La transizione dal capitalismo al comunismo: note sul proletariato e lo Stato in Marx

Sappiamo che Marx chiamava “comunismo” l’assetto in cui tutto fosse stato di tutti, e per ciò stesso senza classi e senza Stato. E sappiamo pure che a tale esito, secondo lui, “portava necessariamente” tutta l’attività anticapitalistica del proletariato, ossia tutta la resistenza contro lo sfruttamento da parte di quanti per vivere siano costretti a vendere la propria forza lavorativa sul mercato, a un prezzo, che fluttua come quello di tutte le merci dipendentemente dalla domanda e dall’offerta, chiamato salario. I proletari, infatti, avrebbero potuto superare i mali del loro vivere – dipendente e miserabile – solo abolendo tutte le differenze di classe (per loro e per tutti). Un tale salto da una società basata sullo sfruttamento e sull’autoritarismo ad una senza classi e per ciò senza Stato non avrebbe certo potuto realizzarsi d’incanto, come sembravano pensare gli anarchici anche collettivisti quali Michail Bakunin e compagni. Piuttosto sarebbe stata da mettere nel conto una fase più o meno lunga di transizione dal capitalismo al comunismo, dalla società divisa in classi alla società senza classi in cui tutto sarebbe stato di tutti: fase intermedia solitamente chiamata “socialismo”, ma che in Marx era solo il ponte, anzi l’antefatto – detto infatti da Engels un “semistato”[1] – tra capitalismo e comunismo. Perciò mi sembra molto più corretto parlare, per Marx, della transizione dal capitalismo al comunismo, cioè dalla società divisa in classi alla società senza classi. Infatti per Marx il “socialismo” – il potere proletario, eccetera – non era altro che il prologo, più o meno lungo, del comunismo: la fase in cui l’autoritarismo, proprio dello Stato borghese (o “moderno”, o burocratico-repressivo) e l’opera di sfruttamento della forza lavoro da parte dei borghesi, vengono dissolvendosi (cioè “estinguendosi”).

Per ciò Marx e Engels, nell’Ideologia tedesca (1846, ma 1930), intanto ribadivano l’idea che il singolo – ritenuto un essere sociale per natura – si salvi solo a livello sociale (anche se su ciò, per me, si può molto discutere). Infatti osservavano: “Solo nella comunità con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale. Nei surrogati di comunità che ci sono stati finora, nello Stato, ecc., la libertà personale esisteva soltanto per gli individui che si erano sviluppati nelle condizioni della classe dominante e solo in quanto erano individui di questa classe.”[2] Per ciò nelle società non capitalistiche, come quella antica schiavistica, o quella medievale feudale, per il singolo asservito era possibile tentare di liberarsi solo rifiutando individualmente la schiavitù o il servaggio, provando a cambiare classe come persona, quasi sempre senza riuscirci e a prezzo di una pena di vivere spesso interminabile: mentre sotto il capitalismo ci si poteva, e può, liberare dal salariato non già tentando semplicemente di cambiare la classe individuale di appartenenza, ma appunto lottando insieme ai compagni di lavoro e della propria classe sociale asservita per realizzare via via una società senza classi (e per ciò stesso senza Stato). Tanto che i due autori lì dicevano: “… i proletari invece, per affermarsi personalmente, devono abolire la loro propria condizione di esistenza quale è stata fino ad oggi, che in pari tempo è la condizione di esistenza di tutta la società fino ad oggi, il lavoro. Essi si trovano quindi in antagonismo diretto con la forma nella quale gli individui della società si sono dati finora un’espressione collettiva, lo Stato, e devono rovesciare lo Stato per affermare la loro personalità”[3]

Perciò anche il Manifesto del partito comunista di Marx e Engels, del 1848, termina il terzo paragrafo, “Proletari e comunisti”, esprimendo, più icasticamente, la stessa idea, notando: “Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni d’esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe. Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi tra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti.”[4]

