Fare memoria, narrare la storia. Il Parlamento europeo e l’importanza della memoria per il futuro dell’Europa

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di Anna Mastromarino

Come spesso accade quando le istituzioni mettono i piedi nel campo della memoria collettiva, anche la risoluzione sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa (2019/2819(RSP)), approvata il 19 settembre scorso dal Parlamento europeo, non ha mancato di scatenare accese polemiche, amplificate dalla rete social attraverso il tam tam di post e cinguettii, assai duri contro la pretesa equiparazione del comunismo al nazismo, con conseguente presunto divieto di ostentare simboli di matrice comunista.

Il tema è senza dubbio di stretta attualità e la crescente attenzione verso le dinamiche alla base dei processi memoriali in ambito pubblico rendono opportuna una prima riflessione al fine di tracciare alcune coordinate entro cui leggere il testo licenziato dal Parlamento europeo, al di là delle reazioni a caldo più o meno fondate.

Se effettivamente risulta apprezzabile lo sforzo delle istituzioni di confrontarsi con il tema della memoria collettiva quale strumento di integrazione del popolo europeo, qualcosa resta da dire sulle modalità con cui l’intervento è stato condotto, essendo state trascurate alcune buone pratiche consolidate negli ultimi anni in materia di processi memoriali.

Bisognerà innanzitutto liberare il campo dai possibili dubbi circa la legittimazione dei poteri pubblici a “fare memoria”. Si tende a sottovalutare, quando non proprio a negare, la funzione memoriale delle istituzioni, dimenticando che quella istituzionalizzata è una memoria essenziale dal momento che contribuisce da una da una parte ad alimentare i processi di integrazione politica, dall’altra a favorire la pacificazione sociale attraverso la gestione dei conflitti. Non è questa la sede per approfondire il tema, ma non sfugge a chi scrive il legame profondo tra memoria e costruzione dell’identità collettiva nel momento in cui la commemorazione diviene rito comunitario attraverso il quale radicare valori comuni e indirizzare le generazioni future, traendo un insegnamento dal passato.

I problemi, pertanto, non sembrerebbero nascere dal riconoscimento dei pubblici poteri come agenti memoriali, ma dalla demarcazione di quella sottile linea che divide il “fare memoria”, dal “narrare la storia”. Abbiamo bisogno di diritto (pubblico) quando dalla verità storica il corpo sente la necessità di trarre un insegnamento, un monito per il futuro: il che, però, suppone una relazione di integrazione e non di interscambio tra istituzioni e storiografia.

Il dibattito allora non riguarderebbe tanto l’an, quanto il quomodo: non è sull’abilitazione o meno dei pubblici poteri a fare memoria che bisogna interrogarsi, quanto sui modi in cui ciò avviene. Se è vero, come è vero, che la memoria è fatta di ricordo ma anche di oblio, allora è innegabile che molto della buona riuscita dei processi memoriali istituzionalizzati si gioca nell’esercizio della discrezionalità politica delle istituzioni, strette dalla necessità di ricercare un difficile equilibrio tra ricostruzione storica del passato, salvaguardia di un contesto di confronto fra memorie divise e selezione al fine rafforzare un certo profilo valoriale.

La partita si deve giocare inevitabilmente, ma la variabile sta nel “come” e riguarda la scelta per quel che concerne gli strumenti da mettere in campo, la selezione degli eventi o personaggi da commemorare, la determinazione dei tempi in cui intervenire.

Alla luce di queste premesse, non c’è dubbio che il Parlamento europeo, ben interpretando il suo ruolo politico, sia voluto intervenire nell’arena memoriale esercitando la sua funzione di agente politico di integrazione. La risoluzione, che richiama espressamente le tappe di un cammino che è stato intrapreso da anni, costituisce una chiara azione volta a rafforzare quel processo di formazione del popolo europeo, passando attraverso un campo, quello memoriale, impervio ma, come ricordato, essenziale nelle fasi di costruzione dell’identità collettiva.

