“Due vite”. Intervista a Emanuele Trevi

di Claudio Marrucci

Per me, che ho vissuto molto all’estero, la letteratura italiana ha tutta un sapore di novità e di riscoperta. Quello che personalmente mi affascina della scrittura di Emanuele Trevi è il potere evocativo della sua parola. In Trevi, è come se la scrittura fosse una prosa in poesia, non una prosa poetica e neppure un poema in prosa. Leggendo le parole di Trevi ho ascoltato una musica klezmer, con assoli di clarinetto, ritrovando il suono di un’oralità familiare intima e dai grandi riferimenti artistici e culturali. Una musica che ho percepito anche nel suo eloquio, durante la presentazione del suo ultimo libro Due Vite (per Neri Pozza Editore) al MAXXII di Roma. A causa delle severe misure anti-covid, gli ingressi erano contingentati, e molti lettori non sono riusciti a entrare, assiepandosi, paradossalmente, all’entrata del museo. La voce di Trevi, suadente e informale, sembrava quella che si ascolta nei video dei grandi maestri italiani del secolo scorso da Quasimodo a Moravia da Pasolini a Sciascia. Terminata la presentazione, l’ho avvicinato e gli ho proposto questa intervista.

-Per Emanuele Trevi cos’è il tempo?

Il tempo è ciò che ti porta via le cose che ami, anche se credo che esista uno spazio-tempo ulteriore dove le cose continuano a esistere e accadere anche se sono materialmente svanite. Come nella favola di Winnie the Pooh: c’è un punto del bosco dove il bambino e l’orsacchiotto continuano per sempre a giocare. La condizione e il destino dell’essere umano sono caratterizzati proprio dalla paura e il dolore di perdere ciò che si ama. Ma c’è anche un ulteriore livello di realtà dove le cose continuano a esistere.

-Il romanzo Due Vite è l’evocazione di due esistenze, due scrittori, Rocco Carbone e Pia Pera. Cosa aggiunge la parola a ciò che l’immagine non dice?

Più che di parola, parlerei di scrittura. Il meccanismo della scrittura porta in alcuni casi a una vera dilatazione dei confini dell’io individuale empirico: attraverso la scrittura noi creiamo altri dati memoriali rispetto a quelli di partenza, la scrittura crea il senso di ciò che ricordiamo, rende vivide le cose; è una sorta di esperienza allucinogena, simile all’effetto di quelle sostanze psicotrope che allargano i confini della coscienza. Tocchi quello che sapevi ma non sapevi di sapere e questo ha a che fare con l’evocazione, il dialogo con le ombre. Scrivendo di Pia e di Rocco, i protagonisti di Due vite, ho sentito realmente, concretamente la loro presenza. Molto più che se penso a loro o li sogno, perché sono semplici proiezioni del mio Io, mentre scriverne è assolutamente diverso. Per questo motivo in Due vite dico che l’unica arte simile a questo genere letterario è la seduta spiritica. Mi domando, quando scrivo di persone reali, come in questo e anche nei miei libri precedenti, se ciò che scrivo potrebbe avere il loro assenso. Anche perché a me non interessano solo i pregi delle persone che amo, semmai sono le imperfezioni che mi attraggono. Non mi interessano le persone realizzate, non vedo nessuna utilità nel realizzarsi, mi piace chi si arrabbatta, annaspa, dimentica la strada di casa.

-Ci parli del tuo rapporto da scrittore con lo spirituale e l’occultismo?

