studiis et industria varias actiones et opera excogitaverunt, sic dictas quia omnia inquirant vel quia ab omnibus inquirantur: cum ingenita sit hominibus sciendi cupiditas. Quindi Guarino riconsidera il corteo delle nove Muse e ne rinnova i valori e gli attributi per inserirsi in una tradizione che già nel Trecento convocava queste gentili signore in corteggi reali nei quali si affollano divinità femminili variamente investite di funzioni educative.3 Intorno alla metà del secolo, l’approvazione di Guarino, esposta nella lettera inviata al suo discepolo Leonello d’Este è apparsa fondamentale per distinguere una stagione segnata dal successo del tema musaico nell’educazione e nelle scelte del principe: 1. Epistolario di Guarino Veronese, ed. R. SABBADINI, II, Venezia 1916, pp. 498-500. 2. Riassume questo tema il catalogo della mostra Le Muse e il principe. Arte di corte nel Rinascimento padano, ed. M. NATALE, A. MOTTA MOLFINO, Modena, Panini, 1991. 3. Sufficiente il rinvio al poema di Convenevole da Prato per il re Roberto d’Angiò, concepito con un ricco apparato iconografico dove si trova anche una rappresentazione delle Muse. Per questo Bildercodex e i manoscritti superstiti: E. PASQUINI, Convenevole da Prato, in DBI, 28 (1983), pp. ?. Il Ritorno dei Classici nell’Umanesimo. Studi in memoria di Gianvito Resta. A cura di G. Albanese, C. Ciociola, M. Cortesi, C. Villa, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2014 2 CLAUDIA VILLA - FRANCESCO LO MONACO Cum praeclaram vereque magnificam in pingendis musis cogitationem tuam nuper ex litteris tuae dominationis intellexerim, laudanda erat merito ista principe digna inventio, non vanis aut lascivia referta figmentis. Infatti il programma musaico si sviluppa nello studiolo di Belfiore ed è ripreso fedelmente da Agostino di Duccio nel Tempio Malatestiano voluto da Sigismondo Malatesta; e quindi è ancora richiesto da Federico da Montefeltro per lo studiolo di Urbino.4 Questa rapidissima ed essenziale rassegna è necessaria per sottolineare l’attenzione particolare che in alcuni decenni dell’Umanesimo fu rivolta a queste dame protettrici delle arti; ed è importante per stabilire un confronto con i diversi umori che, poco più tardi, sembrano affiorare nella Firenze medicea. Agli «officia Musarum» illustrati da Guarino, sembrano sostituirsi «officia» riconsiderati all’interno di una disputa sulle arti liberali che, operando significativi mutamenti, intende proporre nuove riflessioni;5 e può realizzarsi anche in sede iconografica, se consideriamo i coinvolgimenti di Sandro Botticelli, sia negli affreschi di Villa Lemmi, sia, come ho già cercato di proporre,6 nella tavola conservata agli Uffici e destinata al giovane Lorenzo di Pierfrancesco Medici. 2. IL PRINCIPE E LE ARTI LIBERALI La più ampia e precisa illustrazione del ruolo delle arti liberali dipende, come è ben noto, dal De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella, che 4. Nell’ampia bibliografia scelgo di ricordare L. CHELES, Lo studiolo di Urbino, Iconografia di un microcosmo principesco, Modena, Panini, 1991, p. 21 e n. 28; W. LIEBENWEIN, Studiolo: storia e tipologia di uno spazio culturale, a cura di C. CIERI VIA, Modena, Panini, 1988. 5. Una interessante ipotesi sulla trasformazione delle Muse in Arti Liberali nel programma dello studiolo di Belfiore in A. DILLON BUSSI, Muse e arti liberali: nuove ipotesi per lo studiolo di Belfiore. Scritti di storia dell’arte in onore di Silvie Béguin, Napoli, Paparo ed., 2001, pp. 69-92. 6. La possibilità di leggere, per la prima volta, tutta la tavola di Botticelli con il ricorso al solo Marziano Capella, è brevemente anticipata in C. VILLA, Commentare per immagini. Dalla rinascita carolingia al Trecento, in Vedere i classici. L’illustrazione libraria dei testi antichi dall’età romana al tardo Medioevo. Catalogo della mostra (Musei Vaticani, 9 ottobre 1996-19 aprile 1997), Roma, Fratelli Palombi editori, 1996, pp. 67-68; successivamente è stata illustrata in C. VILLA, Per una lettura della “Primavera” di Botticelli. Mercurio “retrogrado” e la Retorica nella bottega di Botticelli, in «Strumenti critici», 13, n. 1 (1998), pp. 1-28, al quale rinvio per una discussione più analitica sulle fonti qui usate. La lettura ebbe subito l’approvazione di Federico Zeri, che poi ne disse le ragioni, scrivendo: «Solo nel 1997 è stata presentata un’ipotesi che mi sembra la più attendibile […] L’interpretazione a mio avviso più convincente anche perché il testo è aderente alla rappresentazione ritiene che questo dipinto non sarebbe altro che la versione pittorica di un poema della tarda antichità che ebbe enorme successo durante il Medioevo ed era molto noto nel Rinascimento: il poema di Marziano Capella dal titolo De nuptiis Mercurii et Philologiae, un testo oggi pressoché sconosciuto che nel Rinascimento faceva parte della formazione scolastica, per esempio nelle scuole di retorica» (F. ZERI, Un velo di silenzio, Milano, Rizzoli, 1999, pp. 70 e 74). Questa lettura è stata ripresa da G. REALE, Le nozze nascoste o La Primavera di Sandro Botticelli, Milano, Bompiani, 2007. IL PRINCIPE FRA LE MUSE E LE ARTI 3 fu autore molto amato dalla cultura mediolatina. Fin dall’età carolingia, insieme a Calcidio, commentatore del Timeo di Platone e a Macrobio, Marziano rappresentò uno dei grandi collettori del pensiero neoplatonico. La fabula esposta nei primi due libri, dove è narrata la vicenda di Mercurio, che si reca dal Sole per essere consigliato nella scelta della sposa, e la successiva preparazione dell’eletta, considerata degna di ascendere nell’Olimpo, dove tutti gli dei parteciperanno alla festa nuziale, suggeriva abilmente, con il suo grande impianto mitologico, il senso dell’ascesa dell’anima e del suo destino divino: dunque un programma educativo di amplissime proporzioni, incardinato sulla presenza e sulle qualifiche delle ancelle della sposa. Quindi i libri successivi, dedicati alle sette arti liberali, costituirono un formidabile repertorio enciclopedico e assicurarono al De nuptiis un costante successo. La relazione dell’impianto narrativo con i temi del neoplatonismo attrasse, in un ben definito clima di ricerca filosofica, le attenzioni di Giovanni Scoto e, più in generale, di alcuni maestri dell’età carolingia: che provvidero a costituire e divulgare per ragioni didattiche, un complesso di glosse e di materiali esegetici in cui sono stati riconosciuti gli interventi di Martino di Laon, dello stesso Giovanni Scoto e di Remigio di Auxerre. Secondo la tradizione ermeneutica della scuola, nata per le esperienze e le necessità dell’istruzione, questi commenti si trasformarono in grandi collettori delle spiegazioni più varie perché costruiti per necessità educative, che impongono anche elementari indicazioni grammaticali e più generali informazioni storiche o mitologiche. Proprio la mitologia caratterizza molti commenti a Marziano che, divulgando e diffondendo acute spiegazioni e dati preziosi intorno alle immagini divine, sembrano trasformarsi in autentici trattati di iconografia, dove una cura particolare e minuta ci restituisce le immagini degli dei e le relative spiegazioni simboliche, nella piana esposizione rilevata anche dalle storie letterarie. Prelevo, a puro titolo di esempio, per il sec. IX, un elenco con spiegazioni dei segni di Mercurio: «[…] habet serpentes quia negociator lingua venenosa est ad fallendum. Habet virgam quasi ipsam artem, qu primo introitu pulchra videtur […]».7 Intorno alla metà del secolo cominciò ad affermarsi l’iconografia delle arti liberali e non è un caso che proprio in un manoscritto di Boezio, scritto per Carlo il Calvo (Bamberg. Staatsbibl. Msc. Class.5, f. 9v), si trovi una delle più antiche rappresentazioni del quadrivio; mentre in quello stesso secolo, in area italiana, il commento attribuito a Remigio di Auxerre, trascritto nel Parigino lat. 7900A, fu illustrato con figure di alcune arti liberali. La fortuna di Marziano Capella fu sostenuta da molti altri elementi: perché il De nuptiis, con la sua struttura di prosimetro fu, con la Consolatio di Boezio, uno dei grandi modelli di un genere letterario che Dante, con la Vita Nova seppe genialmente rinnovare. Così anche la varietà dei metri determinò, come per 7. M. MANITIUS, Geschichte der Lateinischen Literatur im Mittelalter, I, München 1911, p. 526. 4 CLAUDIA VILLA - FRANCESCO LO MONACO Boezio, interessi specifici per un testo che, di necessità, sembra essere costantemente proposto nei curricula di insegnamento a diversi livelli.8 Anche il secolo XII pagò il suo tributo di interesse e di lettura a Marziano: e se Ugo di San Vittore si interessò alla varietà dei suoi metra, tutto il secolo si distinse per la ripresa e l’elaborazione delle rappresentazioni delle Sette arti liberali, in un tempo che segna la grande stagione di queste immagini, quando salgono a decorare perfino la facciata delle cattedrali.9 Persa la decorazione dei palazzi privati, raccogliamo qualche testimonianza degli addobbi per interni dove le arti liberali divennero uno dei soggetti preferiti: come sappiamo dal poema di Baudri de Bourgeuil che descrive le immagini preparate per ornare la camera da letto della contessa di Blois (sec. XII), secondo un costume che ha antecedenti più remoti. Già nel sec. X, il tema delle nozze era stato giudicato adatto per un oggetto liturgico quando la duchessa di Baviera Hadwig ricamò una veste per il monastero di S. Gallo, raffigurandovi la Philologia; che poi fu trasformata in Ecclesia, nel tappeto di Quedlimburg dove Filologia si distingue per i lunghi capelli sciolti.10 Poiché anche Petrarca ebbe un suo Marziano Capella,11 possiamo concludere che una fortuna costante e una tradizione alimentata da lettori impegnati in settori diversi, accompagnò Marziano fin dentro il Quattrocento. Peraltro meno è stata indagata la sua presenza nella cultura di questo secolo, quando l’irrompere di nuovi testi ha concentrato le riflessioni sulle novità, facendo convergere l’attenzione sulla riscoperta dei testi greci e sull’attività di quanti proponevano opere appena scoperte e subito tradotte; mentre è interessante ricordare quanto il neoplatonismo medioevale, alimentatosi con il testo di Marziano, abbia trascinato, fin dentro alla scuola del Quattrocento, una tradizione lunghissima e ancora assolutamente vitale: se manoscritti medioevali di Marziano, glossati, furono ancora ampiamente usati dai letterati che noi chiamiamo umanisti. La lunga fortuna non è limitata alla scuola e sarà opportuno segnalare la presenza di Marziano soprattutto presso l’alta committenza signorile, nella secon8. Il commento di Remigio di Auxerre è pubblicato in Remigii Autissiodorensis Commentum in Martianum Capellam, ed. C. LUTZ, Leiden 1962-1965; un commento in un manoscritto di Berlino in The Berlin Commentary on Martianus Capella “De nuptiis Philologiae et Mercurii”, ed. H.J.WESTRA, Leiden 1994 e per Bernardo Silvestre: The Commentary on Martianus Capella’s “De nuptiis Philologiae et Mercurii” attributed to Bernardus Silvestris, ed H.J. WESTRA, Toronto 1986. Per il testo di Marziano Capella: MARTIANUS CAPELLA, De nuptiis Mercurii et Philologiae, ed. A. DICK, addenda et corrigenda iterum adiecit J. PREAUX, Stutgardiae 1978. 9. W.H. STAHL - R. JOHNSON - L. BURGE, Martianus Capella and the Seven Liberal Arts, I, New York London, 1971, pp. 245-249. A. KATZENELLENBOGEN, The representation of the Liberal Arts, in Twelfth Century Europe anche the Foundations of Modern Society, ed. M. CLAGETT, G. POST, R. REYNOLDS, Madinson 1961, p. 41 per rappresentazioni del quadrivio presso Carlo il Calvo. 10. L.D. ETTLINGER, Muses and Liberal Arts, in Essays in the History of art presented to R. Wittkover, London 1967, pp. 29-35. 