Gli occhi del lupo

di Vincenzo Ampolo

In un intervallo tra un inverno ed una primavera, tra  un rapporto analitico ormai consumato ed un’altro che si annunciava dolorosamente necessario,  mi lasciai  trasportare da un carnevale di emozioni che mi condusse in una città di mare, tra mucchi di case abbracciate le une alle altre, stradine strette e madonne dipinte sugli archi di piazze piccole come cortili.

In una di queste piazze, porta d’accesso al corpo profondo della citta’, si affacciava una finestra, che per molto tempo apparve misteriosamente chiusa come a custodire gelosamente un segreto indicibile.

Poi un giorno, come per il ritorno improvviso da un viaggio, la finestra si aprì, e apparve il  viso di una donna-bambina che mi guardò a lungo con occhi tanto teneri e struggenti da impedirmi di volgere lo sguardo, anche quando lei sparì all’interno, misteriosamente com’era apparsa.

Il turbamento che quello sguardo mi procurò, sembrò crescere nei giorni e nelle settimane che seguirono.

Arrivavo dal mare, entravo timidamente nella piccola piazza silenziosa e, senza perdere di vista la finestra chiusa, iniziavo a muovermi su e giù, e poi intorno, e appena un attimo di sosta a riprendere fiato e ancora con movimenti leggeri a muovermi lungo i bordi, come in un bacio che scalpita per aprire altre porte, per ritrovare altri misteri, per esplorare passaggi oscuri che portano verso  mondi indicibili.

Lei, sentivo, era lì a guardarmi, protetta dal buio della sua stanza.

La precedenza del suo sguardo seducente feriva i miei sensi, rubava potere al mio ardire.

Avrei potuto trovare una scusa per suonare alla sua porta, per vederla io,

Te ci si fiju (di chi sei figlio)

Thomas Eakins (1844-1916)

di Vincenzo Ampolo

“Te ci si fiiu?”. Filippo non se lo era mai sentito chiedere. La gente sapeva a chi era figlio e non ne faceva mistero. Gli sguardi dei paesani lo avvolgevano come una corazza.  Nessuna domanda diretta sulla sua identità poteva infrangere quell’aura che illuminava il suo passaggio.

Filippo era figlio di don Raffaele, un uomo d’affari d’altri tempi.

Don Raffaele era proprietario del frantoio più importante di un paese del Capo di Leuca e uno dei maggiori azionisti della banca locale.

Riverito, rispettato, temuto, don Raffaele aveva un unico figlio, Filippo, un ragazzo perennemente annoiato, che aveva portato a termine gli studi classici grazie al nome di suo padre ed alle amicizie influenti della sua famiglia.

Figlia di contadini, Letizia, con grandi sacrifici da parte dei genitori, aveva frequentato lo stesso Liceo Classico di Filippo, risultando la prima, non solo della sua classe, ma dello stesso Istituto Superiore di Casarano.

A lei sì che la gente chiedeva di chi fosse figlia. Lei rispondeva timidamente dando, in seconda battuta, quello strano soprannome che la faceva tanto vergognare: “Si, la figlia di Giovanni Capodimulo”.

Alla sua risposta gli interlocutori si chiudevano in un silenzio imbarazzante, cambiavano discorso o correvano a sbrigare faccende dichiarate come improrogabili.

Inutile dirvi che Filippo e Letizia, frequentando insieme gli ultimi due anni della stessa scuola, si amarono,  lei con tutta la passione e l’ingenuità di un adolescente e lui con il suo bagaglio di noia, appena contrastato dal richiamo ormonale dei suoi giovani anni.

Finito il liceo e trascorsa un’estate fatta di fugaci incontri pieni di promesse e di speranze, lui partì per Padova a continuare, o a fingere di continuare, gli studi e lei rimase nel piccolo paese di Matino, a rovinarsi le mani e gli occhi a furia di cucire scarpe per conto di una fabbrica del luogo.

Letizia, dopo quell’unico amore, vissuto a dispetto di tutto e di tutti, non volle più allacciare rapporti con nessun altro uomo. Fedele, sola e triste finì per morire in un pensionato pieno di odori sgradevoli e di operatori-aguzzini.

