Franco Marini è uno dei pochi sindacalisti che, passati alla politica, sono riusciti a svolgere dei ruoli importanti. E per lungo tempo Marini è stato ministro, parlamentare, segretario di partito, presidente del Senato della Repubblica. Persino candidato al Quirinale. Ma procediamo con ordine.

Nato a San Pio delle Camere (L’Aquila) il 9 aprile 1933, viveva a Roma. Sposato dal 1965 con Luisa D’Orazi, medico, conosciuta nel 1961: «L’avevo già notata quando lei era al ginnasio e io al liceo, ma era una ragazzina. Poi, qualche anno più tardi, in una di quelle festicciole che si facevano in provincia, i ragazzi di qua e le ragazze di là, mi sono interessato a lei. Ero in licenza. Facevo l’alpino a Bressanone». Un figlio (Davide, ingegnere). Da alpino era tenente della Tridentina. «È stata l’esperienza fondamentale della mia giovinezza, sa che chi è alpino lo resta per tutta la vita» (a Pietrangelo Buttafuoco). «Il ciclismo, con l’alpinismo, è il mio sport preferito: l’ho sempre seguito».

Tifava Gino Bartali (come Bertinotti). Vino preferito un raffinato Cerasuolo del suo amico Edoardo Valentini di Loreto Aprutino, fumava il sigaro toscano: «Non riesco ad immaginare né le lunghe nottate al tavolo delle trattative sindacali né i momenti che precedevano i caldi comizi in piazza negli anni Sessanta e Settanta senza il sigaro in bocca». Negli ultimi anni era passato alla pipa. Poi, a dire il vero lo avevo perso di vista e non me la sento di fornire informazioni definitive a proposito del suo rapporto con il tabacco. Di lui Giorgio Dell’Arti (Cinquantamila.it) ha redatto una scheda molto puntuale (che ci permettiamo di utilizzare) perché ricostruisce il profilo di Marini attraverso suoi racconti ed aneddoti, ripresi da giornalisti che lo hanno intervistato o scritto di lui. «Io il mare l’ho visto per la prima volta durante una gita organizzata dalla Azione cattolica. Sono stato a Roma per la prima volta nel 1950, con un viaggio dei “baschi verdi” cattolici. Il primo calcio a un pallone di cuoio l’ho dato nell’oratorio. I primi corteggiamenti li ho fatti nella mia parrocchia. Come potevo non essere democristiano?». «La mia è una famiglia di emigranti, come quasi tutte in Abruzzo. Mio nonno era andato in America cinque volte. Lavorava un paio d’anni e riportava un po’ di soldi per comprare un pezzo di terra» (da un’intervista di Stefania Rossini).

Figlio di Loreto (Tutuccio per gli amici) operaio della Snia a Rieti, mamma sarta persa a 11 anni, fu il primo di 4 fratelli saliti a 7 quando il padre si risposò. «Il massimo orizzonte erano le magistrali. Un giorno la professoressa di lettere delle medie si presentò a casa e disse: “No, questo ragazzo deve andare al liceo”. Mio padre ebbe l’intelligenza di darle retta». Laureato in Giurisprudenza, «da giovane in pratica fa il commesso viaggiatore della Cisl nelle unità sindacali di base di Rieti, l’Aquila, Agrigento, Biella. Insieme con Carniti, Crea e Colombo frequenta l’Istituto di formazione sindacale dedicato a Giulio Pastore (in verità era anche stato assunto dalla Cassa del Mezzogiorno). Poi lavorò all’ufficio organizzativo e quindi guidò (anche se non era segretario generale ma la figura di maggior spicco) i dipendenti degli enti pubblici (ovvero del c.d. parastato dove la Cisl era egemone), prima di entrare in segreteria confederale dove Marini “depurò” la Cisl di tutte le incrostazioni unitarie o fusioniste che dir si voglia» (Filippo Ceccarelli).

