Giornata mondiale del sonno: l’importanza di quello profondo per prevenire le demenze

di Anna Fregonara

Dormire meno di 6 ore a notte all’età di 50-60 anni è associato a un rischio maggiore di deterioramento cognitivo, ma è il sonno di qualità che fa la differenza

Giornata mondiale del sonno: l’importanza di quello profondo per prevenire le demenze

La capacità di dormire può essere paragonata a un’auto. Man mano che la vettura macina chilometri e invecchia ha sempre più bisogno di manutenzione e la sua guida diventa meno fluida. La stessa cosa capita con il sonno di cui il 17 marzo si festeggia la Giornata mondiale: la sua qualità peggiora man mano che passano gli anni anche perché i livelli di melatonina , l’ormone del buon riposo, calano andando in là con l’età. Ora un nuovo studio pubblicato sull’American Journal of Preventive Medicine va ad aggiungersi al crescente numero di prove che collegano disturbi del sonno e possibile deterioramento cognitivo. I ricercatori si sono basati sui dati prospettici del National Health and Aging Trends Study, un’indagine nazionale su come cambia la vita quotidiana quando si invecchia. Hanno escluso gli anziani con una diagnosi di demenza preesistente. I risultati su un campione di circa 6.300 over 65 hanno messo in luce come, in un periodo di 10 anni, linsonnia da inizio sonno ( difficoltà ad addormentarsi entro 30 minuti) e l’uso di farmaci ipnotici può essere associato a un rischio maggiore di sviluppare demenza. Per il coautore Roger Wong, professore assistente presso il dipartimento di Salute Pubblica e Medicina Preventiva della SUNY Upstate Medical University, Syracuse (USA), «questi dati sottolineano l’importanza di considerare l’anamnesi dei problemi del sonno quando si valuta il profilo di rischio di demenza degli anziani».

Il sistema «spazzino»

«Già una meta-analisi del 2018 di 18 studi prospettici che hanno preso in considerazione circa 247mila individui di Stati Uniti, Europa e Asia aveva mostrato che, su un follow-up medio di 9,5 anni, i soggetti con disturbi del sonno avevano un rischio più elevato di demenza per tutte le cause rispetto a quelli che non riferivano un riposo disturbato. Recentemente è stato riportato che una durata del sonno di 6 ore o meno all’età di 50-60 anni è associata a un rischio maggiore di deterioramento cognitivo», spiega Luigi Ferini Strambi, professore ordinario di Neurologia all’Università Vita-Salute San Raffaele e direttore del Centro di Medicina del Sonno all’Ospedale San Raffaele-Turro di Milano e autore di un approfondimento su questo tema apparso su European Journal of Neurology.

La posizione giusta per aumentare il sonno profondo

«Nessun allarmismo. Una delle lacune più significative degli studi condotti finora sul rapporto sonno-demenza è di non tenere conto delle caratteristiche del riposo notturno. Molto spesso le ricerche si basano su informazioni soggettive su come si dorme, mentre è importante includere anche informazioni oggettive come la quantità di sonno profondo. Per esempio, si sa che dormire poco non è una cosa positiva perché funziona meno il sistema glinfatico: è il nostro sistema “spazzino” che ripulisce dalle sostanze (come la beta amiloide) coinvolte nel processo di infiammazione sistemica correlata all’insonnia. Per aiutarlo a lavorare bene è necessario tanto sonno profondo. Un soggetto, quindi, può dormire solo cinque ore ma se fa molto sonno profondo è protetto lo stesso dal rischio di demenza. Ecco perché l’analisi dei dati soggettivi non è sufficiente. Anche la posizione del corpo potrebbe essere cruciale per la protezione contro la neurodegenerazione: il sistema glinfatico funziona meno bene se si riposa in posizione supina, l’ideale è stare sul fianco».

Fattori modificabili

Il sonno insufficiente, quindi, può essere considerato un fattore di rischio modificabile per la demenza? «Si è visto come la modifica di 12 fattori di rischio identificati, tra cui la depressione , l’inattività fisica, l’ ipertensione non trattata in età media, l’obesità, l’uso di tabacco e il diabete , potrebbe prevenire o ritardare fino al 40% delle demenze», dice Ferini Strambi. «Ci sono poi altri fattori non modificabili: l’età avanzata, il sesso, la storia familiare, le gravi lesioni cerebrali traumatiche e le mutazioni genetiche predisponenti. Sono necessari ulteriori studi per chiarire la complessa relazione tra sonno e neurodegenerazione, ma i dati già disponibili indicano che dovrebbe esserci una maggiore attenzione ai problemi del sonno come bandiera rossa per possibili disturbi della demenza in fase iniziale».

Ruolo dei farmaci

È possibile difendersi dal rischio di demenza trattando l’insonnia, ma senza curarsi da soli. «Non si può dire che chi prende i farmaci ipnotici prescritti dallo specialista ha un maggiore rischio di demenza», aggiunge l’esperto. «Molti di coloro che li assumono in modo cronico non hanno risolto il problema dell’insonnia quindi è difficile stabilire, sui grandi numeri, se il possibile aumento del rischio è legato all’assunzione di un farmaco o alla persistenza dell’insonnia nonostante la terapia. Ci sono tanti elementi da considerare: la durata della cura, l’associazione con altri prodotti, le caratteristiche del farmaco a breve o a lunga emivita (il tempo necessario perché la concentrazione di una sostanza farmacologica si riduca alla metà di quella iniziale). È importante sottolineare che le linee guida indicano la terapia cognitivo-comportamentale specifica per l’insonnia come il trattamento più importante. Di solito si svolge in sedute singole e di gruppo e impegna una volta alla settimana per due mesi. La cura combinata, quella cognitivo-comportamentale più il trattamento farmacologico, va valutata in modo più approfondito solo dal medico. L’insonnia non è un’unica malattia, è un disturbo con molte facce perché ci sono diversi fenotipi di insonnia. Ignorare l’eterogeneità dei soggetti affetti da questo disturbo porta a diagnosi inadeguate e a trattamenti inefficaci. È necessario promuovere interventi personalizzati perché non esiste una terapia uguale per tutti».

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La tabella delle ore di sonno

I valori della tabella indicano il numero ideale di ore di sonno per ogni fascia d’età. «Sono valori teorici che spesso non sono compatibili con le esigenze della vita di tutti i giorni», conclude Ferini Strambi. «Per capire se si riposa abbastanza, il primo passo è scoprire il proprio cronotipo : normali, «allodola» (ci si alza e si va a dormire presto), «gufo» (ci si alza e si va a dormire tardi). Durante una vacanza o in qualsiasi momento se la vita lavorativa lo permette, per una decina di giorni non puntare la sveglia e andare a dormire sempre alla stessa ora. Tolti i primi giorni in cui il corpo recupera e quindi è facile che si riposi di più, in quelli successivi si vede quanto naturalmente dormiamo. A questo punto si è identificato il cronotipo. Il secondo passo è chiedersi: «Come mi sento al mattino al risveglio?». «Riesco ad affrontare tutte le cose bene durante la giornata?». Avendo inquadrato il proprio cronotipo, il «gufo», per esempio, sa che per rispondere dovrà valutare non solo il fatto che la mattina è normale che si senta stanco, ma dovrà considerare se durante la giornata carburerà sempre meglio. Infine, una volta determinato il fabbisogno naturale di sonno si può provare a fissare il nuovo orario per andare a letto che permetta di dormire a sufficienza per svegliarsi bene».

16 marzo 2023 (modifica il 16 marzo 2023 | 08:04)