Quando le feluche erano materiale per la pubblicità

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In foto Ferdinando Nelli Feroci
Quando si parla di diplomazia e del ruolo degli ambasciatori, in Italia saltano fuori molto spesso le parole “Ferrero Rocher”. Nel 1988 la Ferrero mandò in onda una pubblicità televisiva per i suoi cioccolatini che nell’ambiente diplomatico è rimasta impressa, e ha plasmato il cliché sugli ambasciatori negli anni a venire. La pubblicità è ambientata a una festa organizzata all’ambasciata italiana di un paese non precisato: la residenza dell’ambasciatore è estremamente lussuosa, e l’ambasciatore, elegantissimo e «persona veramente raffinata», come dice uno degli invitati, ha organizzato un ricevimento sfarzoso per l’alta società — in cui sono serviti cioccolatini Ferrero, come spiega Eugenio Cau su Mondo. Molti membri del corpo diplomatico sono ancora piuttosto risentiti per questa rappresentazione, soprattutto perché riflette un giudizio sprezzante sul ruolo degli ambasciatori che, dicono gli ambasciatori stessi, è radicato e difficile da smentire. In realtà, benché sia abbastanza facile dire cos’è un ambasciatore (“il rappresentante di uno stato presso un altro stato” potrebbe essere una buona definizione di massima), è più difficile dire con precisione cosa un ambasciatore faccia davvero e cosa significhi, nel concreto, rappresentare il proprio paese. La difficoltà di definire cosa fa un ambasciatore dipende anche dalla variabilità estrema del lavoro diplomatico, che cambia in maniera molto decisa soprattutto a seconda del luogo in cui l’ambasciatore si trova a operare. A seconda di dove si trova e delle condizioni in cui opera, l’ambasciatore può avere un ruolo di agente politico, di facilitatore commerciale, di promotore culturale o di cooperante per lo sviluppo internazionale, e in alcuni casi tutti questi mischiati tra loro. E il cliché dell’ambasciatore Ferrero Rocher non è quasi mai appropriato. Gli ambasciatori sono funzionari pubblici che hanno raggiunto l’ultimo gradino della carriera diplomatica, un percorso piuttosto arduo a cui si accede tramite un concorso pubblico che si svolge ogni anno. Dopo il concorso, la carriera diplomatica è composta di cinque livelli: segretario di legazione, consigliere di legazione, consigliere d’ambasciata, ministro plenipotenziario e infine ambasciatore. Ai primi tre livelli si accede per anzianità: dopo dieci anni e sei mesi, per esempio, il segretario di legazione è promosso a consigliere di legazione, e così via. Si possono ottenere anche promozioni più rapide, in base al merito. Gli ultimi due gradi invece dipendono da una designazione del ministro degli Esteri, approvata dal Consiglio dei ministri. Ciascun grado della carriera diplomatica prevede alternativamente periodi all’estero, nelle sedi diplomatiche italiane, e periodi in Italia, tendenzialmente al ministero degli Esteri, da cui dipende tutto il corpo diplomatico. Dei circa mille diplomatici italiani, di norma metà si trova all’estero e metà al ministero. Bisogna considerare inoltre che gli ambasciatori che riescono a scalare tutti i gradi della carriera diplomatica sono pochissimi, attualmente circa una ventina. Sono chiamati «ambasciatori di grado» e a loro sono destinate le sedi diplomatiche più importanti e delicate. Le altre ambasciate sono guidate da ministri plenipotenziari o da consiglieri d’ambasciata, che non hanno il grado formale di ambasciatore ma una volta accreditati lo sono a tutti gli effetti: vengono chiamati «ambasciatori di rango» e sono più di cento. Si può diventare ambasciatori anche senza aver fatto carriera diplomatica, grazie a una nomina politica. In Italia e in Europa succede molto raramente (l’ultimo caso italiano risale al 2016, quando il governo Renzi nominò per un paio di mesi Carlo Calenda come rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione Europea, cioè l’ambasciatore italiano presso l’Unione) ma in altri paesi, come per esempio gli Stati Uniti, è pratica comune. Le donne italiane ai vertici del ministero degli Esteri e della rete diplomatica sono pochissime. Le ambasciatrici di grado sono soltanto quattro, mentre le donne compongono il 23 per cento del  corpo diplomatico. Se paragonati con il resto del mondo, questi dati in buona parte sfigurano, anche se praticamente nessun paese ha raggiunto la piena parità di genere nella diplomazia. Uno dei risultati migliori è quello degli Stati Uniti, dove le donne compongono tra il 30 e il 40 per cento dei capimissione, a seconda della