La copertina del 6 aprile della celebre rivista culturale americana, il New Yorker, racconta l’oggi che stiamo vivendo in uno dei suoi aspetti mediatici e relazionali più vividi e veri: le videochiamate. Vediamo infatti un ambiente ospedaliero – luogo altrettanto mediatizzato, al centro dei discorsi sul Coronavirus – con personale medico dotato di dispositivi di protezione, guanti e mascherine, e uno smartphone. L’illustrazione si intitola Bedtime, è realizzata da Chris Ware e racconta, portando al centro della copertina l’ospedale e uno schermo di smatphone, della distanza sociale del periodo. Lo fa con la storia di una dottoressa o infermiera che saluta i suoi bambini a casa, pronti per andare a letto, magari desiderosi di una favola della buonanotte. Da qui il gioco del titolo Bedtime: tempo di stare a letto, sia per i pazienti ospedalizzati che per i bambini in videochiamata, privati della mamma, che è costretta a dare se stessa per un lavoro delicatissimo ora più che mai, quello sanitario.

Al di là del messaggio bellissimo e forte di questa illustrazione, che come vedete attiva rivoli di senso, letture e temi di cui parlare, quello che mi interessa come dicevo è la centralità del cellulare e del suo schermo durante la videochiamata. Lo sappiamo per esperienza diretta: quanto sono aumentate le videochiamate in questo periodo di distanziamento sociale? Sono un modo per vedersi, simulare un contatto fisico che è impedito. E poi, naturalmente, se estese alle chat e alle tante app per meeting e conferenze online, sono diventate il modo attraverso il quale ci riuniamo virtualmente, una costellazione di facce e sfondi sugli schermi, veicolati dalla rete.

Vorrei ora applicare queste riflessioni all’ambito giornalistico, e lo faccio perché, da spettatrice assidua del tg La7, nell’ultimo mese mi è capitato di notare una presenza significativa di servizi in cui, per ovvi motivi di salute, sicurezza e a causa delle normative che regolano il distanziamento sociale, gli intervistati sono raggiunti in videochiamata, e lo schermo dello smartphone dell’inviato di turno viene a sua volta inquadrato dalla camera entrando a fare parte del montaggio con cui è confezionato il servizio e finendo per darci conto dei cambiamenti subiti dalla professione giornalistica in circostanze di lavoro inedite.

La teoria dell’enunciazione in semiotica

Tutto questo, in semiotica, è strettamente legato alla teoria dell’enunciazione e ai regimi che la messa in discorso produce, di volta in volta legati a effetti di oggettività o soggettività creati a diversi scopi comunicativi, per esempio maggiore o minore credibilità. Il caso del tg, va da sé, ha a che fare con un discorso che ha la pretesa di verità, di credibilità: il discorso giornalistico è per antonomasia (o dovrei usare il condizionale?!) un racconto dei fatti fedele alla loro verità. Ci chiede, insomma, fiducia, e lo fa anche con espedienti che si fondano proprio nell’enunciazione e nelle scelte discorsive che la mettono in scena.

Prendiamo per esempio il classico lancio del servizio con un inviato presente sul posto per raccontare i fatti, testimone diretto e potenziale interlocutore di protagonisti della storia in questione. La presenza diretta dell’inviato apre un regime di verità nel discorso del tg, regolato attraverso la soggettività. Noi, insomma, vediamo il giornalista, è un inviato e in quanto tale è sul posto, si rivolge al collega in studio e fornisce dettagli “freschi”, colti lì dove si trova, magari proprio durante il loro svolgimento, ma in ogni caso a stretto contatto.

Come si ottiene questo effetto? Come da prassi giornalistica consolidata in tv, il lancio del servizio dall’inviato è un tipico esempio di enunciazione enunciata, ovvero di riproduzione “inscatolata” nel discorso del telegiornale di una situazione che vede un enunciatore e un enunciatario, qualcuno cioè che – semplificando al massimo – racconta e qualcuno cui quel racconto è rivolto, ovvero l’inviato che riferisce al giornalista in studio. Siamo, così, a un secondo grado dell’enunciazione rispetto a quella numero uno, quella cioè che vede un giornalista in studio rivolgersi allo spettatore.