Questo spiega anche la rivendicazione dell’abolizione del lavoro salariato, come si può notare in Salario, prezzo e profitto (1865, ma 1898), laddove Marx, che era allora, a Londra, il Presidente dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (Prima Internazionale), pur valorizzando le lotte economiche della classe operaia (con particolare riferimento al tradeunionismo inglese), osservava: “Nello stesso tempo la classe operaia, indipendentemente dalla servitù generale che è legata al sistema del lavoro salariato, non deve esagerare a se stessa il risultato finale di questa lotta quotidiana. Non deve dimenticare che essa lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di questi effetti; che essa può soltanto frenare il movimento discendente”, ossia la diminuzione del valore della sua forza lavorativa, cioè dei salari, a causa della sovrabbondanza di offerta di lavoro proletario che c’è sempre sul mercato, “ma non mutarne la direzione” (e qui il riferimento andava alla cosiddetta legge economica della miseria crescente del proletariato, legata allo stesso meccanismo della domanda e dell’offerta delle merci sul “libero” mercato, in cui di forza-lavoro da comprare tramite salario ce n’è sempre molto più del necessario); la classe operaia, insomma, non deve dimenticare “che essa applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia. Cioè essa non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia” (noi diremmo sindacale), “che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dai mutamenti del mercato. Essa deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per una ricostruzione economica della società. Invece della parola d’ordine conservatrice: ’Un equo salario per un’equa giornata di lavoro’, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: ‘Soppressione del sistema del lavoro salariato. (…) Le Trade-Unions compiono un buon lavoro come centri di resistenza contro gli attacchi del capitale; in parte si dimostrano inefficaci in seguito a un impiego irrazionale della loro forza. Esse mancano, in generale, al loro scopo, perché si limitano a una guerriglia” sindacale “contro gli effetti del sistema esistente, invece di tendere nello stesso tempo alla sua trasformazione e a servirsi della loro forza organizzata come di una leva per la liberazione definitiva della classe operaia, cioè per l’abolizione definitiva del sistema del lavoro salariato.”[5] Tale abolizione presuppone ovviamente il potere operaio, tanto sul terreno economico quanto su quello politico, potere chiamato nel Manifesto del partito comunista di Marx e Engels (1848) “dominio del proletariato” e, dal 1850 in poi, dittatura del proletariato. Su ciò nel Manifesto scrivevano: “Abbiamo già visto sopra che il primo passo sulla strada della rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato si eleva a classe dominante, cioè nella conquista della democrazia.” (Si dà infatti per scontato che il proletariato costituisca la grande maggioranza della popolazione, formata da tutti quelli che debbono vendere la loro energia lavorativa per vivere, e che per ciò il suo potere segni l’avvento della “vera” democrazia). “Il proletariato adopererà il suo dominio politico per strappare a poco a poco alla borghesia il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive.”[6]

Lì veniva pure delineato un programma di massima, ritenuto valido nei diversi paesi capitalistici, in dieci punti, non diverso da quello di qualsiasi grande successiva socialdemocrazia, per così dire di sinistra, del mondo. Tuttavia va fortemente notato che in tutto il Manifesto del partito comunista, e tendenzialmente nell’insieme dell’opera di Marx, non era minimamente presente l’idea che la dittatura del partito comunista potesse essere diversa da quella del proletariato in carne e ossa.

Del resto, per tutte le classi, l’idea di un partito che si sostituisse, come fosse il loro tutore, alla volontà di quelle grandi collettività economico-sociali che chiamiamo classi, sino al secondo decennio del XX secolo, e comunque sino alla prima guerra mondiale, non era neppure in campo, se non per piccole minoranze settarie, che proprio Marx e Engels volevano mandare a casa, in ambito socialcomunista, sin dal 1847. La forma più matura di Partito fu non già la minuscola Lega dei comunisti del 1847/1849 per cui Marx e Engels avevano scritto il Manifesto del partito comunista, ma la Prima Internazionale, o Associazione Internazionale dei Lavoratori, in cui non c’era neppure distinzione tra associazione politica e associazione sindacale (ossia tra partito e sindacato), le adesioni erano soprattutto collettive, e la centralizzazione era esclusivamente d’indirizzo programmatico (per quanto contestata dall’anarchismo di Bakunin, che esprimeva un settarismo estremistico anteriore all’epoca del movimento operaio di massa).

Va però riconosciuto che la forte affermazione del primato della “struttura” economica rispetto alla sovrastruttura politica e ideale[7], cioè delle classi economiche nella vita storica, disponeva Marx e Engels ad un approccio ai problemi della politica e dello Stato che noi oggi, con il linguaggio del pensiero politico contemporaneo, chiameremmo relativismo istituzionale. In sostanza i problemi della forma di governo e degli assetti specifici dello Stato attenevano, per Marx e Engels, e poi per gran parte dei loro epigoni “grandi” o “minori” dichiaratamente “marxisti”, alla sfera intercambiabile dei mezzi per l’affermazione del potere della classe di riferimento. Essi avevano anche la certezza che ciò valesse – di fatto se non a chiacchiere – per tutte le classi in lotta, con particolare riferimento alla borghesia capitalistica (naturalmente con rapporto inverso con lo Stato dominante, quale fosse la forma esteriore del dominio politico custode, nel caso dei borghesi, dei loro interessi economici).

