È il pianeta più vicino al Sole e torna a far parlare di sé per un nuovo studio che ha analizzato alcune caratteristiche geologiche del suo ‘volto’: si tratta di Mercurio, al centro di una ricerca di Nature Geoscience (articolo: “Widespread small grabens consistent with recent tectonism on Mercury”), mirata ad approfondire il processo di contrazione che lo sta facendo rimpicciolire. L’indagine, coordinata dalla Open University di Milton Keynes (Regno Unito), si basa sui dati della sonda Messenger (Mercury Surface, Space Environment, Geochemistry and Ranging) della Nasa, attiva sino al 2015.

Il restringimento che sta vivendo Mercurio dura da miliardi di anni: nonostante la sua vicinanza al Sole, l’interno del pianeta si sta raffreddando e quindi le rocce di cui è composto devono aver subito una riduzione di volume. Allo stato attuale, non è chiaro a quale ritmo Mercurio si stia restringendo né se il processo continuerà in futuro. Gli autori del saggio, però, hanno provato ad approfondire la situazione analizzando appunto alcune strutture geologiche che solcano la crosta del corpo celeste: essa, infatti, ha reagito alla contrazione formando delle faglie inverse (thrust fault). Queste faglie si generano quando una porzione di terreno viene spinta sul terreno adiacente.

Le prime tracce della contrazione di Mercurio sono state individuate nel 1974, quando la sonda Mariner 10 della Nasa trasmise le immagini di scarpate molto scoscese che si snodavano per centinaia di chilometri sulla crosta; queste formazioni, definite dagli scienziati ‘scarpate lobate’, sono state osservate da Messenger a livello globale sul pianeta. Le scarpate sarebbero molto antiche, tanto che alcune sono state sovrastate da successivi crateri da impatto: la maggior parte di esse dovrebbe risalire a circa 3 miliardi di anni fa. Il team della ricerca ha riscontrato, però, che in tempi recenti molte scarpate sono ancora geologicamente attive e si stanno muovendo. Infatti, alcune di esse presentano delle piccole fratture che gli studiosi hanno paragonato ai graben della Terra: con questo termine tecnico si designa una fascia di terreno, sprofondata tra due faglie parallele, che si forma quando la crosta vive una fase di tensione.

La superficie di Mercurio, però, si trova in compressione: come spiegare dunque la presenza di questi graben? Gli autori dello studio ritengono che essi si possano essere formati nel caso in cui una porzione di crosta si fosse piegata mentre veniva spinta sul terreno adiacente. I graben del pianeta, secondo le stime degli studiosi, non sono molto estesi: la loro ampiezza è inferiore a 1 chilometro e sono profondi meno di 100 metri. Inoltre, dovrebbero essere anche piuttosto recenti visto che non risultano intaccati da crateri da impatto o dai loro detriti. Gli scienziati hanno calcolato che i graben di Mercurio dovrebbero avere meno di 300 milioni di anni.

Dalle immagini di Messenger il gruppo di lavoro ha individuato 48 scarpate che mostrano con chiarezza dei piccoli graben, mentre la loro presenza è solo ipotizzata per altre 244 scarpate. Questo filone di ricerca potrà essere approfondito con BepiColombo, missione congiunta Esa-Jaxa destinata appunto allo studio di Mercurio. La sonda, lanciata il 20 ottobre 2018, dovrebbe entrare nell’orbita del corpo celeste nel 2025 ma ha già compiuto tre sorvoli realizzando delle immagini di grande interesse. BepiColombo, inoltre, vanta una significativa partecipazione dell’Italia che, grazie al supporto e alla gestione dell’Agenzia Spaziale Italiana – in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica e l’Università di Roma “La Sapienza” – ha realizzato con l’industria nazionale 4 dei 16 strumenti ed esperimenti a bordo.

In alto: una delle scarpate della superficie di Mercurio (Crediti: Nasa/Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory/Carnegie Institution of Washington) 

In basso: una scarpata con un graben sulla sua sommità (Crediti: Nasa)