Riassumendo:
Livello 1: tg/spettatore
livello 2: inviato/tg

Gli effetti di cornici e scatole sono regolati da meccanismi che i semiotici definiscono di debrayage e di embrayage, ovvero di distacco dall’istanza di enunciazione e di eventuale ritorno, in base ai quali l’atto di enunciazione viene riprodotto nel testo con forme diverse, più o meno esplicite come abbiamo visto, dando luogo a effetti di discorso più o meno legati alla presenza del soggetto o al suo cammuffamento oggettivo.

Il caso del tg La7

Tg del 25 marzo, ore 7.30

Sono riuscita a isolare qualche immagine da due edizioni del tg la7, quella delle 7.30 del 25 marzo e quella delle 20.00 del 29 marzo. Si tratta in entrambi i casi di servizi che vengono mandati dallo studio, già registrati e non in diretta. Il giornalista inviato è Guy Chiappaventi, il quale ogni volta dialoga con esperti in materia, un sindaco e un medico, nello specifico, persone che non può raggiungere di persona, e che dunque sente (vede?) al telefono, in videochiamata. La particolarità dei due servizi (ma altri ne sono stati mostrati, sia del medesimo Chiappaventi sia di altri inviati durante il periodo dell’emergenza) è quella di mettere in scena un’intervista a distanza inquadrando uno schermo e mettendo quindi lo spettatore, a casa, davanti a un doppio schermo, quello della tv o di un altro mezzo, e quello dello smartphone.

Tg del 29 marzo, ore 20.00

Come si intuisce, è una sorta di cornice nella cornice, una specie di gioco di matrioske. Ma non è una scelta innocente: quello che vorrei mostrarvi è come, grazie a questa scelta di regia e montaggio, il senso che l’inviato ci restituisce è quello di notizie fresche, di prima mano, verificate. In poche parole: di un’informazione puntuale e corretta che, nell’arrivarci come tale, assolve anche al compito di mostrarci con cognizione di causa il lavoro giornalistico.

 

Partiamo dalla scelta enunciativa: l’inviato non sceglie di riportare il frutto delle sue ricerche e basta, ma mostra l’intervista, quello che sulla carta chiameremmo virgolettato. Notate niente? Sì: fa la stessa cosa che ha fatto il giornalista in studio passando la parola a lui: apre una nuova cornice enunciativa inserendo un dialogo nel suo racconto dei fatti. Siamo alla terza cornice:

livello 1: tg/spettatore
livello 2: inviato/tg
livello 3: intervistato/inviato

Tg del 25 marzo, ore 7.30

L’inviato non è solo palesemente presente nei servizi, si fa vedere e si fa cogliere dallo spettatore nell’atto stesso dell’intervista, dando così luogo a una palese enunciazione enunciata di secondo livello. Eccolo al lavoro, a debita distanza e con mascherina e microfono tenuto dall’operatore, non visibile, con un’asta, oppure, anzi, eccolo in videochiamata con l’interlocutore.

La mia attenzione è stata colpita da questo inscatolamento, che mi ha fatto riflettere sul regime discorsivo proposto dal telegiornale in quanto format di informazione, e insieme sulle oggettive difficoltà, sugli ostacoli del giornalismo in un momento storico come questo, contraddistinto da un limite reale, concreto, che si frappone tra il giornalista-ricercatore e la sua fonte-interlocutore. Il giornalista, si dice nel gergo, è colui che consuma la suola delle scarpe, che va in giro per il mondo per incontrare, per vedere con i propri occhi. Ma il nostro Guy Chiappaventi in questo caso è seduto, oppure chiuso in casa: non ha la possibilità di andare, o per lo meno non riesce ad avvicinarsi più di tanto.

