Nicola Pietrangeli: «Non so ancora perché è finita con Licia Colò. Presentai io Fenech a Montezemolo. La mia notte con la Coppa Davis e il gatto»

di Gaia Piccardi

Il più grande tennista italiano si confessa: «Con Licia Colò non so perché è finita. Io e Edwige eravamo a cena assieme. La difesa del viaggio in Cile per la Coppa Davis è una delle cose di cui vado più fiero»

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Spaghettino al dente, pomodoro e peperoncino, affacciato sul campo-gioiello del Foro Italico che porta il suo nome. Sabato il più grande tennista italiano di tutti i tempi (aspettando Matteo Berrettini e Jannik Sinner) compie 88 anni.

Nicola Pietrangeli, sono quasi diciotto lustri. Leggeri o pesanti, da reggere sulle spalle?
«Pesanti. Comincio a pensarci troppo».

A cosa?
«A quello che c’è dopo».

Cosa s’immagina?
«Non voglio saperlo. E se proprio dovrò continuare a fare sport anche nell’aldilà, al campo da tennis preferirei un prato per giocare a pallone».

Vecchio cuore laziale.
«Tre anni nelle giovanili, tutte le mattine stavo da Maestrelli a Tor di Quinto. Ma il pallone non è un rimpianto: il tennis mi dava più libertà, viaggi, bella vita».

Pochi soldi, però.
«Quest’anno chi ha vinto a Parigi ha preso 1.400.000 euro. A me nel ‘59 e nel ‘60 diedero 150 dollari e una coppetta grande come un bicchiere. Sono nato nell’epoca sbagliata. Però ai miei tempi bisognava anche saper giocare a tennis...».

Oggi non più?
«Sono macchine, li vede? Mi alzo in piedi solo per Roger Federer e Martina Navratilova».

E gli eredi, Berrettini e Sinner?
«Servizi mostruosi, violenza inaudita. Bravissimi, per carità. Ma noi giocavamo anche per il pubblico, ai campioni moderni non gliene frega niente. Ogni palla vale 50 mila dollari, pensano solo a se stessi».

Pietrangeli è Pietrangeli, però.
«I giovani non hanno memoria, sono ignoranti. Ho vinto 44 tornei e quattro titoli del Grande Slam su sette finali, tra singolare, doppio e misto. Matteo in finale a Wimbledon ha battuto il mio record dopo 61 anni: forse non era così facile arrivarci!».

Partiamo dall’inizio, Nicola. Perché i suoi nonni emigrarono in Tunisia?
«Emigrò nonno Michele, che era di un paesello vicino a L’Aquila. Un giorno, di colpo, prende una nave e sbarca a Tunisi per fare il muratore. Si compra una carriola, due carriole, un cavallo, diventa costruttore. A Fiuggi conosce una signora napoletana, la sposa. In Nordafrica fanno cinque figli, tra cui Giulio, mio padre. Quando nasco io, papà non ha ancora sposato Anna De Yourgaince, scappata dalla guerra di Russia e già sposata con un conte. Lo sanno in pochi ma io sul passaporto sono Nicola Chirinsky Pietrangeli. Madrelingua francese e russo. Quando sono arrivato a Roma non parlavo una parola d’italiano».

L’ha studiato?
«Mai. L’ho appreso parlandolo. A vent’anni mandai una lettera d’amore a un filarino dell’epoca. Ti amo, robba da matti, scrissi. E lei: basta una b sola. Che figura...».

Torniamo in Tunisia, protettorato francese. Arriva la guerra. Che ne è dei Pietrangeli?
«Ci salviamo dai bombardamenti, con l’occupazione alleata papà è internato in un campo di prigionia alla frontiera con la Libia. Con mamma andiamo a trovarlo una volta al mese. C’è un campo da tennis, io e mio padre ci iscriviamo al torneo di doppio. Vinciamo. Un pettine ricavato dalle schegge di una bomba è il primo premio della mia carriera».

