Luca Bevilacqua – Quindici infatuazioni letterarie

La critica letteraria dovrebbe scaturire da un debito d’amore.
George Steiner, Tolstoj o Dostoevskij.

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, la Premessa di Luca Bevilacqua alla sua nuova raccolta di testi critici, Quindici infatuazioni letterarie, edita da Marsilio.

Cosa possiamo dire dei nostri gusti letterari? Come giustificare le scelte, i rifiuti, le predilezioni ostinate per un autore? A chi dovremmo poi renderne conto, e a quale scopo?

Quand’ero ancora un giovane assistente ricordo una ragazza francese che studiava con l’Erasmus a Roma. Bussò alla porta dello studio del professor Guaraldo, entrò e chiese con fermezza, fra lo stupore dei pochi presenti, che le fosse assegnato un programma di esame che non fosse Baudelaire. Quell’anno il corso verteva per l’appunto sui Fiori del male. Il professore la invitò con poche parole a lasciare la stanza, sottolineando che evidentemente non sapeva di cosa né con chi stesse parlando. Sorpreso, anche per la reazione in fondo misurata del mio maestro, ipotizzai subito che ai tempi della scuola superiore qualche insegnante era riuscito

nell’impresa di farle detestare «il più grande esempio di poesia moderna in ogni lingua» (T.S. Eliot). D’altra parte io stesso, condizionato dal professore, avevo preso a biasimare rapidamente, durante la formazione universitaria, alcuni nomi celebri della letteratura francese: Zola, Gide, i surrealisti ortodossi (Aragon, Éluard) e Prévert. Parallelamente cominciai a leggere con maggiore avidità, e quindi ad amare, ciò che lui mi insegnava si doveva amare, anche al di là dei francesi: Manzoni, Tolstoj, Henry James, Nabokov, Gadda…

Per diversi anni, all’epoca della tesi di laurea e poi del dottorato, mi sono dedicato quasi esclusivamente a Mallarmé. E più tardi, come per un movimento naturale, ai poeti francesi del Novecento. Baudelaire rimaneva ai miei occhi come un centro irradiante, su cui puntare lo sguardo a intervalli regolari, e che ancora oggi mi attrae vertiginosamente, suscitando una sconfinata ammirazione mista a paura.

Come spiegare tali scelte, che in molti casi hanno origine da vere ossessioni (sorte da incontri rapidissimi: un libro, una singola poesia, addirittura un solo verso) o, al contrario, le innescano alimentandole per lunghi anni?

Ancora il problema del gusto. Che poi è questione talmente sottile e sfuggente, e incontestabilmente personale, da costringermi alla più semplice delle esplicitazioni: voglio studiare, cioè guardare più a lungo e in profondità, le cose che mobilitano immediatamente non solo le emozioni e il pensiero, ma la mia stessa parola.

Provo desiderio, insomma, non certo di possedere il testo, ma di rispondergli. Una sorta di lettera di replica, questo può essere, o quantomeno è nel mio caso, la critica. Lettera sporadica o corrispondenza pluriennale, ma comunque rigonfia d’una meraviglia che pure occorre dissimulare, trasformandola pagina dopo pagina in ciò che parrebbe il suo opposto: una sorta di rigore e oggettività nell’individuare questioni filologiche, forme o immagini ricorrenti (spesso avvolte in un tenace mistero), litigi fra l’io creatore e le sue produzioni, traiettorie poetiche che, considerate con geometrica lucidità, e fuori d’ogni semplificazione manualistica, rivelano sconcertanti derive di incoerenza: contraddizioni interne, montagne di problemi irrisolti. Problemi che in molti casi appartengono a un solo libro.

La discontinuità (dentro una stessa opera o nelle relazioni di influenza d’un autore verso l’altro), ma anche l’intensità di certi grovigli che permangono appena al di sotto della scorza smagliante di un particolare stile, i corsi d’acqua invisibili rappresentati dall’ironia, sono fra le cose che maggiormente accendono il mio desiderio. E in quanto lettore, coinvolto da quella tracimante vitalità del testo, non posso non interrogarmi sulla mia stessa posizione: in che misura lo scrittore mi ha cercato, mi ha selezionato, mi ha istruito o depistato? Sulla base di quali affinità? E come posso rispondergli, onorando il patto di quel desiderio reciproco, pur sapendo che lui, lo scrittore, salvo rarissime eccezioni, non mi leggerà mai?

