Si riconoscono dal colore degli abiti. I manifestanti e le manifestanti li temono in modo particolare e li hanno soprannominati – in un persiano curiosamente letterario e sobrio, che contrasta con la loro brutalità – siah jameghan, i nerovestiti. Sono i Nopo, l’acronimo che identifica le Forze speciali della guardia provinciale, un’unità creata dal governo per le operazioni antiterrorismo e i sequestri.

Anche se sono molto violenti, i nerovestiti non sono i più temuti tra i gruppi impegnati nella repressione delle manifestazioni scoppiate in Iran dopo la morte di Mahsa Amini. Un’altra organizzazione è considerata ancora più violenta: le Forze spontanee delle terre islamiche (Nakhsa). Si proclamano “leali” solo alla guida suprema Ali Khamenei e al generale Qassem Soleimani, il defunto capo della Forza Al Quds (Gerusalemme), i reparti che intervengono all’estero per conto dei Guardiani della rivoluzione, o pasdaran. Soleimani è stato ucciso nel gennaio 2020 in un attacco statunitense a Baghdad, in Iraq. Secondo Bbc persian, la Nakhsa non è ufficialmente registrata e nessuno sa a quale comando risponda, ma il simbolo (un fucile davanti a un globo terrestre, su un fondo giallo) somiglia a quello del gruppo sciita libanese Hezbollah, suggerendo che sia legata ai pasdaran.

Un video testimonia il coinvolgimento dei Nakhsa nella guerra civile in Siria, a conferma della loro vicinanza ai Guardiani della rivoluzione. Fanno tanta paura perché tra i loro ranghi – affermano i manifestanti – ci sono cecchini che possono sparare sulla folla.

In generale gli agenti della repressione nell’orbita dei pasdaran si riconoscono dalle uniformi beige. La maggior parte sono miliziani dei basij, un corpo creato nel 1979, dopo la rivoluzione islamica, la cui rete si estende su tutto il territorio iraniano. Dal 2007 è sotto il controllo dei Guardiani della rivoluzione. Alcuni indossano abiti civili per confondersi tra i manifestanti, individuare i leader e arrestarli.

Ma la rivolta iraniana deve affrontare anche altre forze repressive, in particolare nella capitale Teheran: esistono diversi corpi di polizia, da quella dei quartieri alle unità che girano in motocicletta, disperdono i manifestanti e li inseguono per isolarli e picchiarli. C’è anche un’unità di fanteria delle forze speciali, che usa fucili da caccia. A loro si aggiungono gli etelaati, i servizi segreti, onnipresenti in Iran, che hanno a loro volta delle unità d’intervento. Non vanno dimenticati i gardan kolof (colli grossi), il nome dato ai teppisti che i basij arruolano per fare il lavoro sporco e che, come la maggior parte dei miliziani, vengono dai quartieri più poveri.

Finora i pasdaran non sono ancora intervenuti, nonostante abbiano minacciato un bagno di sangue. Il loro esercito è formato da 36 corpi d’armata distribuiti in tutto il paese e ha un’ampia autonomia, a livello sia di comando sia di risorse (controlla interi settori dell’economia in gran parte delle 31 province iraniane). Nel 2017 e nel 2019 il loro intervento è stato decisivo nel reprimere le rivolte e ha causato centinaia di morti.

La presenza di queste forze, che agiscono allo stesso tempo all’interno e fuori dell’Iran, rafforza le voci secondo le quali i “basij regionali” – cioè le milizie sciite addestrate dall’Iran in Libano, sul modello di Hezbollah, o in Iraq, come Asaib ahl al haq (Lega dei giusti) – sarebbero coinvolte nella repressione o starebbero per parteciparvi. Queste ipotesi, che non è detto siano fondate, servono a spaventare i manifestanti, che temono questi gruppi arabi ritenuti ostili ai persiani.

Fatta eccezione per il Kurdistan, finora le forze governative hanno usato poco le armi da fuoco rispetto alle rivolte precedenti (secondo un bilancio della Reuters nel “novembre di sangue” del 2019 i morti furono 1.500), ma chi protesta è preoccupato dall’uso sempre più frequente di laser, che potrebbero servire a prendere la mira prima di sparare. Denunciano anche l’uso improprio delle ambulanze da parte del regime, che le utilizza per trasportare i rinforzi e gli arrestati.