Lo spirituale è una rarefazione del materiale e viceversa il materiale è una condensazione dello spirituale: non si tratta di due poli opposti ma dei due estremi di un processo continuo di diversificazione, che si compie in entrambe le direzioni. La scrittura letteraria da sempre indaga i processi di materializzazione e spiritualizzazione: è in questo doppio movimento che si rende concreta un’idea credibile del mondo, ovvero una forma. L’occultismo mi è totalmente estraneo. È una pratica, una cultura, non è un orientamento poetico. Anche Yeats, che è un grandissimo lirico, quando fa il mago suona un po’ finto. Posso dirti di essere sempre stato attratto da forme di sapere iniziatico, fin da giovanissimo: forse anche per alcuni modelli che ho avuto, primi tra tutti Elémire Zolla e Pietro Citati. Non sono di destra e non credo certamente di appartenere a una schiera di eletti, intendiamoci! Per me il sapere iniziatico è un’esperienza basata su due pilastri semplicissimi da enunciare: la capacità di isolarsi, come fa Gesù nei suoi quaranta giorni nel deserto, e la disposizione a concepire il proprio cammino come una serie di morti e di rinascite. E poi c’è la questione dei libri che cambiano la vita. Un libro iniziatico perfetto è Andrea o I ricongiunti di Hofmannsthal. Ma questi libri non valgono solo in sé, moltissimo dipende dal momento della vita in cui li leggi. Purtroppo la maggior parte dei libri che leggiamo li leggiamo o troppo presto o troppo tardi, ed è per questo che i libri fondamentali sono così pochi nella vita di ognuno. La quantità non conta niente: conosco gente totalmente cretina che legge centinaia di libri all’anno. Non è assolutamente detto che leggere sia un’attività spiritualmente benefica. Da giovane ho letto molto, passavo le mie giornate alla Biblioteca Nazionale per conoscere quante più cose potevo, volevo soddisfare un bisogno profondo. Credo sia normale un atteggiamento di estensione del sapere nella prima fase della nostra esistenza. Poi dopo i 45 anni, ho fatto un’inversione di rotta che per me ha avuto un’importanza fondamentale. La posta in gioco è diventata leggere il meno possibile, compatibilmente con il mio lavoro di critico letterario e con la documentazione che mi serve per i libri. Perché non si può continuare a riempirsi in cervello di parole fino alla morte, almeno per me è diventato più importante capire come agisce in me quello che ho letto da giovane.

-Quanto è importante l’amicizia per Emanuele Trevi?

Per me i legami affettivi tra esseri umani sono l’unica realtà del mondo, io intendo il legame affettivo come un piano nel quale la dimensione ludica e le pulsioni emotive si manifestano senza dietro altri interessi, questo vale sia per un amico che per un legame amoroso. Anche nel sesso, cosa fanno due persone ? ricostruiscono la loro infanzia, giocano. Capisco che è una visione limitata, ma non sono capace di attribuire lo stesso grado di realtà ai legami intellettuali, o politici, tantomeno a quelli religiosi. Li posso rispettare, ma non è il mio, a me interessa l’incontro tra Pinocchio e Lucignolo al bordo della strada, al calare della notte. Quello che io sopporto poco sono i ruoli sociali, la mancanza di disinteresse, tutto ciò che pertiene insomma alla sfera dell’utile.

-Nei libri di Emanuele Trevi, critica letteraria, biografia e letteratura si fondono e confondono, a che genere letterario appartiene Due Vite?

Io credo che la categoria dell’autofiction è stata molto sopravvalutata, però è anche vero che quello che hanno fatto molti scrittori della mia generazione in tutto il mondo ha un senso, è diventata una piccola tradizione. Capisco bene quello che scrivono Emmanuel Carrère o Karl Ove Knausgaard o, per citare uno scrittore italiano, il tipo di narrazione sviluppato da Edoardo Albinati in un libro come La scuola cattolica. Credo che il capostipite sia L‘invenzione della solitudine di Paul Auster, che risale ai primi anni Ottanta, perché lì c’è proprio quello che Walter Siti ha definito un «Io sperimentale», un soggetto che non è esattamente, anche se gli assomiglia, quello della classica autobiografia. Nel senso che è in Io che si commisura alle esigenze della sua storia, e ne viene plasmato.

-Con tutte le commistioni e le ibridazioni tra i vari generi, qual è il futuro del romanzo?