Filippo, dopo una vita nel segno del  nonfarnulla, si sposò con una ricca vedova e si fece mantenere fino alla fine dei suoi giorni.

Ma si sa, il tempo porta con se ricordi, amarezze, rimpianti…

Già vecchio e stanco, passeggiando per i viali della sua villa, in un giorno di

Vincenzo Ampolo. Nella vacanza della coscienza

 

di Paolo Vincenti

“Sono figlio della Terra e del Cielo stellato; datemi presto da bere la fredda acqua del lago di Mnemosyne”: così recita il testo di una laminetta orfica appartenente all’antica civiltà magno- greca e Vincenzo Ampolo, che si abbevera da sempre alla fonte di Mnemosyne, sa che “l’anima riarsa di sete è la più sapiente e la più nobile”, come diceva Eraclito. E Ampolo ha sete, tanta, di conoscenza.

Vincenzo Ampolo è un uomo delle continue rinascite, che sa inventare sempre nuovi progetti culturali e reinventarsi continuamente come artista, nella sua ricerca assidua e partecipativa di arte totale. In effetti, l’immaginario è il luogo del transdisciplinare, e lui conosce bene e frequenta da sempre l’immaginario,con le sue numerose articolazioni simboliche. Vincenzo Ampolo è  psicoterapeuta, scrittore, poeta, pittore e operatore culturale. Attraverso i moderni strumenti di

Nature morte

di Vincenzo Ampolo

 

(a Dario V. Caggia)

L’ora dei nostri incontri è generalmente situata in quello spazio un po’ magico che va dal tramonto al crepuscolo.

Il periodo di transizione tra la luce e il buio favorisce il sonno, la trance, la sapienza del silenzio.

Il percorso per arrivare da lui è labirintico, con piccoli viali e gradini che si arrampicano su per la collina, come edera intorno ad un albero.

Ogni elemento del passaggio sembra ripetersi all’infinito, riproporsi in modo ossessivo imponendo il dubbio, la cautela dei passi, la ricerca delle tracce di precedenti ascese.

Il mio Maestro-analista mi aspetta su in alto nel suo santuario, per accogliere i miei sogni, l’angoscia delle immagini perverse e soprattutto la mia richiesta eterna di affetto che mi segue a distanza come un figlio ripudiato.

Dall’inizio della mia analisi, come ogni paziente, ho desiderato con tutto me stesso d’essere “ il caso”, il figlio prediletto, riconosciuto nei meriti e curato amorevolmente della sua ferita narcisistica.

La mia infanzia ha un padre assente, avaro di regali e di carezze. Un padre intento a rincorrere aquiloni, che portava a suo figlio il latte cattivo.

Tra il latte e la scuola, spesso mi appoggiavo ad un albero per vomitare.

Così negli anni ho appreso la tecnica del cacciar fuori il male, rivelarne la consistenza e l’entità, nel tentativo di dissociarmene, diventare altro, libero e purificato.

La depressione ha una storia antica che mi porto appresso in questo pellegrinaggio che sfida l’angoscia del vivere e del morire.

Man mano che si sale su per la collina il paesaggio si allarga.

Chiese alte, stradine con archi e balconi ma soprattutto cortili deserti, freschi di calce abbagliante, con pochi vasi di fiori e gatti sonnacchiosi che riposano immobili. Persino i panni stesi al sole oggi sembrano statici, come in una fotografia.

In quest’estate inoltrata, il vociare del mattino e i rumori festosi della sera fanno pausa per lo spettacolo del tramonto che riempie  il cielo di colori e il paese di ombre lunghe, che si ritrovano tra i sospiri di chi ama qualcosa, o qualcuno, che non ha o che ha già perduto.

Il paese dell’infanzia è la maglia dell’inconscio e lo sguardo che mira ridà colore ai ricordi.

Ma il paese è quello del Maestro e dietro questo paesaggio c’è la sua storia.

Mio padre in casa me lo ricordo poco.

