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L’America americana

Editoriale del numero di Limes 11/16, L'agenda di Trump.
Pubblicato il Aggiornato il
Pubblicato in: L'agenda di Trump - n°11 - 2016
[carta di Laura Canali]
[carta di Laura Canali] 

Questo è l'editoriale del numero uscito dopo la vittoria di Donald Trump alle elezioni del 2016. Per sapere cosa (non) cambierà sotto la presidenza di Joe Biden, leggi Usa 2020s.


1. Il mondo cambierà Trump più di quanto Trump cambierà il mondo. L’agenda del presidente sarà scritta da lui e dalle sue teste d’uovo, certo.


A riscriverla provvederanno però contropoteri e burocrazie americane. Infine, verrà rimodellata dall’ambiente geopolitico, socioeconomico e culturale nel quale tutti siamo immersi, Casa Bianca compresa. Il resto è per i media.


I mezzi di comunicazione mainstream, a partire dal celeberrimo New York Times ridotto a Pravda clintoniana, sono i grandi sconfitti delle elezioni presidenziali. Aliena dalla pancia e dal cuore del paese, la grande stampa ha allestito un teatro comunicativo dedito a confermare l’élite cosmopolita della nazione nelle sue liberali certezze. Producendo secondo Graham Fuller, già analista della Cia, «un imponente fallimento dell’intelligence americana», dovuto a una «caratteristica profondamente radicata» nella comunità a stelle e strisce: «L’incapacità di leggere la realtà» [1].


Sarà che viviamo l’epoca del dopo-verità, come certifica Oxford Dictionaries proclamando post-truth parola dell’anno per il 2016. Termine che sta a significare «circostanze in cui i fatti obiettivi sono meno influenti nel formare la pubblica opinione rispetto agli appelli all’emozione e al credo personale», la cui occorrenza risulta cresciuta del 2000% rispetto allo scorso anno per impulso del referendum sul Brexit e delle elezioni presidenziali americane [2].


Siamo nel tempo delle narrazioni, ovvero del dominio della propaganda. Né possiamo trascurare l’americanissimo soft power - lemma che molti nostri vocabolari rinunciano a tradurre - impalpabile volgarizzazione della gramsciana egemonia. E che sempre più spesso si svela autoreferenziale.


Ogni seria analisi comincia quindi dalla decostruzione del messaggio mediatico corrente, sia esso ufficiale, ufficioso o social, che altera e integra i duri dati di realtà in un denso, torbido impasto. Perché lo scavo geopolitico, attraversati e doverosamente omaggiati i mille strati che vestono i fatti, con questi sempre finisce per impattare.
Esperienza cui si accinge con inconfondibile stile anche The Donald, in vista dell’inaugurazione del suo mandato, annunciato rivoluzionario. La collisione tra un ego tanto sviluppato e le miserie della gestione quotidiana cui lo vincola la carica si annuncia spettacolare. Specialmente ora che le dinamiche geopolitiche hanno preso a correre all’impazzata, dipingendo scenari caotici di norma annunciatori di un passaggio d’epoca. Che cosa possiamo attenderci dunque dagli Stati Uniti e dal loro estroverso portabandiera?
2. Per capire il fenomeno Trump conviene partire dall’aria del tempo, non dalla persona. Tantomeno dalla maschera indossata in campagna elettorale, quel raro momento di esilarante irresponsabilità che scatena retoriche incredibili e sguaiate pulsioni. L’elezione del tycoon newyorkese non è tanto sisma - vedremo poi di quale grado - quanto sismografo dei mutamenti sociopolitici in corso.
I quali, almeno in America e nel resto di quel mondo che Limes, in un accesso di ottimismo, ha battezzato Ordolandia – il fu Occidente allargato – si profilano come tecnicamente reazionari. Si condanna la cosiddetta globalizzazione, se ne denunciano le ingiustizie economiche e sociali, si delegittimano le istituzioni che non sanno opporvisi. Così determinando la contrapposizione frontale fra due entità vaghe ma cariche di reciproca dinamite polemica: popolo ed élite. Queste ultime, detentrici delle rendite di potere, denaro e (in)formazione, agli occhi della «gente» anziché guidare la nazione paiono intente a curare il proprio particulare. Non avanguardia: oligarchia.