Questo relativismo istituzionale in Marx si accentua a partire dalla fine del 1848, e soprattutto del 1848-49 in Francia, in riferimento a due fenomeni concomitanti. Il primo è costituito dal fatto che la rivoluzione democratica basata sul suffragio universale e su un’idea di democrazia aperta alle forze del lavoro, in Francia, dopo straordinarie lotte dal basso dei proletari di Parigi descritte da Marx con forte afflato epico nel libro Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1850), era finita nell’autoritarismo conservatore, dapprima votato legalmente dai cittadini, di Luigi Napoleone Bonaparte, il futuro Napoleone III poi proclamatosi “imperatore” a vita (scacciato dal potere solo in seguito alla sconfitta infertagli dalla Prussia di Bismarck a Sédan nel 1870). Il secondo fenomeno era rappresentato dalla decisione di Marx e dei suoi compagni di reagire alla controrivoluzione detta bonapartista rifondando la Lega dei Comunisti – quella che aveva commissionato a Marx e Engels il Manifesto del partito comunista, ma che nel corso del 1848 europeo si era dissolta nei movimenti nazionali, democratici e soprattutto sociali dalla Germania alla Francia – in alleanza con la setta del grande rivoluzionario cospiratore Auguste Blanqui. Questi era certo l’erede della Congiura giacobina di sinistra degli uguali, detta di Babeuf, del 1796, e, comunque, era teorico, sempre impegnato in tentativi più o meno disperati, della dittatura rivoluzionaria di sinistra, anticipatrice del futuro leninismo. Ciò si vede bene nell’Indirizzo del Comitato centrale della Lega dei comunisti di Marx e Engels (Londra, 1850, ma 1853)[8], anche se poco oltre il 1850 Marx e Engels preferirono dedicarsi totalmente al lavoro teorico, in attesa di una nuova crisi generale, invece di seguitare a tramare come i settari irriducibili (aspetto molto ben illustrato da Antonio Labriola nel 1895[9]).

Comunque a ridosso dello sbocco autoritario conservatore del “maggior 1848” europeo, quello francese, Marx e Engels si persuasero – però tendenzialmente per sempre – che quando lo scontro sociale diventa effettivamente risolutivo, classe contro classe, la democrazia parlamentare venga necessariamente travolta. Perciò, iniziata la fase della repressione contro il movimento operaio, la conclusione – secondo il Marx di Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 – avrebbe potuto essere solo la seguente: “Il suffragio universale aveva compiuto la sua missione. La maggioranza del popolo era passato per la sua scuola, il che è tutto ciò a cui il suffragio universale possa servire in un’epoca rivoluzionaria. O da una rivoluzione o dalla reazione esso doveva venire eliminato.”[10] Ciò diventava pure, non senza sarcasmo da parte dei due, elemento di teoria politica, inducendo Marx alla nota apostrofe di Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852), rivolta contro i socialisti riformisti francesi del 1848: “Essi erano dunque tenuti a muoversi strettamente entro i limiti del parlamento. E dovevano essere colpiti da quella particolare malattia che a partire dal 1848 ha infierito su tutto il Continente, il cretinismo parlamentare, malattia che relega quelli che ne sono colpiti in un mondo immaginario e toglie loro ogni senso, ogni ricordo, ogni comprensione del rozzo mondo esteriore; dovevano essere colpiti da quel cretinismo parlamentare mentre, dopo aver distrutto con le loro mani tutte le condizioni del potere del Parlamento, dopo essere stati costretti a distruggerle nella loro lotta con le altre classi, consideravano ancora le loro vittorie parlamentari vere vittorie, e, battendo i suoi ministri, credevano di colpire il presidente.”[11]

Questa posizione era accentuata dal forte legame con il gruppo di Blanqui, di cui si è detto, che emerge con chiarezza laddove, in Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Marx osservava: “… Il proletariato va sempre più raggruppandosi intorno al socialismo rivoluzionario, al comunismo, pel quale la borghesia stessa ha inventato il nome di Blanqui. Questo socialismo è la dichiarazione della rivoluzione in permanenza, la dittatura di classe del proletariato, quale punto di passaggio necessario per l’abolizione delle differenze di classe in generale, per l’abolizione di tutti i rapporti di produzione su cui esse riposano, per l’abolizione di tutte le relazioni sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione, per il sovvertimento di tutte le idee che germogliano da queste relazioni sociali. “[12]