La sua legge, la legge del più forte mi ha sradicato dall’isola di amici che popolavano la mia infanzia.

Mi ha defraudato dell’eredità di una città ormai perduta, imponendomi la sua storia, il suo recinto di terra da rivoltare giorno dopo giorno.

Il suo potere violento e arbitrario ha mostrificato la sua immagine.

Marinaio e libertino, negli accenni di mia madre, moralista come può essere una suora mancata, è diventato un demonio da esorcizzare.

Negli ultimi tempi il Maestro teneva i suoi incontri non più nel grande studio perennemente in penombra, ma in una piccola cella angusta, che un tempo fungeva da precaria sala d’aspetto. Mi parlava a volte di suo padre e del suo essere simile a lui e diverso al tempo stesso. Di come questo medico potente aveva tiranneggiato la sua infanzia e di come al tempo, egli stesso, medico dell’anima, lo rincorresse nei suoi ricordi per carpirne i segreti, svelare enigmi e trovare risposte esaurienti a dubbi angoscianti.

Da qualche anno il Maestro è tornato al suo paese natale e qui mi ha trascinato. Ora lui è la collina intera, gli alberi e quel silenzio di marmo soggetto e oggetto della narrazione.

Mio padre non mi insegna più lunghe poesie nel suo letto, prima che le ali di Morfeo mi trascinino nel regno dei sogni: “ Silenzio bambini, entriamo nel parco dei santi. Silenzio, le teste scopriamo, silenzio e avanti…”

E’ rimasto solo questo brandello, come se un forte vento avesse strappato le vesti dei ricordi.

Al posto di quelle poesie oggi è rimasto il nulla che è ombra e fobia.

Oggi, le mie sedute con il Maestro non costano denaro. Lui mi aspetta sempre ed è disposto come non mai ad ascoltarmi.

Non dice e non nasconde: rispecchia.

Come ieri ritorno a trovarlo, a trovarmi, in questo cimitero a picco sulla città.

Arrivo su in cima con il fiato corto, mi siedo accanto alla sua tomba e riposo.

Quel vagare, come un fantasma tra simulacri di morte, lascia il posto ad un paesaggio immenso ed ai suoi occhi che mi guardano e che oggi ho il coraggio di incontrare senza abbassare i miei.

A volte ho giurato di vedere in quella foto la mia faccia, quella di qualche mese fa con la barba lunga sul mento; una barba che ho tagliato dopo vent’anni per scrupoli di identità.

Oggi gli parlerò del mio dolore di sempre e di una donna che appartiene ad entrambi, alla storia di entrambi.

Scapperò via prima che la sera mi catturi al buio e alla paura. Porterò con me la pace ritrovata che avrà, lo so, il sapore della precarietà.

Presto dovrò ritornare da Lui. Lui mi conosce più di tutti al mondo e sa ascoltarmi senza parlare.

Lo troverò ad aspettarmi su in cima alla collina, in quella piccola cappella dove la sua foto guarda quella di suo padre, come a rappresentare un confronto che non avrà mai fine.

Lecce e la nostalgia dei giardini

di Vincenzo Ampolo

“ Sto aspettando perpetuamente

una rinascita della meraviglia”

L. Ferlinghetti

Da pochi giorni ho spostato sulla mia pagina di facebook il filmato, a disegni animati, del testo di Jean Giono “ L’uomo che piantava gli alberi”.

La narrazione, parla di un’impresa compiuta da un solo uomo, capace di trasformare un territorio brullo e inospitale in un paradiso pieno d’alberi, corsi d’acqua e animali dalle mille varietà.

Per una serie di circostanze fortuite o d’occasioni non ricercate ho in questi giorni ricevuto diversi stimoli relativi al tema dei giardini ed alla loro magia.

Girovagare per le strade di una Lecce ancora addormentata, in un mattino d’estate, pieno di luce e di ricordi, mi ha ulteriormente suggerito alcune considerazioni che voglio condividere con chi avrà voglia di una sosta rilassante all’ombra delle mie parole.