A cavalcare la ribellione dei ceti medio-bassi immiseriti, i cosiddetti populisti, dei quali Trump è riconosciuto campione. Populismo è epiteto di comodo. Stando al politologo Francis Fukuyama, è «l’etichetta che le élite mettono alle politiche che a loro non piacciono ma che hanno il sostegno dei cittadini» [3]. Le quali élite replicano alla marmaglia dei deplorables (copyright Hillary Clinton) echeggiando il motto di Bertolt Brecht dopo la repressione della rivolta operaia di Berlino Est (1953): «Il popolo si è giocato la fiducia del governo; non sarebbe più semplice se il governo sciogliesse il popolo e ne eleggesse un altro?» [4]. In democrazia non funziona (ancora) così. Il successo di Trump – peculiare uomo delle élite che si fa capopopolo – lo conferma. La crisi di senso della politica accompagna e insieme accelera quella della globalizzazione. Ideologia, prima che teoria. Narrazione cesellata su una parola d’ordine dalla lasca sfera semantica, che esalta l’interdipendenza economico-finanziaria e l’integrazione fra società e culture. Negli anni Novanta, la globalizzazione era asso pigliatutto, misura di tutte le cose. Sinonimo dell’egemonia americana su scala planetaria. Fine della storia. Al nostro sguardo postero, il quarto di secolo che ci separa dalla vittoria dell’Occidente nella guerra fredda non si profila affatto come americanizzazione del mondo. Semmai, mondanizzazione dell’America. Rinuncia all’onnipotenza della «nazione indispensabile». Tradotto nell’apocalittica trumpiana: soggezione della superpotenza benigna a maligni (in)flussi alieni. Prudenza suggerisce di non affrettare verdetti epocali. Epperò la fase alta di questa globalizzazione sembra esaurita. Il successo di Trump, trascinato dall’esibito protezionismo – oltre che dal machismo e dal nativismo razzisteggiante – è figlio di tale percezione. Confortata da diversi indicatori, che segnalano l’inversione di tendenza negli scambi globali. Spartiacque è il 2008, anno orribile della crisi scoppiata nella finanza privata americana, poi diffusa per via virale. A investire prima l’economia, quindi la società, la politica, l’idea stessa di comunità, ovvero della convivenza fra uguali e diversi.
I più evidenti segnali di deglobalizzazione economica sono tre. Primo, la drastica diminuzione della mobilità del capitale: i flussi finanziari in relazione al prodotto interno lordo globale sono caduti dal 57% del 2007, vigilia della crisi, al 36% del 2015. Secondo, l’infiacchirsi dei traffici internazionali (grafico 1): dal 2008 il rapporto fra commercio e produzione è piatto, appena sotto al 60%. L’aumento dei volumi del traffico di servizi e merci sarà quest’anno inferiore alla crescita del pil globale (2% contro 2,4%). Terzo, la caduta degli investimenti diretti esteri, il cui ritmo di crescita è dimezzato rispetto al 3,3% toccato nel 2007 [5]. Se a questo sommiamo le politiche protezionistiche attivate da diversi paesi e l’aborto dei troppo ambiziosi progetti strategico-commerciali concepiti da Obama per Atlantico (Ttip) e Asia-Pacifico (Tpp) – misto di liberoscambismo e contenimento geopolitico di apparenti partner (Germania) ed espliciti rivali (Russia e Cina) – ne traiamo che le oleografie sui destini globali dell’economia dipingono il recente passato più che il futuro prossimo.
Di qui il surriscaldamento e l’introversione del clima sociopolitico in America e non solo. Ricchezza insultante dei supermiliardari e impoverimento dei ceti medio-bassi (grafico 2), che alcuni economisti e gran parte delle opinioni pubbliche occidentali attribuiscono alla faccia oscura della globalizzazione, alimentano il discredito dei poteri stabiliti, l’insofferenza verso gli immigrati e la diffidenza verso il mondo esterno – giungla a somma zero. Meglio la dipendenza controllata dal proprio Stato nazionale che l’interdipendenza incontrollata dall’anonima dunque irresponsabile globalizzazione. Il nazionalismo rimontante in Ordolandia dopo una parentesi di settant’anni non è figlio di ideologie trascorse. Nasce piuttosto dallo spaesamento eccitato dal globalismo, dalla frizione fra politicamente corretto e senso comune, dal bisogno di calore che l’individuo trova nell’appartenenza alla terra ancestrale, non negli algoritmi della finanza elettronica. Con metafora germanica: è nostalgia di focolare (Heimat) prima che di patria (Vaterland). Dalla politica non ci si attende l’interconnessione con i mercati altrui, si pretende la difesa degli interessi nazionali, che ciascuno identifica con i propri.
Il senso di ingiustizia prodotto dall’accentuata divaricazione dei redditi è specialmente acuto negli Stati Uniti, dove i dirigenti corresponsabili del fallimento delle banche travolte dai mutui subprime hanno portato a casa liquidazioni plurimilionarie, mentre lo stipendio di un amministratore delegato supera di oltre trecento volte la paga del salariato medio. E la somma dei patrimoni della famiglia Walton e dei fratelli Koch equivale a quella di 150 milioni di connazionali, pari al 44% della popolazione [6].
Nelle liberaldemocrazie l’umore antiglobalista è per ora canalizzato nelle piazze e nelle urne, ma sarebbe avventato escludere che si traduca presto in violenza diffusa. Negli Stati Uniti, dove l’1% della popolazione è più ricco del restante 99%, la mobilità sociale è relativamente bassa e le prospettive di vita per i giovani dipendono largamente dallo status dei loro genitori, discettare oggi di American dream è esercizio piuttosto ardito (grafici 3, 4, 5). Al fattore di classe si somma quello etnico: la rivolta dei bianchi, tanto più incattiviti in quanto usi al privilegio e al rango che spetta al ceppo fondatore della nazione. Qui il senso di espropriazione da globalizzazione postindustriale è eccitato, non solo fra i colletti blu della «cintura della ruggine», dal senso di appartenenza alla massa dei forgotten men, i dimenticati su cui già Franklin Delano Roosevelt volle far leva nel decennio della Grande Depressione. Sono stati questi lavoratori bianchi, scarti del globalismo sfuggiti ai sondaggisti, incardinati soprattutto nei flyover States – l’America profonda che non si sente rappresentata dalle coste cosmopolite e visceralmente diffida del governo centrale – a spingere Trump verso la Casa Bianca (carte 1 e 2). Sarà con la loro rabbia, rivelatrice della radicalità della questione razziale nel paese dell’autoproclamato melting pot, che trascorsa la stagione trumpiana la classe dirigente nazionale dovrà ancora confrontarsi. Prevedibilmente per molti decenni. Quando l’orizzonte si abbassa, suona l’ora del demagogo. E i cappellini rossi che esortano a «rifare grande l’America», marchio della campagna di Trump, ci raccontano il paradosso di una frustrazione apparentemente inconcepibile: essere il Numero Uno al mondo e non sentirsi bene in questa pelle.
