13 novembre 2020 - 19:41

Totò sempre in guerra (con la vita) nel mondo pieno solo di caporali

Nel suo nuovo saggio (Laterza), lo storico Emilio Gentile illustra la filosofia e l’etica del grandissimo attore secondo il quale non si può far ridere senza avere sofferto

di WALTER VELTRONI

Totò sempre in guerra (con la vita) nel  mondo pieno solo di caporali Totò in un disegno di Max Ramezzana
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«Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate, alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffellatte, la prepotenza del pubblico senza educazione. Insomma, non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita». Queste parole del Principe Antonio de Curtis, in arte Totò, pubblicate in un’intervista del 1958 su «Oggi» potrebbero essere l’epigrafe più sincera del singolare e affascinante volume che uno dei più emeriti storici dell’Italia del Novecento, il professor Emilio Gentile, ha dedicato al rapporto tra il grande attore napoletano e la storia. Caporali tanti, uomini pochissimi si intitola il libro, pubblicato da Laterza.

La copertina del libro di Emilio Gentile «Caporali tanti, uomini pochissimi. La storia secondo Totò» (Laterza, pagg. 192, euro 14)
La copertina del libro di Emilio Gentile «Caporali tanti, uomini pochissimi. La storia secondo Totò» (Laterza, pagg. 192, euro 14)

«Nata durante la mia prima giovinezza, mi è sempre servita come sistema metrico decimale per misurare la statura morale degli uomini, e mi è servita, nuovo entomologo, per classificare l’umanità in due grandi categorie». Così il Principe de Curtis racconta la sua chiave interpretativa degli umani, la loro divisione in uomini o caporali, il cui racconto attraverso la storia egli affida alla sua maschera, il comico Totò. Gentile racconta da dove trae origine la teoria dei comportamenti del Principe: dalla vita militare, in cui il giovane Totò ebbe la ventura di incontrare una di quelle persone che hanno, chissà perché, un’autorità e la esercitano con spietatezza e inutile ferocia. «Caporali, vede, sono quelli che vogliono essere capi. C’è un partito e sono capi. C’è la guerra e sono capi. C’è la pace e sono capi. Sempre gli stessi. Io odio i capi come le dittature, le botte, la malacreanza, la sciatteria nel vestire, la villania nel parlare e mangiare, la mancanza di puntualità, la mancanza di disciplina, l’adulazione, i ringraziamenti…».

 Nato a Bojano (Campobasso) nel 1946, Emilio Gentile è lo studioso italiano del fascismo e del totalitarismo più noto a livello internazionale
Nato a Bojano (Campobasso) nel 1946, Emilio Gentile è lo studioso italiano del fascismo e del totalitarismo più noto a livello internazionale

Per Totò i caporali, in fondo, sono il potere, qualunque potere. C’è un fondo poeticamente anarchico nel Principe detentore, secondo una sentenza del Tribunale di Napoli del luglio 1945, dei titoli di altezza imperiale, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, conte e duca di Drivasto e di Durazzo.

L’anarchia del clown o del cartone animato. E proprio essere un cartone animato era il maximum delle aspirazioni di Totò.

Lui era lieve, in effetti. La sua comicità, figlia della fatica di esibire un corpo spigoloso e degli spettacoli recitati con in prima fila i feriti di guerra, era sempre ispirata a una profonda, inusuale, leggerezza.

Totò ha sofferto, «ha fatto la guerra con la vita». Dalla nascita, figlio del grembo di una ragazza di 16 anni abbandonata dall’uomo, un marchese spiantato, che l’aveva messa incinta, ai primi anni in uno dei bassi del rione sanità. E poi le difficoltà scolastiche, il tentativo di fuga nel sacerdozio o nella marina. Fino alla scelta di farsi attore, con la sua faccia a punta e il suo corpo segaligno.

In Totò la sofferenza, la fatica, la malinconia si vedevano tutte, sempre. E questo rendeva la sua comicità, veloce ed esplosiva, ancora più particolare, ancora più inimitabile. La storia gli è caduta addosso, con il suo rumore fragoroso e i suoi ingombranti calcinacci. La guerra, la prima, quando era un adolescente, il fascismo, la dittatura, poi il secondo conflitto, quando era un uomo adulto. In mezzo la costruzione di una maschera tanto forte da diventare eterna, moderno Pulcinella, moderno Arlecchino.

