10 dicembre 2018
a cura di Redazione Oscar
di Maurizia Calusio
A differenza di Varlam Šalamov e Vasilij Grossman, insieme ai quali è il massimo esponente di quella letteratura “concentrazionaria” la cui smagliante modernità è rimasta a lungo inosservata per l’urgenza della materia trattata, Aleksandr Solženicyn non ha avuto fortuna in Italia, dove pure – a differenza degli altri due autori – fu pubblicato sin dagli anni Sessanta. Quando uscì da noi, nel 1963, Una giornata di Ivan Denisovič - la prima opera edita nell’Urss (in piena destalinizzazione e con l’autorizzazione di Chruščev) dove si parlasse apertamente di lager - “non destò grande rumore”, come disse Montale, e pochi ne scrissero. Tra questi Franco Fortini, che subito ne trasse le estreme conclusioni: «Se Solženicyn è quel vero e importante scrittore che sembra […] se il messaggio che egli ci comunica è quello che più percettibile ci giunge e cioè di opporre un "segretamente umano" alla disumanizzazione storica ed una "libertà segreta" ossia etica o etico-religiosa […] bisognerebbe concludere che la rivoluzione socialista è fallita […] la nostra vita è stata inutile».
Anche l’apparizione delle successive opere di Solženicyn ebbe scarsa attenzione critica fuori della cerchia degli slavisti. Romanzi come Divisione cancro e Nel primo cerchio in patria circolavano clandestinamente, e vennero perciò ignorati dall’intelligencija italiana filosovietica. Poche furono le eccezioni anche sul fronte antisovietico. Montale recensì Divisione cancro definendo Solženicyn
«un uomo per cui l’arte è un modo di vivere e di respirare, non un luogo appartato in cui si tentano esperienze audaci, e innocue, per poi fare ritorno alla normalità».
Dopo l’apparizione del primo volume di Arcipelago Gulag, a Parigi, in russo, nel dicembre 1973, e l’arresto dello scrittore, nel febbraio 1974, Solženicyn fu per breve tempo al centro dell’attenzione.
«una magnifica e monumentale monografia della legalizzazione del terrore»,
E ancora una volta, come già nel '63, anche in quel 1974 risuonò fuori dal coro la voce di Fortini: «Non c’è da stupirsi che sia tanto diffusa l’insofferenza e frequente il disprezzo per Solženicyn… C’è un’ipocrisia grave nel discorso di chi mette le mani avanti con riserve sulla qualità delle sue opere. […] Con quella moneta d’ingresso, più facilmente può mettere fra parentesi i contenuti storico-politici di Solženicyn». Eppure, osservava il poeta e critico, «il solo contributo politico di Solženicyn è quello di metterci davanti agli occhi, insieme alle ossa di milioni di deportati e di torturati, il ritratto e la buona coscienza di chi non vuole si parli del passato per non parlare del presente, perché comincia a intendere che passato e presente sono un’unica cosa. […] Fingere di credere che lo scopo di Solženicyn sia quello di denunciare gli orrori dal 1917 a ieri è prenderci per cretini: Solženicyn, come sempre si è fatto, usa la metafora storica per parlare di oggi e di domani. Egli è “di destra” solo perché ci sta di fronte e non di fianco”. E ancora, nel 1977:
«La ferita che una sua posizione, una sola sua pagina di verità, può aver saputo infliggere non si rimargina più e chi ne è stato ferito una volta è una unità perduta per gli eserciti rassegnati delle tirannie».
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