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3. Per Trump l’America è in declino e si tratta di «rifarla grande». È così? La risposta implica due percorsi di analisi. Il primo volto a determinare se il colosso a stelle e strisce sia davvero in crisi. In caso affermativo, occorre poi stabilire se si tratti di tabe irreversibile o se invece intelligenti terapie possano rilanciarne il primato mondiale per il secondo secolo consecutivo. Se al contrario la diagnosi terminale risultasse prematura, basterebbe dosare la manutenzione omeopatica utile a confermare l’impero per il tempo visibile. In geopolitica non si danno verità oggettive né definitive, che volentieri affidiamo alla filosofia della storia, dalla sua prospettiva ultramondana ed extratemporale. Serve invece selezionare i dati essenziali alla provvisoria diagnosi, da incrociare con le percezioni dei principali attori coinvolti, i quali leggono le dinamiche conflittuali nello spazio/tempo con occhiali propri, traendone lezioni differenti ma sempre mobili. Per azzardare infine una sintesi, da cui i decisori o presunti tali potranno trarre le scelte, comunque limitate, che riterranno opportune. Le quali, nelle democrazie vincolate ai cicli elettorali, saranno prioritariamente volte a garantire la conferma in carica, senza di che non si può decidere né fingere di farlo.
L’imperativo categorico di Trump non è rivoluzionare l’America, ma la meno utopica necessità di essere rieletto fra quattro anni.
Ciò premesso, anticipiamo la nostra risposta. Sì, gli Stati Uniti sono in relativo declino. No, non torneranno quel che furono all’apice dell’imperium. Eppure resteranno a lungo e di gran lunga la principale potenza del pianeta, salvo catastrofi che preferiamo non immaginare. Il percorso di questa America, come ripete Henry Kissinger, è delimitato da un doppio ineludibile vincolo: non essere più in grado di dominare il mondo né di potersene ritrarre. Trump sembra invece credere – come già Obama, ma con tutt’altra retorica – che un certo grado di ritrazione dagli affari globali sia condizione del ristabilimento della grandezza perduta. A casa e fuori (carta a colori 1). Argomentiamo. Gli Stati Uniti sono superpotenza sui generis, «impero senza impero» [7] e «senza imperatore» [8], fondato non tanto sull’espansione territoriale quanto sul controllo dei domini strategici: mari, cieli, cosmo e spettro elettromagnetico. Nei primi tre spazi, specie quello marittimo, l’impronta americana è robusta, anche se non mancano sfidanti in ascesa; il quarto è troppo anarchico e multiforme per essere soggetto a qualsiasi autorità sovrana. Inoltre, lo strumento securitario a stelle e strisce, incardinato nelle formidabili Forze armate e nel meno performante sistema di intelligence, vale più in potenza che in atto. Le disastrose, inconcluse campagne militari in Afghanistan e in Iraq stanno a confermarlo (carta 3). E la fine della deterrenza, erosa dalla guerra ibrida alla russa, dalla proliferazione delle armi atomiche (Corea del Nord docet) e dalla «guerra senza limiti» dei terroristi ma anche degli hackers, rende meno cogente la prevalenza strategica a stelle e strisce.
Quanto alla base materiale dell’impero. Non sarà mai abbastanza rimarcata la qualità della ricerca scientifica e della tecnologia statunitensi, capaci di attrarre e mettere alla prova i migliori cervelli del pianeta. Né va drammatizzato il presunto sorpasso economico cinese. Non solo per gli evidenti limiti della crescita e della stabilità geopolitica e sociale dell’Impero del Centro. Il gap fra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese in termini di pil pro capite a parità di potere d’acquisto resta immenso: 56.084 contro 14.340 dollari, nel 2015. Ma il volume dell’economia globale espresso dal motore produttivo americano è dimezzato rispetto allo zenit del dopo-seconda guerra mondiale, quando valeva metà dell’output globale: oggi è al 22% contro il 15,1% della Cina, con tendenza al ribasso, fosse solo per il contesto demografico completamente alterato: nel 1950 eravamo due miliardi e mezzo, oggi viaggiamo verso i sette e mezzo, a fine secolo saremo forse undici miliardi. Gli americani sono quasi 320 milioni e a tasso di immigrazione costante nel 2100 non dovrebbero superare i 400 milioni, il 3% circa dell’umanità.
