Gazzetta di Modena

Coronavirus a Modena

Chiesi: «Guardo Modena deserta e mi sembra di abitare i quadri che dipingo...»

Chiesi: «Guardo Modena deserta e mi sembra di abitare i quadri che dipingo...»

Andrea Chiesi, dalla sua casa, con annesso studio, continua a lavorare e ad insegnare «Nulla succede per caso. Viviamo sulla nostra pelle le conseguenze della nostra stessa follia».

21 aprile 2020
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MODENA «E’ la natura che si riappropria del luogo abbandonato. La riflessione risulta duplice. Se da un lato non è più possibile sfuggire al confronto con l’apocalisse, ossia la fine dei tempi, dall’altro il ritorno della vita vegetale apre uno spiraglio sul futuro. Bisogna attraversare l’ombra per arrivare alla luce».
 
Era lo scorso agosto. Andrea Chiesi, pittore modenese profeta in patria e oltreconfine, raccontava così Eschatos (Ultimo), il suo più maturo ciclo di lavori. Oli su lino e disegni molto riconoscibili. Tuttavia assai diversi rispetto ai prodromi.
Dopo aver bandito qualsivoglia forma di vita dalle proprie tele, uomo in primis, Andrea offriva infatti una nuova chance al selvatico primigenio. A quell’erbaccia libera e ribelle, a suo dire punk, cui lui sempre si è sentito affine. Tanto da lasciarla crescere senza limiti nel giardino della propria casa-studio. A distanza di otto mesi ci specchiamo nei suoi lividicci fermo immagine senza trovare, ancora una volta, benché minima traccia della nostra (onni)presenza. Ma, per la prima volta, il brivido ci atterrisce. 
 
Perché adesso, pur sapendo di esistere ancora, al chiuso perlopiù, la paura di sparire è diventata tangibile.
 
«Guardo Modena e ho la sensazione di abitare i miei quadri, i miei disegni. Dopo due decenni passati soprattutto a dipingere sono tornato al tratto di inchiostro. Ossia alla prima luce della pittura. Una tecnica, quella del disegno, senza dubbio più rapida, peraltro più adatta alla precarietà della condizione attuale. Nulla succede per caso. Stiamo vivendo sulla nostra pelle le conseguenze della nostra stessa follia. Abbiamo tirato troppo la corda, siamo riusciti a consumare una quantità di risorse superiore rispetto a ciò che il pianeta era in grado di offrire».
 
Sei dunque persuaso che Covid 19 rappresenti il giusto castigo all’agire sconsiderato dell’uomo? Una sorta di punizione divina? 
«No, eviterei di esprimermi in questi termini. Non penso si possa escludere a priori l’aspetto religioso, spirituale. Ma oggi le religioni, forse più che in altre epoche, appaiono in balia dei propri limiti. Preghiamo eppure poniamo ogni nostra speranza nella scienza. Che di fatto è la nuova religione. Piuttosto leggo nel virus una reazione della natura all’arroganza della specie Sapiens. Alla presunzione di onnipotenza dell’uomo. Sino a ieri pensavamo di essere immuni agli effetti di uno sviluppo insostenibile di cui noi stessi siamo colpevoli».
 
E qual è invece l’amara realtà? 
«La realtà è che gli uomini sono una specie come un’altra. Al pari del coronavirus la natura non è né buona né cattiva. Nulla possiamo rispetto alla sua selezione. Sia chiaro: lungi da me la volontà di passare per un sostenitore dell’eugenetica. Sono molto orgoglioso del nostro sistema sanitario. Ha dato tutto quanto in suo potere per assistere chiunque avesse bisogno. Medici, infermieri, operatori… ogni giorno sudano sangue per salvare le persone più deboli. Spero che al più presto venga messo a punto un vaccino efficace».
 
Lo studio di Andrea è sempre là, luogo avvinto dall’incanto a pochi metri dalla strada nazionale per Carpi. In quella che fu la casa del custode di Villa San Pancrazio, per anni buen retiro “selvaggio” dello stesso Chiesi. Che oggi con la moglie Sheyma ha deciso di abitare altrove. Non lontano dalla Ghirlandina. 
 
Una scelta per scongiurare la sindrome da burnout? «In effetti ero abbastanza sotto pressione. Negli ultimi anni ho dipinto e disegnato anche per dieci, dodici ore al giorno. Senza mai staccare, sino ad avere male agli occhi. Il compromesso oggi? Di ore me ne bastano sei. Mi sono reso conto che dovevo prendermi cura di me e di chi mi sta accanto. Il che equivale anche rimettersi in gioco. Cogliere il meglio dalle situazioni difficili aiuta a reinventarsi, ad affrontare una nuova fase della vita».
 
E come si reinventa un artista… anzi, un pittore – sappiamo che artista è un termine in cui poco ti riconosci – in tempo di quarantena?
«Per quanto mi riguarda la quarantena è una condizione “normale”. Il lavoro dell’artista presuppone infatti uno stato di isolamento. Ovviamente adeguarsi a questo nuovo rigore normativo che coinvolge ogni aspetto del quotidiano comporta uno sforzo importante. Per chiunque. L’adattamento non è mai immediato. È però necessario. Trovo del tutto inopportuno chiamare in causa l’articolo 13 della Costituzione per ribadire l’inviolabilità della libertà personale. Nessuno vuole uno Stato di polizia, ma alla luce dell’eccezionalità del momento ben vengano i controlli. Lo stesso dicasi del distanziamento sociale». 
 
Nulla pare immune alla pandemia e il mondo dell’arte certo non fa eccezione. È possibile guardare oltre l’emergenza? 
«Il sistema artistico è paralizzato, qualsiasi evento è stato sospeso. Gli artisti però non si fermano. La storia insegna: nel 1522, per evitare la peste che teneva in ostaggio Firenze, Jacopo da Pontormo si rifugiò a dipingere nella Certosa del Galluzzo. Noi, rispetto a Pontormo, abbiamo un indubbio vantaggio. Possiamo infatti contare sull’uso dei social. Social che, se utilizzati in modo appropriato, diventano narrazione, diario dell’isolamento. Certo, l’assenza del contatto fisico pesa a dismisura. Ma tutto ripartirà nei tempi corretti e nelle condizioni consone. Dopo il sacco di Roma del 1527 l’arte non è più stata la stessa. È un continuo ritorno, i principi di base sono i medesimi. Cambiano i dettagli». 
 
Insegni pittura all’Accademia di Belle Arti di Ravenna e di Macerata. Continui a seguire ai tuoi ragazzi anche al tempo di Covid? 
«Sì, la didattica a distanza funziona piuttosto bene. Certo, manca “il toccare con mano”. La visione diretta. Ciò nonostante i ragazzi si impegnano parecchio. Mi collego co