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Dall’animale macchina alle macchine animali: Benedetta Piazzesi e la resistenza degli animali

Con “Del governo degli animali” Benedetta Piazzesi ricostruisce come si è sviluppato il potere umano sugli animali  a partire da quegli argomenti filosofici che hanno contribuito alla sua naturalizzazione. Il concetto di biopolitica deve quindi aiutare a precisare le condizioni storiche in cui il potere ha cominciato a rivolgersi a tutti i viventi, umani e non umani

«Parlare dell’utilizzo degli animali è una faccenda densamente storica», scriveva Benedetta Piazzesi in Muti discorsi e corpi eloquenti. L’analisi che si rivolga alla “semplice” ideologia dello specismo, ossia a quella rete di verità discorsive in cui l’animale non umano viene compreso come essenzialmente (naturalmente) inferiore all’animale umano spesso dimentica, al di là delle fila della maglia e del discorso, gli oggetti e le strutture materiali entro i quali la relazione dell’animale umano con l’animale non umano si è storicamente costituita – le strutture entro le quali gli animali non umani sono stati materialmente, concretamente, nutriti, fatti crescere e ri/produrre, fatti a brani e sterminati. Come voleva Marx, la raffinatezza degli strumenti di difesa elaborati dalla proprietà per la proprietà dice anche, e forse soprattutto, della raffinatezza sviluppata lungo secoli di rincorsa del più silenzioso delinquente: la storia della serratura è anche la storia del delitto che, oltre questa stessa serratura, è più spesso evaso, rimanendo insondabile. Proprio in una simile densità storica s’immerge Del governo degli animali. Allevamento e biopolitica, recentemente pubblicato da Quodlibet, testo che prosegue, o mette in tensione, il percorso di Così perfetti e utili, precedente volume di Piazzesi in cui si insinuava forte il dubbio: il discorso sull’animale è un processo di veridizione? O è piuttosto oggetto oracolare e circolare, che si rivolge non a un fatto (l’animale, naturalmente) ma a un feticcio (l’animale dell’allevamento, l’animale del laboratorio, già dall’umana tecnica prodotto e reso, appunto, perfettamente utile e ri/produttivo)?

Storicamente differenti sono stati i processi tramite i quali fissare gli animali dentro il recinto dell’allevamento, del laboratorio, la gabbia dello zoo e le sbarre del circo; e storicamente differenti le forme di potere attraverso cui i corpi degli animali sono stati disciplinati, resi mansueti, comprensibili, prevedibili e commestibili. Se la pratica d’assoggettamento dell’animale non umano è stata poi laboratorio di pratiche d’assoggettamento di (altr*) umani, è vero che spesso è accaduto anche il contrario e che l’esercizio del potere non ha mai dimostrato imbarazzo davanti alla linea che dovrebbe distinguere e separare nettamente l’umano dall’animale. Questo perché, in termini di potere (inteso secondo la genealogia nietzschiana prima e foucaultiana poi), questa linea non è uno spartiacque ma prevede piuttosto molteplici vie di percorrenza, o meglio, è percorsa da spettri fino a essere spettro essa stessa. Così nel 1847 il socialista Alphonse Esquiros, al Jardin des Plantes di Parigi, riconosceva nella stretta morsa della gabbia e del giogo non il dominio effettivo dell’uomo sull’animale, quanto invece uno scontro ancora vivo e indefesso tra volontà – in cui quella animale non risultava ancora addomesticata e veniva pertanto contenuta (ora a stento, ora con successo) da un dispositivo repressivo. Esquiros registrava questa tensione non già con la prospettiva di quella che sarà la storiografia animale “dal basso”, ma con note di rammarico: perfettibile è ancora quel potere che deve reprimere gli urti dei corpi perché non sa far presa sul volere, mettere mano all’interiorità delle coscienze. Più utile sarebbe allora un potere produttivo, un potere letteralmente pastorale, capace di trovare vantaggio nelle qualità fisiche e morali degli animali – e di accrescerle a vantaggio dell’Uomo, attraverso una più saggia gestione della loro ri/produzione, della specializzazione delle razze, della stabilizzazione dei caratteri più mansueti e così via. Un programma che prenderà corpo, in tutti quei corpi considerati da reddito e, quindi, resiredditizi, nella “domesticazione” nata negli anni Trenta dell’Ottocento.