Totò ha attraversato la storia raccontandola, ma senza schierarsi. Se non dalla pare degli uomini, sempre. Contro i caporali, sempre. Che fossero i gerarchi fascisti, tronfi e corrotti, che sbeffeggiava nei suoi spettacoli teatrali. Gentile riporta nel suo volume l’esilarante trascrizione della intercettazione telefonica di una conversazione su Totò, reo di aver preso per i fondelli l’introduzione del «voi» come obbligatorio. «Se tornasse Galileo Galivoi» aveva celiato l’attore, definito dal Duce: «Quel pagliaccio di Totò».

Ma Totò fu deluso anche dalla nuova democrazia che gli sembrava, nei comportamenti e nelle persone, non molto diversa dal tempo precedente. Forse anche perché erano gli stessi «caporali» di prima, nell’Italia democristiana del dopoguerra, a censurare con dei vistosi segni rossi e blu i suoi testi teatrali.

L’onorevole Cosimo Trombetta, vittima dei lazzi di Totò nella mitica scena del Wagon Lit, è l’incarnazione del nuovo potere che a Totò non piaceva. Anche loro gli sembravano dei caporali.

Totò disse una volta, in Totò e i re di Roma, di fronte ad un arrogante usciere che vantava di essere stato nominato cavaliere: «Un usciere l’hanno fatto cavaliere! Io sono quindici anni che ho fatto la domanda!.. Poi dice che uno si butta a sinistra!». Forse Totò avrebbe potuto. In fondo in tutta la sua carriera, come ricorda Emilio Gentile, non ha mai sfottuto un operaio, un bracciante. Ha sempre preferito, come bersaglio, i potenti, interpretati o dileggiati.

Ma il Principe De Curtis a sinistra non poteva certo andare. Era conservatore, senza essere di destra. Era un moderato, uno che amava il buon ordine della società. Quello stesso che poi l’iconoclasta Totò metteva a soqquadro.

Pochi attori, come Totò, hanno raccontato la storia nazionale. La storia quando si mette scarpe e camicia, quando diventa vita pulsante, cuore e passioni di persone in carne ed ossa spesso strapazzate, umiliate, piegate o redente dalla storia con la esse maiuscola.

Il libro di Emilio Gentile è un omaggio affettuoso a un eroe dello stesso autore. Totò è stato spesso, in vita, vilipeso. Gli spettatori dei suoi film, tra il 1947 e il 1967, erano stati 250 milioni, con un incasso di 93 milioni dell’odierno euro. Il che, specie per certa critica col sopracciglio alzato, era un capo di accusa. Diceva una grande verità, Totò: «Questo è un bellissimo Paese in cui uno però ha da morire per essere compreso». Infatti, pochi anni dopo la sua scomparsa, nel 1967, aiutati dal bel lavoro saggistico di Goffredo Fofi, uomini e caporali riscoprirono il talento immenso di un uomo malinconico che sapeva far ridere.

Nell’Italia incerta del dopoguerra tra tanti critici che lo maltrattavano, compreso un genio come Ennio Flaiano, si stagliò la voce del poeta Aldo Palazzeschi: «Abbiamo attraversato ore di angoscia e di dolore, di umiliazione, privazioni e sofferenze fisiche d’ogni genere… Totò è il richiamo all’ordine della civiltà... Totò è apparso all’orizzonte del cinema come arcobaleno dopo il temporale».

Un poeta protagonista di 97 film: versatilità di un genio della scena

Nato Antonio Vincenzo Stefano Clemente, e diventato — dopo l’adozione da parte del marchese de Curtis — Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio (15 febbraio 1898 – 15 aprile 1967), Totò è stato insieme uno dei più grandi attori italiani del Novecento e una maschera che si è imposta nel costume e nella cultura, non soltanto popolare, italiana. Autore anche di testi teatrali e di poesie (celeberrima ’A livella), protagonista in teatro come tv, interpretò dal 1937 alla morte 97 film. Tra questi, Siamo uomini o caporali, diretto da Camillo Mastrocinque (regista anche de La banda degli onesti) e I soliti ignoti di Mario Monicelli. A fine carriera, memorabile il sodalizio con Pier Paolo Pasolini per Uccellacci e uccellini (1966) e due episodi in altrettanti film collettivi.

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