11. C. LEONARDI, I codici di Marziano Capella, pp. 455 e 480. IL PRINCIPE FRA LE MUSE E LE ARTI 5 da metà del Quattrocento. Federico d’Urbino ebbe una copia del De Nuptiis Philologiae et Mercurii per la sua biblioteca (Vaticano Urb. lat. 329) e Mattia Corvino ne affidò un esemplare, dove fu aggiunto il più recente Alano di Lilla, alle cure di Attavante (Venezia, Marc. lat. XIV 35); mentre Malatesta Novello si procurò l’antico, ancora utile, commento di Remigio di Auxerre (Cesena, Bibl. Malatestiana, Plut. XVI 1) e il gran signore fiammingo, abate di S. Bavone a Gand, Raphael de Mercatellis custodì nella sua biblioteca un manoscritto ora conservato a Berlino, esemplato nel secolo XII. Se a Firenze, dall’officina di Attavante, uscirono le figurazioni filologiche delle sette arti liberali, fedelmente rifatte sul testo di Marziano, dovremo considerare la presenza, nella casa dei Vespucci di via Nuova, del Laurenziano S. Marco 264 (sec. XIV), una importante collezione di testi retorici usata da Coluccio Salutati, in cui si segnala il libro V De Retorica; e soprattutto, nella biblioteca medicea pubblica, riconoscere il notevole Laurenziano S. Marco 190 (sec. XII): perché questo codice – dove i fiori adornano l’abito di Retorica e un disegno a f. 102 precisa il moto eliocentrico di Mercurio – fu raggiunto, insieme al Laurenziano S. Marco 343 (sec. XII), con il commento di Remigio di Auxerre, da Angelo Poliziano e poi postillato dal suo discepolo Pietro Crinito. Per aggiungere esempi tratti dal solo mondo fiorentino, secondo una prospettiva che coinvolga l’ambiente mediceo, possiamo ricordare che nella città erano reperibili interessanti prontuari di mitologia, come il manuale, attuale Firenze, Bibl. Naz. Conv. Sopp. I. J. 28, in cui si è suggerito di riconoscere un’opera di Guillaume de Conches: forse appartenuto a Coluccio Salutati e proveniente dal monastero di S. Marco, propone, in sezioni titolate Quedam genealogia deorum (ff. 49r-50r), Allegoria et expositio quarumdam fabularum poeticarum (ff. 50r-55r), utili sussidi per l’iconografia delle singole divinità.12 Quindi Marziano Capella, ancora autore di consultazione per filologi ed eruditi, come dimostrano, per fare un solo esempio, le numerose citazioni nelle Castigationes Plinianae di Ermolao Barbaro continua ad alimentare una diffusa tradizione visiva distribuendo, con le sue allegorie nuziali, soggetti adattabili a decorazioni domestiche, tappezzerie o ricami muliebri. Poiché l’iconografia delle arti liberali si ripropone, arrivando fin negli affreschi ordinati da Lorenzo Tornabuoni per la Villa Lemmi, oggi conservati al Louvre, eseguiti da Sandro Botticelli per Lorenzo Tornabuoni, introdotto al cospetto della Filosofia e delle sue sette figlie, spogliate di ogni attributo tradizionale, sarà opportuno domandarci quale rapporto possa esservi fra il cerebrale pittore e la fondamentale enciclopedia di Marziano, ancora largamente in uso nella Firenze medicea e soprattutto nei circoli da lui frequentati. Fra le molte fonti impegnate nel tentativo di spiegare singoli particolari della tavola di Botticelli denominata Primavera, il nome di Marziano Capella, titolare di una enciclopedia che già subito esibisce il nome di Mercurio nel titolo, è stato appena sfiorato e solo per minimi particolari. 12. VILLA, Per una lettura, cit., pp. 23-24. 6 CLAUDIA VILLA - FRANCESCO LO MONACO Peraltro non è stato mai rilevato che il Mercurio di Marziano non è soltanto un dio abilitato a vari uffici ma è soprattutto un pianeta retrogrado; e specialmente, nella tavola di Botticelli, non fu mai posta in dubbio la consistenza naturale dei fiori primaverili, usati con eccezionale abbondanza. Occorre ricordare che la tavola di Sandro, custodita nella Galleria degli Uffizi, a Firenze (Inv. n. 8360) e dipinta, nella stessa città, negli anni Ottanta del Quattrocento, verosimilmente per un membro della famiglia Medici, Lorenzo di Pierfrancesco, cugino del Magnifico, non aveva un titolo quando, all’inizio dell’Ottocento, fu trasferita dalle collezioni medicee private alla Galleria dell’Accademia. Fu dunque riconosciuta con appellativi che di volta in volta esaltavano gli aspetti più appariscenti di un soggetto capace di esercitare un fascino straordinario, accentuato dall’enigma che sembra gravare su tutta la composizione. Il titolo Giardino di Venere si fonda sulla testimonianza del Vasari che ricorda le molte Veneri ignude dipinte da Botticelli; mentre l’attuale denominazione, ormai parte della memoria collettiva di generazioni di turisti, ne accentua un aspetto vistoso, la profusione dei fiori che dal prato risalgono a guarnire la veste di una fanciulla, riempiendone il grembo e intrecciandosi nei capelli; e se i fiori sono segno della Primavera sembra conseguente accettare che il personaggio sia la personificazione di una stagione dell’anno segnata da fioritura e rinascita. Come Allegoria della Primavera ha vissuto negli ultimi due secoli una importante vicenda critica: sia nel campo delle arti figurative che in quello della poesia. La tavola apparve un manifesto del Rinascimento, e la sua fama fu accresciuta dall’idea che Poliziano stesso avesse ispirato, con le sue Stanze, l’umanistico Giardino di Venere, secondo l’ammaliante titolo accolto dal Burckhardt nel suo Cicerone. Così il quadro divenne, già nella prima metà dell’Ottocento, un fatto di costume, protagonista di una “moderna voga” in cui ebbe molta parte il poeta e pittore preraffaelita Dante Gabriele Rossetti; ed arrivò ad ispirare testi letterari, come quelli del primo D’Annunzio. Quando, con la fine del secolo si aprì una lunga stagione interpretativa inaugurata da Aby Warburg., si accentuò l’interesse per le fonti classiche: poiché il suo memorabile saggio elenca i numerosi testi classici in cui la dea Venere appare accompagnata da Cupido e dalle Grazie, da Mercurio e dalle ninfe. La principale è naturalmente Orazio Odi, I 30, dove sono nominati insieme Mercurio, Venere e le Grazie; quindi fu ricordato Seneca, De beneficiis, I 3, per l’illustrazione del rapporto di Mercurio con le Grazie; e, in fine,Warburg richiamò l’immagine proposta da Ovidio, Fasti, V 193: «vernas efflat ab ore rosas» per la descrizione delle vicende di Cloris, inseguita da Zefiro, e ridenominata Flora. Il Warburg si impegnò anche in un accurato esame di testi rinascimentali, ricuperando soprattutto le dichiarazioni dell’Alberti, De pictura, dove è sottolineata l’importanza dell’intervento dei letterati nel suggerire e proporre i programmi iconografici. Le sue ricerche hanno poi stimolato una ulteriore raccolta di fonti classiche latine e greche, fino alla fondamentale lettura di Gombrich che esaltò l’ispirazione neoplatonica di Venere-Humanitas ricavata in un IL PRINCIPE FRA LE MUSE E LE ARTI 7 testo di Marsilio Ficino destinato a Lorenzo di Pierfrancesco Medici, proprietario del quadro ma anche titolare di un oroscopo caratterizzato dalla congiunzione di Mercurio e Venere. Singole inchieste sulle divinità presenti nel dipinto hanno chiamato a rapporto tutte le possibili reminiscenza tratte dalla letteratura antica esplorando perfino la possibilità che gli otto personaggi rappresentino i mesi della fioritura e della fruttificazione da febbraio a settembre; mentre sono state condotte anche analisi accurate sui particolari valori simbolici dei fiori e dei frutti, presenti in gran quantità.13 Poiché tutti i reperti, utili e inutili, di un enorme magazzino letterario in cui si trovano, variamente collocati, Veneri, Mercuri e Grazie, è stato ormai inventariato, occorre tornare a criteri di asciutta economia: poiché la grande varietà di proposte, la possibilità di ricavare molteplici significati dai gesti e dagli atteggiamenti dei personaggi ha in realtà sottolineato la fondamentale oscurità di una composizione che, secondo quanto ha osservato il Panofsky, continua a costituire, nel suo complesso, un grande enigma. Proprio la ricchezza e il numero delle fonti reperibili impedisce di costituire un sistema omogeneo: e il repertorio, ormai enciclopedico, scoraggia e rende difficile ricondurre i diversi elementi ad un testo unico, che insieme nomini i personaggi e ne spieghi comportamenti e propositi. Pronunciandosi contro questa disordinata proliferazione di ipotesi, il Bredekamp ha proposto una lettura retorica, costruita sul personaggio di Flora, riconosciuta come metafora della città di Firenze: e ne ha dedotto un messaggio “politico” indirizzato a Lorenzo di Pierfrancesco, membro ribelle della famiglia Medici, ostile al ramo dell’omonimo Magnifico, almeno nell’ultimo decennio del Quattrocento, in un periodo peraltro successivo a quello ordinariamente assegnato all’esecuzione di questa opera. La lettura politica è anche fornita da Cristina Acidini Luchinat,14 che suggerisce una committenza legata al Lorenzo il Magnifico. Le interpretazioni in chiave di allegoria civile rappresentano un ulteriore tentativo di forzare la relativa opacità di un’opera per la quale, a suo tempo, Federico Zeri aveva preferito dichiarare: «Il vero senso della Primavera resta chiuso in un geroglifico di cui forse non si è ancora trovata la pietra di Rosetta». Nell’idea del critico, il problema della Primavera sembrava dunque affidato ad un solo elemento, un particolare che rendesse possibile una chiave di lettura tale da rendere comprensibile e coerente, come in un testo letterario, tutta la sintassi del sistema: un segno che, rappresentando un’idea, riveli il senso di tutta la composizione. In ogni caso è almeno opportuno ricordare che la denominazione oggi accolta non fu condivisa dal notaio che stese nel 1598 l’inventario della villa di 13. Per un rapido riesame della bibliografia critica: VILLA, Per una lettura, cit., pp. 2-7. 14. C. ACIDINI LUCHINAT, Botticelli. Allegorie mitologiche, Milano, Electa, 2001. 8 CLAUDIA VILLA - FRANCESCO LO MONACO Castello dove allora il quadro era conservato; il funzionario si limitò a riconoscere «sopra il lettuccio»: «un quadro grande in tavola dipintovi tre dee, che ballano, e Cupido sopra, e Merchurio, e altre fiure, senza adornamento, anticho». I titoli, suggeriti da sensibilità moderne, non spiegano le ragioni della presenza e soprattutto dei movimenti degli altri personaggi riuniti nel giardinofrutteto: in particolare il gesto di Mercurio che, voltando le spalle alle fanciulle, indica con il suo caduceo un punto del cielo, oltre una leggera coltre di nubi. La proposta da me avanzata nel 1997, riconosciuto come geroglifico la metafora dei fiori che simboleggiano i fiori retorici con cui è tradizionalmente adornata la retorica personificata, si proponeva di leggere la tavola utilizzando il solo testo di Marziano Capella, ovviamente accompagnato dalla vulgata di un commento in uso nella Firenze medicea: perché la tavola di Botticelli sembra proporre una riclassificazione delle Arti liberali, con l’esaltazione del Furore poetico, della Retorica e della Filologia, secondo gli insegnamenti impartiti proprio in quel periodo dal Poliziano.15 Una lunga tradizione critica costringe infatti ad applicare a questo testo pittorico gli stessi metodi di lettura che applichiamo normalmente ai testi letterari; praticando il vecchio principio delle scuole medioevali dove era prima di tutto necessario decifrare la lettera, cioè capire il senso esatto del testo, attraverso un’analisi grammaticale delle varie parti del discorso. Applicando l’elementare principio «Descende ad litteram» si potrà tentare di nominare i personaggi così come potevano essere riconosciuti, negli estremi decenni del Quattrocento, quando il quadro fu dipinto per essere un oggetto di decorazione domestica, verosimilmente collocato nella «chasa per nostro abitare posta nella via Largha et nel popolo di Sa’ Lorenzo», denunciata nel 1480 al catasto da Lorenzo di Pierfrancesco Medici. Dovremmo cioè tentare di ricuperare tutti i segnali familiari ai committenti, i segni, le metafore e i simboli, che obbligano e costringono a nominare ogni personaggio secondo le sue cifre. Possiamo dunque avviarci alla lettura16 riconoscendo all’estrema sinistra il dio Mercurio, secondo i segni tradizionali con i quali appare distinto: il caduceo levato verso l’alto, il petaso e i calzari alati; subito accanto il gruppo delle tre Grazie, avvinte fra di loro, in una composizione tradizionale, che esalta la circolazione e la reciprocità della grazia. Priva di segni caratteristici appare la successiva figura femminile, sovrastata da Amore bendato, provvisto di ali e fa15. Per l’idea di furore poetico in Poliziano: ANGELO POLIZIANO, Silvae, a cura di A. BAUSI, Firenze 1996, p. 170. 