di Arconte

Questa storia inizia nel territorio di Castagnito, all’inizio della via per Guarene, in regione Fracchie negli Airali, dove sorge la cappella barocca della Madonna del Popolo, verso le dieci della sera dell’8 settembre 1848.

L’8 settembre 1848 è una data ricordata nelle storie del Risorgimento come quella della resa di Messina, assediata e bombardata per cinque giorni dalla flotta borbonica. Nel 1848, è scoppiata in Sicilia una rivolta indipendentista, duramente repressa: il re Ferdinando II per il bombardamento di Messina verrà soprannominato “re bomba”.

Ma alla cappella della Madonna del Popolo di Castagnito si sta celebrando la festa e le persone che vi partecipano certamente non sono informate degli avvenimenti siciliani. Pensano soltanto a divertirsi. Fra gli altri, partecipano alla festa cinque giovani di Vezza, Michele Novello, di ventiquattro anni, Michele Castelli, di diciannove anni, Giovanni Alloj, di ventisette anni, Domenico Gaia, di ventinove anni e Giacinto Rosso detto Baròt, di ventiquattro anni. A loro si è unito Biagio Pezzuti, di quarantatre anni.

Hanno trascorso molte ore alla festa e dopo le dieci della sera sono ben carburati. L’abitudine di santificare le feste con il vino nei paesani, e non solo, è consolidata e risaputa: «Che tutti ivi si trovarono ancora ad ora tarda di quella notte colla mente al certo riscaldata dal vino bevuto più del solito in occasione di festa», lo scriveranno i giudici.

Uniforme dei Carabinieri nel 1848 (Corriere dei Piccoli del 7 febbraio 1965).

Poco dopo le dieci, Giovanni Alloj e Domenico Gaia, per futili motivi, attaccano briga con alcune persone di Castagnito. Volano insulti: è facile pensare che anche quelli di Castagnito siano su di giri e, sentendosi sul loro territorio, siano assai mal disposti verso gli invasori di Vezza.

Visto che la faccenda sta prendendo una brutta piega, qualcuno più sobrio fa chiamare i due carabinieri di servizio alla festa per la tutela del buon ordine. Quando i due carabinieri, Luigi Bergont e Francesco Mancardi, accorrono sul luogo della lite, vi trovano molti giovani di Vezza accorsi per sostenere le ragioni dei loro due compaesani.

I due carabinieri si trovano così alle prese con un gruppo di esagitati, circondati da una folla ostile, poco disposta a collaborare con loro, e animata da forte simpatia per i litiganti. I due carabinieri tengono un atteggiamento severo ma pacato: invitano i contendenti a calmarsi, a smettere di litigare ed a tornare alle loro case. Ma ormai quelli di Vezza si sono scatenati, il vino ha attenuato i loro freni inibitori, ha fatto affiorare l’insofferenza giovanile alla autorità. Quando viene detto loro di allontanarsi, riemergono le rivalità paesane mai del tutto sopite: forse ritengono che i militari tengano le parti per i padroni di casa, quelli di Castagnito. Così agli inviti alla calma rispondono con la violenza.  Alloj, Gaia e altri compaesani gridano minacciosamente contro i militari e passano a vie di fatto, percuotendoli con pugni, calci, bastonate, una vera aggressione che inizialmente fa cadere a terra i due carabinieri.

Castagnito in una vecchia cartolina

Bergont, aggredito con maggiore violenza, nella caduta riporta varie lesioni, al ginocchio, alla mascella ed una ferita alla nuca. Ma questo non gli impedisce di rialzarsi, sia pure con i pantaloni strappati al ginocchio. Anche il collega Mancardi si è rimesso in piedi: i due carabinieri reagiscono ed arrestano i due più immediati assalitori, Novello e Castelli. Novello ha aggredito il carabiniere Mancardi, mentre Castelli era alle prese col Bergont e intanto lanciava grida per eccitare la gioventù di Vezza alla rivolta.

In seguito vengono poi identificati ed arrestati altri partecipanti alla rissa, Biagio Pezzuti, che sul luogo della zuffa ha perduto una scarpa, e Giovanni Alloj che con Domenico Gaia è stato la causa della rivolta. Gaia e Giacinto Rosso restano latitanti.

Tutti gli arrestati sono detenuti a Torino.

Il carabiniere Bergont è sottoposto a visita medica e il perito accerta una contusione con lacerazione della pelle sulla sommità del ginocchio, in corrispondenza della lacerazione dei pantaloni; una scalfittura dalla tempia alla mascella ed una ferita lacero-contusa alla nuca, penetrante nella pelle, che potrebbe essere stata provocata da un bastone o una pietra ma anche, scrive il perito, dall’urto contro un sasso spigoloso al momento della caduta. Le ferite al ginocchio ed al capo sono guaribili in sei giorni e quella alla faccia in tre giorni.

Il processo si svolge davanti alla Corte di Appello di Torino, nel luglio 1849. Presidente è il conte e cavaliere Giovanni Battista Schiari. La situazione politica è profondamente mutata. Vi è stata una nuova campagna di guerra contro l’Austria e, dopo la sconfitta di Novara, il re Carlo Alberto ha abdicato in favore del figlio.

