24 ottobre 2023 - 19:17

Speranza, sentimento intenso per non sparire (e non sparare)

Dea pagana, virtù cristiana, pianta dalle radici solidissime nel tempo dell’incertezza e della paura. Utilissima per parlare di scuola

di Paolo Fallai

Speranza, sentimento intenso per non sparire (e non sparare) Illustrazione di Doriano Solinas
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Questa è una parola che si coltiva, come una buona pianta alla quale viene naturale affidarsi e può dare frutti generosi. Ma la speranza ha anche radici inaspettate, capaci di portarci in territori meno ospitali e sorprendenti.

Primo ingrediente, la fiducia. La speranza è un sentimento, su questo non c’è discussione. Rappresenta l’aspettativa verso la realizzazione di quanto noi ci auguriamo. Componente fondamentale della speranza è la fiducia, la convinzione che la situazione possa risolversi, che una crisi si risolva, che un incidente possa essere superato. Meta finale della speranza è la salvezza, la guarigione da un male, il superamento di un dolore.

Un fiore e una antica devozione. Abbiamo ereditato la speranza dal latino sperantia, a sua volta figlio di spes. E Spes, con la maiuscola, era una divinità romana, personificazione della speranza, raffigurata da una giovane ragazza con un fiore in mano e la veste sollevata sul fianco sinistro. Almeno questo abbiamo saputo dalle tracce che ci sono rimaste.

Una fondamentale virtù. Per la dottrina cristiana la speranza è una delle tre virtù teologali, insieme alla fede e alla carità. Sono le virtù che consentono all’uomo di vivere in relazione con la divinità e sono alla base della morale cristiana. A differenza delle virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza) le virtù teologali non possono essere ottenute dalla semplice volontà umana ma sono infuse nell’uomo dalla grazia divina.

Una forza un po’ vaga. Una delle caratteristiche della speranza è di essere un sentimento che non ha contorni molto definiti. Spesso non ha bisogno neanche di indicare un obiettivo particolare. Può essere invocata per qualunque tipo di aspettativa, anche quella più generale di raggiungere la serenità, di superare un ostacolo fino al raggiungimento di una non meglio precisata felicità. Per contro questo sentimento non ha bisogno di appigli particolari. Si può coltivare e vivere una speranza semplicemente come massaggio emotivo ai nostri stati d’animo per consentirci di non cadere nel pessimismo.

Una presenza lieve ingombrante. Con queste caratteristiche la speranza, entrata molto presto nella giovanissima lingua italiana, si è conquistata uno spazio sempre più ampio, oltre a una vaga aspirazione al bene e alla felicità. Come segnalano molti vocabolari si può definire una speranza anche «una persona giovane che intraprende con ottimi risultati un’attività soprattutto sportiva o artistica e fa sperare nella sua completa affermazione» (Tullio De Mauro).

Nel linguaggio comune. Così come sono numerose locuzioni nate intorno a questa parola per aiutarci a definire precise situazioni. Per una persona «di belle speranze» si prevede un futuro ricco di affermazioni. La «speranza di vita» è l’espressione che viene usata per indicare il numero medio di anni che un individuo può aspettarsi di vivere (ogni scongiuro è ammesso, soprattutto da parte di chi non crede alla scaramanzia). Per contro «perdere le speranze» ci dice senza mezzi termini che la situazione è veramente disperata (parola peraltro composta dal prefisso privativo dis e dal participio sperata). Soprattutto perché a dar retta ai proverbi «la speranza è l’ultima a morire», o per citare gli antichi «Spes, ultima dea» con riferimento alla divinità pagana.

A proposito di radici. Colpisce che alla lontana origine della spes concorra una radice «spa», «guardare avanti», che si insinua in verbi lontanissimi dalla speranza come sparare (prima delle armi da fuoco descriveva il lancio delle armi verso il nemico, come lance e giavellotti) o come sparire (cioè sottrarsi alla prospettiva dello sguardo).

Una lingua comune. Da quando le lingue si sono evolute, caratterizzandosi in idiomi molto diversi uno dall’altro, c’è il sogno di un linguaggio comune comprensibile ai quattro angoli del globo. Uno degli esperimenti più importanti venne tentato tra il 1872 e il 1887 da un medico e linguista polacco, Ludwik Lejzer Zamenhof, che lavorò al progetto di una lingua internazionale firmandosi con lo pseudonimo «Doktoro esperanto», dottore speranzoso. Per questo quella lingua è universalmente nota come Esperanto.

Una confessione. A questo punto l’autore di questa rubrica vi deve una confessione. Da quando collaboro con un disegnatore raffinato come Doriano Solinas, che illumina le mie parole col suo tratto inimitabile, è consuetudine che io mi consulti con lui sulle parole che mi accingo ad affrontare. Così è stato anche questa volta: volevo sfruttare l’occasione per parlare del libro «Non sparate sulla scuola – Tutto quello che non vi dicono sull’istruzione in Italia», scritto da due preziose giornaliste, Gianna Fregonara e Orsola Riva, pubblicato da Solferino. Nell’impeto di chiedere a Doriano un disegno sul verbo «sparare», la tastiera del mio computer ha scritto «sperare», e me ne sono accorto quando mi è arrivato il bellissimo disegno che la illustra.

Un auspicio. Ho subito pensato che era veramente l’occasione per parlare di speranza, visto quello che succede. E che era una parola adatta per accompagnare proprio il libro che vi voglio consigliare (e se non vi fidate di me leggete la bella recensione che gli ha dedicato Aldo Cazzullo). Gianna Fregonara e Orsola Riva non ci accompagnano solo nell’esame puntuale e documentato della «scuola immobile», o nell’inutile nostalgia verso una scuola migliore che non è mai esistita. Ci ricordano che «nessuno va lasciato per strada». Lo sostenevano Gianni Rodari e Mario Lodi, lo ripeteva Don Lorenzo Milani che ha rivoluzionato il concetto di scuola da un casolare cadente nel disperso borgo di Barbiana. Insomma, Gianna Fregonara e Orsola Riva hanno scritto un libro d’amore e di speranza per la scuola (sperare, altro che sparare). Richiamando tutti «non solo a parole, sull’importanza di investire sull’istruzione e sul capitale umano». Perché «come sosteneva già Benjamin Franklin nessun altro investimento paga migliori interessi».

Post scriptum: Caro Doriano, prepariamo un disegno sulla parola refuso. Presto ci sarà utile.

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