Furio Focolari: «Bettega mi chiamò terrone e fummo espulsi entrambi. Tomba tardò a una gara perché era con una ragazza»

di Paolo Tomaselli

Il giornalista, voce Rai dei trionfi di Alberto Tomba: «Sono ripartito dopo aver vinto tutte le cause contro la Rai. Ringrazio la Gialappa’s»

Furio Focolari: «Bettega mi chiamò terrone e fummo espulsi entrambi. Tomba tardò a una gara perché era con una ragazza»

Furio Focolari, 76 anni, ex cronista della Rai

Sempre col microfono davanti: Furio Focolari, classe 1947, è stato la voce Rai dei trionfi di Alberto Tomba, oggi è direttore di Radio Radio.

Padre giornalista, come uno dei suoi tre fratelli. Vocazione o strada obbligata?
«Vocazione. Ricordo l’odore del piombo quando mio padre mi portava nella tipografia del Tempo. Era un lavoro di bottega, in tanti a Roma l’hanno trasmesso ai figli».

Vocazione anche lo sport?
«Quello fu casuale. Anche se a 19 anni, presa la maturità classica e iscritto a giurisprudenza, rifiutai l’assunzione alla Bnl da 200mila lire al mese per il Corriere dello sport di Ghirelli, dove ne guadagnavo 19mila. I tempi per il praticantato si dilatavano, per cui diventai professionista a 24 anni al Giornale d’Italia».

È vero che è stato un calciatore mancato?
«No, ma ho giocato nei ragazzi della Lazio e a buoni livelli da dilettante. Non ero un campione, ma gioco ancora a calcetto con gli amici».

Numero di cartellini rossi nelle partite fra colleghi?
(Ride)
«Ho avuto una lite con Bettega in una partita Rai-Mediaset: mi disse ‘terrone’, io reagii un po’ male e ci buttarono fuori. Essere espulsi con Bettega è come mettere una tacca sulla pistola».

Come entrò in Rai?
«Il Giornale d’Italia nel 1976 chiuse e grazie al sindacato fummo assunti in Rai: c’era anche il mio compagno di scrivania Massimo De Luca. Io andai al Gr3».

Addio sport per un po’.
«Sono l’unico giornalista al mondo ad essere arrivato sul cadavere di Aldo Moro e ho fatto le dirette su Radio 3».

Come ci riuscì?
«Per aggirare il cordone di via Caetani sono entrato nella chiesa su via delle Botteghe Oscure, mi sono buttato nel cortile dietro alla sagrestia, ho scavalcato un muro e sono entrato in un portone, poi nell’abitazione di un tassista che mi ha aperto in canottiera, con il fiasco sul tavolo. La finestra era a otto metri dalla macchina, però il telefono era dall’altra parte della stanza e facevo delle finte dirette, andando avanti e indietro. Ho visto gli artificieri che aprivano il bagagliaio, il corpo dell’onorevole in posizione fetale. Ho descritto tutto. Una cosa così l’avrei mandata su tutte le reti Rai, non solo sul Gr3».

Al Mundial ‘82 fece innervosire Pertini con una domanda sul tifo spagnolo?
«No, è una leggenda metropolitana, ma ero inviato al seguito di Pertini: Italia-Brasile la vedemmo all’Eliseo».

Sulla neve come ci è finito?
«Per caso, anche se ero sciatore da sempre: serviva una seconda voce per il grande Alfredo Pigna e nessuno sapeva di sci. Non è che ne sapessi tantissimo a livello tecnico, però ero un grande appassionato e ho avuto una fortuna pazzesca: la prima telecronaca al parterre fu quella della prima vittoria di Tomba al Sestriere in Coppa del mondo. Poi le ho fatte tutte».

