I termovalorizzatori: come funzionano e perché sono molto meglio delle discariche

di Gianluca Mercuri

Il caso Roma riaccende il dibattito. Che cosa dicono le evidenze scientifiche e qual è la differenza tra i vecchi impianti (inquinanti) e quelli di nuova generazione

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«È scientificamente riconosciuto che le preoccupazioni sui potenziali effetti sulla salute degli inceneritori riconducibili a inquinanti potenzialmente presenti nelle emissioni, quali metalli pesanti, diossine e furani, sono da ricondurre a impianti di vecchia generazione e a tecniche di gestione utilizzate prima della seconda metà degli anni Novanta».

Ma:

«Un impianto di incenerimento ben progettato e correttamente gestito, soprattutto se di recente concezione, emette quantità relativamente modeste di inquinanti e contribuisce poco alle concentrazioni ambientali. Pertanto, non si ha evidenza che comporti un rischio reale e sostanziale per la salute».

A queste conclusioni arriva il «Libro bianco sull’incenerimento dei rifiuti urbani» qui lo trovate in edizione integrale —, scritto nel 2021 da professori del Politecnico di Milano (Stefano Cernuschi, Mario Grosso e Federico Viganò), del Politecnico di Torino (Maria Chiara Zanetti e Deborah Panepinto), dell’Università di Trento (Marco Ragazzi) e dell’Università di Roma 3 Tor Vergata (Francesco Lombardi e Andrea Magrini).

È il più aggiornato e qualificato studio italiano sull’impatto che gli inceneritori, o termovalorizzatori, hanno sulla salute e la qualità della vita dei cittadini. E stabilisce una verità scientifica difficilmente piegabile alle tesi preconcette o alla propaganda. La verità è che gli impianti davvero obsoleti, quelli cui si riferiscono «gli studi condotti in periodi di riferimento antecedenti il 1996», erano gli «inceneritori di vecchia generazione, (di cui) qualcuno mal gestito e pertanto in alcuni casi caratterizzati da elevati livelli di emissione». Quel tipo di impianti ha aumentato il rischio di tumori allo stomaco, al colon, al fegato e ai polmoni.

Ma, afferma il Libro bianco, il discorso che riguarda gli inceneritori costruiti negli ultimi vent’anni è completamente diverso. Questi impianti di nuova generazione, vale la pena ripeterlo, emettono «quantità relativamente modeste di inquinanti». E precisamente: lo 0,03% delle Pm10, lo 0,007% degli Idrocarburi Policiclici Aromatici e lo 0,2% di diossine e furani (le combustioni commerciali e residenziali emettono per ogni voce il 53,8%, il 78,1% e il 37,5%).

«A conclusioni simili», aggiunge il sito Pagella politica, «sono arrivati anche studi recenti, pubblicati su interviste internazionali, per esempio nel 2019 e nel 2020. Si tratta di systematic reviews (o “revisione sistematiche” in italiano), ossia di ricerche scientifiche che hanno a loro volta analizzato la letteratura scientifica per indagare, appunto, cosa sappiamo finora sull’impatto dell’incenerimento dei rifiuti. Anche in questo caso, la conclusione è stata che inceneritori e termovalorizzatori non hanno un “impatto zero”, ma questi impatti sono rilevanti e dannosi soprattutto per quanto riguarda gli impianti più datati o dove non sono state rispettate le regole per limitare le emissioni».

Il dibattito sui termovalorizzatori si è, viene proprio da dire, riacceso da quando il sindaco di Roma Roberto Gualtieri ha annunciato la decisione di costruirne uno anche nella Capitale, scontrandosi con l’opposizione dei 5 Stelle (ce ne siamo occupati nella Rassegna del 21 aprile). Il leader del Movimento Giuseppe Conte ha motivato il suo no sostenendo che l’impianto avrà «conseguenze negative», con l’emissione di «fumi inquinanti», di «ceneri leggere e pesanti», e di composti chimici, come «diossine, Pcb» (i policlorobifenili) e «furani».

Come si vede, sono argomenti smontati dalla letteratura scientifica. È intuitivo che la soluzione ideale sarebbe il riciclo totale: il problema è che non è possibile. Perché non tutti i materiali si possono riciclare e perché il riciclo produce comunque scarti (circa il 20% del materiale riciclato). Restano dunque due soluzioni: incenerimento o discarica. Come ha scritto su lavoce.info Massimo Taddei (lo abbiamo citato anche nella Rassegna di ieri), «l’impatto dello smaltimento dei rifiuti tramite termovalorizzatore è otto volte inferiore rispetto all’uso delle discariche tradizionali». A questo «va aggiunto il recupero di energia, che riduce ulteriormente le emissioni».