In totale sono decine di migliaia i poliziotti, i miliziani e i soldati mobilitati (il loro numero non è noto) sotto il comando dello stato maggiore generale delle forze armate. Tuttavia, non riescono a sconfiggere un movimento composto essenzialmente da giovani tra i 18 e i 25 anni, mobilitati in tutto il paese, molto determinati, che si radunano spesso intorno alle università (in Iran anche i centri più piccoli hanno delle università). Al contrario, le forze dell’ordine danno segni di stanchezza e alcune unità sembrano penalizzate dall’equipaggiamento troppo pesante. Clément Therme, esperto di Iran dell’università Paul-Valéry di Montpellier, in Francia, sottolinea che la repubblica islamica è “un’accozzaglia istituzionale in cui le competenze della giustizia, del ministero dell’interno, della difesa, dei servizi segreti e dei pasdaran si sovrappongono. Il sistema funziona se il paese è in pace, ma in tempi di crisi i problemi di logistica e di comando si aggravano, soprattutto se il regime è indebolito dalle lotte interne per la successione alla guida suprema”.

Teocrazia militare

Questa galassia di gruppi responsabili della repressione riflette anche la militarizzazione esasperata della repubblica islamica dal 1980, data d’inizio della guerra contro l’Iraq, quando le forze rivoluzionarie accorsero a colmare le carenze dell’esercito, indebolito dalla caduta dello scià e dall’esilio di molti ufficiali.

I pasdaran hanno sempre avuto un enorme peso nella vita politica, economica e sociale del paese, ma oggi il loro dominio sembra incontrastato. Lo hanno dimostrato nel gennaio 2020 quando, dopo aver abbattuto per errore un aereo ucraino decollato dall’aeroporto di Teheran, causando la morte di 176 persone, non si sono neanche degnati di avvertire l’allora presidente Hassan Rohani.

Il suo successore, Ebrahim Raisi, è vicino ai pasdaran quasi quanto la guida suprema, legato a loro da un cordone ombelicale. Ex procuratore aggiunto, poi procuratore generale dell’Iran e capo del sistema giudiziario (dal 2019 al 2021), Raisi ha sempre mostrato, fin da quando aveva 17 anni, di voler punire ogni forma di dissenso. Nel 1988 fece eseguire le condanne a morte di circa cinquemila prigionieri politici, in gran parte oppositori dell’organizzazione Mojahedin del popolo iraniano e militanti di sinistra. Per questo Raisi è molto popolare tra le frange più estreme del regime.

Inoltre, pur avendo l’alto rango di ayatollah e la carica di vicepresidente dell’assemblea degli esperti (un organismo incaricato di nominare o revocare la guida della rivoluzione), l’attuale presidente appare, a differenza dei suoi predecessori, come un’emanazione delle principali forze repressive del paese: il sistema giudiziario e i pasdaran. Dato che negli ultimi anni il parlamento è stato totalmente emarginato, così come i grandi centri religiosi, queste due istituzioni incarnano la vittoria dell’ala militare sulle fazioni più moderate. Ne rappresentano anche l’ultima delle fondamenta.

“Con Raisi e il suo successore a capo della magistratura, Mohseni Ejei, abbiamo un apparato in totale simbiosi con i Guardiani della rivoluzione. Sono militari che si nascondono sotto i turbanti per governare l’Iran”, afferma preoccupato il politologo Ahmad Salamatian, ex deputato e viceministro degli esteri all’inizio della repubblica islamica. Salamatian accusa “il boia” Raisi di aver fatto parte di un commando che tanti anni fa aveva la missione di ucciderlo nella città di Hamadan.

La fuga in avanti

I giovani e le giovani manifestanti si trovano di fronte nemici spietati. “Da un lato c’è una gioventù guidata da donne dinamiche, dall’altro una gerontocrazia pietrificata di leader ultraottantenni, che vive in un mondo parallelo. Non si vedono possibilità di riconciliazione”, insiste Therme. “Siamo a un punto di rottura tra la popolazione e l’establishment. È l’essenza stessa del regime a essere contestata. Nel 2019 la repressione fece 1.500 morti, ma questo non ha impedito il ritorno della contestazione”.

Il ricercatore aggiunge: “In mancanza di una possibile soluzione politica, il regime non ha altra scelta che una fuga in avanti. Sarà costretto a organizzare una repressione totale per restare al potere. Ma reagendo solo sul piano della sicurezza indebolirà la sua capacità di soddisfare i bisogni socioeconomici del paese. Anche se il regime durerà, tra un mese o tra un anno comincerà un nuovo ciclo di contestazione. Non è più in grado di impedire lo scontro e le nuove manifestazioni”.

Accanto allo slogan “Zan, zendegi, azadi” (Donna, vita, libertà), che ha accompagnato il movimento fin dagli esordi, un nuovo slogan comincia a sentirsi nelle strade del paese: “Lotteremo, moriremo, ma ci riprenderemo il nostro Iran”. I manifestanti e le manifestanti dunque chiedono non più le riforme, tra cui la fine dell’obbligo del velo, ma la caduta del regime, anche a costo della vita. L’atmosfera in Iran è diventata prerivoluzionaria. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1481 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati