La cintura di castità

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Alessandro il Grande e Campaspe nello studio di Apelle (Tiepolo, 1725-26)

Si racconta che Apelle, il celebre pittore greco, dovesse partire di casa per andare a fare un ritratto a Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno.
Siccome la moglie era giovane e bella e lui non si fidava di lasciarla sola, le fece indossare una cintura di castità per tutto il tempo della sua assenza. Per evitare che qualcuno la aprisse a sua insaputa, poi, la sigillò con il dipinto di un caprone; al quale, però, ebbe cura di non fare le corna.
Appena il maestro fu partito il suo migliore allievo accorse subito dalla moglie, le tolse la cintura di castità e divenne il suo amante. Poi, quando Apelle stava per tornare, le rimise la cintura e ci dipinse sopra il caprone: era il suo allievo migliore e lo fece assolutamente identico a quello originale, salvo che per quel dettaglio che il pittore aveva volutamente dimenticato.
Così, quando Apelle tornò e vide il disegno, capì quello che era successo e disse alla moglie: “Vedo che mi avete messo le corna!”.

Tra le molte leggende nate per spiegare l’espressione principe sinonimo di tradimento, questa di Apelle – come il celebre scioglilingua che lo vede alle prese con una palla di pelle di pollo – è senza dubbio tanto deliziosa quanto poco credibile. Per un motivo molto semplice: al centro del racconto c’è un falso storico. La cintura di castità, infatti, non è mai esistita. Nemmeno, a dispetto dei tanti luoghi comuni, al tempo delle crociate.

Inutile che continuiate a grattarvi la testa cercando di ricordare in quale museo ne avete vista una: tanto davanti agli occhi continuate ad avere solo l’immagine di Fantozzi che, tornato dalla guerra, caccia di casa la bamb(u)ina e si avventa sulla consorte esclamando: “Pina, dodici anni!”. Salvo poi schiantarsi su un rumore metallico, e finire dal fabbro Filinus in cerca di una copia della chiave perduta.

Uno dei falsi storici conservato al Sex Machines Museum di Praga

Secondo la tradizione la cintura di castità veniva infatti fatta indossare dai cavalieri in partenza per il Santo Sepolcro alle proprie mogli, per assicurarsene la fedeltà durante la loro assenza.
Si tratterebbe di fasce metalliche flessibili in grado di coprire i genitali e poi chiuse con lucchetti. In qualche caso, questi strani arnesi diventavano veri e propri strumenti di tortura dotati di denti acuminati, che ingabbiavano i genitali e costringevano a desistere da intenti lussuriosi persino il più focoso degli amanti.

La verità è che la cintura di castità è un’invenzione squisitamente contemporanea: oggi se ne trovano in commercio di ogni genere, sia maschili che femminili e sono ricercatissime dagli amanti di bondage e del sadomasochismo che le usano per affiancare catene, guinzagli, tacchi affilati e fruste. In commercio ne esistono di ogni foggia e materiale, vengono vendute soprattutto online e i prezzi variano da poche decine a centinaia di euro.

Nel gennaio del 2016, a Padova, una donna sessantenne, con un certo imbarazzo, ha dovuto chiedere l’intervento dei vigili del fuoco perché mettessero in salvo le sue parti basse, intrappolate in una cintura di castità del cui lucchetto aveva sventuratamente smarrito la chiave.
Del repressivo accessorio ne esibiva un esemplare in pelle anche Ugo Tognazzi, insidiato dalle focose sorelle Mariangela e Anna Melato, nel film Casotto di Sergio Citti; nel Medioevo, però, non c’è traccia di uno strumento del genere.

Non si tratta infatti che dell’ennesima bufala divulgata nell’Ottocento per rafforzare l’idea del Medioevo come epoca oscura, barbara e maschilista.
Il mito di uno strumento che impedisse i rapporti sessuali risale all’epoca romana, ma si trattava di una semplice fascia di stoffa intesa come un simbolo di castità e si ritiene che anche nel Medioevo i riferimenti alla cintura che si trovano nelle opere di Boccaccio e Rabelais fossero solo invenzioni letterarie dalla valenza simbolica.

Va detto anche che se il “Cingulum castitatis” che compare nei testi di Gregorio Magno, Alcuino di York e san Bernardo di Clairvaux è un simbolo di purezza teologica e non certo un oggetto di dissuasione erotica, la promessa di castità tra due innamorati compare solo in alcuni poemi del XII secolo, con la donna che chiede all’uomo di annodarle la camicia intorno alla vita, come patto di fedeltà. Insomma un gesto squisitamente romantico e cavalleresco, che niente ha a che fare con il famigerato strumento di continenza forzata.