16. Inizio la lettura da sinistra per nominare con chiarezza i personaggi, secondo i segni che esibiscono agli spettatori; si raggiunge invece una lettura della composizione da destra a sinistra quando, interpretando la tavola come un manifesto di poetica, si rifletta sui modi dell’esperienza poetica, prodotta dall’ispirazione generata dal divino Furore, e successivamente completata con l’esercizio delle Artes (Retorica, Philologia, Armonia, Eloquenza); importanti osservazioni sulla posizione “retrograda” di Mercurio in G. DALLI REGOLI, in Storia delle arti in Toscana. Il Quattrocento, a cura di G. DALLI REGOLI e R.P. CIARDI, Firenze, Edifir, 2002, pp. 42-43. IL PRINCIPE FRA LE MUSE E LE ARTI 9 retra; la presenza del dio bambino e l’uso, fra gli altri segni botanici, del mirto, non sono del tutto sufficienti per riconoscere in questa fanciulla la dea Venere; e se attribuiamo significato al suo abbigliamento dobbiamo rilevare, sul capo i nastri rossi che classicamente furono usati come ornamento delle spose. Accanto a lei, una giovane figura femminile, rappresentata nel momento in cui si appresta a spargere sul prato le rose raccolte nella piega a grembiule dell’abito lungo, distribuendole con ampio gesto, impegna in più complessi procedimenti d’identificazione: perché appare esplicitamente distinta soltanto da una straordinaria ed eccessiva quantità di fiori, catalogabili in classi diverse. Peraltro, come è stato acutamente osservato, le corolle e i petali non corrispondono alle foglie della relativa specie botanica, secondo una precisa intenzione di straniamento, quasi a significare l’irrealtà di questo giardino: perciò la simbologia di ogni singola specie vegetale non riesce a soccorrerci nell’interpretazione del dipinto. I fiori, evidentemente, non sono realistiche essenze vegetali. Riusciremo perciò a nominare la fanciulla soltanto se ricordiamo l’antica equivalenza spiegata fin dai tempi di Giovanni Scoto (sec. IX): «Flores: per hoc significatur initium eloquentiae, nam primo quasi tenebris flores usque dum addatur studium» ripresa da Remigio di Auxerre (sec. IX/X): «Per flores autem initia et rudimenta artium figurantur», e ampiamente ripetuta fino a Poliziano: «Iam primum enim latini sermonis elegantia vel poeticis exculta floribus vel rhetoricis illustrata luminibus rerumque antiquarum memoria, rudem veluti hominem expoliunt ad vite [sic] communis ornatum». Applicando alla decorazione dell’abito la comunissima metafora dei flores, ornamento del discorso, retorico o poetico, la luminosa signora può dunque essere riconosciuta come la Retorica; e l’identificazione è confermata da una tradizione anche iconografica rintracciabile in miniature che appunto illustrano manoscritti di testi retorici. Cito subito la fanciulla, delegata a significare l’Ars, con il grembo pieno di fiori, nel capolettera del Cicerone, De inventione, ora Venezia, Bibl. Marciana, lat. XI, 143 (4118). In questo importante e poco noto capolavoro della miniatura senese del Trecento, forse prodotto fra il 1335 e il 1338 nella bottega di Pietro Lorenzetti, il miniatore suggerisce l’equivalenza fra i fiori naturali e i flores rhetorici, ribadendola quando presenta un giovane uomo con due graziosi mazzetti, che significano i verborum colores del cap. V (f. 32) e, nel capolettera dei sententiarum colores (f. 40v), un altro giovane con un rametto fiorito, per sottolineare la maggior complessità delle figure della frase, per il gioco dei rapporti sintattici. Secondo una convenzione adottata in numerosi codici antichi, il capolettera è un formidabile strumento di comunicazione, atto a memorizzare il testo: e basti citare il volto bifronte che a f. 25 rammenta i due tipi di memoria, naturale e artificiale. È infine necessario ricordare che questa rappresentazione della retorica segue un rinnovamento in cui i testi letterari insistono sul valore dei fiori retorici come attributo essenziale, perfino proponendoli nei titoli. Così, già in età 10 CLAUDIA VILLA - FRANCESCO LO MONACO molto alta, nel sec. XI, Alberico da Montecassino avvia una rifondazione dell’ars retorica rimaneggiando i precetti di Cicerone nei suoi Flores rhetorici; mentre in volgare, nella seconda metà del Duecento, la metafora floreale viene riproposta nel titolo del popolare volgarizzamento del De inventione ciceroniano, il Fiore di retorica ora attribuito a Bono Giamboni. In quel secolo, nel repertorio di immagini che collegano la retorica ai fiori, dovremo poi almeno ricordare la visione di Lorenzo d’Aquileia quando, per convincere i suoi allievi allo studio, illustrava la prodigiosa comparsa dell’arte fra i fioretti di un luogo capace di provocare i turbamenti amorosi e le emozioni del Cantico dei Cantici; in una immagine di tanta grazia primaverile da imporsi con forza ad ogni discepolo, e fors’anche all’acuto committente del manoscritto di Venezia. In ogni caso il miniatore senese poté, senza equivoci, ornare di fiori la sua retorica, spogliandola completamente degli attributi tradizionali di femmina guerriera, perché portava a compimento un processo ormai avviato da una società che non si riconosceva più nell’arte bellicosa delegata ai dibattiti giudiziari, ma preferiva una disciplina piegata anche alla persuasione dei discorsi politici. Così il Marziano Capella, ora Firenze, Laurenziana S. Marco 190 (sec. XII), presentando una donna armata di spada (f. 47v), sostituisce all’elmo, descritto nel De nuptiis, un velo vezzoso ornato di fioretti, ripetuti sul bordo della veste e sullo scialle. L’abito della Retorica significa dunque, l’estremo approdo di una tipologia la cui trasmutazione si può ricuperare fissandone i tempi e le ragioni, dalle immagini con lancia, elmo e corazza, nel sec. X, alle prime apparizioni del mantello ornato di mille figure (retoriche) e quindi di fiori. Questo trapasso è particolarmente evidente fra il XII e il XIII secolo quando, fra le visioni di Alano di Lilla – dove Retorica scolpisce i suoi fiori sul carro della Sapienza – e i prati fioriti evocati dai notai di Federico II, la disciplina cessa di richiamare i duelli e i combattimenti verbali per accamparsi, con un suo potere di prodigiosa seduzione, nei luoghi amenissimi che evidentemente continuò a frequentare fino alla visione di Botticelli, incentrata in un meraviglioso giardino. È appena il caso di ricordare quanto una immagine armata, simile a quella visualizzata da Marziano Capella, non possa più corrispondere alla diverse aspirazioni della società cortese e comunale; ed è sufficiente richiamare la famosa canzone dantesca nel libro II del Convivio Voi ch’intendendo il terzo ciel movete per capire perché ormai la “soavissima arte”, persa ogni connessione con il mondo delle armi, trionfalmente sia comparata al cielo di Venere: E lo cielo di Venere si può comparare a la Rettorica per due proprietadi: l’una si è la chiarezza del suo aspetto, che è soavissima a vedere più che altra stella; l’altra si è la sua apparenza, or da mane or da sera. E queste due proprietadi sono ne la Rettorica: che‚ la Rettorica è soavissima di tutte le altre scienze, però che a ciò principalmente intende; e appare da mane, quando dinanzi al viso de l’uditore lo rettorico parla, appare da sera, cio è retro, quando da lettera, per la parte remota, si parla per lo rettorico. IL PRINCIPE FRA LE MUSE E LE ARTI 11 Accanto alla Retorica personificata, potremmo nominare anche la figura femminile all’estrema destra quando, leggendo come un cartiglio i rametti fioriti posti sulla sua bocca e applicando la formula tradizionale «nomina sunt consequentia rerum», riconosceremo la res da cui dipende la vis verbi, cioè l’etimologia : Flora dunque segnata dai fiori del suo nome. Possiamo quindi ricordare come Botticelli abbia molto amato sottolineare la corrispondenza fra parola e immagine, secondo un gusto prezioso entro cui si collocano molti prodotti dell’arte medioevale. Così si applicò alla pala Bardi, costringendo il Vasari ad giudicarla perché: «è con diligenza lavorata e a buon fine condotta». Lì il pittore volle uno sfondo arboreo illustrato «con sommo amore» (Vasari) dai minuti cartigli, che dichiarano le affinità fra i vegetali e gli attributi della Sapienza «oliva ispeziosa, lilium inter spinas, cedrus in Libano, palma in Cades» esaltata dall’Ecclesiastico. Bisogna considerare quanto queste coincidenze appartengano ad una memoria scolastica, dove furono utilizzate per celebrare la retorica. Secondo una fama soprattutto sostenuta da Ovidio, Flora è associabile a Zefiro: la figura maschile collocata all’estremità della composizione. Il raggio di luce che fisicamente congiunge i due personaggi ci obbliga subito a ricordare la sua particolare natura di divinità preposta alla germinazione, come spiega Boccaccio: «Zephyrum autem subsequenter ab occiduo flantem dicit, eo sic appellatum quod flores et gramina eius vivificetur spiritu, atque eundem vocari Favonium latine, quod his faveat que nascuntur». Zefiro-Favonio, occupa, nelle gerarchie celesti, un ruolo intermedio di divinità naturale; e le sue funzioni corrispondono a quelle attribuite al Genius, secondo il Mitografo III: «Genium praeterea deum esse naturalem dicit Remigius, qui omnium rerum praest generationibus». D’altra parte il personaggio, che qui esibisce un attributo distintivo degli Angeli, nella tradizione cristiana, si rivela un Genio alato, se riflettiamo sulla fondamentale equivalenza suggerita da Marziano Capella II 65, 14-18: Ideoque dicitur Genius, quoniam cum quis hominum genitus fuerit, mox eidem copulatur. Hic tutelator fidissimusque germanus animos omnium mentesque custodit, et quoniam cogitationum arcanae superae annuntiat potestati, etiam Angelus poterit nuncupari. Dovremo inoltre considerare le analogie fra angeli e venti proposte nel De Hierarchia Caelesti dello Pseudo-Dionigi, che cito nella traduzione di Ambrogio Traversari: «Ipsos etiam ventos nominari, velocitetem eorum significata, et in omnes fere absque mora pervenientem effectum». Nominati i personaggi – con l’esclusione della figura femminile centrale manifestamente protagonista del quadro ed esaltata, come la Vergine della Pala Bardi, dalle piante piegate ad arco – è ancora necessario lasciarsi guidare da una metafora, quando vogliamo classificare il terreno, certo amenissimo, fuori dal tempo – poiché irrealisticamente vi vegetano fiori e frutti – e in uno spazio pressoché privo di prospettiva. Se le acque, forse evocate all’orizzonte, sono 12 VALERIA COTZA troppo lontane per poterlo dire locus amoenus, seguendo le tradizionali descrizioni, citeremo volentieri il “verziere”, attratti dalla suggestione dannunziana della Chimera; o meglio, per richiamare altri due sinonimi del cronologicamente affine Polifilo 2-290: «uno eximio pomerio overo delizioso viridario»; e quindi daremo il nome di “pomerio” a questo boschetto, fecondo produttore di pomi (arance? mele cotogne?) allusivi ai mitici frutti delle Esperidi. Nominando “pomerio” il luogo dell’incontro fra le divinità, entriamo in un altro produttivo campo semantico, dove sono cresciute metafore di lunga fortuna anche nella letteratura volgare, sedimentate nella memoria profonda di ciascuno: come dichiara la selezione di esempi estraibile da qualsiasi dizionario italiano. Peraltro, nella letteratura mediolatina, raccoglieremo l’immagine più pertinente nel Pomerium rethorice, il manuale di Bichilino da Spello (sec. XIII ex.), che ovviamente lo adornò di fiori, esaltandone la prodigiosa moltiplicazione: «in hac nove composicionis forma flores intexui varios, qui, licet numero pauci, satis tamen multiplicabuntur habunde inter manus providi». Riconosciuti otto personaggi adunati nel pomerio di un’arte, è poi necessario dare un senso ai loro gesti, interrogandosi sull’eventuale luogo letterario – il libro così felicemente risolto nel prodigioso frutteto – in cui Mercurio, le tre Grazie, Cupido, Retorica, Flora e un dio naturale preposto alla vegetazione, fecero corona all’ignota al centro della composizione. Quindi la summa di tutte le Artes, la raccolta enciclopedica di Marziano Capella, ci conferma come tutti i personaggi appena nominati si adunassero come testimoni della cerimonia in cui Mercurio, dopo meditata ricerca, consigliato da Apollo, si unì a Philologia, assunta fra gli Dei. Dunque la sposa dovrebbe essere l’innominata, collocata in posizione arretrata ma centro della composizione e indiscussa protagonista di una situazione nuziale, significata da Amore pronubo e probabilmente dalla profusione dei frutti, se alcuni sono, come mi pare, mele cotogne. Il De nuptiiis ci fornisce anche le ragioni di gesti e atteggiamenti fissati nella visione quando, guidati dal testo di Marziano, riprendiamo la lettura da sinistra a destra. Costretti, dalla verga di Mercurio, a volgere lo sguardo verso l’alto, oltre le nubi trapassate dalla luce, dovremo ricordare che il dio non è soltanto il protettore di commerci, viaggi o inganni ma è anche un pianeta; nel De nuptiis, in particolare, uno dei satelliti del sole, perno della sua speciale rotazione, secondo la teoria geoeliocentrica di Eraclide Pontico esposta, in fabula, nell’allegorico racconto di Marziano: che pure segnala la presenza della bruma. I commentatori, insegnando a districarsi nelle ambiguità del testo, fra i diversi significati del dio, sviluppano nei dettagli il problema del rapporto con il Sole e la questione fisica delle nuvole, frapposte fra il pianeta freddo e il sole caldo. Cito da un esteso commento berlinese del sec. XII, ancora trascritto nel 1483: «Nota quod, cum Mercurius frigidus sit et humidus, semper solem sequitur, ut ab eius humore solis calor sumat alimentum, ex qua attractione contingit nebularum quarundam interpositio». La stessa verga ha un significato assai particolare, quando sia usata da Mercurio astro, come ben dice l’antico Re- LE ALLEGORIE OVIDIANE DI GIOVANNI DEL VIRGILIO 13 migio d’Auxerre (sec. IX-X) in I 9, 11, impegnandosi a spiegarne il moto, diverso da quello degli altri pianeti perché avviene