Se gli scrittori sono seduttori che ti lasciano lì, come una Emma Bovary qualunque, nella tortura di un impossibile appagamento sentimentale, mentre il desiderio resta e si nutre di sé stesso, i critici somigliano invece alla monaca portoghese. Scrivono le loro missive, parlando con trasporto – spesso ben occultato – ad altri lettori che, con loro, condividono le medesime forme di devozione, fedeltà e obbedienza alla parola scritta. «Spinti da un qualche primario istinto di comunicazione, cerchiamo di

trasmettere agli altri la qualità e la forza della nostra esperienza», annota George Steiner nella medesima pagina citata qui in epigrafe.

Pensando a quegli episodi di lettura che modificano il corso della nostra esistenza (di studiosi o semplici lettori) creando i presupposti d’un vero incontro, con tutte le conseguenze e i sentimenti complessi a esso collegati, mi torna in mente una perlustrazione clandestina nella libreria di un’amica che mi aveva lasciato per qualche settimana il suo appartamento parigino. Trovai lì L’Espace du dedans di Henri Michaux. E rimasi folgorato da questi versi che parlavano di una chiamata, rivolta con ogni evidenza – almeno così mi sembrò – nei miei confronti:

Che cos’è che faccio?

Chiamo.

Chiamo.

Chiamo.

Non so chi chiamo.

Colui che chiamo non lo sa.

Chiamo qualcuno di debole,

qualcuno di spezzato,

qualcuno che è fiero perché niente ha potuto spezzarlo.

Chiamo.

Chiamo qualcuno di laggiù,

qualcuno perso nella lontananza,

qualcuno di un altro mondo.

Più che la forza della prima impressione (a volte le infatuazioni sono capricciose, fugaci), mi colpisce retrospettivamente la fermezza e la fedeltà che avrebbero fatto seguito, negli anni successivi, a quell’incontro fulmineo. Una scelta si era compiuta, senza che io potessi decidere nulla. All’interno dei miei studi Michaux avrebbe preso il posto di Mallarmé. Beninteso: accanto a Mallarmé.

Forse esistono degli elementi, delle microparticelle che collegano fra loro tutti gli scrittori che ci ammaliano per qualche tempo o ci conquistano definitivamente. Ma siamo qui nel cuore di una delle zone più oscure, e perciò difficili da chiarire, della nostra vita di lettori. Quel che è certo, è che in questo campo le nostre scelte, o non-scelte, la dicono lunga su di noi e su chi siamo davvero.

Scrivere recensioni, come ho fatto e continuo a fare per «L’Indice dei libri del mese», mi ha permesso di tornare su alcune (poche per la verità) opere che già conoscevo. E di conoscerne per contro molte altre. Soprattutto romanzi della contemporaneità. Finalmente, così mi è sembrato, il libertino sono diventato io. E, come il Don Giovanni di Molière, rivendico l’autenticità di tutti i miei amori e il mio slancio ogni volta rinnovato. La «fascinazione», come nota Maurice Blanchot ne Lo spazio letterario, non è solo un contatto nella distanza. Ma è anzitutto «passione dell’immagine».

Il che comporta – aggiungo – il formarsi di una certa immagine, intima e personale, di uno stile, di una postura enunciativa, o anche dell’atmosfera peculiare che emana da un libro. La libertà dei moventi e degli esiti della fascinazione è legata direttamente alla nostra unicità di lettori, perché «la fascinazione è lo sguardo della solitudine» (ancora Blanchot).

Esiste un punto in cui la fascinazione, per sua natura occasionale e istintiva, diventa infatuazione? Esiste un processo di conferma e consolidamento? E in che modo tale processo si lega a una valutazione razionale? Come determinare poi l’eventuale passaggio successivo, ovvero l’amore incondizionato e durevole? In un movimento circolare ed enigmatico, l’amore, anche quello letterario, è lo stato in cui si sperimenta un perdurare, o un risorgere, dello stato originario della fascinazione. Essa evidentemente può  mutare e come aggiornarsi lungo il tempo, fissandosi su altre immagini scaturite dal medesimo oggetto, senza smettere mai di esistere ed esercitare il suo potere. E infine un’ultima domanda, forse persino più urgente delle precedenti. Perché questa ineluttabilità – nel descrivere esperienze che ogni lettore ha vissuto – del vocabolario amoroso?