L’America americana
Questo è l'editoriale del numero uscito dopo la vittoria di Donald Trump alle elezioni del 2016. Per sapere cosa (non) cambierà sotto la presidenza di Joe Biden, leggi Usa 2020s.
1. Il mondo cambierà Trump più di quanto Trump cambierà il mondo. L’agenda del presidente sarà scritta da lui e dalle sue teste d’uovo, certo.
A riscriverla provvederanno però contropoteri e burocrazie americane. Infine, verrà rimodellata dall’ambiente geopolitico, socioeconomico e culturale nel quale tutti siamo immersi, Casa Bianca compresa. Il resto è per i media.
I mezzi di comunicazione mainstream, a partire dal celeberrimo New York Times ridotto a Pravda clintoniana, sono i grandi sconfitti delle elezioni presidenziali. Aliena dalla pancia e dal cuore del paese, la grande stampa ha allestito un teatro comunicativo dedito a confermare l’élite cosmopolita della nazione nelle sue liberali certezze. Producendo secondo Graham Fuller, già analista della Cia, «un imponente fallimento dell’intelligence americana», dovuto a una «caratteristica profondamente radicata» nella comunità a stelle e strisce: «L’incapacità di leggere la realtà» [1].
Sarà che viviamo l’epoca del dopo-verità, come certifica Oxford Dictionaries proclamando post-truth parola dell’anno per il 2016. Termine che sta a significare «circostanze in cui i fatti obiettivi sono meno influenti nel formare la pubblica opinione rispetto agli appelli all’emozione e al credo personale», la cui occorrenza risulta cresciuta del 2000% rispetto allo scorso anno per impulso del referendum sul Brexit e delle elezioni presidenziali americane [2].
Siamo nel tempo delle narrazioni, ovvero del dominio della propaganda. Né possiamo trascurare l’americanissimo soft power - lemma che molti nostri vocabolari rinunciano a tradurre - impalpabile volgarizzazione della gramsciana egemonia. E che sempre più spesso si svela autoreferenziale.
Esperienza cui si accinge con inconfondibile stile anche The Donald, in vista dell’inaugurazione del suo mandato, annunciato rivoluzionario. La collisione tra un ego tanto sviluppato e le miserie della gestione quotidiana cui lo vincola la carica si annuncia spettacolare. Specialmente ora che le dinamiche geopolitiche hanno preso a correre all’impazzata, dipingendo scenari caotici di norma annunciatori di un passaggio d’epoca. Che cosa possiamo attenderci dunque dagli Stati Uniti e dal loro estroverso portabandiera?
2. Per capire il fenomeno Trump conviene partire dall’aria del tempo, non dalla persona. Tantomeno dalla maschera indossata in campagna elettorale, quel raro momento di esilarante irresponsabilità che scatena retoriche incredibili e sguaiate pulsioni. L’elezione del tycoon newyorkese non è tanto sisma - vedremo poi di quale grado - quanto sismografo dei mutamenti sociopolitici in corso.
I quali, almeno in America e nel resto di quel mondo che Limes, in un accesso di ottimismo, ha battezzato Ordolandia – il fu Occidente allargato – si profilano come tecnicamente reazionari. Si condanna la cosiddetta globalizzazione, se ne denunciano le ingiustizie economiche e sociali, si delegittimano le istituzioni che non sanno opporvisi. Così determinando la contrapposizione frontale fra due entità vaghe ma cariche di reciproca dinamite polemica: popolo ed élite. Queste ultime, detentrici delle rendite di potere, denaro e (in)formazione, agli occhi della «gente» anziché guidare la nazione paiono intente a curare il proprio particulare. Non avanguardia: oligarchia.
A cavalcare la ribellione dei ceti medio-bassi immiseriti, i cosiddetti populisti, dei quali Trump è riconosciuto campione. Populismo è epiteto di comodo. Stando al politologo Francis Fukuyama, è «l’etichetta che le élite mettono alle politiche che a loro non piacciono ma che hanno il sostegno dei cittadini» [3]. Le quali élite replicano alla marmaglia dei deplorables (copyright Hillary Clinton) echeggiando il motto di Bertolt Brecht dopo la repressione della rivolta operaia di Berlino Est (1953): «Il popolo si è giocato la fiducia del governo; non sarebbe più semplice se il governo sciogliesse il popolo e ne eleggesse un altro?» [4]. In democrazia non funziona (ancora) così. Il successo di Trump – peculiare uomo delle élite che si fa capopopolo – lo conferma. La crisi di senso della politica accompagna e insieme accelera quella della globalizzazione. Ideologia, prima che teoria. Narrazione cesellata su una parola d’ordine dalla lasca sfera semantica, che esalta l’interdipendenza economico-finanziaria e l’integrazione fra società e culture. Negli anni Novanta, la globalizzazione era asso pigliatutto, misura di tutte le cose. Sinonimo dell’egemonia americana su scala planetaria. Fine della storia. Al nostro sguardo postero, il quarto di secolo che ci separa dalla vittoria dell’Occidente nella guerra fredda non si profila affatto come americanizzazione del mondo. Semmai, mondanizzazione dell’America. Rinuncia all’onnipotenza della «nazione indispensabile». Tradotto nell’apocalittica trumpiana: soggezione della superpotenza benigna a maligni (in)flussi alieni. Prudenza suggerisce di non affrettare verdetti epocali. Epperò la fase alta di questa globalizzazione sembra esaurita. Il successo di Trump, trascinato dall’esibito protezionismo – oltre che dal machismo e dal nativismo razzisteggiante – è figlio di tale percezione. Confortata da diversi indicatori, che segnalano l’inversione di tendenza negli scambi globali. Spartiacque è il 2008, anno orribile della crisi scoppiata nella finanza privata americana, poi diffusa per via virale. A investire prima l’economia, quindi la società, la politica, l’idea stessa di comunità, ovvero della convivenza fra uguali e diversi.