Densamente storica, e certo non lineare, è la storia delle relazioni che hanno visto interagire l’uomo e gli animali non umani. Basti pensare al semplice fatto che una simile, e nuova, attenzione nei confronti dei mœurs delle bestie sarebbe stata altrimenti impensabile all’interno di un paradigma prettamente meccanicista (l’animale-macchina di Cartesio forse geme quando lo si percuote, ma il suo suono è scemo come lo stridio del perno che fatica a scorrere nel cardine), paradigma che troverà nuove spoglie e nuova auge con l’affermarsi della zootecnia, la scienza industriale definita nei suoi ultimi termini da de Gasparin e Baudement e che ha prodotto le macchine animali. È a questa altezza, infatti, che l’animale viene inquadrato come «vero e proprio strumento di valorizzazione economica delle materie prime: il lessico meccanicista ne risulta declinato in un nuovo senso ingegneristico e industriale, in cui l’economia animale è ripensata nei termini di “dépense” e “rendement” (p. 203). In tal modo, le redini delle leggi fisiologiche dell’organismo sono messe in mano, forse per la prima volta in modo tanto capillare e certosino, alle leggi del mercato. Ricostruire l’andamento di questi mutamenti è un esercizio di ricostruzione della storia di quegli agenti altrimenti considerati muti. «Mettersi in ascolto dei “silenzi ribelli e ostinati” […] significa riconoscere l’agentività di quei soggetti che non scrivono la storia ma nondimeno la forgiano» (p. 102), di quelle classi subalterne che, con Gramsci, effettivamente non lasciano tracce del loro tragitto – perché le lasciano in una lingua che non è quella della classe egemone e che però si oppone, ostinata, caparbia (come un animale!) al suo complesso di casematte. Ancora con Gramsci, non c’è da fidarsi del discorso, quando ci parla (come fa con l’animale) di pura spontaneità o pura meccanicità: simili paradigmi sono piuttosto spia di un’incomprensione, di un’incapacità o di una noluntas di includere, nel conto dei soggetti politici, gli incontrati (s)oggetti di resistenza, autentiche pietre d’inciampo e d’ostruzione. Agli animali non umani è stata a lungo negata, per queste vie, la possibilità di una storia, di una cultura, di una traiettoria che non corrisponda al naturale ciclo delle cose, sempre eguale a sé stesso o legato a doppio, triplo filo alla necessità biologica dell’istinto.

«Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciano a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale», scrivevano Marx ed Engels ne L’ideologia tedesca. Ci si potrebbe chiedere allora se l’animale, come immobile mezzo muto, non sia semplicemente un animale ormai da tempo privato dei mezzi di produzione – e così immobilizzato, ammutolito, ridotto in schiavitù secondo quel processo di accumulazione originaria che, lungo la linea di specie, corre senza mai esaurirsi, senza essersi ancora esaurito. Se la storia naturale che da Marx a Benjamin fino a Gramsci e a Rensi altro non è che la vittoria di un interesse su un altro, di un’idea di mondo, di una lingua e di un’idea di giustizia su altre, ci si può chiedere se non sia avvenuto, e avvenga, lo stesso fra umani e animali e se la tanto decantata unicità della cultura umana non sia semplice deposito di una posta in gioco. O monopolio sottratto e mantenuto al riparo dal delinquente con abili lacci, catene e lucchetti. Scriveva per esempio Rensi che «la cultura nasce sempre solo mediante il formarsi di due classi, lo staccarsi dalla classe lavoratrice di alcuni membri di essa e il loro costituirsi in classe borghese (sia pure con nome diverso): in classe, cioè, che vive a spese di chi lavora in senso proprio». Un meccanismo questo che l’antica Atene nominava con candore e che la nostra contemporaneità nasconde e mitiga, forse, sotto il sistema salariale. L’animale non umano, se osservato in quest’ottica, ci appare improvvisamente come il polo sconfitto, depredato e predato, del quale l’essere culturale che invece è l’Uomo si nutre, profittando di un tempo di lavoro e di un ri/prodotto che non gli appartengono, ma che continuamente estrae da altre specie. Estrazione che avviene in maniera estremamente raffinata – di questa progressiva estrazione, dei suoi ritmi e delle sue modulazioni, racconta proprio Del governo degli animali che, seguendo la lezione di Foucault, insegue le animali vite infami nella loro ribellione, attraverso lo studio dei dispositivi di disciplinamento e di ortopedizzazione, ovverosia attraverso i resoconti degli allevatori, della medicina veterinaria e dei suoi maggiori esponenti, dei filosofi e dei fisiologi. «Non è un caso che gli allevatori siano i primi testimoni della resistenza animale, talvolta in aperta contraddizione con le concezioni meccanicistiche della propria epoca: chiunque sia concretamente implicato in un’operazione di sfruttamento animale sa che deve far fronte a tale resistenza e sapere come eluderla. Lungi dal configurarsi come un dominio unilaterale su dei soggetti passivi, quello dell’uomo sugli animali è dunque un potere che si dà nella forma di una relazione di conflitto e negoziazione, in cui la resistenza animale ha una parte importante» (p. 106).

