La leggenda dei medaglioni del bosco incantato

La leggenda dei medaglioni del bosco incantato di Zibello

Uscendo dalla porta della cerchia da basso si arriva al bosco di pioppi. Attraversando il bosco, si deve poi risalire l’argine e per due gambe mingherline come quelle di Augusto, nove anni a dicembre, primo di sette fratelli, è come un’avventura.

Gli dicono sempre di non andare da solo fin laggiù, che è pericoloso, di notte poi si aggirano furtivi i contrabbandieri, con il favore della nebbia e celati dai tabarri, che fanno tutti i loro traffici.

Ma lo spettacolo che lo attende tutte le volte è troppo bello per poterci rinunciare.

Quando, finalmente, l’argine è scalato, Augusto vede ergersi dalle acque chiare il mulino sul Po che è del mugnajo Ottorino, detto Turèn. Due sandòn di sette pertiche romane di lunghezza unite da una ruota a pale.

L’abitazione ha un tetto di canne palustri e il suo cigolare che sovrasta il silenzio della vita sul fiume è come il lamento di uno schiavo incatenato.

Ottorino sta sempre di ronda con lo schioppo perchè c’è carestia e teme gli assalti.

Romolo, il figlio di primo letto, batte col martello la mola per renderla porosa e fare una farina di migliore qualità.

Sulla riva di sono le donne che raccolgono la canapa. Qualcuno ha provato a mettere giù un po’ di sorgo, per farci le scope e gli scopini, ma ci vuole una terra particolare e tribolano tanto.

Tutto è fatica sul Po: trovare la corrente, scoprire le basse, lavorare con la nebbia, non farsi sorprendere dai mulinelli, risanare terra, coltivare, irrigare. Perchè quello che il Po dà, poi il Po prende.

Lì dove l’Eridano, è questo il nome del mulino, è ancorato, c’è un gran va e vieni di persone durante il giorno. E’ quasi come il giovedì che da anni e annorum c’è il mercato in piazza. E si sentono tutte le novità, si vedono i saccaroli, i calafati, i meatori, gli scariolanti, le lavandaie, i pescatori e i cacciatori, si sente l’odore di bruciato del legno piegato per fare gli scafi, il gracidare delle rane, il nitrire dei cavalli che tirano i barconi e risalgono le alzaie.

Sembra un mondo tutto diverso da quello di là dal bosco, sulla terraferma protetta dall’argine. Là si curano gli animali e si dissoda la terra, come il babbo di Augusto, che lo chiama Gustèn, o si fila e si cuce come la mamma, che lo chiama Sfalzèn.

I bambini che vanno a scuola sono pochi, in tutto il paese ci sono tre maestre e tutte per ragazze, così Augusto fa il giovane del calzolaio, è stato fortunato, ma a casa sono in dieci ed è sempre difficile mettere qualcosa sulla tavola per cena.

Il bosco dà qualche fungo, si possono mangiare alcune erbette se le sai riconoscere, i gelsi danno delle more grosse e succose, per questo motivo vengono chiamate muròn. Ma è una gara a chi riesce a raccogliere le messi per primo.

Il ragazzo è furbo e veloce come una scheggia e ogni tanto, anche se la mamma e il babbo si sono raccomandati a forza di scapaccioni, ruba anche qualche frutto dalle piante o qualche uovo dai pollai dei possidenti.

In sua difesa, Augusto, può dire che non tiene nulla per sè ma porta tutto ai suoi fratelli.

Ogni primo sabato del mese, il fanciullo, ha il compito di accompagnare il babbo a portare i grani da Turèn, il molinaro dell’Eridano e di aspettare la farina. E quello è il momento migliore per Augusto perchè può osservare gli ingranaggi smossi dalla forza della corrente e cercare di capire come funziona tutto il marchingegno. La moglie di Ottorino, la Clotilde, ha gli occhi dolci e il sorriso tenero della Madonnina disegnata sui muri della ghisiola. Intanto che aspettano si mette sempre a fare gli gnocchi impastando un po’ di farina con l’acqua del Po, poi li infilza con un bastoncino e li fa rosolare in una padella nera dove ha sciolto il lardo o lo strutto. Augusto, che riceve immancabilmente un bastoncino, non ha mai mangiato nulla di più buono.

Nei giorni morti, di quelli con poca acqua e il Po in secca, e il mulino praticamente attaccato alla riva, la moglie del molinaro scende sulla terraferma e va a raccogliere qualche erbetta, come le sprelle, le foglie dei pitaciò, i vartìs o i semi di canapa, che sono buoni da mangiare così, ma danno anche un olio gustoso per condire i pomodori.

Tornata sul natante, con un pestello, ricava una poltiglia dei semi di canapa, li mischia all’olio per conservarli e li ripone in una zucca da mostarda, di quelle fatte a pera e grosse che non sembrano vere, che ha fatto essiccare durante l’inverno ed ora è un perfetto recipiente.