Sotto l’angolo geopolitico, il tallone d’Achille dell’economia americana resta il suo debito estero, detenuto anzitutto da Cina e Giappone (carta a colori 2). Vero che l’ambiguo vincolo fra creditore e debitore implica il condizionamento reciproco, non l’immediata soggezione del secondo al primo. Ma dall’osservatorio americano non si può omettere di notare che il proprio modello di crescita si alimenta assorbendo risorse esterne – capitali, beni, commodities, energia (sempre meno), non ultimi i cervelli – per sostenere la domanda aggregata interna e nutrire la spesa pubblica, a partire da quella per la difesa, che vale sei volte gli investimenti per l’istruzione. Il debito crescente rende Washington decisamente sensibile all’ambiente esterno e permeabile a interessi avversari. Tagliarlo è dunque imperativo per ridurre l’esposizione all’influenza altrui.
La peculiarità storica dell’impero americano è il suo irradiamento ideologico. La «nazione sulla collina» è autolegittimata dal messianismo trasmesso dai padri fondatori alle generazioni successive, per cui l’interesse americano, in quanto potenza del Bene, si svelerebbe universale. La repubblica americana, che non ama vestirsi da impero nel deprecato senso europeo del termine, è ideocrazia. La misura del suo successo, in definitiva, sta nella disponibilità del resto del mondo a riconoscerla come paradigma da ammirare e avvicinare. Questa è egemonia, nel senso pieno del termine. Quando tale fascino imperiale sembra stemperarsi, come in questo avvio di secolo, gli americani inclinano prima a sovrareagire (la sciagurata «guerra al terrorismo»), dunque a sovraesporsi in aree strategiche di scarso rilievo, poi a ritrarsi nel proprio guscio. Ripiegamento che però le ramificazioni dell’economia, degli interessi e della rete di sicurezza americana declinata su scala globale – si pensi solo alla partizione dell’intero pianeta in sei macroregioni strategiche rette da comandanti dotati di poteri vicereali (carta a colori 3) – contribuiscono a stemperare.
Una sobria sintesi di tanto eterogenee dinamiche diagnostica l’anarchia dilagante nel sistema globale, la direttrice protezionistica, la ridotta attrazione del modello politico, economico e culturale americano, la dispersione sulla scena internazionale di decisivi collanti immateriali, espressa nella crisi della fiducia reciproca come nelle fiammate razziste. Corrente di risacca che dalla globalizzazione trionfante preme verso la deglobalizzazione e rischia di trascinare nel suo percorso quel poco o molto di stabilità che ancora distingue Ordolandia. Se l’apogeo della globalizzazione coincideva con l’età augustea dell’impero americano, la deglobalizzazione incipiente ne anticipa la fase occidua. Resta da vedere se Washington può e vuole invertire la tendenza, come pretendono gli inconcussi ideologi della neoconservazione, o se sulla scia di Obama preferirà la via dell’adattamento, proteggendo l’imponente potenza residua piuttosto che azzardare incerte rivincite. Così esponendo lo iato fra intenibile ideologia missionaria e cauta prassi tattica. Con l’avvento del prossimo inquilino della Casa Bianca, reduce da una campagna all’insegna del protezionismo e del disimpegno da America First, si apre in teoria una terza via: l’eutanasia dell’impero e il ritorno alla repubblica, in formato ridotto e con dimidiate ambizioni. Progetto velleitario per uno o anche due mandati presidenziali, ammesso che il nuovo, inesperto leader voglia davvero lanciarsi in tanta avventura. L’impressione è dunque che gli Stati Uniti non sappiano convivere con il precetto di Kissinger, troppo «europeo» per loro. Allo stesso tempo, non sembrano in grado di elaborarne un altro. A Trump di smentirci.
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4. Quale sarà la politica estera degli Stati Uniti al tempo di The Donald è presto per stabilire. Non solo per i condizionamenti strutturali, domestici ed esterni, per cui dalle intenzioni del capo – ammesso siano coerenti e leggibili – derivano conseguenze impreviste, quando non vengono semplicemente obliterate. Ma anche perché Trump è dopo Eisenhower il primo non politico alla Casa Bianca. Il processo di trasformazione del dilettante in professionista ha i suoi tempi.
A uno scrutinio superficiale, i detti memorabili scanditi dal candidato Trump nel suo tour elettorale sono al meglio tasselli incoerenti assemblabili a piacere per ritrarre vuoi il feroce isolazionista, eversore delle storiche alleanze, con un penchant per l’erezione di barriere daziarie e muri fisici forse derivante dalla pregressa attività edilizia, vuoi il pragmatico moderato intento a ricostruire le decrepite infrastrutture nazionali senza trascurare di gettare ponti verso amici ed ex nemici in nome degli interessi comuni. Non possiamo escludere che Trump incarni a minuti alterni entrambi i personaggi. Acrobazie astute in campagna elettorale, devastanti quando si occupa un posto di tanta responsabilità. La forza delle cose, e la sua personale intelligenza, dovrebbero spingerlo verso la seconda opzione. Non fosse perché più facile. E più attinente a quella del suo predecessore. In attesa della verifica, qualche idea sulla visione del mondo del futuro presidente Trump, basata sui suoi rari interventi di taglio geopolitico e su alcune delle sue prime nomine, possiamo comunque fermarla. In cinque punti. A) Gli Stati Uniti sono sovraesposti nel mondo e sottoperformanti in casa. Urge accorciare i fronti esterni, appaltandone se necessario la gestione ad amici, alleati e soci occasionali. Talvolta persino a nemici con cui si intende percorrere un tratto di strada insieme, per mera convenienza. Le alleanze non saranno sciolte, a cominciare dalla Nato, ma ridotte per rango, costi e rilievo – di fatto mutandole in somma algebrica di asimmetriche intese bilaterali – accollando più responsabilità e spese agli europei, specialisti del viaggio a sbafo, ed evitando di restare impigliati nelle loro follie geopolitiche. In parole povere, mai più un’altra Ucraina. Insieme, occorre riunire e rinsanguare una nazione lacerata e polarizzata. Perché «la politica estera comincia a casa», come da titolo del pamphlet di Richard N. Haass, stratega assai stimato da Trump, presidente del Council on Foreign Relations, ascrivibile alla tradizione realista minoritaria nell’establishment americano [9]. Come fai a governare il mondo se non sai rigovernare il tuo appartamento?