È il cosiddetto Waste-to-Energy/Waste-to-Fuel, che, come ricordava lo scorso anno Donato Berardi sempre su lavoce, «non è la soluzione ottimale per arrivare a un ciclo dei rifiuti ambientalmente sostenibile» perché le famose 3 R riduzione, riuso e riciclo — sono largamente preferibili. E però, dal punto di vista dell’impatto ambientale, «rimane sempre migliore dello smaltimento in discarica». Infatti, spiega Taddei, «il peso dell’incenerimento sul totale delle emissioni da gestione dei rifiuti è particolarmente limitato: solo l’1% del totale, a fronte del 75% delle emissioni riconducibili allo smaltimento in discarica». In più, l’energia prodotta dai termovalorizzatori soddisfa il fabbisogno di circa 2,8 milioni di famiglie italiane.

Né può essere tralasciato il fatto che le regioni che usano di più le discariche non riescono a smaltire tutto con questo metodo davvero obsoleto, e quindi esportano rifiuti all’estero in impianti che si fanno pagare da noi e fanno energia bruciando i nostri rifiuti. « Il Lazio è al secondo posto per rifiuti esportati verso l’estero tra le regioni italiane. In totale, l’eccesso di rifiuti rispetto alla capacità di smaltimento e recupero è di 577 mila tonnellate all’anno, di cui poco meno del 10% finiscono all’estero e il restante viene trasferito verso altre regioni italiane. Si tratta del peggior sbilancio tra le regioni e potrebbe essere coperto proprio da un impianto di termovalorizzazione in grado di processare 600 mila tonnellate di rifiuti l’anno come quello proposto da Gualtieri».

Ma quanti sono i termovalorizzatori in Italia? Attualmente 37, producono tutti energia e secondo i dati Ispra – Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale – 16 sono stati avviati prima del 2000, ma poi sono stati ristrutturati negli ultimi 15 anni. I due impianti più recenti sono stati avviati nel 2013, a Torino e a Parma. Il problema è che sono concentrati al Nord — 26, di cui 2 0 nelle sole Lombardia ed Emilia-Romagna — mentre Centro e Sud ne hanno solo 11 (rispettivamente 5 e 6), pur essendo le zone in cui il problema rifiuti è più grave, con basse percentuali di riciclo, ampio ricorso alle discariche, gravi disservizi eppure — ne abbiamo parlato sempre nella Rassegna del 21 aprile la Tari più alta. Secondo Utilitalia, la federazione che unisce le «aziende speciali operanti nei servizi pubblici dell’acqua, dell’ambiente, dell’energia elettrica e del gas» che cura la pubblicazione del Libro bianco, la «carenza impiantistica» al centro e al Sud impedisce di trattare 5,7 milioni di tonnellate di spazzatura in più all’anno, «e se non si inverte questa tendenza, continueremo a ricorrere in maniera eccessiva allo smaltimento in discarica: attualmente ci attestiamo al 20% e dobbiamo dimezzare il dato nei prossimi 13 anni». L’Unione europea ha fissato infatti per il 2035 gli obiettivi del 65% di riciclo effettivo e di un ricorso alle discariche inferiore al 10%. All’Italia servono altri 30 impianti tra termovalorizzatori e compostaggio.

Un raffronto con l’estero, in effetti, è immediatamente indicativo: in Francia gli impianti sono 126, in Germania 96. Nel 2013 gli impianti italiani erano 50, ma la quota di rifiuti urbani inceneriti, sul totale di quelli prodotti è rimasta tra il 16 e il 18%. Nel 2019, si legge sempre nel Libro bianco, questi impianti hanno trattato 5,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani e rifiuti speciali da urbani, producendo 4,6 milioni di Mwh di energia elettrica e 2,2 milioni di Mwh di energia termica: è questa l’energia (rinnovabile al 51%) che copre il fabbisogno di quei 2,8 milioni di famiglie.

Ma come funziona un termovalorizzatore? Come ha spiegato il Sole 24 Ore, «i rifiuti non riciclabili vengono conferiti all’inceneritore e scaricati nella vasca di raccolta e miscelazione. Da lì vengono caricati nelle caldaie delle tre linee di combustione, la cui temperatura è regolata a oltre 1.000 gradi, per l’ossidazione completa dei rifiuti. Il calore prodotto dalla combustione genera vapore ad alta pressione, che viene immesso in un turbogeneratore per la produzione di energia elettrica e, successivamente, utilizzato per scaldare l’acqua che alimenta la rete del teleriscaldamento della città. Ogni linea di combustione ha un trattamento fumi dedicato.Già nella camera di combustione i fumi vengono trattati con ammoniaca, per abbattere gli ossidi di azoto. Successivamente passano attraverso un sistema catalitico per l’ulteriore riduzione degli ossidi di azoto e di ammoniaca. In uscita dal circuito della caldaia, arrivano a un sistema di depurazione e filtrazione, che trattiene i microinquinanti, tra cui metalli pesanti, diossine e furani. I fumi depurati passano attraverso filtri a maniche, che trattengono tutte le polveri in sospensione, e quindi convogliati al camino».

Ce n’è abbastanza, insomma, per capire che la svolta di Roma è molto, molto importante.

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Le fonti di questo articolo: Libro bianco sull’incenerimento dei rifiuti urbani, Pagellapolitica, lavoce.info, Sole 24 Ore

11 maggio 2022 (modifica il 19 luglio 2022 | 11:36)