Il disegno di una cintura di castità dal Bellifortis di Konrad Kyeser (sec. XV)

Il primo documento in cui si affaccia qualcosa che gli assomigli è invece il Bellifortis di Konrad Kyeser: un manoscritto del 1405 dedicato alla tecnologia militare dell’epoca, nel quale compare un congegno presentato come uno strumento imposto alle donne fiorentine dai mariti preoccupati della loro fedeltà e descritto con commenti ironici dallo stesso autore; nessun’altra fonte però, ne conferma l’esistenza ed è probabile, quindi, che si trattasse solo di un aggeggio immaginario descritto con finalità sarcastiche.
In alcune incisioni del XVI secolo si trovano invece raffigurazioni di donne con una cintura tra due uomini che si scambiano denaro; in questo caso la rappresentazione porta a pensare che la donna sia una prostituta il cui protettore apre il lucchetto solo al pagamento della prestazione, ma anche in questi casi si pensa che possa trattarsi di strumenti simbolici e non di un riferimento alla realtà quotidiana.

Come lo Ius primae noctis, anche la cintura di castità è stata dunque una sorta di leggenda satirica nel tardo Medioevo prima di trasformarsi, in epoca moderna, in un vero e proprio falso storico.
Di fatto i primi esemplari iniziano ad apparire nei musei solo a partire dal 1840, ma anche quando venivano spacciati per strumenti antichi ne è stata provata la fabbricazione moderna. Al Museo d’Arte Medievale di Cluny a Parigi, per esempio, era esposta una cintura che si diceva fosse appartenuta alla regina di Francia Caterina de’ Medici (1519-1589) e solo nel 1990 i responsabili del museo si sono accorti che si tratta di un falso risalente al XIX secolo.

Va detto però che nel corso dell’Ottocento nei paesi anglosassoni le cinture di castità vengono prodotte veramente e usate dalle donne per proteggersi dal rischio di stupro o imposte agli adolescenti per impedire la masturbazione. Agli inizi nel Novecento sono registrati i primi brevetti e in qualche caso il prodotto viene pubblicizzato come strumento per assicurarsi la fedeltà delle mogli, trasformando così in realtà quello che fino ad allora era stato solo un mito.
Ancora una volta, quindi, un simbolo del Medioevo feudale e selvaggio si svela essere un prodotto squisitamente moderno che niente ha a che fare con i racconti di cui è protagonista.

D’altra parte ci sono molti motivi per cui, anche volendo, i crociati non avrebbero mai potuto utilizzare la cintura di castità con le proprie mogli.
Il primo problema che si pone è quello dell’igiene: l’apparecchio prevede piccole aperture per l’espletazione dei bisogni fisiologici, ma non tiene conto di ferite e infezioni che in tempi molto rapidi avrebbero fatto sopraggiungere la morte di chi la indossasse.
In secondo luogo, è plausibile che prima di partire i cavalieri si accoppiassero con le proprie mogli, magari nella speranza di trovare un bambino al loro ritorno, ed è evidente che la presenza di una cintura di ferro avrebbe impedito il parto. Che dire poi delle numerose poverette che, avendo perso il marito in guerra e dunque anche la benedetta chiave, avrebbero dovuto portare addosso quella fastidiosa ferraglia per tutta la vita? Tutto questo senza contare l’obiezione più semplice: qualunque serratura medievale poteva essere aperta da un fabbro in pochi secondi.

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Archiviata l’ennesima bufala medievale, nel frattempo forse qualcuno si sta ancora chiedendo da dove ha origine, invece, l’espressione “cornuto”, visto che con la cintura di castità – evidentemente – non c’entra nulla.
Ebbene, sono due le tradizioni, una mitica e una storica: quella mitica la attribuisce alla passione per un toro sacro da parte di Pasifae, moglie del re di Creta Minosse. Per potersi accoppiare con il toro la regina si era fatta costruire da Dedalo addirittura una sorta di maschera da mucca in legno: dalla singolare storia d’amore era nato da una parte il Minotauro e dall’altra l’attributo di “cornuto” per Minosse.
La versione storica dell’etimologia, invece, ci porta proprio nel Medioevo, nella corte di Bisanzio: Andronico I Comneno, imperatore d’oriente dal 1182 al 1185, aveva l’abitudine di portarsi a casa le mogli dei nemici e poi – in segno di sfregio – appendeva sui palazzi delle vittime le teste di cervi uccisi durante le innumerevoli battute di caccia.
Tutto questo finché, a finire appesa su un palazzo, non fu la sua, di testa. Forse non cornuta, ma di sicuro mozzata.

Arnaldo Casali

Consigli di lettura

Piero Angela, Alessandro Barbero, Dietro le quinte della storia, Milano, RCS Libri, 2012.
Pietro Lorenzoni, Storia segreta della cintura di castità, Pontecorboli Editore, 1989.
Le cinture di castità ovvero mezzi meccanici per assicurare la fedeltà della donna. Ricerche storiche (rist. anast. Roma, 1893), Libreria Piani, 2011.
Albrecht Classen, The medieval chastity belt. Mith-making process, Palgrave Macmillan, 2007.
A. F. Palmieri-Marinoni, Draghi, calzamaglie e cinture di castità. Il Medioevo tra realtà e fantasia, Lubrina-LEB, 2019.

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