REGGIO EMILIA. “The Turn of the Screw”, ossia “Il giro di vite”, è forse l’opera più inquietante di tutto il Novecento (arrivò poco dopo la metà del secolo, nel ‘54) e sicuramente quella che rappresenta al meglio tutte le peggiori nevrosi dell’autore, Benjamin Britten. Quanto ai temi del suo teatro, si può dire che Britten riscrisse sempre la stessa opera. Ma mai come in questa l’innocenza violata, l’ambiguità sessuale e il rigore formale della musica appaiono evidenti. Il paradosso è che questa evidenza resta tale anche se la vicenda non si chiarisce mai: cosa è davvero successo fra i due bambini affidati da un tutore assente all’istitutrice e i due domestici di casa nel frattempo morti? I fantasmi dei due servitori sono davvero tali o proiezioni della fantasia morbosa dei bambini o della stessa istitutrice? E così via. In quest’opera, come in tutto Britten, il non detto è più importante di quanto ci viene raccontato, e lo spettatore viene lentamente risucchiato in un’atmosfera malata che la forma rigorosissima (un tema e quindici variazioni, una per ogni scena) finisce per rendere ancora più inesorabile.

Capolavorissimo, dunque: ma proprio per questo difficile da mettere in scena. La produzione di Reggio Emilia, collocata non al teatro Valli ma al più piccolo Ariosto per ragioni artistiche, bastano appena tredici strumentisti, e anche per evitare “forni” (ma anche così, non è che fossimo in moltissimi, Britten non è esattamente pop), è inaspettatamente buonissima, a dimostrazione che si può fare dell’ottimo teatro musicale anche in provincia, e questo lo sapevamo, e pure senza i soliti noti. L’Icarus Ensemble suona benissimo e benissimo dirige Francesco Bossaglia, senza esagerare in evanescenze da ghost story e anzi con un tratto netto, deciso, drammaticissimo. Dei cantanti non ne conoscevo nessuno, mea culpa: Laura Zecchini, l’istitutrice, Chiara Ersilia Trapani, la governante, e i due fantasmi, Florian Panzeri e Liga Liedskalnina, non hanno voci enormi né meravigliose ma sono artisti educati, preparati e stilisticamente ineccepibili. Spiccano i due bambini, che di solito nel “Giro di vite” sono più la croce che la delizia: anglosassoni, naturalmente, si chiamano Ben Fletcher e Maia Greaves, e sono bravissimi.

Funziona anche lo spettacolo. Invece del solito décor “gotico” tipo castello infestato di un film dell’orrore, lo scenografo Fabio Cherstich piazza l’azione in una sorta di seminterrato per nulla sinistro che finisce però per diventarlo quando i pochi oggetti di scena, proprio perché pochi, finiscono per caricarsi di significato, mentre una teca centrale semovente anima lo spazio e consente dissolvenze quasi cinematografiche. Anche il regista, Fabio Condemi, racconta soprattutto per immagini e con le immagini (anche proiettate su una lavagna luminosa), con un risultato alla fine molto convincente nonostante la recitazione alquanto stereotipata dei cantanti, super ragazzini a parte: l’opera diventa una specie di giallo, dove gli indizi sono i pezzi del puzzle che si ricompone nel finale. Anche se, appunto, Britten non spiega e si spiega mai fino in fondo. Accoglienza cordialissima da parte degli happy few in sala: dopo le due recite all’Ariosto, si impone una ripresa in stagione.

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