Storia

Come si viveva nella prigione-fortezza dello Spielberg? Ce lo racconta Silvio Pellico

170 anni fa moriva Silvio Pellico, che dietro le sbarre dello Spielberg, scrisse Le mie prigioni. Ecco come si viveva in quelle celle.

Nel 1832 Silvio Pellico rese celebre il carcere-fortezza dello Spielberg con il "best-seller" Le mie prigioni. L'articolo "Allo Spielberg" di Giuliana Rotondi, tratto dagli archivi di Focus Storia, svela come si viveva in quel carcere.

I condannati. Chino su un tavolino di legno. In mano, una penna d'oca. E, sul naso, gli occhialini. Silvio Pellico (1789- 1854), il patriota torinese rinchiuso nella famigerata fortezza dello Spielberg, è spesso ritratto cosi. Non a caso: l'autore de Le mie prigioni (uscito nel 1832), il best-seller risorgimentale che fece conoscere anche all'estero i valori patriottici nazionali, fu tra i più celebri detenuti del penitenziario della Moravia (oggi nella Repubblica Ceca). Con lui, i compagni carbonari Piero Maroncelli, Federico Confalonieri e altri carbonari e mazziniani (in tutto oltre 50) che negli Anni '20 dell'800 diedero il via ai moti insurrezionali e indipendentisti contro il governo austriaco. Condannati a morte, ebbero tutti la pena commutata in carcere duro (15 anni per Pellico).

Come si viveva dietro le sbarre? Tanto per cominciare, le condizioni non erano uguali per tutti. «Oltre ai carbonari, erano detenuti mazziniani, giacobini ungheresi e delinquenti comuni. In tutto, quando arrivarono Pellico e Maroncelli (nel 1822 appunto), erano circa 300», spiega Dino Felisati, autore del saggio I dannati dello Spielberg (Franco Angeli). «Chi era condannato al carcere durissimo portava ai fianchi un ferro collegato al muro con una catena che consentiva spostamenti solo intorno al tavolo».

Alla catena. Il trattamento riservato ai nostri patrioti (cioè il carcere duro) fu meno severo: in cella dovevano portare la catena, ma solo ai piedi. Inoltre avevano, a differenza dei condannati al carcere durissimo, l'obbligo del lavoro: segare legna e lavorare a maglia. Per la precisione, dovevano produrre almeno una calza a settimana. Pena il salto del pranzo.

Detenuti di serie B. I delinquenti comuni godevano di più libertà ancora: lavoravano secondo il mestiere in cui erano esperti, scrivevano alla famiglia ed erano visitati dai parenti. «"Privilegi", questi ultimi, negati agli italiani, che come conforto psicologico avevano solo la compagnia di un detenuto. Silvio Pellico condivise la detenzione con Maroncelli, per esempio. Confalonieri invece con Alexandre-Philippe Andryane, ex ufficiale napoleonico, accusato di aver aderito ufficiale napoleonico, accusato di aver aderito alla carboneria».

Chi ben comincia... La giornata-tipo iniziava quando la luce dell'alba filtrava dalla finestra. Se il buongiorno si vede dal mattino, però, il loro doveva essere pessimo. Si cominciava con le pulizie della cella, svuotando le padelle con i bisogni corporali.

Seguiva la brenn-zuppe, una brodaglia rossiccia arricchita da poche fette di pane di segale. Maroncelli descrisse nei dettagli come veniva preparata: "Due volte all'anno il trattore (il cuoco, ndr) dello Spielberg faceva soffriggere farina con il lardo, e quando era giunta a cottura la riproponeva in grandi olle dove veniva conservata di sei in sei mesi. Quindi ogni mattina attingeva con larghi ramaiuoli e versando nell'acqua bollente, attendeva che la farina si diluisse". Mangiata la sbobba ci si poteva dedicare alla lettura (dal 1824 sostituita dal lavoro) per lo più di libri di preghiere. Seguiva la passeggiata, rigorosamente a coppie, fino all'ora pranzo (alle undici).

Come in ospedale. Pellico ricorderà che anche i palati meno esigenti avrebbero avuto difficoltà a sorbire quella "brodaglia di minestra condita con una salsa immangiabile". «I detenuti che lo desideravano (quasi tutti), potevano optare per il vitto dell'ospedale» aggiunge Felisati. «Era un po' più gustoso, ma meno abbondante: tre leggerissime minestrine al giorno, un pezzetto d'arrosto d'agnello da ingoiare in un boccone e tozzi di pane bianco ». Seguiva la lettura pomeridiana (o il lavoro) fino all'ora di cena, quando calava il buio.

Silenzio. Uno dei desideri più frequenti tra i carbonari, quasi tutti giovani della nascente borghesia liberale, era poter scrivere. Salvo rare eccezioni, però, era proibito. Pellico e compagni inventarono metodi ingegnosi per comunicare tra loro, ma restò quasi impossibile corrispondere con i famigliari. «Stuzzicadenti e persino pezzi d'unghia servivano come penne», spiega Felisati. «La carta che ricevevano per i bisogni, spalmata di mollica di pane bagnato diventava carta per scrivere. Polvere di medicinali o succo d'erbe si usavano come inchiostro».

Le ispezioni. A scandire il tempo contribuivano le ispezioni alle celle, tre al giorno: al mattino, alla sera e a mezzanotte. Più un'ispezione mensile accurata: i detenuti erano fatti spogliare e i pagliericci svuotati. Questi ultimi, racconterà Confalonieri, "rientravano spesso molli per neve, pioggia o fango e noi vi dormivamo la notte". Maroncelli riferì un altro episodio. Nel 1825, dopo una visita del capo delle guardie, tolsero a lui e a Pellico gli occhiali. «A entrambi fu sequestrata anche una forchetta», aggiunge Felisati. «Maroncelli reagì con sarcasmo. Fece notare che "non siamo stati condannati a cecità, ma solo a carcere duro [...]. La negazione delle forchette è più ridicola che crudele".

Graziati. Le pene degli italiani furono tutte interrotte dalla grazia (nel 1830 per Pellico).

Ma quattro di loro non uscirono mai dallo Spielberg: Antonio Oroboni e Antonio Villa morirono di tubercolosi, Silvio Moretti e Cesare Albertini per malnutrizione. A Maroncelli fu amputata la gamba sinistra e Costantino Munari fu colpito da un ictus rimanendo paralizzato al lato destro. Pellico soffrì di emottisi (sangue nei polmoni) e Confalonieri di sincopi e sindrome reumatica.

Danno d'immagine. A due anni dalla liberazione Pellico raccontò l'esperienza delle "sue prigioni" nel libro che secondo un celebre commento (forse mai pronunciato) del primo ministro Metternich "fece più danni all'immagine dell'Impero austriaco di una guerra persa". Vera o falsa che sia la battuta, nel 1918, quando la potenza austroungarica crollò con la Prima guerra mondiale, lo Spielberg era ancora in piedi. Ed era ancora un carcere di massima sicurezza.

Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?

31 gennaio 2024 Focus.it
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