B) La minaccia principale alla sicurezza degli Stati Uniti non viene dalla Cina né dalla Russia, ma dal terrorismo jihadista. Nemico ostinato e fanatico, per molti versi indecifrabile, afferente a una galassia che i radar dell’intelligence stentano a inquadrare. Mostro senza volto, o dai troppi volti, deciso a dotarsi di armi di distruzione di massa che infliggerebbero danni incalcolabili all’America e al mondo. Contro il quale occorre costruire la più vasta coalizione possibile. «Tiranni amici» inclusi, come suggerisce il prossimo consigliere per la Sicurezza nazionale, generale Michael Flynn, in un libello scritto a quattro mani con uno tra i più scatenati veterani neocon, l’ex (?) spia Michael Ledeen [10]. L’apertura di Trump alla Russia, subito raccolta da Putin, è primariamente mossa dall’emergenza securitaria. Come insegnava Deng Xiaoping, non importa se un gatto è bianco o nero, basta che acchiappi i topi. C) Dobbiamo farci rispettare dai nostri avversari, che non ci prendono più sul serio. Le svagatezze di Obama, culminate nel dietrofront sui bombardamenti contro al-Asad, sono altrettanto pericolose delle guerre umanitarie care a Hillary e ai neocon. In Medio Oriente «dobbiamo sconfiggere i terroristi e promuovere la stabilità regionale, non il cambiamento radicale». In chiaro: meglio al-Sisi e al-Asad dei Fratelli musulmani e delle primavere arabe.
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D) Quanto alla Cina, anch’essa associabile all’intesa anti-jihadista, non è nemico naturale dell’America. Trump vuole ridurre il debito con Pechino senza scatenare una guerra commerciale, distruttiva per entrambi. Il punto di ripartenza è l’affondamento del Trans-Pacific Partnership, sorta di traslazione asiatica della Nato sotto mentite spoglie geoeconomiche, creatura assai cara a Obama e con lui dipartente. In assenza della quale Trump sembra scommettere sul blando contenimento della Cina in associazione con amici e alleati asiatici – Giappone e Corea del Sud su tutti – che peraltro perseguono agende proprie, condizionate dall’intreccio economico-commerciale con il pur temuto grande vicino (carta a colori 4). E) Duro approccio al Messico, in tre passi: deportazione di almeno due milioni di immigrati clandestini bollati «criminali»; completamento del muro di separazione al confine (surrogabile per alcuni tratti con più economico filo spinato); revisione se non annullamento del Nafta per proteggere gli interessi dell’industria e dei lavoratori americani. Il primo passo è credibile (sotto Obama sono già stati espulsi due milioni e mezzo di illegali, quasi tutti ispanici, carta 4); il secondo è teatro, a contenuto costo edilizio ma caro prezzo d’immagine; il terzo pare irrealistico, anche nella sua versione moderata, a meno di una conversione del Congresso (carta a colori 5).
Il lettore noterà che manca un punto sull’Europa. Per quanto abbiamo scavato, non siamo riusciti a trovare formulazioni di Trump riferite all’Unione Europea, nemmeno citata nell’unico discorso interamente dedicato dal candidato alla politica estera [11]. Noi europei interessiamo al massimo come furbetti della Nato. Nulla di più estraneo a Trump dei riti europeisti – ciò che contribuisce a spiegare gli acidi commenti del presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, all’annuncio del trionfo del magnate newyorkese [12].
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5. Trump si prospetta retrenchment president, orientato a ridurre esposizione, spesa e rischio geopolitico. Nella tradizione di Eisenhower o di Nixon, a suo modo dello stesso Obama: la politica estera ancella delle priorità domestiche, lo strumento militare risorsa di ultimissima istanza. Almeno finché un’emergenza non dovesse rovesciare l’ordine dei fattori, come accadde l’11 settembre. Le differenze con i più o meno augusti predecessori stanno nel grado di intrinseca disfunzionalità dell’impero americano e nell’entropia del sistema internazionale. Con quale mondo si confronta l’America di Trump? Quali esiti produrrà il riduzionismo trumpiano quando confrontato con le tempeste geopolitiche in atto o in formazione? È di moda discettare di mondo multipolare. Da quanto fin qui argomentato emerge semmai una nebulosa apolare, con America primum inter impares, Cina problematico sfidante, Russia affannato guastatore, Germania e Giappone azzoppati dal passato, tuttora al di qua della linea d’ombra. Il resto è caos o velleità.