Sarà il cellulare a dargli aiuto, a permettergli di incontrare gli esperti da interrogare. Proprio come accade a chi è in smartworking o fa lezione a distanza. Lo schermo diventa il nostro interlocutore privilegiato e la sua presenza modifica molte pratiche, interazioni e discorsi, tra cui il discorso del telegiornale. La distanza che ha a che fare con la prossemica imposta dall’emergenza pone gli interlocutori in due spazi diversi ma in uno stesso tempo, in questa strana interlocuzione “in differita”.  L’intervistato a cui giornalista si rivolge è su uno schermo, non lì di persona: è un non-qui contenuto però in un ora e in un io. Una insolita e strana scelta enunciazionale, parente ovviamente della comunicazione telefonica, che però ben racconta la distanza spaziale tipica di questo periodo di isolamento sociale. Al centro del discorso, l’oggetto magico che permette di superare la distanza, un oggetto-ponte, un oggetto-occhio: il telefono, o meglio lo smartphone.

Il racconto del lavoro giornalistico

Non è solo questa novità ad avermi incuriosita: nei servizi di Guy Chiappaventi infatti l’intervista in modalità “coronavirus”, cioè a distanza, non si limita ad aprire una terza cornice enunciativa mostrando lo schermo, ma gioca con il montaggio, permettendoci di visualizzare la completa situazione interlocutoria e, così facendo, raccontandoci anche il lavoro giornalistico.

Gli interlocutori, lo abbiamo visto, non sono presenti nello stesso spazio: Chiappaventi (e il suo operatore e montatore) sceglie di farci riflettere su questa situazione perché la camera non è fissa sullo schermo dello smartphone dove parla l’intervistato, ma alterna nel montaggio lo schermo del cellulare al giornalista stesso, inquadrato, nei due casi che prendo in esame, seduto su una panchina, col cellulare in mano, e in un appartamento, dove addirittura posa il telefono sul proprio quaderno di appunti, chiaramente leggibili allo spettatore tv.

Una chiara scelta estetica, naturalmente, ma anche una manifestazione palese dell’enunciazione: Chiappaventi ci fa vedere il retroscena, ci riporta alla costruzione del discorso, ci fa vedere, insomma, il proprio lavoro giornalistico avvalorandolo con la propria presenza in quanto protagonista, con il telefono e il quaderno di appunti, strumenti universali della professione. Chiappaventi è presente sulla scena, si palesa nel suo ruolo di intervistatore e si assume la responsabilità dei contenuti informativi che racconta al collega in studio (e di conseguenza a casa, agli spettatori) apparendo in prima persona con la mascherina, il quaderno in mano, e con interviste fatte in videochiamata che simulano il dialogo autentico di un’intervista in presa diretta.

Per dirla in semiotichese, l’enunciatore e l’enunciatario del discorso-intervista sono entrambi presenti, uno di persona e uno in uno schermo, il discorso non viene oggettivato con la precisa intenzione di creare un effetto di realtà, una realtà che ci tocca tutti ora che le videochiamate sono diventate un modo per ritrovare gli altri, per parlarsi e vedersi. Se noi siamo chiusi in casa con molte difficoltà nelle relazioni sociali, con mancanze e con ostacoli ben rappresentati dalla metafora della casa come isola, come gabbia, Guy Chiappaventi ci sta raccontando che non è un momento facile nemmeno per chi fa il lavoro di giornalista e dovrebbe poter incontrare, parlare con le persone. Anche lui, come noi, davanti a un non-poter fare si avvale della tecnologia e inaugura nuove relazioni con gli interlocutori che realizzano strani dialoghi tipici della telefonata (per approfondire, consiglio C’era una volta il telefonino, di Gianfranco Marrone) ma al cui centro c’è l’immagine trasmessa sullo schermo di un dispositivo.

«Dai, parliamone per telefono che conviene!» diceva il buon Massimo Lopez nella celebre campagna promozionale della Sip firmata da Armando Testa, Una telefonata allunga la vita. Ve lo ricordate? Ecco, io mi sono domandata cosa ne sarebbe stato delle nostre telefonate “anni ‘90” se allora, come accade oggi, fosse arrivata un’epidemia e ci avesse costretti in casa. E mi sono risposta che, molto probabilmente, avvezzi alle telefonate, ci saremmo accontentati di un telegiornale in cui sarebbero passate molte schermate fisse con suoni telefonici o direttamente chiamate in studio. E per gli amici ci saremmo fatti bastare una cornetta con dei suoni, e forse ci saremmo accomodati su una sedia anche noi come Lopez, pronti a chiacchiere, chiacchiere e chiacchiere infinite lungo il filo del telefono.

Autore

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!