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Perché i piccoli imprenditori sono sempre più over cinquanta

di Dario Di Vico

Perché i piccoli imprenditori sono sempre più over cinquanta

In dieci anni tra il marzo 2010 e il marzo 2020 l’età dei piccoli imprenditori
italiani si è alzata e di tanto. Gli over 50 due lustri fa rappresentavano il 54,8%
dei titolari di imprese individuali, ora sono il 66,4%.

In termini assoluti i Piccoli ultracinquantenni sono più di 1,9 milioni, nel 2010 erano 1,7 milioni ma occorre tener presente che il numero complessivo delle imprese individuali è sceso nel frattempo di 230 mila unità (oggi sono 3,1 milioni).
In definitiva dalla recessione degli anni Dieci ad oggi abbiamo avuto meno imprese, un deciso slittamento anagrafico verso l’alto e scarso ricambio alle spalle. Infatti gli imprenditori tra i 30 e i 49 anni in 10 anni sono diminuiti di 400 mila unità, mentre quelli tra 50 e 69 sono cresciuti «controvento» di 195 mila. Questa indagine è stata possibile grazie alla collaborazione di Unioncamere-InfoCamere che, sulla base del Registro delle imprese, ha classificato i 3 milioni di ditte individuali secondo quattro classi di età (18-29 anni, 30-49, 50-69 e da 70 in su) arrivando alla conclusione che il baricentro dell’impresa italiana ormai sta nella classe tra i 50 e i 69 anni.
Se passiamo ad analizzare i singoli settori possiamo vedere come gli over 50 nell’agricoltura siano il 72,3% e nella manifattura il 60,3% (nel 2010 i Piccoli sopra i 50 anni erano il 44,3% delle imprese manifatturiere individuali). Anche nelle costruzioni, dove grazie all’apporto degli immigrati-imprenditori l’età media era nel 2010 più bassa degli altri settori, la tendenza è diventata la stessa (spariti 117 mila capi-azienda tra i 30 e i 49 anni). Se prendiamo poi i soli giovani imprenditori under30 in questi 10 anni il bilancio è altrettanto negativo: sono diminuiti di ben 45 mila unità.

Perché i piccoli imprenditori sono sempre più over cinquanta

Commenta l’economista Enzo Rullani, studioso dei distretti italiani: «È proprio questo il dato più preoccupante, il ridotto afflusso di sangue fresco. E i motivi sono tanti. In primo luogo è più difficile fare l’imprenditore oggi che dieci anni fa, devi inserirti in filiere lunghe e non basta la prossimità territoriale. Poi una volta per aprire un’impresa nei distretti era sufficiente imitare, oggi per farti valere devi essere originale. E poi le professionalità non sono quelle richieste dalla veloce evoluzione della tecnologia, abbiamo troppo pochi ingegneri. Quando si sostiene che la produttività in Italia non cresce è anche a causa delle cose di cui stiamo parlando». Anche aggiungendo ai dati Unioncamere sulle ditte individuali quelli delle Srl semplificate i saldi non cambiano di molto, le nuove procedure veloci in 10 anni hanno portato in campo solo 13 mila giovani in più del 2010.
La verità, oltre alle considerazioni di Rullani, è che la trasmissione familiare della voglia di fare impresa si è interrotta, i figli non sembrano seguire le orme dei padri.
Una discontinuità culturale passata in cavalleria anche nei territori a maggiore antropologia imprenditoriale. Così potrà sembrare lessicalmente paradossale ma l’unico settore che presenta per gli under 50 anni un saldo positivo rispetto a 10 anni fa è quello che la statistica indica ancora come «altro» e che raggruppa tutte le start up del digitale, nuove attività legate all’innovazione o business emergenti come il food delivery, non ancora codificate dalla tradizionale suddivisione in settori e che sono cresciute di 56 mila unità.

Commenta Innocenzo Cipolletta, economista e a lungo direttore generale di Confindustria: «Rispetto all’inizio della Grande Crisi, il 2008, di anni ne sono passati 12, gli imprenditori sono invecchiati e dietro non c’è stato ricambio. Se da allora hanno chiuso 150mila ditte individuali nell’agricoltura, 90mila nelle costruzioni e 50mila nella manifattura dobbiamo temere nel dopo-pandemia un bilancio ancor più negativo. Il tasso di mortalità aziendale potrà essere più elevato per una maggiore propensione degli imprenditori invecchiati a chiudere i battenti. Questa tendenza andrebbe compensata da politiche che promuovano l’imprenditorialità giovanile, lo spazio di mercato credo che ci sia. La volontà non so».
E magari prima di chiudere un’azienda guidata da un over70 si potrebbe incentivare un giovane per farlo subentrare rilevandone l’attività e la licenza. «Ma perché tutto ciò si verifichi in autunno avremmo bisogno di una spinta politica pro-impresa e di un contesto favorevole, come una ripresa a V, che ci aiuti a ricreare nuove coorti giovanili di imprenditori», conclude Cipolletta.

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