recto tramite: Volatilem virgam] Caduceum dicit. Est autem virga serpentibus innexa, et dicitur Caduceus eo quod cadere faciat litesà. Virgam autem dicitur habere Mercurius quia sermo facundiae recto rationis tramite et promptissimo pronuntiatus officio procedere debet; vel quia sidus Mercurii non sicut quaedam planetae per anfractus absidum incedit quando cum sole est, sed recto fertur tramite octo tantum partes latitudinis zodiaci transigens. La dettagliata spiegazione è ripresa, con varianti, nel sec. XII: «Virga Mercurii, prout planeta dicitur, est rectitudo cursus eius. Nullus enim planeta preter solem in pauciores partes latitudinis zodiaci cursum obliquat quam iste». Le nubi e la verga levata verso l’alto, rivelando che qui Mercurio deve essere identificato con l’astro satellite del sole, permettono di comprendere le ragioni dello strano atteggiamento; e l’enigmatica positura, che gli impedisce di guardare la sposa, si spiega ricordando la fondamentale e notissima informazione sul suo moto “retrogrado” – al pari di quello venusiano –; così ci insegna Remigio di Auxerre: «Mercurius namque aliquando cum sole graditur, aliquando ante solem, aliquando fixus radiis solaribus stationarius, vel retrogradus efficitur». E l’anonimo (Guillaume de Conches?) dell’importante manoscritto ora Firenze, Bibl. Naz. Conv. Sopp. I. J. 28, f. 55v: «Nota quod Mercurius dicitur stationarius, retrogradus vel precessivus». Perciò l’aggettivo “retrogrado”, pure distintivo di esseri animati che camminano all’indietro, fornisce le ragioni della torsione, altrimenti inspiegabile, e del movimento, già paragonato a quella di un uomo, con braccio levato, forse attaccato ad una fune, proposto in un disegno conservato agli Uffizi. Botticelli sembra qui costretto ad adottare la sola soluzione iconografica possibile per comunicare al “lettore”, con la natura del personaggio, il legame e la posizione del pianeta nei confronti del sole; e di conseguenza anche il tempo dell’episodio. Ricordando dunque come il periodo in cui Mercurio decide il suo matrimonio sia quello della primavera, quando sua madre Maia si trova nella costellazione del Toro, vale la pena di ripensare tutta la vicenda narrata nel De nuptiis. Infatti il satellite, desideroso di convolare a giuste nozze, si reca, nel primo libro, presso il suo punto di riferimento, Apollo-Sole, per interrogarlo sulle possibili scelte: escluse, per manifesta impossibilità, Sofia – desiderosa come Minerva di restare vergine –, Psiche, ormai legata a Cupido, e Mantica, vicina ad Apollo, la scelta cadrà, giustamente, su Philologia. Immediatamente dopo l’annuncio e la presentazione da parte di Apollo, Mercurio, «acceptis Apollinis fatibus», invertendo il suo moto, si recherà con l’astro, che ora lo segue, da Giove: et licet hic cursor Apollinei plerumque axis celeritate vincatur ac remorata statione consistens captetur demumque festinet praevertere, tamen dum consequitur, ita libratus antevenit, ut cessim plerumque recursitans gaudeat occupari (I 18, 16) 14 CLAUDIA VILLA - FRANCESCO LO MONACO Il testo è pianamente glossato da Remigio di Auxerre: «Cum est videlicet retrogradus, gaudeat occupari id est praecedi a sole». Nella tavola di Botticelli, la verga di Mercurio introduce, oltre le nubi, il responso di Apollo-Sole: poiché la luce scende a rivelare, dietro le spalle del dio, che non ha ancora mutato il suo corso, una piccola processione; e quindi illumina, al centro, la promessa sposa Philologia accompagnata, come esplicitamente ci insegna Marziano, dalle Grazie e da Flora; poi evocate all’inizio del libro IX: «Flora decens trina anxia cum Charite est» e delegate, – lo ricorda Remigio di Auxerre –, alle nozze perchè: «conciliant nuptias et omnem amorem». Anche il Genio appare figura importantissima in questa allegoria in quanto «deus naturalis qui omnium rerum generationis praeest», secondo la spiegazione di Remigio in I 28, 12; e naturalmente sottolineeremo, nel prato, il significato simbolico dei fiori «studium sapientiae», per il filosofo Giovanni Scoto: «Filologia igitur dum flores carpebat aspexit Mercurium quia studium sapientiae et amor inprimis sic sunt quasi flores». Identificata nella figura centrale la Philologia – mai consegnata a precisi e vulgati usi iconografici – dovremo ancora ricorrere al De nuptiis per spiegare minimi particolari e riconoscerne gli attributi avvertendo come, in mancanza di una consolidata tradizione visiva, sembri ragionevole supporre che gli elementi significativi siano stati estratti proprio da Marziano Capella. Nel virginale pallore della giovane sposa, in I 23, 15 è richiamato il pallore di filologi, filosofi e poeti che, tradizionalmente, vegliano di notte: «Et pallorem perennium lucubrationem] id est assiduarum vigiliarum. Nimiae autem vigiliae solent adducere pallorem, unde et philosophos vel poetas pallidos et macilentos depictos videmus propter crebras vigilias» e nei lievi sandali, indossati dalla sola fanciulla mentre le accompagnatrici sono scalze, potremo riconoscere i calzari matrimoniali di Marziano II 48, 16, glossati scrupolosamente da Remigio: Per calceos ex papyro immortalitas significatur, quia papyrus semper viret, et ne umquam siccetur in aquis radicem figità Calcei non ex corio sed ex papyro fuerunt quia caelum ascensura nihil morticinum secum ferre debebat. Finalmente, ricercando fra i capelli la presenza dei redimicula, gli ornamenti nuziali intrecciati da Flora, spiegheremo meglio il particolare del ferma-velo avviluppato di nastri, fra i quali è ben visibile quello rosso: «Redimicula trina id est coronulas vel ornacula, id est tria fila varii coloris, id est rubri, purpurei, iacintini, quibus capita nuptarum in modum coronae nectebantur». Aggiungeremo che Marziano (I 6, 13-16) precisa i particolari dell’abbigliamento di Mercurio, il corto mantello che lo lascia seminudo, suscitando il riso di Venere: «ac iam pubentes genae seminudum eum incedere chlamidaque indutum parva invelatum cetera humerorum cacumen obnubere sine magno risu Cypridis non sinebant». Se Flora, le Grazie e Amore bendato certificano una situazione nuziale, potremo osservare che le tre Cariti non coinvolgono lo spettatore, assorte nella loro danza: con una variante nella tipologia ampiamente illustrata in IL PRINCIPE FRA LE MUSE E LE ARTI 15 sede letteraria, secondo la tradizione che da Servio arriva a Remigio di Auxerre, ancora aggiornato sulla loro iconografia: Gratiae tres sunt, quae et Carite dicuntur, unius nominis et unius pulchritudinis. Quae pinguntur nudae quia gratia non debet esse simulata et ficta, sed pura et sincera. Pinguntur etiam una nobis aversa et duae nos respicientes, quia gratia simpla a nobis profecta dupla solet reverti. È più affine all’immagine botticelliana una glossa del raro commento di Bernardo Silvestre a Marziano: «Figura Gratiarum duplex est. Tres quidem eas legimus esse que nude pinguntur, connexe adinvicem, una aversa, due terciam respincientes». Per una diversa tradizione è invece inevitabile citare Pico che, nel commento alla canzone di Girolamo Benivieni le descrive con Venere: una delle Grazie è dipinta col volto inverso noi come procedente e non ritornante; le altre dua perchè appartengono allo intelletto e alla volontà, la operazione delle quali è reflessiva, però sono dipinte col volto in là, come chi ritorna, imperoché‚ le cose sono dette venire a noi dalli Iddii e da noi alli Idii ritornare. La lettura dei personaggi permette di riconoscere la fonte del dipinto: che dunque si presenta come una interpretazione delle nozze di Mercurio e della Filologia. Però, parafrasando il celebre detto di Warburg: «il buon Dio si cela nei particolari», dovremo poi aggiungere che questo buon Dio non si cela in tutti e spesso è in quelli che non ci sono. Nel testo di Marziano fu infatti operata un rigorosa selezione, scegliendo soltanto alcuni personaggi per radunarli insieme nel prodigioso giardino. In questo pomerio dell’arte sono adunate, con le personificazioni di Retorica e Filologia, le figure dell’ermeneutica (o dell’eloquenza) (Mercurio), della Poesia (Apollo-Sole), di un Genio, richiamato dalla musa Euterpe nella sua Laus Philologiae (I 54, 4-20): virgo perite, praevia sortis, quae potuisti, scandere caelum, sacraque castis, dogmate ferre, noscere semet, quis valuere, quisque videntes, lumine claro, numina fati, et Geniorum, cernere vultus, quaeque Platonis, Pythagoraeque, esse dedisti, sidera mentes. 16 CLAUDIA VILLA - FRANCESCO LO MONACO Il “Genio” appartiene ad una schiera di divinità periture (II 69, 11-13): «Hi omnes post prolixum aevum moriuntur ut homines, sed tamen et praesciendi et incursandi et nocendi habent praesentissimam potestatem», che possono agire, secondo Remigio, come il personaggio qui dipinto: «Incursandi] id est irruendi et impetum faciendi contra homines», imponendosi con la violenza di un divino furore. Così, fra le molte riflessioni sul furore poetico proposte dalla cultura neoplatonica fiorentina, dovremo scegliere, per la forza dell’immagine, un testo certo noto a Botticelli, quell’orazione pronunciata da Cristoforo Landino, quando assunse l’incarico di commentare la Comedìa dantesca; dove furore è la forza dell’anima umana tesa verso il cielo, secondo un’idea di ascendenza neoplatonica: Inebriati addunque da’ mortali desideri e dalla contagione de’ moribundi membri al tutto infetti e agravati, non prima possono all’antica loro patria ritornare che due ali, colle quali levati a volo in su si riconduchino, ripiglino. Per due ali due specie di filosofia inteseno e’ Platonici, attiva nelle morali, contemplativa nelle intellettive virtù. Ritorno addunque all’animo e dico che in questa ricuperazione delle due ale, cioé per le morali <e> intellettive virtù, in forma dal corpo s’astrae e quasi si separa, che per forza di quelle inverso el cielo s’inalza e quasi col suo primo motore si ricongiungne: la quale astrazione dal divino filosofo nel Fedro è chiamata furore. Finalmente le Grazie e Flora significano l’Armonia cosmica, di cui preconizzano l’avvento quando, nel libro IX di Marziano, danno avvio alle nozze da compiersi nel suo segno. Allora questa scena di annuncio celebra veramente, nel pomerio della sapienza o dell’arte, uno straordinario incontro, dove i rappresentanti di alcune discipline appaiono convocati in una assemblea capace di formulare il manifesto di una nuova poetica, totalmente ridisegnata nel suo rapporto con la classicità. In una esplosione di metafore, Botticelli si impegna a tradurre, dalla lingua della letteratura a quella della pittura, una idea di poesia coerente a propositi espressi dalla cultura fiorentina in quegli estremi decenni del Quattrocento. Protagonista dichiarata vi appare Philologia: nel suo più autentico significato di amore per il logos e per la verità. Pomerium e flores si legano in una possibile chiave di lettura; mentre l’uso di ingredienti metaforici, insomma dozzinali, impone di considerare le qualità stilistiche altissime di chi, riscrivendo una tradizione iconografica, la stravolse fino a cancellarla nei preziosismi di una callida iunctura, messaggera di un novum verbum secondo il più classico degli insegnamenti oraziani, valido per i pittori e per i poeti: «In verbis etiam tenuis cautusque serendis dixeris egregie, / notum si callida verbum reddiderit iunctura novum». La tavola degli Uffizi, ornamento per la casa privata di Lorenzo di Pierfrancesco, in via Larga, pur appartenendo ad un filone antico di decorazione domestica, genialmente rivisita un soggetto tradizionale, proponendo un totale rinnovamento stilistico e di contenuto. D’altra parte il cerebrale, raffinatissimo Botticelli – che secondo la testimonianza di Vasari: «nè si contentava di scuola alcuna, di leggere, di scrivere o di IL PRINCIPE FRA LE MUSE E LE ARTI 17 abbaco» – si impone, in quegli anni, come acuto illustratore di testi letterari: se, in occasione delle nozze di Giannozzo di Antonio Pucci, preparò, per Lorenzo il Magnifico, le tavole con la visione di Nastagio degli Onesti, argomento di una novella di Boccaccio; e soprattutto, dimostrando una decisa propensione per una letteratura di “visioni” si applicò poi a quella sua contemplazione della Commedia di cui dice Vasari: «dove per essere persona sofistica comentò una parte di Dante, e figurò lo Inferno e lo mise in stampa, dietro al quale consumò molto tempo», con le tavole oggi disperse fra il Vaticano e Berlino. Mentre la prima edizione fiorentina della Divina Commedia uscita nel 1481 con il commento del Landino – che vi esplora le idee di Poesia e di Furore – fu illustrata con stampe da disegni botticelliani preparate da Baccio Baldini, anche Lorenzo di Pierfrancesco ebbe, secondo l’anonimo Magliabechiano, un privato codice dantesco, splendidamente miniato dal suo