Che in un qualche modo sia “vittima” del suo personaggio l’ha confessato lei stessa dando prova di lucida sincerità: «A volte penso che il mio approccio multidisciplinare distragga da ciò che sto realmente facendo», ha raccontato a Caroline Corbetta in un’intervista pubblicata qualche settimana fa da “Vogue”. «Ad esempio, nel corso degli anni la maggior parte degli articoli si è concentrata sulla stranezza della mia poliedricità, piuttosto che approfondire la mia ricerca. Mi sembra di fermarmi sempre alle presentazioni, tipo “piacere di conoscerti”, senza mai entrare in una conversazione significativa. Anche se non credo che il pubblico, quando legge un mio libro, guarda un mio film o una performance, abbia dei problemi in questo senso».

Ecco, sì, magari un fruitore affezionato alle sue numerose manifestazioni creative questi problemi non ce l’ha; ma, oggettivamente, è comunque difficile quando si parla di Miranda July non togliersi dalla mente tutto quello che ha caratterizzato la parabola biografica e professionale di questa donna ora arrivata al giro di boa dei 50 (li ha compiuti il 14 febbraio) e che il mondo ha conosciuto quasi vent’anni fa attraverso le immagini di “Me and You and Everyone We Know”: gioiellino indipendente da lei scritto, diretto e interpretato, premiato al Festival di Cannes del 2005 come migliore opera prima, ma in qualche modo rimasto un exploit isolato.

VALENTINA SOMMARIVA 

«Dopo il successo di quel film c’erano produttori che volevano finanziarmi altri lavori. Ma per me, che non possedevo una carta di credito perché pensavo che comprare a credito fosse un’operazione sbagliata, era altrettanto sbagliato accettare soldi per un film che non avevo ancora immaginato», avrebbe ricordato in seguito in un’altra intervista, questa volta concessa a Manuela Cerri Goren per “D di Repubblica” (già, l’Italia la ama molto).

Un’idealista progressista nel profondo, July (che è uno pseudonimo, perché il vero cognome è Grossinger), figlia di due scrittori impegnati in una piccola casa editrice, cresciuta a Berkeley (in California) e poi trasferitasi più a Nord, lungo la democraticissima costa Ovest, in un’altra culla della controcultura americana, ovvero Portland (in Oregon), dove ha sposato la causa delle “Riot grrrl” e del loro femminismo militante diventando intima amica di Carrie Brownstein, altro “santino” dell’anticonformismo liberal.

«Per me l’università è solo un modo per prolungare la dipendenza dai genitori mentre io volevo essere indipendente. La scuola era parte dell’establishment, e io non volevo essere “educata”. La società mirava a cambiarmi, a piegarmi ai suoi valori e alle sue convenzioni. Carrie e io eravamo punk, immerse nel mondo delle “Riot grrrl”, giovani, selvatiche e maleducate. Il nostro modo di esprimerci era decisamente scarno. Cercavamo di cambiare il mondo, ma non sapevamo da che parte cominciare».

VALENTINA SOMMARIVA 

Ci fermiamo qui con il resoconto sul passato, perché altrimenti ci perderemmo; ma era solo per dire che, con tutto questo e molto altro alle sue spalle, fa un po’ sorridere (un sorriso accennato e assai educato, eh) ritrovarla ora a Milano, graziosa ed entusiasta, fragile e naïf come sempre, mentre presenta la mostra (e la rassegna cinematografica) con cui “l’establishment” di Fondazione Prada ha deciso di omaggiarla. Le cose cambiano, e certe asprezze con il tempo sono destinate a smussarsi.

Si tratta della sua prima “solo exhibition” e lei è colma di gratitudine, visibilmente non ci sta nella pelle, il fatto che l’autorevole istituzione le abbia concesso tutto l’arsenale di mezzi di cui dispone la riempie di gratitudine. Lei non è Michael Stipe dei Rem (altra star americana, musicista e ora fotografo e scultore), giunto a Milano di recente pure lui per il suo debutto assoluto in uno spazio espositivo (in quel caso eravamo alla Fondazione Ica); quindi, visitando “New Society” (fino al 14 ottobre negli spazi dell’Osservatorio, sotto la Galleria Vittorio Emanuele II), non ci troviamo al cospetto di opere tradizionalmente intese frutto di una sua nuova “incarnazione” artistica, bensì i filmati delle produzioni teatrali portate in scena nel corso degli anni, accanto a teche che conservano il suo archivio personale (memorabilia accumulata tra uno spettacolo e l’altro), e altri progetti realizzati a più mani su sua ispirazione, nati da vicinanze di diverso tipo, in cui July esprime tutta la sua poetica fatta di candore, ironia e voglia di condivisione.

Basterebbe ascoltare il trasporto emotivo con cui pronuncia più volte il verbo “merge” (unirsi, fondersi) per capire quanto ci crede, quanto quel desiderio la muova. Lo fa mentre parla di “F.A.M.I.L.Y. (Falling Apart Meanwhile I Love You)”, un’installazione multicanale che documenta la collaborazione durata un anno con sette sconosciuti conosciuti su Instagram: July li ha invitati a muoversi nelle loro case immaginando di abbracciarla e di contorcersi assieme a lei, facendo lei lo stesso, poi ha composto il tutto con gli strumenti di TikTok per ambientare queste attrazioni e questi respingimenti nel proprio ambiente domestico.

È questa dimensione “partecipativa” a costituire il filo più duraturo nei suoi lavori; e se ne ha prova anche alla fine del percorso, con una sorta di esposizione nell’esposizione derivata da “Learning to Love You More”, progetto che includeva settanta “compiti” assegnati via web al pubblico e caricati su un sito. Il “compito” n. 43 (“Realizza una mostra con le opere che trovi a casa dei tuoi genitori”) è stato portato a termine da una ragazza milanese che ora è qui, all’Osservatorio Prada, per mostrare “fisicamente” tutte le foto e gli oggetti con cui aveva riassunto la propria biografia familiare.

Miranda July ne fa una questione di potere da restituire: «Quando sono sul palco e tutti mi guardano, sono in una situazione di forza ma anche di vulnerabilità. Io voglio che sia il pubblico a prendersi la scena, voglio coinvolgere e lasciare spazio agli altri. Ora che grazie a questa mostra rivedo i miei lavori, mi rendo conto che pur avendo cinquant’anni cerco di fare le stesse cose di quando ne avevo venti».

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