Del romanzo in quanto tale non si sa mai cosa pensare, è tutto e il contrario di tutto, a me interessa solo un’idea della scrittura come conseguenza della vita, ciò che proprio mi fa antipatia è l’idea del prodotto narrativo, con le sue regole di efficacia basate sul prevedibile. Arrivo fino in fondo a un libro se sento che poteva essere scritto solo da quella persona, in quelle determinate circostanze. La bellezza è sempre, in qualche modo, la reazione del singolo alla pressione insostenibile del mondo. Molti libri che oggi hanno successo non sono brutti, ma potrebbero essere scritti anche da qualcun altro. È un tipo di letteratura dove, insomma, prevalgono delle categorie universali, psicologiche o sociologiche: l’essere donna, l’appartenenza a un ceto o un’etnia, le convinzioni politiche o morali…Insomma ciò che va preservato è il singolo, la sua fondamentale anarchia. La legge del singolo è molto semplice: tutto quello che pensa è sbagliato, come tutto quello che ha pensato e che penserà. Non solo sbagliato, ma anche ingiusto, vergognoso. Gli scrittori non dovrebbero mai, mai veicolare opinioni accettabili per mezzo della scrittura, perché le opinioni, tanto più se virtuose, appartengono alla collettività, a ciò che Simone Weil definiva “il grosso animale”.

 -Su che cosa si deve formare, secondo te, un giovane critico letterario?

Si deve formare sulle mediazioni critiche che sono già di per sé letteratura. La vera critica – se la intendiamo come forma d’arte – non possiede nessuna oggettività. Dunque auguro a questo giovane di imbattersi nelle Lezioni di letteratura di Nabokov, o negli Aspetti del romanzo di E.M.Forster, o nel Caravaggio di Roberto Longhi, per fare i primi nomi che mi vengono in mente. Soprattutto auguro a questo giovane critico di stare lontano dall’università, o di frequentarla senza perdere tempo, cercando da solo quello che gli serve, perché raramente i professori gli diranno qualcosa di veramente utile. La storia della letteratura, come la teoria della letteratura, mi sembrano delle immense balene spiaggiate. Mi fa tristezza quando sento un giovane scrivere o parlare con un gergo para-scientifico. Quando ricordo gli anni da studente, penso a libri che leggevamo con gli amici – come L’angoscia dell’influenza di Harold Bloom o Gli imperdonabili di Cristina Campo…non facevano parte di nessun programma di esame, erano scuole di libertà che ci trovavamo da soli

-Che cos’è “la voce” nella scrittura per Emanuele Trevi?

Per me la voce è il modello fondamentale della scrittura. Thomas Pynchon dice in un suo romanzo giovanile che «la voce umana è un miracolo», e ha ragione da vendere, paradossalmente la scrittura, che dovrebbe sostituirla, è una forma estrema di nostalgia della voce, dell’arcaica potenza dell’oralità. Per tutta la vita, ho cercato di scrivere come parlo, che non vuol dire cercare una riproduzione meccanica, ma imitare nelle parole scritte i meccanismi del parlato. Sembra assurdo, ma ho constatato spesso che mi ci devo avvicinare a forza di riscrittura: nella prima versione prevale ancora una lingua troppo «scritta», poi piano piano cerco di sciogliere il lessico e la sintassi. La punteggiatura è fondamentale perché indica dei punti in cui deve apparire come il fantasma del respiro. Dato che scrivo molto per il teatro, ho imparato molto da attori come Fabrizio Gifuni, o Massimo Popolizio, o Tommaso Ragno. Parlo di maschi perché la mia è una voce maschile, abbastanza bassa, che ho esercitato a lungo anche lavorando per tanti anni alla radio.

 -Che tipo di distanza deve avere uno scrittore dal suo testo?

Io ho sempre seguito un’indicazione di Hemingway: se tu togli da un libro quello che ti è riuscito male o non ti piace, non hai fatto ancora nulla. Devi rinunciare anche a qualcosa che ti piace, che ti è venuto bene, perché la forma è il frutto di un sacrificio, forse ogni forma in origine era un rito sacrificale. Poi io ogni giorno mi sveglio con la sensazione di aver perduto il mio talento, di non essere più capace, e questo mi porta a non fare nulla con la mano sinistra, scrivo con la stessa intensità un articolo del giornale, una mail o un libro, questa è la mia vita, spronata dall’insoddisfazione e dalla mancanza, sono queste le condizioni che ho accettato.

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