prediletto pittore. Però l’assortimento dei personaggi, e dunque tutta l’allegoria, costringe ad una ulteriore riflessione: perché scegliendo di rappresentare la sola arte Retorica, accompagnata dalla figure simboliche appena indicate (Eloquenza o Ermenutica, Filologia, Genio o Ispirazione poetica, riunite nel segno di Armonia), si altera il programma tradizionale delle arti, completamente riorientato nel segno di un’idea di Filologia: certo coerente con lo straordinario elogio pronunciato da Apollo, conscio del privilegiato rapporto di questa con le Muse e con la poesia, oltre la morte e le coercizioni del potere (I 16, 6): «est igitur prisci generis doctissima virgo conscia Parnaso, cui fulgent sidera coetu, cui nec Tartareos claustra occultare recessus, nec Iovis arbitrium rutilantia fulmina possunt». Negli anni in cui gli intellettuali fiorentini proposero una nuova classificazione delle arti liberali e una diversa gerarchia delle scienze umane, riflettendo sulla poesia e sul furore poetico, l’esaltazione di Filologia, nelle tavola di Botticelli, ne indica l’importanza per l’educazione del Medici al quale la composizione era destinata; mentre il tema delle Nozze divine, da tempo impiegato in arazzi e tappeti, come decorazione domestica e civile, sarà immediatamente riproposto a Francesco I re di Francia: per ricordare all’uomo di potere che eloquenza e retorica sono sterili senza l’unione con Filologia, amore e ricerca del Logos. È possibile che il circolo di intellettuali intorno a Lorenzo di Pierfrancesco abbia utilizzato il testo di dottrina neoplatonica di Marziano, certamente impiegato anche da Angelo Poliziano, che del giovane Lorenzo fu precettore e insegnante, anche per sottolineare l’importanza della Filologia nell’educazione del principe, secondo un progetto di grande rilievo culturale del quale occorre ancora riconoscere molte tappe. Così questa tavola diventa il manifesto dello strappo nella tradizionale gerarchia delle arti liberali e il segno della rifondazione di un canone più avanzato, proprio negli stessi anni in cui la splendida filologia di Poliziano si impone al centro del quadro culturale. Allora il giovane docente dello Studio fiorentino, inaugurò la serie di corsi in cui esordì accostando un manuale di retorica ad un testo poetico e, segnando l’inizio di una “nuova filologia”, lesse, nel 1480- CLAUDIA VILLA 18 - FRANCESCO LO MONACO 81, Quintiliano, Institutio con Stazio, Selve e, l’anno successivo, la pseudociceroniana Retorica ad Herennium con Ovidio, Fasti ed Epistola di Saffo a Faone. Lorenzo di Pierfrancesco (1458-1503), iscritto allo studio negli ultimi anni Settanta e privatamente discepolo dell’erudito Giorgio Antonio Vespucci, partecipò di queste novità se da Poliziano stesso ebbe in dedica la Selva Manto, prolusione al corso 1483-84, consacrato al Virgilio bucolico; e fu destinatario di un epigramma che vale la pena di citare perché i fiori della primavera evocano la varietà dei carmi di Michele Marullo: Nec tota prata coloribus novum ver Pingit, lassula cum riversa hirundo, quam carmen varium tui Marulli est. Quindi, nella Firenze dei Medici, intenta a chiedersi «che cosa sia poesia, et poeta», fra la critica dantesca di Cristoforo Landino e l’innovatrice filologia del Poliziano, nutrito insieme di poesia e di erudizione, si giustifica la volontà di celebrare una disciplina già esaltata dal neoplatonico Marziano per la sua capacità di comprensione dei fatti poetici, secondo la formula «conscia Parnaso».17 Rigerarchizzazione delle Arti ma anche sottile richiamo per il giovane rappresentante della dinastia medicea. Il quadro posto sopra il lettuccio non suggerisce al principe il corteggio delle Muse o l’esaltazione della sola poesia: all’uomo che avrebbe potuto farsi interprete di un progetto politico, sono proposti altri valori in una composizione in cui all’eloquenza (Mercurio) e alla Retorica si congiunge la Filologia, cioè la scienza che permette all’uomo di governo di riconoscere, oltre le parole, il senso più profondo del logos, dunque del Vero. 3. IL PRINCIPE E LA FILOLOGIA Se la Primavera rappresenta un programma per lo studiolo di Lorenzo di Pierfrancesco, potremmo domandarci se la sostituzione delle Muse con la filologia non sia rimasta senza esito presso gli intellettuali che dalla Firenze della grande stagione medicea continuavano a trarre ispirazione, quando ormai le lancette delle bussole politiche puntavano altrove, trasferendosi oltralpe. In tal senso, considerando il transito generazionale che sostituisce le Muse con i diversi corteggi delle Arti liberali, sembra importante ricuperare ulteriori sollecitazioni alla filologia proposte ad uomini di governo. Così possiamo fornire uno splendido esempio di una lunga meditazione sulla necessità pedagogica di una filologia per il principe, tradotto nel progetto iconografico di un intellettuale che con l’ultima stagione medicea ebbero cer17. I testi citati sono più analiticamente illustrati in VILLA, Per una lettura, cit., pp. 8-22. IL PRINCIPE FRA LE MUSE E LE ARTI 19 tamente contatti. Con il suo viaggio fiorentino e l’incursione nelle carte di Poliziano, qui illustrato da Francesco Lo Monaco, Guillaume Budé ci obbliga a riflettere su una breve, felice stagione nella quale gli intellettuali furono chiamati a glorificare, con nuove speranze, una potenza vittoriosa. La nuova fase può ben aprirsi, ne1 settembre 1515 con la folgorante battaglia di Marignano, dalla quale il ventunenne Francesco I uscì vittorioso aprendo un periodo di esaltazione di una giovane monarchia “cesarea”.18 Quindi nel 1519, nel momento in cui il giovane Valois concorreva per la corona imperiale che, complice il denaro dei Fugger, sarebbe andata a Carlo V, l’anziano Guillame Budé, che aveva già servito suo padre Luigi XII, ritenne di dover intervenire. Preparò allora un’opera che, senza titolo, comparve a stampa molto più tardi, nel 1547, l’anno della morte del sovrano. Si tratta di una raccolta di apoftegmi in francese, costruiti per ispirare al giovane re le virtù: ed è l’inizio di un dialogo insieme intimo e pubblico che Budé inizia con il sovrano,19 aperto nel segno della Filologia. Il manoscritto della Bibliothèque de l’Arsenal 5103 res. rappresenta l’importante copia di dedica20 dove una miniatura iniziale21 testimonia esplicitamente il collegamento fra le nozze di Mercurio e della Filologia e l’educazione del principe. Infatti, nella pagina partita in due scene, Filologia compare ben due volte; in alto, con Mercurio in benevola contemplazione, assiste lo scrittore nel suo studio, sfogliando i suoi libri; in basso lo accompagna, lei sola, per consegnare al sovrano il suo libro. Oltre la qualità e lo stile della miniatura, oltre le vesti dei personaggi, bisognerà sottolineare come il programma apertamente dichiari la necessità dell’unione fra principe rinascimentale e la dama che, unica, può affiancarlo nella difficile arte del governo: secondo un’idea che Budé raccolse, assai verosimilmente nella sua stagione fiorentina. 18. Per le committenze di manoscritti miniati con temi “cesarei” vale la pena di ricordare l’attuale sforzo della Bibliothèque Nationale di Parigi per l’acquisto di un manoscritto voluto da Francesco I: Description des douze Césars avec leurs figures, realizzato a Tours nel 1520 da Jean Bourdichon. 19. J.-F.MAILLARD, Philologie et propagande: le mythe de Guillaume Budé, in La Philologie humaniste et ses representartion dans la theorie et dans la fiction, ed. P. GALAND-HALLAYN, F. HALLAYN, G. TOURNOY, Droz, Genéve 2005, pp. 201-212. Una accurata analisi in H. PARENTY, Isaac Casaubon helléniste, Droz, Geneve 2009, pp. 270-302. 20. Il testo è stato pubblicato in G.BUDÉ, Institution du prince, ed. C. BONTEMS, in Le prince dans la France des XVIe et XVIIe siècles, Paris 1975, pp. 77-139. Una ampia analisi in S. MURPHY, The Gift of Immortality: Myths of Power and Humanistic Poetic, Ferleigh Univ. Press 1997, pp. 191-240. 21. La miniatura è stata riprodotta per il manifesto del convegno Pratiques latines de la dédicace: permanences et mutations, de l’Antiquité à la Renaissance, 12-14 dèc. 2011, Paris, Université de Paris-Sorbonne, (pubb. da Garnier nel 2014) traendola da Paris capitale des livres. Le monde des livres et de la presse a Paris, du Moyen Age au XXe siècle, dir. F. BARBIER, Paris 2007, p. 104. 20 CLAUDIA VILLA BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE - FRANCESCO LO MONACO Dalla sterminata bibliografia su Botticelli mi limito a citare: A. WARBURG, La rinascita del paganesimo antico, a cura di G. BING, trad. di E. CANTIMORI, Firenze, la Nuova Italia, 1996; E.H. GOMBRICH, Immagini simboliche. Studi sull’arte del Rinascimento, trad. italiana di R. FEDERICI, Torino, Einaudi, 1978; R. LIGHTBOWN, Botticelli, Milano, 1978; M. LEVI D’ANCONA, Nuova interpretazione della “Primavera” e della “Nascita di Venere”, Firenze, L. Olschki, 1992; CH. DEMPSEY, The Portrayal of Love. Botticelli’s Primavera and Humanist Culture at the Time of Lorenzo the Magnificent, Princeton 1992; H. BREDEKAMP, Botticelli. La Primavera, Bologna, F. Panini, 1996; C. LA MALFA, Firenze e l’allegoria dell’eloquenza: una nuova interpretazione della Primavera di Botticelli, in «Storia dell’arte», 97 (1999), pp. 249-293; G. REALE, Botticelli, La “Primavera”, Rimini, Idea libri, 2001; C. ACIDINI LUCHINAT, Botticelli. Allegorie mitologiche, Milano, Electa 2001. FRANCESCO LO MONACO, Prologhi italiani per Guillaume Budé Quarto rampollo di una famiglia di dignitari della cancelleria e della tesoreria reale (sotto Carlo VII e Luigi XI), ed egli stesso destinato a una carriera amministrativa – come sembravano predire gli studi legali, fattigli intraprendere dal padre a Orléans (probabilmente) negli anni ’80 del primo dei due secoli in cui visse –, Guillaume Budé mostrò assai presto scarso interesse per quel tipo di formazione, tant’è che intorno ai diciott’anni «domum revocatus, cum aliis quibus adolescentia capitur voluptatibus, tum venationi atque aucupio praecipue indulsit».22 Non è forse dunque casuale parallelismo se un ringraziamento a Thomas More per il dono di un par canum Britannicorum (accompagnati, è pur vero, da un par […] epistolarum) apre la prima lettera indirizzata da Budé a More stesso, ricca di spunti autobiografici, del settembre 1518,23 nella quale Guillaume parla del suo secondo matrimonio, quello con la Filologia (senza tacere, è pur vero, del primo e quindi della coniux legitima, che tuttavia vedeva nella Filologia la propria pelex), che egli pone all’inizio degli anni ’90 del Quattrocento,24 avvenimento di cui, poco più di un anno prima, il Budé aveva fatto am22. Per la biografia del Budé rimane ancora fondamentale il volume di un allievo di Pierre de Nolhac (che ne è anche il dedicatario) L. DELARUELLE, Guillaume Budé. Les origines, les débuts, les idées maîtresses, Champion, Paris, 1907 (pp. 58-68 per famiglia e giovinezza). Sistema alcuni dati e integra qualcosa D.O. MCNEIL, Guillaume Budé and Humanism in the Reign of Francis I, Droz, Genève, 1972 (pp. 3-15 per the young Budé; a p. 6 nota 16 la citazione della Vita di Budé scritta, nel 1540, da Louis Le Roy, qui ripresa a testo). 23. Trasmissione e presentazione dei contenuti delle singole lettere di Budé sono in L. DELARUELLE, Répertoire analytique et chronologique de la correspondance de Guillaume Budé, Privat–Cornely, Toulouse-Paris, 1907 (n. 19* pp. 39-41 per la lettera al More). 