Il molinaro le chiede cosa ne farà di quella poltiglia. La moglie ci pensa, raccoglie il pesto con un dito, lo assaggia e nella sua testa i sapori si mischiano creando un piatto rustico, ma delizioso: gli gnocchi aperti col pesto di canapa.

Sopra il tetto del mulino, la Clotilde tiene una piccionaia perchè le galline sono stupide e non sanno né volare, né nuotare e finirebbero sempre annegate, vivendo in un barcone sul fiume.

Il brodo lo fa con la carne di piccione e la pasta con le sue uova. Ogni tanto la mamma di Augusto, per ringraziarla per qualche oncia in più di farina, le manda un po’ di strutto o della verza.

Se Turèn sapesse che non sempre il babbo di Augusto paga il 6% per la molitura, forse non lo vorrebbe più sul suo barcone, ma la Clotilde, che non ha potuto avere figliuoli suoi, aiuta quelli degli altri come può.

Mario, il boscaiolo, dice che la via al porto dovrà essere chiusa fra poco, una pianta forestiera sta minacciando di ricoprire tutti i muròn che dividono i vari possedimenti: stanno morendo ad uno ad uno e danno sempre meno frutti. Il paesaggio sta diventando spettrale. E’ in arrivo una pestilenza che Dio ci salvi!

Augusto, curioso come al solito, si è spinto oltre la fila di gelsi e ha visto quello che intende Mario. Perchè la gente deve avere paura? Sembra che la vegetazione abbia iniziato a costruire grandi tende come si vede sui fogli della domenica quando parlano degli indiani d’America. Augusto lo sa perchè il calzolaio dove fa il giovane gli legge sempre le colonne prima di usare le pagine del giornale per lucidare le scarpe nuove.

E’ per questo che lui non ha paura. Sa che niente può fargli del male in quel bosco. Spesso gioca al soldato, usando un bastone come archibugio.

Non ha detto a nessuno dei suoi fratelli di quel luogo segreto, a casa deve dividere tutto, il letto, il piatto della minestra, il sapone, il prete e il bassino. Almeno quella cosa è solo sua.

Ogni tanto si addentra in quelle che per lui sono capanne indiane e lì, all’ombra e celata agli occhi dei passanti, riesce sempre a trovare qualche mora succosa.

Non le mangia, le annusa e basta. Le porta tutte alla Clotilde, per ringraziarla degli gnocchi.

La Clotilde gli sorride sempre come la Madonna della ghisiola e poi gli fa una carezza sulla zazzera corta e irsuta.

Un giorno che la sua sorellina piccola, quella che dorme ancora nel cassetto del comò, non smette di piangere la mamma lo manda a chiamare il dottore. La piccola non si sa proprio cosa abbia, le si gonfia il pancino e il colorito è strano.

Il dottore sentenzia che la piccola è denutrita e ha assoluto bisogno di cose sostanziose, basta minestra con le patate e polenta e pane. Deve mangiare carne o anche pesce.

Per la carne ci vogliono un sacco di soldi, per il pesce, poi, anche di più, perchè il fiume ha cambiato il corso dopo l’ultima grande alluvione e i pescatori devono ancora capire dove mettere giù le nasse.

Augusto non ci pensa un attimo, aspetta le prime luci dell’alba, attraversa quello che nella sua testa è il bosco incantato, e si butta in acqua a cercare le nasse. Sa nuotare come un pesciolino, ha imparato nella fossa che gira intorno al paese. Le acque del Po sono più impetuose, appena sotto la superficie che pare calma si agitano correnti inaspettate.

Riesce a riemergere con un paio di cavedani in mano. Torna a riva e, tutto zuppo, nascosto un po’ dalla bruma del mattino riesce a non farsi vedere dai due cacciatori che passano con la loro spingarda. Poi Augusto starnutisce e lo starnuto di un bambino, la mattina presto, sul fiume, si propaga come il tuono del temporale. Si sente una voce gridare la ladro, un’altra dire che è andato di là, un’altra ancora dice di muoversi verso il filare di gelsi.

Augusto scappa coi pesci stretti al petto, con quanta birra ha in corpo, gli occhi chiusi perchè tanto il sentiero lo conosce a memoria. Un tiro di schioppo gli sfiora l’orecchio e rimane sordo per qualche istante. Il numero delle voci al suo inseguimento aumenta. Augusto scappa come una lepre braccata schizzando a destra e a sinistra. Poi non ce la fa più, gli abiti fradici, il freddo che gli fa battere i denti, le gambe senza più forza. Apre finalmente gli occhi e in un attimo decide di infilarsi in una di quelle tende disegnate del bosco. Nasconde i pesci sotto un mucchio di foglie secche. Se lo troveranno potrà sempre dire di non aver rubato niente.