La sentenza sarà emessa in nome del nuovo re Vittorio Emanuele II.

I quattro imputati Michele Novello, Michele Castelli, Giovanni Alloj, Biagio Pezzuti, tutti nati e residenti a Vezza, sono accusati di rivolta e maltrattamenti ai carabinieri.

Al processo non emergono responsabilità precise. Nel dibattimento non si riesce a chiarire quale degli imputati, che hanno tutti sicuramente partecipato alla zuffa contro i carabinieri, sia passato a vie di fatto contro Bergont. Nessuno dei testimoni e nemmeno i carabinieri, interrogati in aula, è in grado di indicare con precisione chi abbia colpito Bergont.

Gli accusati sono responsabili del reato loro addebitato, ma soltanto come complici. Possono inoltre beneficiare di circostanze attenuanti, perché avevano «la mente riscaldata dal vino». Inoltre per Castelli va considerata come attenuante la sua età, minore degli anni venti.

La Corte d’Appello li dichiara quindi colpevoli, considerandoli però soltanto come complici e sufficientemente puniti col carcere preventivo che hanno già scontato. Dovranno tutti indennizzare il carabiniere Bergont e pagare le spese processuali. È ordinato il loro rilascio dal carcere, se non sono detenuti per altra causa.

Questa è la sentenza del 31 luglio 1849.

Resta ancora da definire la posizione degli altri imputati, latitanti al momento di questa sentenza.

Giacinto Rosso decide di costituirsi spontaneamente in carcere, dopo avere raccolto consistenti attestazioni delle sue buone qualità morali. Domenico Gaia viene invece arrestato.

Tutti e due sono a loro volta detenuti a Torino e processati nel novembre 1849, per le stesse accuse addebitate ai loro compaesani, rivolta e maltrattamenti.

Scorcio del paese di Castagnito

La Corte di Appello è sempre presieduta dal conte Schiari. Anche questa volta dal dibattimento non emergono precise responsabilità, anzi si alleggerisce molto la posizione di Rosso.

Il dibattimento non fornisce sufficienti riscontri della colpevolezza di Rosso: é soltanto emersa a suo carico la testimonianza di un suo vicino di casa, il quale ha affermato che un fratello di Giacinto Rosso, il giorno dopo la rivolta, gli ha detto che Giacinto in tale circostanza era stato percosso e perciò se ne stava ancora a letto. Il testimone ha anche sentito dire dalla voce pubblica di Vezza che anche Rosso aveva partecipato alla zuffa. Secondo i giudici, questi addebiti sono attenuati dal fatto che Rosso si è spontaneamente costituito in carcere e che sono pervenute favorevoli attestazioni sulla sua moralità.

Quanto a Gaia, la maggior parte dei testimoni è stata concorde nell’affermare che è stato lui a causare tutto quel trambusto. Anzi qualcuno lo ha visto alle prese coi carabinieri, tanto da rimanere ferito. Ma nessuno lo ha visto mentre infieriva sul carabiniere Bergont. Anche nei confronti di Gaia bisogna tenere presente i criteri adottati nella sentenza del 31 luglio 1849: Gaia, come gli altri accusati aveva la «mente alterata dal vino».

Giacinto Rosso è dichiarato non colpevole del reato di cui è accusato e assolto «senza costo di spesa». Domenico Gaia è colpevole ma è stato punito in modo sufficiente col carcere preventivo già scontato; insieme agli altri condannati con sentenza del 31 luglio 1849, dovrà indennizzare il carabiniere Bergont. I due devono essere rilasciati se non sono detenuti per altra causa.

Questa è la sentenza che il Presidente Schiari legge all’udienza pubblica del 13 novembre 1849.

Termina così la nostra ricostruzione di quello che abbiamo definito sballo giovanile del periodo risorgimentale. È fin troppo facile trovare una conclusione per questa vicenda.

È sconfortante vedere come il bere eccessivo sia rimasto un problema per i giovani in festa: un adolescente italiano su cinque beve e ha iniziato prestissimo a farlo, tra gli undici e i quindici anni, secondo l’Istituto Superiore di Sanità. Lo ha ricordato, ad esempio, Buongiorno Europa, il settimanale del TGR in onda domenica 7 dicembre 2008 su Raitre, aggiungendo che in Italia si comincia a bere prima, che il 67% dei ragazzini sotto i quindici anni dichiara di bere abitualmente il sabato sera, il 30% più di cinque bicchieri, il 40 % da tre a cinque bicchieri di alcolici.

Tenendo conto che gli accusati di Vezza non erano neppure tutti giovanissimi, che dai documenti non ci appaiono come bevitori abituali, che avevano esagerato nell’alzare il gomito in occasione di una festa solenne e che appartenevano a quel ceto popolare che non disponeva di altri divertimenti oltre al bere, tutto sommato fanno più bella figura di certi nostri giovani d’oggi.