3. Per Trump l’America è in declino e si tratta di «rifarla grande». È così? La risposta implica due percorsi di analisi. Il primo volto a determinare se il colosso a stelle e strisce sia davvero in crisi. In caso affermativo, occorre poi stabilire se si tratti di tabe irreversibile o se invece intelligenti terapie possano rilanciarne il primato mondiale per il secondo secolo consecutivo. Se al contrario la diagnosi terminale risultasse prematura, basterebbe dosare la manutenzione omeopatica utile a confermare l’impero per il tempo visibile. In geopolitica non si danno verità oggettive né definitive, che volentieri affidiamo alla filosofia della storia, dalla sua prospettiva ultramondana ed extratemporale. Serve invece selezionare i dati essenziali alla provvisoria diagnosi, da incrociare con le percezioni dei principali attori coinvolti, i quali leggono le dinamiche conflittuali nello spazio/tempo con occhiali propri, traendone lezioni differenti ma sempre mobili. Per azzardare infine una sintesi, da cui i decisori o presunti tali potranno trarre le scelte, comunque limitate, che riterranno opportune. Le quali, nelle democrazie vincolate ai cicli elettorali, saranno prioritariamente volte a garantire la conferma in carica, senza di che non si può decidere né fingere di farlo.
4. Quale sarà la politica estera degli Stati Uniti al tempo di The Donald è presto per stabilire. Non solo per i condizionamenti strutturali, domestici ed esterni, per cui dalle intenzioni del capo – ammesso siano coerenti e leggibili – derivano conseguenze impreviste, quando non vengono semplicemente obliterate. Ma anche perché Trump è dopo Eisenhower il primo non politico alla Casa Bianca. Il processo di trasformazione del dilettante in professionista ha i suoi tempi.
D) Quanto alla Cina, anch’essa associabile all’intesa anti-jihadista, non è nemico naturale dell’America. Trump vuole ridurre il debito con Pechino senza scatenare una guerra commerciale, distruttiva per entrambi. Il punto di ripartenza è l’affondamento del Trans-Pacific Partnership, sorta di traslazione asiatica della Nato sotto mentite spoglie geoeconomiche, creatura assai cara a Obama e con lui dipartente. In assenza della quale Trump sembra scommettere sul blando contenimento della Cina in associazione con amici e alleati asiatici – Giappone e Corea del Sud su tutti – che peraltro perseguono agende proprie, condizionate dall’intreccio economico-commerciale con il pur temuto grande vicino (carta a colori 4). E) Duro approccio al Messico, in tre passi: deportazione di almeno due milioni di immigrati clandestini bollati «criminali»; completamento del muro di separazione al confine (surrogabile per alcuni tratti con più economico filo spinato); revisione se non annullamento del Nafta per proteggere gli interessi dell’industria e dei lavoratori americani. Il primo passo è credibile (sotto Obama sono già stati espulsi due milioni e mezzo di illegali, quasi tutti ispanici, carta 4); il secondo è teatro, a contenuto costo edilizio ma caro prezzo d’immagine; il terzo pare irrealistico, anche nella sua versione moderata, a meno di una conversione del Congresso (carta a colori 5).
5. Trump si prospetta retrenchment president, orientato a ridurre esposizione, spesa e rischio geopolitico. Nella tradizione di Eisenhower o di Nixon, a suo modo dello stesso Obama: la politica estera ancella delle priorità domestiche, lo strumento militare risorsa di ultimissima istanza. Almeno finché un’emergenza non dovesse rovesciare l’ordine dei fattori, come accadde l’11 settembre. Le differenze con i più o meno augusti predecessori stanno nel grado di intrinseca disfunzionalità dell’impero americano e nell’entropia del sistema internazionale. Con quale mondo si confronta l’America di Trump? Quali esiti produrrà il riduzionismo trumpiano quando confrontato con le tempeste geopolitiche in atto o in formazione? È di moda discettare di mondo multipolare. Da quanto fin qui argomentato emerge semmai una nebulosa apolare, con America primum inter impares, Cina problematico sfidante, Russia affannato guastatore, Germania e Giappone azzoppati dal passato, tuttora al di qua della linea d’ombra. Il resto è caos o velleità.