Le voci si fanno sempre più vicine e più arrabbiate. Augusto si rende conto che il suo nascondiglio non è poi così sicuro, se lui riesce a vedere tutto ciò che passa fuori, da fuori possono vedere dentro. Ormai è in trappola. I raggi del sole ormai sorto entrano come lame di luce tra le fessure lasciate dalle foglie. Eccoli, il pescatore e i cacciatori e forse altri ancora, stanno passando davanti alla sua capanna: d’un tratto le foglie si moltiplicano, la tenda diventa una capanna e nessuna luce filtra più all’interno.

Augusto trattiene il fiato. Gli uomini che lo stanno cercando passano oltre.

E’ salvo, ma non può ancora uscire dal suo nascondiglio, la spossatezza prende il sopravvento e il bambino mingherlino che ha rubato due pesci per la sorellina malata si addormenta.

Quando Augusto si sveglia ormai è notte fonda e pensa che la mamma e il babbo saranno in pensiero. Ma non può ancora uscire perchè quella è l’ora dei contrabbandieri che se lo vedono, allora si che è un bambino morto.

Indeciso sul da farsi cerca di respirare più piano che può, ma il suo stomaco affamato proprio non ne vuol sapere e continua a brontolare.

Sente le voci dei contrabbandieri avvicinarsi, ne riconosce anche un paio e non è certo gente che ha bisogno. Poi gli pare di udire la voce decisa della Clotilde.

Che non si facessero veder in giro stasera, perchè c’erano i pescatori che stavano cercando un ladro e non era sicuro per i loro traffici di farsi vedere. Pare che portino tutti rispetto per la Clotilde, così decidono di andarsene lasciando a metà tutte le loro faccende.

Poi una voce più dolce, ma sempre uguale a quella di prima, chiama il suo nome.

La sua vocina riesca a farsi sentire dalla Tilde e le dice di stare attenta che il bosco è incantato e lo tiene prigioniero nella capanna. Lei riesce ad aprirsi un varco con la roncola e gli dice che non c’è più pericolo, che gli ha portato da mangiare, che ha giurato al pescatore che il bambino non poteva essere Gustèn, perchè è stato tutto il giorno con lei a fare i medaglioni dolci da portare alla sorellina ammalata.

Che medaglioni, chiede Augusto con la sua vocina un po’ roca che non vuole saperne di uscire.

I medaglioni di questo bosco incantato, quelli che ha fatto con la marmellata di more che le ha portato lui.

Augusto allora esce dal suo nascondiglio e corre ad abbracciare la Clotilde piangendo sul suo grembiule.

La mamma e il babbo sanno quello che è successo e lui stanotte può dormire sull’Eridano e mangiare tutti i medaglioni che vuole.

Augusto ne sta mettendo in bocca uno ma poi pensa alla sua sorellina.

La Clotilde gli dice di non preoccuparsi perchè la sorellina ha già avuto la sua parte.

Quella sera Augusto dorme per la prima e ultima volta in un letto tutto per sé.

Quando torna a casa il giorno dopo ha un febbrone da cavallo, per la nuotata e la notte al freddo. La sorellina sta meglio. Lui un po’ meno. Ci vogliono cinque giorni perchè possa tornare a scorrazzare sulle sue gambe.

Allora prende la strada del bosco incantato, risale l’argine e quando giunge sulla sommità non trova più l’Eridano. Gli scariolanti gli dicono che si è dovuto spostare perchè la corrente è cambiata e le mole non macinavano più.

Augusto non ha potuto salutare la Clotilde, ma non la dimenticherà mai.

Questa leggenda è una storia di povertà, di arte di arrangiarsi, di carità cristiana. E’ una storia passata per tante bocche e, conoscendo come fa l’ambolina su queste bocche, in pochi passaggi, a diventare storione, ecco, la leggenda va presa così com’è: una storia col lieto fine che racconta di un’epopea e di gente che non c’è più. C’è chi dice che le foglie non abbiano oscurato la vista del pescatore ma sia avvenuta un’eclissi. C’è chi dice che la mulinàsa non fosse a Zibello ma a Polesine. In fin dei conti quello che interessa di una fola non è altro che la morale. Questa storia ci lascia anche una ricetta gustosa che trascriviamo qui sotto:

La ricetta dei medaglioni del bosco incantato

Per circa venti/venticinque medaglioni

2,2 libbre di farina

10 once di zucchero

10 once di strutto

due uova intere

quattro tuorli

buccia di un limone

mezza oncia di cremor tartaro

un baccello di vaniglia

1 libbra di marmellata di more

Procedimento

Sminuzzare la buccia del limone con lo zucchero, lavorare con lo strutto, aggiungere le uova, la farina, la vaniglia sminuzzata e il cremor tartaro. Lasciar riposare per mezz’ora l’impasto al fresco.

Stendere metà impasto sul tagliere con un mattarello, fare venti mucchietti di marmellata distanziati cinque centimetri. Stendere l’altra metà dell’impasto sopra il primo e tagliare i medaglioni con un bicchiere o con uno stampo grande di ottone da tortelli.

Spennellare con un uovo e cuocere a forno caldo per 20 minuti.

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