È prima di tutto il titolo della risoluzione (“Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”) a non lasciare dubbi sulle intenzioni dell’Assemblea europea; ma anche il testo quando si considera, in linea con la tendenza del diritto internazionale, che «occorre mantenere vivo il ricordo del tragico passato dell’Europa, onde onorare le vittime, condannare i colpevoli e gettare le basi per una riconciliazione fondata sulla verità e la memoria» e per questo si invitano gli Stati membri all’avvio di politiche di effettivo sostegno, anche in termini economici, rispetto a progetti memoriali comuni all’Unione e si chiede «l’affermazione di una cultura della memoria condivisa» (punto 10), nonché la proclamazione di una “Giornata internazionale degli eroi della lotta contro il totalitarismo” (punto 11: va sottolineato in questo senso l’uso del termine “eroe” che rompe il consolidato paradigma vittimario il quale ha caratterizzato le politiche memoriali degli ultimi anni).

Il Parlamento europeo nel documento approvato assume il nazismo e l’esperienza sovietica, in particolate sotto il regime di Stalin, a paradigma del totalitarismo dei primi decenni del Novecento. L’anniversario dello scoppio della Seconda guerra mondiale e della stipula del trattato Molotov-Ribbentrop offrono, così, l’opportunità per prendere le distanze da un “tragico passato”, di cui non si condivide né il fondamento, né l’evoluzione, tenuto conto che «fin dall’inizio, l’integrazione europea è stata una risposta alle sofferenze inflitte da due guerre mondiali e dalla tirannia nazista, che ha portato all’Olocausto, e all’espansione dei regimi comunisti totalitari e antidemocratici nell’Europa centrale e orientale, nonché un mezzo per superare profonde divisioni e ostilità in Europa attraverso la cooperazione e l’integrazione, ponendo fine alle guerre e garantendo la democrazia sul continente» (punto G).

Secondo l’interpretazione del Parlamento europeo, pertanto, nella storia dell’Europa vi sarebbe un prima e un dopo, il cui confine è segnato dall’avvio del processo di integrazione incardinato nella lettera  dell’art. 2 TUE secondo il quale «l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze; rammenta che questi valori sono comuni a tutti gli Stati membri» (punto 1).

La condanna dei totalitarismi diviene l’occasione per ribadire l’impianto di valori su cui si fonda il progetto europeo e si intende costruire il suo futuro.

Anche i tempi di intervento appaiono tutto sommato adeguati: la storiografia ha ormai ampiamento svolto il suo compito di svelamento della verità e ricostruzione dei fatti relativi agli eventi che hanno lacerato l’Europa nella prima metà del Novecento, di modo che, al di là delle diverse interpretazioni ideologiche, è possibile affermare che si è consolidato un sostanziale consensum per quel che concerne il susseguirsi dei fatti. Nello stesso tempo, lo stato di stallo in cui si trova il processo di integrazione europea, in uno con il radicarsi nel tempo dell’idea che sia necessario intensificare la trama del tessuto sociale europeo per consolidare l’esistenza del popolo europeo, rendono opportuno affiancare all’azione politica delle istituzioni europee una attività di autodefinizione della collettività, che passa anche attraverso una “cultura del ricordo”, per la condivisione di un medesimo bagaglio di simboli e valori.

E dunque, se quanto detto può trovare accoglimento, perché in fondo ripercorre riflessioni già svolte altrove, dove si annidano, se si annidano i limiti, di questo testo che tanta polemica ha suscitato e probabilmente susciterà ancora?

Fare memoria è una delle attività più delicate con cui le istituzioni si devono confrontare: la risoluzione del Parlamento europeo mostra chiaramente come la strada delle buone intenzioni sia spesso lastricata di tentazioni. In questo caso la tentazione sta nella voglia di dire troppo – inciampando su quel confine che divide l’attività memoriale dalla pratica dello storico – semplificando molto e dunque spesso banalizzando e di dire forse male, attraverso un linguaggio a tratti stipulativo, assai poco adatto a eventi rispetto ai quali il conflitto tra memorie divise è ancora aperto.