24. Utili repertoriazioni degli accenni autobiografici in cui il Budé fa riferimento al suo ritorno agli studi sono sia in DELARUELLE, Guillaume Budé, cit., pp. 58 e 67 nota 5 sia in MCNEIL, Guillaume Budé, cit., p. 6. IL PRINCIPE FRA LE MUSE E LE ARTI 21 pia trattazione, in analoga apertura di un rapporto epistolare, a un altro corrispondente inglese, già compagno di ambasceria di Thomas More nelle Fiandre nel 1515, Cuthbert Tunstall.25 Infatti è a partire dall’abbandono degli studi giovanili e dalla giovanile passione per la caccia (in realtà mai sopita, a quanto pare26), anch’essa quindi abbandonata per tornare agli studi, che Budé delinea a Tunstall il proprio studiorum curriculum: Dixeram me au|tomaqh% te kaì o\yiasqh% fuisse, et non modo praeceptore nullo, sed etiam sero literis bonis studuisse. Nunc eo amplius dico literarum me rudimenta et grammatices principia, ut tum ferebant mores simplicitatis nunc obsoletae, in hac urbe [sc. a Parigi] didicisse triviali sub magistro ludi literarii, cumque hiscere Latine vix coepissem, ad iuris studium transivisse, ut assolet, aut transiluisse potius, dispendioso utique temporis compendio. In quo studio cum triennii operam lusissem, domum reversus, salutem dixi literis, studiis utique indulgens iuventutis illitteratae, aut emeritae [emeritam st.] certe et iam exauctoratae. Quoad post aliquot annos intra paternos parietes clam studere mecum ipse institui, procul omnibus conventiculis huius urbis scholasticorum, excitante me tantum patris exemplo doctrinae laudatoris, ut erat hominis ingenium et librorum emacissimi. Ibi a deterrimo quoque (ut fit) auctore auspicatus, cum glossematum fecem per imprudentiam hausissem, avidissime errore tandem intellecto, cum ad libros meliores me contulissem, paulatim redundantem illam praecrordiis fecem reieci, tametsi obhaeserat e”nnepe nu%n moi Mou%sa. Ecce autem aliud incommodum, quum accipitrariis et venatoribus salute semel dicta, annos abhinc sex et viginti, libris (ut dixi) non magistris aliquo cum successu operam dare coepissem, statim Graecum quendam nactus sum senem, aut ille me potius (illi enim vectigal magnum attuli), qui literas Graecas hactenus aut paulo plus noverat quatenus sermoni literato cum vernaculo convenit. Hic quibus me modis torserit, mox dediscenda docendo (nisi quod et legere optime mihi et pronunciare videbatur e more literatorum), non bene tribus chartis scriberem, cum interim ipse ut unum eum esse Graecum in Francia audiebam; sic esse doctissimum Graece existimarem et ille ostentans mihi Homerum aliosque auctores insignoreis, nuncupans e\xonomaklhédhn o\nomaézwn a$ndra e$kaston flagrare me studio insano intelligeret. Accedebat illud erroris quod quae erat in eo ignorantia, ego ludificationem esse putabam, quo diutius ille me stipendiarium ac pene […] prae aviditate heberet. Tandem literis apud nostros quoque paucis illustratis Italiae commercio 25. Per la lettera al Tunstall cfr. DELARUELLE, Répertoire, cit., n. 9* pp. 20-22: qui viene citata sulla base dell’editio princeps di Josse Bade, del 1531 (cfr. DELARUELLE, Répertoire, cit., p. XIX), ff. CXIIv-CXVIIr (l’ampio excerptum sotto riportato è a f. CXVIrv). Curioso notare come Budé dichiari sia che la moglie aveva ventott’anni sia che lui stesso si era dedicato nuovamente agli studi (e quindi unito alla Filologia) parimenti da ventott’anni al momento in cui scriveva: si veda la lettera a More (si cita sulla base della princeps, di Josse Bade, del 1520: cfr. DELARUELLE, Répertoire, cit., p. XVIII), ff. 11v («coniugato, et qui septimo iam filio in familia factus sim comitatior, uxore vixdum ingressa annum duodetricesimum») e 12r («Neque ego [ut opinor] usqueadeo vel pertinaciter vel constanter susceptum hoc vitae institutum annis iam ferme duodetriginta pertulissem, nisi me vis quaedam maior et fatalis ab rei factitandae cura flagrantibusque municipum meorum studiis ad litteraria studia detorsisset»). 26. Un De venatione costituisce un’ampia digressione all’interno del De philologia del Budé, la quale ebbe anche una circolazione a parte, manoscritta, in traduzione francese (ad opera di Louis Le Roy): cfr. MCNEIL, Guillaume Budé, cit., p. 6 nota 17. 22 CLAUDIA VILLA - FRANCESCO LO MONACO librisque sensim utriusque linguae huc advectis, cum ego sarcire damnum contenderem aetatulae transactae per inscitiam, nec pecuniae in expetendis magno libris nec labori in ediscendis parcerem quotidianas etiam sesquioperas a me plane exigerem, omni vacatione adempta, eo primum pervenit ut dediscere instituerem quae male edoctus eram, quae mihi discendi primordia negotia […] exhibuerunt […] Nec tamen ideo velim ut omnino me expungas e numeris classicorum, ut domestica atque umbratica eruditione institutum. Posse enim sic quoque mihi videor inter iuniores centuriari, cum inter munifices profiteri coeperim nec praepropere nec infelicissime, ut vestrae amborum auctoritati libens aliorumque credo. Interim bis Romam adii urbesque insignes Italiae, doctos ibi homines non ita multos per transennam vidi potius quam audivi, et literarum meliorum professores tanquam a limine salutavi, utique quantum homini licuit Italiam raptim peragranti nec libera legatione, sed et domi nonnunquam doctorum hominum familiaritate usus sum. In quis praecipue colui Ioannem Lascarem, virum Graecum utraque lingua pereruditum, qui nunc in Urbe Graecorum scholae praefectus est a Pontifice: is, quum omnia causa mea cuperet, non magnopere iuvare me potuit, quum ageret fere in comitatu regis multis ab hac urbe milibus distractus et ego frequens in urbe, rarissime in comitatu fuerim, fecit libens id demum quod potuit, vir summa comitate praeditus ut et nonnunquam praesens mihi aliquid praelegeret, id quod vicies non contigit, absens etiam librorum scrinia concrederet et penes me deponeret. Certe tyrocinio nullo sub deductore feci. En tibi, vir humanissime, studiorum meorum curriculum, quod sub patre indulgente suppeditante facile inchoavi, haud scio quam auspicato. Se dal profilo emergono in maniera netta l’orgoglio sia per l’au\tomaéqeia, che aveva permesso di superare le angustie di un’educazione limitata alle conventiculae degli scholatstici locali, sia l’ammirazione per un padre laudator doctrinae, nonché emacissimus librorum, che era stato stimolo per la ricerca di una gloria che provenisse dagli studi (come Budé agogna esplicitamente nella lettera a More del 1518), altrettanto evidente appare come per Guillaume l’affrancamento da un’eruditio domestica et umbratica sia dovuto anche ai contatti, diretti e mediati, con la cultura italiana: attraverso libri, viaggi e incontri. Quando Budé scriveva a More per ringraziarlo del dono cinofilo, erano passati dieci anni dall’apparizione, a Parigi, presso Josse Bade, dell’editio princeps delle Annotationes in quatuor et viginti Pandectarum libros, il primo grande lavoro di impegno erudito di Guillaume, nel quale lo ius, cui Budé – come accennato – s’era accostato da giovane in studi segnati dalla tradizione dei glossatori medievali, è oggetto, attraverso una nuova analisi delle Pandectae, di un approccio rivoluzionario, impostato sulla centralità dell’indagine linguistica e antiquaria.27 Si tratta di un lavoro che potrebbe essere definito “in stile italiano”:28 27. Alle Annotationes dedicano, ovviamente, delle pagine di analisi sia DELARUELLE, Guillaume Budé, cit., pp. 93-129 (sicuramente le migliori) sia MCNEIL, Guillaume Budé, cit., pp. 15-24 (più deboli delle prime). Interessanti riflessioni in D.R. KELLY, Foundations of Modern Historical Scholarship. Language, Law, and History in the French Renaissance, Columbia University Press, New YorkLondon, 1970, pp. 54-85. 28. Circa i debiti italiani del Budé, oltre ai contributi citati nella nota precedente, si veda l’or- IL PRINCIPE FRA LE MUSE E LE ARTI 23 ispiratore ideale ne era stato, come noto e come del resto esplicitato da Budé stesso, Lorenzo Valla, e specificamente il Valla del proemio al III libro delle Elegantie,29 mentre la struttura risentiva del modello, non esplicitato invece, delle Castigationes Plinianae di Ermolao Barbaro (peraltro non poche volte citato nelle Annotationes30). A ciò si doveva probabilmente aggiungere la notizia di un’intera revisione del Digesto, progettata, in buona parte realizata ma non condotta a pubblica divulgazione, proprio in uno dei centri chiave dell’Umanesimo italiano. Se infatti il Valla – facendo eco a parole già di Cicerone31 – si era vantato di poter essere capace, in un lasso di tempo abbastanza breve, di stendere un commento ai libri delle Pandette che avrebbe cancellato le insipienti esegesi dei discendenti di Accursio,32 senza tuttavia dare seguito alla provocazione, Angelo Poliziano aveva di fatto iniziato, a Firenze, questa revisione del testo del Digesto attraverso una sistematica collazione della littera Pisana e la stesura di brevi note, prevalentemente ecdotiche, che sarebbero dovute confluire in più sistematici Commentarii, stando alla testimonianza di Aldo Manuzio consegnata alla lettera dedicatoria a Marin Sanudo dell’edizione (1498) degli Omnia opera del Poliziano.33 mai canonico A. GRAFTON, Joseph Scaliger. A Study in the History of Classical Scholarship, I. Textual Criticism and Exegesis, Clarendon Press, Oxford, 1983, pp. 72-74. Ha ripreso in parte il discorso, con la spigliatezza che gli è propria, F. RICO, Luci e ombre del Poliziano intorno al 1525, in Agnolo Poliziano. Poeta, scrittore, filologo, a cura di V. FERA e M. MARTELLI, Le Lettere, Firenze, 1998, 389-402. 29. Il Valla è un punto di riferimento costante nelle Annotationes (è da tener presente che nel 1505, presso Josse Bade, era uscita l’editio princeps delle valliane Adnotationes in Novum Testamentum, curata da Ersamo da Rotterdam, ben note al Budé: cfr. M. ROSSI, Il censimento delle edizioni a stampa delle opere di Lorenzo Valla: elenco e riferimenti bibliografici, in Pubblicare il Valla, a cura di M. REGOLIOSI, Polistampa, Firenze, 2008 [Edizione nazionale delle opere di Lorenzo Valla. Strumenti, 1], p. 1505). Per le citazioni delle Annotationes di Budé in questa sede ci si attiene all’emissione di Josse Bade del 1508: l’elogio del Valla, il riferimento al prologo al III libro delle Elegantie e la conseguente decisione del Budé di dedicarsi all’emendazione delle Pandectae è al f. VIIIrv, ov’è anche un riferimento alle prime fasi di stesura delle Adnotationes, da porre – a quanto sembra – entro il 1505. 30. Parole di ammirazione di Budé nei confronti del Barbaro sono nel De asse, opera, per altro verso, debitrice nei confronti dell’umanista veneziano: cfr. L. DELARUELLE, Quelques dates nouvelles de la vie de Guillaume Budé, in «La correspondance historique et archéologique», 12 (1905), p. 30. 31. Un riferimento al Cicerone giureconsulto è anche in Budé, Annotationes, f. IVrv, cui fanno seguito delle invettive contro i corruttori dello ius per imperizia. 32. Il proemio al III libro delle Elegantie può comodamente essere letto attraverso l’antologia curata da Eugenio Garin, Prosatori latini del Quattrocento, Ricciardi, Milano-Napoli, 1952, pp. 606613 (a pp. 609-611 il passo richiamato). Sul tema del diritto nella riflessione valliana, ottimo il contributo di G. ROSSI, Valla e il diritto: l’“Epistola contra Bartolum” e le “Elegantie”. Percorsi di ricerca e proposte interpretative, in Pubblicare il Valla, a cura di M. REGOLIOSI, Polistampa, Firenze, 2008 (Edizione nazionale delle opere di Lorenzo Valla. Strumenti, 1), pp. 507-599. 33. La testimonianza aldina, insieme alle altre utili a ricostruire i contorni di quel progetto di lavoro sul Digesto, è accuratamente repertoriata da A. PEROSA, Un commento inedito all’“Ambra” del Poliziano, Bulzoni, Roma, 1994, p. XXI nota 27. 24 CLAUDIA VILLA - FRANCESCO LO MONACO Al momento dell’apparizione, nel 1508, del suo esercizio applicativo dei modelli della più alta (e tecnica) filologia italiana in terra di Francia, Budé aveva avuto modo di perfezionare – come egli stesso ricordava nelle lettere ai corrispondenti inglesi – parte della propria formazione (Guillaume aveva oramai quarantun anni, ma aveva iniziato nuovamente a dedicarsi agli studi da diciassette) attraverso il contatto e la frequentazione con docti homines di provenienza italiana: Giano Lascaris, che l’aveva riscattato dal pessimo, nonché dispendiosissimo, discepolato presso Giorgio Hermonimos, e Giovanni Giocondo, l’homo antiquitatis peritissimus con l’aiuto del quale Budé emendavit «Vitruvium nostrum otiose aliosque nonnullos antiquos scriptores», come ricordato nelle Annotationes.34 Nella lettera a Tunstall, Budé aveva inoltre associato a un altro aspetto, vale a dire quello del commercio librario con l’Italia, l’affrancamento del proprio sviluppo culturale dalle ristrettezze locali: e in effetti, se dal semplice commercio si sposta l’attenzione alla riproposizione diretta di testi italiani da parte di editori francesi, anche limitandosi alla sola stamperia di Josse Bade, presso la quale – come accennato – videro la luce le Annotationes, nel primo quindicennio del XVI secolo vennero stampati, ad esempio, volumi valliani con le Elegantie (1501, 1505, 1509, 1510), le già ricordate Annotationes in Novum Testamentum (1505), la Dialectica (1509) e il De vero bono (1512),35 il recente Dictionarium di Ambrogio Calepio (1509), il non meno nuovo De honesta disciplina di Pietro Crinito (1510), una raccolta di Annotationes con i lavori miscellanei di Filippo Beroaldo il Vecchio, Angelo Poliziano e Marco Antonio Sabellico (1511), gli Opera omnia del Poliziano (1512) e l’ulteriore novità dei Commentarii Urbani di Raffaele Maffei (1515).36 34. Per Giano Lascaris in Francia, e i rapporti con Budé, i riferimenti utili sono in C.VECCE, Iacopo Sannazaro in Francia. Scoperte di codici all’inizio del XVI secolo, Antenore, Padova, 1988 (Medioevo e Umanesimo, 69), pp. 11-13, 23, 26-29, 48, 67-68, cui si affianchi almeno S. GENTILE, Giano Lascaris, Germain de Ganay e la “prisca theologia” in Francia, in «Rinascimento», s. II, 26 (1986), pp. 51-76. Per i contatti con Fra Giocondo da Verona basti quanto raccolto da L.A. CIAPPONI, Agli inizi dell’umanesimo francese: Fra Giocondo e Guglielmo Budé, in Forme e vicende. Per Giovanni Pozzi, a cura di O. BESOMI, G. GIANELLA et al., Padova, Antenore, 1988 (Medioevo e Umanesimo, 72), pp. 101-118 (a p. 102 la citazione dalle Annotationes qui parzialmente ripresa). 