presidenza. In Italia le cose vanno migliorando, e da qualche tempo ci sono molte donne anche in ruoli importanti della gerarchia diplomatica, ma nonostante questo «siamo ancora troppo poche, sia in termini generali sia ai livelli apicali», dice Giuliana Del Papa, consigliera d’ambasciata e presidente dell’associazione Donne Italiane Diplomatiche (DID), di cui fa parte il 70 per cento circa delle donne italiane che lavorano in diplomazia. «I numeri sono più positivi in altre carriere dell’alta amministrazione dello stato, come la magistratura o la carriera prefettizia. C’è qualcosa nel mestiere che fa sì che le donne non si avvicinino, ma questo è un pregiudizio che vogliamo sfatare». Una delle possibili ipotesi, spiega Del Papa, è il timore per lo stile di vita: la necessità di trasferirsi ogni pochi anni e le difficoltà nella vita quotidiana potrebbero rendere la carriera diplomatica meno appetibile per le donne. Anche all’interno del percorso diplomatico, che è comunque fortemente meritocratico, bisogna lavorare per promuovere pratiche e meccanismi che garantiscano una maggiore uguaglianza di genere: «È necessario consolidare una cultura della parità che richiede il pieno sostegno della componente maschile», dice Del Papa. Fino a qualche decennio fa l’ambasciatore era uno degli artefici principali della politica estera del proprio paese. Il suo ruolo era decisamente politico e la sua influenza era sentita tanto in patria quanto nel paese in cui si trovava a operare. Gli ambasciatori informavano il proprio governo di sviluppi pubblici e politici dei paesi in cui si trovavano, trasmettevano messaggi tra ministri e capi di stato, negoziavano accordi e trattati commerciali, consigliavano il proprio governo su come operare all’estero. «Prima della Seconda guerra mondiale l’ambasciatore era di fatto l’unico interlocutore che rappresentava il suo paese», dice Ferdinando Nelli Feroci, ambasciatore a riposo, fino al 2013 rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione Europea e per breve tempo commissario europeo per l’Industria. Oggi Nelli Feroci è presidente dello IAI, Istituto Affari Internazionali. Questa funzione politica di ambasciatori e diplomatici è decisamente la più nota, quella di cui si legge sui libri di storia e che rappresenta un certo cliché ottocentesco e primo novecentesco. È una funzione che senz’altro è rimasta, ma che si è ridimensionata nel corso dei decenni, fino a diventare una delle tante. «Il ruolo dell’ambasciatore si è spostato: da rappresentante del proprio paese e negoziatore di accordi diplomatici, a un erogatore di servizi a vantaggio della collettività nazionale e a vantaggio del paese in cui si trova», dice Paolo Guido Spinelli, ex ambasciatore in Senegal e in Ungheria e collaboratore dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) per i corsi di orientamento alla carriera diplomatica. Oggi le attività di un ambasciatore e più in generale del diplomatico sono numerose e svariate: quella di gestione della politica estera rimane importante ma ha perso la centralità di un tempo; le ambasciate inoltre si occupano sempre di più di sostenere le imprese del proprio paese all’estero e di favorire gli scambi commerciali; di promuovere la cultura del proprio paese all’estero e di coordinare le attività di cooperazione allo sviluppo. Non bisogna poi dimenticare i cosiddetti servizi consolari, cioè i servizi di sostegno ai concittadini all’estero: il più classico è il rinnovo dei documenti (che viene fatto dai consolati ma, dove questi non siano presenti, anche dalle ambasciate), ma in realtà si tratta di una serie di attività anche complesse, come per esempio il rimpatrio dei cittadini molto malati o deceduti, il sostegno nel caso in cui siano vittime di un reato o accusati di averlo commesso, e così via. Cosa fanno nella pratica gli ambasciatori dipende moltissimo dal paese in cui si trovano e dal contesto in cui è loro richiesto di operare. Un’ambasciata italiana in un paese del Golfo Persico, per esempio, si occuperà soprattutto di favorire gli scambi commerciali e di aiutare le aziende italiane a stabilirsi in un nuovo mercato e a stringere accordi convenienti. Un’ambasciata in un paese dell’Africa subsahariana, invece, si occuperà come prima cosa di cooperazione allo sviluppo, attività in cui la diplomazia italiana eccelle. Era una delle attività principali di Luca Attanasio, ambasciatore nella Repubblica Democratica del Congo, ucciso lo scorso mese in un attacco armato assieme alla sua guardia del corpo e al suo autista.