L’appello manifestamente infondato oggi è più rischioso di ieri
Responsabilità aggravata a carico della parte che presenta appello su tesi giuridiche inconsistenti.
Linea dura della Cassazione contro l’intasamento delle aule di giustizia: scatta la condanna al pagamento di una ingente somma, a titolo di responsabilità processuale aggravata [1], se una parte, che ha perso la causa in primo grado, propone il ricorso in appello sostenendo tesi giuridiche inconsistenti e già giudicate dal Tribunale, in primo grado, come manifestamente infondate.
A dirlo è una recente sentenza della Suprema Corte pubblicata questa mattina [2].
La somma viene determinata dal giudice di appello in via “equitativa”, non essendovi parametri di legge che ne fissino, a monte, l’importo. Tuttavia, precisano i giudici, poiché agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé rimproverabile, per la condanna alla “responsabilità processuale aggravata” è necessario che il giudice accerti l’esistenza della mala fede o della colpa grave nella parte soccombente che abbia impugnato la condanna in primo grado.
In ogni caso, la condanna in questione può scattare anche se l’appellante non è stato soccombente totale in primo grado, ma gli sia stata rigettata solo una parte della richiesta.
È sufficiente che già il Tribunale, nel precedente grado di giudizio, abbia ritenuto la manifesta infondatezza dei motivi successivamente riproposti in appello. Non c’è bisogno che la sentenza faccia esplicito riferimento all’elemento soggettivo della “colpa grave”: basta invece che la domanda sia stata giudicata dal tribunale come “strumentale”, ossia che si tratti di una richiesta che lo stesso appellante “avrebbe potuto evitare”.
La differenza tra colpa e dolo
Come detto, la condanna per “responsabilità processuale aggravata” può scattare sia in caso di:
– dolo (o mala fede): presuppone la coscienza dell’infondatezza della domanda (o dell’eccezione);
– colpa grave: consiste nella colpevole ignoranza in ordine a detta infondatezza, vale a dire, per quanto riguarda il giudizio d’appello, nell’insistere in tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice oppure in ragioni di censura della prima sentenza, la cui inconsistenza giuridica ben avrebbe potuto essere apprezzata da parte dell’appellante, tanto da evitare appunto il gravame (alla stregua di quanto ritenuto dal Tribunale).
Indipendentemente dal dolo o colpa grave, chi impugna una sentenza sulla base di tesi manifestamente infondate, rischia di vedere dichiarato l’appello inammissibile e di essere condannato a pagare per intero le spese processuali, rimborsando quelle sostenute dalla controparte.
Difatti il giudice d’appello, prima ancora di trattare la causa, può dichiarare inammissibile l’appello, con condanna della parte soccombente alle spese, quando l’impugnazione non ha una ragionevole probabilità di essere accolta [3].
note
[1] Art. 96 cod. proc. civ.
[2] Cass. sent. n. 24546 del 18.11.2014.
[3] Artt. 348-bis e ter cod. proc. civ.
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