35. ROSSI, Valla e il diritto, cit., p. 233. 36. La princeps del fortunatissimo Dictionarium del Calepio data al 1502, per il quale si veda da ultimo A. CANOVA, Nuovi documenti mantovani su Ambrogio da Calepio e sulla stampa del suo “Dictionarium”, in Società, cultura, luoghi al tempo di Ambrogio da Calepio, Sestante, Bergamo, 2011, pp. 355-385. Del 1508 era la princeps del De honesta disciplina di Pietro Crinito: per le utleriori vicende editoriali si veda P. CRINITO, De honesta disciplina, a cura di C. ANGELERI, Bocca, Roma, 1955 (Edizione nazionale dei classici del pensiero, ser. II 2), pp. ?. L’assemblaggio di Annotationes centum di Filippo Beroaldo il Vecchio (1488), Miscellanea del Poliziano (1489) e Annotationes veteres et recentes di Marco Antonio Sabellico (1502) compare già in un’emissione veneziana del 1508 di Giovanni Tacuino. Il contenuto degli opera omnia del Poliziano è, sostanzialmente, quello dell’aldina del 1498. Infine, la vasta enciclopedia in 38 libri dei Commentarii Urbani del Maffei era apparsa in prima edizione a Roma, presso Johann Bessicken, nel 1506. IL PRINCIPE FRA LE MUSE E LE ARTI 25 Tuttavia oltre a uomini e a libri, altro ancora aveva animato, come s’è visto, quella “vague d’Italie” diffusasi in Francia fra il cadere del XV e l’aprirsi del XVI secolo:37 i viaggi (quando possibili). Nella lettera a Tunstall, Budé ne elenca due, propalati con un certo orgoglio anche per la possibilità che essi avevano offerto di incontri con docti homines (o anche semplici audizioni): […] bis Romam adii urbesque insignes Italiae, doctos ibi homines non ita multos per transennam vidi potius quam audivi, et literarum meliorum professores tanquam a limine salutavi, utique quantum homini licuit Italiam raptim peragranti nec libera legatione, sed et domi nonnunquam doctorum hominum familiaritate usus sum. Al semplice accenno di Budé a una doppia occasione di viaggio, è stato possibile assegnare delle date (1501 e 1505), mentre maggiore incertezza rimane sulle occasioni e sulle tappe (oltre a Roma): con ogni probabilità si trattò di due ambascerie per Luigi XII, alle quali Budé dovette partecipare nella veste di secretarius regis. Della prima non si è riusciti a ricostruire gli eventuali scopi (da notare che si è nel turbolento 1501, allorquando l’alleanza tra Francia e Spagna si ruppe, dopo la conquista del Ducato di Milano e la presa di Napoli): unico dato accertato sarebbe una sosta a Venezia, città nella quale, cenando con Mainerio Accursio, Budé s’informò della sorte degli scritti inediti di Ermolao Barbaro. Della seconda si sa che aveva come scopo un’udienza presso il neoeletto pontefice, Giulio II, «pro obedientia praestanda Pape, pro more solito», al quale Budé dedicò per l’occasione una traduzione del De tranquillitate animi di Plutarco, peraltro il suo primo esperimento letterario pubblico.38 A questo secondo viaggio viene, tradizionalmente, legato un soggiorno fiorentino, 39 di notevole importanza, tra l’altro, per l’elaborazione stessa dell’opera di filologia giuridica. Trovarsi a Firenze significava infatti essere nella possibilità di entrare in contatto con il lascito, anche materiale, di carte e di appunti, del Poliziano, governato da vari (anche se non sempre legittimi e del tutto scrupolosi) eredi:40 37. Ottimo panorama d’insieme rimane quello delineato da VECCE, Iacopo Sannazaro, cit., pp. 3-34 (da lui – p. 9 – si eredita la formula per la moda italianeggiante). 38. DELARUELLE, Quelques dates, cit., pp. 30-31. Si veda inoltre la ripresa dei dati in DELARUELLE, Guillaume Budé, cit., p. 82. 39. Stando alle testimonianze in nostro possesso, non vi è certezza assoluta che il soggiorno fiorentino risalga all’ambasceria del 1505 e non a quella del 1501. Di fatto l’ascrizione della visita a Firenze alla seconda è legata prevalentemente al fatto che di essa si conosce sicuramente l’esito romano, e a una sosta a Firenze durante un iter Romanum il Budé fa riferimento esplitico nelle Annotationes (cfr. oltre p. ?); per la prima invece – come accennato – non si hanno testimonianze se non di una tappa in Italia settentrionale orientale. 40. Per le vicende delle carte (e della biblioteca privata) del Poliziano, sia permesso rinviare a F. LO MONACO, On the Prehistory of Politian’s “Miscellaneorum centuria secunda”, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 52 (1989), pp. 52-69, Aspetti e problemi della conservazione dei secondi “Miscellanea” del Poliziano, in «Rinascimento», s. II, 29 (1989), pp. 301-325, e Apografi di postillati del Poliziano: vicende e fruizioni, in Talking to the Text: Marginalia from Papyri to Print, edited by V. FERA, G. FERRAU, S. RIZZO, CISU, Messina, 2002 (Percorsi dei classici, 5), pp. 615-648. 26 CLAUDIA VILLA - FRANCESCO LO MONACO Cum aliquando apud Petrum Crinitum Florentinum essemus, hominem et comitate et doctrina singulari praeditum, cuius nunc liber De honesta disciplina aliique suavissimi in manibus habentur, inter contrectandos nonnullos eius libros in quaternionem incidimus manu Politiani scriptum, in quo annotationes pauculae erant, consulta (ut videbatur) obscuritate congestae, ut si forte interciderent a nullo legi possent – sic enim erat ingenium hominis – pleraeque tamen frigidae scrupulositatis et contemnendae. Has cum celeri lectione per Criniti facilitatem saltuatim percurrere nobis licuisset (strati enim frenatique equi ad vestibulum nos expectabant, et ille me amicitiae causa ad mansionem primam deducturus erat), unum tantum et alterum locum quae ad hoc nostrum insititutum pertinerent memoriae mandavimus […]41 Tuttavia una sosta a Firenze, per chi era interessato alla revisione del testo delle Pandectae, voleva dire anche un pellegrinaggio alla littera Pisana, vale a dire al codice tardoantico42 ritenuto archetypus della trasmissione: His Pandectis coagmentandis septem et triginta iurisconsulti symbola contulerunt, ex quorum verbis Digestorum leges, velut centones, consarcinatae sunt. Harum autem archetypos Florentiae esse putant, quae «Littera Pisana» vulgo dicitur, et nos dum Florentia iter Romam faceremus in numero legationis regiae, funalibus eas accensis non sine ambitu honoris loco vidimus.43 Dunque, come ricordato anni dopo a Tunstall, i soggiorni italiani avevano significato anche il contatto diretto, domi, con docti homines, e a Firenze, a casa del Crinito, Budé aveva potuto consultare (forse con una calma maggiore rispetto a quanto reccontato nel passo delle Annotationes, in cui lo scalpitare dei cavalli alla porta sembra avere una prevalente funzione narrativa) un quaternio di pugno del Poliziano con annotazioni riguardanti la collazione delle Pandectae, dal quale appuntò alcune note utili al lavoro allora in fieri.44 Nella stessa Firenze inoltre, come emerge dal secondo passo delle Annotationes poco sopra ripreso, Guillaume ebbe modo di essere ammesso alla visione, solamente da lontano tuttavia, del venerando codice delle Pandette, entrando nel Palazzo dei Priori: Nos cum essemus Florentiae Pandectas Pisanas (quas archetypos esse putant) in palatio vidimus, sed raptim et quasi per transennam (ut dicitur) praetereuntes. Has si aliquot diebus ociose nobis tractare licuisset, pauca, ut existimo, loca non intellecta reliquissemus, tametsi lectu perdifficiles, literis iam multis locis exolescentibus verbisque non interpunctis.45 41. Budé, Annotationes, ff. XLv-XLIr (condivisibile l’interpunzione del secondo inciso sic - hominis offerta da DELARUELLE, Guillaume Budé, cit., p. 104 nota 6). 42. La scheda storico-descrittiva più utile del venerando codice della Biblioteca Laurenziana rimane quella in E.A. LOWE, Codices Latini Antiquiores, III, Clarendon Press, Oxford, p. ?, n° ?. 43. Budé, Annotationes, f. Xr. 44. Il quaternio doveva consistere negli attuali fascicoli 8-17 (ff. 59-124) del Clm 755 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, per cui si veda ottimamente PEROSA, Un commento inedito, cit., pp. XX-XXIV. 45. Budé, Annotationes, f. XLr. Il riferimento al codex ricorre altrove nelle Annotationes: cfr. ff. IL PRINCIPE FRA LE MUSE E LE ARTI 27 Indubbiamente, le Annotationes di Budé sono il frutto dell’impegno assunto, condividendo i metodi e gli strumenti della nuova filologia “italiana”, «ut Pandectae emendatius atque intelligentius legerentur» e tuttavia non si limitano a questo: sono infatti anche un grande manifesto di denuncia contro i Latinitatis contemptores, insensibili agli studia humanitatis e indifferenti dinnanzi ai munera eloquentiae, valori banditi, insieme alle arti liberali, dalla Francia, dove sono «homines noctuinis oculis, qui clare in tenebris Cimmeriis auctorum suorum cernentes, splendore latinitatis et eloquentiae praestringuntur».46 Costoro «sunt qui humanitatis nomen leve atque etiam probrosum putant» e non sanno che proprio nell’humanitas sono i «rudimenta atque incunabula virtutis».47 Gli studia humanitatis hanno nella ricerca dell’eloquentia uno scopo primario, e quest’ultima è uno strumento fondmentale anche per la costruzione del vivere civile, e pertanto: Quid causae est cur non isti intemperiis acti videantur, qui orationem ratione certa contextam (unde nomen textus), qua una re maxime genus humanum brutis animantibus praestat, nihil a sermone fortuito et incondito interesse contendunt?».48 Gli studia non possono essere valutati sulla base di un mercimonium, non è possibile vocare «literarum studium (ut negotiationis) ad calculum»,49 giacché fondamento di questo è la ricerca di una libertà individuale che diviene valore per tutti. È quindi doveroso coltivare quella eloquentia: quae orbem terrarum duorum nominum gloria Demosthenis Graeci, Ciceronis Latini implevit. Quorum hodie quoque permulta ingenii monumenta circumferuntur ubique prope terrarum praeterquam in Gallia veneranda. A qua una provincia et Minerva et XLr, LXXXIXv, XCIv, CXIXv, CXXVIv, CLVIv. Non è da escludere che per la consultazione di alcuni loci critici, Budé abbia avuto modo di accedere alla collazione che della littera Pisana aveva fatto proprio il Poliziano stesso, nel 1490, (oggi Firenze, Biblioteca Mediceo Laurenziana, Plut. XCI inf. 15, 16, 17: cfr. LO MONACO, Apografi di postillati, cit., pp. 617-618 e 647-648), lavoro quindi, forse, utilizzato come medium per la consultazione al fine di preservare il cosiddetto archetypus da un maneggio divenuto troppo frequente (per il “culto” della Littera Pisana a Firenze – con implicazioni anche di natura politica – si veda M. ASCHERI, Poliziano filologo del diritto tra rinnovamento della giurisprudenza e della politica, in Agnolo Poliziano, cit., pp. 323-331). Theodor Mommsen nell’edizione da lui curata dei Digesta (Digesta Iustininani Augusti, Weidmann, Berlin, 1870) ricorda (p. XII e nota 4) come il manoscritto portato da Pisa a Firenze nel 1406, quale bottino di guerra, venne custodito, fino al 1786, «in thesauro publico» nel Palazzo della Signoria, con un apparato di pompa degno di una reliquia (ne faceva da custodia – insieme a un evangeliario – un «armarium ex ferro aurato»), per essere quindi depositato (dopo non poche traversie) alla Biblioteca Laurenziana. Un’accuratissima storia del manoscritto e della sua conservazione traccia ora D. BALDI, Il codex “Florentinus” del Digesto e il “Fondo Pandette” della Biblioteca Laurenziana (con un’appendice di documenti inediti), in «Segno e testo», 8 (2010), pp. 99-186. 46. I due passi citati sono, rispettivamente, da Annotationes, ff. VIIIv e CIIv. La lunga digressio in favore degli studia humanitatis va da f. CIv a f. CIIIIr. 47. Gli estratti sono da Annotationes, f. CIIv. 48. Annotationes, f. CIIIr. 49. Annotationes, f. CIIIIr. 