Dai primi disegni nelle miniere del Borinage agli ultimi dipinti dolenti l’uomo e l’artista si fondono in un’esplosione di gialli, azzurri e viola.

di Gian Marco Mancassola

Dal buio alla luce, dalla terra al cielo, dal bianco e nero al giallo, all’azzurro, al viola. Il viaggio al centro dell’anima di Vincent Van Gogh corre sul filo della ricerca e delle emozioni, un filo teso in Basilica palladiana intrecciando 129 opere, di cui 43 dipinti e 86 disegni, prestati da alcuni dei più prestigiosi musei del mondo, primo fra tutti Kröller-Müller museum di Otterlo, nei Paesi Bassi, custode della seconda più vasta collezione di opere del genio olandese.
“VanGogh, tra il grano e il cielo”, mostra voluta dal Comune di Vicenza e firmata da Marco Goldin, racconta soprattutto una storia, la storia di un uomo e di un artista raccolta in una decina d’anni appena, quelli ritagliati tra i primi disegni sbocciati nel 1880 e la tragica morte nel 1890.
L’arte di uno dei pittori più amati di sempre, icona pop planetaria che continua incessantemente a calamitare l’attenzione di studiosi, artisti e appassionati di ogni latitudine, ebbe appena dieci anni di tempo per manifestarsi e lasciare segni indelebili.
È in quei dieci anni che Goldin mette a fuoco la sua indagine, la paziente ricostruzione a ritroso degli anni di formazione prima e poi del furore creativo che rapì «queste stella cometa esplosa nel cielo dell’arte».
«Ho preso Van Gogh dalla parte dell’anima», confessa il curatore di Linea d’Ombra, che torna per la quarta volta in Basilica portando la sua prima monografica su Van Gogh. Goldin decide di mostrare subito le carte partendo dalla parola più ricorrente nelle oltre 900 lettere scritte da Van Gogh: anima. È la chiave per iniziare a fare luce nel mistero di una vita sempre al limite, capace di una sensibilità divina e di attimi di violenza cieca, un’esistenza fatta di contraddizioni e contrasti inconciliabili. Il mistero del “codice” Van Gogh.
Questo viaggio inizia allora dai tratti pesanti e sofferti che raccontano la fatica dei Due Zappatori, uno dei primi disegni usciti dal nero carbone delle miniere del Boriage, la regione del Belgio in cui il giovane Vincent nell’estate del 1880 stava prestando servizio da predicatore laico. Quelli appesi alle pareti sono autentici documenti, che raramente il grande pubblico ha avuto occasione di scrutare.
L’artista si ispira a Jean-Francois Millet e ai modelli della scuola dell’Aia. Il visitatore entra in un mondo fatto di occhi dolenti, volti umili e affaticati, corpi piegati dal duro lavoro: sono ritratti di zappatori, spigolatrici, coltivatori di patate. Molti dei soggetti sono donne, che escono dalle linee scure nella durezza degli zoccoli, delle gonne lunghe, degli strumenti di lavoro. L’allestimento è perfetto nell’assecondare lo scopo che si dà Goldin: accompagnare per mano il visitatore, trascinarlo nelle giornate di Van Gogh, costringerlo a guardare il mondo con i suoi occhi, calarlo nella sua epoca. Come in un incastro di scatole cinesi, i giochi di chiaroscuro vengono esaltati nei giochi di luci e ombre orchestrati dentro il salone della Basilica: merito della nuova avanguardistica illuminazione a led che enfatizza i cromatismi. Ma è a Parigi e poi nel sud della Francia che Van Gogh diventa Van Gogh: le ultime sale danno le vertigini, sono un’incandescente assalto di pennellate e colori, mentre alle pareti scorrono le parole dolorose scritte all’amato fratello Theo, il racconto della malattia, del ricovero nel manicomio di Saint-Remy, minuziosamente ricostruito in un plastico che schiude le prospettive provenzali dalla finestra della stanza al primo piano e dai sentieri nel parco. Il ponte di Langlois ad Arles (eletto icona della mostra), Ulivi, Covone sotto un cielo nuvoloso sono il gran finale di questa inchiesta kolossal nei numeri, ma che non può non toccare le corde più intime, perché infondo a quei colpi di pennello c’è lo strazio di un uomo affascinato dalla terra, rappresentata dalle scale di gialli, ma irrimediabilmente attratto dall’orizzonte, dall’altrove sfumato nei toni dell’azzurro e del blu. Tra il grano e il cielo.
È come se ci fosse un pezzo di Van Gogh in fondo al cuore di ognuno di noi: ed è forse questa la magia, questo il segreto del codice Van Gogh, la forza di leggere l’anima delle cose, il potere di spingere il visitatore oltre il confine della tela e dei colori, portandolo a immedesimarsi, almeno un po’, in quella dolcissima eppure terribile esplosione di emozioni.