Nel nostro vecchio mondo rurale l’idea di immondizia, di rifiuti – presente oggi in modo ossessivo, per i problemi che pone – praticamente non esisteva. Alla severa parsimonia che regolava ogni aspetto della vita (il passaggio a una mentalità consumistica e di spreco è sicuramente uno dei fenomeni più interessanti nel quadro delle trasformazioni sociali degli ultimi decenni) si accompagnava la quasi totale assenza dell’idea di qualcosa di inutilizzabile, di qualcosa che semplicemente si potesse buttar via.

L’indistruttibile plastica si diffuse nell’uso soltanto più tardi, mentre avanzavano i cambiamenti. Il vetro era piuttosto raro e quando ridotto in pezzi si usava per chiudere passaggi ai topi, come tagliente ostacolo sui muri di cinta, come raschietto per  pelli, cuoio e legno, oppure, al limite, lo si sotterrava.

Tutti gli scarti solidi comunque, dalle pietre tolte dai campi, ai calcinacci, tegole rotte, cocci di qualsiasi genere, si conservavano in mucchi vicini alla casa o ai campi, per usarli all’occorrenza per fognare una nuova fossa da viti o per la massicciata di una capanna o di una stradella.

I rottami di ferro, dal vecchio chiodo alla “vangheggiola” (vomere) consumata, al tegame sfondato venivano conservati con cura: o per qualche riuso o per ricavarne qualche soldo vendendoli al cenciaiolo che periodicamente passava a raccoglierli. I recipienti di qualsiasi tipo del resto (conche,orci, tegami …) si riparavano e si riusavano più volte, se non altro come vasi da fiori o per il basilico.

Negli anni di guerra e del dopoguerra ebbero non poca importanza i residuati bellici. Si raccoglievano le schegge delle bombe, i bossoli, il filo dei telefoni da campo, i pezzi di un aereo caduto sulla montagna, le scatolette del cibo per i militari; tutto trovava tanti modi di riutilizzo. I grandi bossoli da cannone furono usati per anni, in modo consapevolmente simbolico, quali alti, lucenti vasi da fiori nelle chiese e nelle case.

La cenere veniva conservata nel ceneraio, un piccolo vano presente in ogni casa colonica, e serviva per fare il bucato e anche per concimare orto e campi.

La carta era scarsissima e poteva servire per tenere in forma scarpe o zoccoli bagnati, per chiudere pertugi, per accendere il fuoco o per la latrina. Il legno di scarto, dalle “stèlle” ai fuscelli, bacchetti, ecc. quando non era adatto per qualche lavoro artigianale, serviva per il fuoco.

Le pelli di coniglio si riempivano di paglia e si appendevano a seccare al palo di una capanna, si vendevano poi al cenciaiolo, così come ogni straccio ormai inutilizzabile. Le piume si usavano per riempire cuscini o piumini, oppure, se inutilizzabili anche per fare una “sventola”, finivano sulla concimaia.

Gli scarti di pelli conciate e di cuoio (sugattoli) si conservavano, e talvolta si acquistavano dai calzolai, per usarli come ottimo concime per gli olivi. I rari scarti di carne andavano naturalmente al gatto, o al più raro cane di casa.

La lettiera della stalla, le deiezioni umane e degli animali non possono dirsi rifiuti, anzi, tutte erano destinate alla concimaia per ottenere l’indispensabile concime peri campi. 

Poco o niente, come si vede, restava per il secchio della spazzatura, pressoché sconosciuto nelle case coloniche, che del resto anche pigionali e benestanti vuotavano regolarmente nella concimaia più vicina.