Ciò che gli avevano messo ai polsi, a Enzo Carra, quel giorno di marzo del 1993 in piena Tangentopoli per esporlo alla gogna dei giornalisti, erano gli schiavettoni, non le manette. Attrezzi del genere usato sulle navi negriere: due pezzi di ferro con anelli per tenere i polsi legati da una catena. Un oggetto che si poteva usare per i briganti dell’Aspromonte, i celebri mafiosi.

E invece si trattava di un innocente catturato dal gruppo dei procuratori di “Mani Pulite”, nome originario dell’operazione “Clean hands”.
Più tardi, quando Enzo Carra e Antonio di Pietro si incontrarono, il famoso procuratore negò di avere chiesto per lui l’uso di questo strumento medievale che aveva come unico scopo quello di umiliare e rendere l’imputato penoso, ridicolo, e certamente colpevole di fronte a un’opinione pubblica e un giornalismo incline al linciaggio in un’epoca assetata di simboli carcerari. Mancavano soltanto le palle al piede con la catena e il pigiama a strisce degli ergastolani.

E onestamente non è vero affatto che a quei tempi un fremito d’indignazione spingesse tutti i giornali e i giornalisti ad aver cura o almeno rispetto dei diritti dell’accusato sottoposto alle umiliazioni più cocenti non perché fosse certamente colpevole, ma perché l’ideologia del gruppo di magistrati precedeva l’umiliazione simbolica della politica e dei politici, anzi aprendo la strada al vilipendio sistematico delle istituzioni attraverso il vilipendio dei singoli imputati. Enzo Carra era innocente, fu riconosciuto innocente, nessun indizio e nessuna prova, ma gli fu detto che non era in questione la sua innocenza ma il suo ruolo politico. L’umiliazione degli imputati politici era stata già usata con successo nei processi staliniani e poi in quelli nazisti, in cui si faceva largo uso di abiti e strumenti di detenzione che mettessero in ridicolo l’accusato. Così, quando Enzo Carra fu arrestato ed esposto ai fotografi con una messinscena degna della polizia franchista in Spagna, veramente in pochi si indignarono, mentre i più risero o almeno sorrisero.

In fondo, il giornalista Enzo Carra faceva ridere messo ai ferri ed esposto in catene. Faceva ridere quell’uomo con la barba, vecchio giornalista passato alla politica dalla parte sbagliata: quella di Arnaldo Forlani e accusato a causa di quello schieramento. Secondo molti, dietro la disgrazia di Carra c’era stato il ritorno nella corsa al Quirinale di Giulio Andreotti, il quale però si trovò la porta sbarrata da Forlani e Craxi con cui prima aveva formato una sorta di triumvirato detto “Caf” dalle iniziali dei protagonisti. Ma il terzetto si era rotto, Andreotti era rimasto indietro e voleva tornare in prima linea a Forlani gli sbarrava la strada. E Enzo Carra era forlaniano.

Tutta la stampa liberal era schieratissima contro il Caf per avversione radicale contro Craxi che aveva finito con assorbire anche Andreotti. E quindi acciuffare un giornalista come Carra che era considerato un portavoce del “Coniglio mannaro” (nomignolo corrente per Arnaldo Forlani) e dunque un perfetto bersaglio per una operazione politica che troncasse gli eventuali progetti di Craxi. Più tardi Carra fu tra i fondatori della Margherita e poi partito unico fatto di democristiani e comunisti da cui però si scostò. Ma ai tempi di Forlani, Carra fu eletto deputato nelle file della Dc dove ebbe l’importantissimo ruolo di portavoce della segreteria del partito diventò dunque un uomo di peso rilevante.

Quale moto di indignazione volete che portasse un democristiano per di più “forlaniano” cioè aderente membro attivo del gruppo di Craxi Andreotti e Forlani. Oggi è tutto dimenticato. Restano solo gli schiavettoni contro i quali protestò anche Francesco Cossiga. Ma non dimentichiamo che più di metà del paese di fronte a quello spettacolo immondo si sentì rallegrata e mormorò: “Ben gli sta, forlaniano di merda”.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.