Il primo ad essere ucciso fu Giuseppe Ciotta, brigadiere di Pubblica Sicurezza, freddato in via Gorizia il 12 marzo 1977 mentre stava avviando il motore dell’auto per recarsi da casa al luogo di servizio: a sparare un killer di Prima Linea. Gli ultimi furono Sebastiano D’Alleo e Antonio Pedio, guardie giurate Mondialpol, ammazzati il 21 ottobre 1982 nella filiale del Banco di Napoli di via Rosolino Pilo, non lontano da corso Francia: la firma era delle Brigate Rosse. In mezzo, in città, cinque anni di sangue, con 18 morti e decine di feriti “gambizzati” e spesso invalidati in modo permanente. Alcuni erano personaggi molto noti, il vicedirettore de La Stampa Carlo Casalegno, il presidente dell’ordine degli avvocati Fulvio Croce, l’alto funzionario Fiat Carlo Ghiglieno; gli altri erano umili lavoratori, guardie carcerarie, agenti, vigili urbani, baristi, proletari assassinati dal partito armato in nome della rivoluzione proletaria.

Claudio Giacchino, che nella sua lunga attività di cronista ha seguito tutti gli anni di piombo a Torino, ricostruisce ora l’atmosfera feroce di quella stagione in un libro agile e toccante, che sarà presentato domani, venerdì 12 maggio, alle 18, al Museo Carceri “Le Nuove” – via Borsellino 3 (si intitola “Venti di terrorismo”, edizioni Graphot)).

La tecnica narrativa è originale: le vittime, che “dormono sulla collina del sangue innocente”, parlano in prima persona, alcune con tono desolato («Sono morto per qualcosa di utile? – si chiede l’agente Ciotta – No, sono morto per nulla»), altre con la consapevolezza di “aver rappresentato l’Italia della ragione, a difesa della libertà contro le barbarie” (è il caso di Carlo Casalegno), altre ancora con ironia amara («L’unica consolazione – dice il vigile urbano Bartolomeo Mana – è che non ho precipitato nel dolore una moglie e dei figli: non avevo ancora messo su famiglia»).

I Torinesi di oggi ricordano quegli anni e quelle vittime? Giacchino propone una riflessione importante, facendo parlare la guardia giurata Giuseppe Pisciunieri (ucciso il 10 aprile 1980 sul marciapiede di via Rivet, vicino alla sede della Mondialpol): «È crudele, ma è la verità: si è molto affascinati dagli assassini, poco dagli assassinati. Le vittime vengono compiante, ma è dei colpevoli che si cerca di comprendere la personalità, sono le loro vite che vengono scrutate per individuare l’intoppo».

Ricordo un’esperienza personale: nel 2012 ero preside al Liceo D’Azeglio e il Centro Pannunzio mi chiese di mandare una delegazione di studenti alla commemorazione per i 35 anni della morte di Carlo Casalegno, che in quel liceo aveva studiato. Chiamai i rappresentanti d’istituto i quali furono d’accordo ma, essendo ragazzi seri, andarono su Internet a cercare notizie di Casalegno, di cui non avevano mai sentito il nome. Quegli stessi ragazzi, però, sapevano perfettamente chi erano Renato Curcio e Mara Cagol. Brutto segnale: se una comunità ricorda i nomi dei carnefici e dimentica quelli delle vittime, significa che vi è un corto circuito nella memoria collettiva. Così si rischia di ribaltare i ruoli, di dimenticare ciò che realmente è accaduto. E la storia perde il suo senso.

Ben venga, dunque, il lavoro di Claudio Giachino, che con una scrittura facile e immediata ripercorre la “Torino del sangue innocente”, offrendo insieme squarci di storia passata e spunti di riflessione civica.

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