La divinazione nell’antica Grecia (Salvo Vitale)

142 pizia

 

 Parte di un incontro con i soci della Auser di Partinico, in data 3.3.2022. Diversi passaggi di questo breve saggio sono tratti dal mio recentissimo libro “Tiresia il veggente” (edizioni Billeci)

 

Nota introduttiva sulla divinazione

 

Definizione e Significato

In maniera approssimativa e rudimentale si può definire divinazione il tentativo (o la pratica) di dare spiegazione, anzi interpretazione alle cose inspiegabili razionalmente rispetto a certe conoscenze  comuni che sembrano inaccessibili e ad alcuni eventi sovrannaturali. In tutte le culture storiche conosciute si usa far ricorso  a riti, per lo più di carattere religioso, per interpretare sogni, presagi, eventi , possibili rivelazioni. Quindi alla base c’è l’umana esigenza di conoscere l’ignoto e di dare certezze al futuro, di presumerne la conoscenza e darne predizione, sia su richiesta personale, sia come decisione politica che può interessare la comunità , (per esempio la scelta di affrontare una guerra).

Le pratiche della divinazione e i suoi riti costituiscono la “mantica”, dal greco antico “mantèia”, divinazione, da cui “mantis”,  oracolo: è stato notato che la radice indoeuropea “ma” ha una serie di altri significati che vanno dalla mania, alla follia, alla mente, al pensiero. Per Platone la divinazione, o “mantica”, possiede una capacità di convinzione superiore alla stessa ragione.

Secondo alcuni studiosi queste originarie interpretazioni dei fenomeni naturali  sono i primi tentativi di  darne una spiegazione scientifica, mentre altri negano tale lettura per l’assenza di causalità  tra quanto individuato come elemento d’analisi e il suo successivo sviluppo, la cui unica spiegazione possibile sarebbe di tipo intuitivo o religioso. Di fatto, nelle culture più antiche i rapporti tra magia e scienza non sono definiti: si pensi che ancora, nel XVI secolo i risultati empirici di alcuni elementi di cui non erano ancora state individuate le cause erano chiamati “magia naturale”. La capacità di prevedere o interpretare eclissi variazioni climatiche, eruzioni vulcaniche, fenomeni elettro-magnetici era affidata allo stregone del villaggio che dava i suoi responsi sull’influenza del destino, degli dei o di altre misteriose forze sovrannaturali.

La divinazione è praticata dall’indovino o vate, medium, cartomante, aruspice, guaritore, mago, sciamano, interprete dei segni di cui solo lui possiede la chiave di lettura, poiché dotato di poteri o facoltà particolari che gli consentono di ricevere una rivelazione. Si tratta di un soggetto in possesso di una sensibilità empatica in grado di stabilire un contatto, di fare da intermediario, di trait-d’union con  entità o forze soprannaturali , per offrire le informazioni ottenute ai comuni mortali. In realtà il potere di questi “sacerdoti” è enorme, poiché ad essi è affidata, oltre alla conoscenza di rimedi curativi, la facoltà di scegliere e indirizzare scelte personali di carriere e affari e scelte politiche e militari.

Dall’altra parte il consultante, il richiedente, il postulante, che spesso si presenta con un’offerta, in denaro o in natura, è mosso in parte da curiosità, oppure da paura, da amore, da bisogno di protezione, da mancanza di sicurezza. Si cercano risposte a malattie, guerre, terremoti e altri disastri naturali possibili, oppure si chiedono segnali favorevoli per una gara, per un’impresa, per  la fondazione di una città, per la stagione in arrivo, con eventuali richieste d’intervento divino, anche attraverso complessi riti religiosi. L’oracolo o responso emesso prevede spesso anche una serie di adempimenti e funzioni sacre per ottenere la benevolenza della divinità.

In rapporto alle conoscenze scientifiche odierne la divinazione potrebbe essere, anzi è   considerata una falsa scienza, espressione di superstizione. In passato aveva invece una serie di regole note solo agli esperti, legate all’analisi dei segni, dei presagi, dei sogni, della disposizione con cui cadevano fagioli o piccole ossa, o dal colore e dalla direzione del fumo allorchè si gettavano in esso particolari sostanze, spesso dotate anche di effetti psichedelici, per non dire dei significati simbolici dei tarocchi.

Esistono vari modi di classificazione della divinazione e delle sue tipologie , da quello individuati da  Julian Jaynes,(“ Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza”, traduzione di Libero Sosio, collana Gli , Adelphi, 2002,caratterizzato da sortilegio auguri,  episodi spontanei, a quello di Giordano Berti,( Storia della Divinazione. Come gli uomini nei secoli hanno indagato il futuro, Oscar Storia, 375, Milano, Mondadori, 2005,) che distingue in “divinazione artificiale”, basata sull’analisi di simboli costruiti dall’indovino;, “divinazione naturale”, basata sull’osservazione di segni naturali ricercati dall’indovino e “divinazione occasionale”, consistente nell’interpretazione di fatti accidentali.

Non è il caso di ripercorrere il lungo cammino della divinazione, dalle più antiche civiltà: Sumeri, Accadi, Babilonesi, furono tra i primi a registrare rapporti tra eventi politici ed astronomici , per non parlare dell’Egitto, dove, nel XIX secolo esisteva già un oracolo di Amon  presente nell’arco di diversi secoli. Anche le civiltà precolombiane, in America,  sono piene di questi complessi momenti legati alla divinazione. Mettendo da parte anche l’ars aruspicina dei Romani, la loro lettura del prodigium, ostentum, portentus, monstrum, miraculum, omen,   le annuali consultazioni  al santuario della Fortuna Primigenia, e i responsi degli oracoli-sacerdoti, detti “viri sacris faciundis”, ci fermeremo e solo su alcuni aspetti della divinazione nell’antica Grecia, per la profondità e l’intensità  dei suoi miti e delle sue figure rappresentative. Nella tradizione ebraica, malgrado nel Levitico 19,26 sia scritto : “Non praticherete alcuna sorta di divinazione o di magia”, la figura del profeta-vate è centrale ed è accettata come voce diretta dell’unico Dio, così come è ritenuta una scelta normale e giustificata quella di Saul che consulta la strega di Endor (Samuele 28,3-25) .

Non  mancarono critiche alla divinazione, in epoca romana, come quella di Cicerone nei due libri  “De divinatione”, considerata un’arte non affidabile e ingannevole, non essendo dimostrato l’uso di dar significato magico ai segni naturali, ma utile come mezzo politico per conseguire il controllo dello stato ei rapporti di potere istituzionali.

Con l’avvento del cristianesimo queste espressioni di religiosità pagana e i relativi santuari vennero abbandonati, ma non venne meno  l’uso di re e nobili  di avere a corte un astrologo, di ritenere l’astrologia “la Regina delle scienze” e, in alcuni ambienti, di praticare la magia nera e bianca , malgrado le condanne e gli anatemi nei confronti di queste arti diaboliche, che, in realtà, contendevano ai sacerdoti il ruolo di essere mediatori con il divino. La condanna e la caccia contro ogni forma di arte magica assunse proporzioni mostruose dalla fine del Quattrocento in poi, attraverso processi e condanne da parte dei tribunali d’inquisizione, sino alla pena massima del rogo. Sul numero degli “abbrusciati” ci sono stime diverse che vanno da 35 mila a 100 mila condanne al rogo.