Nell’ultimo quindicennio il Numero Uno ha provato dapprima l’approccio rivoluzionario dipinto da «guerra al terrorismo», fallendo. Poi il prudente disimpegno, firmato Obama, con esiti discutibili. Trovare l’equilibrio fra obiettiva ingovernabilità del pianeta e soggettiva salvaguardia del regime imperiale è equazione di grado superiore, più che cubico. Dilemma senza soluzione. Al quale va dedicata costante, paziente, persino umiliante manutenzione. Su questo Obama e il Trump che abbiamo dedotto dalle poche tracce del suo pensiero strategico e dalle più strutturate vocazioni degli apparati adibiti a fissare la rotta della corazzata a stelle e strisce tendono a concordare. Ma il riduzionismo sotto Trump potrebbe seguire precetti diversi da quelli obamiani. Almeno in partenza, nelle intenzioni finora visibili del prossimo comandante in capo. Sempre che in sala macchine non alterino troppo gli ordini impartiti dalla plancia. E ricordando che gli aggiustamenti strategici non corrispondono ai mandati presidenziali, ma alle variabili inclinazioni nel corpo della società e delle istituzioni americane – Congresso su tutte (carta a colori 6) – interpretate dall’élite dedita alla geopolitica nazionale.
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Così Obama non ha fatto che seguire e sviluppare il predecessore nella sua ultima postura, assunta a cavallo fra 2006 e 2007 con la presa d’atto dell’insabbiamento in Iraq, la pubblicazione del «nuovo approccio» all’avventura mesopotamica suggerito dalla commissione bipartitica istituita dal Congresso e presieduta da due pesi massimi avversi ai neocon (James Baker III e Lee Hamilton) [13], le dimissioni di Donald Rumsfeld da ministro della Difesa e il ridimensionamento della «guerra globale al terrore». Obama è ripartito di qui. Prima esplorando una strategia semirivoluzionaria, che avrebbe rovesciato l’utopia neocon sostituendola con la propria: chiusura di Guantánamo, ramo d’olivo all’Iran, appello ai musulmani motivato financo dalla presunta affinità di valori, apertura alle primavere arabe e fiducia nei Fratelli musulmani quali possibili gestori dell’Egitto. Poi ripiegando su una tattica bellica conservativa, cominciando dal non nominare la «guerra al terrore» e dal decurtare gli stivali sul terreno iracheno, salvo ricorrere alle uccisioni mirate (Osama bin Laden), alle operazioni coperte e ai droni. Obiettivo strategico: ridurre al minimo l’esposizione in Medio Oriente. Spazio da affidare all’equilibrio competitivo fra le quattro potenze regionali – Israele, Turchia, Iran e Arabia Saudita – per riconcentrarsi sul quadrante asiatico-pacifico. Qui mirando a contenere la Cina in cooperazione con gli attori regionali mobilitabili a tal fine, quali India, Vietnam, Corea del Sud, Giappone, Australia. Accordo con l’Iran a parte – in attesa di verificare se Congresso e amministrazione Trump finiranno per sabotarlo – il bilancio non è strabiliante.
Fatto è che Obama, fiutando la temperatura del suo elettorato, gli umori nell’establishment politico-economico e negli apparati di sicurezza, ha puntato sull’equilibrio della potenza in scala regionale quale premessa del mantenimento della leadership imperiale al grado globale. Ovvero sul concetto per cui in carenza di egemone un’accettabile (in)stabilità è assicurata dalla competizione/cooperazione fra attori grosso modo equipollenti. Schema applicato al Medio Oriente ormai intrattabile, dal quale estrarre risorse reimpiegabili nello strategico teatro asiatico-pacifico. Analogamente a quanto sperimentato con l’Europa ai tempi di Clinton, quando vinta la guerra fredda Washington stabilì che il Vecchio Continente era «fixed», la Germania sazia e introvertita, la Russia quantità trascurabile – dunque maltrattabile (carta a colori 7).
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Risultato: il caos mediorientale è in aumento, gli americani sono costretti a rischierare in Iraq soldati e contractors, mentre i flussi di profughi in fuga dalla Siria, insieme alle masse di migranti provenienti dall’Africa, stanno contribuendo a destabilizzare l’Europa in via di rinazionalizzazione e nuovamente alle prese con l’irrisolta questione russa. Quanto al pivot to Asia, è intenzione più che strategia, peraltro intaccata dalla prematura dipartita del Tpp. Il balance of power regionale non funziona. Per di più, in Medio Oriente tutte le presunte potenze deputate a surrogare il ripiegamento americano sono intrinsecamente revisioniste. E due di esse si percepiscono sotto minaccia permanente (Israele) o contingente (Arabia Saudita) di sparire dalla carta geopolitica. Se di equilibrio si tratterà, sarà dell’impotenza. Provare a sigillare il caos mediorientale dopo lo scoppio dell’emergenza migratoria in Europa e l’intervento russo in Siria è spreco di tempo. Quanto all’Asia-Pacifico, nessuna delle potenze regionali – più consistenti del quartetto mediorientale – è disposta a rinunciare all’ombrello a stelle e strisce (Giappone, Corea del Sud, Australia) o comunque alla relazione con l’America; ma nessuna, a cominciare dagli alleati formali degli Usa, è perciò pronta a recidere il cordone economico con la Cina e con le sue diaspore regionali.
