Attrazione Fatale

Dopo aver scontato 15 anni di prigione per l'omicidio di Alex Forrest, l'ex procuratore distrettuale Dan Gallagher torna in libertà con l'intenzione di recuperare i rapporti con la figlia Ellen e l'ex moglie Beth, e di dimostrare la propria innocenza. La serie procede in parallelo su due linee temporali: quella del presente, in cui Dan tenta faticosamente di riaprire il processo; e quella del 2008, durante la breve storia extraconiugale tra Dan e Alex, assistente alle vittime di casi penali. Quando Dan vuole interrompere la relazione, Alex non si rassegna e inizia a tormentarlo con comportamenti ossessivi che condurranno a tragiche conseguenze.

La rielaborazione del thriller di Lyne si concentra sulle dinamiche sociali e psicologiche riuscendo ad essere coinvolgente e stimolante, ma smarrendosi nel finale.

Ispirata al celebre film di Adrian Lyne Attrazione fatale (1987), l'omonima serie ideata da Alexandra Cunningham e Kevin J. Hynes si propone non come un remake fedele ma come una rielaborazione che allarga lo sguardo soffermandosi di più sulle implicazioni socio-psicologiche. Non mancano i riferimenti al thriller di Lyne (compare pure un coniglio che fortunatamente non fa la stessa fine di quello del film...), ma l'approccio degli autori alla storia è molto distante dall'originale.

È curioso che il finale alternativo del film, girato e poi scartato da Lyne, prevedesse l'arresto di Dan (a seguito del suicidio di Alex), e che da lì parta la serie muovendosi a ritroso e gettando le basi per il legal drama. L'intreccio dei due piani temporali e il formato seriale consentono di approfondire la storia e i personaggi, in particolare il passato di Alex e le esperienze che l'hanno segnata sin da bambina. C'è meno adrenalina, meno erotismo rispetto al film cult degli anni 80, ma più attenzione alle dinamiche relazionali e all'aspetto psicanalitico, come sottolineato (in maniera fin troppo esplicita) anche dai rimandi della figlia Ellen ai suoi studi in psicologia che sta portando avanti all'università.

Nei vari episodi, la serie torna sugli stessi momenti mostrandoli di volta in volta dal punto di vista di ciascun personaggio. La verità assoluta non esiste, viene scomposta in frammenti come le responsabilità dei protagonisti. Nell'impietoso quadro generale tutti devono fare i conti col peso delle aspettative e dei condizionamenti familiari e sociali (e non a caso l'ascensore è un elemento ricorrente).

Il senso di frustrazione che aleggia è ben reso dalle interpretazioni attoriali: Joshua Jackson avvicina il personaggio di Dan (che era stato di Michael Douglas) alle sue corde, sul terreno dell'underacting, prima con atteggiamento sornione e risoluto, poi rivelando le crepe dell'insoddisfazione per la mancata nomina a giudice, e infine mostrando il dolore trattenuto per l'ingiustizia subita e il pezzo di vita perduto per sempre; Amanda Peet nel ruolo della moglie Beth passa dalla sicurezza e la serenità di un'esistenza agiata all'angoscia e la disperazione per il tradimento e il crollo del ménage familiare apparentemente perfetto.

A svettare per bravura e intensità è però Lizzy Caplan che regge il confronto con l'iconica Alex Forrest di Glenn Close, attenuandone la natura 'mostruosa' e svelandone tutte le sfaccettature. Il fascino conturbante iniziale di Alex lascia presto spazio alla complessità di una donna che soffre di disturbi mentali, esplorati senza banalizzazioni e legati a un senso di fallimento e solitudine, oltre che a traumi mai superati (a partire dal rapporto coi genitori).

La serie riesce ad essere coinvolgente sfruttando soprattutto i meccanismi del whodunit, fino al colpo di scena finale che però è fin troppo sorprendente da risultare quasi forzato e poco credibile. Peccato perché questa storia di un delitto senza castigo e di un castigo senza delitto avrebbe meritato una conclusione meno semplicistica e più coerente. 