La repressione non valse a fare scomparire queste strane figure dalla storia dell’umanità: ancora nei nostri tempi possiamo assistere a strane figure come Vanna Marchi o il mago Cipriani che realizzano enormi guadagni facendo affidamento sull’ignoranza, sulla sempre strisciante tendenza alla superstizione e  sul ricorso all’ultima sponda quando ogni altra soluzione e ogni altro strumento di guarire dal male, di dominarlo, o addirittura di poterlo rivolgere contro, (come nei riti voodo) viene meno. Persiste e resiste la fiura del “maaru” e della “maara”, che effettuano o tolgono  la “maaria”, cioè il malocchio, la “fattura”,  attraverso metodi e strumenti (sale, corni e cornetti, santini, ricette di filtri e sciroppi, aspersioni di fumi e acqua benedetta o sacra, cui non si può negare il sospetto di effetto placebo o di autoconvinzione della guarigione o dell’esito positivo del risultato della fattura.

In Grecia

 

Le Sibille

Indispensabile soggetto che pratica la divinazione, è la Sibilla. Alcune Sibille sono storicamente esistite, altre appartengono alla mitologia greco-romana. Condizione essenziale è la verginità e la dedizione ad Apollo, di cui sono portavoce, e dal quale traggono l’ispirazione per  emettere responsi e previsioni espresse in modo oscuro e di dubbia interpretazione. Da varie fonti, a partire da Platone, sappiamo della loro esistenza  diffusa in tutto il Mediterraneo, in Africa e in Asia, con un numero variabile da una trentina alle dieci elencate da Marco Terenzio Varrone (116-27) ,Persica, Libica, Delfica, Cimmeria, Eritrea, Samia, Cumana, Ellespontica, Frigia, Tiburtina. Solo ad Apollo è concesso un rapporto amoroso che, tramite il pneuma, l’afflato amoroso del dio, può anche rendere gravida la sua sacerdotessa. Tra le tante va ricordata una certa Erofile da Eritre che avrebbe predetto la vittoria dei Greci a Troia.

Il santuario  più famoso resta quello di Delfi, che rimase  in funzione sino al  385, anno in cui fu chiuso da Teodosio. Si riteneva che vi fosse il centro, l’omphalos del mondo, individuato in una pietra custodita all’interno. Sul frontone il detto che poi Socrate farà suo: “Conosci te stesso”Pare che in origine fosse stato affidato, da Zeus o da Pan  alla custodia di un drago o serpente, Pitone. Apollo lo uccise, in qualche versione perché avrebbe insidiato la madre Latona, e, per scontare l’uccisione del serpente, venne obbligato a fare il pastore presso il re Admeto , dal quale fu ben trattato.  Trascorsa la Apollo dovette adattarsi a servire come pastore per sette anni sotto il re Admeto, che peraltro lo trattò sempre con rispetto e considerazione. Scontata la pena rientrò a Delfi sotto forma di delfino, e divenne il titolare e il protettore del tempio. Da Pitone deriva Apollo Pizio e la Pizia, ovvero la sacerdotessa che emetteva i suoi responsi dall’interno di una grotta, le cui esalazioni, probabilmente di etilene, assieme all’assunzione di altre sostanze,   le causavano uno stato di sovraeccitazione

Antichissimo anche l’oracolo di Dodona, dedicato a Zeus, in un sacro bosco di querce  abitato da colombe ritenute sacre pur esse. I segnali e il volere del dio veniva desunto dallo stormire delle frondi oppure  veniva scritto,  da un sacerdote su una foglia di quercia, fatta a pezzi e  gettata al vento, lasciando al richiedente la capacità ri ricomporla e analizzare le parole. La mitologia greca è ricca di personaggi in possesso di conoscenze e di poteri particolari nel misterioso rapporto con il sovrannaturale, si pensi a Medea, Cassandra, Circe, Eleno.

Teogonia

Il rapporto con il divino non può dispensarci di dare un’occhiata al pantheon greco, ma solo per individuarne alcune delle più importanti divinità. Sulla cosmogonia greca esistono tre versioni, il mito pelasgico, quello orfico e quello olimpico. Dal mito pelasgico cito alcuni  passaggi di un imminente libro:

In principio è Eurinome, “vagante in ampi spazi”, madre di tutte le cose, Iahu, la divina colomba dei Sumeri, che gli ebrei trasformarono in Geova.  Una donna che si trasforma in uomo Con  leggerezza e grazia la  dea madre  emerge nuda dal caos e non trovando dove poggiare i piedi  divide il mare dal cielo,  intrecciando la sua eterea danza sulle onde, e mentre il vento accarezza le sue spalle, lei si gira, lo prende, vi si perde dentro, aumenta sempre di più il ritmo per scaldarsi, si contorce, si stringe, si dilata in una folle sequenza di movimenti, nella sua estrema levità sente qualcosa che la stringe piacevolmente, che non è più aria, ma liquida e viscida sostanza, timore e piacere, voglia e mistero, il gran serpente Ofione che pieno di desiderio l’avvolge tra le sue spire, entra nelle sue membra, diventa una cosa sola con la dea, mentre Borea, il vento del nord, fecondatore e misterioso, sveglia dentro di lei la sua capacità di generazione, senza minimamente pesare sulla sua leggerezza. Ed Eurinome ubriaca di vita, gravida di sconosciute pulsioni e sensazioni, vola sul mare diventando una colomba e deponendo, a metà strada con il Cielo, l’Uovo universale, il germe incubato della materia vivente. Ma Ofione non la lascia, per sette volte si arrotola attorno all’uovo, lo custodisce e lo cova sino a quando esso si schiude e fa uscire tutte le cose esistenti, tutte le figlie e i figli di Eurinome, il sole, la luna, i pianeti, le stelle, la terra, i monti, i fiumi, gli alberi, le erbe, gli animali.

Una volta che c’era dove fermarsi, Ofione adagiò Eurinome in cima all’Olimpo, dove le nubi congiungono la terra con il cielo, continuò a stringerla tra le sue spire, a volere esercitare il ruolo del maschio pervasivo, diceva di essere lui il creatore, signore e padrone, voleva sempre stare dentro a tutto.

Ma Eurinome era nata libera e non era disposta da accettare né un padrone né un protettore: gli diede un calcio in bocca, gli spezzò i denti, lo imprigionò nelle remote caverne del Tartaro, e quando l’ebbe totalmente piegato al suo controllo lo accovacciò ai suoi piedi, non consentendogli di andare oltre il suo ventre.

E’ l’immane potenza femminina, capace di scatenare dentro di se  forze misteriose e indecifrabili , di saperle tenere sotto controllo, canalizzarle, usarle al momento opportuno, senza possibilità o illusione di poterle imbavagliare e imbrigliare interamente. E tra tutte queste grandi forze c’è la più grande, quella di generare vita, di coltivarla, di crescerla, di piegarla.

Ofione  si risveglia nelle notti di tempesta, si alza dalla palude, emerge dal mare, entra nel bosco, sibila, ansima, scivola, stringe, penetra furioso, dilata la sua cilindrica consistenza sino allo spasimo e torna142 pizia199 sacerdotessa_apollo inerme, spossato, svuotato, incerto, disperso, dimezzato dal suo travaso di energia, deprivato della sua scintilla capace di risvegliare, accendere, incendiare l’esplosione di vita che dorme nel grembo di Eurinome.

E’ il serpente sotto i piedi della Madre da cui è cominciato tutto. E’ il sogno che si dipana e s’impantana nella palude della sua sessualità, con tutte le sue fantasie non realizzate. Che fine abbiano fatto i denti di Ofione non si sa. C’è chi dice che da essi sono nati i Pelasgi, i Danai, cioè Danao con le sue 50 figlie pronte ad accoppiarsi ovunque e con chiunque, ma solo in occasione di feste religiose. Un’altra storia.

