Una delle emozioni più intense e profonde che ho provato – e che provo tuttora, tutte le volte che ci vado – è entrare e soffermarmi il più a lungo possibile nella Cappella Sistina. Rimango lì per lunghi minuti, affascinato e turbato dall’immensa, assoluta bellezza del luogo e soprattutto dall’affresco di Michelangelo: il Giudizio Universale mi lascia sempre senza fiato.

Anche sabato scorso, guardando in TV la trasmissione di Alberto Angela «Ulisse, il piacere della scoperta e il suo Viaggio nella Cappella Sistina», ho rivissuto la stessa emozione, molto vicina, anche se meno intensa, di quella provata durante la visita. È stata una trasmissione veramente bella, di quelle che valorizzano la TV e arricchiscono chi le guarda e – senza avere la presunzione di volermi misurare con essa o mettermi a descrivere e spiegare i vari significati di questo capolavoro assoluto (non ne ho la capacità e non ce n’è assolutamente bisogno) – voglio invece soffermarmi sulle emozioni che si provano visitandola, o almeno su quelle che ho personalmente provato.

Quando entri da quella porticina là, sulla destra dell’altare, se vinci la curiosità di voltarti subito e ti rechi al centro della cappella, là dove c’è la cancellata che la divide in due, e poi ti volti di colpo, rimani lì basito, colpito dalla bellezza dell’affresco, ti si secca la gola, ti scopri incapace di dire una sola parola, ti tremano le gambe fin quasi a cadere in terra e capisci finalmente il significato della sindrome di Stendhal. Guardi quel Cristo autorevole, inflessibile, severo, con quella mano alzata a chiamare a sé i beati e l’altra nel gesto inesorabile di scacciare i dannati, con lo sguardo concentrato rivolto allo scenario circostante, ma non particolarmente a qualcuno, e poi guardi la Madonna – quasi timorosa accanto a lui e consapevole di non poter interferire nelle decisioni del figlio – e ti senti infinitamente piccolo, proprio come un granello di sabbia nel deserto. Quindi guardi i dannati, che «Caron dimonio con gli occhi di bragia» spinge a colpi di remo verso Minosse e poi fra gli artigli dei demoni, e vedi il terrore e la disperazione nei loro occhi; guardi quelli che cercano salvezza tentando di aggrapparsi agli angeli, che a pugni chiusi li ricacciano giù negli inferi, e preghi di non aver peccato troppo in vita tua, perlomeno non tanto da finire come loro. Infine alzi gli occhi e osservi la schiera dei santi, tutti con lo sguardo rivolto verso il Cristo, e – dietro loro – quella dei beati, sperando e pregando di essere chiamato fra di loro, quando gli angeli suoneranno davvero quelle trombe e verrà il momento del Giudizio Universale, dopodiché «tutto sarà compiuto».

Queste sono le emozioni che ho provato visitandola e che provo ripensando alla Cappella Sistina, che ritengo davvero un luogo di grande spiritualità, dove si sente vivissima la presenza divina, che ti arriva da dentro, ti tocca il cuore, e da lì si espande in tutto il tuo essere: confesso che – anche da laico, come io ritengo di essere – ogni volta mi pare veramente di entrare in casa del Signore, e in silenzio chino il capo e prego.

Certe immagini, certe emozioni, certi ricordi restano impressi indelebilmente nella mente di chi ha visitato la Cappella Sistina e si rinnovano e si rinforzano in occasione di ogni visita o – come è accaduto a me sabato scorso – anche soltanto guardando un programma televisivo. Ma io ho sempre un altro mezzo per risvegliare un ricordo che mi aiuti a rivivere quelle emozioni: sorseggiare un grande vino, che – da catalalizzatore di emozioni quale esso è – faccia da giusto propellente per richiamare e ordinare le immagini che ti si affollano nella mente e per rivivere in qualche maniera le emozioni provate nella visita.

Un vino rosso rubino tendente al granato, ma non troppo carico, perché carichi sono i colori dell’affresco e bastano quelli a riempirti gli occhi e il cuore; un vino di buona consistenza, che entrando nel bicchiere sia una gioia per la vista; un vino con un bouquet complesso, con note prima floreali e fruttate (viole, frutti di bosco, frutta rossa sotto spirito) che poi si evolvano nel terziario (con note ben amalgamate di tè, caffè, terra, sottobosco, funghi e cenni balsamici); un vino di forte intensità e grande persistenza, lungo e largo; un vino di corpo, già equilibrato e armonico, elegante e spirituale, capace quasi di farti toccare le emozioni che hai provato in quel luogo sacro e te ne risvegli la gioia; un vino che, con la sua grandezza, ti faccia meditare su quanto sei piccolo e ti faccia gioire al pensiero di poter essere nella parte alta dell’affresco, quando verrà il momento. 

La traduzione di tutte queste descrizioni, per me, è un Brunello di Montalcino, ma non uno qualsiasi: deve essere un Brunello fatto col cuore e, soprattutto, deve essere figlio di una grandissima annata, di quelle che 5 stelle sono poche. Io ne sento già gli aromi e il sapore, l’etichetta potete sceglierla voi.