Perché a 18 anni, tra Francia e Italia, ha scelto il passaporto italiano?
«Stavo qui, già vincevo a tennis, mi trovavo bene. Mai pensato di diventare francese, giuro».

Ha avuto più donne o match point, Nicola?
«In vita mia, ho amato quattro volte: Susanna, la madre dei miei tre figli, Lorenza, che mi ha lasciato perché non la sposavo, Licia, con cui ancora non ho capito perché è finita, e Paola, 60 anni, con cui ci frequentiamo. Non vorrei passare per maschilista ma vestito di bianco, sullo sfondo rosso o verde di un campo, facevo la mia figura...».

Una donna che non ha avuto?
«In un periodo in cui ero libero, e lei era libera, sono uscito con Edwige Fenech. La porto a cena, al tavolo accanto c’è Luca di Montezemolo, glielo presento. Mi sono dato la zappa sui piedi da solo ma che facevo, finta di non conoscerlo?».

Dove tiene le coppe e i trofei di una vita?
«A Casal Palocco, in campagna, dove vivevo con Licia, entrarono i ladri e rubarono tutto. Ma molto mi rimane nella casa di Roma: targhe, collari, la replica della Coppa Davis».

La mitica vittoria del ‘76, da capitano, nel Cile di Pinochet.
«La difesa del viaggio a Santiago per giocare la finale è la cosa di cui vado più fiero, l’unica che non sono disposto a dividere con nessuno, perché di quel trionfo hanno cercato di impossessarsi in troppi. Il merito sportivo è solo dei tennisti, ma a giocare laggiù li portai io. Contro tutto e tutti. Mi rifiutai di regalare la coppa a Pinochet. Con Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli partimmo scortati dalla polizia, le minacce di morte non le scordo. Capisce perché non posso avere simpatia per la sinistra?».

La notte a letto con la Davis la ripagò delle amarezze?
«Tornati dal Cile, partecipammo a una festa alla Canottieri Roma, alla presenza del presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Alla fine, non era stato previsto che la coppa venisse riconsegnata al caveau della banca: nel panico generale la portai a casa io e ci dormii abbracciato. A letto, a dire la verità, eravamo tre: io, la Davis e il gatto».

Chi è il più forte tennista di tutti i tempi?
«Nessun dubbio: Roger Federer».

Il più forte che lei abbia mai sfidato?
«Rod Laver. Anche se Lew Hoad, sulla partita secca, era formidabile».

E Djokovic dove si colloca?
«Non supererà Federer, neanche se realizzasse il Grande Slam. Diciamo che è un grande che non sarà mai il più grande».

Un amico che le è rimasto dal tennis?
«Manolo Santana. Ha cinque anni meno di me ma non parla più, che tristezza».

E Orlando Sirola, compagno di mille doppi, cos’era?
«Un fratello».

Panatta è un figlioccio, un amico, un rivale o un collega?
«Quando Ascenzio Panatta, custode del Tc Parioli, venne a dirmi che era nato il figlio Adriano, lo ribattezzai Ascenzietto. Lo conosco da quando era in culla. Nel 1968, ai campionati italiani, mi trovo di fronte questo giovinastro che mi ammazza di smorzate. A regazzì, gli dico al cambio di campo, le palle corte le ho inventate io. Vinco. A rete il ragazzino mi fa: la saluta tanto papà Ascenzio. Era Adriano».

Nicola come s’immagina l’ultimo game di questa strepitosa partita?
«Il mio funerale si terrà sul campo Pietrangeli, al Foro Italico. Sa perché? Perché si trova facilmente posteggio. Due preti, cristiano e ortodosso: sono russo, ricorda? Musica di Barry White e Frank Sinatra, che conobbi al torneo di Indian Wells. E se piove, si rimanda tutto al giorno dopo. Non vorrei che le signore si bagnassero le scarpe».

7 settembre 2021 (modifica il 7 settembre 2021 | 12:10)