C’era una volta Chiara Ferragni, la ragazza bella, magra, bionda, leggera, borghese e di provincia che arrivava in città e mostrava borse firmate sul suo blog.
Quella che si fidanzava con il ragazzo dalla faccia pulita, studiava in Bocconi e partecipava agli eventi del PDL.
Erano i tempi in cui leggere il mondo dei ragazzi era molto lineare, anche in politica: università privata, giurisprudenza ed economia votavi a destra, università pubblica lettere, filosofia, scienze politiche votavi a sinistra.
Piccolo mondo antico, quanto manchi.
Chiara era leggerissima e per questo deliziosa: non aveva la pretesa di affermare valori ma solo quella di insegnare a vestirci e mostrarci la sua vita luccicante.
E noi Millennials di consigli di stile ne avevamo un tremendo bisogno: eravamo cresciute con Cioè che ci suggeriva di mettere ombretto azzurro sulle palpebre, non certo con i tutorial per fare il contouring su Tik Tok.
Per cui il nostro look era abbastanza disastroso e Chiara ha dato in fondo a tutte noi uno stile decente.
Ci faceva sognare con le sue Balenciaga e la sua sciarpa di McQueen, i suoi viaggi e sì, i suoi capelli biondi e la sua taglia 38: era così stereotipata da essere adorabile.
Da blogger Chiara si è poi trasformata in imprenditrice e così si è costruita uno staff e il brand Ferragni è diventato di fatto un’azienda, una macchina da soldi dimostrando non solo di essere bella ma anche molto intelligente.

Con i soldi sono arrivate nuove borse, scarpe, case ed è stato ancora più divertente seguirla, perché ti permetteva di sognare in grande.
Il vero momento in cui sono iniziati i guai di Chiara Ferragni non coincide però con il successo e il denaro, né tanto meno con il pandoro-gate: Chiara inizia ad essere spenta, noiosa, insopportabile quando decide, sulla scia delle aziende americane, di dover trasmettere dei valori. Sfatiamo un equivoco: le aziende non devono essere buone, devono fatturare. Poi certo devono rispettare la legge e trattare bene i dipendenti, ma da Prada, Zara o Disney ci si deve aspettare che guadagnino, creino posti di lavoro, diffondano ricchezza, investano, non che siano buone e solidali.
Se vogliono fare beneficenza, ben venga. Lo facessero in silenzio, come migliaia di imprenditori hanno fatto per anni.
Se vogliono fare qualcosa per l’ambiente, non c’è bisogno che producano la borsa vegana in collezione come ha fatto Gucci: magari dessero un’occhiata ai loro produttori in Cina, a come smaltiscono i materiali di scarto e a come trattano i lavoratori.
Per altro, questa mania di rendere le aziende una via di mezzo fra enti benefici e partiti politici provoca, oltre che una certa irritazione nel consumatore conservatore, due conseguenze: le aziende consacrate allo woke capitalism vedono calare il loro fatturato e crollano in borsa, anche a causa delle azioni di boicottaggio degli elettori di destra. Ma non solo.

Prendiamo il caso di Victoria’s Secret: celebre per le sue modelle celestiali, decide di far sfilare donne comuni, persone trans, donne che hanno spiccato per valori o intelligenza. Ovviamente il fatturato crolla e l’azienda torna così alle modelle convenzionali: il meccanismo è banale. Io la mia cellulite la voglio nascondere, non vederla esposta in passerella. Voglio immaginare che quel reggiseno mi trasformi in Gisele, non in una donna comune. Voglio comprare il sogno, insomma. Anche se so che è una bugia.
Questo woke capitalism, tuttavia, ha anche un’ulteriore conseguenza. Costituisce un fattore di rischio per la democrazia. Qualcuno ha provato ad accusare Elon Musk per aver riportato il free speech su Twitter di avvantaggiare Trump. Il punto è che Elon Musk favorendo la libertà di espressione ha avvantaggiato la democrazia. Solo che ai liberal di ogni latitudine non sta bene, perché temono la democrazia li faccia perdere. Una democrazia alterata profondamente anche dalle grandi aziende che diffondono campagne politicizzate. E così l’acquisto diventa un fatto politico.

Tornando a Chiara Ferragni, l’errore sta appunto tutto qui: cercare di giustificare la sua ricchezza facendo (male) quello che fanno le aziende americane, cioè incollare una maschera buonista a un’operazione di profitto. Chiara lo ha fatto con il Pandoro, ma anche partecipando a Sanremo dove anziché farci vedere abiti meravigliosi ha scelto di diffondere messaggi politici.
Lo ha fatto esponendosi sul Ddl Zan, peraltro senza averlo capito (e non è un caso che non si sia esposta su Israele, perché il riferimento di questo mondo che va da Instagram alle aziende della Silicon Valley è woke e quindi, anti israeliano).
Lo ha fatto esponendosi sul climate change, mentre vola in jet privato a Ibiza. Chiara non dovrebbe parlare di climate change, dovrebbe invece farci vedere quanto è bello volare in jet privato.
Perché nel profitto, nella bellezza, nell’intelligenza e nel disimpegno politico non c’è nulla di male, anzi. Ripetiamolo insieme: il capitalismo è un sistema molto bello, anche quando è ingiusto. Anche perché l’alternativa è morire di fame in un sistema socialista. Essere superficiali non è un peccato: se voglio una guida morale, vado in Chiesa, non su Instagram.