Carlo Donat-Cattin, che fu il suo maestro e lo officiò come suo successore alla guida della corrente dc di Forze nuove, diceva: «Marini uccide col silenziatore»: «Non ho mai capito se fosse una battuta benevola o malevola. Comunque allora ero giovane e ambizioso. Dopo il 1968 Luciano Lama disse di me a Bruno Storti: “Convinci quello o l’unità sindacale non la realizziamo”. In effetti più avanti, nel 1977, su dodici membri della segreteria della Cisl dieci furono favorevoli all’unità sindacale e a opporci fummo in due, io e l’unico repubblicano. Sostenevamo che l’unità sarebbe stata egemonizzata dal Pci e in congresso prendemmo il 44 per cento dei voti. L’unità sindacale non si fece».
Questa idea gli era rimasta fissa. Alcuni anni or sono presenziò alla presentazione di un mio libro (scritto con Giuseppe Sabella) sul sindacato (l’altro interlocutore era Fausto Bertinotti) e ricordò quella votazione come se fosse avvenuta nel giorno precedente. Lama, però, aveva visto giusto.

«Io l’anticomunista l’ho fatto quando in piazza mi beccavo i fischi di 80 mila persone e aveva un senso» (da un’intervista di Maurizio Caprara). «Alla politica, di fatto, Marini arrivò con Andreotti, di cui fu ministro del Lavoro nel suo ultimo governo (e al quale, anni dopo, contese e strappò la presidenza del Senato come candidato del centro sinistra), e che poi sostituì come capolista nel Lazio alle elezioni del 1992 (Andreotti nel frattempo era diventato senatore a vita): raccolse poco più di 100 mila preferenze, contro le 329 mila del “divo Giulio” cinque anni prima. Ma, va detto, era al debutto. Marini era (in pubblico, s’intende) un animale a sangue freddo. Come responsabile organizzativo, fu di fatto il costruttore del Partito popolare all’indomani della dissoluzione politico-giudiziaria della Dc; ne divenne segretario nel 1997 e poi, da presidente, fu tra i primi post-dc a rompere il tabù identitario e a lanciarsi nell’avventura della Margherita. Di cui divenne rapidamente, e di nuovo grazie al lavoro organizzativo, un pilastro fondamentale» (Fabrizio Rondolino).

«Probabilmente il politico più pragmatico dell’intero Parlamento italiano» (Sebastiano Messina), «nel febbraio 2007, alla prima crisi del governo Prodi, si fece il suo nome per sostituire il Professore in ambasce. Idem in novembre quando Prodi traballò di nuovo per le bizze di Lamberto Dini. Fu lo stesso Dini a candidare Marini premier per uscire dal pantano» (Giancarlo Perna). Ultimo vano tentativo di salvare la XV legislatura nel febbraio 2008 dopo la caduta del Prodi II. «“Quando sono convinto di una cosa posso anche aspettare mesi prima che si realizzi”, ama sussurrare con quel suo sorriso a mezza bocca da lupo marsicano che gli anni hanno potuto solo addolcire ma non piegare. Il punto è che la capacità di mediazione è la sua caratteristica più vera, più riconosciuta» (Carlo Fusi). Per Marini venne (e sfumò in una notte) la grande occasione: la Presidenza della Repubblica.

Pd, Pdl, Scelta Civica e Lega, unico oppositore Matteo Renzi («Non siamo franchi tiratori ma ci opponiamo a questa scelta»), pensarono a lui per il Quirinale nell’aprile 2013, ma il mancato voto di parte del Pd lo bloccò a 521 voti contro i 672 necessari (nella prima votazione, ma più che sufficienti in un eventuale quarto scrutinio). Ma la sua candidatura venne ritirata. Marini commentò quell’episodio: «Il dramma non è nato quando io ho avuto 521 voti, ma quando Bersani, per questo “non governo” del partito, ha deciso di cambiare strategia e ha chiamato Prodi dall’Africa e lui è stato bruciato» (da Lucia Annunziata, a In mezz’ora 21 aprile 2013). Infatti, se il Pd avesse continuato a sostenere la sua candidatura Franco Marini prima o poi ce l’avrebbe fatta. Trascorse gli ultimi anni della sua lunga vita come un vecchio saggio, seduto sotto un moggio a raccontare ai passanti che il nostro Paese aveva conosciuto altre stagioni, altri dirigenti e una politica migliore. Loro si allontanavano rassicurati.