28 CLAUDIA VILLA - FRANCESCO LO MONACO Musae et Mercurius atque etiam (si diis placet) Celticus ipse Hercules, Accursianorum Momo (sic enim vocant derisonis deum), non modo cedere coguntur, sed etiam cum convicio quatiuntur.50 Dalla Gallia sono stati allontanati, quasi scacciati, Minerva, le Muse e Mercurio, ma da essa sembra quasi andarsene (cosa in sé auspicabile: «si diis placet») anche l’Hercules Celticus, il dio della sancta rusticitas nel parlare, alla quale si richiamavano i detrattori degli studi liberali. Divinità curiosa – se non addirittura ridicola, ad opinione del Budé – raffigurata in un dipinto descritto da Luciano in uno dei suoi Dialoghi, che Guillaume traduce in buona parte (talvolta parafrasando) nella sezione iniziale della sua digressio sull’eloquentia:51 Hercules […] apud Celtas Ogmios lingua vernacula vocitatur. Eius autem speciem multum ab Hercule Graecorum abhorrentem monstrificamque pingunt. Senex est illis Hercules admodum confectus, inculto capite glabroque atque extrema canitie [canicie st], obrugata cute, vietus, retorridus, cuiusmodi fere maritimos artifices videmus ad ultimam senectutem perustos. Omnia denique magis eum quam Herculem esse crederes. Atque, huiusmodi cum sit, habet nihilominus Herculis cultum et gestamina. Amictus est enim leonino tergore, dextera clavam tenet, arcumque sinistra protendens, pharetram ex humero dependulam habet, ut semel dicam: Herculs est usquequaque. Hunc autem eo habitu cum vidissem, confestim arbitratus sum commentum esse illud Gallicum ludibriumque quoddam hominum Herculis Graeci divinitatem suggillare maxime volentium. Verum (id quod imprimis in ea tabula admirandum esse duxi) senex ille Hercules confertissimam quandam hominum multitudinem trahit, omneis auribus vinctos. Vincula porro illi sunt habenulae praetenues auro electroque fabrefactae, spirulis collaribus honestissimis persimiles (desmaè deé ei\s ién oi| se_rai leptaiè crusou% kaiè h\leéktrou ei\rgasameénai o$rmoiv e\oikui%ai toi%v kalliéstoiv). Atque ii tam exilibus vinculis ducti (quod mireris), ne fugam quidem circuspectare videntur, tametsi nullo prope negotio explicare se possint. Nec omnino restitantes aut in diversum renitentes resupinatosque videas, hilares etiam laetitaque perfusi sequuntur, ducentem se deum laudibus efferentes, trahenti se ultro eousque obsecundantes ut praeveniendi studio vincula etiam laxa incontentaque relinquant. Diceres eos tristes futuros si huiusmodi vinculis eximi se sentiant. Age, quod absurdissimum mihi visum est, id vero addere non verebor. Cum enim pictori reliquum iam nihil esset unde cathenularum extrema innecteret (quipper dextera quidem clava gestanda, sinstra vero arcu tenendo occupata) pertusa die lingua, alligatos eos homines ductitari ab eius summo finxit, identidem duce ridibundo ad deos se convertente. Haec ego (inquit) diutule cum considerassem, admirabundus et haesitans atque adeo indignatione plenus, ibi Gallus quidam, qui tum forte aderat, haud ignarus ille quidem rerum nostrarum, ut qui linguam Graecam exacte doctus esset, ut postea patuit Graece eo loquente, philosophiae quoque more gentis studens, quantum coniicere licet: «Tibi (inquit ad me), mi hospes, picturae huius sacramentum interpretari volo: videris enim non nihil hac de re conturbari. Nos igitur Celtae sermonem non quemadmodum vos Graeci Mercurium esse dictitamus, sed Herculi similem sermonem 50. Annotationes, f. CIIIv. 51. Annotationes, ff. CIv-CIIv. Si tratta del dialogo V (Prolaliéa. {Hpaklh%v), di cui Budé traduce (non del tutto integralmente, come detto) i §§ 1-6. IL PRINCIPE FRA LE MUSE E LE ARTI 29 affingimus, quod viribus admodum praevalere eum Mercurio credimus. Quod si senex fingitur, ne id magnopere admireris: solet enim sermo in senectute demum vim suam iustam plaenamque exhibere (toèn loégon h|mei%v oi| Keéltoi ou\c w$sper u|mei%v oi| $Ellhnev E | rmh%n oi\oémeqa ei&nai, a\ll} H | raklei% au\toèn ei\kaézomen, o$ti paraè poluè p [ arapoluè st] E | rmou% i\scuroéterov ou/tov. Ei| deè geérwn pepoiéhtai, mhè qaumaéshv: moénov gaèr o| loégov e\n ghérç filei% e\ntelh% e\pideiéknusqai thèn a\kmhén). Siquidem poetae vestri vere id autumaverunt: iuniorum hominum mentem colucrem instabilemque esse, senectutem autem scite dicere posse et commodius iuventute. Sic tibi apud Homerum ex Nestoris senis lingua profluere mel creditur et Troianorum oratores floridam ore vocem emittere dicuntur. Proinde si auribus homines ad linguam illigatos senex hic Hercules idem et sermo trahit, ne hoc quidem est cur mireris, utique qui linguae auriumque cognationem noris. Ad summam Herculem nos Celtae hominem sapientem fuisse censemus, sermone omnia perficientem, flexamina illa suada, quam vos Pitho dicitis, plaeraque eluctari pervincereque solitum.Telaque ipsius sermones fuisse interpretamur acutos, celeres, a scopo non aberrantes plerumque collimantes, animas quoque consauciantes. Vos certe ex Homero verba volucria esse dictitatis (toè d}o$lon kaiè au\toèn h|mei%v toèn H | rakleéa loég§ l[ oégw st] taè paénta h|gouémeqa e\xergaésasqai sofoèn genoémenon, kaiè piqoi% taè plei%sta biaésasqai). Nella narrazione di Luciano, il Greco che, perplesso, si trova di fronte alla raffigurazione di quest’Ercole incanutito e mostruoso trova nell’appoggio di un «Gallus quidam […] haud ignarus ille quidem rerum nostrarum, ut qui linguam Graecam exacte doctus esset» l’esegesi della tabula: «Ad summam Herculem nos Celtae hominem sapientem fuisse censemus, sermone omnia perficientem, flexamina illa suada, quam vos Pitho dicitis, plaeraque eluctari pervincereque solitum». Sostituitosi a Luciano, Guillaume non può che sbottare in un’espressione di meraviglia: «Hui, quam diu de nugis», se l’Hercules Celticus è sostituito a Mercurio poiché si ritiene che «viribus admodum praevalere eum Mercurio»?52 L’inaccettibilità della rappresentazione iconica coincide con l’inaccettabilità di princìpi culturali di riferimento per coloro i quali, attraverso la rusticitas dell’Ercole celtico, stanno a significare che simplicitatem amare se et exosculari scriptorum canonicorum […] seculariaque scripta propterea aversari quod ex iis dicendi lenocinia non etiam sentiendi argumenta comparari possint, bellissimum hoc nactos se putantes inertiae atque inscitiae patrocinium.53 In maniera implicita qui nelle “italianizzanti” Annotationes, ma più esplicitamente in seguito nel De asse (1515), nella cosiddetta Institution du Prince (1519), nonché nei successivi, e contemporanei, De studio litterarum recte et commode instituendo e De philologia (1532),54 Budé va dunque invocando la diversa centra52. Annotationes, f. CIIv 53. Annotationes, f. CIIv. 54. Sul De asse, fondamentali ancora le pagine di DELARUELLE, Guillaume Budé, cit., pp. 130198. Per lo speculum principis dedicato a Francesco I, noto, fin dal secolo XVI, con il titolo, non 30 CLAUDIA VILLA - FRANCESCO LO MONACO lità di Mercurio e delle Muse (nonché di Minerva) nella formazione culturale, non solamente in una dimensione individuale, bensì potenzialmente pubblica: la raffigurazione simbolica non sarebbe pertanto più stata quella dell’Hercules Celticus che, come sermo, «auribus homines ad linguam illigatos […] trahit », quanto piuttosto quella di Mercurio e delle Muse, o fors’anche – e meglio – della sposa di Mercurio (oltre che di Budé), Filologia, come a Guillaume aveva insegnato un auctor, da lui letto e annotato, come Marziano Capella, che avrebbero dovuto guidare l’azione non solo dei singoli, ma anche dei principes.55 Dunque, se attraverso la mediazione di Luciano, Budé, nelle Annotationes, aveva avuto come sotto gli occhi l’enigmatica tabula (ei”kwn) di un pictor (zwgraéfov) per la cui decifrazione s’era fatto innanzi un Gallus non indotto («Tibi [inquit ad me], mi hospes, picturae huius sacramentum interpretari volo»: }Egwé soi, e”fh, w& xeéne, luésw th%v grafh%v toè ai”nigma), e ne era conseguito – come s’è visto – un rifiuto sprezzante della simbologia dell’Hercules Celticus, altra doveva essere la raffigurazione che Guillaume aveva in sé della suada e dell’eloquentia, come espliciterà, in maniera fattiva, poco più di una decina di anni dopo, attraverso una propria tabula preposta alla copia di dedica per Francesco I del suo speculum principis, nella quale Filologia e Mercurio si accompagnano all’autore del trattato (e Filologia, con un cane al guinzaglio, accompagna Guillaume anche davanti al sovrano).56 La tabula del manoscritto dell’Arsenal sembra datare alla metà del 1519, ma l’inventio (sicuramente non carica di una tradizione pregressa) di Mercurio e della Filologia, l’uno posto a sinistra, l’altra a destra dell’autore scrivente, quali contraltari all’Hercules Celticus della tabula deoriginale, di Institution du Prince, si vedano, oltre al classico DELARUELLE, Guillaume Budé, cit., pp. 199-219, 228-245, C. BONTEMS et al., Le Prince dans la France des XVIe et XVIIe siècles, Presses Universitaire de France, Paris, 1965, pp. 77-139 (edizione del trattato). Il De philologia ha un’edizione e una presentazione moderne in GUILLAUME BUDÉ, Philologie, De philologia, édition, traduction et présentation par M.-M. DE LA GARANDIERE, Les Belles Lettres, Paris, 2001, così come il De studio (GUILLAUME BUDÉ, L’étude des lettres. Principes pour sa juste et bonne institution. De studio litterarum recte at commode instituendo, texte original traduit, presente et annote par M.-M. DE LA GARANDIERE, Les Belles Lettres, Paris, 1988). 55. Sfiora il tema della presenza di Marziano Capella in Budé Marie-Madeleine de La Garandiere in BUDÉ, Philologie, cit., pp. XXIV-XXV. È opportuno ricordare che si conserva un postillato del De nuptiis annotato dal Budé, l’attuale Paris, Bibliothèque nationale de France, Rès. Z 3 (Vicenza, Rigo di Ca’ Zeno [Henricus de Sancto Ursio], 1499: GW M21307, IGI 2426, ISTC ic00117000). Per il tema degli studia humanitatis come fondamento culturale del princeps in Budé si veda C. ROHWETTER, Zur Typologie des Herrschers im französischen Humanismus. Le livre de l’institution du prince von Giullaume Budé, Lang, Frankfurt a. M., Berlin, Bern etc., 2002. 56. Si tratta della miniatura che apre il manoscritto 5103 della Bibliothèque de l’Arsenal di Parigi con la cosiddetta Institution du Prince (cfr. qui nota ?): una buona riproduzione in DELARUELLE, Guillaume Budé, cit., controfrontespizio. Che il Budé possa essere stato l’ispiratore del tema della miniatura era stato suggerito già da DELARUELLE, Guillaume Budé, cit., p. 207 nota 1. La tabula non sembra ricomparire in altre copie dello speculum; anzi, almeno in un caso (Lausanne, Bibliothèque Publique et Cantonale, E 497) la raffigurazione è quella di Budé che, inginocchiato, offre il trattato a Francesco I attorniato da dignitari di corte. IL PRINCIPE FRA LE MUSE E LE ARTI 31 scritta da Luciano, oltre a poggiare – come ovvio – sul suggerimento del marzianeo De nuptiis Mercurii e Philologiae, potrebbe sedimentare ricordi più lontani, legati alla visione di altre allegorie in altre tabulae ancora, nelle quali potevano comparire le due figure connesse al valore simbolico degli studia humanitatis come fondamento di un principato (aspetto assente, invece, dalla prospettiva dell’enciclopedia di Marziano). Si ritorni, ad esempio, all’occasione della sosta fiorentina narrata nelle Annotationes, quando Guillaume ebbe modo di entrare in più di un ambiente: dalla casa privata di Pietro Crinito per sfoglire il quaternio che era stato del Polziano, alla Sala dell’Udienza del Pallazzo dei Priori a vedere, in una teca scavata nel muro,57 la littera Pisana, simbolico contraltare di potere alla vulgata della littera Bononiensis. Alcuni indizi lasciano pensare che l’ambasceria francese di cui faceva parte Budé abbia potuto alloggiare nella “Casa vecchia” dei Medici, vale a dire nel palazzo di via Larga, ove, d’altra parte, era stato ospitato anche Carlo VIII nel novembre del 1494 (un tondo con le armi del re era stato posto sopra l’ingresso del palazzo):58 Lorenzo di Pierfrancesco, “il Popolano”, il cugino di Lorenzo il Magnifico, era morto nel 1503, ma le case dovevano essere abitate da un Pierfrancesco di Lorenzo, detto “il Giovane”, politicamente meno attivo e tuttavia sempre memore dei fasti della famiglia. Nella “Casa vecchia”, in una «camara terena che è allato ala camara di Lorenzo [i.e. “il Popolano”]», si trovava «uno quadro di lignamo apicato sopra el letucio, nel quale è depinto nove figure di donne ch’omini»59, quadro che nell’inventario dei beni mobili presenti nella villa di Castello (dove il «quadro di lignamo» era stato spostato probabilmente a partire dal 1537) del 1598 sarà più eloquentemente descritto come «grande in tavola dipintovi tre dee, che ballano, e cupido sopra, e Merchurio, e altre fiure, senza adornamento»:60 Guillaume forse posò gli occhi su quella effettivamente «grande […] tavola» (203 × 314 cm), in compagnia di qualcuno che gli svelò più a fondo il sacramentum delle «altre fiure» che s’accompagnavano a Merchurio? 57. Per il “reliquiario” di custodia delle Pandette, la dislocazione e la costruzione, si veda BALcodex “Florentinus”, cit., pp. 130-133. 58. W. SHEARMAN, The Collections of the Younger Branch of the Medici, in «The Burlington Magazine», 117 (1975), p. 21. 59. Le due citazioni da SHEARMAN, The Collections, cit., p. 25. Per la documentazione e le identificazioni, si veda anche W. SMITH, On the Original Location of the Primavera, in «The Art Bulletin», 57 (1975), pp. 31-40. La posizione del quadro è la medesima dal primo inventario (1499) al terzo (1516): quindi, nel 1505, la posizione doveva essere la medesima. 60. Cfr. SHEARMAN, The Collections, cit., p. 18 e nota 34. DI, Il 32 CLAUDIA VILLA ABSTRACT DA CONSEGNARE - FRANCESCO LO MONACO