Il mito olimpico

Il mito orfico  rispecchia in gran parte quello pelasgico, dove la Notte dalle ali nere e il vento, stimolate da Eros  danno origine all’universo. Più noto è il mito olimpico, che fa emergere dal Caos originario la Grande Madre Terra che genera, nel sonno Urano, cioè il cielo: Dalle lacrime di Urano, innamorato della madre nascono i fiumi, i mari, la vegetazione, gli animali e poi, dal loro accoppiamento i Centimani, i Ciclopi, i Titani, tutti relegati da Urano nel Tartaro, eccetto l’ultimo di essi, Crono, cui Gea diede un falcetto di selce con il quale Crono evirò Urano  e ne gettò il membro in mare. Dalle gocce di sangue del membro di Urano nacquero Le Erinni, le Melie, le Eumenidi, le ninfe, mentre dalla spuma sollevata dal membro di Urano nacque Afrodite

Afrodite

Afrodite aurea. Mite sorriso, dolce tristezza. Lieve onda del mare e turbine della tempesta. Musica della tua voce, luminosità dei tuoi occhi, sinuosità armoniosa delle tue forme, levigata pelle, morbidi e duri seni, morbide e dure anche. Ansito rauco di corpi che si avvinghiano, complice serenità del risveglio, malinconica lontananza, spumeggiante presenza,  grazia del gesto, oscena risata, dolore e piacere, prima luce della sera, ultima luce dell’alba, forza vitale che pervadi il mondo  e ne provoca la rigenerazione, cespuglio odoroso d’amore, “gioia degli uomini e degli dei, Venere generatrice, che sotto le stelle che percorrono il cielo fecondi il mare carico di navi e le terre piene di frutti, grazie a te ogni essere vivente viene concepito e può guardare, una volta nato, la luce del sole. Davanti a te e al tuo arrivo, o dea, si placano i venti e fuggono le nubi del cielo, per te la terra laboriosa fa nascere fiori soavi, grazie a te sorridono le distese del mare e sereno il cielo brilla di luce diffusa”. (Lucrezio: “De rerum natura”, ode a Venere)

Urania, irraggiungibile nella tua essenza celeste, Pàndemia nella tua terrena disponibilità, Citerea e Ciprigna, matura ed asprigna.

“A nessuno è dato evitarti” (Inno omerico), nata dall’afros, dalla spuma del mare, adornata di luccicanti conchiglie ricche di sonorità.

“Sotto gli agili piedi nascevano i fiori man mano che lei s’inoltrava” (Esiodo, Teogonia).

“Tiene in suo dominio i mortali, gli uccelli del cielo e tutte le innumerevoli belve, quante ne nutrono il mare e la terra…dietro di lei scodinzolano lupi canuti e feroci leoni, orsi e veloci pantere” (Inno omerico) “E’ lei la venuta dal mare” (C.Pavese)

Immersa nelle acque di Pafo torni ogni volta vergine ed ogni volta bisogna reinventarti in ciò che sei e che non sei. Violentata ogni notte da Efesto zoppo e pronta ad offrirti senza argini ad Ares dal lungo fallo. Guerra e pace, violenza e dolcezza, donna e dea, Eurinome leggiadra, Astarte dall’immenso potere, Myriam purificata, libidine e passione, notte gravida di desideri e luce splendente di sacralità.

I figli di Crono

 

Crono sposa Rea, ha da lei molti figli, ma pensando di potere essere spodestato da essi li fivora sin dalla nascita. Quando nasce Zeus la madre avvolge in fasce una pietra e la dà a mangiare a  Crono, mentre nasconde Zeus presso l’isola di creta, affidandolo ad alcuni sacerdoti, i Coribanti, che ne coprono il pianto con vari rumori,  e a una capra, Amantea, che lo nutre con amore, fino a quando Zeus, che voleva coprirsi con un vestito, non la uccide e ne indossa la pelle. Zeus  sposa Meti, si fa assumere come coppiere nell’Olimpo e offre a Crono un intruglio che gli fa vomitare i figli che aveva mangiato.  Con un patto  Zeus divide, con i suoi fratelli Poseidone e Ade la Terra, il mare e  mondo dei morti, sposa la sorella Era e offre a Demetra il potere di generare la vita sulla terra. La figlia di Zeus e Demetra, Persefone, viene rapita da Ade e diventa signora degli Inferi, ma grazie all’amore della madre che l’ha cercata ovunque, ottiene da Zeus di potere tornare per sei mesi sulla terra e riattivare il ciclo delle stagioni, dall’inverno alla primavera  e all’estate. Una nuova generazione di dei, attraverso una serie di lotte con le antiche creature relegate nell’Erebo, alla fine riesce ad emergere e a conquistare la residenza sull’Olimpo, dove vanno a sedersi numerosi altri figli di Zeus, come Artemide, Apollo, Ermes-Mercurio, Efesto-Vulcano, Ares-Marte, Athena-Minerva, Estia e una schiera di divinità minori, come Pan, Temi, Teti, assieme a Naiadi, Pleiadi, ninfe, satiri, Centauri, Arpie, Erinni, Esperidi, cui seguirono un gran numero di semidei ed eroi, primo fra tutti Eracle, poi Achille, Teseo, Giasone, Bellerofonte, Perseo, Castore e Polluce, Aiace, Diomede, Ulisse.

Torniamo a Zeus, che aveva amato Metis, l’aveva ingravidata, ma quando l’oracolo gli disse che sarebbe stato spodestato dai figli nati da lei in modo naturale, propose a Methis di trasformarsi in mosca e la ingoiò. In preda a un forte mal di testa, in un certo momento chiamò Efesto, il quale, con una scure gli spaccò la testa.  Ne venne fuori, armata di scudo, lancia ed elmo, la dea della guerra, ma anche dell’intelligenza, Athena  protettrice della sua omonima città, che scelse il dono della dea, , l’ulivo, rispetto a quello offerto da Poseidone, il cavallo. Ed è la dea che segue passo passo le peripezie di Odisseo ispirandone le scelte.

 Zeus partorì, un altro figlio, l’immortale Dioniso, la cui luce ancora risplende sull’umanità, sotto nomi diversi. Una luce non diversa da quella con cui Zeus si manifestò a sua madre Semele, la figlia di Cadmo e Armonia. L’aveva avvisata, è troppo rischioso, ma aveva anche promesso che avrebbe soddisfatto ogni suo desiderio. Semele volle arrivare sino in fondo: il suo amore era così grande che poteva essere completo solo nell’annullamento totale di se stessa con la persona amata, nell’appagamento del desiderio di conoscenza: ne rimase folgorata e Zeus pietoso, ma anche in preda al senso di colpa, chiamò Ermes, che trasse il feto che ella teneva in grembo e lo cucì all’interno della sua coscia, dove rimase per tre mesi prima di illuminare il mondo.

Zeus, Athena, Dioniso

Tiresia

Era ancora  un ragazzo, che pascolava le sue  pecore su quella infinita finestra sul mondo che si apre sul Monte Cillene, cercava lumache, annusava erbe, si bagnava di sole e di pioggia, secondo i capricci del tempo quando vide due serpenti godersi e mordersi sul muschio, muoversi in un indecifrabile rituale erotico:  non potè trattenere la sua paura e li staccò col suo bastone di corniolo. Uccise la femmina e e fu tramutato in donna. Fu solo paura quella che spinse il ragazzo a spezzare quella perfetta fusione di maschio e femmina? Quella semplice danza, la danza di tutto l’universo?’ L’ umile pastorello, si trovò a fare un gesto simile a quello di Zeus, quando tagliò in due gli androgini. E così quella parte femminile che egli aveva ucciso, che voleva escludere, lo prese interamente aprendogli vie di conoscenza che mai avrebbe immaginato  In principio non riusciva a capire, a rendersi conto della nuova condizione. Constatava la scomparsa del sesso esterno e la presenza di qualcosa di diverso che apriva una strada dentro il suo corpo. Era sempre Tiresia  con una mutata sensibilità nel leggere i colori, nel percepire i suoni, nel dare un senso ai fatti  senza più riuscire a cogliere quel che era rimasto della sua originaria identità.

