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Ritorno a Seoul di Davy Chou. Cercare in Corea le ragioni del sangue

Chiariamo subito che soffia aria minimalista per tutto Ritorno a Seoul: il regista Davy Chou racconta una grande storia, una storia di estesi accadimenti e sentimenti, in maniera impassibile e con un’estrema economia di particolari. Qui, una ragazza si trova quasi per caso a cercare, in una terra che le risulta straniera benché nativa, i genitori che l’hanno data in adozione da neonata.

Coreana solo per nascita, la venticinquenne Freddie arriva a Seoul, per la sua prima volta da adulta, sbarcando da Parigi dov’è cresciuta e dove all’ultimo momento ha cambiato un volo per Tokyo (siamo ai limiti del lapsus). All’inizio del film, siede in un locale con due ragazzi del posto, appena conosciuti: in dieci minuti di lenta chiacchiera nutrita di banalità assortite, Freddie comincia a pensare che non può sottrarsi a una personale indagine per ritrovare il padre e la madre che non ha mai conosciuto.

Davy Chou

Dobbiamo abituarci, ospiti anche noi in qualità di spettatori, del locale coreano: Chou narra e narrerà il poco della sua trama per ellissi, tale che tutto pare a prima vista inessenziale, poco significante. Ecco che così Chou può dire davvero, anzi sottintendere davvero, tutta la verità, più verità possibile, attraverso una ben architettata serie di omissioni se non di menzogne.

Il terzo alleato del linguaggio di Chou, minimalista ellittico, è la lentezza. Tutto quel niente che – scandito in circa un decennio di tempo – viene esposto davanti alla macchina da presa è girato a un ritmo così slow che alla fine può scoprirsi persino solenne oppure risolversi in una battuta sola, sonora e assertiva come uno schiocco di dita. Il tema del film? Forse che ci si può disfare in un attimo di tutto, compreso di chi si ama o di chi non si è in grado di amare. Oppure più banalmente ma non troppo: non ci si può sottrarre alle ragioni del sangue, se non addirittura a quelle della storia – vedi al proposito in un dialogo lo spiazzante accenno alla tensione politica tra Corea del Sud e Corea del Nord.

Ancora sulla forma che diventa contenuto. Chou ricorre continuamente all’effetto lost in translation nella mediazione linguistica tra una francese di fatto (la ragazza, mai peraltro ripresa nella sua patria adottiva) e i suoi ospiti coreani, i quali cercano di comprendersi a vicenda adoperando un povero inglese – per noi spettatori si consuma intanto un’orgia di benedetti o maledetti sottotitoli.

Chou (1983) è un regista cambogiano-francese che ha esordito nel lungometraggio con Diamond (2016), dopo aver lavorato a lungo per promuovere il cinema in Cambogia.

Ritorno a Seoul è stato proiettato a Cannes 2022 in Un Certain Regard e selezionato per la categoria miglior film straniero agli Academy Awards. Se lo trovate un po’ noioso e scolastico, amen, ma applaudite almeno gli attori Ji-Min Park e Oh Kwang-Rok, la figlia e il padre, passionali sotto espressioni spesso fredde e comportamenti a tratti enigmatici.

Credit: 2022 copyright Julien Lienard

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