Ripercorrendo senza rigore scientifico alcuni fatti della storia, privati di contestualizzazione, nella risoluzione vi sono premesse, come quelle formulate ai punti C, D, E, K, ma anche considerazioni come quelle richiamate ai punti 2, 15, 16 il cui contenuto e tono assertivo stridono rispetto al tenore del titolo del documento. Il testo, inoltre si perde in ambiguità concettuali che suscitano più di una perplessità: basti pensare all’uso promiscuo che del termine comunismo e stalinismo viene fatto.

Se l’intenzione del Parlamento è dunque lodevole, perché lodevole è la volontà di affrontare a viso aperto il passato per raccogliere l’invito a costruire un futuro migliore, i limiti maggiori si manifestano per quel che concerne la stesura del testo, che risente probabilmente della necessità di raggiungere un ampio consenso in aula, avvicinando posizioni ideologico-politiche anche molto diverse.

Si è finito, così, con il trascurare il fatto che di fronte a memorie divise i poteri pubblici non possono scrivere la storia; possono parlarne e, nel rispetto del pluralismo, di fronte a divergenze memoriali non possono che gestire il conflitto, favorendo la definizione di spazi di confronto e contribuendo all’emersione di “punti di flessione” che possono progressivamente condurre al ripensamento della narrazione collettiva del passato. Il compito delle istituzioni è quello di selezionare i valori all’interno dei quali questo confronto avrà luogo, di ribadire l’“importanza della memoria per il futuro”, non di definire gli equilibri attraverso i quali le divisioni saranno ricomposte e la memoria diverrà condivisa.

Si tratta di un cammino lungo, rispetto al quale l’Europa è solo all’inizio. Ed è un cammino che non può affidarsi solo allo strumento normativo, anche quanto rappresentato da un atto soft, come una risoluzione.

Ci sono passi che devono essere compiuti parallelamente; diversi sono i mezzi cui i pubblici poteri devono ricorrere per agire sulla società, sulla sua coscienza storica, sulla narrazione collettiva.

Lo studio di altre esperienze memoriali costruite a partire da traumi profondi del corpo sociale, come quelli vissuti da alcuni paesi del continente sudamericano a causa delle dittature di Stato degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, mostra, per esempio, l’importanza che l’istituzione di musei o di luoghi di memoria rivestono nel processo di rielaborazione e costruzione di una memoria collettiva, capace di raccogliere ma non neutralizzare le diverse memorie familiari e locali. Ma evidenzia anche come l’azione memoriale non possa prescindere da una piattaforma di saperi condivisa, alla cui formazione la scuola contribuisce con un ruolo essenziale, favorendo convergenze di senso rispetto ai fatti del passato, a partire da un comune impianto di valori. In questa prospettiva, la funzione dei poteri pubblici nella definizione dei programmi scolastici in particolare per quel che concerne l’insegnamento della storia e dell’educazione civica, nonché nella definizione delle linee guida per la scrittura dei libri di testo resta fondamentale nell’ottica di dare vita a un orizzonte valoriale comune dentro il quale ciascun paese possa raccontare la propria storia.

Bene, dunque, che il Parlamento senta il bisogno di intervenire nell’arena memoriale per costruire il popolo europeo. Per far ciò però non è necessario provare a “riorganizzare” il senso della storia attraverso l’approvazione di meri atti. Prima si può, piuttosto, lavorare alla costruzione di una geografia dei luoghi di memoria europei; si può operare per l’emersione di una sensibilità comune a tutti i giovani europei nello studio della storia a scuola; si può cominciare a commemorare collettivamente eventi della storia ormai divenuti meno divisivi, come da più parti si è cercato di fare rileggendo in chiave europea gli anni atroci della Prima Guerra mondiale in occasione del centenario della sua fine. Oppure ci si può più semplicemente fermare a ricordare il segno lasciato da quei martiri che il processo europeo ha già lasciato sul campo… i ragazzi di Utoya, per esempio.

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