Non fu facile abituarsi a essere altro da quello che era stato, a essere quel che era e capire se quel che era fosse una parte nascosta di quel che era stato.

Athena

Passarono sette anni e Tiresia tornò sul monte Cillene, attese a lungo e finalmente si ripresentò il vecchio serpente, avvinghiato a una nuova compagna. A questo punto uccise il maschio e tornò maschio egli stesso. Nella sua tornata identità un giorno sorprese, presso la fonte Tilfussa, Athena nuda che faceva  il bagno, La sua eccitazione non sfuggì alla dea, che, irata, lo condannò alla cecità. Tuttavia,  commossa dalla preghiera della madre, ordinò a Erittonio, il serpente che l’accompagnava: “Lava le orecchie di Tiresia con la tua lingua, affinché egli possa intendere il linguaggio profetico degli uccelli”.   Non è chiaro come avrebbe potuto vedere, da cieco,  il volo degli uccelli per interpretarlo, o come il  senso dell’udito, deterso dalla lingua di Erittonio potesse sostituire quello della vista, ricomporre il rumore in immagine, ma di colpo gli si aprirono immensi spazi di possibilità di conoscenza e di identificazione di strutture, dati e significati, archetipi dell’autentico e originario modo di essere delle cose. La dea pietosa dopo gli pose la mano sugli occhi e gli consentì di vedere nell’ignoto, in quello che si nascondeva tra le pieghe dei significati, nelle profondità di misteri irrisolti, di conoscenze precluse, nel futuro nella vita degli uomini e delle donne, gli diede persino, lavorato con le sue divine mani, un bastone di corniolo che gli facesse da guida e sostegno tra le vie perigliose della conoscenza.

Questo e non l’ira di Era o il dono riparatore di Zeus causò a Tiresia  la  cecità del presente e la conoscenza del futuro. Zeus gli diede le sette vite solo per ringraziarlo di avergli fatto vincere la scommessa. Quale?

Un giorno Era e Zeus convocarono Tiresia per chiedergli un responso.  Non so cosa avessero scommesso, ma mi chiesero se l’orgasmo maschile è inferiore o superiore a quello femminile. Solo io, che ero stato donna, avrei potuto rispondere. Dissi a Zeus che l’intensità del suo orgasmo era quella di un dilettante, rispetto a quello o a quelli provati da Era: avevo detto un terzo rispetto a due terzi, ma qualcuno è arrivato a farmi dire uno a nove. Provocai  l’ira di Era.

La domanda di Zeus mi colse di sorpresa. Mi trovai puntati i suoi occhi di gran puttaniere che minacciavano d’incenerirmi e lo sguardo maestoso della Grande Madre, spodestata dal suo trono, dove il tutto non contemplava un “al di sopra del tutto”, ma comunque padrona della sua sconfinata potenza, che concedeva alla pre-potenza del maschio sposo solo l’illusione della sua predominanza. Ebbi paura di Zeus, della sua collera, del suo orgoglioso ruolo di signore e della sua convinzione di essere al di sopra di tutto e quindi di avere sempre ragione, e volli farlo contento.

In realtà io sapevo, così come Era sapeva, che la questione era ben diversa. Che il piacere femminile non poteva essere messo a confronto con quello maschile, né tantomeno poteva essere quantificato. Forse è uguale il piacere del prendere e quello dell’esser preso, il piacere di offrire e quello dell’accettare, di entrare e di accogliere?

Una volta soddisfatta la vanagloria del Padrone, ci guadagnai anche le mie sette vite,

Ancora oggi non so cosa abbia causato l’ira della dea madre: «Può darsi, dico può darsi, che la mia risposta aveva fatto intravedere ad Era un mondo di piacere che nessuno, neanche Zeus in quei primi trecento anni, era stato capace di farle godere» (Camilleri).  Presumo che la dea mi abbia accecato perché io fermassi lì la mia ricerca verso il recondito delle sessualità andro-femminine, che per sempre avrebbe posto fine alle dispute che si susseguono dall’origine dell’homo sapiens, nato nel momento in cui Athena uscì dalla testa di Zeus.

Narciso

Mentre era in cammino verso Tebe Tiresia fu fermato da una donna che, dal tono della voce, immaginò: “O Tiresia, Zeus ti diede il dono di vedere ciò che sta più avanti nel tempo, ebbene, ascolta la mia richiesta. Sono Liriope, ninfa oceanina. Un giorno uscii dal mare e andai oltre la foce di un corso d’acqua dolce, sino a fermarmi in una conca limpida, dai bordi fioriti. Piano piano sentii qualcosa che scivolava tra le mie parti intime e mi pervadeva, lasciandomi spossata di piacere. Era il fiume Cefiso che mi avvolgeva con il suo amplesso. Trascorsi nove mesi nacque questo figlio, al quale ho dato il nome di Narciso, che oggi rappresenta la mia unica ragione di vita e del quale tu non puoi vedere, forse solo immaginare la bellezza. Puoi dirmi qualcosa del suo futuro, perché io possa preservarlo e proteggerlo dalle insidie della vita?”

Posai la mano sul capo del ragazzo: Di colpo mi si aprì uno squarcio di luce nel quale si proiettava la sua storia, la luccicante avvenenza delle sue forme, la voglia di amarlo di ragazzi e ragazze che lo incontravano, la sua scelta  di non dividere se stesso con nessun altro, la disperata voce della ninfa Eco, perdutamente e inutilmente innamorata di lui, l’intenso amore del suo compagno di caccia Aminia, che si uccise con una spada da lui  offertagli, la vendetta di Nemesi, che ne decise la morte, la scoperta del proprio volto riflesso nell’acqua, l’innamoramento di se stesso, l’impossibilità di uscire dalla propria solitudine, la decisione di trafiggersi con la stessa spada che aveva dato ad Aminia. Qualcuno raccontò che il giovane era annegato cadendo in acqua, nel tentativo di abbracciare la propria immagine: difficile credere che il giovane figlio di un’oceanina e di un fiume non sapesse nuotare, o che l’acqua che lambiva la sponda fosse così profonda.  Nel mio primo vaticinio cercai di dire e non dire, di celare il segreto nelle parole: “vivrà fino a tarda età se non conoscerà se stesso”. “Si se non noverit” (Ovidio).

Ancora oggi la sorte di quel ragazzo mi addolora e mi stupisce: che colpa aveva se non provava per gli altri l’amore che gli altri sentivano per lui? Se non aveva trovato, sino a quel momento, un riscontro alla sua bellezza? Se amava se stesso in una forma di non condivisa omosessualità che gli aveva svelato, fatto conoscere il suo vero volto, l’identità nascosta del proprio essere, l’originaria presenza del padre nell’acqua del fiume? Nessuno di noi è un’isola oppure ognuno di noi è un’isola?

Sul frontespizio del tempio di Apollo a Delfi è scritto: “Conosci te stesso”. Fu la scoperta della conoscenza di sé che causò la morte di Narciso, nella stessa misura in cui Eva ed Adamo, vollero mangiare il frutto dell’albero della conoscenza, e perciò vennero espulsi dall’Eden? Oppure l’essersi reso conto dell’impossibilità di andare dentro a quel guazzabuglio sconfinato che caratterizza l’interiorità dell’uomo e di fermarsi solo all’immagine riflessa in superficie?

Il sesto comandamento della sapienza ebraica, dettato da Mosè, dice “Non disperdere il seme”. (F.De Andrè). Fu la scoperta della masturbazione, e quindi della sessualità a determinare la morte di Narciso, oppure la considerazione che la propria umana bellezza non può mai essere messa a confronto con quella degli dei e degli altri uomini perché il bello è ciò che appare bello?

Le Cariti

Sulla vicenda delle Grazie, in latino, o Cariti, in greco, rischio di non capirci più niente: sono tre, secondo le trilogie tipiche delle varie mitologie, (Trimurti, triade Capitolina, Trinità, Triade egizia, ecc.). Rappresentano, secondo diverse interpretazioni, le tre forme dell’amore, Castitas, Voluptas, Pulchritudo, (Wind), oppure tre condizioni comportamentali, offrire, accettare, restituire. Sarebbero, figlie di Eurinome e Zeus, (Esiodo), figlie di Era e Zeus, del dio Sole e dell’oceanina Egle, o di Venere e Dioniso. Escludiamo la prima delle ipotesi in quanto Zeus non era nato quando Eurinome iniziò a danzare nell’aria. Le Cariti sono Aglaia, Eufrosine e Talia, ma ci sono altri nomi, forse sovrapposizioni della stessa divinità.

-Carite è la Grazia, l’armonia, la perfezione: per alcuni è una dea, sposa di Efesto in seconde nozze, dopo il suo divorzio con Afrodite, per altri è una delle tre Grazie.

-Eufrosine, serena letizia, è una delle Grazie, che infonde gioia di vivere.

-Aglaia, la lucente è la più giovane delle Cariti ed è la dea della bellezza, dello splendore, della gloria, della magnificenza e dell’ornamento.

-Pasitea, la rilassatezza, è la più giovane, sposa di Hypnos dio del sonno, rappresenta la personificazione del riposo e della meditazione.  Era la chiama quando vuole fare addormentare Zeus.

-Talia, la grazia, indica la pienezza, la prosperità ed è portatrice di fiori

-Kale, indicata come una delle Grazie, sarebbe nata da Eufrosine e, per fare onore al suo nome, rappresenta la Bellezza pura.

Tornando alla fonte in cui aveva visto Athena, Tiresia si sentì chiamare “Vieni avanti Tiresia, non ti far cruccio della tua cecità, perchè saremo presenti nella tua mente, nella nostra reale essenza, e tu dovrai dirci chi è la più bella”.

E così passarono, non saprei se dire sotto i miei occhi assenti, o sotto la mia mente dilatata, in una sorta di proiezione d’immagine,  le entità fisiche, i corpi nudi delle quattro dee, Eufrosine, gioia e letizia, a un tempo pienezza e lucida esistenza impossibile di ciò che ogni uomo desidera e da sempre ha desiderato, Kale, l’essenza unica, introvabile e irraggiungibile della bellezza, dove ogni conflitto interiore, ogni increspatura del tempo si scioglie, si dissolve, si addensa nella perfezione formale e nel profumo adolescente, Pasitea, il riposo del guerriero,  la rilassatezza, l’assenza di tensioni, la serenità che avvolge  gli amanti dopo l’amplesso, dopo scontri e incontri conclusi con reciproca soddisfazione, e infine la dea delle dee, Afrodite Urania e terrena, la spuma, la venuta dal mare e dal cielo, dal sangue d’Urano, castrato ma capace ancora di procreare una tale irraggiungibile bellezza, l’amore compiuto in ogni suo risvolto, figlia e madre, compagna e amante, la piena maturità della bellezza e dell’armonia, la sintesi perfetta d’ogni emozione.

Come avrei potuto rispondere? A quale concetto di bellezza avrei dovuto fare riferimento? Chi avrei potuto indicare, ben sapendo che ognuna si completava con l’altra?

E fu allora che commisi il mio più grande errore, scegliere lì dove non si doveva e non si poteva scegliere. Lo stesso errore di Paride Alessandro, sull’Elicona. Il mio stesso errore davanti alla domanda di Zeus ed Era. Un po’ per paura di negare la risposta a una domanda divina, un po’ perché ubriacato da tanta bellezza, un po’ perché inorgoglito, io, piccolo uomo, per essere stato prescelto per un così arduo compito, un po’ perché credevo che sarebbe stata rispettata la mia scelta: ignoravo che per le dee e per le donne, che di esse sono la terrena incarnazione, esser messe a confronto e perdere è un’umiliazione, una sconfitta, giustificata magari con l’inadeguatezza dell’altrui capacità di valutazione.

E in quel momento la mia scelta cadde su colei che sentivo più vicina alla mia giovinezza, l’adolescenza che sboccia e si fa piena vita, l’origine della bellezza, che poteva nascondere, lasciar prevedere ben altri sconosciuti orizzonti alla sua raggiunta compiutezza, le forme sode e a un tempo slanciate, luminose e piene di chiaroscuri, i seni turgidi ed eretti e un accennato sorriso che apriva spazi sconfinati di semplicità, d’innocenza, di dolcezze, d’intimità. E d’altronde non mi si chiedeva di scegliere l’amore, ma la bellezza. Scelsi Kale e fu la fine. Afrodite mi sembrava perfetta, compiuta, irraggiungibile, assolutamente divina. E invece la dea irata, senza dire una parola, mi trasformò in una vecchia grinzosa, una laida megera e scomparve in un guizzo, forse a sfogare la sua rabbia sull’Olimpo.

Kale, mossa a compassione, lo portò con sé a Creta e non potendo annullare il sortilegio, gli fece dono di una bellissima chioma.

 E fu in questa condizione che la  intravide Eliot attraversando la sua “città irreale”, pre-soffrire per uno squallido rapporto sessuale di città tra due soggetti automatizzati e omogeneizzati.

Ma già a queste mammelle ancora turgide qualche anno prima aveva succhiato Apollinaire, quando Thérèse decise di disfarsene per diventare l’uomo Tiresia, abbandonando il marito, che, diventato donna, mise al mondo in un sol giorno, 49.051 bambini, sino a quando Tiresia, tornato ad essere Thérèse, non decise di tornare da lui-lei.

Fu in questa stessa combinazione degli eventi che chiesi a Kale se fosse capace di andare al di là della compassione, della gratitudine, della ripugnanza, di darmi un bacio. Quando la sua lingua s’incontrò con la mia, di colpo mi ritrovai quello che ero stato prima, quando l’avevo scelta, l’amai, scelsi di vivere con lei e generammo due figlie d’eccezionale bellezza, dotate del dono della divinazione, Dafne, rimasta vergine, diventata sibilla e sacerdotessa d’Apollo, e Manto, preda di guerra del capo degli Argivi Alcmeone, dal quale generò due figli, anch’essi bellissimi, Anfiloco e Tisifone, che furono affidati a Creonte, re di Corinto. Quando Tisifone crebbe, la moglie di Creonte, gelosa e preoccupata dalla sua bellezza, vendette la ragazza come schiava: fu acquistata da Alcmeone, che, ignorando chi fosse, la tenne tra le donne della sua casa e comunque non consumò l’incesto. Del resto egli aveva i suoi problemi, perseguitato dalle Erinni perché aveva ucciso sua madre Erifile.

Kale non so che fine abbia fatto. Un giorno non la vidi più, la persi per sempre come si perde la bellezza quando il tempo ci offende.

Manto invece, privata dei suoi figli, dopo avere predetto ad Alcmeone una tragica fine, seguendo le indicazioni di Apollo, di cui era strumento e interprete, si recò a Colofone, nella Ionia, dove sposò Racio, re della Caria, da cui generò Mopso. Secondo Dante, dopo alterne vicende sarebbe finita in Italia e sulla sua tomba sarebbe stata costruita Mantova.

Edipo a Tebe

Era tempo che Tiresia scendesse dalla montagna. Prima di me l’avevano fatto altri profeti, Isaia, Cristo, e soprattutto Zaratustra il divino annunciatore della morte di dio.  A Tebe era desolazione. Edipo dai piedi gonfi, arrivato dal nulla, aveva vinto la Sfinge alata proveniente dall’Etiopia,  la vittoria della ragione sul mistero, sulle paure dell’apparente inspiegabilità, aveva ucciso Laio, senza sapere che fosse suo padre, giusta nemesi per l’uomo che alla nascita lo aveva condannato a morte, aveva sposato Giocasta, senza sapere che fosse sua madre, un ritorno nel grembo di colei che, ripudiata da Laio, era riuscita a farsi ingravidare ubriacandolo, anche questo un ritorno nel grembo da cui era stato lontano. Il parricidio e l’incesto dell’incolpevole giovane non l’avevano sottratto all’ira degli dei che avevano scagliato su Tebe, sede  del misfatto, pestilenza, carestia, morte e distruzione. L’oracolo di Delfi aveva sentenziato: “Cacciate l’assassino di Laio”, ma Edipo non l’aveva trovato. Mi cercarono, ero l’indovino più famoso dell’Ellade, e quando misi piede nella reggia, sapevo tutto e provai tanta pietà per quell’uomo incolpevole, ma condannato dagli dei. Cercai al momento una soluzione provvisoria: “La pestilenza cesserà se uno degli uomini Sparti morirà per il bene della città”. Non avevo neanche finito di parlare che Meneceo, padre di Giocasta, nato dai denti del serpente, si gettò dalle mura, e la peste cessò. Non cessò invece la carestia, la mancanza di vita sulla terra e persino nell’utero delle donne. E allora rivelai l’arcano: “L’uomo condannato dagli dei è uno Sparto della terza generazione, che ha ucciso suo padre e sposato sua madre. Sappi, o Giocasta, che il suo nome è Edipo”.  E fu come un abisso si aprisse sotto i piedi della regina e del suo sposo-figlio.

“Quali prove hai per sostenere una così tremenda accusa?” mi chiese Edipo.

“Chiedetelo a Peribea, regina di Corinto”.

Peribea, morto il marito Polibo, si sentì libera di potere rivelare il segreto e raccontò di avere trovato il bimbo in una cassa arenatasi sulla spiaggia, di avere simulato un parto con le sue ancelle e di avere poi convinto il marito a riconoscerlo come figlio. Giocasta si impiccò per il dolore e la vergogna, Edipo si  accecò con uno spillo rimastogli tra le mani mentre cercava di fermare sua madre, e andò via, ramingo, per il mondo, accompagnato da sua figlia Antigone, sino a fermarsi a Colono, dove le Erinni, che lì avevano un sacro bosco, lo spinsero alla morte.

Eteocle e Polinice

Altra triste sorte quella dei suoi due figli-fratelli, Eteocle e Polinice. Si erano accordati per regnare su Tebe un anno ciascuno, ma finito il suo anno, Eteocle non volle rinunciare.  Polinice e il suo inseparabile compagno d’esilio Tideo avevano sposato le due figlie di Adrasto, re di Argo, Egia e Deipile. Dopo una serie di alterne vicende, sollecitato da Polinice, Adrasto riuscì a portare sotto le mura di Tebe i sette re argivi, e ognuno di essi pose sotto assedio le sette porte di Tebe. Tideo uccise in duello tutti gli sfidanti tebani ed Eteocle chiese un consulto a Tiresia, che profetizzò, come una volta con Edipo, che Tebe sarebbe stata salva se un principe di sangue reale si fosse offerto in sacrificio ad Ares. E ancora una volta un altro Meneceo, figlio di Creonte, nipote e omonimo del primo, si uccise davanti a una delle porte, salvando Tebe dall’assalto di Capaneo che, mentre saliva su una scala appoggiata alle mura, venne fulminato da Zeus. Sua moglie Evadne non volle sopravvivergli e si gettò sul rogo funebre, bruciando viva. (Igino, Fabula, 273) Polinice, per evitare ulteriori stragi, sfidò il fratello e i due combatterono aspramente per un intero giorno, sino a quando non si uccisero reciprocamente.

In realtà per volere di Creonte, fratello di Giocasta, diventato re, solo ad Eteocle vennero concessi gli onori funebri, mentre il corpo di Polinice rimase esposto alle intemperie. Antigone, mossa a pietà, infrangendo l’ordine dello zio, preparò la pira e bruciò il corpo del fratello. Avvertii allora Creonte, ottenebrato dalla sua stoltezza, di non infierire sulla sua stessa stirpe, perché grandi sciagure sarebbero cadute sulla sua casa: “Non passerà molto tempo e nella tua casa echeggeranno lamenti di uomini e di donne…e poiché tu stesso mi provochi, con tutto il mio odio scaglio contro di te, come fossi un arciere, questi strali infallibili, al cui bruciore non potrai sfuggire”.

Ma egli, nella sua smania di grandezza, offesa dalla disubbidienza di una donna, ordinò a suo figlio Emone, cui Antigone era stata promessa, di seppellirla viva nella tomba di Polinice. Anche Emone disobbedì al padre: innamorato di Antigone la nascose tra i vicini pastori, la incontrava di nascosto, e con lei generò un figlio che, come tutti i discendenti di Cadmo, aveva sul corpo il segno del serpente. Quando il nipote di Edipo, cresciuto, venne a Tebe, Creonte, ancora vivo, riconobbe quel segno e condannò a morte il ragazzo, rifiutando persino l’intercessione di Eracle. Il ragazzo uccise Creonte con il lancio di un disco. Altre storie raccontano che Antigone, condannata a vivere in una caverna, si uccise, o che sia stata uccisa da Emone, il quale uccise poi se stesso: a seguito si uccise anche Euridice, madre di Emone. (Sofocle: “Antigone”).

Morte di Tiresia

Durante la fuga, Tiresia ormai incapace di sostenere il passo per il peso degli anni, chiesi di fermarsi presso una fonte per bere. Riconosce, dagli odori, dal rumore dello scorrere dell’acqua, dalla gradevolezza dell’aria di trovarsi presso la fonte Tilfussa, il luogo in cui aveva visto Athena e le Cariti.

Un luogo “sakros”, dove la sacralità è a un tempo espressione del divino, del mistero inspiegabile, del tragico, ma anche dell’orrido, della vita e della morte, dello “sforzo compiuto dall’uomo per costruire un mondo che abbia un significato”. (Eliade).

Un senso che sfugge, che si avvolge di dubbi e incertezze, di illusioni e delusioni, di domande e di false risposte, di chiarezze e di nebbie. Un senso che all’uomo sembra essere precluso, anzi, che non esiste, perché esistono attimi, frammenti, macchie liberate che ci illudiamo di leggere con un’unica chiave di lettura, che invece è diversa da uomo a uomo, da tempo a tempo.