Così Obama non ha fatto che seguire e sviluppare il predecessore nella sua ultima postura, assunta a cavallo fra 2006 e 2007 con la presa d’atto dell’insabbiamento in Iraq, la pubblicazione del «nuovo approccio» all’avventura mesopotamica suggerito dalla commissione bipartitica istituita dal Congresso e presieduta da due pesi massimi avversi ai neocon (James Baker III e Lee Hamilton) [13], le dimissioni di Donald Rumsfeld da ministro della Difesa e il ridimensionamento della «guerra globale al terrore». Obama è ripartito di qui. Prima esplorando una strategia semirivoluzionaria, che avrebbe rovesciato l’utopia neocon sostituendola con la propria: chiusura di Guantánamo, ramo d’olivo all’Iran, appello ai musulmani motivato financo dalla presunta affinità di valori, apertura alle primavere arabe e fiducia nei Fratelli musulmani quali possibili gestori dell’Egitto. Poi ripiegando su una tattica bellica conservativa, cominciando dal non nominare la «guerra al terrore» e dal decurtare gli stivali sul terreno iracheno, salvo ricorrere alle uccisioni mirate (Osama bin Laden), alle operazioni coperte e ai droni. Obiettivo strategico: ridurre al minimo l’esposizione in Medio Oriente. Spazio da affidare all’equilibrio competitivo fra le quattro potenze regionali – Israele, Turchia, Iran e Arabia Saudita – per riconcentrarsi sul quadrante asiatico-pacifico. Qui mirando a contenere la Cina in cooperazione con gli attori regionali mobilitabili a tal fine, quali India, Vietnam, Corea del Sud, Giappone, Australia. Accordo con l’Iran a parte – in attesa di verificare se Congresso e amministrazione Trump finiranno per sabotarlo – il bilancio non è strabiliante.
Risultato: il caos mediorientale è in aumento, gli americani sono costretti a rischierare in Iraq soldati e contractors, mentre i flussi di profughi in fuga dalla Siria, insieme alle masse di migranti provenienti dall’Africa, stanno contribuendo a destabilizzare l’Europa in via di rinazionalizzazione e nuovamente alle prese con l’irrisolta questione russa. Quanto al pivot to Asia, è intenzione più che strategia, peraltro intaccata dalla prematura dipartita del Tpp. Il balance of power regionale non funziona. Per di più, in Medio Oriente tutte le presunte potenze deputate a surrogare il ripiegamento americano sono intrinsecamente revisioniste. E due di esse si percepiscono sotto minaccia permanente (Israele) o contingente (Arabia Saudita) di sparire dalla carta geopolitica. Se di equilibrio si tratterà, sarà dell’impotenza. Provare a sigillare il caos mediorientale dopo lo scoppio dell’emergenza migratoria in Europa e l’intervento russo in Siria è spreco di tempo. Quanto all’Asia-Pacifico, nessuna delle potenze regionali – più consistenti del quartetto mediorientale – è disposta a rinunciare all’ombrello a stelle e strisce (Giappone, Corea del Sud, Australia) o comunque alla relazione con l’America; ma nessuna, a cominciare dagli alleati formali degli Usa, è perciò pronta a recidere il cordone economico con la Cina e con le sue diaspore regionali.
6. Obama lascia in eredità a Trump un doppio contenimento rivolto contro Mosca e Pechino, con il risultato di spingere l’una nelle braccia dell’altra. A questa strana coppia potrebbe agganciarsi Berlino, trasformando un progetto apparentemente infrastrutturale – le nuove vie della seta inventate dalla Cina – in allineamento geopolitico (carta a colori 8). Il peggiore dei mondi possibili, visto da Washington. Prefigurazione di quella superpotenza eurasiatica alla cui prevenzione si è sempre dedicata l’America. Per che cosa altrimenti ha vinto due guerre mondiali e la guerra fredda? Con l’obiettivo – o il pretesto, a pensar male – del comune nemico jihadista, Trump potrebbe sganciare la Russia dal non spontaneo abbraccio con la Cina prodotto dalla guerra ucraina, utilizzarne le risorse sul terreno mesopotamico contro Stato Islamico e qaidismi vari, emanciparsi dalla catastrofica prospettiva di dover testare l’unità della Nato in un conflitto con Mosca che alcuni soci baltici dell’Alleanza – e diverse teste calde russe – considerano auspicabile. Di più: avvicinandosi alla Russia Trump ripercorrerebbe a ritroso il sentiero aperto da Nixon nel 1972 agganciando Mao, stavolta usando Mosca contro Pechino. Per completare da nord-ovest il cordone sanitario anticinese che Obama ha abbozzato a sud-est.
Se l’Europa esistesse, potremmo interpretare il monito di Merkel come tardiva assunzione di responsabilità di una comunità che ha continuato a ritenersi dipendente dal protettore americano anche quando questo aveva ostentato di coltivare altre priorità, altri interessi e altri valori. Nell’attuale mischia intracomunitaria, la sottile provocazione della cancelliera può solo ricordarci che due introversioni – l’europea e l’americana – non fanno un dialogo. Mentre possono ben contribuire alla cacofonia del disordine mondiale.
Note
1. G.E. FULLER, «President Trump», grahamefuller.com/president-trump