In materia di Stato sono però presenti, in Marx e Engels, forti oscillazioni: dal modello di Stato fondato sul totale autogoverno dei cittadini, abbozzato da Marx nel 1841-1843 in Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, alla critica dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, cioè del modello liberale, nel cui ambito non sarebbe stato possibile risolvere neppure la questione ebraica (come si evince dal saggio del 1844 ad essa dedicato negli “Annali franco-tedeschi” del 1844), alla forte valorizzazione delle tendenze liberaldemocratiche nel corso del 1848, pur con la conclusione di svalutazione della via parlamentare di cui si è detto; ai tanti momenti di convergenza con gli stessi socialisti più riformisti nella lotta contro gli anarchici al tempo della Prima Internazionale (1864/1871); alla forte valorizzazione delle riforme legislative, specie in materia di orario di lavoro, anche come via di emancipazione della classe operaia, in Inghilterra, nel primo volume del Capitale (1867); sino alla famosa Introduzione a una nuova edizione di Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 di Marx da parte di Engels nel 1891 (dopo la prima forte affermazione elettorale della socialdemocrazia tedesca nel 1890), in cui si teorizza la possibile conquista parlamentare del potere da parte dei socialisti, che pure prevedeva la reazione autoritaria della borghesia (cui si sarebbe risposto con la rivoluzione proletaria, che però in tale contesto sarebbe stata praticata in nome della democrazia).[13]

(Segue)

di Franco Livorsi

  1. F. ENGELS, Introduzione a: K. MARX, La guerra civile in Francia (1871), del 1891, in: K. MARX – F. ENGELS, Il Partito e l’Internazionale, traduzione di P. Togliatti, Edizioni Rinascita, Roma, 1948, pp. 129-142.
  2. K- MARX – F. ENGELS, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti, Editori Riuniti, Roma, 1958, pp. 72-73. Questa posizione, a causa della definitiva affermazione del materialismo storico, era un po’ diversa da quella della Sacra famiglia (1844), Edizioni Rinascita, 1954, che vedeva come non-liberi, ma alienati, anche i membri della classe dominante, pur sottolineando che essi stavano bene nell’alienazione (poveri di coscienza di sé come gli sfruttati, ma obnubilati dal loro stesso privilegio).
  3. Ivi, pp. 75-76.
  4. K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, con introduzioni e a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino, 1964, P. 158.
  5. Il testo completo è in: K. MARX – F. ENGELS, “Opere scelte”, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, 1966, pp. 769-826, ma v. pp. 825-826.
  6. K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, cit., p. 157.
  7. Il riferimento va al materialismo storico, maturo dal 1845/1846, come si può notare In: K. MARX, Tesi su Feuerbach (1845), in appendice a: F. ENGELS, Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia clssica tedesca (1888), Edizioni Rinascita, Roma, 1953; e K. MARX – F. ENGELS, L’ideologia tedesca (1846, ma 1932); ma la migliore esposizione dottrinaria è quella contenuta in: K. MARX, Prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859), Editori Riuniti, 1957, da confrontare con il vero e proprio saggio – direi di sociologia economica della storia – Introduzione alla critica dell’economia politica (1857, ma 1903), in: K. MARX – F. ENGELS, “Opere scelte”, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, 1966, pp. 711-742.
  8. Si veda il testo in: K. MARX – F. Engels, “Opere scelte”, cit., pp. 359-372.
  9. Antonio LABRIOLA, In memoria del Manifesto dei comunisti (1895), in: La concezione materialistica della storia, Introduzione di E. Garin, Laterza, Bari, 1965, pp. 31-32.
  10. K. MARX, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1850), con Introduzione di F. Engels, a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, 1962, p. 290.
  11. K. MARX, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852), a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, 1964, p. 157
  12. K. MARX, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1850), cit., 268-269
  13. K. MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1841/1843, ma 1927), in: “Opere filosofiche giovanili”, a cura di G. della Volpe, Editori Riuniti, 1963; La questione ebraica (1844), in Annali franco-tedeschi, a cura di G. M. Bravo, cit.; F. ENGELS, Per la storia della Lega dei comunisti (1885), in “Opere scelte” di Marx e Engels cit., pp. 1077-1099; K. MARX, Il capitale (I, 1867), tr. di D. Cantimori, Editori Riuniti, 1962 (specie le parti sulla giornata lavorativa). Per questi aspetti resta fondamentale: D. ZOLO (a cura), I marxisti e lo Stato. Dai classici ai contemporanei, Il Saggiatore, Milano, 1977.

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