 Chiede a Mopso, figlio di sua figlia, di dissetarlo e versa sul suo capo un po’ dell’acqua rimasta nella ciotola:  “E’ finito il mio tempo, ragazzo mio, a te l’arduo compito di continuare sulla mia strada, di essere voce degli dei, di andare oltre, di non lasciarti allettare dai loro inganni. Oltre il magico mondo del numinoso altre strade nascondono la possibilità di scoprire l’arcano, di dipanare il mistero, di dire agli uomini quello che non vogliono sentirsi dire. Le risposte che essi cercano non sono nei cieli, ma dentro di loro, a portata di mano, nelle fredde e precise combinazioni degli elementi della madre terra, nelle concatenazioni di causa ed effetto, nelle lucide leggi che solo la luce di Athena può svelare. Ma neanche di questo sono più certo. Ho toccato con mano che tutto ciò non basta, che esistono finestre chiuse, strade che non portano in nessun posto, spazi oscuri dove la conoscenza annega nell’infinito. Tra brevi spiragli entra lo zefiro del sogno, la nascosta doppiezza di Dioniso, la gioia e il dolore. Lasciami per sempre qui, dove iniziarono le mie disgrazie e finisce la mia grandezza”. Il mestiere del veggente sa di truffa quando sei costretto a indovinare ciò che l’altro vuole sentirsi dire. A tutti quelli che ho truffato chiedo perdono, a quelli che ho salvato chiedo un sorriso. E’ un viaggio verso l’infinito.  Ogni tanto qualche lampo squarcia l’arcano:

“Qui l’indistinto ieri e l’oggi nitido

mi hanno elargito gli ordinari casi

d’ogni destino; qui i miei passi intessono

il loro labirinto incalcolabile.

Qui l’imbrunire di cenere aspetta

il frutto che gli deve la mattina;

qui l’ombra mia si perderà, leggera,

nella non meno vana ombra finale.

Ci unisce la paura, non l’amore;

sarà per questo che io l’amo così tanto.

(Borges)

Odisseo

Circe la maga non è riuscita a trattenere Odisseo, ma gli ha suggerito, per conoscere il suo futuro, di recarsi nel regno dei morti per interrogare Tiresia, l’unico che nell’aldilà riesce a conservare  la sua veggenza

Il racconto di Omero, cieco anche lui, è preciso e armonioso nei suoi versi.

Su suggerimento di Circe la divina, l’Astuto a me solo sacrificò “un ariete sceltissimo tutto nero”, con la spada protesse quel sangue  dalle altre larve che volevano berne, aspettando il mio arrivo.

Dopo avere bevuto il nero sangue vede l’ombra del suo destino ineluttabile, tracciato dall’ira di Poseidone, per l’accecamento del figlio Polifemo, ma gli dà l’illusione volli illuderlo di avere qualche possibilità di cambiamento della propria sorte, in rapporto alle decisioni e ai comportamenti suoi e dei suoi degli uomini, di potere scegliere il proprio destino, di esserne protagonista.

Profetizza che avrebbero potuto rivedere la “pietrosa Itaca” (Foscolo), se nessuno avesse toccato le vacche del dio Sole “che tutto vede e tutto ascolta dall’alto”, al pascolo nell’isola di Trinacria. Sarebbero invece andati a sicura fine se ne avessero mangiato le carni. “Se ti salvi, tornerai solo, su nave altrui, troverai nella tua casa uomini che divorano le tue ricchezze e vogliono sposare la tua divina sposa Penelope, ma punirai la loro tracotanza.   E quando avrai spento i pretendenti nel tuo palazzo, parti, prendendo il maneggevole remo, fino a quando non sarai arrivato presso genti che non conoscono il mare, non mangiano cibi conditi con sale, non conoscono le navi dalle guance di minio, né i remi che sono ali alle navi. Questo il segnale: quando, incontrandoti, un altro viatore scambierà per un ventilabro, (quel che separa il grano dalla pula), il remo che tu reggi sulla spalla, pianta a terra quel remo offri a Poseidone sovrano in sacrificio un ariete, un toro e un verro marito di scrofe, torna a casa e celebra sacre ecatombi ai numi immortali che il cielo vasto possiedono, a tutti per ordine. Morte dal mare ti verrà, molto dolce, a ucciderti vinto da una serena vecchiezza. Intorno a te popoli beati saranno. Questo con verità ti predìco”

“Vai oltre il ritorno,

porta sulle spalle un remo

Abbandona la casa e vai errante nel sole

Fino a gente che non batte il dorso del mare

Che non conosce i cibi conditi col sale

Che confonderà il remo con un ventilabro

Un rastrello per spargere intorno sementi

Per pettinarle nelle crine dei venti

Lì lo poserai offrirai sacrifici

La morte ti coglierà dal mare

Consunto da splendente vecchiezza

Tra gente felice attorno

Questo ti dico senza tema né dubbio.”

 (Vinicio Capossela)

Fuori era già buio quando Odisseo lasciò la notte eterna dell’Erebo. Il buio dell’esile passaggio che separa la vita dalla morte. Ordinò ai compagni di raggiungere la nave, poi stremato, fortemente turbato per le sfide che lo aspettavano si abbandonò al sonno e nel sogno gli tornò l’ombra di Achille, che aveva da poco lasciato con queste parole: “te vivo onorammo come nume celeste e ora domini i morti, grande anche quaggiù. Dolerti non devi, Achille, d’essere morto”, con la mesta risposta del Pelide:

 “Invano tu vuoi consolarmi, o Ulisse divino, d’essere morto. Servire io vorrei, lavorare i campi di un altro, cui la vita sia pure difficile, ma vivere sopra la terra, anziché su la turba infinita regnare dei morti”. (Odissea libro XI, versi 485-490)

Dante

Nei confronti di Tiresia Dante è meno pietoso: lo relega nel suo Inferno, nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio, dove si puniscono i fraudolenti, e in particolare maghi, indovini e maliardi. Attraversando un ponte delle Malebolge egli nota una folla piangente che cammina al contrario, con “il mento e il principio del casso”, cioè del busto, girati, cioè con il viso che sta sulle spalle e guarda indietro. Dante stesso si commuove davanti al pianto di quei dannati, che scende sino alle natiche, ma Virgilio lo rimbrotta dicendogli che non ci si può commuovere per peccatori già condannati da Dio.

E’ la pena del “contrappasso”, la pena al contrario, a cominciare dal primo della fila, Anfiarao, re di Argo, dotato di divinazione, che, avendo intravisto e predetto la propria morte sotto le mura di Tebe, tentò di nascondersi per non partire, ma la moglie, corrotta da Polinice, che gli offrì la collana dell’eterna giovinezza appartenuta ad Armonia, ne rivelò il nascondiglio e lo costrinse alla guerra. Mentre assaltava la porta Omoloide venne respinto dai Tebani, ma fu Zeus che, per evitargli l’onta della sconfitta, lo colpì col fulmine e io stesso lo vidi precipitare tra le viscere della terra. Si dice che fosse arrivato al cospetto di Minosse con l’armatura e il carro da guerra:

“Mira c’ha fatto petto de le spalle:

perché volle veder troppo davante,

di retro guarda e fa retroso calle”.

Quello di punire chi guarda “troppo in avante” è per Dante una fissazione che ritorna costantemente, poiché a suo dire non si può conoscere, con gli strumenti del finito, l’infinito.  Accontentarsi, evitare di cercare la pienezza della felicità, di soddisfare certe curiosità, rinunciare alla pretesa di conoscere razionalmente Dio, per non vanificare il senso della Rivelazione. Eva è la prima peccatrice colpevole di avere mangiato il frutto dell’albero della conoscenza:

“State contente umana gente al quia,

che se potuto aveste veder tutto

mestier non era partorir Maria.”