Nel ripartire da qui, accentuando l’obamiana vocazione al retrenchment, Trump ha di fronte un rischio domestico e un’opportunità esterna. Sul piano interno, dovrà comporre non solo le divergenze fra le agenzie delegate alla politica estera, fra le diverse anime del Congresso e del suo stesso elettorato, ma anche le frizioni nella sua amministrazione, dove si affronteranno neocon impenitenti, ultranazionalisti islamofobi e destra tradizionale. Producendo dissonanze che potrebbero sabotare ogni intesa anti-jihadista con Putin oppure riaprire la partita con l’Iran. L’opportunità esterna consiste invece nell’elevare il riequilibrio della potenza alla scala semiglobale, coinvolgendo la Russia.
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6. Obama lascia in eredità a Trump un doppio contenimento rivolto contro Mosca e Pechino, con il risultato di spingere l’una nelle braccia dell’altra. A questa strana coppia potrebbe agganciarsi Berlino, trasformando un progetto apparentemente infrastrutturale – le nuove vie della seta inventate dalla Cina – in allineamento geopolitico (carta a colori 8). Il peggiore dei mondi possibili, visto da Washington. Prefigurazione di quella superpotenza eurasiatica alla cui prevenzione si è sempre dedicata l’America. Per che cosa altrimenti ha vinto due guerre mondiali e la guerra fredda? Con l’obiettivo – o il pretesto, a pensar male – del comune nemico jihadista, Trump potrebbe sganciare la Russia dal non spontaneo abbraccio con la Cina prodotto dalla guerra ucraina, utilizzarne le risorse sul terreno mesopotamico contro Stato Islamico e qaidismi vari, emanciparsi dalla catastrofica prospettiva di dover testare l’unità della Nato in un conflitto con Mosca che alcuni soci baltici dell’Alleanza – e diverse teste calde russe – considerano auspicabile. Di più: avvicinandosi alla Russia Trump ripercorrerebbe a ritroso il sentiero aperto da Nixon nel 1972 agganciando Mao, stavolta usando Mosca contro Pechino. Per completare da nord-ovest il cordone sanitario anticinese che Obama ha abbozzato a sud-est.
Con tale mossa Washington svelerebbe la natura strumentale dell’intesa russo-cinese. L’obiettivo strategico di Putin non è di prendersi l’Ucraina o la Siria né tantomeno di ridursi a utile idiota di Xi Jinping. Il presidente russo vuole essere trattato dagli Stati Uniti non più da potenza regionale ma quale partner paritario. Per la forma, s’intende. E la forma conta molto in (geo)politica, moltissimo in Russia. Quanto alla Cina di Xi Jinping, non è stata colta da improvviso amore per lo storico rivale moscovita. Intende invece agitare lo spettro del patto russo-cinese per premere sugli Stati Uniti, dai quali pretende di partecipare alla riscrittura dei nuovi standard geoeconomici deputati a regolare i rapporti di forza nel dopo-Bretton Woods. Preparandosi intanto allo scontro frontale, da rinviare possibilmente alla seconda metà del secolo, quando l’Impero del Centro dovrebbe detenere le capacità militari congrue a tanta collisione – sempre che non imploda prima (carta 5). Da parte americana, una volta sottratta la Russia all’abbraccio cinese il rebus asiatico sarebbe di meno ardua gestione, premesso che le minacce elettorali di Trump agli alleati, accusati di servirsi gratis al banchetto della sicurezza offerto dagli Stati Uniti, dovrebbero restare tali. A meno di volersi autoespellere dalla regione. L’equilibrio della potenza comporta l’implicita ammissione della rinuncia alla piena modalità imperiale. Il balance of power è storicamente antitetico alla cultura americana. È maschera consolatoria che non scioglie la contraddizione fra impero e ritrazione da responsabilità e costi ad esso inerenti. «Gli imperi non hanno bisogno di un equilibrio della potenza», spiega Kissinger: rifiutano il sistema internazionale perché «aspirano ad esserlo» [14]. La religione dell’America esclude la condivisione del primato. Ma questa non è stagione da purismo idealista. L’istinto di conservazione impone a Washington di conformarsi alla realtà piuttosto che sognare di trasformarla. Fra l’altro, è il mandato che gli elettori hanno conferito a Trump. Se gestito con intelligenza questo approccio neorealista permetterebbe agli Stati Uniti di addolcire, dilazionare, forse provvisoriamente sovvertire il declino. Certo è modalità operativa che prevede coerenza di approccio fra Congresso, burocrazie, presidente e amministrazione. Improbabile. Ma all’orizzonte non si profilano alternative tali da garantire che la decadenza dell’impero americano non assuma cadenze vorticose né traligni verso scenari bellici cui noi europei difficilmente potremmo sottrarci.
