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Costume e Società

Così “se le cantavano” le comari

Ho visto uomini camminare sui carboni ardenti e ho de­ dotto che anche la più strava­gante delle cose può far parte di un’elaborata cultura popolare.
C’è un punto di inizio e un punto di arrivo nella quasi totalità delle scienze popolari. Un punto che talvolta affonda le ra­dici nei trascorsi più remoti. Nel caso che andremo ad affrontare si tratta di un’usanza delle nostre donne; per essere maggiormente precisi delle nostre nonne e, quindi, ob­soleta.
Mi riferisco a qualcosa in uso dalle nostre parti fino a mezzo secolo fa, una condizione che porta a riflettere. Perché se è vero (come del resto ogni buon cittadino sa) che dai nostri an­tenati greci abbiamo ereditato la tragedia, è altresì vero che abbiamo ereditato la satira. Bisogna però ca­pire a che tipo di satira ci stiamo ri­ferendo.
Quanti di noi hanno cercato di dare un senso compiuto all’espressione – an­cora in uso nelle nostre comunità, seppure metaforicamente – “si li cantavi!” (“gliele ho cantate!”)? Forse ognuno di noi. Forse nessuno. lo di sicuro. Almeno quand’ero bambino. Ma quale metodo, quale storia, quale criterio e cosa racchiude in sé quel “si li cantavi”?
Ebbene la maggior parte delle nostre nonne, che fossero contadine, massaie, casalinghe o quant’altro, erano, ai loro tempi, delle vere e pro­prie poetesse. Rimatrici perfette.
O, piuttosto, perfette ricamatrici di versi e recitazioni che, tra una botta e una risposta, improvvisando, usavano quotidianamente nelle ri­valità.
Occorre però capire perché avveniva questo e, soprattutto, in che modo o per quale scopo.
Ricordo che quand’ero bambino ebbi modo di assistere a una canzoncella tra due vicine di casa. Ne rimasi sbigottito, senza concezione temporale, senza discerni­mento. Non riuscii a capire cosa stesse succedendo, non potei dare un senso all’avvenimento e non riuscii a penetrare in quel tipo di scenario che, a prima vista, pareva emergere dal periodo giurassico.
Naturalmente pensai si trattasse di un’esibizione teatrale, musicale forse, tra due vicine comari.
Devo aver infatti creduto che fos­sero prove o anteprime di un’eventuale farsa popolare.
Fu mia nonna, con tutta la semplicità deI mondo, a togliermi il dubbio: «Cummari Lucia si li staci cantandu a cummari Teresa» mi disse.
Per quanto impossibile mi potesse al­l’epoca apparire, si trattava di una vera e propria canzoncella, con tanto di rima e melodia, mancante solo di musica. Diciamolo pure: era quello il modo più diretto, più tagliente, che le massaie di allora avevano di cantarsele a vicenda, ovvero di svergognarsi, di smascherarsi.
Quella canzone faceva pressapoco cosi:

E non ti torciri comu a morti,
ca ammia non mi piacinu
i cosi storti.
Lu vinu chì ti mbivisti l’altra notti,
venia drittu drittu da me gutti.
Dincillu a to maritu, facci i pala, ca
i nu modu o I’attu ndavi mu paga.

Quale che fu la risposta – che ovviamente arrivò il giorno dopo, il tempo, cioè, per comare Teresa di confezionarla con le dovute rime e tutto il resto – non ebbi mai modo di sa­perlo. Mi rimase però impresso il motivetto di comare Lucia, che era stato, appunto – e mi scuso di essere ripetitivo – una vera e propria canzone, pungente e sarcastica, con tanto di rime e melodia.
La stessa con la quale accusava il marito di comareTeresa di averle rubato il vino.
Quest’aspetto tanto curioso quanto difficile da comprendere, per certi versi ci insegna che, in realtà, laddove si apriva o prendeva spazio iI mondo femminile (e cioè tra le mura domestiche, i borghi, le rughe e i vi­coli), albergava tanto folclore quanta ponderazione. È vero – come più volte detto – che si trattava del modo migliore, del più efficace forse, di risolvere le questioni.
Si trattava di un metodo tanto civile quanto delicato, tanto mansueto quanto oltraggioso.
Non possiamo certo dire che fosse un modello di riservatezza. Era comunque una regola che metteva in mostra un certo buonsenso, e veniva espressa­mente adottata per realtà quali quella raccontata.
Ovviamente, una volta declamata la canzone di risposta, si risolvevano le questioni (di qualsivoglia natura esse fossero) nel modo più confacente. Si era trattato di nulla più che di un brusco temporale: un giorno ombroso nell’empireo delle vite dei protagonisti o, meglio, un minuscolo buffo intervallo nella difficile realtà di allora.
Tali scaramucce, che oltre ad aver coinvolto parte della popolazione, avevano regalato un momento di satira cittadina, nella quasi totalità dei casi si risolvevano a tarallucci e vino.
Poi si riprendeva con la normale vita di sempre.

Foto: pinterest.it


Edil Merici

Francesco Marrapodi

Francesco Marrapodi approda a Métis dopo aver ricoperto importanti ruoli in altre testate giornalistiche. 
È stato Redattore Capo per la provincia di Reggio Calabria de “L’Attualità”, collaborato con “Calabria Letteraria” e con “Alganews”, nonché con la testata giornalistica “In Aspromonte”. 
Ha studiato tecniche e metodi di scrittura del “Gotham Writers' Workshop”, è stato inserito nell’antologia “Ho conosciuto Gerico” in onore di Alda Merini con la poesia “La Nova” e fa parte dell’“Unione Poeti dialettali di Calabria”.
L’8 agosto del 2014 ha realizzato sulla spiaggia di Bianco una statua di sabbia raffigurante Papa Francesco, evento recensito da “Famiglia Cristiana” per il quale ha ricevuto il ringraziamento e la benedizione del Papa in persona. 
Si è reso inoltre promotore di una campagna contro l’inquinamento marino con “La morte di Poseidone”, statua di sabbia che ha suscitato grande interesse in tutto il mondo. 
Francesco è oggi un punto di riferimento redazionale su Bianco e dintorni, con un ruolo di primo piano nella Redazione Cultura.

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