A dispetto dell’ormai diffusa accettazione del monito foucaultiano a favore del superamento del concetto di potere sovrano, il fatto che gli animali non umani non vengano inclusi nel novero di quei «(s)oggetti di precise tecnologie governamentali» (p. 90) sembra quantomeno un’omissione sospetta – «più difficile», scrive Piazzesi, «risulta rendere conto dell’esclusione degli animali dalla sfera politica» (p. 89). La storia del governo degli animali ricostruita dall’autrice appare quindi come processo degli animali a tale governo – lə storiografə che vi si approcci si trova davanti una materia che, come scriveva Benjamin, «rivela una provenienza che non può considerare senza orrore», perché «tutto ciò deve la sua esistenza», prima che ai grandi nomi di chi ha scritto la storia, «al servaggio senza nome dei loro contemporanei». Ecco perché tale registro è sia documento della cultura che, in egual misura, documentodella barbarie (e della proprietà e del delinquente che vi ha messo mano); cosa tanto più vera se la storia umana è effettivamente monopolio culturale estratto da una classe animale resa assieme forza lavoro, forza ri/produttiva e, infine, merce, bene di consumo, e se le culture umane si sono effettivamente costituite attraverso uno sfruttamento differenziato e differenziale delle altre specie animali (e non) – lungo assi detti biologici come il genere e la razza (e, appunto, la specie). Piazzesi delinea così una «storia dei rapporti di potere, che non osa sostituirsi all’intimità dei sommersi né si accontenta di replicare il protagonismo dei vincitori» (p. 104).

Anche le soggettività animali hanno conosciuto, racconta Piazzesi, il momento in cui le strategie di governo non si sono più rivolte ai loro corpi ma alle loro menti, informando sulle inclinazioni alla loro possibile insorgenza per non doverle più combattere; anche le soggettività animali hanno conosciuto il macabro gioco del centro e della periferia dell’Impero – «acclimatazione» era il tentativo di ricostruire un edenico paradiso in terra reale dove, sotto l’occhio paterno del sovrano, il lupo potesse vivere con l’agnello e il leone e l’elefante riposare poco accanto, entro una coesistenza ricreata e naturalizzata in modo da occultarne i processi violenti che le stanno alle spalle. Anche le soggettività animali hanno visto questo modello d’espansione tramontare, battuto nel tempo e nello spazio da un paradigma di produzione intensiva: lo sguardo ha infine rinunciato a carezzare il corpo esotico e, piuttosto, forma corpi più performanti in patria, attraverso un’oculata selezione delle razze (zampe più corte per impedire la fuga, mammelle più gonfie per trarne più latte, corpi pesanti e rigonfi di carne per massimizzare il profitto…). E tutti quei corpi, in ogni caso, alla fine smembra, e riloca, in pezzi, in altre parti del mondo grazie alla tessitura di un’ultima rete, che è quella del commercio globale: «Tra l’animale vivo e il prodotto finito possono ormai interporsi, letteralmente, le vastità degli oceani. Sembra logico supporre che queste trasformazioni epistemologiche, tecniche e governamentali, abbiano contributo a quella dissociazione del prodotto finito dall’animale vivente, a quella rimozione delle origini del prodotto di consumo, per la quale Carol J. Adams conierà il concetto di “referente assente”» (p. 218).

Alla storia della domesticazione dell’animale si è da sempre intrecciata la storia della civilizzazione dell’Uomo, tanto che si è potuto parlare di domesticazione umana, paragonando il buon suddito a un animale sociale e docile quale l’agnello, gettando stigma sui più ribelli lupi (da sempre figura-ombra del sovrano). Animali umani e animali non umani sono storicamente stati oggetto di quella moltiplicazione di corpi e forze individuata da Foucault fra XVIII e XIX secolo: lo sono stati, entrambi, sia come riserva di forza lavoro sia come mera merce. Studiare queste tecnologie di sapere e di potere, studiarle nella loro rivoluzione – nei loro precedenti – ci aiuta a meglio comprendere l’emergenza dell’oggi, in cui, seguendo Derrida, l’assoggettamento animale è a ben vedere sterminio per moltiplicazione senza precedenti. Studiare queste tecnologie di sapere e di potere è tracciare una storia politica degli animali; tracciare quella storia che Benjamin chiedeva di passare a contropelo e che Canetti definiva una pesca. Forse non è possibile pescare, in questa storia, i modi in cui le cose sarebbero potute andare diversamente, ma è pur vero che, per essere salvata, la trasmissione del passato va continuamente strappata al discorso egemone che altrimenti la sopraffarebbe, tacitandola: è questo il modo per riconoscere le voci di chi contro e in quella storia hanno lottato. È questo il concetto di storia benjaminiano, che «ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere».

In copertina, un’immagine del film “Our Daily Bread” di Nikolaus Geyrhalter