7. «Lasciami diventare l’ombra della tua ombra». Per settant’anni gli europei hanno preso alla lettera questo verso di «Non lasciarmi» («Ne me quitte pas»), lancinante poema musicale del cantautore belga Jacques Brel. Espressione della sindrome da abbandono, la più antica e struggente delle psicopatologie. Pur di non perdere l’oggetto d’amore, ci si può umiliare. È quel doloroso sentimento che sette anni fa Jeremy Shapiro e Nick Witney, analisti dell’European Council on Foreign Relations, diagnosticarono fra le élite europee traumatizzate da George W. Bush [15]. Tanto sofferenti per l’indifferenza esibita da Mamma America nei confronti di un continente non più centrale nelle sue matrici strategiche da battezzare «europeo» il meno europeo degli inquilini della Casa Bianca, Barack Obama. Ora che sulla poltrona dell’ex presidente nato alle Hawaii da padre keniota e cresciuto in Indonesia sta per accomodarsi il nipote di un immigrato illegale del Palatinato bavarese, figlio di madre scozzese, l’angoscia da abbandono traligna in rabbia. In prospettiva geopolitica, a soffrire sono soprattutto polacchi e baltici, ovvero quella «Nuova Europa» che ha scommesso sull’America vestita da Nato come assicurazione sulla vita contro l’Orso russo e che in Trump scopre con orrore un ammiratore di Putin. Nello spettro politico, la furente depressione investe quel che resta della sinistra veterocontinentale, ma anche centro e destra moderata. Valga per tutti il velenoso telegramma di congratulazioni di Angela Merkel al neoeletto [16]. La cancelliera vi lancia due messaggi in codice. Primo, per Berlino l’Ue viene prima della Nato (traduzione di: «I legami della Germania con gli Stati Uniti d’America sono più profondi di quelli con qualsiasi altro paese al di fuori dell’Unione Europea»). Secondo, se Trump rinnega i nostri valori la cooperazione transatlantica entrerà in crisi o sarà interrotta (tratto da: «Germania e America sono legate da valori comuni – democrazia, libertà, come pure rispetto dello Stato di diritto e della dignità di ogni e ciascuna persona, indipendentemente dalla sua origine, colore della pelle, credo, genere, orientamento sessuale e idee politiche. È sulla base di questi valori che offro una stretta cooperazione»). Il leader informale dell’informe Unione Europea snocciola la tassonomia neoilluminista per dettare al presidente americano le condizioni di una collaborazione che si annuncia scabrosa.

Se l’Europa esistesse, potremmo interpretare il monito di Merkel come tardiva assunzione di responsabilità di una comunità che ha continuato a ritenersi dipendente dal protettore americano anche quando questo aveva ostentato di coltivare altre priorità, altri interessi e altri valori. Nell’attuale mischia intracomunitaria, la sottile provocazione della cancelliera può solo ricordarci che due introversioni – l’europea e l’americana – non fanno un dialogo. Mentre possono ben contribuire alla cacofonia del disordine mondiale.


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Note

1. G.E. FULLER, «President Trump», grahamefuller.com/president-trump

2. A. FLOOD, «“Post-Truth” Named Word of the Year by Oxford Dictionaries», The Guardian, 15/11/2016.
3. Intervista di F. RAMPINI a F. FUKUYAMA, «Francis Fukuyama sceglie Hillary: “Con Donald rischio autoritario ma i ceti bassi si sono fatti sentire”», la Repubblica, 3/11/2016.
4. Dalla poesia «La soluzione» («Die Lösung»), in B. BRECHT, Buckower Elegien, Ausgewählte Werke in sechs Bänden. Dritter Band: Gedichte 1, Frankfurt am Main 1997, Suhrkamp, p. 404.
5. Cfr. M. WOLF, «The Tide of Globalisation Is Turning», Financial Times, 6/9/2016. Vedi anche G.C. HUFBAUER, E. JUNG, «Why Has Trade Stopped Growing? Not Much Liberalisation and Lots of Micro-Protection», Peterson Institute for International Economics, 23/3/2016.
6. J.E. STIGLITZ, «Unequal Societies: The Global Economic and Geopolitical Situation» (slide n. 13), Quebec City, ottobre 2016, bit.ly/2fUTg68
7. Cfr. Limes, «L’impero senza impero», n. 2/2004. 8. Cfr. l’editoriale «L’impero senza imperatore», Limes, «U.S. Confidential», n. 4/2015, pp. 7-25.
9. Cfr. R.N. HAASS, Foreign Policy Begins at Home. The Case for Putting America’s House in Order, New York 2014, Basic Books. 10. Cfr. «Transcript: Donald Trump’s Foreign Policy Speech», The New York Times, 27/4/2016.
11. Cfr. M.T. FLYNN, M. LEDEEN, The Field of Fight. How We Can Win the Global War against Radical Islam and Its Allies, New York City 2016, St. Martin’s Press. 12. «Penso che rischiamo di perdere due anni aspettando che Donald Trump termini di fare il giro del mondo che non conosce». Così Jean-Claude Juncker citato da repubblica.it l’11/11/2016.
13. Cfr. The Iraq Study Group Report. The Way Forward – A New Approach, a cura di J.A. BAKER III e L.H. HAMILTON, New York 2006, Random House.
14. H. KISSINGER, Diplomacy, New York-London-Toronto-Sydney-Tokyo-Singapore 1994, Simon & Schuster, p. 21.
15. Cfr. J. SHAPIRO, N. WITNEY, «Towards a Post-American Europe: A Power Audit of EU-US Relations», European Council on Foreign Relations, London 2009, Ecfr. 16. Cfr. A. FAIOLA, «Angela Merkel Congratulates Donald Trump – Kind of», The Washington Post, 9/11/2016.