Don Sergio Colombo: cercare il volto di un Dio che non smette mai di credere nell’uomo

Don Sergio Colombo: cercare il volto di un Dio che non smette mai di credere nell’uomo

Il 10 ottobre 2013 moriva un grande amico che per 32 anni ha servito con intelligenza e fedeltà la comunità di Redona e che è stato un punto di riferimento per tante persone

Sembra solo ieri e invece sono già passati dieci anni. Don Sergio Colombo è morto il 10 ottobre e ci manca molto. Manca moltissimo. Ma la mancanza non è mai un’assenza. Ho ricevuto il dono di conoscerlo, averlo come docente di teologia morale, percepirlo come padre e maestro, come fratello e amico. Conservo come una regola aurea l’augurio (compito) che mi consegnò il giorno della mia prima messa: abbi passione per l’uomo, passione per il vangelo di Gesù, passione per la chiesa.

Se ha senso ricordarlo non è certo per farne un santino devozionale, quanto semmai per tener viva la memoria della sua “lezione pastorale” incisa nella storia di una comunità, quella del quartiere di Redona che ha servito con finezza e fedeltà per trentadue anni, e nella vita di tante persone che incontrandolo hanno avuto la netta percezione che il vangelo fosse ancora praticabile e la chiesa fosse ancora credibile. Proprio come accadde ai discepoli di Emmaus rincuorati dalla prossimità dell’Amico risorto: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24,13-35). Non è poco, visto che questo dovrebbe essere il “lavoro” pastorale delle nostre comunità. Sarebbe, perciò, utilissimo “studiare” e “aggiornare” (attualizzare) quella lezione più che mai unica e più che mai messa tra parentesi: aiuterebbe l’attuale navigazione della barca-chiesa sull’immenso mare delle sfide contemporanee. Tracce abbondanti della sua lezione pastorale si trovano nelle molteplici riflessioni pubblicate mensilmente su Comunità Redona o raccolte come in uno scrigno nei suoi preziosi appunti che per sua volontà non verranno pubblicati (ma, confidiamo, potrebbero diventare oggetto di studio). Di lui parla innanzitutto il testamento spirituale, un testo bellissimo pareggiabile agli scritti di molti santi e testimoni, suoi compagni di viaggio e di ricerca: “Ho sempre preferito il profondo al vasto” è la cifra sintetica di uno stile cristiano di vita. Ricordo ancora, in una delle ultime libere chiacchierate, la domanda a fior di labbra: che ne sarà di questo cristianesimo? Era consapevole che la fine di un certo modello parrocchiale non era la fine del cristianesimo, ma perché non fosse davvero la fine occorreva tornare ad abbeverarsi alla fonte evangelica e rivedere le pratiche religiose parrocchiali con il cannocchiale “critico” del vangelo. Il filo rosso della riflessione trentennale di don Sergio è stato certamente il fiducioso confronto con la modernità: il vangelo doveva misurarsi con il “cambiamento d’epoca” suggerito da Francesco (a proposito, nelle parole e nei gesti del papa venuto dalla fine del mondo, don Sergio vedeva incarnarsi la novità evangelica: fece appena in tempo a gioirne) e rivitalizzare le condizioni della vita cristiana nelle nostre comunità.

In un’intervista (probabilmente l’unica) rilasciata a L’Eco di Bergamo per il venerdì santo del 2011, due anni prima della morte, don Sergio insisteva sul dialogo con quel mondo che aveva deciso di ex-culturare il cristianesimo dal logos o, come si dice oggi, dalla narrazione contemporanea. Vale la pena citarne ampi stralci, sono di disarmante attualità: «La modernità ha messo al centro l’individuo, e ha messo a sua disposizione la tecnica per soddisfare i suoi desideri. Noi oggi ci preoccupiamo del benessere, del nostro “star bene” e abbiamo perso il senso non solo di Dio ma del nascere e del morire, dello sposarsi, del costruire insieme storie di fedeltà. Questa “preoccupazione psicologica” è uno dei sintomi. Già Nietzsche, alla fine dell’800, diceva che l’Ultimo uomo su tutto “ammicca”. Ride, ti schiaccia l’occhio: “Ma sì, tanto è lo stesso: tiriamo sera”. L’Ultimo uomo: non ce n’è più altri, dopo di lui. Credo questa sia anche la ragione profonda della disaffezione al rito, alla predicazione della Chiesa, al cristianesimo nella sua sostanza: per divertirci e ammiccare, il Vangelo non serve. Se la cultura in cui vivi è uno scenario continuamente cangiante nel quale tutto è relativo e uno rinuncia ad avere parole sue, ad avere giudizi sulle cose, le domande di fondo dell’uomo sono ancora lì, ma non si esprimono». L’analisi di don Sergio era metodica e chirurgica: «L’uomo sta provando a vivere senza Dio e questa “critica” religiosa sta costringendo il cristianesimo a ripensare se stesso. Io sono convinto che oggi il cristianesimo sia provocato ad abbandonare la sua versione eccessivamente “religiosa” – che aveva senso nella società tradizionale – e costretto a risalire alla sua fonte evangelica, che è fondamentalmente una via per l’uomo». E concludeva affermando che «la critica dell’uomo moderno alla religione lo spinge a riscoprire la sua fonte evangelica, la fiducia nella vita, nelle grandi relazioni – come l’amore fra uomo e donna –, nella generazione di un figlio, nell’educazione, la socialità, il sostegno alla sofferenza: da lì potrebbero ripartire forme religiose che però, secondo me, saranno molto diverse rispetto al passato. Le forme religiose devono essere disponibili a verificarsi continuamente sul Vangelo: questa è la radice della continua esigenza di riforma della Chiesa, perché il punto in cui essa ha origine non è la religiosità dell’uomo» ma «l’evento di Gesù».

Don Sergio avrebbe esercitato un notevole impulso al nostro cammino di riforma sinodale: non aveva paura della cultura contemporanea, si metteva in ascolto delle ragioni dell’umano – senza giudicarle – provando a rinvenire nel cammino dell’uomo le ragioni di una speranza possibile. Forse pochi ricorderanno la frase che ha voluto faticosamente dettare in una delle sue ultime notti per l’immaginetta-ricordo e che da sola basta per parlarci della fede di quest’uomo, che si era fatto prete per essere veramentecristiano: “Il compito dei cristiani è prepararsi ad accogliere l’umanità di Dio che viene”. In questa sorta di “Canto Ultimo”, per dirla con Turoldo, don Sergio suggeriva che la postura del cristianesimo a venire era la fede in un Dio – “Divina Tenerezza” – che non avrebbe mai smesso di credere nell’uomo.

“Come fa Dio oggi ad agire se non c’è un uomo che gli offre il cuore e le mani?”
“Cosa fa Dio il venerdì santo? Muore. E determina così la regola della tua libertà: dare la vita”
“Il vangelo è sempre un rovesciamento dei nostri modi ‘spontanei’ di pensare e di vivere, anche la religione”
L’Eco di Bergamo 10 ottobre 2023