Anche Ulisse, in un primo momento arringa i suoi marinai urlando e spronandoli:

“Considerate la vostra semenza

Fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtude e conoscenza”,

ma rimane vittima della sua stessa voglia di conoscere l’inconoscibile, inghiottito dalle onde di uno strano e ignoto mare, dopo avere attraversato le colonne d’Ercole, limite fissato del mondo conosciuto.

 Dante accomuna nella condanna astrologi, studiosi e volgari imbroglioni, il mitico Calcante e la figlia di Tiresia  Manto, alla quale attribuisce una verginità che contrasta con la condanna cui è da lui sottoposta. Gli sfugge, a causa  del tempo in cui visse, la possibilità di una divinazione pre-cristiana, di cui Manto, sacerdotessa e tutti e tutte coloro che avevano avuto questa dote della divinazione erano canali di comunicazione. Per Dante invece il futuro è noto solo a Dio e chi afferma di poterlo prevedere è  un imbroglione.

Gli Epigoni

E intanto la guerra non era finita. I figli dei sette eroi caduti, gli Epigoni, giurarono vendetta, primo fra tutti Tersandro, figlio di Polinice. Ancora una volta interpellato, vidi e predissi la fine e la distruzione di Tebe quando l’ultimo dei Sette sarebbe morto. In ogni caso Tebe sarebbe stata rasa al suolo. Vidi e predissi anche la mia fine. Quando cadde Egialeo, figlio di Adrasto, il vecchio non resistette al dolore e quello che poteva essere un segnale di vittoria, fu letto come il principio della fine. I Tebani, atterriti dalla profezia, fuggirono quella stessa notte, si dispersero sui monti vicini, portando con sè le mogli, i figli, le armi e quel po’ che si poteva sottrarre al saccheggio e si fermarono in un posto che chiamarono Estiea.

Di Tebe non restò pietra su pietra.  Sulla cima dell’acropoli, davanti al tempio del dio Apollo, rimase solo mia figlia Dafne, silenziosa nella sua dignità di sacerdotessa e indovina. Gli Argivi s’inginocchiarono davanti alla sua maestosità e l’accompagna-rono in processione al grande santuario di Delfi, l’omphalos del mondo, dove divenne la Pitia del dio.

Mopso 

C’è chi sostiene che Mopso fosse figlio di Apollo, e invero la sua capacità di lettura di tutto quello che poteva succedere aveva del prodigioso, tanto da eguagliare, se non superare quella di suo nonno Tiresia e quella di colui che era considerato il più grande veggente dell’Ellade, Calcante. Il quale, sulla via del ritorno dalla guerra di Troia, passò da Colofone, incuriosito dalla fama del suo più giovane collega, chiese d’incontrarlo e gli gettò un guanto di sfida: “Davanti a noi c’è un grande fico selvatico: vediamo se sei bravo come dicono, quanti fichi ci sono?”

 La risposta di Mopso, dopo un lieve battito di ciglia, fu immediata: “Diecimila fichi, pari a uno staio egineta di fichi pesati e infine un ultimo fico scordato tra i rami dell’albero”. Calcante rise al pensiero di quell’ultimo fico, ma la previsione di Mopso si rivelò esatta. Tra le fronde del grande fico era rimasto nascosto un frutto che Mopso raccolse e masticò con soddisfazione.

Senza volere infierire, forse per rispetto, il giovane indovino raccolse il guanto di sfida proponendo un quesito più semplice: “Sai dirmi quanti porcellini, (o, come li chiamò lui, lattonzoli), ci ci sono nel ventre di quella scrofa gravida, quanti maschi e quante femmine nasceranno e quando”.

Calcante provò a indovinare: “Otto lattonzoli tutti maschi, tra otto giorni”. Contava di ripartire prima e di sfuggire al riscontro. Invece Mopso, con il suo solito attimo di chiusura delle palpebre e con un malcelato sorriso, replicò: “Nasceranno tre lattonzoli, tutti maschi, domani esattamente a mezzogiorno”. E così fu. Calcante non resistette alla sconfitta e di colpo si accasciò morto. (Apollodoro, Epitome, IV 2-4).

Mopso lo guardò con distacco: “Addio indovino che non hai saputo indovinare la tua fine. Avevi predetto che saresti morto il giorno in cui avresti incontrato qualcuno più bravo di te, ma non hai saputo predire che incontrandomi la tua fine era segnata. Hai riempito di sangue la casa degli Atridi solo per accreditare la tua grandezza. Che bisogno c’era di indicare il sacrificio d’Ifigenia come condizione per l’arrivo di venti favorevoli alle navi in partenza per Troia? Non eri capace di prevedere, guardando il cielo, che i venti sarebbero stati messi in libertà da Eolo di lì a qualche giorno? Che bisogno c’era di illudere la giovane figlia del figlio di Atreo inventandole un matrimonio con il più bello e il più forte degli Achei, Achille? “Come augure Calcante non teme alcun rivale” disse di te Omero, ma oggi hai dimostrato che si sbagliava. Non eri un augure, ma un imbroglione”.

Con lui si chiudeva un’era che aveva visto le gesta epiche della guerra di Troia e nasceva un’altra stirpe di indovini e maghi i cui vaticini erano in parte dettati da complicati rituali di comunicazione e interpretazione della divinazione, da erbe e fumi che procuravano “l’entusiasmo”, cioè l’entrata del dio nell’animo, e in parte da conoscenze mediche e scientifiche di cui erano depositari. Altre glorie attendevano Mopso.

Gli Argonauti

Avevano appena attraversato le coste della Sicilia e intravisto da lontano le bianche greggi di Eolo, e poi le sacre vacche di Zeus pascolare ai piedi della Grande Montagna, quando rimasero per nove giorni in balia delle onde, preda del grande vento di nord-est. Un’ondata d’incalcolabile altezza e d’inaudita violenza scaraventò la nave nel deserto della Libia, qualche miglio oltre le insidiose rocce della costa, dove una immensa distesa senza vita fece temere agli eroi di essere arrivati alla fine del viaggio terreno. E fu in quella desolazione che Mopso, che tutto prevedeva, non previde che un aspide potesse morderlo al tallone e causare col veleno la sua morte, tra spasimi atroci.

Ebbe il tempo di dare a Giasone l’ultimo consiglio: “Offri al dio Tritone uno dei due tripodi di bronzo che la Pizia ti ha donato a Delo e rendigli omaggio con un sacrificio di pecore. Ti condurrà fuori dal grande lago salato dove adesso giace la nostra nave.”

Finiva con lui la stirpe di Tiresia, il tempo della grande magia, della preveggenza, e iniziava quello dell’interpretazione dei segnali inviati dagli dei, degli aruspici, delle sentenze profetiche bimorfi, dell’uso del mondo magico come strumento del potere politico. Con un serpente ucciso era cominciata tutta la storia, con un serpente che uccideva si chiudeva il ciclo, a due passi dalla terra della divina Cleopatra. “C’è un grosso serpe in ogni giorno della vita, e si appiatta e ci guarda” (Pavese “Dialoghi con Leucò”)

Un attimo prima di morire Mopso pensò che dietro quel serpente potesse esserci la maligna mano di Medea.  Gli furono tributati grandi onori, poi, grazie al suo consiglio, gli Argonauti ritrovarono le azzurre acque del Mediterraneo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Seguimi su Facebook