Il rapporto con Albertone?
«Strettissimo, soprattutto con Paletta, il suo pigmalione. Alla vigilia della prima gara mi dissero che avrebbe vinto, abbiamo anche scommesso una cena, perché sembrava impossibile: partiva con il pettorale 25 e non aveva mai vinto. Appena trionfò, mi disse: ‘Te l’avevo detto e domani replico’. Partì col 24 e conquistò pure il gigante».

La vittoria più emozionante da raccontare?
«Il Mondiale a Sierra Nevada 1996: era sesto dopo la prima manche e nella seconda aveva sciato così bene che Paolo De Chiesa mi disse ‘non lo batte nessuno’. Cominciammo a fare i gufi: uscirono Girardelli, Von Gruningen e altri. Il giorno dopo fece il bis».

Chissà dietro le quinte.
«A Garmisch la gara è alle 10, Tomba parte per primo, ma nessuno sa dov’è. Alle 9.50 arriva, ma deve ancora prendere la seggiovia, provare gli sci e andare al cancelletto. Ha una faccia pallida, gli occhi arrossati. ‘Ma che hai fatto?’ gli dico. ‘Sono stato fino adesso con una ragazza’ risponde. Comincio la telecronaca così: ‘Non facciamoci troppe illusioni, purtroppo Alberto ha avuto disturbi intestinali’».

E come finì?
«Diede 1’’2 al secondo e feci brutta figura. La Gialappa’s si divertì a prendermi in giro».

Come viveva le critiche?
«Quando sei convinto di non meritarle, le critiche fanno male. Magari sono anche giuste ma non sei così obiettivo da pensarlo. La satira l’ho sempre accettata. E la Gialappa’s dal punto di vista della notorietà mi ha dato tanto».

Con la Rai è finita male.
«Sì, ero diventato vice direttore vicario e avevo in mano la spedizione di Atlanta ’96. Mentre ero lì qualcuno covava alle mie spalle: mi hanno fatto cose immonde».

Cosa le contestavano?
«Una fattura da 240 milioni in uscita per la sponsorizzazione dell’abbigliamento di tutta la spedizione all’Olimpiade. Ma ce n’era di conseguenza anche una in entrata del medesimo valore per la Rai, che cedeva i titoli di coda: era un’operazione a zero e comunque non avrei potuto firmare io quel contratto, non spettava a me. Non ho fatto nulla, ma non avevo partiti alle spalle e non fui difeso da nessuno. La batosta fu grande, per un mese non uscii di casa. Ancora oggi non ho piacere a parlarne, anche se ci tengo a sottolineare che contro la Rai non ho mai detto nulla in tutti questi anni».

Vinse su tutta la linea.
«Sì, ho vinto tutte le cause e ho ricostruito la mia vita».

Come?
«Dopo la cacciata, mi arriva una telefonata del presidente tedesco della Puma, che mi chiede di fare dei contratti importanti per buttarsi nel calcio. Divento direttore delle relazioni esterne e dico: ‘Facciamo la Lazio di Cragnotti’. Vinciamo il campionato e nove coppe. Non solo: con la Puma prendiamo la Nazionale nel 2002 e vinciamo il Mondiale. Penso di essere un uomo fortunato, innanzitutto per la mia famiglia fantastica. Poi per l’incontro con Tomba e per il modo in cui sono risorto dalle ceneri dopo l’addio burrascoso alla Rai».

Nel frattempo fra sport e tv è cambiato tutto.
«Sì. Il giornalismo mi sembra un mestiere triste: andavo a cena coi calciatori, ci telefonavamo. Nel 1984 annunciai a D’Amico che avrebbe giocato col Napoli, avevo parlato con l’allenatore. Come battuta gli dissi che avrebbe segnato: 1-1 gol di D’Amico e Maradona».

C’era complicità.
«A Messico 86 ci serviva l’olio buono per gli spaghetti. Conti da una finestrella del ritiro ci passò una bottiglia. Oggi sarebbe impensabile».

3 marzo 2023 (modifica il 3 marzo 2023 | 08:33)