Già mi ritrovo bambino, nei pomeriggi di primavera a camminare incantato dai colori e dai silenzi odorosi, per i viali alberati che, dal rione San Lazzaro, portavano fuori dal centro abitato, oggi sempre più dilatato, costeggiando ville antiche a cui si aggiungevano, alla fine degli anni sessanta, nuove villette più bizzarre ed estrose.

In realtà le ville più antiche circondavano, e in parte circondano ancora, i viali che segnano i confini dell’antica città, le sue famose Porte.

Su una stradina che, costeggiando l’Ateneo, va da Porta Napoli a Porta Rudiae,

Vincenzo Ampolo. Nella vacanza della coscienza

di Paolo Vincenti

“Sono figlio della Terra e del Cielo stellato; datemi presto da bere la fredda acqua del lago di Mnemosyne”: così recita il testo di una laminetta orfica appartenente all’antica civiltà magno- greca e Vincenzo Ampolo, che si abbevera da sempre alla fonte di Mnemosyne, sa che “l’anima riarsa di sete è la più sapiente e la più nobile”, come diceva Eraclito. E Ampolo ha sete, tanta, di conoscenza.

Vincenzo Ampolo è un uomo delle continue rinascite, che sa inventare sempre nuovi progetti culturali e reinventarsi continuamente come artista, nella sua ricerca assidua e partecipativa di arte totale. In effetti, l’immaginario è il luogo del transdisciplinare, e lui conosce bene e frequenta da sempre l’immaginario,con le sue numerose articolazioni simboliche. Vincenzo Ampolo è  psicoterapeuta, scrittore, poeta, pittore e operatore culturale. Attraverso i moderni strumenti di comunicazione di massa, è molto facile conoscerlo ed egli certo non lesina informazioni su di sé e sulla propria

Libri/ Vincenzo Ampolo tra politica e letteratura

 

VINCENZO AMPOLO, POETA SURBINO DELL’OTTOCENTO

 

di Paolo Vincenti

La Societàdi Storia Patria-Sez.di Lecce, in collaborazione con il Comune di Surbo, ha pubblicato gli Atti del Convegno di Surbo del 2004 Vincenzo Ampolo tra politica e letteratura tomo II, edito, per la collana “Cultura e storia”, a cura di Antonio Lucio Giannone.

La parabola di Ampolo si sviluppa nella seconda metà dell’Ottocento, un periodo di grandi trasformazioni politiche, sociali ed anche culturali in Italia. Ampolo rientra a Surbo nel 1871, dopo aver completato gli studi universitari a Napoli e stringe amicizia con importanti esponenti del ceto intellettuale salentino, collaborando con alcune riviste locali come Don Ortensio, Il Pungiglione, Il Progresso, Cronaca letteraria.

Ma chi era Vincenzo Ampolo? Il libro prende le mosse dal Convegno di studi, svoltosi nella Sala consiliare del Comune di Surbo, nel novembre del 2004, in occasione del centenario della morte del poeta e politico Ampolo, nato a Surbo nel 1844 ed ivi morto nel 1904. In questo libro, si vuole approfondire la figura del poeta e letterarato Ampolo, mentre nella precedente pubblicazione, sempre a cura della Società di Storia Patria-Sez.Lecce (che, da molti anni, pubblica la rivista  L’Idomeneo), si analizzava la figura del politico e dell’amministratore Ampolo.

Antonio Lucio Giannone (del quale è stato recentemente pubblicato, sulla Rivista di letteratura italiana, 2006, un contributo sul Futurismo ed i rapporti fra lo scrittore di San Cesario Michele Saponaro, alias Libero Ausonio, e Filippo Tommaso Marinetti), traccia, nella Prefazione, un profilo d’insieme del libro. Prima d’ora, l’Ampolo era conosciuto grazie al volume di Donato Valli, Ampolo, Nutricati, Rubichi (1980), inserito nella “Biblioteca Salentina di cultura” edita, all’epoca, da Milella e diretta da Mario Marti; al libro Surbo di Angelo De Masi (Capone 1981), che pure si occupava della figura di questo illustre concittadino di Surbo; e soprattutto grazie a Notizia

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